Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

lunedì 24 ottobre 2016

Classe II - Storia - Unità 5 e 6

5. Il basso impero - Dopo 42 anni di regno della dinastia dei Severi, con l’assassinio nel 235 di Alessandro Severo da parte della soldatesca ammutinata, la situazione politica del Basso Impero precipitò. I militari elessero imperatore il centurione Massimino (primo imperatore di umili origini). Dopo di lui, ucciso da una cospirazione del senato, per trentacinque anni, in uno stato di anarchia militare, si succedettero ventuno imperatori[1] che morirono quasi tutti di morte violenta.
Il potere imperiale quasi non esisteva più: regnava l’anarchia
·         i Germani, sospinti da tribù provenienti dalle steppe euroasiatiche, premevano alle frontiere del mondo romano.
·         l’economia entrò in crisi perché dall’estero non affluivano più ricchezze e l’inflazione mone­taria si accentuava, gettando nella miseria gran parte del popolo romano
·         la cultura classica, tramontò sommersa da nuove dottrine filosofiche e dal diffondersi del Cristianesimo.
Per salvaguardare la pace Roma fu costretta a pagare tributi a parecchi popoli vicini e nonostante questo:
·         i Parti inviarono una spedizione contro Antiochia e da strappare ai Romani il controllo sull’Armenia,
·         i Goti occupavano la Calcedonia e Nicomedia.
Aureliano (270-275 d.C.), un imperatore di origine illirica tentò di riprendere in mano la situazione:
·         fortificò le città,
·         condusse una campagna contro la regina di Palmira (Siria), Zenobia,
·         recuperò la Gallia, la Spagna, la Bretagna.
·         tentò di rialzare il prestigio dell’imperatore dinanzi al popolo facendosi proclamare emanazione del sole.
Ma l’Impero romano era travagliato da una crisi difficilmente sanabile.
La pressione dei barbari alle frontiere, insieme con l’anarchia militare che dilagava all’interno, sarebbe stata una delle cause della decadenza e, in seguito, dello smembramento dell’Impero.
Alla preoccupante situa­zione politica si era aggiunta anche una gravissima crisi socio-economica:
·         La borghesia, sulla quale l’Im­pero aveva trovato appoggio nei suoi giorni migliori, si era ormai paurosamente impoverita a causa delle continue rapine e violenze delle soldatesche scatenate;
·         le campagne erano state ab­bandonate dai coltivatori.
·         la sproporzione fra le masse sempre più povere e la minoranza sempre più aggressiva dei privilegiati.
Questa situazione pro­vocò anche una crisi demografica proprio nel momento in cui la pressione barbarica sui confini germanici, danubiani e orientali richiedeva maggiori forze per essere contenuta. Imperversava una grave crisi monetaria che, in breve tempo, portò ad una altissima inflazione; i prezzi salirono così alle stelle, aggravando la miseria dei ceti popolari.
Diocleziano, imperatore dal 284, cercò di risollevare le sorti dell’Impero. Dal periodo augusteo fino a Diocleziano, la struttura dell'Impero Romano si era evoluta in una sorta di dualismo tra:
·         Roma, amministrata da Senato,
·         l'Imperatore, che invece percorre l'impero e ne amplia o difende i confini.
Il rapporto tra Roma e l'Impero è ambivalente, se essa è il punto di riferimento ideale della romània, pure il potere passa gradualmente all'Imperatore che sposta il suo luogo di comando man mano si sposta nell'Impero, e si assiste ad un chiaro decadimento di Roma.
Nel basso impero con l'Imperatore si spostavano migliaia di persone, compresi i funzionari, i dignitari, perfino la zecca. Un istituto particolare è quello del comitatus. L'imperatore stabilisce alcune residenze imperiali tra cui
·         in Oriente Nicomedia e Sirmio,
·         in Occidente Milano e Treviri.
Gli imperatori provenivano spesso dalle zone periferiche dell'Impero e, proprio per questo, erano pervasi da un più profondo sentimento di romanità: molti di loro tuttavia quasi non conoscevano Roma, la vita militare li costringeva a vivere in prossimità della frontiera danubiana, in Siria, Mesopotamia o Britannia e per questo le loro visite a Roma diventarono sempre più rare ed avvenivano o per celebrare un trionfo, o per esercitare una forma di controllo su un Senato sempre più esautorato.
La pressione dei barbari sull'Impero non sempre è distruttiva, nel senso che molti barbari aspiravano a far parte dell'Impero, stanziandosi sul territorio o offrendosi al servizio di questo. Per valorizzare i vasti territori delle province di frontiera, il governo di Roma, mancando di mano d’opera decise di insediare sul suolo romanizzato, nelle province di frontiera, i Germani, eccellenti agricoltori, promuovendoli così al rango di cittadini romani. L’operazione presentava, inoltre, il vantaggio di formare, lungo il limes, una barriera umana utile per la difesa dell’Impero. Il governo infatti do­veva assoldare in numero sempre più elevato mercenari stranieri, poiché gli italici e i cittadini romani disertavano sempre più il servizio militare, abituati alla vita comoda dovuta alle grandi ric­chezze affluite in Roma con le conquiste. Si determinò così al di qua dei confini, un’infiltrazione pacifica di Barbari che presto avrebbero esercitato un ruolo determinante nella caduta dell’Impero. Quando infatti si accorgevano che il rapporto di forze era loro favorevole, a volte i capi barbari non esitavano a rompere gli indugi ed a misurarsi in battaglia con le forze imperiali[2].
L’Impero romano, dall’epoca delle conquiste, era costituito principalmente dai Paesi mediterranei disposti intorno al «Mare nostrum». È vero che Mario, e in seguito Cesare, avevano tentato di estendere alle foreste nordiche il dominio romano, ma i Barbari di queste regioni, non si erano lasciati sedurre, né tanto meno domare; Roma dovette accon­tentarsi di fissare il limes lungo il Reno e il Danubio. Al di là si trovava la Germania, dominio di svariate tribù di contadini-guerrieri:
·         al Nord Franchi, Vandali, Sassoni, Longobardi;
·         a Oriente, nelle pianure dell’Ucraina Ostrogoti e Visigoti.
Quando nel 305 Diocleziano abdicò per ritirarsi a Spalato, i due Cesari, Galerio e Costanzo Clo­ro, si trovarono elevati al rango di Augusti; la loro morte, qualche anno dopo, aprì una lunga serie di lotte per il potere supremo.
Costantino, figlio di Costanzo, grazie all’appoggio dell’esercito, riuscì a sbarazzarsi successivamente di tutti i suoi rivali d’Occidente e d’Oriente e fissò la sua capitale a Bisanzio, da lui ribattezzata Costantinopoli[3].
Ancora prima dell’ascesa di Costantinopoli, Roma aveva già perduto la sua qualità di centro del mondo romano perché la sua posizione non offriva più alcun interesse preminente, né dal punto di vista strategico, né da quello politico.
·         L’Occidente, ormai indebolito dalle invasioni barbariche e dalla crisi finanziaria, non era più una sorgente di potenza e di civiltà.
·         L’Oriente, invece, presentava ancora numerose attrattive dal punto di vista culturale e soprattutto sul piano commerciale.
Cosciente di tale squilibrio, Costantino nel 330 d.C. decise di trasferire in Oriente il centro vitale del governo.
Il successore di Costantino, Giu­liano, cercò di mantenere l’equilibrio tra i sostenitori del Cristianesimo e quelli del paganesimo; atteggiamento che gli valse da parte dei Cristiani il soprannome di Apostata, cioè di rinnegatore della religione cristiana; egli, infatti, salito al trono professò pubblicamente il paganesimo.
Il suo successore, Teodosio, fece invece sfoggio di una fede cristiana intransigente: un editto, promulgato nel 392, prescriveva l’abolizione del culto pagano; di conseguenza furono demoliti i templi, spezzate le statue, proibiti i Giochi Olimpici. In Oriente, il Cristianesimo divenne religione di Stato obbligatoria e l’Imperatore intervenne nella definizione dei dogmi, dividendo con il patriarca di Costantinopoli la direzione della Chiesa cristiana. In Occidente invece si affermava in quello stesso tempo l’indipendenza del potere spirituale da quello temporale.
La fondazione di Costantinopoli rappresentò la prima tappa verso la scissione fra l’Occidente e l’Oriente romano che divenne definitiva alla morte dell’imperatore Teodosio I, nel 395, quando l’Impero andò diviso fra i suoi due figli Arcadio e Onorio: nasceva così l’Impero d’Oriente.
A Costantinopoli i Goti civilizzati erano stati ammessi nell’amministrazione dello Stato, ma alle fron­tiere del Danubio si ammassava la terribile tribù degli Unni. Con loro Teodosio II dovette scendere a patti, acquistando la pace per mezzo di un tributo. Del resto la diplomazia bizantina riuscì sempre ad allontanare da Costantinopoli le minacce troppo pressanti; nel 488, per esempio, l’imperatore Zenone si sbarazzò del capo ostrogoto Teodorico, incaricandolo di andare a combattere l’erulo Odoacre, allora padrone dell’Italia. La tranquillità dell’Impero d’Oriente fu così salvaguardata.
a) Diocleziano - Diocleziano dovette affrontare la disastrosa situazione quando nel 284 assunse il potere imperiale. Divise il potere con il commilitone Massimiano a cui affidò il compito di governare l’Occidente. Sedi degli Augusti erano Nicomedia e Milano, capitale d’Occidente fino al 404.
Domata una ribellione in Egitto, Diocleziano si dedicò alla riorganizzazione dell’Impero. Ripartì il territorio in 12 diocesi che comprendevano più province. Tentò di consolidare le finanze stabilendo un tetto a salari e prezzi ed imponendo un regime di doppia tassazione, sulla proprietà fondiaria e sulla persona.
Nel 293 creò la tetrarchia un sistema di governo nel quale l’autorità sovrana si era divisa in quattro parti, tanto che, nei decreti ufficiali, comparve per la prima volta il plurale maiestatis
Divise l’Impero in due parti, una orientale e una occidentale, ciascuna delle quali avrebbe dovuto essere governata da un imperatore, un Augusto, assistito da un Cesare, che sarebbe diventato, automaticamente, il suo successore. I due Augusti scelsero rispettivamente come capi­tali Milano e Nicomedia mentre Roma conservò solo una preminenza morale in base alla quale il potere fu ripartito tra due Augusti, lui e Massimiano.
In questo modo veniva inaugurata l’epoca del dominato (da dominus, signore).
L’Impero conobbe di nuovo una certa prosperità, ma la libertà individuale subì molte restrizioni:
·         fu vietato abbandonare il proprio mestiere,
·         i coloni furono vin­colati alla terra,
·         la qualifica di cittadino scomparve sostituita da quella di suddito.
Nel 303, di fronte all’opposizione suscitata dal rilancio del carattere divino del l’imperatore, emanò una serie di editti di persecuzione contro i cristiani.
Nel 305, malato, depose il potere con Massimiano a favore dei Cesari.
Con l’istituzione della tetrarchia, le spinte eccentriche furono in qualche modo frenate. Nonostante il carattere autoritario, la tetrar­chia non si rivelò una formula di governo stabile, poiché subito dopo i primi tetrarchi essa fu corrosa dalle inevitabili contese dei loro successori. Inoltre si verificò in questi anni una progressiva marginalizzazione delle aree più antiche dell'impero a vantaggio di un oriente assai più prospero quanto a politica, amministrazione e cultura.
b) Costantino - Dopo l’abdicazione di Diocleziano e Massimiano sembrò funzionare il meccanismo della tetrarchia: i due Cesari divennero Augusti e nominarono altri due Cesari.
Alla morte di Costanzo Cloro si scatenò la lotta alla successione. Tra tutti i pretendenti prevalsero:
·         in Occidente il figlio di Costanzo Cloro, Costantino (che sconfisse il rivale Massenzio nella battaglia di Ponte Milvio[4] a Roma nel 312)
·         in Oriente Licinio (nominato da Diocleziano, intervenuto per calmare i contrasti).
Nel 313 i due imperatori, incontratisi a Milano, emanarono un Editto, con il quale concedevano libertà di culto ai cristiani e promulgavano leggi in loro favore sebbene un editto di tolleranza fosse già stato emesso, in favore dei Cristiani, da Galerio, nel 311.
Nel 324, quando Licinio prese a perseguitare di nuovo i cristiani, Costantino gli mosse guerra e, sconfittolo, divenne unico imperatore sia per l’Occiden­te sia per l’Oriente, con suo figlio Costanzo come Cesare, ristabilendo così ristabilì oltre che la riunificazione di tutti i domini romani anche l’eredita­rietà del potere imperiale.
Il regno di Costanti­no fu contraddistinto da due fatti d’importanza capitale per l’evoluzione dell’Impero: il ricono­scimento ufficiale del Cristianesimo e la fondazione di Costantinopoli.
Rese quindi più efficiente l’esercito e ampliò l’apparato burocratico, inoltre la figura dell’imperatore fu definitivamente assimilata a quella del sovrano assoluto di stampo orientale, circondato da un’aura sacrale.
Sotto il regno di Costantino la religione cristiana assunse se non ancora ufficialmente, la posizione di religione privilegiata, per quanto Costantino non avesse ripudiato nettamente il culto solare di Mitra e solo in punto di morte si fosse convertito al Cristianesimo. Nei confronti del Cristianesimo egli adottò una politica sempre più favorevole, arrivando a esortare i sudditi orientali ad abbracciare questa religione e affidando ai cristiani incarichi nell’esercito e nella pubblica amministrazione. Politicamente, Costantino seguì molto da vicino le vicende della Chiesa, allora in fase di organizzazione, nella quale le dispute teologiche si succedevano numerose e accese.
Nel 325, quando una d’esse, sorta a proposito di un dog­ma sostenuto dal prete Ario, sembrò minacciare l’ordine interno, l’Imperatore convocò a Nicea, un concilio di prelati che condannò formalmente l’eresia ariana.
Nel 332, dopo aver sconfitto i Goti, Costantino morì nel 337, mentre si preparava ad affrontare i Persiani.

