Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

sabato 24 settembre 2011

letteratura contemporanea di Massimo Capuozzo

Letteratura dell’età del realismo - La crisi della letteratura e dell’arte romantica maturò prima nelle cerchie più ristrette degli intellettuali che sentirono l’inadeguatezza e la stanchezza di schemi, temi e linguaggio divenuti or­mai tradizionali e iniziarono quelle speri­mentazioni che solo verso la fine del seco­lo ebbero, a loro volta, una larga diffusione e crearono un nuovo gusto.
Quasi a simbo­leggiare il rinnovamento in atto, nel 1857 a Parigi furono stampati due libri che segna­rono l’inizio di nuovi percorsi culturali e letterari Madame Bovary di Gustave Flaubert e I fiori del male di Charles Baudelaire. Entrambi possono essere conside­rati, nei campi rispettivamente del roman­zo e della poesia, le opere da cui prese il via un nuovo modo di scrivere, di concepire l’arte e il ruolo dello scrittore. Madame Bo­vary si segnala immediatamente per il suo carattere antiromantico, sia per il contenu­to smitizzante nei confronti degli ideali e del gusto di quella cultura, sia per la for­mula narrativa, incentrata sulla scompar­sa dello scrittore-narratore, sia per il reali­smo dello stile e l’oggettività scientifica dell’indagine psicologica. Con scelte del tutto differenti Baudelaire mostrò le po­tenzialità espressive di una poesia che, at­traverso un linguaggio fortemente simbo­lico, metteva a nudo i tormenti, le ambi­guità, le esaltazioni dell’individuo.
La lezione di Baudelaire fu recepita prima in Francia e in seguito in tutta Europa e produsse l’effetto di sospin­gere i poeti verso un tipo di ricerca espres­siva dai forti contenuti intellettualistici, caratterizzata da una raffinatezza stilisti­ca che spesso coincise con il difficile e l’o­scuro. Questo fece della poesia una forma di lettura d’elite, esclusa a un pubblico di massa, e diede inizio, anche sotto questo aspetto del consumo, alla poesia moderna destinata a una circolazione quanto mai ristretta. Al contrario il romanzo veniva a contatto con un pubblico sempre più lar­go ed eterogeneo e conservava una fun­zione di mediatore di idee e di ideologie; in questo ampliamento del circuito delle opere narrative si inserivano le scelte del­l’industria editoriale.
Un’altra differenza tra le sorti della ormai nata poesia moderna e il ro­manzo è legata al diverso modo con cui le due forme letterarie entrarono in rap­porto con le tendenze del pensiero e della cultura. Mentre il percorso della poesia, che ebbe il momento di maggior identifi­cazione nel simbolismo, avvenne all’interno degli addetti ai lavori, la narrativa si sviluppò in un organico rapporto con le correnti culturali. È significativo, ad esempio, che nel periodo in cui il Positivi­smo acquistò il peso di cultura egemone si sia sviluppato il Naturalismo, che cerca­va di unire arte e metodo scientifico per una rappresentazione scientifica della realtà. Dall’ultimo decennio del secolo, la crisi della visione del mondo di matrice positivista provocò anche quella del Naturalismo: si svilupparono allora, nel clima di sfiducia nella scienza e di riaf­fermazione della priorità dell’arte, caratteristico della fine del secolo, esperienze narrative ispirate ad un atteggiamento cul­turale che si può definire estetismo.

Dopo l’unità: dagli eroici furori all’integrazione borghese
Al clima di entusiasmo e di tensione morale degli anni eroici del Risorgimento subentra, dopo l’unità, uno stato d’animo diffuso di incertezza e di delusione. All’integrazione politica della penisola non si è accompagnato il formarsi di quella nazione unita, solidale, armo­niosa che l’ingenuo - o interessato - interclassimo risorgimentale aveva vaticinato. Vengono ben presto alla luce stridenti disugua­glianze e divisioni fra le classi e fra regione e regione - in special modo fra Nord e Sud. Il nuovo Stato anziché sanarle le consolida e le accresce, scaricando sulle classi e le regioni più deboli i costi della sua politica finanziaria di risanamento e di sviluppo e dando al potere una struttura centralizzata e verticista a tutto vantaggio del blocco sociale dominante: si estende a tutto il regno la legge elettorale piemontese, consentendo cosi il diritto di voto a 500 mila elettori su una popola­zione di 20 milioni di abitanti; si scarta la proposta del decentramento regionale a vantaggio di una struttura amministrativa rigidamente unitaria, si avvia il risanamento del debito pubblico con l’esazione di pesantissime tasse indirette che «spreme tutto ciò che può essere spremuto dai ceti popolari», si falcidia con il libero scambio (fino al 1878) la debole industria meridionale. «Lo Stato italiano nasceva così con una forte impronta burocratica e censitaria e alla grande maggioranza dei suoi nuovi cittadini esso appariva impersonato dall’agente delle tasse e nella coscrizione militare obbligatoria. Di qui la sua rapida impopolarità, tanto più acuta quanto più grandi erano le speranze suscitate dal generale rivolgimento politico avvenuto» (G. Procacci).
In questo nuovo quadro la posizione del ceto dei letterati muta sensibilmente. Viene loro a mancare, anzitutto, quella funzione di iniziativa e di guida che essi avevano svolto negli anni del Risorgimento. Ora che non c’è più da incitare la balda gioventù borghese a imprese coraggiose essi perdono molta della loro importanza, rima­nendo esclusi dalla coalizione sociale di potere che le altre «avanguar­die risorgimentali» formano attorno alla dinastia sabauda. La rea­zione dei letterati si muove confusamente in varie direzioni. Si tenta di prolungare il clima battagliero degli anni precedenti sostenendo il garibaldinismo del partito d’azione e agitando la questione delle terre irredente e di Roma capitale; si rimprovera acerbamente alla classe dirigente la sua tendenza al compromesso, alla manovra poli­tica, la sua attenzione quasi esclusiva all’amministrazione; si denuncia con spirito populistico che per le masse popolari l’unificazione poli­tica non ha recato alcun vantaggio. Carducci, nella sua fase repubbli­cana e populista, sfiora accenti addirittura marxiani:
«... E pur non fai
tu leggi, o plebe, e, diradato gregge,
patria non hai».
A Milano, poi, con la Scapigliatura, emerge un tipo di contesta­zione più inquietante e radicale. Nella «capitale economica» d’Italia, che ha già i tratti di una grande moderna metropoli, dove un ceto medio urbano si fa più spesso e s’avvia una netta polarizzazione fra un’aggressiva borghesia imprenditoriale e un emergente proletariato industriale, un gruppetto di giovani bohémien è il primo ad avvertire che i letterati non solo hanno perso l’iniziativa politica e la leadership ideologica sulla vita nazionale, ma che si sta avviando un divorzio profondo fra società borghese e intellettuali. C’è già l’accenno di una rottura della solidarietà di classe, la coscienza di uno sradicamento sociale. Gli scapigliati, scrive Cletto Arrighi nel 1862, «meritano di essere inclusi in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia sociale». Essi si ispirano a Baudelaire e ai maudit francesi, testimoni smarriti e acuti del nuovo mondo urbano e industrializzato; si sentono idealmente legati con gli altri gruppi affini che si trovano, dice Arrighi, «in tutte le grandi città e ricche del mondo incivilito» e avvertono di essere «più avanti del loro tempo».
In effetti il movimento scapigliato precorre sviluppi sociali non ancora maturati in Italia. Dopo i burrascosi anni sessanta, la contesta­zione intellettuale si smorza alquanto. Anche se non si sente del tutto integrato e organico, il letterato avverte che l’Italietta è pur sempre un’Italia definitivamente dominata dalla classe borghese, quella stessa da cui provengono oramai indistintamente tutti gli ope­ratori di cultura. Borghese è il pubblico che con l’urbanizzazione e lo sviluppo dell’istruzione (dalla legge Casati alla legge Coppino) si accresce sensibilmente. Borghesi sono i committenti, cioè, indiretta­mente, il pubblico stesso e direttamente un’industria editoriale vivace, pronta a trarre profitto dalla crescente domanda di beni culturali. Cresce il numero degli scrittori che riescono a vivere del provento dei loro libri: molti sono quelli che hanno la possibilità di trovar lavoro come insegnanti, giornalisti, collaboratori editoriali. Perciò, sebbene un po’ sminuito, il letterato si sente a casa sua nell’Italia nuova, tanto più quando, con l’avvento della sinistra nel 1876, si allarga l’ambito del blocco sociale dominante fino a includere le fasce di media borghesia a cui il ceto intellettuale è più legato. Naturalmente esistono differenze anche marcate fra quei letterati che ripiegano più decisamente su posizioni di schietto conservatorismo, timorosi delle prime consi­stenti manifestazioni di protesta sociale e coloro che, interpreti della borghesia più radicale e avanzata, insistono nella critica delle ingiusti­zie sociali del sistema. Nessuno tuttavia mette in discussione le basi del sistema stesso, borghese e nazionale, e tutti partecipano con convinzione di un medesimo clima culturale: quello che ha la sua base filosofica nel trionfante scientismo e positivismo europei ed esprime la sicurezza e l’ottimismo di una borghesia convinta che la scienza e la tecnica assicureranno un illimitato progresso economico al mondo e ad essa una inattaccabile supremazia sociale.
Dal punto di vista letterario questa cultura si traduce sia nella «rinascita di quel classicismo illuminista e giacobino che non aveva mai accettato la sconfitta di fronte al romanticismo e al manzonismo» (A. Asor Rosa), patriotticamente geloso della tradizione culturale italiana, che ha la sua roccaforte nell’Emilia e nella sua «fedeltà gelosa alla tradizione formale, che è tipica della civiltà letteraria della regione» (Sapegno) ed in Carducci il suo più autorevole esponente; sia in quella tendenza al naturalismo, che raccoglie l’esortazione di De Sanctis a volgersi al reale e non ha esitazioni ad accettare una poetica straniera e a proseguire l’operazione di superamento della tradizione classicistica operata dall’illuminismo e dal romanticismo. Da questa seconda tendenza emergeranno gli spunti più critici sulla società borghese, in nome di un populismo piuttosto paternalistico ma sincero. Con il realismo generico e con il verismo la letteratura riscopre il carattere policentrico regionale della società italiana. Natu­ralmente il potere politico unitario spinge decisamente verso l’inte­grazione culturale e linguistica: scuola, servizio militare, amministra­zione pubblica centralizzata stimolano la lenta diffusione di una lingua comune parlata (l’obiettivo fallito della «strategia culturale» di Manzoni che con i Promessi sposi contava di insegnare a parlare italiano a tutti gli italiani). Ma è un processo lento. Frattanto i veristi, nell’atto di ricostruire scrupolosamente il milieu secondo i precetti della poetica naturalista, scoprono che l’uso di una lingua nazionale - manzoniana o purista - suona irrimediabilmente falso. Da ciò una reviviscenza della letteratura dialettale oppure, come per Verga, l’af­fermarsi di una «lingua... tramata di espressioni, vocaboli, costrutti, propri del dialetto» (G. Petronio).
Giova qui sottolineare il fatto un po’ paradossale che la letteratura italiana non è mai forse stata tanto regionalista come dopo il compimento dell’unità politica. Ciò si spiega non soltanto con la voga del verismo, ma anche e soprattutto con il fatto che per la prima volta nella storia della penisola i letterati italiani si sentono sollevati dal compito di dover rappresentare la coscienza unitaria della patria italiana. L’unità c’è già, è nelle cose: è l’amministrazione regia e l’esercito, il disavanzo pubblico e l’impo­sta sul macinato, le ferrovie e la Triplice. I letterati possono smettere di rappresentare una patria fantomatica, parlando a suo nome in una lingua morta e possono invece abbandonarsi, dopo secoli, al gusto di rappresentare la realtà ossia, nella fattispecie, il mondo sociale circostante. Nella maggior parte della letteratura realista e verista, di tale mondo sono rappresentati gli strati piccolo-borghesi e quelli popolari della provincia italiana. Mentre i primi sono descritti molto impietosamente verso i secondi si dispiega una vena populista mirante a idealizzare il popolo come depositario di sani sentimenti ed istinti. In suo nome la critica alla società borghese si fa, spesso, dura, acerba, appassionata. Ma non si rinuncia a vedere il riscatto delle classi subalterne in funzione dell’ideale patriottico, come mezzo cioè di una vera unità nazionale, col risultato di rendere inevitabile che «la visione di concordia nazionale offerta ai ceti subalterni come meta del loro riscatto si risolvesse in puro strumentalismo da parte borghese. Da questo miscuglio di contestazione e di compromesso, di denuncia e di mistificazione escono risultati letterari mediocri. Fa eccezione la grande arte di Verga che si accosta al popolo non in modo ambiguo e ideologico, per consolare e promettere, ma con fermo pessimismo, per capire e conoscere: «proprio il rifiuto della speranza populista e delle suggestioni socialiste porta lo scrittore siciliano alla rappresentazione più convincente che del mondo popolare sia stata data in Italia durante l’Ottocento» (A. Asor Rosa).

La Scapigliatura
a) Il nome e la collocazione topografico-cronologica - La Scapigliatura, movimento il cui nome traduce il senso del termine francese bohème, è un movimento che si sviluppò a Milano, fra il 1860 e il 1890, cioè durante i primi trent’anni dell’Italia unita.

b) La Scapigliatura come reazione antiborghese - Gli Scapigliati, che pur appartengono per nascita all’ambiente borghese, si sentono e si dichiarano al di fuori della società borghese quale si è andata consolidando dopo il ‘60, con la raggiunta unità d’Italia. La borghesia infatti, messi ormai da parte gli ideali e le passioni risorgimentali che pu­re l’avevano animata negli anni del riscatto, mirava ora - e particolarmente a Milano, dove si stava diffondendosi l’industrializzazione - all’espansione economica, e face­va del successo economico il suo metro di valutazione e di giudizio. La sicurezza nella bontà dei propri principi, che è tipica di ogni classe che detenga il potere in modo indi­scusso, la rendeva inoltre avversa a tutto ciò che, rappresentando una trasformazione, minacciava la sua sicurezza.
In questo clima si inserisce la rivolta degli Scapigliati, che diventano gli accusatori di una società dedita al «dio metallo», cioè all’avida conquista del denaro, insensibile ai valori dell’arte, ipocritamente decisa a ignorare gli aspetti turpi e squallidi che pure nel­la realtà esistono. Parallelamente, essi rifiutano, nella vita concreta, l’ordine e gli agi di quella classe borghese cui appartengono per nascita e vivono polemicamente in modo disordinato e anomalo, dediti come sono, spesso, all’alcool e alla droga.

c) Il «realismo» degli Scapigliati - In letteratura, gli Scapigliati si autodefiniscono dei realisti. Ma il loro realismo ha un carattere del tutto particolare, protestatario ed ever­sivo. Non si propongono, cioè, una interpretazione ed una rappresentazione della realtà in tutti i suoi aspetti, ma vogliono soltanto denunciarne i risvolti turpi, abnormi, quei ri­svolti che la società dei benpensanti cancellava dalla propria attenzione. Sono quindi i cantori, fondamentalmente anarchici, dell’orrendo, del macabro, delle contraddizio­ni irrisolte, delle verità squallide che stanno al di sotto delle confortevoli apparenze.
Al Romanticismo, il grande movimento letterario che lì aveva preceduti, e allo stesso Manzoni gli Scapigliati furono avversi, anche se sentirono l’influsso di alcuni scrittori romantici stranieri.

d) L’influenza di Baudelaire - Recepirono invece, almeno embrionalmente, la lezione del decadentismo, il movimento che andava affermandosi in Francia, e soprattutto la lezio­ne di Baudelaire dal quale derivarono temi e tecniche innovatrici. L’opera maggiore di Baudelaire, I fiori del male, uscita nel 1857, diventò il loro breviario poetico. Fra gli scrittori scapigliati ricordiamo Emilio Praga, Arrigo Boito, Iginio Ugo Tarchetti, Giovanni Camerana, milanese dì nascita il primo, gravitanti tutti sull’area mila­nese gli altri o perché avevano fatto di Milano la loro città di adozione, o perché met­tevano capo culturalmente all’ambiente milanese.

Giosuè Carducci - Nessun poeta ebbe la fama di Giosuè Carducci, il più noto letterato di fine Ottocento, artefice di una reazione al Romanticismo, ma nella direzione di un recupero del Classicismo[1]. Egli fu il primo italiano a ricevere il premio Nobel per la letteratura nel 1906.

La vita – Figlio di un medico condotto affiliato alla carboneria, Carducci nacque a Valdicastello, Lucca, presso Pietrasanta nel 1835, trascorse l'infanzia in Versilia e in Maremma, il cui passaggio fece rivivere in tante sue poesie; adolescente si recò con la famiglia a Firenze e a Pisa laureandosi in lettere con una tesi sulla poesia cavalleresca nel 1856, insegnò in un ginnasio, esperienza, questa, che sarebbe confluita nelle autobiografiche Risorse di San Miniato nel 1863.
Il suo interesse per la filosofia lo indusse a fondare, nel 1859, la rivista Il Poliziano, che tuttavia ebbe vita breve. All’insegnamento, dal quale era stato sospeso per tre anni a causa delle sue idee filorepubblicane, tornò a dedicarsi tra il 1860 e il 1904, quando, su nomina del ministro Terenzio Mamiani, fu titolare della cattedra di letteratura italiana nell'Università di Bologna, cattedra che tenne fin quasi alla morte, facendo fiorire intorno a sé una «scuola» numerosa e seria. In politica combatté il papato e la monarchia, ma a questa si riavvicinò verso la fine degli anni ’70 e, in seguito, nominato senatore nel 1890, si schierò con il governo conservatore di Francesco Crispi. Carducci morì a Bologna nel 1907.

Le opere - La sua vasta produzione poetica costituisce le raccolte:
  • Juvenilia (1850-1857) e Levia Gravia (1857-1870) esprimono le concezioni laiche e repubblicane di Carducci, e costituiscono un complesso apprendistato poetico, in cui egli sperimentò molte forme della tradizione lirica italiana.  
  • Giambi ed epodi (1882), che comprendeva componimenti già pubblicati nella raccolta Poesie (1871), prevalsero i tomi polemici.
  • Rime nuove (1861-1887) sono probabilmente la raccolta migliore, quella in cui Carducci seppe alternare con maggiore ricchezza l’ispirazione intima e privata alla poesia storica e politica. Questo doppio registro caratterizza anche, sia pure con minore felicità espressiva, l’ultima raccolta di versi, Rime e ritmi (1898).
  • Odi barbare (1877-1893) cercano di riprodurre in versi italiani i metri della lirica greco-latina (vedi Metrica barbara)
  • Rime e ritmi (1898)
 Carducci fu anche autore di scritti in prosa di tono lirico-autobiografico e fu inoltre critico, orato­re, polemista.
Grande influenza ebbe il magistero carducciano nel campo della critica. Suoi allievi furono Giovanni Pascoli, Severino Ferrari, Renato Serra, Manara Valgimigli, e, se la sua lezione si iscrive entro i confini storici del positivismo, l’attenzione ai valori testuali evidente negli studi su Petrarca, Poliziano, Parino fa di Carducci un precursore della critica stilistica. Lo sterminato, vivace ed estroso epistolario, contribuì a rendere meno paludata la figura di un poeta stretto nella propria ufficialità.

La poetica
a) Il ritorno al mondo classico — Con Carducci assistiamo a un ritorno dell'ispirazione poetica al mondo classico, ritorno che non è solo di Carducci, né solo italiano, ma anche di altre letterature europee. Si tratta sostanzialmente di un nuovo neoclassicismo che, per distinguerlo da quello dell'età napoleonica, è stato chiamato neoclassicismo del Secondo Impero[2].
L'atteggiamento costante di Car­ducci rispetto al mondo classico è la nostalgia, il rimpianto di un ideale di vita sana e virtuosa, che rendeva possibile l'impresa eroica, in contrapposizione alla società moderna in cui tutto si riduce a interessi meschini e azioni vili.
Sul presente Carducci dà il meglio di sé, soprattutto nelle prime raccolte, dove erompe un'aggressività violenta, che si concreta in irrisioni sarcastiche, vituperi beffardi, con quadri di un espressionismo grottesco d'icastica efficacia. Nella satira del presente, nell'ottica del necessa­rio intervento sull'attualità, Carducci attacca avversari, stigmatizza storture del mondo politico e sociale, bolla comportamenti falsi e disonesti, svergogna personalità di rilievo della storia contemporanea.
L'età greco-romana rappresenta invece per Carducci il periodo in cui l'uomo è stato più vigoroso e saldo, impegnato nella concretezza del lavoro quotidiano, cosciente dei suoi doveri civili, alieno da quelle inquietudini e turbamenti interiori che caratterizzano l'uomo del suo tempo. Nella lirica, Alle fonti del Clitumno, l'età classica gli si confi­gura come una vigorosa quercia saldamente radicata nel terreno, mentre l'età moderna gli richiama l'immagine del salice piangente.
b) Il poeta vate — La funzione essenziale del poeta, secondo Carducci, è quella di partecipare all'impegno civile del suo popolo e di concorrere a suscitarlo: di essere cioè poeta-vate.
Nella lirica Congedo, il poeta è rappresentato come un grande artiere, cioè un vigoroso artigiano, che affronta quotidianamente la fatica del maglio e dell'in­cudine e che, dai metalli che fondono nel fuoco della sua fucina, trae gli oggetti neces­sari alla vita privata e pubblica. Fuor di metafora, poeta è colui che sottopone la sua ispirazione al faticoso impegno di elaborazione espressiva e formale e che mette la sua poe­sia al servizio del suo popolo.
Carducci crede nel compito morale della letteratura, nella capacità della parola poetica di ammonire ed esortare, di emettere giudizi netti e sicuri su buoni e cattivi, di incidere sulla realtà; tuttavia questa poetica non produce frutti convincenti sia per l'intrinseca debolezza ideologica, sia per la sconcertante metamorfosi dello stesso Carducci, che da propugnatore di ideali repubblicani e democratici (si pensi all'esaltazione del progresso nell’Inno a Satana in Levia Gravia), si adagia poi nel ruolo di acclamato vate della nazione e della monarchia, da cui la lunga serie di composizioni celebrative di gusto oleografico, con rievocazione della romanità, delle leggende medie­vali, delle gesta e dei martiri risorgimentali (si ricordi Piemonte di Rime e ritmi, costruito teatralmente sull'abile mescolamento di paesaggio scenografico e apparizioni storiche).
c) Carducci, poeta della storia — Come tale è stato definito e celebrato dai contempora­nei, e la definizione è giustificata dal fatto che vicende e periodi storici offrirono spes­so argomento alla sua poesia.
Innanzitutto c’è l'età greco-romana che Carducci considerò l'età del vigore e della forza, le cui vestigia giganteggiano, ancor oggi, fra gli uomini moder­ni.
Del Medio Evo, deplorandone gli eccessi ascetici, esaltò invece la civiltà comunale, nella quale il popolo gli appariva protagonista ed arbitro della propria storia. Per la stessa ragione, e cioè perché anche in essa vide il popolo gestore della propria storia, celebrò la Rivoluzione francese nei dodici sonetti del Ça ira (Andrà, andrà bene, parole che sono l'inizio di un famoso canto rivoluzionario).
Ma con particolare passione, la poesia carducciana riflette gli eventi della storia italia­na contemporanea, del Risorgimento, la cui epopea il poeta giudicò culminata nel 1848, l'«anno dei portenti», la «primavera della patria», e di cui deplorò la insoddisfacente conclusione, i patteggiamenti, i compromessi, la mediocre gestione politica che l'ac­compagnarono e la seguirono.
d) L'altro Carducci — Se dai contemporanei furono ammirate soprattutto le liriche di ispirazione storica, più vicine al gusto moderno è invece un Carducci allora considerato minore: è il poeta degli affetti intimi, della provincia maremmana, delle rare inquietudini e delle malinconie virilmente contenute dal suo temperamento concreto e fattivo.
Anche nella trattazione degli affetti rispunta il classicismo: qui prevale l'idillio, con il sogno del ritorno indietro nel paesaggio toscano dell'infanzia, trasfi­gurato nella memoria e sospirato nell'immaginazione come luogo di solitudine e di pace, che rimuove gli affanni dell'esistenza.
Il paesaggio della Maremma, dove trascorse libera e selvaggia l'infanzia e l'adolescenza, è strettamente legato agli affetti d'allora, ma anche ai sentimenti e alle memo­rie dell'uomo maturo: nonna Lucia e la sua fiaba, i giochi infantili sotto i cipressi di Bolgheri in Davanti San Guido; la madre e il fratello bambino in una mattinata calda e fiorita di primavera in Sogno d'estate; la pausa di pace che ancora gli concede il paesag­gio maremmano, quando fugacemente vi ritorna in Traversando la Maremma toscana. E accanto ai sentimenti legati a quel lontano ambiente, le pene e i momenti sereni del presente: il figlio morto in Funere mersit acerbo e le giovani figlie che per casa cuciono e cantano in Sogno d'estate.
Così anche nella descrizione del rapporto amoroso il poeta si discosta raramente dagli schemi canonici della tradizione classicistica, dove la bellezza della donna è vagheggiata in appropriate formule di decoro e di eleganza e il sentimento si sublima in effusioni controllate.
Nelle ultime raccolte, poi, s'insinua una componente lugubre, dove la morte si accampa come pauroso annientamento totale, senza barlumi di conforto, con accenti amari e dolenti, in indiretta smentita della sbandierata fede nelle proprie certezze, sintomo di una visione del mondo più insicura e angosciata.

L’estetica naturalista - Il grande prestigio che il pensiero scientifico acquistò nel corso del secondo Ottocento si fece sentire anche nel cam­po letterario. In particolare i narratori avvertirono l’impor­tanza di accordare il processo creativo sul modello del metodo della ricerca scientifica, giungendo alla formulazione di alcuni criteri generali:
·         il narratore non deve inventare una storia più o meno interes­sante, ma rappresentare la vera vita dell’individuo e della società;
·         la narrazione si qualifica come studio di un fenomeno di cui si in­dicano le cause, così che l’arte si risolve, in ultima analisi, in un processo di conoscenza;
·         muta il rapporto tra narratore e opera, nel senso che l’autore è necessariamente portato a far parlare i fatti più che a darne una spiegazione attraverso interventi diretti nella narrazione;
·         l’espressione dei sentimenti si trasforma in spiegazione dei sen­timenti, sfruttando a tal fine ciò che in quel periodo veniva sco­perto nell’ambito della fisiologia.
Tutte queste istanze, presenti nella narrativa francese che si disse naturalista, vennero ordinate in una teoria del ro­manzo da Emile Zola, il quale tra il 1868 e il 1893 si impegnò nella scrittura di una ventina di romanzi del ciclo dei Rougon-Macquart che, secondo l’indicazione dello stesso autore, è fa «sto­ria naturale e sociale di una famiglia sotto il secondo impero».
Zola espresse le sue idee sul romanzo in uno scritto teorico che eb­be grande rilievo e che fu anche in Italia al centro dell’attenzione. Il titolo dell’opera, Il romanzo sperimentale, annuncia già la tesi di fondo: il romanziere è come lo sperimentatore scientifico, non si limita ad osservare, ma deve scegliere l’argomento, collocare i personaggi in situazioni determinate, studiarne, secondo l’espe­rienza, le reazioni, farli agire secondo la loro indole. In questo mo­do egli può rendere chiari i meccanismi dei comportamenti uma­ni e creare in laboratorio una scienza umana che sia in grado di guarire la società dai suoi mali. Egli indica pertanto nel Naturali­smo un metodo e non una scuola, e quindi non rivolge la sua at­tenzione ai problemi di stile; si limita a dire che la lingua deve es­sere omogenea all’ambiente rappresentato e che il romanziere-sperimentatore non deve in alcun caso comparire all’interno dell’opera.

L’Italia dei veristi e il regionalismo - Il Verismo nasce in Italia intorno al 1870, sulla scia di certa narrativa inglese e russa e soprattutto del naturalismo francese. Fu Luigi Capuana lo scrittore e critico che diffuse in Italia i princìpi del naturalismo francese e pose i presupposti teo­rici e pratici del verismo. Capuana attenua alcuni aspetti delle tesi di Zola, in particolare l’identificazione tra scrittore e speri­mentatore scientifico e imita il carattere di denuncia del roman­zo.
Contemporaneamente rivolge un’attenzione particolare ai problemi della forma, che ritiene centrali, e individua il caratte­re precipuo del romanzo naturalista proprio in un aspetto costitutivo della forma del romanzo, vale a dire nel concetto di imper­sonalità e di scomparsa dell’autore. Secondo la sua teorizzazione, il romanzo verista dovrebbe essere in grado di ritrarre ogni realtà sociale, non solo la vita semplice e schematizzabile delle classi in­feriori, ma anche la vita complessa, soprattutto a livello psicolo­gico, della borghesia, adeguando ogni volta lo stile e il linguag­gio al contenuto.
La realtà del proprio tempo, che essi vogliono ritrarre in presa diretta, costituisce abitualmente e programmaticamente la materia dei veristi. Ma in essa il loro interesse si rivolge non già alle classi egemoni, ma ai ceti poveri e frustrati, soprattutto a quel quarto stato che era rimasto ai margini del moto risorgimentale, non educato a parteci­parvi, e a cui l’unità d’Italia aveva recato più disagi che vantaggi, aggiungendo nuove imposizioni (tasse, leva militare obbligatoria) alle vessazioni antiche.
Poiché mancava all’Italia, dove l’industrializzazione era ancora agli inizi, quel prole­tariato operaio delle grandi città che in Francia offre materia ai romanzi di Zola, il mondo che essi ritraggono è quello dei ceti subalterni delle varie regioni italiane, che sono poi le loro regioni d’origine e che essi più profondamente conoscono: i vaccari e i mandriani della Toscana in Fucini, i pescatori, i pastori, i contadini siciliani in Verga e in Capuana.
Di qui il carattere regionalistico che connota il verismo, e che corrisponde alla reale fisionomia del nostro Paese, dove nonostante la raggiunta unità ogni regione ave­va continuato a mantenere le sue caratteristiche specifiche e diversificanti.

Le tecniche narrative del verismo - Come i naturalisti francesi, anche i veristi italiani sostengono il principio che lo scrittore deve essere distaccato e obiettivo nei confronti della materia che rappresenta e non deve interferire in essa né col suo giudizio né con la sua sensibilità. «La mano dell’artista» - scrive Verga nella prefazione a una sua novella, L’amante di Gramigna - deve rimanere «assolutamente invisibile», così che l’opera d’arte sembri «essersi fatta da sé, esser sorta ed esser maturata spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore».
Per aderire al reale e per adeguarsi alla «verità» della materia rappresentata, anche la lingua che i personaggi parlano dovrà mantenere caratteri regionali.

Storia del romanzo: il secondo Ottocento - La seconda metà dell’Ottocento, in Italia, come nel resto dell’occidente, è il mo­mento del trionfo della narrativa. Il pubblico della letteratura è in maggio­ranza composto da lettori di opere narrative come novelle e romanzi e, con la diminuzione dell’analfabetismo, buona parte delle masse capaci di leggere entra in contatto con le idee e i problemi del momento attraverso le pagine dei narratori.
Ciò che più colpisce della produzione narrativa di questo periodo è la varietà,  difficilmente ricondurre a filoni o categorie, anche perché accanto al­le tendenze e alle scuole che si sviluppano in questo periodo, bisogna tener conto del distribuirsi del­la produzione su diversi livelli verticali.
Un fenomeno di carattere generale è il convergere dell’attenzione sulle tema­tiche sociali, la scelta di raccontare il presente, di rappresen­tare un ambiente, secondo un atteggiamento nuovo che po­tremmo chiamare realismo descrittivo.
Con la diffusione del realismo, le novelle naturaliste e veriste, la narrazio­ne diventa specchio ed interpretazione della realtà, con l’esplicito intento di riprodurre tranches de vie (scorci di vita) borghesi, popolari e contadini. L’intento dell’autore è quello di rispecchiare la realtà per rendere palesi le ingiustizie sociali, mettere in discussione i luoghi comuni, svelare le incongruenze del reale e le contraddizioni dell’individuo. Tali testi rappresentano, dunque, un impietoso spaccato di vita sociale da ritrarre in modo oggettivo ed impassibile: di qui il principio di impersonalità dello scrittore e dell’ope­ra, anche se non mancano spunti di analisi psicologica. In altri testi la narrazione è più attenta a cogliere le minime sfu­mature dell’animo, privilegiando moduli di analisi psicologica e ponendo in secondo piano l’intreccio e l’azione.
Il secondo Ottocento vi­de anche una ricchissima produzione di novelle: non esiste romanziere che non si sia cimentato anche nel genere narrativo di minore dimensione, spesso utilizzandolo come «labo­ratorio sperimentale» per trovare nuovi linguaggi e nuove soluzioni narrative.
Nell’ultimo decennio del secolo cominciò la crisi del verismo, la letteratura italiana visse un’epoca di profonda crisi della narrativa, la cui tradizione, già debole per motivi storici, venne ulteriormente compromessa dalle scelte antinarrative della letteratura decadente.
Ciò nonostante, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, sempre maggiori furono le influenze delle grandi letterature europee e dei grandi autori d’avanguardia.
Per orientarsi in un quadro caratterizza­to dalla pluralità e dalla varietà, si prova a schematizzare la produzione narrativa:
·         narrativa scapigliata fu un’esperienza sviluppatasi soprattutto a Milano a partire dagli anni Sessanta a opera di un gruppo di intellettuali (i fratelli Camillo e Arrigo Boito, Ugo Tarchetti, Emilio Praga) in polemica con l’attardata cultura romantica e con il modello del romanzo manzoniano; ad essa si affianca la scapigliatura piemontese (Giovanni Faldella, Giovanni Camerana). Questi autori, accomunati dalla ricerca della novità sia tematica che formale, sperimentarono strade fra loro diverse. Introdussero il fantastico, l’onirico, la satira d’ambiente, il divertimento ironico, prediligendo forme narrative inusitate come il romanzo breve e la novella lunga.
·         narrativa verista è il filone più importante della seconda metà del secolo. Al modello del naturalismo di Zola si rifece il verismo italiano, teorizzato da Luigi Capuana, che ebbe nei romanzi I Malavoglia (1881) e Mastro don Gesualdo (1889) e nelle novelle Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883) di Giovanni Verga le sue opere maggiori distin­te da tutte le altre per la qualità artistica e per la coerenza delle scelte; vanno comunque segnalati anche i nomi di Lui­gi Capuana, Federico De Roberto.
·         narrativa d’ispirazione genericamente realista fu legata a molti autori di fine Ottocento che, pur non seguendo un metodo rigoroso come quello dei veristi, si richiamarono ad una solida tendenza realistica ritraendo nei loro romanzi e nelle loro novelle le realtà socio-culturali della regione cui appartengono. Ad esempio gli aspetti sociali del capitalismo nascente si riflettono negli scrittori d’area piemontese Gerolamo Rovetta ed Emilio De Marchi, mentre i romanzieri toscani come Rena­to Fucini e Mario Pratesi sono soprattutto attenti al mondo contadino e ai problemi della mezzadria colti in una fase di trasformazione sociale ed economica. Diversa ancora la narrativa degli scrittori dell’area napoletana (Matilde Serao ed Edoardo Scarfoglio) per i quali lo scenario naturale è Napoli, la grande metropoli meridionale, caratterizzata da una si­tuazione particolare per la presenza di una cultura popolare di grandi tradizioni. È una realtà di miseria e di degrado.
·         romanzo d’appendice è propriamente quel romanzo che, a cavallo fra Otto e Novecento, veniva pubblicato a puntate sui giornali, solitamente nella parte inferiore della pagina dove occupava lo spazio rimasto libero dopo l’impaginazione de­gli articoli. L’espressione che nacque per indicare un dato oggettivo più tardi venne a coincidere con una defini­zione di valori e di qualità per distinguere una forma narra­tiva con una distinta fisionomia e una qualità minore. Il ro­manzo d’appendice che si rivolge a un pubblico popolare, non proponeva nuove invenzioni narrative ma temi, perso­naggi, schemi già collaudati. Tra gli autori di maggior suc­cesso Carolina Invernizio, Neera, Francesco Mastriani.
·         bisogna, infine, ricordare alcuni scrittori che non rientrano nelle tendenze elencate:
  1. Le voci di un’Italia bambina: Cuore e Pinocchio. Due romanzi che raggiunsero il maggior successo di pubblico furono due libri per l’infanzia: Cuore di De Amìcis che raggiunse un vastissimo pubblico e Pinocchio di Carlo Collodi, il libro più letto di tutto il secondo Ottocento. Cuore di Edmondo De Amìcis si colloca in un momento cruciale della storia italiana, quando la nazione appena nata stava ancora cercando principi comuni in cui identificarsi. Gli alunni del maestro Perboni rappresentano un inventario di modelli ideali del futuro cittadino perfetto, ad uso e consumo dei piccoli italiani: nella prospettiva risorgimentale di De Amicis, il bambino è visto come adulto in miniatura, già impegnato con i propri minuscoli mezzi nell’eterna lotta tra il bene e il male. Nulla è lasciato alla fantasia, all’illogicità magica e ammaliante propria della visione infantile. Anche Le avventure di Pinocchio di Collodi sembra sostenersi su un progetto di tipo pedagogico. La celebre favola mette in scena la trasformazione di un burattino in bambino vero, metafora del passaggio dall’età informe e irrazionale dell’infanzia al tempo regolato e maturo dell’età adulta. Eppure, se il capolavoro di Collodi è ancora attuale, è perché Pinocchio, con la sua credulità, la furbizia disinteressata, la pigrizia e gli slanci di affetto, rappresenta in modo geniale il mondo di ogni bambino. Così come tutti i personaggi che accompagnano il burattino nelle sue avventure, dalla Fata Turchina a Mangiafuoco, dal Grillo Parlante al Gatto e la Volpe, sono un riflesso della sua paura, dei sogni e dei più folli e irrealizzabili desideri. Il libro Cuore di De Amicis è, realista e urbano, quanto Pinocchio è fiabesco e contadino. Pinocchio è una favola rispetto al libro Cuore, perché vi troviamo elementi fantastici che nell’altro non vi sono. Il libro Cuore parla di ragazzi e non di burattini. Quello di De Amicis è un libro dove si parla di fatti concreti, reali, di giovani di scuola, di rapporti fra ragazzi e di sentimenti mentre in Pinocchio vengono raccontati fatti che sono frutto di una fantasia, talvolta sfrenata e spesso surreale.
  2. Paolo Valera, l’unico scrittore militante sociali­sta che fece della sua narrativa uno strumento di propagan­da, fu autore de La folla. Protagonista di questo studio, allo stesso tempo psicologico e sociale, è la galleria dolente e multiforme di oppressi che popolavano il Casone del Terraggio di Porta Magenta. A questa folla ai margini appartiene Annunciata, esuberante popolana che per anni ha ovviato con disinvoltura a gravidanze indesiderate e che poi non ha pace al ricordo dei suoi delitti materni; Agata Maddaloni, madre di undici figli affamati che, nei momenti lugubri, è assalita dal pensiero spaventoso di gettarne uno dalla ringhiera "per far sapere con una tragedia che i suoi figli muoiono di fame"; indimenticabile anche la famiglia Cristaboni, che riassumeva tutto ciò che vi era di tragico e deforme nel Casone.
  3. Antonio Fogazzaro ebbe idee decisamente contrarie alla poetica del Verismo. Risalendo alle esperienze idealistiche del primo romanticismo nordico, Fogazzaro propose un’arte che recuperasse alle radici, nella sua primordiale sublimità, la natura umana, sostenendola nella incessante e drammatica lotta contro la "bestia oscura che sopravvive in noi". Fogazzaro sposta l’attenzione dalla realtà esterna a quella interiore e tenta le vie della scoperta del subconscio, rientrando per questo nell’area del decadentismo. I suoi romanzi, da Malombra, il primo ed il più esemplare, a Piccolo mondo antico, il suo capolavoro, e Piccolo mondo moderno, sono testimonianza di una vita tormentata, vissuta nella solitudine della propria coscienza. Spirito profondamente religioso, visse la sua religiosità con scarso equilibrio, ma con intenso fervore, pervaso spesso da una sorta di esasperato misticismo che più volte lo fece deviare dall’ortodossia cattolica. Smanioso di liberarsi dalle pastoie di un conformismo borghese opprimente, fu però incapace di formulare in termini di chiarezza una nuova visione della società, delle sue regole, della sua cultura. Le caratteristiche più salienti della sua arte sono da individuare appunto nel costante turbamento derivante dal contrasto insolubile tra la sua sensualità e il suo misticismo, nei continui tentativi di mettere a nudo tutto quanto è riposto nel più profondo dell’animo, nella tendenza a forgiarsi uno stile quanto più possibile alieno dalla tradizione.
  4. Gabriele D’Annunzio fu autore di vari romanzi, in alcuni dei quali tuttavia è abbastanza visibile la traccia dell’esperienza naturalista e verista anche se per lo più la sua narrativa si svolse nell’ambito del Decadentismo. Il suo primo romanzo, Il piacere del 1889, mentre da un lato sembra indulgere all’analisi psicologica dell’amore secondo il metodo seguito da Flaubert e da Maupassant, dall’altro si compiace di esasperare l’egocentrismo del protagonista, Andrea Sperelli e la sua tendenza estetizzante nel godimento del piacere. E così pure nei due successivi romanzi, Giovanni Episcopo del 1891 e L’innocente del 1892, mentre è evidente che intende rifarsi al realismo di Dostoevskij e Tolstoj, dal primo soprattutto riprende il metodo di scandagliare fino in fondo la coscienza umana, riprende cioè quell’atteggiamento che lo avvicina ai decadenti. Insomma quello che maggiormente risalta nei suoi primi romanzi è una sorta di pendolarismo fra realismo e decadentismo, con la tendenza però a liberarsi gradualmente del primo per approdare con maggiore consapevolezza al secondo. Difatti è singolare l’esaltazione che il D’Annunzio fa del protagonista de L’innocente, Tullio Hermil, e finanche del suo terribile delitto: lo scrittore, con la chiara volontà di destare scandalo, fa dire a Tullio che "la giustizia degli uomini non lo tocca", avvicinandosi così sempre più alla creazione del suo ideale di uomo, il superuomo. Altro passo innanzi in questa direzione si ha con il Trionfo della morte del 1894, il cui protagonista, non potendo possedere della sua donna anche l’anima, procura la morte ad entrambi. L’immagine del superuomo è finalmente compiuta nei tre romanzi successivi: Le vergini delle rocce, Il fuoco e Forse che sì, forse che no, rispettivamente del 1895, del 1898 e del 1910.

Giovanni Verga - Nato nel 1840 a Catania da famiglia di spiriti liberali, compi in questa città gli studi medi e si iscrisse alla facoltà di giuri­sprudenza catanese senza peraltro pervenire alla laurea. A Catania iniziò la sua attività di narratore, che alternò con quella giornalistica.Dal 1865 al 1871 soggiornò a Firenze, dove venne a contatto con un ambiente letterario più aperto di quello siciliano. Ivi co­nobbe il conterraneo Capuana che, ammiratore dei naturalisti francesi, ne fece cono­scere in Italia l’insegnamento, elaborando la poetica del verismo, cui più tardi Verga doveva aderire.Dal 1872 al 1893 visse a Milano, dove frequentò l’ambiente degli Sca­pigliati, e - dove compose, dopo una vasta e mediocre produzione tardo-romantica (ro­manzi e novelle), le sue opere maggiori, di impianto veristico, fra cui i romanzi I Mala­voglia e Mastro don Gesualdo.Tornato a Catania cessò quasi del tutto l’attività lette­raria e vi morì nel 1922.

a) I tre momenti della narrativa verghiana - Nella produzione narrativa di Verga sono distinguibili tre momenti. È autore, in un primo tempo, di mediocri romanzi storici.
Successivamente compone romanzi che rappresentano situazioni languide e lacrimo­se, come la vicenda di una giovinetta che diventa monaca a forza e che si conclude con la pazzia e la morte della protagonista (Storia di una capinera), oppure presentano personaggi d’eccezione, come artisti, donne bellissime e fatali, a volte non prive dell’alone fascinoso dell’esotismo (Una peccatrice, Eva, Eros, Tigre reale).
Il terzo tempo verghiano, quello verista, nasce da una decisa svolta sia morale sia artistica dello scrittore. Stanco ormai del mondo egocentrico e superficiale rappresenta­to nei romanzi del secondo periodo, Verga torna col pensiero all’umile gente della sua Sicilia: pescatori, contadini, pastori, piccola borghesia di provincia, e alla loro vita dura e stentata, segnata da fatiche e dolori.

b) La grande stagione verista - La tecnica del verismo, col principio dell’adesione al rea­le e col rifiuto della interferenza e degli abbandoni emotivi dello scrittore, appare al Verga la migliore per rappresentare l’amara esistenza degli umili della sua terra.
Il momento verista di Verga è preannunciato da una novella, Nedda, composta nel 1874. Nedda è la storia di una povera ragazza siciliana, raccoglitrice di olive, oppressa dalla miseria anche nei suoi affetti, e la sua vita è narrata secondo la tecnica veristica di lasciare che le cose parlino da sé.
Su questa direttiva lo scrittore compone successivamente le sue opere maggiori: le novelle delle raccolte Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883) in cui sono rappresentati situazioni e ambienti siciliani, sentimenti e passioni elementari vissute spesso con drammatica violenza e i due romanzi I Malavoglia (1881) e Mastro don Gesualdo (1888).
Di questi, il primo narra le vicissitudini di una famiglia, i Malavoglia, che abitano ad Aci Trezza, un paesino vicino a Catania. Una tempesta ha distrutto la barca che era il loro mezzo di sostentamento, ed essi sono costretti, per pagare i debiti contratti, a vendere la casa, la «casa del nespolo», che è il simbolo della loro unione familiare.
Segue la storia delle loro fatiche per resistere al bisogno; il cedimento di alcuni di lo­ro, che abbandonano la famiglia e il paese per cercare altrove fortuna; le rinunce di tutti quelli che restano, che non saranno a sufficienza compensate dalla casa finalmente riacquistata, perché la famiglia non è ormai più quella di un tempo a causa di chi se ne è andato e di chi è morto.
Intorno ai Malavoglia si muovono, sfondo e coro a un tempo, gli abitanti di Aci Trezza, con le loro beghe, i loro sentimenti, le sofferenze, le chiacchiere, i pettegolezzi.
Il protagonista del secondo romanzo è Mastro don Gesualdo, un muratore di Vizzini, paese alle falde dell’Etna, dove il Verga aveva lungamente soggiornato da ragazzo. Mastro don Gesualdo, lavorando fino a stremarsi, è uscito dalla miseria ed è diventato un ricco imprenditore; vuole perciò elevarsi socialmente col matrimonio e il suo denaro gli permette di sposare l’ultima discendente di una famiglia nobile ormai decaduta, i Trao. Ma la donna, che lo ha accettato per necessità, non lo ama; la figlia, che egli fa educare nei collegi più esclusivi di Palermo, si vergogna dell’umile origine paterna.
Gesualdo morirà solo, in una fredda mattina, trascurato da tutti, nel palazzo paler­mitano del genero, dove ha assistito allo sperpero di quella ricchezza, della roba, per cui si è logorato la vita.
Tanto i Malavoglia quanto Mastro don Gesualdo sono, in modo diverso, dei vinti, e Ciclo dei vinti è stata chiamata dal Verga la serie che essi aprono (gli altri tre romanzi, che dovevano completarlo, non furono mai scritti).
Nel suo radicale pessimismo, Verga considera queste sconfitte come fatalmente le­gate al destino degli uomini. Nella corsa allo «star meglio» e alla ricchezza sempre ci saranno dei vinti, e i vincitori di oggi saranno probabilmente i vinti di domani.
Nonostante l’impegno veristico di obiettività e di distacco, la pietas dello scrittore, di fronte a questa condizione umana, traspare, in modo implicito, nei gesti, negli atteggiamenti, nei pensieri dei personaggi e nel ritmo stesso del dialogo e del racconto. L’al­ta poesia di queste due opere nasce proprio dalla controllata emozione tradotta in «co­se».

c) Il linguaggio verghiano - Per aderire alla realtà rappresentata il Verga da alla sua lin­gua una coloritura regionale, ottenuta qualche volta introducendo vocaboli dialettali si­ciliani, ma più spesso costruendo il periodo sulle strutture e sul ritmò del periodo dia­lettale.
Inoltre, lo scrittore si sforza di trasferire nel linguaggio la «forma mentale» dei suoi personaggi, sia che essi parlino in discorso diretto, sia che i loro pensieri e le loro paro­le vengano riferiti nel discorso indiretto.
In questa direzione è significativo l’uso frequente dei proverbi, attraverso i quali essi esprimono la loro atavica tradizione sapienziale, la loro «cultura».
Allo stesso modo, per filtrare i concetti attraverso la levatura mentale, le abitudini dei suoi personaggi, lo scrittore ricorre alle similitudini tratte dall’umile esperienza quo­tidiana che essi vivono. Per fare un esempio, il vecchio padron ‘Ntoni, parlando del giovane nipote che è andato a fare il soldato e che si lascia ingenuamente affascinare dalle meraviglie della città, dice che «è fatto come i merluzzi, che abboccherebbero a un chiodo arrugginito». E sono esempi che possono abbondantemente moltiplicarsi.