c) Da Giuliano a Teodosio – Alla morte di Costantino gli succedettero i tre figli Costante, Costanzo e Costantino II. Costanzo, prevalso sui fratelli, scelse come successore Giuliano, il generale che aveva sconfitto gli Alamanni nel 357.

Questi, circondatosi di intellettuali e filosofi pagani cercò di escludere i cristiani dalle cariche dirigenziali e tentò di restaurare il paganesimo (i cristiani lo soprannominarono l’Apostata, cioè il Rinnegatore, poiché aveva abbandonato la religione cristiana). Per acquistare prestigio presso il popolo progettò di eliminare totalmente l’Impero persiano ma morì in battaglia. Verso la fine del IV sec. i Goti, spinti dagli Unni, arrivarono al confine danubiano e chiesero di essere ammessi nell’Impero.

Valente, imperatore d’Oriente, accettò, sperando di utilizzarli nell’esercito ma i continui saccheggi nelle regioni imperiali portarono alla guerra. Nel 378 a Adrianopoli, in Tracia, l’esercito romano fu duramente sconfitto. I Goti dilagarono allora in Tracia, saccheggiando e distruggendo. Graziano, già imperatore d’Occidente, rimase sul trono, mentre in Oriente fu eletto imperatore un generale spagnolo, Teodosio nel 379.

Invece di continuare a combattere, Teodosio contrattò la pace, i Goti divennero alleati dell’Impero, sposarono donne romane ed ebbero incarichi dirigenziali. Graziano e Teodosio, nel 380, promulgarono l’Editto di Tessalonica, con il quale il Cristianesimo diventava l’unica religione dell’Impero e veniva cancellata ogni usanza pagana (sacrifici, giochi olimpici, templi).

T  La tomba nel Busento[5]
Cupi a notte canti suonano
Da Cosenza su ‘l Busento,
cupo il fiume gli rimormora
dal suo gorgo sonnolento.

Su e giù pel fiume passano
E ripassano ombre lente:
Alarico i Goti piangono
Il gran morto di lor gente.

Ahi sì presto e da la patria
così lungi avrà il riposo,
mentre ancor bionda per gli omeri
va la chioma al poderoso!

Del Busento ecco si schierano
Su le sponde i Goti a prova,
e dal corso usato il piegano
dischiudendo una via nuova.

Dove l’onde pria muggivano,
cavan, cavano la terra;
e profondo il corpo calano,
a cavallo, armato in guerra.

Lui di terra anche ricoprono
E gli arnesi d’or lucenti;
de l’eroe crescan su l’umida
fossa l’erbe de i torrenti!

Poi ridotto ai noti tramiti,
il Busento lasciò l’onde
per l’antico letto valide
spumeggiar tra le due sponde.

Cantò allora un coro d’uomini:
"Dormi, o re, nella tua gloria!
Man romana mai non violi
La tua tomba e la memoria!"

Cantò, e lungo il canto uditasi
Per le schiere gote errare:
recal tu, Busento rapido,
recal tu da mare a mare. 

d) Il crollo dell’Impero d’Occidente – Morto Teodosio, unico imperatore dalla morte di Graziano, gli succedettero i figli Arcadio a Oriente e Onorio ad Occidente che, ancora giovani, furono affidati al generale di origine vandala Stilicone.
I Goti, controllati tramite concessioni di terre e denaro, divennero sempre più esigenti e decisero di penetrare in Italia guidati da Alarico. Stilicone, nonostante li avesse sconfitti, patteggiò la pace. Altri barbari premevano in Gallia e Spagna: Svevi, Alamanni e Vandali. La classe dirigente, trasferita la capitale a Ravenna e fatto uccidere Stilicone, cercò di affrontare gli invasori.
Alarico, nel 410, saccheggiò Roma; il suo successore, Ataulfo, fondò nelle Gallie il primo Regno barbarico e sposò la sorella di Onorio. Nel frattempo, i Vandali di Genserico conquistarono Cartagine, impadronendosi della provincia d’Africa nel 429.
Nel 430 l’Impero d’Occidente era costituito dall’Italia, da parti della Gallia e da poche terre nei Balcani. All’inizio del V sec. fecero irruzione in Europa, saccheggiando molte città orientali, gli Unni, popolazione asiatica guidata dal feroce Attila. Il generale romano Ezio, alleatosi con i Visigoti, li affrontò e sconfisse ai Campi Catalaunici, nella Francia del nord nel 451.
Quando Attila tornò in Italia, l’anno seguente, devastando il Veneto, gli fu mandato incontro il papa Leone I, per contrattare la pace. Colpiti dalla peste, gli Unni si ritirarono e Attila morì nel 453 in Pannonia. Cessato il pericolo degli Unni, l’Impero era ormai stremato. Capo effettivo, nonostante l’imperatore fosse Valentiniano III, discendente di Teodosio, era il generale Ezio.
Morto Valentiniano III nel 455 i Vandali devastarono Roma spogliandola di tutte le sue ricchezze. Dopo un periodo in cui regnarono vari imperatori controllati dal barbaro Ricimero, il patrizio Oreste fece proclamare imperatore il figlio Romolo Augustolo.
Dopo pochi mesi, costui fu deposto da Odoacre, capo dell’esercito barbaro al servizio dell’Impero, che accettò da Zenone, imperatore d’Oriente, di governare l’Italia. Di fatto era la fine dell’Impero d’Occidente nel 476.