L’ora delle scelte - Nel venticinquennio a cavallo del ‘900 (1890-1915) fra gli intel­lettuali si diffonde un atteggiamento di ostilità verso la società di massa che si sta formando in Occidente e nella quale si va creando una polarizzazione netta fra grande borghesia ed élite politica, da un lato, e masse proletarie in aumento e in ascesa dall’altro, mentre, intanto, i ceti medi (piccola borghesia imprenditoriale ed agraria, commer­cianti, artigiani, impiegati pubblici e privati) - dai quali per lo più gli intellettuali provengono e nei quali per la loro professione si collocano - rischiano una progressiva proletarizzazione.
La prospettiva di tale declassamento spazza via gli atteggiamenti moderatamente progressisti dei decenni precedenti, e impone una scelta più netta: o diventare progressisti in modo radicale e abbrac­ciare il socialismo in una delle forme in cui esso si presenta o, rifiutando questa scelta di campo:
a) passare dalla parte dei gruppi dominanti in primo luogo da loro stessi;
b) rifiutare ogni impegno politico-sociale rifugiandosi nell’arte e nella cultura fine a se stesse;
c) proporsi come leader di movimenti piccolo-borghesi miranti a una società di tipo diverso, antisocialista e anticapitalista, dominata da aristocrazie spirituali e intellettuali.
Solo una piccola parte sceglie la prima soluzione. E si tratta per lo più di adesioni tiepide e passeggere. Si pensi a Pascoli a cui un po’ di prigione fa cambiare subito parere e a De Amicis e al suo socialismo edulcorato e «deamicisiano».
Dalla parte del potere economico e politico si schierano soprattutto gli scienziati e i tecnologi, produttori di quel tipo di cultura che più interessa al modo di produzione capitalista (spesso convinti di svol­gere solo un’attività neutrale al di sopra delle parti), alcuni grandi intellettuali, come Benedetto Croce, filosofo idealista, storico e cri­tico, dittatore per decenni della cultura italiana («un feudatario d’i­dee», lo chiamerà Corrado Alvaro), e molti letterati di mezza tacca, produttori di cultura volgare, «di massa», utili come persuasori di obbedienza.
Nel filone dei disimpegnati, di coloro che si rifugiano nell’autoa­nalisi e nella commiserazione di sé e del mondo, i letterati formano una schiera nutrita: dai crepuscolari che, a partire da Marino Moretti, si chiedono «Chinar la testa che vale? Che vai nuova fermezza?», da Svevo e Tozzi coi loro personaggi abulici e infelici, a Pirandello che disegna e anticipa ora, nella sua opera narrativa, il protagonista del suo teatro futuro: l’uomo senza identità, «risultato della scomposi­zione della persona romantica e borghese, del frantumarsi di quella unità psicologica e morale in un mosaico di apparenze ingannevoli» (A. Leone De Castris); a Pascoli che cerca rifugio nell’intimità dome­stica «come nido, caldo, chiuso, segreto, raccolto in una sua esistenza senza rapporti con l’esterno», ambito primordiale e istintivo dei rapporti di sangue, ai quali è affidato ogni legame, con la negazione di tutti i modi di contatto e di rapporto collegati con una più alta organizzazione della ragione» (G. Bàrberi Squarotti).
Ma vasta e variopinta è anche la schiera dei letterati che nutrono velleità di primato sociale. Momento di coagulo sono per essi le cosiddette riviste fiorentine, da Marzocco a Leonardo, da Il Regno a Hermes a La Voce a Lacerba.
Specialmente interessante fu il tentativo della Voce di Prezzolini di organizzare «un gruppo di pressione per tutto il ceto bor­ghese», anzi un «partito intellettuale» che però «se promuove la consapevolezza della propria autonomia di fronte alla classe domi­nante... dall’altra parte tuttavia si prepara ad assolvere il nuovo ruolo di persuasore intellettuale, di tecnico dell’opinione, di organizzatore del consenso ideologico e culturale al sistema» (G. Sca­lia). Più francamente e focosamente contro il sistema fu il movimento futurista con la sua titanica e abbastanza istrionica pretesa di rico­struire da cima a fondo l’universo: «I futuristi, come più tardi i surrealisti, volevano di fatto... cambiare la vita: il furore tecnolo­gico, non era fine a se stesso ma si accompagnava all’empito prome­teico, all’ansia di un rinnovamento totale che doveva esplicarsi anche nell’ambito sociale e politico» (L. De Maria). Naturalmente il com­pito di «rifare la vita» doveva toccare agli esseri superiori, ai superuomini, i soli degni di vivere nell’universo ricostruito, perciò se Prezzolini aveva scritto che la guerra era un esame in cui «tutto ciò che è sano e nascosto si rivela», Marinetti affermerà perentoriamente che essa è «la sola igiene del mondo».
Il tema del superuomo evoca subito il ricordo di D’Annunzio, ossia del più vistoso esempio di letterato, che abbia cercato in questo e, forse, in ogni altro periodo, con l’arte e con l’azione, di proporsi a guida carismatica di un popolo e di una generazione. È difficile sottovalutare l’influenza che D’Annunzio ebbe nell’introdurre in Italia un clima e una mentalità fascisti. Anche se si può dire che tutta l’intellettualità italiana, che cercò di rilanciare nel primo Novecento il primato politico del dotto esprimendo essen­zialmente i sentimenti di frustrazione e di rivincita dei ceti medi a cui apparteneva e solleticando nella pletora dei laureati e dei diplomati l’orgoglio della loro mezza cultura, contribuì a questo risultato. Ma D’Annunzio fu più di ogni altro «l’uomo e il poeta della classe media italiana che vedeva realizzati in lui tutti i suoi sogni proibiti: la forza fisica e le straordinarie capacità erotiche, il coraggio indomito e l’eleganza raffinata, l’eloquenza sonora e l’avventura impossibile, il vivere pericolosamente e il lusso sfarzoso, l’esaltazione della patria e la difesa dell’ordine costituito, l’aspirazione alla potenza e alla gloria e il disprezzo per la plebe» (C. Salinari).

Il decadentismo

L’origine e la diffusione - Il decadentismo è un movimento che ha origine in Francia intorno al 1880 e annovera fra i suoi maggiori esponenti i poeti Rimbaud, Verlaine, Mallarmé, che si richiamano tutti all’esempio di Baudelaire. Dalla Francia, il decadentismo si diffonde negli altri Paesi, assumendo forme e modi diversi.
In Italia, la stagione decadente è aperta dal Pascoli e dal D’Annunzio, ma al deca­dentismo sono ascrivibili, in misura diversa, la maggior parte dei nostri scrittori del Novecento.

Il rifiuto del reale - Caratteristica fondamentale del decadentismo è il rifiuto della realtà concreta, di quella realtà che, invece, aveva suscitato l’interesse e l’impegno degli scrittori detti appunto realisti, soprattutto dei naturalisti francesi e dei veristi italiani. A tale rifiuto si accompagna la volontà di superare tale realtà, di evadere da essa.
L’evasione avviene per diverse vie, che danno luogo a posizioni diverse anche lettera­rie. Di esse le più significative sono il simbolismo e il superomismo
a) Il simbolismo - Per gli scrittori che sono definiti simbolisti la realtà concreta non conta per se stessa, ma solo in quanto rimanda ad un’altra realtà di cui essa è simbolo: - una realtà più profonda, sotterranea e spesso misteriosa, cui il poeta deve tendere e che deve cercare di far affiorare nella sua poesia.
b) Il superomismo - A volte invece l’evasione decadente dal reale porta a vagheggiare esistenze eccezionali, capaci di gesti eccezionali. Nasce così, sulla scia del pensiero del filosofo Nietzsche, il mito del superuomo, dell’uomo cioè che si sente superiore alle leggi che regolano la convivenza sociale e che considera quindi gli altri uomini come gregge da dominare e come trampolino di lancio per la sua affermazione. A quello del superuomo si collegano altri pericolosi miti: l’esaltazione della violenza, della guerra, dei gratuiti gesti di forza.
c) Altre forme di evasione dal reale - Altre volte l’evasione dalla realtà si manifesta in quello che è stato definito estetismo, cioè nel vagheggiamento di esistenze raffinatissime, che si svolgono in ambienti altrettanto raffinati e spesso artificiali.
A volte, infine, l’evasione avviene nell’esotismo, cioè nel sogno di vivere in paesi re­moti e dallo splendore intenso, dove siano possibili esistenze felici, sganciate da tutti i limiti della quotidianità.

Il rifiuto della razionalità - Comune a tutte queste posizioni dei decadenti è la sfiducia nella ragione e il rifiuto dei suoi strumenti conoscitivi e valutativi. Infatti, la realtà sotterranea postulata dai simbolisti non può essere raggiunta dalla ragione, ma può es­sere captata soltanto dall’intuizione. Così pure, i miti dell’estetismo e dell’esotismo nascono in dispregio della ragione, che ne denuncia l’arbitrarietà e l’inconsistenza. E non è certo giustificabile con la ragione la volontà di affermazione del superuomo, volontà che determina lo sconvolgimento di quei rapporti sociali, come il principio d’uguaglianza, il rispetto democratico, che la ragione ha costruito attraverso il tempo.

Le nuove tecniche espressive del decadentismo - La mutata visione della realtà determina il nascere di nuove tecniche espressive. Si instaura, così, un linguaggio che più che a narrare o a descrivere tende a suggerire, a orientare cioè l’intuizione dei lettori verso le zone sotterranee intraviste dal poeta. Questo nuovo linguaggio fa spesso leva, più ancora che sul significato vero e proprio dei vocaboli, sulle suggestioni musicali e coloristiche che da essi promanano e che vengono evidenziate con accorgimenti diversi dai diversi poeti.

Giovanni Pascoli

Nacque nel 1855 a San Mauro di Romagna; sulla sua fanciullezza gravò l’ombra dolo­rosa della morte del padre, amministratore di una tenuta dei Torlonia, ucciso nel 1867 da nemici non mai identificati e rimasti impuniti. Con questa morte, seguita presto da quella della madre, l’indigenza entrava nella famiglia; e Pascoli continuò i suoi studi fra gravi difficoltà economiche, e poté frequentare a Bologna l’Università (dove ebbe a maestro il Carducci) solo con l’ausilio di una borsa di studio. I dolori e le privazioni, la sfiducia in una società che lasciava impunito il delitto, maturarono in lui una amara volontà di rivolta e di giustizia: si accostò così al movimento anarchico e per ciò subì anche il carcere. In seguito il suo spirito si andò via via placando e si acquietò in una caritatevole guardatura nei confronti di tutti gli aspetti della vita, del male come del bene: una specie di amore cristiano senza tuttavia l’accettazione della trascendenza. Laureatosi in lettere insegnò nei licei dì Matera, Massa, Livorno, poi all’Università di Messina, Pisa e infine di Bologna, dove successe al Carducci nella cattedra di letteratu­ra italiana; alternava il soggiorno bolognese con lunghi periodi trascorsi nella sua casa di Castelvecchio in Lucchesia, che gli consentiva il contatto col mondo campagnolo da cui proveniva e che gli era umanamente e poeticamente congeniale. Morì a Bologna nel 1912. Numerose sono le sue raccolte poetiche: Myricae, Primi Poemetti, Canti di Castelvecchio, Nuovi Poemetti, Poemi conviviali, Odi ed Inni, Poemi italici, Le canzoni dì Re Enzo, Poemi del Risorgimento. Esperto conoscitore del mondo classico e della lingua latina, in latino compose due volumi di Carmina. Fu autore anche di prose: di argomento letterario e politico-patriottico.

I due versanti della poesia pascoliana - Le raccolte di liriche pascoliane si possono di­stinguere in due gruppi: al primo gruppo appartengono le Myricae, i Primi e Nuovi poemetti, i Canti di Castelvecchio, i Poemi conviviali; al secondo gruppo Odi ed Inni, le Canzoni di Re Enzo, i Poemi italici, i Poemi del Risorgimento, Le raccolte del se­condo gruppo sono di ispirazione prevalentemente civile e sociale e costituiscono, nel complesso, la produzione artisticamente meno felice di Pascoli; il quale invece da il meglio di sé nelle raccolte del primo gruppo, le più caratterizzate da una sensibilità de­cadente.

La funzione del poeta: il «fanciullino» - Come i simbolisti francesi, anche Pascoli è convinto che la funzione del poeta sia di cogliere la realtà nascosta che sta ai di sotto delle forme visibili e tangibili, e di cui tali forme sono simbolo.
Nella prosa Il fanciullino egli sostiene che il poeta ha la dote, che è propria dei fan­ciulli, di vedere al di là dell’apparenza delle cose; una dote intuitiva che gli uomini co­muni perdono via via che diventano adulti.

I maggiori temi pascoliani - I temi ricorrenti nelle più significative raccolte pascoliane (Myricae, Canti di Castelvecchio, Primi e Nuovi poemetti) sono tratti dalla realtà quotidiana e autobiografica del poeta, una realtà dimessa e umile, spesso dolorosa: l’infanzia segnata dalla tragica morte del padre; la madre e alcuni fratelli prematuramente perduti e la famiglia disfatta; la casa dell’infanzia, la casa-nido, rievocata nei più diver­si stati d’animo e nelle diverse ore e stagioni, fiorita di rose e di gelsomini nella calura estiva, o immersa nell’ombra della sera, mentre intorno le volano le farfalle notturne e si diffonde il profumo acuto delle peonie; la campagna romagnola, piena di voci nella stagione dei lavori agricoli, o malinconica nell’abbandono autunnale; il collegio di Urbino, dove il poeta ha trascorso l’infanzia e dove i piccoli collegiali giocavano con gli aquiloni; il cimitero dove riposano i suoi morti, ed altro

Dalla realtà al simbolo - È una tematica dì cose sperimentate e vissute che, in astrat­to, potrebbero anche essere il bagaglio di uno scrittore realista. Ma in Pascoli i dati concreti, pur rappresentati con attenta precisione, costituiscono solo il punto di parten­za dal quale le liriche muovono per suggerire altri temi e valori di cui la realtà presen­tata è simbolo: valori più vasti, che coinvolgono aspetti fondamentali e generali dell’esistenza umana.
Ad esempio, la breve lirica Lavandare può apparire, a prima vista, come un bozzetto di genere: una campagna autunnale, un aratro abbandonato, le lavandaie che sbattono i panni e cantano uno stornello. Ma attraverso questi elementi il poeta suggerisce altri significati; le figure, il paesaggio, le voci diventano il simbolo di una componente pe­renne dell’esistenza umana: la malinconia e l’abbandono.
Analogamente, la lirica Novembre, attenta ai particolari concreti di una giornata di novembre, in cui la limpidezza del cielo quasi primaverile contrasta con gli aspetti già invernali del paesaggio (rami secchi, terreno che suona «vuoto» sotto i passi, ed altro), propone, al di là del piano descrittivo, il tema del rapporto vita-morte, anzi della mor­te prevalente sulla vita.

Il mondo classico pascoliano - II mondo classico, che gli offrì materia di ispirazione soprattutto nei Poemi conviviali, assume una dimensione nuova nella poesia pascoliana. Le ferme e nitide figure del mondo greco-romano, almeno quali la tradizione ce le ha tramandate, diventano anch’esse espressione delle inquietudini, delle ansie, dello sgomento del poeta di fronte alla vita e al suo mistero. Un esempio è Aléxandros: Alessandro Magno, che nella storiografia classica è celebrato per le sue doti di condottiero e di politico, si trasforma, nel componimento pascoliano, in un sognatore affascinato dall’ignoto che, giunto con le sue conquiste ai confini del mondo, si duole perché non gli resta più nulla da scoprire e quindi da sognare.

Il «linguaggio» pascoliano - Nei confronti del linguaggio poetico tradizionale, Pa­scoli compie un’autentica rivoluzione, che avrà grande influenza sulla poesia del Nove­cento.
Nel lessico: scompaiono i vocaboli aulici e arcaici. Il suo lessico è tratto dall’uso comune; egli usa anche voci gergali, termini tecnici derivati soprattutto dalla vita agrico­la; frequente l’uso di voci onomatopeiche (il verso dei vari uccelli, il don don delle campane).
Nella sintassi: al periodo ampio, costruito, proprio degli scrittori del passato, si sostitui­sce il periodo breve, con frequenti spezzature e sospensioni.
Nella metrica viene meno il verso compatto e sonoro e vi si sostituisce una versificazione spezzata, ricca di pause, di cesure, di riprese melodiche, con rime interne che danno particolare risalto ad alcuni vocaboli-chiave. Nel complesso, ne risulta una musicalità sommessa, ma estremamente articolata e mossa.

Gabriele D’Annunzio

Nato a Pescara nel 1863, compì gli studi medi a Prato nell’allora famoso Collegio Cicognini; si iscrisse quindi alla facoltà di Lettere dell’Università di Roma, ma l’abbandonò presto, già impegnato in collaborazioni giornalistiche e nelle prime fortunate prove di scrittore.
Da Roma passò a Napoli, poi a Firenze; di qui in Francia, ad Arcachon, presso Bordeaux, donde ritornò in Italia nell’imminenza della prima guerra mondiale.
Fervente interventista, compì in guerra coraggiose imprese pur caratterizzate da un individualismo che poteva essere sospetto di esibizionismo; nell’immediato dopoguerra fu protagonista dell’impresa fiumana che mirava a rivendicare Fiume all’Italia contro le decisioni delle potenze alleate e del governo italiano stesso. Trascorse l’ultimo periodo della vita in aristocratico isolamento in una villa presso Gardone da lui battezzata il Vittoriale, ed ivi morì nel 1938.
La sua produzione è vastissima. È autore di liriche (ricordiamo fra le molte raccolte, i quattro libri delle Laudi), di novelle (Le novelle della Pescara), di romanzi (II piacere, il Trionfo della morte, Le Vergini delle rocce, II fuoco), di prose autobiografiche (il Notturno, le Faville del maglio, il Libro segreto), di opere teatrali (più famosa di tutte la tragedia di argomento abruzzese La figlia di Jorio)

Gli anni della sperimentazione giovanile - D’Annunzio conobbe e assimilò la produzione del decadentismo straniero, soprattutto francese, ma anche del decadentismo inglese, nonché il romanzo introspettivo russo di Dostojeskij.
Gli anni di questa avida sperimentazione giovanile furono quelli che seguirono la conclusione dei suoi studi liceali, dal 1881 al 1893, e che egli trascorse prima a Roma, poi a Napoli. Appartengono a questi anni raccolte di liriche (le più famose sono Canto novo e il Poema paradisiaco), novelle e romanzi, in cui mise a frutto la lezione appresa dagli scrittori stranieri.

Il mito del superuomo - Intorno al 1894-95, a seguito della lettura del filosofo Nietzsche, entra prepotente, nella produzione dannunziana, il mito del superuomo, cioè dell’uomo d’eccezione, superiore alla morale comune, nato per dominare gli altri uomini. Il tema del superuomo sarà presente, d’ora innanzi, nella molteplice e varia produzione del D’Annunzio: nei romanzi, in quasi tutte le tragedie, nei libri delle Laudi ad eccezione di Alcyone.
Al mito dell’uomo d’eccezione si accompagna quello della nazione d’eccezione, guerriera, dominatrice e civilizzatrice. D’Annunzio esalta perciò le guerre coloniali e vagheggia per l’Italia imprese di conquista e di espansione imperialistica.
Ma egli non si limitò a celebrare il superuomo nei suoi scritti; volle impersonarlo anche nella vita. Non di rado visse, magari coprendosi di debiti, come un principe del Rinascimento, fra splendidi arredi, levrieri e cavalli di razza. Combatté con grande coraggio nella prima guerra mondiale, ma non nella promiscuità delle trincee, bensì compiendo gesti vistosi, come il volo su Vienna, la beffa di Buccari, in cui appagava la sua individuale volontà di affermazione.

La «tregua» dell’Alcyone - Il terzo libro delle Laudi, Alcyone, rappresenta una tregua dello spirito del superuomo e un abbandono del poeta al mondo della natura. Il libro comprende le liriche ispirate prima da un soggiorno primaverile a Fiesole, poi (e sono le più numerose) da una estate marina in Versilia.
Caratteristica dell’Alcyone è l’immedesimazione e l’immersione del poeta nel grembo della natura, che gli si rivela attraverso le sensazioni che essa suscita e che D’Annunzio coglie con acutissima percezione: sensazioni di cose concrete (aghi di pino, frutti maturi, riverbero delle onde, pioggia che batte sugli alberi, ed altro), che, nei versi dannunziani, suggeriscono sapientemente l’atmosfera delle ore e della stagione, ma, nello stesso tempo, le inquietudini, o il senso di appagamento, che esse generano nel poeta.

Le opere «notturne» - L’aggettivo «notturno» è tratto per estensione dal titolo di un’opera dannunziana, Il Notturno, che il poeta compose durante la guerra, quando, ferito a un occhio, fu costretto a rimanere per lungo tempo nell’inerzia e nell’oscurità. È un’opera che esprime uno stato d’animo meditativo e doloroso. La denominazione di «notturne» fu perciò usata per indicare tutte le sue opere di taglio più pessimistico e meditativo (La contemplazione della morte, Il compagno dagli occhi senza cigli, ed altre). In tali opere, lontane dai trionfalismi e dagli orpelli abituali, la critica ha individuato alcuni dei momenti più riusciti della poesia dannunziana.

Il tecnico della parola - Già in un’opera giovanile il poeta affermava: «divina è la parola». E questo culto, quasi religioso, della parola è stato l’elemento caratterizzante della sua attività di scrittore.
Egli si vantò di conoscere più di ogni altro l’arte di «collocare le parole» nel periodo e nel verso. Sfruttò al massimo il valore musicale delle pause, che, isolando le parole, danno loro rilievo e consentono che la loro eco si dilati.
Una singolare abilità tecnica ebbe anche in campo metrico. Usufruì ed alternò i metri più diversi, che usò come strumenti raffinati per costruire quelle che egli chiama, con espressione derivata dalla musica, le sue «frasi musicali».
Questa eccezionale abilità tecnica, tuttavia, non fu sempre al servizio di un’autentica ispirazione. Nella vastissima produzione dannunziana non di rado le parole suonano a vuoto, compiaciute di se stesse e fine a se stesse. In questi casi, la poesia scade a retorica fastidiosa e stucchevole.