T La filosofia è l’alimento delle eresie
di Tertulliano
La condizione del tempo presente ci spinge ad avvertire che non dobbiamo meravigliarci di queste eresie: sia del fatto che esistono, era infatti stato preannunziato che esse sarebbero sorte [Mt. 24,24]; sia del fatto che minano la fede di alcuni, perché esistono appunto perché la fede, messa alla prova, ne fosse anche confermata. Non c’è dunque ragione ed è sciocco che i più si scandalizzino perché le eresie abbiano tanta forza: se non la avessero, non esisterebbero neppure. Infatti quando qualcosa esiste, in qualsiasi modo, come ha un motivo per esistere, così ha anche la forza grazie a cui esiste e non può non esistere. [...]
Sono queste le dottrine di uomini e di demòni per le orecchie che non sanno trovar pace [1Tim. 4,3], sorte dall’ingegno della sapienza mondana. Il Signore la ha chiamata follia, e ha scelto la stoltezza del mondo per confondere anche la filosofia [1Cor. 1,27]. È la filosofia stessa la materia della sapienza mondana, temeraria interprete della natura divina e dei suoi disegni. Certamente le eresie stesse sono istigate dalla filosofia. Da qui provengono in Valentino gli Eoni e non so quali infinite forme e una trinità umana: lui era platonico. Da qui viene il dio di Marcione, migliore per la sua impassibilità: lui veniva dagli Stoici. E quando si dice che l’anima perisce, si segue Epicuro. E quando si nega la resurrezione della carne, si prende da una qualsiasi di tutte le scuole filosofiche. E dove la materia è equiparata a Dio, è l’insegnamento di Zenone. E dove si dice qualcosa di un Dio di fuoco, interviene Eraclito. Sono gli stessi temi che vengono trattati dagli eretici e dai filosofi: da dove viene il male e perché? da dove viene l’uomo e come è sorto? e ciò che ultimamente Valentino s’è chiesto: da dove viene Dio? deriva dall’Entimesi o dall’Ectroma? Disgraziato Aristotele, che hai loro insegnato la dialettica, capace di costruire e distruggere, sfuggevole nelle asserzioni, forzata nelle sue congetture, difficile nelle argomentazioni, creatrice di discussioni, molesta anche a sé stessa, che discute tutto per non concludere nulla su nessun tema. Di qui derivano quelle favole, quelle genealogie interminabili, quelle questioni oziose, quei discorsi che strisciano come un cancro. L’apostolo, scrivendo ai Colossesi, ce ne mette in guardia nominando esplicitamente la filosofia: «Guardate che non vi sia qualcuno che v’inganni con la filosofia e con una vuota seduzione, secondo la tradizione umana e contrariamente alla provvidenza dello Spirito santo» [Col. 2,8]. Egli era stato ad Atene [At. 17,15], e aveva conosciuto questa specie di sapienza umana che finge e falsifica la verità, essa stessa divisa nelle sue eresie secondo la varietà delle sette che si contrastano l’una l’altra. Che c’è dunque in comune fra Atene e Gerusalemme? che cosa fra l’Accademia e la Chiesa? che cosa fra gli eretici e i cristiani? La nostra dottrina nasce dal portico di Salomone [At. 5,12]; fu lui stesso che ci ha insegnato che Dio si deve cercare nella semplicità di cuore. Se la vedano un po’ coloro che hanno messo fuori un 2/4 cristianesimo stoico, platonico, dialettico. Noi non abbiamo bisogno di essere curiosi dopo Gesù Cristo, né di fare ricerche dopo il Vangelo. Quando crediamo, non desideriamo credere oltre, perché prima abbiamo creduto che non c’è nient’altro da credere.

T Una conversazione fra amici
Da Octavius di Minucio Felice 
Minucio Felice dapprima ricorda l’amico Ottavio. Inizia poi a raccontare la conversazione durante la quale Ottavio convertì al cristianesimo il comune amico Cecilio. Ottavio, Cecilio e Minucio si recano per la cura delle acque ad Ostia dove, durante una passeggiata lungo la spiaggia, Cecilio tocca e bacia una statua di Serapide. Ottavio rimprovera quindi Minucio per non aver messo in guardia Cecilio dalla venerazione superstiziosa delle statue. Nel frattempo i tre amici continuano a passeggiare e vedono alcuni ragazzi che giocano con i sassi sulla riva del mare. Cecilio, indifferente al gioco dei ragazzi, rimane turbato dalle parole di Ottavio sulla superstizione e gli chiede di poter discutere sull’argomento.
(1) Mentre riflettevo e rievocavo nel mio animo il ricordo di Ottavio, caro e fedelissimo amico, mi restò addosso tanta dolcezza e affetto per lui che mi parve di ritornare al passato, più che semplicemente rievocare con la memoria cose ormai compiute e passate: a tal punto la sua immagine, quanto più era sottratta alla vista, era avviluppata al mio cuore e ai miei sensi più profondi. Giustamente quell’uomo illustre e pio andandosene ci ha lasciato immensa nostalgia di lui, perché aveva verso di me tale affetto che nelle cose sia gravi che leggere si trovava sempre in accordo con me, voleva e non voleva le stesse cose: si sarebbe potuto credere che eravamo un’anima sola divisa in due. Era il solo a conoscenza delle mie passioni, e il solo compagno anche dei miei errori, e quando, dissipata la caligine, emersi dall’abisso delle tenebre alla luce della sapienza e della verità, non respinse il compagno, ma, cosa più onorevole ancora, lo anticipò. Mentre dunque ripassavo col pensiero tutto il tempo della nostra comunanza e familiarità, fermai particolarmente la mia attenzione su quella conversazione in cui egli convertì alla vera religione con serissimi argomenti Cecilio, che era ancora attaccato alle vanità della superstizione.
(2) Era venuto a Roma per affari e per vedermi, lasciando la casa, la moglie, i figli che – cosa che li rende più amabili – erano negli anni dell’innocenza e ancora balbettavano parole a metà, con un accento reso più dolce dall’impaccio della lingua. Non posso esprimere a parole quanta esultanza ho provato al suo arrivo, perché la mia letizia era aumentata dalla sorpresa della presenza del mio amico. Dopo uno o due giorni in cui l’assiduità della nostra compagnia aveva saziato l’avidità del nostro desiderio, e ci eravamo reciprocamente raccontati quello che a motivo della lontananza ignoravamo l’uno dell’altro, decidemmo di andare a Ostia, bellissima città, perché la cura delle acque era a me gradita e appropriata per asciugare gli umori del mio corpo, e anche perché le ferie per la vendemmia avevano allentato le attività del Foro. Infatti la stagione estiva stava declinando verso il clima temperato dell’autunno. Una mattina mentre camminavamo verso il mare perché la brezza ristorasse dolcemente le nostre membra e la sabbia cedesse mollemente, con nostro grandissimo piacere, sotto i nostri passi, Cecilio vide una statua di Serapide e, come usa fare il volgo superstizioso, la toccò e la baciò.
Ottavio allora disse: “Non è da uomo onesto, fratello Marco, lasciare un uomo che a casa e fuori ti sta sempre accanto in una tale cieca ignoranza da permettere che in pieno giorno vada a sbattere in pietre, per quanto effigiate, profumate e coronate: sai bene che la vergogna del suo errore ricade su di te non meno che su di lui”. Durante queste sue parole avevamo già attraversato il centro della città e ci trovavamo sulla spiaggia aperta. Là le onde lievi si infrangevano all’estremità della sabbia come spianandola per il passeggio, e poiché il mare è sempre in movimento anche quando non c’è vento, sebbene non invadesse la terra con le onde bianche e spumeggianti, ci divertimmo moltissimo a guardare le increspature e le sinuosità, mettendo i piedi proprio sul limite, mentre le acque volta a volta fluivano verso di noi e si ritiravano assorbendo nel loro seno le nostre impronte. Così camminando lentamente e tranquillamente costeggiavamo le dolci curve della riva, ingannando il cammino con la conversazione, che riguardava soprattutto il racconto che Ottavio faceva del suo viaggio per mare. Ma dopo aver percorso un tratto di strada discorrendo, tornammo indietro sui nostri passi per la medesima via, e quando arrivammo al punto dove stavano a riposo delle barche tirate a secco e posate su tronchi d’albero al riparo dall’umidità del terreno, vedemmo dei ragazzi che con grandi grida giocavano a gettare in mare dei ciottoli. Questo gioco consiste nel raccogliere sulla spiaggia un sasso tondo e levigato dalle acque; poi, tenendolo tra le dita dalla parte del palmo, ci si piega il più possibile verso terra e lo si fa rotolare in mare in modo che il proiettile rasenti il pelo delle acque o galleggi scivolando con un movimento leggero, o balzi riemergendo sulla cresta dell’onde con continui rimbalzi. Vincitore della gara fra i ragazzi era quello che mandava il suo ciottolo più lontano e con il maggior numero di rimbalzi.
Mentre noi ci divertivamo a quello spettacolo, Cecilio non ci badava e la gara non gli dava piacere, ma taceva stando da parte angosciato: il suo volto dimostrava che stava soffrendo. Io gli dissi allora: “Che succede? Come mai, Cecilio, non ritrovo la tua vivacità e l’allegria che hai negli occhi anche nei momenti difficili?”. Lui rispose: “Mi tocca e mi rimorde il discorso fatto poco fa dal nostro Ottavio, che ti ha rimproverato di negligenza per accusare senza parere me di una cosa più grave, l’ignoranza. Mi spingerò ancora più in là: devo trattare di nuovo interamente la questione con Ottavio. Se è d’accordo, discuterò con lui come adepto di quella setta, in modo che capirà subito che è più facile discorrere tra amici che confrontare le teorie. Sediamoci dunque su questi argini di pietra che si protendono in mare a protezione dei bagnanti, in modo da riposarci dalla passeggiata e discutere con più attenzione”. Ci sedemmo come lui aveva proposto: io stavo in mezzo avendo ciascuno di loro al mio fianco non in segno di omaggio, di onore o di distinzione sociale, perché l’amicizia rende sempre gli uomini uguali se già non li trova uguali, ma perché in qualità di arbitro potessi ascoltare i due contendenti tenendoli separati.

6. Il Cristianesimo del terzo secolo - Il III secolo fu un periodo tra i più movimentati della storia cristiana: esso vide infatti l’accrescersi della nuova fede e la sua capillare diffusione in tutto l’impero, ma anche il propagarsi di eresie e, soprattutto, vide persecuzioni da parte dello Stato e, con esse, l’insorgere di nuovi gravi problemi disciplinari.
a) La persecuzione di Decio - Decio che aveva conquistato nel 248 il trono imperiale, seguì una politica di restaurazione religiosa, inaugurata con il sacrificio annuale sul Campidoglio nel Gennaio del 250, con l’ordine che il sacrificio fosse ripetuto nei Campidogli di tutte le città dell’impero.
Quello che fino ad allora era stato un atto formale divenne così una sorta di censimento religioso, con la persecuzione di quanti non si fossero presentati per fare sacrifici e tra questi c’erano, ovviamente, i cristiani.
Vennero immediatamente arrestati e uccisi i vescovi delle più importanti città imperiali: Fabiano a Roma, Babila ad Antiochia, Alessandro a Gerusalemme e molti altri con loro.
La persecuzione del 250 fu un duro colpo per la Chiesa, anche a causa delle defezioni di molti cristiani.
b) I ‘lapsi’ e il Concilio di Cartagine – Gli apostati, coloro che avevano preferito rinnegare la propria fede per aver salva la vita, furono generalmente definiti lapsi o caduti.
Quello dei lapsi divenne presto un serio problema nella Chiesa antica, soprattutto dopo la persecuzione di Decio: molti di loro chiedevano, infatti, a persecuzione finita, di essere riammessi nella Chiesa. Questo procurò molte preoccupazioni pastorali.
Si imposero così trattamenti diversi: ad esempio, lo scismatico Novato aveva un atteggiamento di grande tolleranza nei loro confronti, a differenza di Novaziano che era invece particolarmente rigido.
Al Concilio di Cartagine, nel 251, si decise, con un certo equilibrio, che i lapsi fossero riammessi alla piena comunione con la Chiesa soltanto in punto di morte.
c) La persecuzione di Valeriano – Una nuova persecuzione scoppiò nel 257 ad opera dell’imperatore Valeriano. Questi si limitò, in un primo momento, a confiscare i beni ecclesiastici e a destituire i cristiani che ricoprissero cariche pubbliche o comunque importanti.
In seguito cercò soprattutto di colpire le gerarchie della Chiesa. Trovarono così la morte in questa persecuzione, tra gli altri, S. Cipriano e il vescovo di Roma Stefano.

T Inno a Roma di Rutilio Namaziano
Ascolta, o regina, tu la più bella
del mondo su cui signoreggi, o Roma,
o madre di dei, per i tuoi templi
noi non siamo lontani dal cielo:
te noi cantiamo e canteremo sempre,
sino a che lo concederanno i fati.
Nessun uomo, sino a quando ha vita,
può dimenticarsi di te.
Un colpevole oblio annienti il sole
prima che svanisca dal mio cuore
la venerazione che ho per te.
Tu estendi infatti i tuoi benefici,
simili a  raggi sole,
per le terre che sono circondate
dal fluttuante Oceano.
Lo stesso Febo, che il mondo intero
riveste e rischiara di sua luce,
compie il suo corso in tuo onore:
dalle tue terre esso risorge,
nelle tue terre tramonta.
La Libia dalle infuocate arene
non ostacolò il tuo cammino,
né ti respinge l’Orsa,
sebbene armata dal suo intenso gelo:
quanto le plaghe abitate si estendono
verso i gelidi poli, tanta terra
è al tuo valore aperta.
Tu hai fatto per genti diverse
un’unica patria: fu gran fortuna
per genti barbare di essere annesse
al tuo dominio. Mentre tu offri ai vinti
di essere partecipi del tuo diritto,
hai fatto città
quello che prima era il mondo. 

T Il sacco di Roma di San Girolamo
Mentre così vanno le cose a Gerusalemme, dall’Occidente ci giunge la terribile notizia che Roma viene assediata, che si compra a peso d’oro la incolumità dei cittadini, ma che dopo queste estorsioni riprende l’assedio: a quelli che già sono stati privati dei beni si vuol togliere anche la vita. Mi viene a mancare la voce, il pianto mi impedisce di dettare.
La città che ha conquistato tutto il mondo è conquistata: anzi cade per fame prima ancora che per l’impeto delle armi, tanto che a stento vi si trova qualcuno da prendere prigioniero. La disperata bramosia fa sì che ci si getti su cibi nefandi: gli affamati si sbranano l’uno con l’altro, perfino la madre non risparmia il figlio lattante e inghiotte nel suo ventre ciò che ha appena partorito.



[1] L’anarchia militare – Tra il 238 e il 284, periodo detto dagli storici anarchia militare, il potere passò tra le mani di 21 imperatori di cui 19 perirono assassinati. Lo Stato era vicino al tracollo: gruppi di Germani, tra cui i Goti varcavano i confini, a Oriente premeva la dinastia dei Sassanidi, discendenti dei Persiani.

Durante il regno di Gallieno (253-268), alcune regioni, organizzatesi autonomamente pur rimanendo fedeli all’Impero, riuscirono a contenere l’avanzata nemica. Le frontiere furono ristabilite al Reno e al Danubio.

L’anarchia militare di questo periodo fu arrestata dai cosiddetti imperatori il lirici, tutti nativi della Dalmazia, i quali furono tutti valenti soldati, fautori della più rigida disciplina e fedeli all’ideale di Roma.

I principali fra essi furono Claudio II, soprannominato il Gotico (268-270) per le sue vittorie sui Goti e gli Alamanni.

Aureliano (270-275) che continuando l’operato del suo predecessore cinse Roma di una poderosa cerchia di Mura (Mura Aureliane).

Probo (276-282) e Caro (282-283) che continuarono a difendere l’Impero contro le sempre più frequenti irruzioni dei barbari.