La lirica del secondo Ottocento - Accanto alla multiforme vitalità del ro­manzo la produzione lirica continuò ad avere un posto di prestigio, anche se non poteva certo competere con le ca­pacità di farsi leggere del romanzo. Come per la prosa, bisogna allargare lo sguardo al­le esperienze straniere che offrono modelli nuo­vi ai nostri poeti. In primo luogo va però ricordata la diversità della situazione italiana rispetto a quella europea: mentre in Europa l’esperienza della lirica romantica era sta­ta ricca di opere e di autori che avevano dato vita a una nuo­va poesia, in Italia emergeva da un panorama piuttosto piatto, altissima ma inimitabile, la voce poetica di Leopardi. Questo ci aiuta a spiegare perché i grandi mutamenti che caratte­rizzarono il genere lirico nella seconda metà del secolo avvengono al di là delle Alpi, in Francia in particolare e solo più tardi giungono anche da noi. Si trattò di un processo rilevan­te nella storia della lirica, una vera e propria svolta che segnò la nascita della lirica moderna. In questo processo il linguaggio lirico divenne più difficile e la poesia si trasformò in ge­nere d’elite nel momento in cui gli altri generi andavano in­vece conquistando un pubblico più vasto. Mutarono in primo luogo la figura del poeta e l’idea stessa di poesia: il poeta non sentì più se stesso come portavoce dei valori e dei senti­menti generali colti nella eccezionalità della sua esperienza individuale, rifiutò ogni funzione di «poeta-vate», deposita­rio e trasmettitore di messaggi, per rivendicare invece un’estraneità rispetto al proprio tempo, il rifiuto di una società rispetto alla quale si sentiva diverso.
Questo atteggiamento, che contrasta decisamente con l’idea romantica, venne teorizzato per la prima volta dal poeta francese Charles Baudelaire che ispirò la sua stessa vita alla irregolarità, al disordi­ne, all’eccentricità, divenendo il modello per molti altri arti­sti e letterati sia francesi sia europei. Insieme a Baudelaire, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Stéphane Mallarmé diede­ro vita ad un movimento detto simbolismo, che ebbe una na­scita ufficiale col Manifesto del simbolismo pubblicato nel 1886. Il dato che più colpisce nell’opera di questi poeti è il caratte­re inconsueto dei loro versi: essi teorizzano la libertà d’in­venzione, l’importanza decisiva del suono, la rottura della sintassi e delle forme metriche tradizionali fino alla disarmo­nia. Il linguaggio poetico abbandona ogni modo descrittivo per cercare l’espressione più elaborata, soggettiva, oscura; la struttura prevalente è analogica, abolisce cioè i nessi logici espliciti e procede per accostamenti, parallelismi, contrapposizioni. S’impose anche l’inconsueta scelta tematica: in parte si trattò di temi nuovi quali le immagini della città caotica, lo spettacolo della folla, il vagheggiamento di evasioni esotiche oppure lo smascheramento polemico delle apparenze, del perbenismo; in altri casi i temi nascevano dall’introspezione ed erano quelli da sempre presenti nella poesia, quali la me­moria, il sogno, i dissidi interiori, ma trasformati in espe­rienze eccezionali, estreme, e trasfigurate in simboli. In questo modo entrarono nella poesia anche il brutto, il demonia­co, il peccato, e più in generale cadde la convenzione per la quale i temi bassi erano esclusi dall’espressione lirica. La poesia e le teorizzazioni dei simbolisti francesi furono pre­sto note in Italia ed esercitarono un’influenza sui nostri poeti. Tuttavia i veri eredi del movimento furono gli scrittori del Novecento, nel senso che soltanto allora si col­se la globalità di quell’esperienza.
In particolare il quadro della produzione lirica dalla metà dell’Ottocento fino al primo decennio del secolo successivo può essere così disegnato:
-          la tradizione classicista: ha un momento di rinascita e di rinnovamento nell’opera di Giosuè Carducci, che la rivitalizza riproponendo la missione etico-civile del poeta e l’esaltazione del lavoro rigoroso sulla forma. Carducci, che scriveva negli stessi anni di Baudelaire, fu maestro di una tendenza che, se oggi è poco apprezzata, sicuramente ebbe un peso rile­vante nella cultura del tempo ed ebbe i seguaci più illustri in Severino Ferrari, Enrico Panzacchi, Giovanni Marradi;
-          la poesia scapigliata: Emilio Praga, Arrigo Boito, Giovanni Camerana, Ugo Tarchetti produssero una poesia che rappre­senta la punta avanzata verso il nuovo, ma che si esaurisce nel rinnovamento tematico e in qualche limitata sperimenta­zione formale. Essi furono affascinati dai temi audaci e in­consueti dei simbolisti, e li assunsero come propri svuotandoli dei significati più profondi e inquietanti e riducendoli a espressioni di bizzarria, di originalità, di anticonformismo;
-          l’esperienza poetica legata al verismo: alcuni scrittori traspor­tarono in versi l’idea di una nuda e veritiera rappresentazione della realtà; ricordiamo qui il nome di Olindo Guerrini, che usava lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti;
-          la poesia dialettale: spiccano, fra gli altri, i nomi del romano Cesare Pascarella e del napoletano Salvatore di Giacomo;
-          la poesia crepuscolare: è un fenomeno abbastanza circoscrit­to che si sviluppò tra il 1903 e il 1911 e coinvolse un gruppo di poeti che, schiacciati tra l’eredità pascoliana e quella dannunziana, presero una strada comune e furono in genere uni­ti da rapporti di amicizia e di solidarietà nelle scelte lettera­rie e negli atteggiamenti esistenziali. Il termine crepuscolare nacque in sede critica e fu scelto perché indica sia la luce del­l’alba sia quella del tramonto e rimanda quindi ai significati di estenuazione, fine, ma anche a quelli di alba, di realtà nuo­va che sorge. Si tratta di una poesia costruita intorno a terni ricorrenti: le piccole cose, il quotidiano, l’intimo, il ritorno al­l’infanzia, le lacrime, la malattia, la noia, l’indifferenza. Altrettanto costanti i caratteri della lingua e dello stile: una ge­nerale facilità di linguaggio, l’abbassamento dei lessico, l’accentuazione della rima o al contrario la ricerca di un andamento del verso che si avvicina alla prosa. Tra i poeti crepu­scolari si può distinguere un gruppo romano, nel quale spic­ca la figura di Sergio Corazzini, e un gruppo torinese, del quale fa parte, oltre al maggiore di loro Guido Gozzano, au­tore del poemetto La signorina Felicita ovvero la felicità, Carlo Chiaves. Iniziatore del modo crepuscolare di far poesia si considerò il ferrarese Corrado Covoni.
-          la poesia di Giovanni Pascoli e di Gabriele D’Annunzio: le loro voci s’impongono tra la fine del secolo e i primi anni del Novecento e riportano su un piano più alto la storia della li­rica. Iscrivendosi in un panorama di respiro europeo, segna­no la fine del classicismo e il vero inizio della lirica moderna nella tradizione italiana

La Letteratura del primo Novecento

Il primo quindicennio del Novecen­to è dominato da Giovanni Giolitti che orienta la vita politica italiana verso forme diverse da quelle reazionarie degli ultimi anni del secolo prece­dente. Giolitti tenta di integrare nello stato liberale le nascenti forze operaie, di realizzare una conciliazio­ne tra le forze socialiste e il liberalismo avanzato. Ma questo disegno s’infrange di fronte alla particolare situazione italiana.
Dal notevole sviluppo indu­striale deriva una sorta di «illusione ottica»: i vagheggiamenti dello stato for­te, le esaltazioni nazionalistiche che assumono ben più virulenta consistenza: sul Leonardo, sul Regno, nelle serate futuriste folti gruppi di intellettuali esaltano l’avventura, il rischio, la missione africana dell’Italia. Si tratta di un comples­so di forze opposte a Giolitti che egli nei primi tempi sottovalutò, ma alle quali fu poi costretto a fare notevoli conces­sioni.
Giolitti con abile politica pendolare riesce a tenersi in equilibrio fra le opposte forze:
·         infligge un note­vole colpo agli interessi bancari,
·         fa concessioni agli interessi industriali e nazionalistici con l’im­presa di Libia,
·         promulga le leggi di tu­tela del lavoro e con la riforma elet­torale realizza fondamentali aspirazioni socialiste,
·         col patto Gentiloni stabilisce accor­di, per le elezioni a suffragio univer­sale, con le forze conservatrici e cle­ricali.
In questa situazione van­no viste le manifestazioni letterarie di questo periodo che hanno una caratteristica comune di inquieta ricerca, di velleitarismo e di ambigua disponibilità.
·         D’Annunzio mantiene ancora un ruolo di primo piano: ol­tre che come poeta-vate egli si presenta come maestro di comportamento, di vita inimitabile: sulle sue pagine generazioni di piccoli borghesi sognano amori d’eccezione e vagheggiano il bel gesto.
·         In un complesso rapporto di opposizione-filiazione con D’Annunzio si collocano i giovani intellettuali in­quieti e disponibili che bramano fare il processo alla generazione che li ha preceduti e danno vita alle riviste fiorentine.
·         La Voce è la rivista più notevole in quanto dapprima si batte per un rin­novamento della letteratura coin­cidente con un rinnovamento della so­cietà italiana, ma, dopo, mu­terà indirizzo e proprio sulle sue pa­gine sarà teorizzata una concezione quanto mai aristocratica e rarefatta della poesia.
·         Contro le mitologie decadentistiche co­mincia la sua polemica Croce che elabora un sistema filosofico di laica razionalità e teorizza una con­cezione del fatto artistico che si di­mostrerà sempre più restia ad acco­gliere il processo iniziato negli ultimi decenni dell’Ottocento.
·         Sotto il denominatore comune dell’opposizione ai moduli dannunziani vanno visti i crepuscolari e i futuri­sti.
La prima guerra mondiale segna una cesura nella prima metà del secolo. A guerra conclusa si presentano nella società italiana problemi di partico­lare gravità:
·         il rifiuto da parte delle potenze alleate delle richieste ita­liane crea subito il mito della «vittoria mutilata»;
·         le masse proletarie esigono quanto durante la guer­ra era stato loro promesso: riforme sociali e distribuzione di terre;
·         gli ex ufficiali, di estrazione piccolo-borghese, difficil­mente si rassegnano alla grigia rou­tine quotidiana.
Alle elezioni del 1919. La neoformazione fascista non ottiene seggi, ma alle elezioni del ‘21 questa formazione manda alla Camera 30 deputati. Dal vago sinistrismo iniziale il fascismo passa ad un miscuglio di posizioni nel quale confluiscono
·         disprezzo per la democrazia e per il socialismo,
·         esal­tazione e pratica della violenza,
·         mitologia nazionalistica.
Il partito socialista aumenta il mito del pericolo rosso, fornendo un’arma propagandistica al fascismo, e non è capace di proporre un’alternativa al vecchio stato liberale; la vec­chia classe liberale mette allo scoper­to la sua vocazione autoritaria e pensa ad un uso strumentale del fasci­smo in funzione antisocialista. Con la collusione de­gli interessi agrari e industriali, con la complicità degli organi dello stato liberale e della monarchia, il fascismo trionfa.
Soppressa nel ‘25 ogni manifestazio­ne di vita democratica, Mussolini con la creazione dell’Accademia d’Italia, dell’Istituto fascista di cultura, con le scuole di mistica fascista cerca di legare al regime anche la cultura. In realtà, anche se in Italia mancarono in questo campo esempi di coraggiosa opposizione e fuoruscitismo, egli ottenne solo conformistiche adesioni e la migliore produzione letteraria di quegli anni ignorò le mitologie e le parole d’or­dine ufficiali. Ben diversa consisten­za ebbe invece l’opposizione politica contro la quale l’apposito Tribunale speciale non cessò di erogare se­coli di prigione e di domicilio coatto.
La parabola del fascismo intanto si sviluppa con logica coerente con le sue premesse[3]: seguono infatti l’avventura imperialistica della guerra d’Abissinia, la tragica farsa dei volontari in Spagna, l’intervento nella seconda guerra mondiale a rimorchio del militarismo nazista.
Il dibattito letterario del primo do­poguerra è inizialmente caratterizzato da un richiamo all’ordine ed alla tradizione: La Ron­da teorizza la lezione dei classici, l’estrema pulizia formale, la prosa d’arte rigorosamente calibrata. È una visione piuttosto an­gusta dei compiti del letterato che si limi­ta ad una sapienza calligrafica senza troppa preoccupazione per i complessi pro­blemi derivanti dal rapporto tra letteratura e vita nazionale.
Contro tale posizione Gramsci su L’Ordine nuovo e Gobetti su La Rivoluzione liberale, teorizzano una diversa concezione dell’attività letteraria, vista da loro in stretto rapporto con le questioni più vive della società italiana. Su Il Baretti Gobetti si batte per una sprovincializzazione della no­stra letteratura, per un’apertura verso una dimensione europea.
In Europa infatti gli anni tra il ‘20 e il ‘30 sono ricchi di fermenti e di realizzazioni: Solaria divulga la conoscenza de­gli autori stranieri e con Pirandello e Svevo la letteratura italiana conquista una dimensione europea.
Intanto il fascismo, pesa sulla cultura italiana: gli uomini di lettere più consapevoli del gruppo di Solaria trovano risibili sia i richiami autarchici alla tra­dizione e l’esaltazione di una lette­ratura strapaesana fatti dalla cultura ufficiale, sia le mitologie fasci­ste, scelgono una forma d’arte che non si compromette col regime, lo ignora e da questo nasce il vagheggiamento memoriale, la trasfigurazione del dato reale in una dimensione arcana e simbolica, l’impegno per realizzare pa­gine di assorta levità diventano le caratteristiche di fondo della produzio­ne in prosa; il rifugio nel proprio io, la solitudine esistenziale, l’ascetica ri­cerca della parola essenziale e dei rapporti analogici, sulla scia di prece­denti teorizzazioni, diventano le caratteristiche della poesia nuova che in Ungaretti e in Montale trova i suoi mae­stri. Al di fuori di questo filone, Saba, ripudiando ogni ricercatezza espressiva, canta con profon­da umanità tutti gli aspetti del quo­tidiano e trova chiari accenti di opposizione al regime.
Un altro aspetto della letteratura d’opposizione è poi da considerare l’interesse suscitato negli anni ‘30, per i narratori americani dalle cui pagine si ricavava il mito di un’America giovane, sanguigna e libera. Furono questi i testi di più larga diffusione tra il pubblico: la poesia invece, diventa sempre più una produzione per iniziati.
In complesso la letteratura del ventennio, resta estranea alle mitologie fasciste e prosegue nella sua ricerca formale. Il fascismo, malgrado la creazione dell’Accademia d’Italia non riesce ad ottenere i suoi scopi.

L’arte per l’arte, l’impressionismo - Tra il 1914 e il 1916, una rivista come «La Voce» pubblicata a Firenze, accentua il suo carattere letterario: i vociani privilegiano una critica autobiografica e il frammentismo lirico, cercano di espungere qualsiasi intrusione etica sociale o politica e di promuovere una poetica fondata sul culto della parola e dello stile. A tale indirizzo fanno riferimento alcuni dei maggiori poeti del secolo.
Tra il 1919 e il 1923 il gruppo degli scrittori de «La Ronda» concordano con il programma di Cardarelli che enunciava la volontà di restaurare la tradizione classica della letteratura italiana impersonata in Petrarca, Manzoni e Leopardi, esigeva per lo scrittore piena autonomia da ogni compromissione politica e sociale, considerando l’atto letterario come supremo esercizio di stile. Sul piano letterario mostra il rifiuto di ogni forma irrazionalista, dalla poesia simbolista di Pascoli alle mitografie di D’Annunzio, alle teorie iconoclaste dei futuristi. Ciò accanto al recupero di una concezione dell’arte intesa come diletto, mestiere raffinato di letterati che si professano estranei a ogni finalizzazione dei contenuti. I rondisti sono teorici di una scrittura d’arte, senza impegni etici né politici, esercizio disinteressato.
Tra il 1926 e il 1936, intorno alla rivista fiorentina «Solaria», si raccolgono alcuni tra i migliori scrittori del periodo e che ebbero grossa influenza nel dopoguerra. Tra loro Eugenio Montale, e Carlo Emilio Gadda. La rivista era stata fondata e diretta a Firenze da A. Carocci. Una rivista eclettica, oscillante tra il rigore formale de «La Ronda» e il moralismo del gobettiano «Baretti». In contrasto con l’autarchia culturale predicata dal fascismo, vi fu una grossa apertura verso le esperienze europee: si recensirono tempestivamente i libri di P. Valéry, E. Hemingway, A. Gide, A. Malraux; si stamparono traduzioni di T.S. Eliot, J. Joyce, R.M. Rilke. Si cercò di valorizzare autori del Novecento italiano dedicando numeri unici a Saba, Svevo, Tozzi. Dal 1930 ci fu una maggiore attenzione verso i giovani scrittori, come Vittorini. Gli interventi di N. Chiaromonte, U. Morra e G. Noventa sulla responsabilità storica del letterato allarmarono la censura che sequestrò alcuni numeri della rivista, tra cui quello del marzo-aprile 1934 contenente “Il garofano rosso” di Vittorini.
Di tutti gli autori che si mossero variamente in questi anni, gli unici riletti dalle generazioni successive di lettori, furono Dino Campana, Vincenzo Cardarelli, Riccardo Bacchelli.

Poetiche espressioniste surrealiste magicorealiste - Sulla linea pirandelliana sono Pier Maria Rosso di San Secondo, e in parte Massimo Bontempelli fautore del realismo magico. Giuseppe Antonio Borgese con il romanzo Rubè tenta di opporsi al frammentismo vociano come all’isolazionismo rondista.

La produzione regionale - La politica culturale del fascismo cercò di promuovere un tipo di cultura nazionalista e unitaria, decisamente “italianofila”. Le culture che si esprimevano nelle lingue regionali furono osteggiate, anche se non mancarono in quegli anni autori e testi che usarono le lingue regionali per esprimersi.

Letteratura italiana di consumo tra le due guerre - L’emergere della piccola borghesia tra le due guerre in Italia incrementa una produzione letteraria di consumo. A parte i generi settoriali, la gran parte della produzione di consumo si collega ai romanzi d’appendice ottocenteschi; volgarizzamento della letteratura colta per i ceti medio-borghesi: Luciano Zuccoli (La freccia nel fianco, 1913), Guido da Verona volgarizzatore del dannunzianesimo, in fondo la stessa Grazia Deledda che nel dopoguerra scrive Incendio nell’uliveto (1918), e Cosima (1937), e riceve un nobel nel 1926.

La rivoluzione narrativa del primo Novecento - Il romanzo occupa un posto di assoluta preminenza nel panorama let­terario e, nel corso del secolo, la produzione si differenzia in misura rilevante per avvicinarsi, sotto lo stimolo dell’industria culturale, alle esigenze di un pubblico differente. Accade così che mentre si affermano sperimentazioni di nuovi modi di narrare, tendenze di avanguardia, persistano, anche a li­vello di letteratura alta, romanzi di impianto tradizionale.
La crisi della tradizione ottocentesca si evidenzia nel fatto che raccontare e descrivere non basta più: la grande tradizione narrativa ottocentesca che aveva dato nel verismo gli ultimi altissimi frutti, entra, infatti, in cri­si nei primi anni del nuovo secolo.
Già nell’alveo dell’estetismo di fine secolo erano nate esperienze narrative che avevano indebolito il ruolo della trama, ma ciò che a molti scrittori cominciava ad apparire vecchia era l’operazione stessa del narrare. De­scrivere e raccontare erano sentiti come schemi che fatalmente riproducevano un ordine, volevano dire fissare un inizio e una fine, interpretare la realtà e disporla razionalmente in uno spazio e in un tempo. Ma nella cultura novecentesca proprio questo cominciava ad essere messo in dubbio, che la realtà fosse interpretabile secondo parametri razionali.
Ciò che caratterizzava la modernità era la perdita del centro, della certezza che l’uomo potesse conoscere il mondo che lo circonda, giudicarlo e quindi descriverlo. Un elemento che emergeva era la fine di una visione unitaria del mondo e di se stessi, che portava intellettuali, artisti e scrittori a cercare nuovi strumenti per esprimere questa nuova situazione, tut­ta moderna.
Una prima conseguenza della situazione finora delineata fu che gli scrittori si applicarono a forme della prosa alternative alla narrazione:
1.      la prosa lirica nella quale il racconto è sostituito dall’illumina­zione improvvisa, dal flash;
2.      il frammento e la prosa d’arte, cioè pezzi di bravura, sfoggi di raffinatezza stilistica.
Alcuni grandi romanzi creano nei primi decenni del secolo la di­mensione novecentesca del narrare.
·         Nel 1913 la prima parte di Alla ricerca del tempo perduto, il ciclo di sette romanzi di Marcel Proust che compì una delle più ambiziose imprese della letteratura di tutti i tempi: nel contesto di una società, sottoposta ad un profondo cambiamento sociale, che assiste al definitivo declino del mondo aristocratico, egli analizzò minutamente le cause della psicologia amorosa e i meccanismi della memoria, cogliendo insieme la relatività della dimensione temporale e la possibilità per ogni uomo, attraverso gli incontrollabili meccanismi della memoria involontaria, di rivivere l’essenza stessa del proprio passato.
·         Nel 1916 esce il lungo rac­conto La metamorfosi, di Franz Kafka che ebbe un peso decisivo nell’evoluzione delle tecniche romanzesche. In romanzi come Il processo (1925) e Il castello (1926) Kafka piegò tecniche della narrativa fantastica a rappresentazioni costruite con minuziosa verosimiglianza e allo stesso tempo caratterizzate da un angosciante senso dell’assurdo e da inquietanti trasfigurazioni oniriche: le private ossessioni psicologiche dell’autore si trasformano in densi simboli del destino umano, in un mondo privo di dei ed oppresso da misteriose ed incombenti presenze superiori.
·         Nel 1922 il romanzo Ulisse di James Joyce riprende il modello narrativo dell’Odissea di Omero, anche se la sua azione è circoscritta a quanto accade nell’arco di una sola giornata nella Dublino contemporanea. Una delle caratteristiche più originali della scrittura di Joyce è l’impiego sistematico delle tecniche del monologo interiore e del flusso di coscienza, attraverso le quali l’autore rappresenta, per così dire, in presa diretta lo scorrere incessante e spesso informe dei pensieri, delle percezioni, delle associazioni mentali consapevoli e inconsapevoli dei personaggi.
·         Nel 1923 appare, ai margini dell’ufficialità letteraria nazionale, La coscienza di Zeno di Italo Svevo in cui c’è «ardore di verità umana e desiderio continuo di sondare, ben al di là delle parvenze fenomeniche dell’essere, in quella zona sotterranea ed oscura della coscienza dove vacillano e si oscurano le evidenze più accettate». Se i primi due romanzi[4] sono una specie di autobiografia, La coscienza di Zeno che assume la forma di diario, approfondendo sistematicamente lo scandaglio dell’inconscio. In esso il problema esistenziale è risolto con la scoperta dell’azione: solo se ci si immerge totalmente nei problemi concreti del vivere quotidiano e non si ha più il tempo per le meditazioni sulle problematiche astratte dell’esistenza[5], è possibile liberarci dal peso dell’angoscia.
·         Nel 1926 uscì il romanzo Uno nessuno e centomila di Luigi Pirandello[6], opera intenzionalmente frammentaria, saggistica e antiromanzesca, cui lo scrittore affidò il compito di riassumere la propria sconsolata visione del mondo, basata su di un esasperato soggettivismo, secondo cui la realtà non avrebbe una sua oggettività, ma assumerebbe tanti aspetti diversi quanti sono gli uomini che la osservano; anzi essa cambierebbe anche a seconda dei vari momenti in cui viene a trovarsi il singolo uomo. La medesima cosa capiterebbe all’uomo: io non sono nella realtà quello che sono, ma quello che appare a ciascuno degli uomini con i quali vengo a contatto; e poiché la mia personalità non ha senso al di fuori del contatto con la società, è evidente che io creda di essere uno, essendo invece centomila e nessuno. Ne consegue l’impossibilità dell’uomo di comunicare con gli altri, poiché a lui sfugge, in ogni incontro, chi egli sia per l’altro. Da ciò una desolante solitudine, una sensazione d’angoscia, che determina come effetto o un cieco furore contro la società o un brutale impulso al suicidio.
·         Tra 1930-1933 i primi due volumi de L’uomo senza qualità, l’incompiuto, colossale romanzo di Musil in cui, mescolando narrazione e riflessione saggistica, Musil sconvolse le tradizionali tecniche romanzesche, costruendo una grande metafora dell’aspirazione dell’uomo alla totalità e insieme dell’impossibilità di raggiungere una verità che non sia provvisoria e parziale.
Ciascuno di questi scrittori (e insieme a loro bisogna ricordare almeno Virginia Woolf, William Faulkner, Gertrude Stein) aprì strade completamen­te inesplorate per il romanzo e perseguì obiettivi diversi; tutti però intrapresero un per­corso che passava per il radicale e profondo ripensamento delle strutture narrative, della lingua e dello stile.
Nel­le opere di questi autori è possibile indivi­duare alcune direzioni comuni della ricerca di rinnovamen­to delle strutture narrative:
1.      Il tempo interiorizzato: l’idea nuova è che il tempo non è una realtà oggettiva, che si misura in ore, giorni, mesi, ma è una percezione soggettiva, è il tempo della coscienza. La narrazione, l’organizzazione dei fatti in un prima e in un dopo avvie­ne allora secondo questo tempo interiore.
2.      La destrutturazione dell’intreccio: si indebolisce l’intreccio come narrazione continua, nella quale gli eventuali vuoti sono riempiti attraverso l’intervento del narratore. La materia del racconto tende a coagularsi sempre più in blocchi tematici, a seguire gli andamenti della coscienza dei personaggi che si sostituisce alle vicende.
In queste direzioni si mosse quindi la ricerca della narrativa novecentesca, ma, dopo questa svolta, è problematico trovare nel corso del secolo altri denominatori comuni.

Storia del romanzo: il primo Novecento - Il romanzo occupa un posto di assoluta preminenza nel panorama let­terario e, nel corso del secolo, la produzione si differenzia in misura rilevante per avvicinarsi, sotto lo stimolo dell’industria culturale, alle esigenze di un pubblico differente. Accade così che mentre si affermano sperimentazioni di nuovi modi di narrare, tendenze di avanguardia, persistano, anche a li­vello di letteratura alta, romanzi di impianto tradizionale.
La crisi della tradizione ottocentesca si evidenzia nel fatto che raccontare e descrivere non basta più: la grande tradizione narrativa ottocentesca che aveva dato nel verismo gli ultimi altissimi frutti, entra, infatti, in cri­si nei primi anni del nuovo secolo.
Già nell’alveo dell’estetismo di fine secolo erano nate esperienze narrative che avevano indebolito il ruolo della trama, ma ciò che a molti scrittori cominciava ad apparire vecchia era l’operazione stessa del narrare. De­scrivere e raccontare erano sentiti come schemi che fatal­mente riproducevano un ordine, volevano dire fissare un inizio e una fine, interpretare la realtà e disporla razionalmente in uno spazio e in un tempo. Ma nella cultura novecentesca proprio questo cominciava ad essere messo in dubbio, che la realtà fosse interpretabile secondo parametri razionali.
Ciò che caratterizzava la modernità era la perdita del centro, della certezza che l’uomo potesse conoscere il mondo che lo circonda, giudicarlo e quindi descriverlo. Un elemento che emergeva era la fine di una visione unitaria del mondo e di se stessi, che portava intellettuali, artisti e scrittori a cercare nuovi strumenti per esprimere questa nuova situazione, tut­ta moderna.
Una prima conseguenza della situazione fin’ora delineata fu che gli scrittori si applicarono a forme della prosa alternative alla narrazione:
1.      la prosa lirica nella quale il racconto è sostituito dall’illumina­zione improvvisa, dal flash;
2.      il frammento e la prosa d’arte, cioè pezzi di bravura, sfoggi di raffinatezza stilistica.
Alcuni grandi romanzi creano nei primi decenni del secolo la di­mensione novecentesca del narrare.
·         Nel 1913 la prima parte di Alla ricerca del tempo perduto, il ciclo di sette romanzi di Marce Proust che compì una delle più ambiziose imprese della letteratura di tutti i tempi: nel contesto di una società, sottoposta ad un profondo cambiamento sociale, che assiste al definitivo declino del mondo aristocratico, egli analizzò minutamente le cause della psicologia amorosa e i meccanismi della memoria, cogliendo insieme la relatività della dimensione temporale e la possibilità per ogni uomo, attraverso gli incontrollabili meccanismi della memoria involontaria, di rivivere l’essenza stessa del proprio passato.
·         Nel 1916 esce il lungo rac­conto La metamorfosi, di Franz Kafka che ebbe un peso decisivo nell’evoluzione delle tecniche romanzesche. In romanzi come Il processo (1925) e Il castello (1926) Kafka piegò tecniche della narrativa fantastica a rappresentazioni costruite con minuziosa verosimiglianza e allo stesso tempo caratterizzate da un angosciante senso dell’assurdo e da inquietanti trasfigurazioni oniriche: le private ossessioni psicologiche dell’autore si trasformano in densi simboli del destino umano, in un mondo privo di dei ed oppresso da misteriose ed incombenti presenze superiori.
·         Nel 1922 il romanzo Ulisse di James Joyce riprende il modello narrativo dell’Odissea di Omero, anche se la sua azione è circoscritta a quanto accade nell’arco di una sola giornata nella Dublino contemporanea. Una delle caratteristiche più originali della scrittura di Joyce è l’impiego sistematico delle tecniche del monologo interiore e del flusso di coscienza, attraverso le quali l’autore rappresenta, per così dire, in presa diretta lo scorrere incessante e spesso informe dei pensieri, delle percezioni, delle associazioni mentali consapevoli e inconsapevoli dei personaggi.
·         Nel 1923 appare, ai margini dell’ufficialità letteraria nazionale, La coscienza di Zeno di Italo Svevo in cui c’è «ardore di verità umana e desiderio continuo di sondare, ben al di là delle parvenze fenomeniche dell’essere, in quella zona sotterranea ed oscura della coscienza dove vacillano e si oscurano le evidenze più accettate». Se i primi due romanzi[7] sono una specie di autobiografia, La coscienza di Zeno che assume la forma di diario, approfondendo sistematicamente lo scandaglio dell’inconscio. In esso il problema esistenziale è risolto con la scoperta dell’azione: solo se ci si immerge totalmente nei problemi concreti del vivere quotidiano e non si ha più il tempo per le meditazioni sulle problematiche astratte dell’esistenza[8], è possibile liberarci dal peso dell’angoscia.
·         Nel 1926 uscì il romanzo Uno nessuno e centomila di Luigi Pirandello[9], opera intenzionalmente frammentaria, saggistica e antiromanzesca, cui lo scrittore affidò il compito di riassumere la propria sconsolata visione del mondo, basata su di un esasperato soggettivismo, secondo cui la realtà non avrebbe una sua oggettività, ma assumerebbe tanti aspetti diversi quanti sono gli uomini che la osservano; anzi essa cambierebbe anche a seconda dei vari momenti in cui viene a trovarsi il singolo uomo. La medesima cosa capiterebbe all’uomo: io non sono nella realtà quello che sono, ma quello che appare a ciascuno degli uomini con i quali vengo a contatto; e poiché la mia personalità non ha senso al di fuori del contatto con la società, è evidente che io creda di essere uno, essendo invece centomila e nessuno. Ne consegue l’impossibilità dell’uomo di comunicare con gli altri, poiché a lui sfugge, in ogni incontro, chi egli sia per l’altro. Da ciò una desolante solitudine, una sensazione d’angoscia, che determina come effetto o un cieco furore contro la società o un brutale impulso al suicidio.
·         Tra 1930-1933 i primi due volumi de L’uomo senza qualità, l’incompiuto, colossale romanzo di Musil in cui, mescolando narrazione e riflessione saggistica, Musil sconvolse le tradizionali tecniche romanzesche, costruendo una grande metafora dell’aspirazione dell’uomo alla totalità e insieme dell’impossibilità di raggiungere una verità che non sia provvisoria e parziale.
Ciascuno di questi scrittori (e insieme a loro bisogna ricordare almeno Virginia Woolf, William Faulkner, Gertrude Stein) aprì strade completamen­te inesplorate per il romanzo e perseguì obiettivi diversi; tutti però intrapresero un per­corso che passava per il radicale e profondo ripensamento delle strutture narrative, della lingua e dello stile.
Nel­le opere di questi autori è possibile indivi­duare alcune direzioni comuni della ricerca di rinnovamen­to delle strutture narrative:
  1. Il tempo interiorizzato: l’idea nuova è che il tempo non è una realtà oggettiva, che si misura in ore, giorni, mesi, ma è una percezione soggettiva, è il tempo della coscienza. La narrazione, l’organizzazione dei fatti in un prima e in un dopo avvie­ne allora secondo questo tempo interiore.
  2. La destrutturazione dell’intreccio: si indebolisce l’intreccio come narrazione continua, nella quale gli eventuali vuoti sono riempiti attraverso l’intervento del narratore. La materia del racconto tende a coagularsi sempre più in blocchi tematici, a seguire gli andamenti della coscienza dei personaggi che si sostituisce alle vicende.
In queste direzioni si mosse quindi la ricerca della narrativa novecentesca, ma, dopo questa svolta, è problematico trovare nel corso del secolo altri denominatori comuni.
In Italia, il trentennio tra l’inizio della prima guerra mondiale e la fine della seconda fu caratterizzato dalla presenza del Fascismo le cui direttrici ufficiali della cultura esaltavano gli uomini dalla volontà granitica ed eroica: per questo motivo la cultura italiana di questo periodo fu fortemente condizionata da una tale realtà storica e questo rende naturalmente più difficile una disposizione della produzione narrativa.
Ciò che prevale in Italia è la molteplicità delle esperienze e delle soluzioni:
1.      L’emergere della piccola borghesia tra le due guerre incrementa una produzione letteraria di consumo. A parte i generi settoriali, la gran parte della produzione di consumo si ricollega ai romanzi d’appendice ottocenteschi; volgarizzamento della letteratura colta per i ceti medioborghesi: Luciano Zuccoli (La freccia nel fianco, 1913), Guido da Verona volgarizzatore del dannunzianesimo, in fondo la stessa Grazia Deledda che nel dopoguerra scrive Incendio nell’uliveto (1918), e Cosima (1937), e riceve un nobel nel 1926. Sibilla Aleramo, una scrittrice come Térésah, Antonio Beltramelli.
2.      Oltre a Pirandello e a Svevo, un ruolo fondamentale fu giocato dalla rivista fiorentino Solaria[10]. L’attività del gruppo Solaria, cui collaborano critici quali Debenedetti e Solmi, aveva già delineato, negli anni trenta, due precisi filoni narrativi: quello di tipo saggistico-memorialistico e quello realistico. Nella linea solariana si dispiega una vasta gamma narrativa che ha, in un certo senso, caratteristiche di letteratura di opposizione: l’artista, limitandosi, infatti, a rifugiarsi nella rarefatta evocazione memoriale ed astraendosi dalla contemporanea realtà italiana, si spinge sino alla descrizione di dolorose realtà sociali, trasferita in un clima remoto e arcano che toglie mordente alla volontà di opposizione.
3.      Accanto a questo c’è una letteratura d’opposizione meno cifrata e più decisa.
·         Nel 1929 Moravia pubblica Gli indifferenti[11], un inclemente affresco della decomposizione borghese opposto alle mitologie ufficiali. La vicenda narrata si concentra su pochi personaggi ed ha come ambientazione principale il salone di casa Ardengo. Ritratto della disgregazione di una famiglia borghese, Gli indifferenti, contraddicendo i valori marziali ed eroici propagandati dal regime fascista, fu considerato dal regime un romanzo scandaloso e per questo sottoposto a censura. La prosa è asciutta, essenziale, fredda e analitica che inaugurò un modello narrativo, caratterizzato da un programmatico grigiore, nello sforzo di rendere anche stilisticamente lo squallore dell’Italia fascista. Il romanzo riveste una particolare importanza perché, in un momento di crisi e di stanchezza della nostra narrativa, si impose con la for­za di un romanzo di rottura. L’aspetto che più colpì il pubblico e la critica fu il crudo realismo con cui venivano ritratti ambienti, situazioni e personaggi in una prosa disadorna e secca. Come se­gnala il titolo, il romanzo si realizza nella messa in scena di una situazione esistenziale, l’indifferenza, che si manifesta come incapacità, inerzia, inettitudine, apatia morale. Questa condizio­ne viene ritratta nei componenti di una famiglia borghese che, dietro le apparenze e le finzioni del perbenismo, nascondono corruzione e assenza di valori.
·         Nel 1930 Corrado Alvaro pubblica Gente in Aspromonte le cui pagine nascono da una favolosa trasfigurazione di vita regionale condotta sul filo della memoria, non solo da una commossa ricostruzione di fatti, di persone, di paesaggi impressi nell’anima al suo affacciarsi alla vita, ma anche da una sofferta partecipazione al dramma della povera gente che da secoli lotta e soccombe, preda spesso di tirannici latifondisti, in una terra arida e desolata, e più ancora da un continuo impegno morale che accompagna e guida gli umili verso la rivolta e il riscatto. In questa terra desolata, in questo luogo di annose ingiustizie sociali e di inveterate sopraffazioni, Alvaro colloca la vicenda umana di Argirò, un pastore i cui buoi e animali avuti in custodia precipitano in un burrone e devono essere venduti per pochi soldi come carne di bassa macelleria e la progressiva presa di coscienza del suo figlio maggiore Antonello che trova nel brigantaggio l’unica forma di riscatto[12]. Il racconto vuol evidenziare questa presa di coscienza del mondo dei pastori che finalmente riescono a manifestare la loro protesta contro la società ingiusta che ha dimenticato la loro umanità. Gente in Aspromonte diventa la tragica storia di un urto secolare, vera e guizzante, senza niente di veristico e di stucchevole, e dove oggetti, proverbi, urli, insieme a un valido senso di un dialogo semplice e parlato, ricomposto senza alcuna codificazione letteraria, si fondono in valori e in tensioni permeate di magico contenuto.
·         Nel 1933 Ignazio Silone pubblica Fontamara[13], scritto in un momento di amarezza, di rimpianto e di solitudine, nell’incertezza del futuro, ma anche col proposito morale di resistere alla paura del presente. Silone concepì questo romanzo per denunziare lo stato di avvilimento sociale in cui si trovava il suo paese. Fontamara potrebbe essere definito un libro-eroe, avendo avuto l’effetto deflagrante di un giornale di denuncia clandestino: il romanzo, infatti, fu vietato in Italia e potè uscire solo in Svizzera a spese dell’autore, proprio per il carattere eccessivamente schietto della denuncia sociale in esso contenuto. Fontamara è la storia di un paese della Marsica, costituito da poche casupole e strade primitive nel periodo in cui, ai soprusi antichi di cui i poveri contadini di quel paese sono vittime, si aggiunge anche la violenza dei fascisti arrivati al potere. Dal racconto esce l’immagine di un’umanità primitiva e rozza, ma capace di virtù eroiche. L’ambiente, la Marsica, è sempre presente, come un quadro amaro, ritratto in linee dure, che è parte integrante della vita dei fontamaresi. I contadini di Fontamara, sfruttati, si ribellano solo quando il lettore è già ampiamente esausto, e questo senso di angoscia e di pena è rafforzato dal finale tragico di tale ribellione. Tali sentimenti in gioco sono gestiti con un’arma semplicissima, la stessa del Verismo, la cronaca nuda: lo stile appare, infatti, povero e incalzante, più dinamico dei protagonisti, più cinico dei cinici descritti e tutto ciò rende Fontamara uno di quelle opere letterarie indimenticabili. Un elemento importante di questo romanzo è l’ironia, con cui Silone esprime la contrapposizione tra l’ingenuità dei cafoni e la falsità degli altri, la paura di essere presi in giro da parte dei primi e l’intenzione di ingannare da parte dei secondi. Si pone l’accento, anche, l’enormità dei provvedimenti che arrivano dall’alto, che assumono l’aspetto di beffe. Se da un lato Fontamara è un bollettino storico sulla condizione miserabile dei contadini del Centro-Sud, dall’altro è un grandissimo esempio di come si possa fare grande letteratura avendo come protagonisti personaggi assolutamente anti-eroici, abulici, ignoranti, irritanti e sfruttati. Elementi essenziali sono i contadini che non sanno fare massa, il dio sconosciuto della terra da coltivare e possedere, le meschine ricchezze della vita agricola (l’acqua, il podere, le recinzioni), le prepotenze fraterne dei cafoni leggermente più furbi, capaci di farsi ben volere dal potere locale, dal Regime, nel caso specifico.
·         Nel 1934 Carlo Bernari pubblica Tre operai, scritto  fra il 1928 e il 1929. Tenuto conto del delicato periodo storico in cui vigeva la letteratura rondista ed evasiva, il romanzo, per il suo contenuto sociale e realistico, rappresentava un momento di rottura con la moda vigente. Alcuni confusero il documento politico-sociale con la pagina che Bernari aveva scritto e la inserirono nel vago clima neorealistico del tempo, altri vi videro il trionfo della poetica neorealistica di marca verghiana. La genesi è in gran parte politica e impegnata in senso sociale, con idee non conformi a quelle del regime fascista infatti alcuni giornali autorevoli dell’epoca rifiutarono recensioni favorevoli, supponendo che nel romanzo vi fossero elementi politicamente pericolosi e compromettenti. né l’occupazione delle fabbriche, né i problemi degli operai, negli anni del Fascismo, costituivano Infatti argomenti fondamentali e frequenti della narrativa ufficiale. Bernari tuttavia nel suo romanzo non affrontava la condizione operaia come condizione di classe, bensì i problemi umani di tre individui che fanno gli operai: per questo egli si mantiene ancora al di qua della letteratura sociale. Bernari crea quel clima problematico e diseroicizzato degli indifferenti, degli uomini logorati e vinti, ridotti ormai ad una situazione fallimentare della vita, che caratterizzerà con maggiore consapevolezza il Neorealismo. Gli operai di Bernari sono dei vinti la cui aspirazione è quella di uscire dalla loro condizione per entrare nel mondo piccolo-borghese, ma certamente l’opera rimane una testimonianza della sconfitta operaia negli anni in cui il Fascismo si affermava ed ancora un documento del disorientamento delle coscienze, in quanto il lavoro stesso è inteso o rappresentato come condizione primaria di alienazione dell’uomo da sé e dai suoi simili. C’è infatti, in esso, la condizione ferma e scontata della fabbrica: questa esiste ed esistono una serie di cose per cui questa istituzione vive la sua vita impersonale inghiottendo uomini e avvenimenti per privarli di ogni elemento di distinzione umana e sociale.
Questi scrittori diedero il via ad una narrativa di opposizione al regime fascista, naturalmente con tutte le precauzioni suggerite dalle circostanze, orientandosi verso una descrizione più realistica della società italiana, al di là della retorica della sanità del popolo italiano. Per questo questi scrittori vengono anche definiti neorealisti degli anni Trenta, anche se essi ebbero del mondo un sentimento angosciato e pessimistico[14]. Per il resto la storia del romanzo italiano degli anni Trenta si svolge fra toni vagamente realistici e... . Fra questi si segnalano:
1.      Aldo Palazzeschi mantenne un atteggiamento distanziato ed attendista di fronte al regime fascista e alla sua ideologia di ritorno all’ordine conducendo vita molto appartata ed intensificando la sua produzione narrativa e collaborando, dal 1926 in poi, al Corriere della sera. Palazzeschi ebbe un ruolo rilevante nella letteratura del Novecento per il suo stile e per le sue concezioni narrative: rappresentò, infatti, una nota di arguzia e di genialità, soprattutto per il modo come descrive i suoi personaggi e le vicende in cui essi agiscono. Quest’atteggiamento ironico e demolitore, unito alla capacità di creare rapidi ed incisivi bozzetti o immagini, è alla base di tutta la sua produzione in prosa[15]. L’opera dove si riassume il significato fondamentale del messaggio di Palazzeschi è il romanzo Le sorelle Materassi, pubblicato nel 1934 dove la trama, profondamente umana con sfumature di malinconia si presta alla problematica introdotta dall’autore, che si riassume in una visione commossa, pur nel tono vario e nell’ispirazione seriosa e sicura che caratterizza il capolavoro. Protagoniste sono Carolina e Teresa Materassi, due anziane sorelle ricamatrici. Nella grigia esistenza delle due zitelle, dedite al lavoro in compagnia della terza sorella Giselda e della serva Niobe piomba ad un tratto il nipote Remo, rimasto orfano di madre Augusta, la defunta quarta sorella Materassi. La giovinezza, la bellezza e la disinvoltura del ragazzo spingono le zie a piegarsi ai suoi comandi, cambiando vita e bruciando in poco tempo i risparmi accumulati in anni di duro lavoro. Abbandonate dal nipote, ridotte alla miseria, le tre donne non cessano tuttavia di adorare Remo, accontentandosi di ricevere qualche cartolina e accettando anche Peggy, modernissima ragazza americana che egli ha sposato. Ormai in rovina, si riducono a lavorare per le contadine del circondario, ma si consolano conservando religiosamente le fotografie di Remo. In particolare una di queste che lo ritrae in succinto costume da bagno, è collocata, come su un altare, nella loro stanza da lavoro. Aldo Palazzeschi raffigura con sarcasmo le sorelle attraverso un linguaggio teatrale, ricco di formule orali e di espressioni del vernacolo intessute in un dialogo sorprendentemente effervescente, punto di forza dell’arte di Palazzeschi. Altrettanta vivacità è data dai particolari scenici delle descrizioni e dai giochi linguistici con cui l’autore crea a siparietti esilaranti, come la scena della cambiale, in cui Remo arriva a chiudere le zie in dispensa pur di farsi firmare un’astronomica cambiale.
2.      Riccardo Bacchelli si impone per la sua grande poliedricità narrativa[16]: in lui colpisce particolarmente l’ampiezza della problematica che abbraccia i principali aspetti della condizione umana e svolge temi storici, sociali, morali, filosofici e scientifici. In varie opere di Bacchelli è presente lo sfondo storico che conferisce saldezza e stabilità al racconto e che testimonia in particolare l’interesse che l’autore ha per la storia di cui è scrutato il ritmo ed il significato. Lo studio stesso delle epoche passate[17] è condotto con uno stato d’animo contrassegnato spesso dalla nostalgia, dal rimpianto che a volte deriva dal venir meno delle cose, dall’immagine di una realtà che scompare per sempre. Oltre a ciò, la serena consapevolezza dei problemi sociali e morali dell’uomo cui si unisce il vagheggiamento di un’umanità forte e buona conferisce originalità ed un notevole fascino all’opera di Bacchelli. I pregi più indicativi del mondo di Bacchelli si riassumono nel suo capolavoro, Il mulino del Po[18], pubblicato fra il 1938 e il 1940. L’opera è un grandioso affresco storico che, nella salda cornice di un ampio periodo che va dalla sconfitta napoleonica in Russia fino alla battaglia del Piave nella Prima Guerra Mondiale, svolge la complessa vicenda di quattro generazioni di mugnai del Po, gli Scacerni, ed intende celebrare, attraverso le lotte dei protagonisti con il Po e con le avversità della storia, la resistenza e la tenacia del popolo italiano. Mirabili sono le pagine che descrivono l’alluvione del grande fiume, gli scontri tra i restauratori e i liberali nel clima infuocato del Risorgimento, le tempestose lotte di classe nella Romagna socialista negli ultimi decenni del XIX secolo, le frequenti commosse descrizioni bucoliche e del costume contadino, e sempre acuto, affatto manzoniano quello dei molti personaggi. Al sapore storico si unisce infatti nel romanzo l’interesse per lo studio dei personaggi, nella cui vita e nei cui gesti si individuano spesso significati universali ed umani, mentre sia nell’analisi storica e sociale (evidente soprattutto se notiamo l’importanza assegnata agli esami degli aspetti e dei problemi delle varie classi) sia sulla problematica morale domina la capacità di ampie e ben articolate concezioni che è tipica dell’autore. La scrittura ariosa, precisa, fatta di periodi lunghi e nitidamente espressi, richiama quella di Manzoni che Bacchelli assunse come modello e la lingua è la stessa che si parlava in quel mondo, a quel tempo. All’esempio manzoniano Bacchelli si è costantemente richiamato interpretandolo come compimento di grandi affreschi romanzeschi, guidati da saldi concetti morali, da un gusto molto forte della meditazione e dell’ammaestramento e da un vivo interesse per la storia. Al di là di questo si coglie una straordinaria somiglianza etica, tra Bacchelli e Verga: i mulini sono anche lo scoglio dal quale le ostriche non dovrebbero mai distaccarsi, pena, per chi contravviene a questa regola, non scritta ma ferrea, la rovina. E difatti, alla fine, uguale e triste è la sorte degli Scacerni come lo era stata quella di mastro don Gesualdo, dei Verginesi come prima di loro dei Malavoglia, e drammatica risulta, nello sperare e nel disperare, la somiglianza di padrona Cecilia con padron ‘Ntoni.
3.      Dino Buzzati interpreta l’angoscia esistenziale, il nonsenso di molti comportamenti umani e l’assurdità delle situazioni. I romanzi e i racconti di Dino Buzzati, esprimono profondamente il senso d’inquietudine e di ansia che spesso riempie la vita umana. Caratteristica dell’opera di Buzzati è la coesistenza di fantasia e realtà. Dopo due prove narrative di diverso successo[19], nel 1940 Buzzati pubblica Il deserto dei Tartari mentre l’Europa freme sotto i colpi di una guerra nella quale anche l’Italia inizia a muovere i primi passi. Ne Il deserto dei Tartari, attraverso metafore, analogie, sottili processi allusivi ed evocativi, Buzzati segue la vita-non vita di Giovanni Drogo, dal suo arrivo, appena ventunenne, alla Fortezza Bastiani, fino alla sua morte. La Fortezza è un avamposto al confine con un deserto, in passato teatro di incursioni da parte dei Tartari: sperduta, sulla sommità di una montagna, retta da regole ferree, microcosmo affascinante che ammalia i suoi abitanti impedendo loro di abbandonarla. I militari che la abitano e le danno vita sono retti da un’unica speranza: vedere sopraggiungere i Tartari dai confini, per combatterli, acquisire gloria, onore, diventare, insomma, eroi. Le vite si consumano, dunque, in quest’attesa, cullate dalla pigra abitudine, scandite dall’ignaro trascorrere del tempo. Giovanni Drogo è subito avvinto, dalla sua malia: è sicuro di sé, sa di avere tutta la vita davanti, di poterne disporre a suo piacimento, aspettando la grande occasione. Così Giovanni si adatta alla vita della Fortezza, consegnando nelle mani della Disciplina militare, la propria esistenza. L’intero romanzo è caratterizzato dal continuo mutare di prospettiva del narratore. Talvolta questi assume il punto di vista del protagonista, altre volte narra di lui in terza persona, allontanandosi; oppure interloquisce con i personaggi; in alcuni casi sembra seguire un proprio pensiero, un flusso di coscienza ininterrotto che prelude a quelle che saranno poi le riflessioni dello stesso Giovanni Drogo.
4.      Vitaliano Brancati[20] affronta un particolare aspetto della realtà sociale del meridione: se il meridionalismo di Alvaro è lirico e quello di Silone è sociale, il suo meridionalismo è ironico e moralistico. Egli rappresenta la vita pigra e sonnolenta della provincia siciliana, concentrandosi nella rappresentazione del gallismo e dell’ossessione della donna e dell’eros. Il moralismo si stempera però in una caricatura non priva di qualche adesione e simpatia per i suoi eroi. Così la comicità si trasforma in amaro umorismo, lasciando intravedere una prospettiva esistenziale e psicologica e la lezione pirandelliana. Il primo libro della trilogia del gallismo che lo impose all’attenzione della critica e che dimostrò le sue positive qualità di narratore, fu il romanzo Don Giovanni in Sicilia[21] pubblicato nel 1941. Scapolo quarantenne, Giovanni Percolla vive in casa con le sorelle sedotto dagli sguardi di Ninetta che sposa e si trasferisce con la sposa a Milano, dove Ninetta l’introduce in società. Il romanzo mette in luce le due anime del protagonista che sono poi le due anime dell’autore stesso: da un lato l’istintiva adesione alla vita tranquilla e sorniona della provincia meridionale, dall’altro l’esigenza razionalmente riconosciuta di impegnarsi in una vita operosa come quella di Milano. Questi atteggiamenti così diversi tra loro non sono ancora drammaticamente contrapposti; si assiste piuttosto alla descrizione di un gallismo fatto non solo di discorsi scambiati con gli amici, ma anche della tendenza ad ingigantire l’importanza degli sguardi e, più ancora, della contemplazione quasi estatica della donna. Le donne che ricambiano uno sguardo trasformano la vita di un uomo. Quest’esaltazione nasconde però un’intima povertà politica ed intellettuale: come osserva Leonardo Sciascia questi uomini che s’acquattano come scarafaggi in certe strade buie e maleodoranti, che si riuniscono nel retrobottega di una farmacia notturna e ogni tanto fanno risuonare un lungo gemito per le vie barocche di Catania, negli anni della guerra d’Etiopia, col fascismo al potere ed il secondo conflitto mondiale alle porte non sanno far altro che pensare alla donna, per vagheggiarla più che per avvicinarla. Con accenti ancora più divertiti che tragici, Brancati ha rappresentato l’inerzia tipica della sua terra, ma anche il vuoto che si cela dietro a tanta propaganda fascista.