[2] A questo proposito è indicativa la clamorosa sconfitta subita da Valente da parte dei Goti che successivamente distruggeranno anche Milano o il sacco di Roma da parte di Alarico frustrato nella sua ambizione di venir nominato maresciallo dell'Impero e sentitosi tradito dai romani che lo avevano lusingato con fallaci promesse.
[3] Costantinopoli - Il luogo prescelto, un piccolo borgo chiamato Bisanzio, godeva di una posizione strategica eccezionale, sulla punta di una penisola che dominava le vie di comunicazione dei Paesi posti tra il Mar Nero e il Mediterraneo; se vi si fosse costruita una piazzaforte, questa avrebbe potuto sorvegliare e tenere a bada i Goti a nord del Mar Nero e i Persiani a sud.
Il porto, d’altronde, poteva controllare tutto il commercio tra i Paesi del Mediterraneo, quelli del Vicino Oriente e le terre ricche di grano delle rive del Mar Nero. Per questi motivi Costantino incominciò a edificare in quel luogo una «nuova Roma».
Nel 330 la città, chiamata Costantinopoli, fu solennemente inaugurata.
[4] La battaglia più importante fu quella di Ponte Milvio, nel corso della quale Costantino avrebbe avuto la visione della croce e del cri­sma cristiano e avrebbe udito queste parole: «In questo segno vincerai» Le truppe di Massenzio, figlio di Massimiano, Augusto d’Occidente durante l’Impero di Diocleziano, furono infatti sconfitte; Massenzio stesso morì annegato.
[5] Nella notte del 24 agosto del 410 Alarico, Re dei Visigoti, entrò con il suo esercito in Roma, passando per Porta Salaria. Seguirono tre giorni di saccheggi e violenze, anche se pare che fosse stato impartito l'ordine di non sacrificare vite umane e di risparmiare le chiese.
Dopo queste tre giornate, che resteranno impresse a lungo negli occhi dei cittadini di Roma, i barbari abbandonarono l’Urbe e si diressero verso il Sud della penisola, con l’intenzione di raggiungere le coste africane per nuove invasioni e conquiste. Ma ecco l’imprevisto: Alarico, allora quarantenne, colto da improvvisa malattia, morì nei pressi dello Stretto.
Narra la leggenda che i Visigoti, per evitare che mani romani potessero violare la tomba del loro re, deviarono il fiume Busento, nei pressi di Cosenza, e seppellirono nel suo letto Alarico in armi, insieme al suo cavallo ed al suo tesoro e successivamente ripristinarono il normale corso delle acque. Infine, gli schiavi utilizzati per deviare temporaneamente il corso del fiume vennero ammazzati, perché non rivelassero il segreto.
La ballata è grave, cupa, come l’episodio che rievoca, vissuto anch’esso in uno dei periodi più cupi della decadenza dell’impero.
E’ interessante notare che la caduta di Roma in mano ai barbari, dopo tanti secoli di gloria, fece un’impressione enorme nei contemporanei (mai un barbaro aveva osato tanto dai tempi di Brenno), tanto che vi fu chi presagì la prossima fine del mondo, e l’uomo che di tale sbigottimento era stato il principale artefice, fu considerato, almeno dalla sua gente, un grande eroe. Anche così si spiega il mistero con cui vollero circondare la sua sepoltura.
Il poeta ha reso l’atmosfera da leggenda di questo episodio con molta efficacia.
L’inconsueta opera che i compagni di Alarico compiono per nascondere per sempre la salma del loro re, assume, nella solitudine della morte e del luogo, una maestosa grandezza; le voci e i pianti dei guerrieri risuonano cadenzati e gravi risvegliando nel nostro cuore una lunga e misteriosa eco.

classe I - Italiano - IV unità

IV UNITÀ
Comunicazione. Il testo argomentativo – Per testo argomentativo si intende la presentazione di un’argomentazione, discussione o dimostrazione che si fa adducendo argomenti favorevoli e contrari a quanto si espone; le argomentazioni sono ragioni, opinioni, prove, pro o contro una certa tesi.
Sono testi argomentativi sono i saggi, gli articoli problematici.
Oggetto dell’argomentazione possono essere:
·         idee, problemi, previsioni, fatti, comportamenti.
Il testo argomentativo può:
·         riguardare un fatto di attualità
·         affrontare un argomento di carattere generale o culturale di qualsiasi disciplina.

Riflessioni sulla lingua. Verbi transitivi e verbi intransitivi - Un verbo è transitivo quando l’azione transita direttamente su qualcosa o qualcuno; in altre parole, quando il verbo può reggere un complemento oggetto.
Per esempio il verbo dirigere è transitivo perché regge un complemento oggetto come un’azienda, un’orchestra, il traffico, ed altro.
Il verbo nuotare, invece, è intransitivo perché non può reggere in alcun modo un complemento oggetto.
Alcuni verbi transitivi, in certi casi, possono avere un significato intransitivo.
Possiamo dire: “Piero legge il quotidiano”, ma possiamo dire soltanto: Piero legge, per dire che è impegnato nell’attività della lettura.
Ugualmente si può dire: Baglioni canta Questo piccolo grande amore, ma se togliamo il complemento oggetto, resta Baglioni canta, il che significa che l’attività di Baglioni è cantare.
Viceversa, alcuni verbi intransitivi possono avere un complemento oggetto (detto complemento oggetto interno) che ha la stessa radice del verbo o che comunque ha una correlazione con esso.
Ha vissuto una vita intensa. (Vivere e vita hanno la stessa radice.)
Egli pianse lacrime amare. (Fra piangere e lacrime c’è un nesso di significato.)

Riflessioni sulla lingua. Complemento diretto o complemento oggetto - Esso indica l’oggetto sul quale cade direttamente l’azione espressa dal verbo transitivo attivo[1]. Risponde alla domanda chi? che cosa?
Es.: Luca legge il giornale.
Luca (soggetto) legge (predicato) il giornale («che cosa»? complemento oggetto).

Riflessioni sulla lingua. Attributo - È un aggettivo che, accompagnando un nome, gli attribuisce una qualità o un’altra determinazione: per questo gli aggettivi si distinguono in aggettivi qualificativi ed aggettivi determinativi o pronominali[2].
Es.: I libri usati (attributo) non mi piacciono.
La mia (attri­buto) casa è in collina, ecc.

Riflessioni sulla lingua. La proposizione oggettiva - La proposizione subordinata oggettiva è una proposizione subordinata che fa da complemento oggetto al predicato della reggente:
Es Desideriamo che tu sia presente (prop. subordinata oggettiva).
Es.: Desideriamo la tua presenza (complemento oggetto).
Diversamente dalla soggettiva, la proposizione oggettiva dipende sempre da reggenti con il predicato costituito da un verbo usato in forma personale, cioè fornito di soggetto espresso o sottinteso. In particolare, può essere retta:
·         da verbi che enunciano una dichiarazione, come dire, affermare, proclamare, comunicare, informare, rivelare, raccontare, riferire, promettere, scrivere, telegrafare, telefonare, rispondere, negare ecc.:
“Gli zii hanno scritto che verranno qui a Natale”; “Ti prometto che rientrerò presto”; “Rispose che non sapeva nulla”;
·         da verbi che indicano percezione o ricordo, come vedere, sentire, udire, percepire, accorgersi, degnarsi, rifiutarsi, capire, dimenticare ecc.:
“Ho sentito che stavano litigando”;
“Ricorda che devi finire subito quel lavoro”;
·         da verbi o locuzioni che indicano opinione, giudizio, sospetto, dubbio o ipotesi, come credere, pensare, ritenere, giudicare, supporre, ipotizzare, convincere, essere conscio, essere consapevole, essere convinto, rendersi conto ecc.:
“Credo che lo spettacolo finirà fra poco”;
“Perché ritieni che abbia ragione Mario?”;
“Si convinse di essere un incapace”;
·         da verbi o locuzioni che indicano concessione, speranza, desiderio, ordine, divieto, timore, come desiderare, sperare, comandare, vietare, impedire, proibire, permettere, concedere, promettere, temere, essere desideroso, essere timoroso ecc.:
“Temo che non otterremo alcun risarcimento”;
“Gli impediremo di fare altri danni”.
Nella forma esplicita, l’oggettiva è introdotta dalla congiunzione subordinante che e ha il verbo:
·         all’indicativo, se la reggente annuncia un fatto come reale o certo:
“Paolo dice che gli hai mentito”;
·         al congiuntivo, se la reggente presenta il fatto come un’opinione o un’ipotesi:
Es: Paolo crede che tu gli abbia mentito;
·         al condizionale, se la reggente presenta il fatto come possibile:
Es: Paolo pensa che saresti capace di mentirgli.
Nella forma implicita, invece, l’oggettiva è introdotta dalla preposizione di e ha il verbo all’infinito:
Es: Spero di rientrare per le sette;
Es: Ricordati di passare dal meccanico.
Come appare dagli esempi, la costruzione implicita dell’oggettiva, di norma, è possibile solo se il soggetto della reggente è lo stesso di quello dell’oggettiva. Essa, tuttavia, è possibile, anche se i soggetti non coincidono:
·         con i verbi come ordinare, comandare, richiedere, proibire, vietare, impedire, concedere ecc.:
Es: Il generale ordinò ai soldati di attaccare battaglia;
Es: Vi prego di tacere;
Es: Il medico ha proibito al nonno di alzarsi;
·         con i verbi indicanti percezione, come sentire, udire, vedere ecc. In questo caso, però, l’infinito non è preceduto dalla preposizione di:
Es: Sento abbaiare il cane;
Es: Vide arrivare i bambini di corsa.
·         Con questi verbi, inoltre, l’oggettiva implicita può essere trasformata sia in un’oggettiva esplicita, sia in una dipendente relativa

Riflessioni sulla lingua. Discorso diretto e discorso indiretto - Il discorso diretto si ha quando il narratore riporta in forma di dialogo le parole dei personaggi. Le battute sono segnalate dall’uso di formule del tipo dissi, sussurrò, chiesero.. seguite dai due punti e virgolette.
Il discorso indiretto è il modo in cui vengono riportate, in una proposizione subordinata, le parole dette in precedenza.
C’è da un lato la possibilità di riportare quanto è stato detto ripetendo l’enunciato in forma invariata e usando per esempio le virgolette:
Es.: Luigi XIV disse: “Lo stato sono io”.
In questo caso si riporta l’enunciato usando il discorso diretto.
Con il discorso indiretto, al contrario, l’enunciato è integralmente incorporato in quello di chi lo sta citando:
Es.: Luigi XIV disse che lo stato era lui.
Dato che il contesto in cui l’enunciato è prodotto non è più lo stesso, nasce la necessità di adattare ogni forma di deissi, cioè tutte le indicazioni di tempo, persona e di luogo.
Quando il verbo è al presente, la seconda frase non cambia.
Es.: Mario dice: “Sta per piovere”
Mario dice che sta per piovere.
Quando il verbo è al passato, sono necessari alcuni cambiamenti nella seconda frase. Il presente cambia nel passato, il futuro cambia nel condizionale molte volte.
Es.:La signora ha detto: “Voglio il vestito bianco”
La signora ha detto che voleva il vestito bianco.
Io ho insistito: “Non uscirò prima delle nove”         
Io ho insistito che non uscivo prima delle nove.
Mio nonno mi ha detto: “Ti racconto una storia”.
Mio nonno ha detto che mi  avrebbe raccontato racconterò una storia”.
Quando i verbi sono al presente e al passato.
Es.: Il padre dice: “So che Piero ha mangiato al ristorante italiano”
Il padre dice che sa che Piero ha mangiato al ristorante italiano
Dario  ha detto al preside : “Mi dispiace, che mi sono comportato male”
Dario ha detto al preside che gli dispiaceva di essersi comportato male.
La figlia dice alla mamma: “domani vengo con te al mercato”       
La figlia dice alla mamma che il giorno dopo va con lei al mercato.
Il papà dice al figlio: “lavati bene”.
Il papà dice al figlio di lavarsi bene.

Educazione letteraria. I personaggi – Un altro elemento base della storia è costituito dai personaggi. Essi sono coloro che eseguono le azioni o le subiscono; senza di loro è impossibile immaginare di muovere alcun atto narrativo.
La costruzione di un personaggio con le sue caratteristiche fisiche, la sua indole, le sue aspirazioni, le sue qualità, negative o positive, avviene attraverso la delineazione dei tratti caratterizzanti del suo aspetto e della sua personalità.
La costruzione del personaggio prende avvio dalla cosiddetta presentazione che può avvenire attraverso tre modalità fondamentali:
·         dal narratore, quando questi interviene a fornire informazioni esplicite sul carattere e/o su altri aspetti del personaggio, magari commentando e valutando il suo operato, in tal senso la presentazione è sostanzialmente oggettiva.
·         dal personaggio stesso, quando si tratta di un autoritratto disegnato in prima persona e perciò in tal senso la presentazione è sostanzialmente oggettiva;
·         da un altro personaggio e in tal senso la presentazione è sostanzialmente soggettiva;
·         dal narratore, dal personaggio stesso e da un altro personaggio: si tratta di una presentazione composita affidata a più persone (narratore, personaggi vari), ognuna delle quali aggiunge secondo il proprio punto di vista una nota al ritratto di un determinato personaggio.
Talvolta il personaggio è presentato solo in modo indiretto, attraverso le sue azioni, i suoi comportamenti, i suoi discorsi, che il lettore interpretare come altrettanti indizi del modo di essere del personaggio stesso.
La costruzione del personaggio prosegue per tutto il corso della narrazione, attraverso un processo di caratterizzazione, attuato mediante un accumulo di elementi che potranno emergere dalle vicende stesse, dal giudizio di altri personaggi, da annotazioni più o meno ampie del narratore e così via. Il tipo di caratterizzazione più frequente è quella fisica e psicologica a cui si possono aggiungere altri livelli di analisi, importanti ma non indispensabili:
·         Livello fisico ossia la descrizione dell’aspetto fisico (magro grasso, alto magro, atletico robusto) e dei caratteri somatici (capelli, fronte, occhi, naso, bocca)
·         Livello psicologico ossia l’analisi di sentimenti, emozioni e stati d’animo che il personaggio vive in determinate circostanze della vicenda.
·         Livello sociale ossia la analisi della classe sociale cui il personaggio appartiene connessa ai due elementi dello status[3] e della stratificazione sociale[4].
·         Livello culturale ossia l’analisi del tipo di cultura che possiede,
·         Livello ideologico ossia l’analisi dei valori e degli ideali in cui crede.


T 5 Il mito di Deucalione e Pirra
Da Le metamorfosi di Ovidio
·         Prometeo aveva un figlio, Deucalione che aveva sposato Pirra, sua cugina, in quanto figlia del fratello di suo padre, Epimeteo. I due giovani sposi si stabilirono a Ftia, ai piedi del monte Parnaso, dove cercarono di regnare nel bene e sforzandosi di dare la pace ai proprio sudditi.
·         Gli uomini però, usciti dal mondo primitivo grazie all'illuminazione del fuoco e agli insegnamenti di Prometeo, iniziarono a sentirsi al pari degli dèi, trascurando gli obblighi religiosi; i popoli divennero superbi, cattivi e maligni, si armarono gli uni contro gli altri e sulla Terra scoppiarono molte guerre che portarono alla rovina molte città. Zeus allora decise di distruggere il genere umano, sommergendolo sotto le acque col Diluvio Universale. 
·         Tutti gli uomini morirono, meno due Pirra e Deucalione, perché Zeus sapeva che egli era l'unico principe onesto, giusto e religioso, e Pirra, l'unica donna savia e virtuosa che esistesse, perciò bisognava salvarli. Per volere di Zeus furono messi su una barca e vi navigarono per tutta la durata del Diluvio, nove giorni, fino a quando la barca non approdò sulla vetta del Parnaso, e l'unica coppia umana sopravvissuta al castigo divino poté finalmente scendere e toccare la terra. 
·         Deucalione e Pirra si ritrovarono uno spettacolo di desolazione, di rovine, camminarono fino ad una valle dove trovarono un tempio. Lo riconobbero per l'oracolo di Temi, la dea della giustizia; lo consultarono e ne ebbero questa enigmatica risposta: "Uscite dal tempio e gettate dietro le vostre spalle le ossa della Gran Madre".
·         Stettero a lungo a pensare a queste parole, ma un giorno Deucalione si illuminò e capì che la Gran Madre era la terra, e le ossa della Terra erano le pietre; così le pietre gettate da Deucalione, appena toccarono la terra, diventarono uomini e quelle gettate da Pirra, diventarono donne. In questo modo la Terra si ripopolò.