Italo Svevo

Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz) nasce a Trieste nel 1861; a dodici anni vie­ne mandato in Baviera a compiere gli studi, che continua poi a Trieste frequentando l’Istituto Superiore di Commercio. In seguito al fallimento dell’industria paterna si im­piega in una banca. Nel 1896 sposa una lontana parente, Livia Veneziani, e successiva­mente si impegna nella conduzione dell’industria di vernici sottomarine del suocero. Nel frattempo non intermette i suoi interessi letterari, e collabora a giornali locali. Nel 1892 esce il suo primo romanzo, Una vita; nel 1898 il secondo, Senilità. La scarsa attenzione della critica lo disanima, e solo molto più tardi, e per impulso dello scrittore irlandese Joyce, che vive per alcuni anni a Trieste e gli diviene amico, riprende l’atti­vità letteraria: nel 1923 esce il suo romanzo più importante, La coscienza dì Zeno. Muore in un incidente d’auto a Motta di Livenza nel 1928. Altri suoi scritti, che sono stati pubblicati postumi, sono: La novella del buon vecchio e della bella fanciulla (1929), Corto viaggio sentimentale e altri racconti mediti (1954), Commedie (1960), Epistolario (1967).

Il «caso Svevo» - I tre romanzi che costituiscono la produzione maggiore di Svevo, Una vita (1892), Senilità (1898), La coscienza di Zeno (1923), ebbero un singolare destino che fece parlare di un «caso Svevo». Mentre ora sono considerati dalla critica fra le testimonianze più significative della nostra letteratura fra Ottocento e Novecento, quando furono pubblicati passarono quasi del tutto sotto silenzio. Svevo rimase pressoché ignorato fino a che Montale, in un suo articolo, lo fece conoscere all’Italia, e lo scrittore irlandese James Joyce, amico di Svevo, lo fece conoscere all’Europa.

La formazione culturale di Svevo - La formazione culturale di Svevo fu assai poco legata alla tradizione italiana; fu piuttosto una formazione di tipo mitteleuropeo, cioè legata alla cultura del centro Europa. Svevo era orientato verso questo tipo di cultura dalla stessa condizione politica di Trieste, che, nonostante il suo diffuso irredentismo, fece parte fino al 1918 dell’impero asburgico, anzi ne costituì lo sbocco sul Mediterraneo. A questo si aggiunga che egli compì i suoi studi in Germania.

Fra romanzo naturalistico e romanzo di introspezione analitica - I primi due romanzi, Una vita e Senilità, risentono ancora dell’interesse nutrito dal giovane Svevo per i natu­ralisti francesi. Di tipo naturalistico è infatti il loro impianto narrativo: in essi le vicen­de si susseguono in ordine cronologico, legate da rapporti di causa e di effetto; è natu­ralistico anche l’interesse per gli ambienti sociali, come, ad esempio, in Una vita, per l’ambiente bancario, che Svevo conosceva per diretta esperienza.
Tuttavia, già in questi romanzi è evidente l’attenzione di Svevo per l’indagine introspettiva, cioè per una profonda analisi della psicologia dei personaggi, soprattutto dei protagonisti. In questo senso ebbero grande influenza su Svevo il pensiero del medico e filosofo austriaco contemporaneo Sigmund Freud, l’iniziatore della psicanalisi, e le ricerche che questi compiva a Vienna e che miravano a scandagliare i fondi più sotterra­nei della coscienza umana.
Nel terzo romanzo, La coscienza di Zeno, l’impianto naturalistico dei primi due scompare del tutto. Il racconto è concepito infatti come una specie di diario che il pro­tagonista Zeno Cosini scrive su esortazione dello psicanalista che deve curarlo. Le vi­cende della sua vita non sono esposte in ordine cronologico, ma recuperate sul filo del­la memoria, via via che gli si presentano alla mente. E non contano per quello che so­no realmente state, ma per il modo, lo stato d’animo con cui il personaggio le ha vissu­te e per le reazioni che gli suscitano nel ricordo. È per questa via che Svevo introduce il lettore nella psicologia, anche dell’inconscio, del suo personaggio.

La figura dell’«inetto» nei romanzi di Svevo - Comune a tutti i protagonisti sveviani è l’incapacità di adeguarsi all’ambiente in cui vivono, di inserirsi in esso. Restano così degli esclusi, degli emarginati; si tratta di un’emarginazione vissuta passivamente, perché essi non cercano neppure di lottare per opporvisi, ma vi si abbandonano con abulia.
Solo il protagonista del terzo romanzo, La coscienza di Zeno, in un certo senso si salva, perché finisce con l’accettarsi così com’è, e nello stesso tempo prende le distanze dalla sua abulia e inettitudine, guardando ad esse con chiara coscienza e con ironia.

Luigi Pirandello

Nato a Girgenti nel 1867, ha compiuto gli studi prima a Roma, poi a Bonn in Germania, dove si è laureato con una tesi sui dialetti siciliani, e presso la cui università ha in­segnato per un anno. Tornato a Roma vi ha trascorso quasi tutta la vita, insegnando e dedicandosi all’attività di scrittore. A Roma è morto nel 1936.
È autore di novelle (Novelle per un anno), di romanzi (L’esclusa, Il fu Matila Pa­scal, I vecchi e i giovani, Uno, nessuno, centomila) e di una vastissima produzione tea­trale (Enrico IV; Pensaci, Giacomino; Così è se vi pare; Il giuoco delle parti; Diana e la Tuda; La signora Morli uno e due; Sei personaggi in cerca di autore; per citare solo alcuni drammi) con la quale si è affermato in Italia il cosiddetto «teatro d’idee». Importante anche il suo saggio sull’Umorismo. Pirandello nella sua produzione, che nasce da una spregiudicata volontà di scandaglio della natura umana, riflette le inquietudini del suo tempo e se ne fa interprete. Perciò, se la sua opera appartiene per buona parte al periodo anteriore alla prima guerra mondiale, egli ha ottenuto la fama maggiore ne­gli anni del dopoguerra, quando queste inquietudini diventavano più diffuse e sensibili.
Nelle opere pirandelliane, siano esse romanzi, novelle o opere teatrali, ricorrono i medesimi temi, di cui individuiamo qui i fondamentali.

«La maschera e il volto» - Ogni essere umano - dice Pirandello - è fissato, bloccato in una specie di maschera immobile che Io fa apparire sempre uguale a se stesso. Ma l’individuo non è fisso, immobile, non è cioè quello della «maschera», ma è in continua trasformazione; ogni persona non è mai, nel tempo, uguale a se stessa: il buono non è sempre buono, il furbo non è sempre furbo ed altro L’uomo di oggi, in altre parole, non è lo stesso dell’uomo di ieri, né di quello che sarà domani. «Non c’è uomo - scri­ve lo stesso Pirandello - che differisca più da un altro che da se stesso nella successio­ne del tempo».
La «maschera» diventa cosi una prigione della nostra vera natura; a volte diventa così soffocante e intollerabile che si tenta di spezzarla, di uscirne fuori, col rischio di mettere a repentaglio la propria posizione sociale, di essere considerati dei pazzi. È questo il tema di alcune tra le più felici novelle pirandelliane, come La carriola e Il treno ha fischiato. Ma esso è presente anche in altri numerosi scritti, il più importante dei quali è il romanzo Il fu Mania Pascal, dove il protagonista approfitta di alcune circo­stanze favorevoli per buttar via il suo se stesso tradizionale, per darsi un altro nome e un’altra vita; ma l’esperimento non gli riesce, ed egli è costretto a ritornare nella sua «maschera».

Che cosa è la verità - Per Pirandello non esiste una sola verità, ma tante verità quanti sono gli uomini; il mondo, perciò, risulta privo di certezze obiettive. Nel romanzo Uno, nessuno, centomila, il protagonista si accorge, ad un tratto, che coloro che lo circondano, a cominciare da sua moglie, Io vedono ognuno in modo diverso dall’altro e tutti poi diversamente da come egli vede se stesso. Sente così la sua personalità come polverizzarsi; non è più uno, ma centomila e perciò nessuno. Analogamente, nella commedia Così è (se vi pare), la giovane donna, sulla cui identità corrono voci contraddittorie, incalzata dalla curiosità degli altri personaggi, si presenta velata sulla scena e dichiara: «La verità? è solo questa... Io sono colei che mi si crede».

Il «caso» e lo scacco - Spesso nell’opera pirandelliana il susseguirsi delle azioni non è determinato da un controllabile e logico rapporto di causa e di effetto, ma da spinte imprevedibili, dal «caso» appunto. Il caso scompiglia le programmazioni razionali e orienta arbitrariamente le vicende.
Da questa situazione deriva all’uomo un senso di insicurezza, di precarietà, di sfidu­cia in se stesso, nelle sue decisioni e nelle sue azioni, di cui non può prevedere e controllare le conseguenze. La più semplice ed in sé innocua delle sue azioni può infatti, per effetto del caso, determinare conseguenze imprevedibili e a volte sgomentanti.
Altro tema pirandelliano è quello dello scacco, del fallimento, che è comune agli individui e alle intere società. Esso si lega, in parte, al tema del caso, perché è proprio quest’ultimo a togliere all’uomo la fiducia di poter orientare il suo destino e di agire positivamente di conseguenza. I personaggi di una novella pirandelliana, Notte, concludono tristemente che il fallimento è l’essenza stessa della vita, nella quale non si può sapere «perché si debba nascere, perché si debba amare, perché si debba morire».

L’umorismo pirandelliano - L’amaro destino degli uomini è guardato da Pirandello attraverso il filtro dell’umorismo, che nasce, come dice lo stesso Pirandello, allorché di una situazione a prima vista comica, si vede successivamente anche il risvolto doloroso, che trasforma il primo moto di comicità in sorriso dolente ed amaro.

La rivoluzione lirica del primo Novecento - La grande rottura rispetto alla tradizione romantica e classicista si era prodotta in Francia e in Europa nella seconda metà dell’Ottocento, e a cavallo dei due secoli nella nostra letteratura. Pertanto le esperienze poetiche del primo Novecento ap­paiono sotto il segno della continuità e dello svi­luppo, e configurano con maggior evidenza la fi­sionomia di una poesia novecentesca, moderna con caratteri propri e definibili che cerchiamo di riassumere e schematiz­zare.
La poesia del Novecento è un’esperienza che si allontana dal re­sto dei sistema letterario, si sviluppa in una sfera a sé stante ed ha una circolazione limitata.
La lirica moderna accentua ancora, se è possibile, il carattere di soggettivismo. Il poeta compone senza potersi rapportare a un pubblico, né reale, né fittizio.
Il linguaggio, la parola, prevalgono su tutti gli altri elementi della poesia. Il poeta, che non si sente più in grado di esprimere attraverso il linguaggio la sua visione del mondo, si propone di cercare la parola che ha in sé, autonomamente, la capacità di significare, alludere, evocare. Egli fa come da filtro tra le parole e le cose, le mette in relazione e lascia che da questa re­lazione scaturisca un significato.
1.      L’«oscurità» è un dato strutturale. Un carattere che appare su­bito evidente nella poesia moderna è la difficoltà di com­prensione che essa presenta. L’oscurità può derivare da una concentrazione dei significati o può essere il risultato della scomparsa del contenuto, quando le suggestioni del suono, le sequenze ritmiche finiscono per sostituire i significati. Ma an­che senza considerare queste estreme esperienze delle avan­guardie, il lettore della poesia moderna si trova di fronte a una poesia nella quale non riesce a isolare un contenuto preciso, alla quale non può accostarsi attraverso lo strumento della parafrasi. Egli deve pertanto accettare l’indetermina­tezza come elemento costitutivo del messaggio poetico.
2.      A differenza di quanto accade per la prosa, si possono indi­care per la poesia alcuni momenti fondamentali e alcune ten­denze generali, con la precisazione tuttavia che nel no­stro Novecento ci sono poeti di grande statura la cui voce si differenzia con caratteri originali.
3.      A partire dai primi decenni del Novecento la nuova poesia italiana si forma con lo sguardo rivolto alle esperienze stra­niere; le opere di Baudelaire, Mallarmè, Rirnbaud, Valéry di­ventano i punti di riferimento costanti; si può dire insomma che i poeti d’inizio secolo recuperarono i ritardi accumulati dalla nostra letteratura nel corso del secolo precedente.
4.      D’Annunzio e Pascoli ebbero una funzione di cerniera tra Ottocento e Novecento ed esercitarono un’importante influenza. Non va nemmeno trascurato l’esempio dei crepusco­lari sia per le scelte tematiche sia per l’intonazione intimistica e sommessa che portarono nella nostra poesia.
5.      Una proposta decisamente caratterizzata fu quella dell’avanguardia futurista. Le dichiarazioni programmatiche e teoriche contenute nei manifesti della letteratura futurista, mentre negavano di fatto la possibilità di una narrazione proponendo ad esempio l’abolizione della sintassi, della punteg­giatura, dell’aggettivo, potevano trovare una più efficace rea­lizzazione nel linguaggio poetico. In effetti alcune parole d’ordine dell’avanguardia futurista si ponevano nel solco segnato dalla ricerca della poesia moderna come la proposta del verso libero, della immaginazione senza fili, delle parole in libertà. I crepuscolari oppongono coscientemente ai miti dannunziani la pro­saica, dimessa vita giornaliera e pro­vinciale e tuttavia a questo mondo non riescono ad aderire del tutto: sono troppo letterati e raffinati per non sentirlo di pessimo gusto, dai confini del decadentismo non riescono ad uscire. I futuristi con vi­rulenza iconoclasta predicano la di­struzione dei musei e della tradizione, il ripudio dei formalistici compiaci­menti dannunziani ed esaltano la macchina, la velocità, la violenza e la guerra «sola igiene del mondo». Oltre che l’elemento irrazionalistica, che da qualche decennio è la costante di tanta produzione artistica europea, c’è nel loro caso dell’altro: la collusione con le tendenze naziona­listiche già virulente nel paese, la su­blimazione letteraria di quella ferrea legge di violenza che l’industrialismo portava nei rapporti tra le classi.
6.      Fuori da queste due scuole operano poeti che in vario modo partecipano delle inquietudini del tempo e tentano, con differenti risultati, nuove strade. Nella poesia che con più evidenza si coglie già il nuovo: Clemente Rebora e soprattutto, Dino Campana, certamente la voce poetica più originale e più alta di questo periodo, senza i cui Canti orfici non si capirebbero Ungaretti e tutto l’ermetismo.
7.      La data della prima raccolta di poesie di Ungaretti Il Porto Sepolto, 1916, ha un valore rilevante nella storia della poesia italiana del Novecento, poiché in questa raccolta si rende concreta il problema centrale della lirica del primo Novecento. Si trattava di accoglie­re l’eredità simbolista, passata attraverso i modelli francesi, e le novità delle sperimentazioni delle avanguardie, e per la stret­ta relazione con una «novità» di contenuto.
Ungaretti sa far com­piere questo passo in avanti alla nostra lirica; ciò che, infatti, va fortemente rilevato, perché costituisce la vera svolta di Porto Sepolto, è l’impiego degli strumenti retorici di natura metrica, sti­listica e sintattica, messi a punto in un arco di esperienze poetiche che vanno da Baudelaire a Pascoli, ai crepuscolari e ai futuristi, per rifondare la parola poetica nella pienezza della sua funzione. Nei versi di Porto Sepolto non vuole più esserci traccia di parodia, sperimentalismo, trasgressione, cioè di quello stimolo di natura so­prattutto polemica e culturale che esprimevano un bisogno di novità, ma anche una «crisi» della poesia. Ungaretti, che pure ha rifatto questa stessa strada, sembra aderire più profondamente alle ragioni fondamentali che hanno determinato la svolta della poe­sia moderna e cerca uno strumento espressivo non incrostato dalla tradizione per ridare profondità, sacralità alla parola. Ri­cerca la parola poetica autentica, «pura», creatrice, capace di ri­velare un frammento del mistero della vita, legandolo a un’e­sperienza circostanziata, colta come un’improvvisa e momenta­nea illuminazione.
Le novità di carattere formale di questa poesia appaiono subito evidenti:
  1. La disgregazione della metrica che, andando al di là dell’adozione del verso libero, da un risalto maggiore alla percezio­ne del verso come frammento (nella poesia di Ungaretti si trova­no versi composti di una sola parola), usando l’a capo, lo spazio bianco della pagina come pausa, come silenzio;
  2. La disarticolazio­ne sintattica che elimina i nessi logici, la punteggiatura;
  3. La co­struzione per analogie, il carattere di frammento, di illuminazio­ne improvvisa di immagine momentanea che racchiudono in un’estrema sintesi il contenuto.
Quello che rimane in una poe­sia di questo tipo è necessariamente enfatizzato, bloccato, fissato in una sorta di isolamento che funziona da moltiplicatore delle possibilità della parola di comunicare dei significati, per farla apparire come rivelazione, mistero. Non si deve tuttavia pensare che questa ricerca di un’intensità di significato, che ca­ratterizza anche le poesie della seconda raccolta Allegria di Nau­fragi (pubblicata nel 1931, e comprensiva delle poesie di Porto Se­polto), sia un recupero sia supera e annulla la crisi di fine secolo.
Il poeta non ha un messaggio esplicito, ha una parola che nasce in lui dalla pienezza di un sentimento morale e dalla ricerca di da­re ad esso un’espressione forte, ed egli la offre nella sua essen­zialità e nudità come illuminazione e frammento, non come discorso.
Nelle raccolte successive Sentimento del tempo (1933), La Terra Promessa (1950), Un grido e Paesaggi (1952) Ungaretti ritorna a un linguaggio più tradizionale, ricupera il verso, la strofa che ospita un andamento sintattico più complesso, propone la ri­cerca di una lingua alta ed elegante.
·         Il fenomeno più rilevante nel panorama della lirica italia­na degli anni Trenta e Quaranta è l’affermarsi di modi di concepire e fare poesia che furono riassunti nel nome di ermetismo, una tendenza che ha in sé i caratteri della modernità ed eredita sicuramente molte delle tensioni primonovecentesche verso una poesia pura, espressione di una ricerca di nuovo linguaggio, ma anche di nuovi contenuti.
Il poeta ermetico esprime un’ansia di testimonianza di verità che trova un’espressione indeterminata nel simbolo e nell’analogia, nella tendenza a enfatizzare la parola.
Il termine ermetico cominciò a circo­lare per indicare testi letterari che apparivano chiusi, nel sen­so che la loro comprensione era ostacolata non solo dalla com­plessità dell’argomento, ma dalla volontà dell’autore che ricercava l’oscurità. Il termine fu poi adottato dalla critica per indicare un gruppo di poeti che condividevano alcune idee-gui­da del fare letterario.
1.      L’idea della poesia come va­lore che sta al di fuori e al di sopra della storia e del tempo e che quindi può parlare di un Uomo inteso nella sua essenza spiritua­le e non calato in una determinata situazione storica o persona­le
2.      La poesia è proposta come testimonianza della verità anch’essa assoluta, che non si deve cioè misurare e con­frontare con gli eventi e con la storia.
3.      A quest’idea si associa la ricerca di uno stile alto, l’unico capace di esprimere convenientemente l’ansia di verità e di assoluto.
Ciò non impedisce ai poeti ermetici di porsi compiutamente entro l’alveo della poesia moderna; in particolare essi fanno propria l’esperienza ungarettiana di una parola essenziale, il valore espressivo fondamentale dell’analogia e del simbolo. Per la loro concezione della letteratura come espressione pura e incontami­nata, sottratta da ogni influsso storico e politico, rimasero estra­nei a un coinvolgimento nella politica culturale del regime fasci­sta e sposarono la linea dell’astensione dalla partecipazione alla vita politica e al dibattito ideologico.
Poiché l’ermetismo non fu propriamente una scuola poetica, non tutti i critici concordano sui nomi da far rientrare in questo «contenitore»; tuttavia si può affermare che poeti come Mario Luzi, Alfonso Gatto, Vittorio Sereni, Salvatore Quasimodo furono tra i maggiori protagonisti della stagione dell’ermetismo, anche se poi approdarono ad esperienze diverse: in particolare Quasimodo (1901-1968), che aveva pubblicato con successo le raccolte Acque e terre (1930) e Oboe sommerso (1932); dopo il 1945, quando l’ermetismo entra­va in crisi, coniugò il suo impegno di poeta a quello politico e ci­vile, come testimonia la raccolta Giorno dopo giorno (1947).
·         Una vena lirica che ricerca la modernità del linguaggio non attraverso la rottura, ma tramite un rapporto nuovo con la classicità, è una linea che si può qualificare con Camillo Sbarbaro e che continua anche in poe­ti della generazione successiva come, ad esempio, in Giorgio Caproni e Sandro Penna.
·         Del tutto diverso il cammino poetico di Saba (1883-1957) che ebbe parole di dura critica verso l’ermetismo, la poesia-frammento, la ricerca dell’oscurità. La sua esperienza, resa difficile da una personalità complessa e tormentata, è racchiusa nel Canzoniere, la raccolta delle sue poesie che ci raccontano, con il loro linguaggio per immagini e l’intonazione narrativa, il rap­porto del giovane poeta con Trieste, le difficoltà dell’adolescen­za, l’incontro con la moglie Lina, la nascita della figlia Linuccia, i disagi psicologici, la seconda guerra mondiale, fino all’autoritratto del poeta da vecchio. Mentre tutte le esperienze novecentesche avevano come comune denominatore una sfiducia nella possibilità di trasmettere significati attraverso le parole usuali, organizzate in «discorso», Saba continuò ad avere fede nella parola che comunica, la parola quotidiana o quella della tradizione, immessa in una sequenza narrativa lineare. Ciò non deve far pensare a un poeta passivamente legato alla tradizione, perché Saba è sicuramente «novecentesco» e non soltanto per le temati­che della sua poesia, che manifestano un modo tutto moderno di rapportarsi con la realtà, ma in particolare per la mancanza as­soluta di ogni atteggiamento aulico. L’essere poeta per Saba ha il senso di trasformare in arte una realtà quotidiana, di cose e di sentimenti, che non ammette più l’intonazione alta, elevata e di­stante dal discorso, a volte serio e drammatico a volte gioioso, di un uomo che parla ad altri uomini e ne cerca la comprensione.