Divide dai campi Elei[5] gli Aoni[6] la Focide: una fertile terra, fin quando era terra, ma all'epoca un braccio di mare, una piana vastissima di acque inattese. Vi sorge un monte scosceso, che leva due vette alle stelle: si chiama Parnaso[7], e sovrastano le cime le nuvole. Qui Deucalione (nient'altro lasciava scoperto l'oceano) sbarcò da una piccola zattera insieme alla moglie: si prosternano alle ninfe Coricie[8], ai numi dei monti, a Temi[9] profetica, all'epoca custode degli oracoli.
Non esisteva a quel tempo un uomo migliore di lui, né più amante del giusto, o una donna che più temesse gli dèi. Ma quando vide il mondo allagato da chiare paludi, e solo un uomo rimasto di tante migliaia, e solo una donna rimasta di tante migliaia, l'uno e l'altra innocenti, l'uno e l'altra devoti agli dèi, Giove fece a brandelli le nuvole, e con l'Aquilone scacciò gli uragani. Al cielo fa vedere la terra e l'etere alla terra.
Non dura, la rabbia del mare; posa la lancia tricuspide, il re dell'oceano, placa le acque e fa emergere, chiamandolo, sopra gli abissi, l'azzurro Tritone[10], le spalle coperte di incrostazioni di murici; gli ordina di soffiare nella conchiglia sonora per dare finalmente ai flutti e ai fiumi il segnale di ritirarsi. Tritone afferra la vuota tromba, la tromba ritorta che cresce a spirale e dal basso s'allarga, e, appena animata dal fiato là in mezzo all'oceano, empie di musica i lidi sotto il primo e l'ultimo Febo[11]. Bastò che toccasse le labbra bagnate del dio sotto la barba grondante, e cantasse a gran voce l'ordine di ritirata, perché l'ascoltasse ogni flutto per terra e per mare e frenasse ogni flutto in ascolto. Il mare ritrova le rive, rientrano gonfi nel letto i fiumi, le acque si abbassano, si vedono colli che spuntano; la terra s'innalza e più calano i flutti più crescono i dossi e dopo un giorno lunghissimo, i boschi mettono a nudo le cime e il fango rimasto attaccato alle foglie.
Il mondo è tornato. Ma appena Deucalione lo vide deserto e abbandonate le terre a un silenzio profondo, gli vengono agli occhi le lacrime, e così parla a Pirra: «Sorella, moglie, che ormai sei l'unica donna superstite, cui mi lega una stessa famiglia, il rapporto fraterno dei padri, poi il matrimonio, e mi legano adesso le prove subite, tutte le terre che guardano a occidente e a oriente siamo noi due a popolarle; gli altri se li è presi il mare. Perfino la vita che abbiamo, non possiamo ancora fidarcene con certezza; anche ora, le nuvole ci gettano il panico in cuore. Che proveresti, adesso, a trovarti strappata al destino senza di me, disgraziata? In che modo potresti, da sola, sopportare il terrore? Un conforto al dolore, a chi andresti a richiederlo? Quanto a me, credi pure, se il mare si fosse preso anche te ti seguirei, moglie, e il mare si prenderebbe anche me. Ah, se potessi, con l'arte di mio padre, rimettere in piedi le genti, plasmare la terra e soffiarci le anime dentro! Adesso il genere umano dipende soltanto da noi; così hanno voluto i Celesti[12]: restiamo a campione degli uomini».
Così disse: e piangevano. Scelsero d'invocare i poteri celesti, consultando gli oracoli sacri per averne un soccorso. Senza indugio, si mettono insieme per via verso le onde del Cefiso[13], non limpide ancora, ma tornate a solcare il solito letto. Qui attingono l'acqua e ne spruzzano il capo e le vesti, volgendo poi i passi al santuario della gran dea, dai frontoni macchiati di lurido muschio: gli altari spogli di fuoco, ma ancora in piedi.
Raggiunti i gradini del tempio, lui e lei si prosternano, la faccia a terra e tremanti; baciarono la pietra gelata e dissero: «Se le preghiere dei giusti sono capaci di conquistare gli dèi e intenerirli, se possono stornare l'ira divina, rivelaci, Temi dolcissima, il mezzo per compensare la morte del genere umano, soccorri il mondo sommerso!».
La dea si commosse, e concesse un responso: «Uscite dal tempio, velatevi il capo e sciogliete la cinta degli abiti; le ossa della gran madre, buttatele dietro le spalle».
Restarono a lungo smarriti: la prima a spezzare il silenzio è Pirra: rifiuta, dichiara, di mettere in atto il comando, implora, con labbra tremanti, perdono: le manca il coraggio di oltraggiare lo spettro materno buttandone in giro le ossa. Ma dentro di loro ritornano al responso sentito, e fra loro rimuginano quelle sentenze, oscure di occulti segreti. Finché, per rassicurare la figlia di Epimeteo, il figlio di Prometeo pronuncia frasi di conforto: «O la ragione mi inganna, o il responso rispetta la devozione filiale, e non vuole invitarci a un crimine. La grande madre[14] è la terra; la terra ha un corpo, e suppongo che i sassi si possano dirne le ossa. Secondo il comando, questi dobbiamo buttarci dietro le spalle».
Sebbene l'abbia colpita la profezia del marito, la figlia del Titano[15] ha ancora paura a sperare: a tal punto diffidano i due dei comandi celesti. Ma a fare una prova, rischio non c'è. Si allontanano, si velano il capo, si sciolgono la tunica e, seguendo il comando, man mano che procedono si buttano dietro dei sassi. E i sassi (chi lo crederebbe, se ad attestarlo non fosse la tradizione?) perdettero via via la durezza e il rigore, si fecero molli col tempo e assunsero, molli, una forma. Quindi, una volta ingrossatisi e presa un'essenza più docile, comincia a potervisi scorgere una sorta di immagine umana, ancora non chiara: li diresti abbozzati nel marmo, piuttosto imprecisi e assai somiglianti a rozze sculture.
La parte dei sassi impregnata di qualche umore e di terra si muta in materia corporea, la parte inflessibile e solida si cambia in ossa: le vene di prima conservano il nome; così, per volere celeste, in breve tempo le pietre gettate dal pugno dell'uomo assunsero aspetto di uomini e rinacque la donna da quelle che ha lanciato la donna. Perciò siamo duri di razza e rotti ai disagi: forniamo le prove del ceppo da cui siamo nati.
Tutti gli altri viventi, in forme diverse, la terra li partorì senza aiuto, una volta scaldati dal fuoco del sole i resti del liquido, e gonfiate dal calore le molli paludi e il fango, e i germi fecondi del tutto, nutriti, a sembianza di un utero materno, da una terra vitale, sbocciarono e assunsero forme, col tempo, di questo o di quello.
Così, ogni volta che lascia i campi fradici il Nilo a sette foci e riporta i flutti nel letto di un tempo, e il fango fresco è bruciato dall'astro del cielo[16], i contadini che vengono a voltare le zolle vi scoprono moltissime cose viventi, qualcuna già perfezionata nell'atto stesso di nascere, qualcuna abbozzata e in difetto degli organi, e spesso in un'unica massa una parte è vivente e un'altra è terra incoerente. Infatti, l'umore e il calore «o mischiati germogliano, e nascono da questi due tutti gli esseri: benché sia nemico dell'acqua il fuoco, l'aria umida e calda genera tutte le cose: è una discordia concorde che favorisce gli embrioni.
Così, non appena rovente la terra infangata di fresco dal diluvio, del sole per l'etere[17] e dell'arsura dall'alto, produsse specie infinite: in parte rifece le fogge di un tempo, in parte inventava nuove e bizzarre creature. In realtà, non avrebbe voluto, ma generò pure te, gigantesco Pitone, serpente mai visto, terrore dei popoli nati da poco «o col tuo dominio su immense regioni montane. Ma il dio dell'arco, che l'arma mortale fin lì non l'aveva saggiata se non a troncare la fuga di daini e caprioli, gli tirò addosso, svuotando la faretra, un migliaio di frecce fino ad ammazzarlo: e versavano veleno, le nere ferite. Perché non potesse offuscare il tempo l'impresa gloriosa, istituì giochi sacri in forma di gare grandiose che chiamò Pitiche, in nome del serpe che aveva abbattuto. E lì riceveva l'onore di una ghirlanda di quercia il giovane primo alla lotta, alla corsa, alla gara dei carri. Non esisteva l'alloro; Febo usava una fronda qualunque per cingerne i lunghi capelli in giro alla splendida fronte.
Il primo amore di Febo, Dafne, la figlia del Peneo[18], non era stata un regalo del caso incosciente, ma del rancore crudele di Cupido.