Storia socioculturale di un ventennio
Semplificando molto si può dire che il Fascismo dal punto di vista sociale, più che il braccio armato del grande capitale (inizialmente cauto verso di essi), fu l’espressione dei ceti medi frustrati, ostili sia alle classi popolari, con cui non volevano confondersi, sia alla grande borghesia che li spingeva verso il basso. Dopo aver sperato nella guerra per un rimescolamento delle carte a proprio vantaggio, «ora si vedevano governati da quegli stessi uomini contro cui si erano battuti nelle radiose giornate dell’intervento e pressati e scavalcati al tempo stesso dall’ascesa di quelle forze popolari che della neutralità avevano fatto un punto fondamentale del proprio programma» (A. Asor Rosa). Incapace di comprendere la nozione di lotta di classe, dato il suo viscerale individualismo e il fatto che per lui lo sfrutta­mento «rimane anonimo, inavvertito, celato dietro la cortina delle libere contrattazioni», il piccolo borghese è convinto che «la collabo­razione fra le classi sia possibile e che esista un interesse generale che coincide col suo, intermedio tra quello della borghesia e quello del proletariato». Così i ceti medi «sognano uno stato al di sopra delle classi che non sia controllato né dalla borghesia né dal proletariato, e che di conseguenza sia al loro servizio» (D. Guérin).
Perciò l’obiettivo strategico di Mussolini e del Fascismo sarà la conquista dello Stato, da cui i ceti medi si ripromettono il controllo del potere politico e il godimento della rendita burocratica (impieghi, sovvenzioni ecc.) per reprimere da un lato l’ascesa delle classi subal­terne e negoziare dall’altro un accordo con la grande borghesia detentrice del potere economico. La conquista dello Stato richiederà un’intesa con la corona e gli alti gradi dell’esercito e della burocrazia ad essa collegati, coi quali di fatto il Fascismo dovrà spartire il potere politico durante il ventennio (tale intesa sarà resa possibile dalla ostilità alle istanze popolari e dalla ideologia nazionalista che accomu­nava le due parti).
Fra le truppe dei ceti medi all’assalto dello Stato troviamo larga­mente rappresentati la pletora dei mezzi intellettuali che affollano le scuole e fanno anticamera alle redazioni dei giornali e delle case editrici. Molti di essi si pongono al servizio della macchina propagan­distica del regime ricavando anch’essi dallo Stato etico la loro parcella di rendita. Gli intellettuali di regime furono di due specie: i «puri» e gli opportunisti. I primi «erano per la maggior parte intel­lettuali di mezza tacca... Nessuno li prendeva sul serio, neppure coloro cui fornivano i prodotti delle loro dotte elucubrazioni». Le maggiori figure della cultura del regime e fra loro in particolare il filosofo Giovanni Gentile, il giurista Alfredo Rocco e lo storico Gioacchino Volpe «si erano formati prima del Fascismo... Le loro maggiori opere le avevano ormai alle spalle». Fatto è che il Fascismo non produsse una sua cultura e quanto alla dottrina fascista «non aggiunse nulla a quello che aveva ereditato dal recente passato: mise insieme lo Stato etico dell’idealismo hegeliano con la nazione proleta­ria dei nazionalisti, il dinamismo dei futuristi con l’esaltazione del superuomo. Più propriamente sua fu l’idea, storicamente del tutto inconsistente, adatta soltanto alla retorica celebrativa, della latinità, delle quadrate legioni, dell’Italia del Littorio» (N. Bobbio). La maggior parte degli intellettuali di regime fu comunque costituita da semplici opportunisti, con la fede a comando, come molti dei primi membri dell’Accademia d’Italia (creata nel 1926), quasi tutti i profes­sori di università (dei quali solo 11, su 1200, non giurarono nel 1931 fedeltà al regime), la maggior parte degli insegnanti della scuola primaria e secondaria, gli scrittori e i pubblicisti a disposizione della stampa e della radio di regime che prestarono mano all’attività dell’I­stituto per gli studi del Fascismo universale, fondato nel 1936, all’or­ganizzazione dei Littoriali della cultura, infeconde gare intellettuali bandite annualmente dal 1934 dalle università, o alle imprese propagandistiche e censorie del ministero della cultura popolare, il fa­moso Minculpop.
Oltreché la scuola, fascistizzata già dal 1923 dalla riforma Gentile e poi nel 1930 da una disposizione che stabiliva che rettori e presidi di facoltà universitarie e scuole medie dovessero essere scelti tra professori con almeno cinque anni di tessera fascista, particolar­mente utile al regime fu la collaborazione data dall’intellettualità opportunista allo sviluppo di cinema e radio fascisti, con cui negli anni ‘30 si inaugurò anche in Italia l’era dei mass media e della manipolazione di massa.
Attraverso la radio (entrata nelle case italiane a partire dall’ottobre del 1924) l’Italia fu frastornata dalle «radio cronache delle cerimonie ufficiali e patriottiche, cortei, sfilate, inaugurazioni, saggi ginnici, ecc., dove si venne coniando uno stile che fu detto littorio il quale toccava il suo culmine nelle radiotrasmissioni dei discorsi di Mussolini» (G. Manacorda).
Per quanto riguarda specificatamente la letteratura l’influenza del Fascismo si fece sentire sensibilmente nella marcata tendenza al disim­pegno politico e al rifugio nella torre d’avorio letteraria, manifestata da riviste come la Ronda e Solaria (soppressa quando cominciò a sembrare un punto di riferimento culturale troppo indipendente dal regime), nella prosa d’arte e nella poesia ermetica, che appaiono ambiguamente «una difesa dei valori poetici che certamente si opponeva alle intrusioni della politica fascista, ma nello stesso tempo un’evasione dalla realtà che non consentiva la denunzia della tragica situazione di quegli anni» (G. Petronio). Più direttamente espressione della contraddittoria ideologia fascista furono da un lato Strapaese di Maccari, dall’altro Novecento e il gruppo di Stracittà di Bontempelli. La prima rivista espresse il ruralismo del regime cioè l’esaltazione dei valori e dei modi di vita e di pensiero tradizionali delle campagne italiane, fatta per consolarle del prezzo che esse dovevano pagare ai maldestri sforzi di industrializzazione e di modernizzazione tentati dal Fascismo; mentre la seconda esaltava il preteso rapporto tra Fascismo e modernità, quel rapporto per cui esso si era riconosciuto nel futurismo e questo nel Fascismo e che, nella misura in cui esisté, da ragione a quelle interpretazioni che vedono nel Fascismo il tentativo di risposta di una società arretrata come l’Italia alla crisi dell’industrializzazione in atto: «un’ideologia di emergenza con un programma non d’immobilizzazione e d’ibernazione della società malata (come fanno invece i sistemi di tipo militare) ma di fuga in avanti» (L. Incisa).
Una cultura o, più particolarmente, una letteratura di opposizione non fu tollerata dal regime fascista. L’iniziativa di Gramsci e di Gobetti, espressione l’una di una rilettura originale del marxismo, l’altra di una revisione autocritica dei presupposti dell’ideologia libe­rale, fu presto interrotta o isolata con la violenza, la morte e il carcere. Sopravvisse in solitudine Benedetto Croce che poté continuare a pubblicare la sua rivista La critica, la quale, pur evitando ogni incursione nel terreno specificatamente politico, costituì un punto di riferimento, l’unico non clandestino, per quel poco di opposizione che si manifestò anche nelle file della borghesia italiana nazionale. Sul terreno letterario c’è da ricordare però che è proprio negli anni più fortunati del Fascismo, quelli del consenso, che vedono la luce alcune opere, come Gli indifferenti di Moravia, Il garofano rosso e Conversazione in Sicilia di Vittorini, Paesi tuoi di Pavese, implicita­mente antifasciste, che costituiscono le radici della letteratura impe­gnata del dopoguerra.

Eugenio Montale

Nasce a Genova nel 1896 e trascorre l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza fra Geno­va e la casa delle vacanze estive di Monterosso nelle Cinque Terre. Per ragioni di salu­te, compie studi irregolari. Nel 1917 viene richiamato sotto le armi; congedato nel ‘19 ritorna a Genova dove frequenta l’ambiente letterario ligure. Nel 1927 si trasferisce a Firenze, dove sì impiega presso la casa editrice Bemporad; l’anno dopo ottiene il posto di direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, posto che terrà fino al 1938, quando ne sarà allontanato perché non iscritto al partito fascista. Sempre a Firenze frequenta anche lo stimolante ambiente che si raccoglie intorno alla rivista «Solarla». Dal 1946 ha inizio la sua collaborazione al «Corriere della sera», che si intensificherà a partire dal 1948, quando Montale si trasferisce da Firenze a Milano. Muore a Milano nel 1981.
Nel 1975 era stato insignito del premio Nobel.
La sua ricca produzione poetica, che accompagna tutto il corso della sua vita, è costituita dalle raccolte Ossi di seppia (1925), Le occasioni (1939), La bufera e altro (1956), Satura (1966), Diario dei ‘71 e 72 (1972). Accanto alla produzione poetica ricordiamo le sue opere in prosa: La farfalla di Dinard (1956), Auto da fé (1966); e le sue traduzioni (dalla Dickinson, da Yeats, da T.S. Eliot, da Kavafis).

La formazione - La formazione di Montale è avvenuta al di fuori degli schemi consueti, data l’irregolarità dei suoi studi. Alla conoscenza dei poeti italiani ha accompagnato quella di poeti stranieri, francesi e soprattutto anglosassoni; inoltre, nella prima giovinezza, ha studiato musica e canto (era sua intenzione di diventare baritono).

I temi della poesia montaliana - Fra le tre maggiori raccolte poetiche montaliane, Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera, non vi è distinzione di temi così netta come, ad esempio, tra le raccolte di Ungaretti. Ritorna in esse, infatti, sia pure con approfondi­menti e con diversificate angolazioni, la medesima visione della vita. Indichiamo perciò complessivamente i temi di tali raccolte, aggiungendo che i componimenti della seconda e della terza raccolta sono di tecnica più ardua ed ermetica, e perciò di più difficile comprensione e interpretazione.
a) «II male di vivere» - Questa espressione, che costituisce il titolo di una lirica degli Ossi di seppia, vuoi significare che, per Montale, l’essenza della vita è il male, cui non sfuggono né le cose animate, né quelle che consideriamo inanimate: l’uomo, il «cavallo stramazzato», il ruscello senza sbocco, la foglia bruciata dall’arsura.
Il «male di vivere» peraltro non sempre coincide con la forza distruttrice che si abbatte sulle esistenze. A volte esso si identifica con l’oppressione che grava sull’uomo, il quale si sente chiuso nella sua vita da una specie di invalicabile muraglia e non riesce a capire il senso della forza che l’imprigiona.
b) «La divina indifferenza» - L’unica salvezza di fronte al «male di vivere» sta nel resistere all’angoscia, nel guardare al proprio destino con lucido coraggio. Questo stato d’animo, sempre nella lirica ricordata, // male di vivere, è definito da Montale «la divina indifferenza», cioè il dignitoso distacco, considerato «divino» perché con­sente all’uomo, che pure conosce la negatività della vita, la forza quasi sovrumana di accettarla.
c) «Il fantasma che ti salva» - Il pessimismo montaliano è percorso comunque da una ricorrente speranza positiva: che possa esserci qualcosa, che possa avvenire un mi­racolo che consenta all’uomo di capire il senso della sua esistenza. Tale speranza sì concreta in alcune immagini: il «fantasma che ti salva» e che forse è possibile incontrare al di là dell’erto muro della vita, solo che riusciamo a valicarlo; la «maglia rotta nella rete / che ti stringe». È tuttavia una salvezza che il poeta, in genere, non spera più per sé, ma invoca per altri più fortunati.
d) La Liguria montaliana - Nato a Genova, Montale è il cantore di una Liguria assolutamente anticonvenzionale, non fastosa né vistosa: un paese asciutto ed aspro, fatto di stradette che si spingono nell’entroterra, di muri a secco, di terreni «bruciati dal salino». Pur suggestivamente evocato e descritto, tale paesaggio non è per lo più fine a se stesso; ma è la proiezione dello stato d’animo del poeta; ne esprime la sensibilità scontrosa e desolata, solo eccezionalmente protesa verso la fiducia e la speranza.

Il linguaggio di Montale - La poesia montaliana rifiuta il canto spiegato, l’abbandono sentimentale; o se lo consente così avaramente che in questi casi esso assume un significato intenso e particolare. Essa è tutta percorsa da sotterranee e complesse suggestioni melodiche, ottenute sapientemente attraverso assonanze, rime interne, pause. Anche il linguaggio è volutamente scabro («qualche storta sillaba e secca come un ramo»), a volte oscuro per collegamenti, allusioni, analogie che non è facile individuare e sciogliere: adeguato anch’esso alla intensa e amara materia poetica.

L’ultimo Montale - L’ultima copiosa produzione montaliana, costituita dalle raccolte Satura e Diario del ‘71 e ‘72, è caratterizzata da tono e linguaggio prosastici, del tutto lontani da quelli delle raccolte precedenti: tono e linguaggio di «poesia parlata».
I componimenti più ricchi di emozioni poetiche, pur nella pacatezza del discorso, so­no quelli che vanno sotto il titolo di Xenia (e che fanno parte dei Satura): essi ricorda­no la moglie morta, momenti e cose della loro vita in comune, che allora apparivano insignificanti e che ora assumono intenso valore nel ricordo.