[1] Verbi transitivi e verdi intransitivi – La prima importante classificazione del verbo è quella che distingue i verbi transitivi e quelli intransitivi.
Si chiamano transitivi i verbi che possono avere un complemento oggetto.
Es. Marco legge un libro
Non sempre però i verbi transitivi, per avere senso compiuto, devono essere seguiti da un complemento oggetto;
Es. Marco legge
In tal caso il verbo transitivo è usato in forma assoluta, senza complemento oggetto, ma continua a rimanere transitivo.
Sono intransitivi i verbi che non possono avere un complemento oggetto:
Es. L’uomo impallidì;
Es. Giovanni è partito;
Es. Siamo finalmente arrivati;
Es. Io esco.
Nel primo caso il verbo impallidire indica uno stato; negli altri tre i verbi (partire, arrivare, uscire) indicano un’azione. Si tratta comunque di uno stato e di un’azione che si esauriscono nel soggetto, tant’è vero che i verbi non sono nemmeno seguiti da un complemento. Anche se il complemento ci fosse, servirebbe solo a precisare alcune circostanze dello stato o dell’azione, ma non potrebbe mai essere un complemento oggetto.
La forma del verbo – La seconda importante classificazione del verbo e quella che riguarda la forma Esistono tre modi di coniugare i verbi:
1.       per esprimere un’azione compiuta dal soggetto, si coniugano i verbi nella forma attiva;
2.       per esprimere un’azione subita dal soggetto, si usa la forma passiva, formata dal verbo essere (o, in certi casi, venire, andare, finire, restare), seguito dal participio passato del verbo;
3.       per esprimere un’azione che è compiuta dal soggetto e che termina sul soggetto stesso, si usa la forma riflessiva, in cui il verbo è preceduto da una delle particelle mi, ti, si, ci, vi.
La forma riflessiva a sua volta può essere:
·         propria: soggetto e complemento oggetto coincidono ("Piero si veste").
·         apparente: le particelle mi, ti, si, ci, vi non svolgono la funzione di complemento oggetto, ma di complemento di termine ("Piero si asciuga i capelli" = "Piero asciuga i capelli a sé", dove "i capelli" è il complemento oggetto e "si" = "a sé" è il complemento di termine).
·         reciproca: l’azione è compiuta e subita scambievolmente da due soggetti ("Piero e Carlo si salutano" = "Piero saluta Carlo e Carlo saluta Piero").
N.B.: Alcuni verbi hanno una forma pronominale che è simile a quella riflessiva, ma non c’entra affatto: le particelle mi, ti, si, ci, vi fanno parte del verbo stesso. Per esempio, "Piero si pente" non significa "Piero pente se stesso": infatti "pentirsi" è un verbo che ha la forma pronominale.
[2] Gli aggettivi determinativi – Detti  anche aggettivi pronominali, perché sono simili ai rispettivi pronomi, solo che non fanno le veci di un nome, ma lo accompagnano come aggettivo.
Tra gli aggettivi determinativi sono da includere:
·         L’aggettivo possessivo indica a chi appartiene il sostantivo a cui si riferisce. Essi sono: mio, tuo, suo, proprio, nostro, vostro, loro, altrui
Es.: La mia casa, la tua automobile, i suoi libri.
·         Gli aggettivi interrogativi introducono una domanda diretta o indiretta al fine di chiedere indicazioni circa il nome a cui si riferiscono. Essi sono: che, quale, quanto.
·         L’aggettivo correlativo stabilisce un confronto. Essi sono: tale, quale.
Es.: Tale il padre, tale il figlio.
Sono due fratelli. Tali e quali.
·         L’aggettivo dimostrativo (detti anche indicativi o identificativi) determinano vicinanza o lontananza da chi sta parlando o a chi  ascolta (questo, codesto, quello) oppure rapporti di identità (stesso, medesimo, altro ecc.) 
Es.: Questo libro è interessante.
·         Gli aggettivi indefiniti qualificano il nome con una quantità o qualità approssimata o indeterminata. Questi aggettivi indicano una quantità generica: alcuno  (significa nessuna persona e si usa nelle frasi negative) Es.: Non ho incontrato alcuno dei miei amici.
alquanto  (indica una quantità intermedia fra poco e molto) Es.: Marco è alquanto ingrassato.
altrettanto  (indica una quantità uguale a un’altra) Es.: Questo vino è altrettanto buono di quell’altro.
altro  (indica una quantità nuova ma non precisa) Es.: Abbiamo deciso di seguire un altro percorso.
certo  (indica una piccola quantità o una persona che non si conosce) Es.: Ho un certo appetito.
ciascuno  (significa tutti, uno per uno) Es.: Ciascuno dei dipendenti ha ricevuto in regalo un dizionario.
molto  (indica una grande quantità) Es.: La nostra azienda ha investito molto denaro per questo progetto.
diverso  (inserito prima del nome indica una quantità grande, anche se non quanto l’aggettivo molto; inserito dopo il nome significa di altro tipo) Es.: Sandro ha incontrato diverse persone al ricevimento.
nessuno  (indica l’assenza totale di quantità) Es.: Oggi non è venuto nessun amico a trovarmi.
ogni  (significa tutti uno per uno) Es.: Ogni socio ha partecipato all’assemblea di fine anno.
parecchio  (indica una quantità intermedia fra poco e molto) Es.: Per svolgere questo lavoro è necessario parecchio tempo.
poco  (indica una quantità piccola ma imprecisata.) Es.: Lo spettacolo ha avuto poco successo.
qualche  (indica una quantità appena più grande di poco; a volte indica incertezza) Es.: Qualche anno fa eravamo andati in vacanza in Olanda.
quanto  (in correlazione con ‘tanto’ indica una quantità uguale a un’altra) Es.: Giulia ha tanto fascino quanta intelligenza.
tale (preceduto dall’articolo indica una cosa o una persona in modo indeterminato. Preceduto da ‘quello/a’ indica cosa o persona nota) Es.: Mi ha detto che doveva incontrare la tale persona.
taluno  (indica una quantità di persone o di oggetti imprecisata) Es.: Taluni studenti parteciparono alla manifestazione.
tanto (indica una quantità anche più grande di molto) Es.: Possiede tanto denaro.
troppo  (indica una quantità eccessiva) Es.: Ho messo troppo zucchero nel caffè.
tutto  (indica una quantità totale) Es.: Siamo partiti con tutta calma. vario (prima del nome indica una quantità grande, ma meno di quella indicata dall’aggettivo molto; dopo il nome indica diversità) Es.: Per vario tempo non l’ho più incontrato.
Questi aggettivi indicano una qualità generica: qualsiasi  (indica una persona o una cosa generica, senza importanza) Es.: Qualsiasi persona saprà indicarti la strada per arrivare alla stazione. qualunque  (indica una persona o una cosa generica, senza importanza.) Es.: Possiamo andare a trovare mio zio in qualunque momento.
[3] Status sociale - Lo status identifica la posizione di un individuo nei confronti di altri soggetti nell'ambito di una comunità organizzata.
Le norme sociali di attribuzione dello status dipendono dal gruppo sociale e possono essere molto variegate: possesso di beni materiali, posizione lavorativa, cultura, posizioni di potere.
Queste disuguaglianze generano la stratificazione sociale.
Lo status si differenzia dal potere in quanto quest'ultimo consiste nel costringere le persone a fare ciò che non vogliono; quando ad un individuo, invece, viene tributato un particolare rispetto si parla di attribuzione di prestigio o di status.
Si parla di status ascritto quando questo è assegnato in base alle proprie caratteristiche naturali, quali l'età, il sesso, la salute fisica.
Si parla di status acquisito quando una condizione si acquisisce e si modifica nel corso della vita attraverso capacità e volontà personali, ad esempio una persona è un "medico" in quanto laureato in medicina.
Lo status infine si colloca su una dimensione orizzontale della stratificazione sociale, quella delle relazioni tra pari, mentre il potere è indicativo del posizionamento sulla dimensione verticale.
[4] Stratificazione sociale – Per stratificazione sociale si intende la divisione in gruppi generalmente non paritari che avviene all'interno di quasi la totalità delle società, ponendo l'accento sugli elementi strutturali delle disuguaglianze sociali, nei due principali aspetti:
1. distributivo, riguardante l'ammontare delle ricompense materiali e simboliche ottenute dagli individui e dai gruppi di una società,
2. relazionale, che ha invece a che fare con i rapporti di potere esistenti fra loro.
Nel corso dei secoli sono sempre esistiti dei sistemi di stratificazione
La schiavitù è la forma estrema di disuguaglianza, dove delle persone posseggono altre persone. Essa si è manifestata in epoca antica e romana, affievolitasi nel Medioevo, tornò alla ribalta nelle Americhe. Nell’antichità gli schiavi erano impegnati nelle miniere, nell'agricoltura e presso le famiglie con attività anche intellettuali.
Le caste esiste in India da millenni. Tuttavia la loro interpretazione è mutata nel tempo. Oggi, invece le caste sono migliaia, diverse per ampiezza e radicamento locale o nazionale. Le caratteristiche principali delle caste sono tre:
1.       chiusura, infatti si nasce in una casta e si rimane a vita con anche l’obbligo di endogamia interno ad ogni casta.
2.       specializzazione ereditaria infatti ogni casta ha un ruolo sociale preciso e differenziato dalle altre.
3.       purezza infatti le varie caste sono socialmente e fisicamente divise per non essere infettate dalle impurità delle caste minori.
I ceti è una divisione, esistita in Europa fino alla rivoluzione francese, aveva i seguenti elementi distintivi:
1. Gli status ascritti erano accettati come condizione di immobilità sociale;
2. Fra ceti diversi vi erano differenze sociali sia di fatto che di diritto. (Per esempio nobiltà e clero erano esenti dalle tasse)
3. Ogni ceto richiedeva un determinato stile di vita da parte dei suoi membri.
Una classificazione dei ceti venne proposta già nel mondo antico in base alle rendite di ogni ceto attraverso tre cerchi concentrici di persone:
·         i poveri strutturali (che non guadagnavano);
·         i poveri congiunturali (lavoratori occasionali);
·         i poveri non indigenti (con lavoro stabile ma in difficoltà nelle crisi economiche).
Le classi sociali moderne, nate dalla rivoluzione francese, sono caratterizzate dall’eguaglianza di diritto di tutti i suoi membri. A differenza quindi delle società dell’Ancien régime, le classi moderne sono raggruppamenti di fatto, non di diritto.
[5] Dell’Elide, regione della Grecia
[6] Popolo che abitava l’Aonia, una regione montuosa dell'antica Grecia posta in Beozia ai confini con la Focide.
[7] Il Monte Parnaso è una montagna del centro della Grecia, che domina la città di Delfi. Particolarmente venerato durante l'antichità, il Parnaso era consacrato al culto del dio Apollo e alle nove Muse, delle quali era una delle due residenze.
[8] che abitavano nell'antro di Corice ai piedi del monte Parnaso, da cui deriva il loro nome.
[9] Temi è una figura della mitologia greca.
Secondo Esiodo Temi era una titanide, figlia di Urano e Gea, e fu una delle spose di Zeus. Il significato del nome Temi è "irremovibile", e forse per questo motivo questa figura mitologica fu considerata non tanto una dea, quanto la personificazione dell'ordine, della giustizia e del diritto, tanto che si usava invocarla nel momento in cui qualcuno doveva prestare un giuramento.
[10] Tritone è, nella mitologia greca, il figlio di Poseidone il dio del mare e della nereide Anfitrite. Tritone aveva un corno di conchiglia il cui suono calmava le tempeste e annunciava l'arrivo del dio del mare. Tritone veniva raffigurato con la metà superiore umana e quella inferiore a forma di pesce, tutta la pelle era verde.
[11] epiteto greco del dio Apollo: "splendente", "luminoso", "puro"[
[12] Gli dei
[13]  fiume della Beozia, nasce dal monte Parnaso, scorre per 114 km e sfocia nel golfo di Eubea dopo aver alimentato alcuni laghi fra cui il Lago Copaide
[14] La Grande Madre è un'ipotetica divinità femminile primordiale, la cui esistenza è stata teorizzata ma mai dimostrata. Essa sarebbe presente in quasi tutte le mitologie note ed attraverso essa si manifesterebbe la terra, la generatività, il femminile come mediatore tra l'umano e il divino.
Essa attesterebbe l'esistenza di una originaria struttura matrifocale nelle civiltà preistoriche, composte da gruppi di cacciatori-raccoglitori.
[15] Pirra, figlia di Epimèteo
[16] Il sole
[17] Etere. cielo
[18] Penèo (Πηνειός), dio fluviale della mitologia greca, dà origine al nome dell'omonimo fiume della Tessaglia. Figlio di Oceano e Teti.