Il secondo Novecento
Col crollo del Fascismo l’Italia risulta spaccata in due; caduto nel dicembre ‘45 il governo Parri, vi succede De Gasperi, capo della Democrazia Cristiana che coagula attorno a sé forze che mirano ad un rinnovamento della società italiana e larghi strati sociali che mirano alla semplice restaurazione ed al ritorno all’ordine.
La situazione internazionale intanto peggiora:
·         nell’Europa orientale si instaurano i regimi comunisti;
·         inizia la guerra fredda tra il blocco orien­tale e quello occidentale;
·         si parla di una scelta di civiltà.
In questo clima, nelle prime elezioni politiche la Democrazia Cristiana conquista la maggioranza assoluta dei seggi: agli scioperi degli operai del Nord e alla combattività dei contadini del Sud il governo risponde spesso con l’intervento della polizia.
Nel 1956 le rivelazioni di Kruscev sulle degenerazioni della dittatura di Stalin e i fatti di Ungheria ebbero conseguenze su tutta la sinistra europea: si comincia a parlare di nuovi equilibri meglio rispondenti alla società italiana nella quale si sta verificando un rigoglioso e caotico sviluppo indu­striale.
La terza legislatura (1958-63) vede una pro­fonda trasformazione dell’Italia che raggiunge il settimo posto nella graduatoria tra i paesi indu­striali del mondo. Sono gli anni del boom che vedono anche profonde modifiche dei comportamenti e dei valori della so­cietà italiana. Esauritasi intanto la formula politica del centrismo, si ha nel 1962 l’avvio della linea del centro-sinistra, ossia basata sull’accordo tra D.C. e P.S.I. Dopo le elezioni del 1963 tale formula dominerà tutta la legislatura: istituzione della scuola media obbligatoria e nazionalizzazio­ne della industria elettrica sono le sole realizzazioni del vasto pro­gramma riformatore preannun­ciato. Progressivamente il centro-sini­stra scade però a formula politica da accet­tare in mancanza di alternative. Si succedono intanto avvenimenti ca­richi di implicazioni e sviluppi:
·         l’intervento americano nel Vietnam provoca in tutto il mondo un vasto movimento di opposizione e di denuncia;
·         la rottura della Cina comunista con l’Unione Sovietica;
·         la contestazione del ‘68 nella quale confluiscono disagi reali e mitologie palingenetiche;
·         la rinata competitività sin­dacale;
·         la distruzione dei modelli culturali tradi­zionali e l’incapacità di crearne di alternativi.
Nel 1968 si tengono anche le elezioni e la legislatura passa tra attese, chiarimenti, verifiche. Accadono in­tanto fatti fondamentali:
·         la comparsa di schieramenti della nuova sinistra che non solo ri­pudiano nettamente le istituzioni borghesi, ma si oppongono anche alle istituzioni storiche della sinistra;
·         il travaglio del P.C.I. alla ricerca di una linea politica non più di opposizione, ma aperta al plu­ralismo e al compromesso storico;
·         l’aggravarsi di una crisi econo­mica la cui soluzione esigerebbe drastiche misure che la classe dirigente non ha la forza di prendere;
·         il dila­gante terrorismo.
Le elezioni, il referendum per il divorzio del maggio 1974, le elezioni del 1976 testimoniano una maturazione civile dell’elettorato e una esigenza di cambiamento alle quali ancora si oppongono gli attendi­smi e le alchimie della classe diri­gente che si risolvono in un letale immobilismo.
Alla luce della nuova realtà del dopoguerra gli intellettuali italiani si pongo­no, con intensa responsabilità, il pro­blema del che fare?. Tutta la letteratura del ventennio appariva povera di rapporti con la realtà o responsabile di colpevoli silenzi.
In campo editoriale, una fer­vida attività di traduzioni mirava a far conoscere quanto, nel ventennio fascista, si era prodotto all’estero: la conoscenza di Sartre e delle sue tesi sulla letteratura impegnata e quella del teatro di Brecht esercitarono una pro­fonda influenza in questa prospettiva.
Dalle colonne del Politecnico, Vittorini iniziò la lotta per una nuova cultura che non si limitasse a consolare l’uomo, ma si impegnasse per liberar­lo dalla miseria e dallo sfruttamento.
Già dalla seconda metà degli anni ‘30, gli ambienti culturali italiani più avvisati avevano mostrato interesse per forme più realistiche di espressione letteraria in un intreccio di varie istanze ed influenze. Essere realisti significava contrapporsi ai gruppi dei letterati dominanti, vociani e dannunziani: era un fatto generazionale oltre che culturale. Il riferimento poi a determinati autori e modelli invece che ad altri portava a scelte culturali e sociali di modi di vivere, di partecipazioni e frequentazioni politiche diverse.
Prima della guerra, il realismo manteneva ancora forti elementi naturalisti, con un predominio di modelli culturali di provenienza francese: per questo il giovane Alberto Moravia[22] scrisse un romanzo esistenziale come Gli indifferenti. Questi scrittori però avevano dato il via, naturalmente con tutte le precauzioni suggerite dalle circostanze, ad una narrativa di opposizione al regime fascista e si erano orientati verso una descrizione più realistica della società italiana, al di là della retorica della sanità del popolo italiano, e perciò furono definiti neorealisti degli anni Trenta: essi tuttavia ebbero un sentimento angosciato e pessimistico del mondo, in antitesi con l’ottimismo che sta di solito alla base di una letteratura realistica, democratica e popolare.
La guerra e soprattutto la guerra civile, portò nuove correnti ideologiche. La generazione dei Moravia, Vittorini e Pavese impose alle case editrici scelte, sensibilità e gusti diversi da quelli delle generazioni precedenti. La vittoria nella guerra di Stati Uniti ed Unione Sovietica contribuì a stimolare gli intellettuali ad una maggiore attenzione anche verso le realtà culturali di questi paesi e, in entrambi i paesi, gli intellettuali della nuova generazione ritrovano filoni letterari realistici.
Il Neorealismo letterario degli anni ‘45-55 diventò, così, parte dei nuovi equilibri che si composero nel dopoguerra, tra le forti istanze di rinnovamento sociale e politico ed i segni della guerra fredda. A partire dagli anni ‘50 cominciò ad influire la lezione postuma di Gramsci, teorico dell’intellettuale organico alla classe operaia. Era un bisogno di realismo, nato con la guerra con le sue crudeltà e con le miserie che aveva portato con sé: registi, narratori e pit­tori, rifiutando ogni compiacimento formale, si impegnarono in una rappresentazione della realtà in presa diretta da cui deri­vano pagine spesso grossolane e disadorne, urlate, straripanti di realtà
Il Neorealismo esplose con i suoi aspetti positivi e negativi. Il tema maggiormente trattato fu quello della Resistenza, ma ampio spazio ebbero anche quello della lotta per le rivendicazioni della classe operaia, il problema della disoccupazione l’arretratezza del Sud ed altri sempre di carattere socio-politico.
Nel 1945, Vittorini fondò il movimento del Neorealismo che ebbe per organo ufficiale la rivista I1 Politecnico (1945-1947) anche se, per la varietà di motivi, il Neorealismo non si può classificare come una scuola, ma un insieme di voci, una molteplice scoperta di diverse Italie[23], fino allora per lo più sconosciute per la letteratura.
In tali condizioni e con tali elementi anche il linguaggio si presenta in aspetti spesso nuovi e antitradizionali, s’ispira alle caratteristiche del parlato, si serve di accenti dialettali, spesso trascende nella volgarità, diventa gergo che riproduce fedelmente gesti, abitudini, mestieri, si esprime in toni estremamente agitati e populistici.
Dell’ampia produzione nar­rativa di quegli anni pochi nar­ratori raggiunsero risultati degni di ricordo:
·         Jovine[24];
·         Pratolini[25];
·         Calvino[26];
·         Fenoglio[27].
A parte va invece considerata la pro­duzione di Pavese[28] e di Vittorini[29] il cui realismo è più lirico che oggettivista: essi tuttavia in quegli anni fu­rono considerati dei veri e propri maestri del Neorealismo. La loro scrittura ebbe una enorme influenza e servì a rinnovare i moduli espressivi della narrativa italiana, individuando un nemico da eliminare nella retorica, nell’enfasi espressiva (dannunziana e crociana), nella pesantezza accademica. Si trattò in realtà di un equivoco, favorito dal fatto che questi due autori con traduzioni e divulgazioni della narra­tiva americana, con la realizzazione di forme espressive nuove[30], avevano realizzato, nell’ultimo periodo del ventennio fascista, una lettera­tura di opposizione; le loro più vere vocazioni erano tuttavia orientate verso una rappresentazione lirica o mitica della realtà, verso una trasfigurazio­ne poetica molto lontana dagli obiet­tivi di immediatezza e di denuncia propri del Neorealismo.
Già a metà degli anni cinquanta la parabola del Neorealismo era in fase calante, per vari motivi:
·         le speranze di rinnovamento sociale e politico rapidamente svani­scono negli anni della restaurazione centrista;
·         la destalinizzazione genera un processo di crisi nello schieramen­to di sinistra nel cui interno si svilup­pa un intenso dibattito, una specie di fronda marxista che mira a supe­rare certi schematismi ideologici, cer­te impostazioni che in parte avevano pesato negativamente nel dibattito neorealistico;
·         i moduli di rappresen­tazione neorealistici appaiono sempre più semplicistici di fronte ad una realtà che il neocapitalismo in ascesa rende sempre più complessa.
La fine del Neorealismo letterario è parte della sconfitta dei partiti della sinistra politica, legati ai venti nuovi provenienti dall’est europeo: si irrobustisce una narrativa molto diversa da quella degli anni immediatamente precedenti. Si tratta di una produzione che evade dalla storia, fa piazza pulita delle istanze poste dal dibattito per il Neorealismo, si volge a temi esistenziali e si risolve in elegiaca evasione, in lamento sulla condizione umana ontologicamente intesa, sulla eterna legge di inutilità e di sfaldamento e di morte cui le vicen­de dell’uomo soggiacciono. Il realismo fu riassorbito nella funzione recessiva propria della cultura borghese, funzione di denuncia e testimonianza di ciò che di sbagliato c’è nella società; non è più parte di un movimento politico e sociale di massa.
Le espressioni più significative di que­sto processo legate alla delusione storica post-resistenziale ed all’approdo al disimpegno ed al rifiuto della storia sono:
·         Cassola[31];
·         Tomasi di Lampedusa[32];
·         Bassani[33].
Questi scrittori si ricollegano, in parte e a volte inconsapevolmente, all’esperienza del filosofo francese Jean-Paul Sartre, autore del romanzo La Nausea (1938) ed esponente della corrente filosofica dell’esistenzialismo[34]. I temi prediletti dai nostri scrittori esistenziali, che superarono l’interesse e l’impegno politico e sociale tipico del Neorealismo, sono il quotidiano e la condizione di solitudine dell’uomo: lo scrittore ritrae, con atteggiamenti pensosi ed elegiaci e al di fuori di ogni impostazione ideologica, la quotidiana modesta esistenza dell’uomo, sentendolo condannato a vivere eternamente nella solitudine e nel casuale succedersi di sensazioni e di eventi.
Di fronte alle trasformazioni che nel­la società italiana iniziano a metà de­gli anni Cinquanta, appaiono insuffi­cienti an­che gli strumenti culturali finora ri­tenuti validi. Ha inizio quindi un complesso lavoro di revisione dell’ideologia che aveva sostenuto la pras­si politica e il dibattito culturale del­la sinistra: è il fenomeno del marxismo critico le cui conseguenze saranno di fondamentale importanza.
Questo dibattito, svolto soprattutto sulle riviste, mira a superare certi schematismi ideologici, certe chiusure dogmatiche dettate dal patriottismo di partito, sollecita l’utilizzazione di moderni strumenti conoscitivi, introduce in Italia la problematica che caratterizza queste ricerche all’estero.
Trasformazione della società italiana, marxismo critico, suggestioni ed esempi stranieri spiegano gli orientamenti della produzione ita­liana dalla metà degli anni Cinquanta.
Insoddisfatti delle fidu­cie semplicistiche e dei mo­duli del Neorealismo, Pasolini e Fortini si possono considerare testimoni esemplari di questo nuovo corso:
·         Pasolini rap­presenta un’umanità emarginata, in­sistendo più sulla condizione del declassamento che sulle fiducie progressiste;
·         Fortini si impegna per il rin­novamento della cultura di sinistra e testimonia nei suoi versi amarezze e impegno di lotta.
Ed intanto si scopre Gadda che, già nel 1957, ha rappresentato col Pasticciaccio l’ambigua precarietà della realtà, refrattaria ad ogni tentativo di razionalizzazione.
Ma l’avvenimento più importante degli anni Sessanta è la neoavanguardia: nel 1963 a Palermo si riunì un gruppo di giovani intellettuali che si posero come movimento d’avanguardia, definito il Gruppo 63.
Il gruppo 63 non era un gruppo omogeneo, era unito dalla polemica contro la tradizione letteraria degli anni ‘50: comprendeva scrittori, poeti, studiosi di estetica, accomunati da una ricerca di nuove forme espressive che presto, dalla teoria estetica e dalla letteratura, si estese a diverse discipline artistiche. Ne facevano parte Elio Pagliarani[35], Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti[36], i critici Luciano Anceschi e Umberto Eco.
La loro opera poetica e creativa fu influenzata dalla lezione delle avanguardie storiche dei primi del secolo, dal marxismo critico, dal pensiero fenomenologico, dallo strutturalismo e dalla sociologia delle comunicazioni di massa. Le riviste Marcatré e, poi, Quindici, furono i canali più diretti dei programmi e della produzione del gruppo che, alla fine degli anni ‘60, si divise: alcuni dei suoi componenti continuarono a teorizzare e a praticare una più decisa militanza politico-letteraria, altri si rivolsero a una più specifica ricerca poetica.
Nello spento panorama letterario di quegli anni, il Gruppo 63 ebbe un grosso impatto pubblicitario, anche se non di pubblico. Per un attimo sembrò che anche in Italia si potesse fare qualcosa di nuovo come si faceva in Francia: il Gruppo 63 teorizza, tenta una rappresentazione della real­tà che evidenzi quanto di caotico, di assurdo, di irrazionale essa con­tenga. Per realizzare ciò, i neo-avanguardisti rifiutano ogni interpretazione ideologizzante della realtà, disarticolano le strutture razionali del discorso con un accanimento che tan­te volte sa di gioco intellettualistico, operano un pasticbe linguistico che traduca sul piano espressivo la non intelligibilità della realtà odierna, il labirinto dell’essere.
Si tratta di un vero e proprio naufragio nel mare dell’esistente, di una resa al labirinto, al caos del reale che sono riscon­trabili peraltro in pittura nelle contemporanee manifestazioni dell’infor­male che si affidano o al segno o al gesto o alla materia. Naufragio e resa che sono polemicamente contra­stati però da quanti, in opposizione alla neoavanguardia, continuano a concepire l’arte come sfida al labirinto, come interpretazione e domi­nio, come Logos che si oppone al Caos.
Lo sperimentalismo accentuato, nella sua ansia di rinnovare e svecchiare una tradizione sostanzialmente accademica, ebbe il risultato di separare il pubblico dei lettori dagli scrittori più culturalmente preparati, scadendo nello stravolgimento dei codici di comunicazione e nel dotto. Il gruppo peccò di cerebralismo. Ciò mentre in Italia si avviava una società di consumo e l’editoria faceva i primi passi verso una trasformazione industriale e, soprattutto, mentre faceva la sua comparsa la televisione come mezzo reale di trasmissione delle idee e della cultura.
Conclusasi l’esperienza della neo-avan­guardia sul finire degli anni Sessanta, la produzione italiana è caratterizzata da una sorta di pendolarismo oscillante fra:
·         ri­torno a moduli tradizionali, e si pensi al successo de La Storia di Elsa Morante e  a tutta una pattuglia di scrittori che usano una lingua media, comunicativa, aliena da sperimentalismi; è il gruppo degli scrittori sostenuti dall’industria editoriale di massa, contro cui gli sperimentalisti si battono definendole liale: soprattutto Chiara e Bevilacqua; appartiene a questo gruppo Giuseppe Berto che riesce a emergere grazie a una maggiore apertura verso tematiche esistenzialiste e un cauto sperimentalismo; scrittrici borghesi sono Lalla Romano[37], Alba De Cespedes[38] ed altre.
·         sofisticato intellet­tualismo e letterarietà e si pensi a Giovanni Testori, appartenente alla cultura cattolica[39], nel filone espressionista e non bigotto, nel quale si manifesta lo sgomento e l’afflizione per il male degli uomini, secondo una prospettiva di liberazione tipica del concilio vaticano secondo; Stefano D’Arrigo la cui storia personale é strettamente intrecciata con quella del suo poema epico moderno, Horcynus Orca[40], un lavoro che ha impegnato l’autore per quasi vent’anni in continue riscritture ed aggiunte, invenzioni stilistiche e lessicali, rimandi all’epica classica e alle nuove tecniche di scrittura del ‘900; le opere rivisitate di tanto teatro off o underground; Volponi[41] e Zanzotto[42] sembrano gli autori che, partendo da problemi e disagi già denunciati dalla neoavanguardia, van­no oltre il gratuito sperimentalismo e realizzano valide testimonianze del­la condizione dell’uomo e della so­cietà di oggi.
La morte di Pier Paolo Pasolini, poco avvertita nella sua intensità, segna una cesura profonda in Italia: dopo, sarà l’epoca di un progressivo disimpegno degli intellettuali, la loro chiusura in spazi di cultura universitaria mentre per le strade terrorismo politico e di stato spezzano una generazione; l’Italia esce impoverita di democrazia dalla guerra sotterranea che raggiunge l’apice con l’assassinio di Moro. Leonardo Sciascia[43] è l’intellettuale che forse esprime meglio la realtà sociale in cui mafia, ipocrisia e bugia di potere si congiungono con l’impotenza collettiva e il disincanto solitario e senza speranza di singoli, tenacemente fedeli a una lucidità di coscienza.
Nel corso degli anni ‘70 ed oltre, gli intellettuali che avevano partecipato alla stagione dello sperimentalismo, tornano a esiti più comunicativi, riuscendo a volte a proporsi per le proprie scritture personali.
In piena realtà postmoderna è possibile osservare il declino dell’affetto, l’euforia, e la fine della storia come incapacità d’analisi della storia del presente.
Era il nuovo che avanzava, e che, superata la tradizione, si inebriava di fredda allegria giorno per giorno negli anni del post-fordismo. Ma l’economia era cambiata già dopo il boom economico del ‘58, e con il ‘68 politico, quando essa cominciò a diventare cognitiva nella sua organizzazione, a produrre merci semeiotiche e iniziò la società dei simulacri. La letteratura si formava su televisione, videogiochi, videoclip, computer, o su film di Hollywood, dominate culturale del tardo-capitalismo. Ma se a fine anni ‘60 quella società e quella economia non fossero cambiate, se il costume, gli happening, i sit-in non fossero nati, se non si fosse formata la civiltà dell’immagine e del creativo, se non fosse ritornato alla ribalta il soggetto, gli autori contemporanei non avrebbero trovato i temi così freschi di cui scrivevano con tanta euforia

La poesia del secondo Novecento - La vita della poesia oggi è caratterizzata dai forti limiti che essa incontra nel raggiungere un pubblico dì lettori e da una vita frantumata che scorre in migliaia di piccole pub­blicazioni, riviste, fogli occasionali. Questo tuttavia non impedi­sce l’emergere di alcune figure di poeti che hanno raggiunto una fisionomia ben identificabile: la forte personalità intellettuale, oltre che poetica, di Franco Fortini (1917-1995), l’opera di Giovanni Giudici (n. 1917), uno degli au­tori che meglio hanno saputo raccogliere la lezione di Montale, per elaborarla in una discorsività ironica e volutamente smorza­ta.
Ma va segnalato anche lo sperimentalismo di Andrea Zanzotto (n. 1921), considerato da molti il maggiore tra i poeti vi­venti; l’elaboratissima poesia di Edoardo Sanguineti (n. 1930); la voce di Elio Pagliarani (n. 1927), che ha fornito una delle prove più convincenti della re­cente poesia italiana con La ragazza Carla e altre poesie  (1962).

Il teatro del secondo Novecento - Il teatro in Italia vede alcuni autori di respiro europeo e internazionale come Dario Fo[44] ed Eduardo De Filippo[45].
Ruolo di primo piano hanno l’opera di registi teatrali come Diego Fabbri che si affermò con alcuni drammi teatrali imperniati sulla problematica cattolica[46], Giorgio Strehler e Luca Ronconi, e di un attore-regista come Carmelo Bene.
Oltre ai tentativi teatrali sperimentali[47], un filone interessante è quello del teatro fatto da donne e che investe una tematica sociale femminista. Oltre a Franca Rame, valore esemplare di ricerca all’interno dei testi classici e della tradizione scavata in direzione psicologica e esistenziale, sono le interpretazioni-riattualizzazioni di Piera Degli Esposti. Lella Costa non va oltre i limiti di un umorismo bonariamente arguto.

L’editoria dopo il 1945 - All’indomani della Liberazione e dei primi anni di ricostruzione si determinò per l’editoria italiana una situazione nuova rispetto alla precedente, per la sempre più prepotente affermazione dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, ma soprattutto per il mobilitarsi di energie culturali, ideologiche e sociali provenienti dai diversi ambiti culturali: cattolicesimo, marxismo, liberalismo sono le tre matrici principali da cui si diramano le più diverse proposte. Il processo di industrializzazione dell’editoria si consolidava, si rafforzava e si rinnovava il sistema distributivo e di vendita, nascevano nuovi generi di libri ancor più accessibili, come i tascabili, venduti anche in edicola. Si determinava insomma una nuova geografia dell’industria culturale: eppure, ancora alla fine degli anni Cinquanta, il rapporto tra libro e pubblico non era generalizzato, dal momento che solo il 7% della popolazione italiana leggeva libri.
Nonostante la rivoluzione apportata dal pocket e, nel corso degli anni Sessanta, il diffondersi della saggistica, gli editori italiani dovettero continuare a fare i conti con questa anomalia, resa peraltro ancor più difficile dalla concorrenza dei mass media[48].


[1] Lo scrittore, dotato di un'indiscutibile perizia tecnica, lavorò persino a ripristinare originalmente la prosodia antica con la sua cosiddetta metrica barbara.
[2] Corrispondente agli anni dell'impero di Napoleone III
[3] Con la Carta del lavoro Mussolini sancisce che la lotta di classe e lo sciopero sono reati; con i Patti lateranensi ab­dica a presupposti fondamentali persino per lo stato liberale; con l’autarchia cede agli interessi dei «padroni del vapore».
[4] In effetti, anche se i primi due romanzi sembrano avere un’impostazione di natura realistica, essi tuttavia svolgono una tematica tutta intimistica relativa al protagonista. Inoltre non è difficile cogliere nei due personaggi (Alfonso Nitti ed Emilio Brentani) un preciso riferimento non solo esterno, ma soprattutto intimo, con la realtà esistenziale dell’Autore. Uno dei maggiori studiosi dello Svevo, Bruno Maier, individua le tappe di questa ricerca: in “Una vita” la ricerca non dà alcun esito positivo e si risolve in una sorta di “presa d’atto” del “conflitto tragico dell’uomo con la realtà” che può risolversi solo col suicidio (cosa che fa Alfonso Nitti non riuscendo a trovare altro modo per venir fuori dall’angoscia del vivere); in “Senilità” si prospetta invece una specie di sotterfugio per resistere e sopravvivere al conflitto con la realtà: quello di eludere il più possibile i problemi reali del vivere civile e crearsi una finzione della realtà più vicina e che maggiormente ci interessa secondo il nostro capriccio: si tratta, insomma, di una vera e propria “evasione simbolica dalla realtà”; I tre romanzi rappresentano lo svolgimento di una coscienza in crisi con la società e con la cultura tradizionale e nello stesso tempo una ricerca di soluzione al problema esistenziale.
[5] «L’unica età dell’oro - scrisse Pampaloni e ben si addice a Svevo - possibile sulla terra è quella dell’uomo che accetta la sua precarietà e il condizionamento della vita. Tolleranza, autocoscienza e ironia sono le vie possibili, a portata di mano, della salvezza».
[6] Pirandello esordì come verista, ma, fin dall’inizio, il suo verismo fu caricaturale e grottesco, mirante a distruggere la realtà più che a rappresentarla. Pirandello già era riuscito ad equilibrare spinte sperimentali e narratività in un romanzo fondamentale come Il fu Mattia Pascal del 1904. Costantemente estranea al suo mondo poetico fu ogni problematica morale ed attraverso le novelle ed i suoi romanzi definì la sua concezione della vita. Anche nei romanzi si riscontra quel particolare umorismo basato sul sentimento del contrario, che consiste in una contemporanea presenza di rappresentazione e di riflessione, su una disposizione dell’artista a vedere, sotto l’orpello delle verità conclamate la sostanziale precarietà, a scomporre i vari momenti della nostra personalità e coglierne le contraddizioni.
[7] In effetti, anche se i primi due romanzi sembrano avere un’impostazione di natura realistica, essi tuttavia svolgono una tematica tutta intimistica relativa al protagonista. Inoltre non è difficile cogliere nei due personaggi (Alfonso Nitti ed Emilio Brentani) un preciso riferimento non solo esterno, ma soprattutto intimo, con la realtà esistenziale dell’Autore. Uno dei maggiori studiosi dello Svevo, Bruno Maier, individua le tappe di questa ricerca: in “Una vita” la ricerca non dà alcun esito positivo e si risolve in una sorta di “presa d’atto” del “conflitto tragico dell'uomo con la realtà” che può risolversi solo col suicidio (cosa che fa Alfonso Nitti non riuscendo a trovare altro modo per venir fuori dall’angoscia del vivere); in “Senilità” si prospetta invece una specie di sotterfugio per resistere e sopravvivere al conflitto con la realtà: quello di eludere il più possibile i problemi reali del vivere civile e crearsi una finzione della realtà più vicina e che maggiormente ci interessa secondo il nostro capriccio: si tratta, insomma, di una vera e propria “evasione simbolica dalla realtà”; I tre romanzi rappresentano lo svolgimento di una coscienza in crisi con la società e con la cultura tradizionale e nello stesso tempo una ricerca di soluzione al problema esistenziale.
[8] «L’unica età dell’oro - scrisse Pampaloni e ben si addice a Svevo - possibile sulla terra è quella dell'uomo che accetta la sua precarietà e il condizionamento della vita. Tolleranza, autocoscienza e ironia sono le vie possibili, a portata di mano, della salvezza».
[9] Pirandello esordì come verista, ma, fin dall'inizio, il suo verismo fu caricaturale e grottesco, mirante a distruggere la realtà più che a rappresentarla. Pirandello già era riuscito ad equilibrare spinte sperimentali e narratività in un romanzo fondamentale come Il fu Mattia Pascal del 1904. Costantemente estranea al suo mondo poetico fu ogni problematica morale ed attraverso le novelle ed i suoi romanzi definì la sua concezione della vita. Anche nei romanzi si riscontra quel particolare umorismo basato sul sentimento del contrario, che consiste in una contemporanea presenza di rappresentazione e di riflessione, su una disposizione dell'artista a vedere, sotto l'orpello delle verità conclamate la sostanziale precarietà, a scomporre i vari momenti della nostra personalità e coglierne le contraddizioni.
[10] Solaria - Fondata nel 1926 da Alberto Carocci, Solaria non fu solo luogo d'incontro di critici e scrittori come Gadda, Vittorini, Ungaretti, Saba e Svevo, ma segnò anche una netta apertura verso le esperienze europee recensendo Majakovski e Hemingway, Gide e Malraux. per molti versi dirompente, coraggiosa, Solaria nel 34 subì il sequestro di alcuni fascicoli contenenti testi considerati contrari alla morale fra cui una puntata de Il garofano rosso di Vittorini.
[11] Gli indifferenti - Carla, la giovane figlia di Mariagrazia Ardengo, una vedova della medio-alta borghesia romana, è insidiata da Leo Merumeci, un uomo cinico e sicuro di sé, amante della madre, il quale mira ad impadronirsi del patrimonio di famiglia. Merumeci è facilitato nel suo proposito dalla particolare situazione in cui si trova la ragazza, desiderosa di uscire da un’esistenza mediocre: tenta l’approccio una prima volta nel salotto della villa, ma ne è impedito a causa dell’arrivo della madre di lei, gelosa di ogni gesto e atteggiamento dell’amante, assolutamente ignara della situazione. Leo, dopo tanti tentativi, invita Carla a casa sua. Questi consumano momenti molto forti che lasciano la ragazza in una depressione ancor più dolente.
Il tradimento di Leo è scoperto da Lisa, amica di famiglia degli Ardengo e vecchio amore di Leo, contro la quale si rivolge ogni gelosia di Mariagrazia, innamorata respinta di Michele, un giovane irresoluto e abulico, fratello di Carla.
Michele è ostile a Leo, pur non riuscendo a provare per lui un autentico sentimento di odio. Spinto da Lisa tenta tuttavia  di vendicare l'onore perduto della sorella. In verità con scarsa convinzione: comprata una pistola va a casa di Leo per ucciderlo, ma fallisce perchè dimentica di inserire il caricatore. Il romanzo si chiude con l’entrata di Carla nella vita borghese, culminante nel matrimonio con Leo, con il rifiuto rassegnato di Michele e il pieno successo di Merumeci.
[12] Gente in Aspromonte - Il primo scontro tra servo e padrone avviene quando Argirò, accompagnato dal figlio Antonello, si reca in casa del padrone Filippo Mezzatesta. Il padrone in preda all’ira non vuol sentire ragioni e attribuisce ad incuria di Argirò la morte delle sue bestie. Egli non vuole ammettere che è stata una disgrazia. Il figlio del pastore, Antonello, assiste alla scena ricevendo un’impressione molto amara, terrorizzato dalle minacce e dagli insulti del padrone. Ma la sorte si accanisce contro Argirò, cui anche un piccolo pezzo di terra va in malora, travolto da un torrente; perfino un maiale è stroncato dal morbo. Non gli rimane che esser preda degli usurai e far lavorare anche la moglie. L’unica sua speranza è il figlio minore, Benedetto, che facendosi prete darebbe al padre una bella rivincita. E un giorno lo manda in seminario, dopo che l’altro figlio Antonello si è impegnato a lavorare fuori paese per mantenerlo agli studi. Il povero Antonello fa i più duri mestieri per mantenere il fratello al seminario; ma l’Argirò ha contro di sé l’invidia di tutti i paesani, che mal sopportano la sua volontà di elevarsi socialmente; né egli fa qualcosa per non eccitarla, anzi, va dicendo a tutti che quando suo figlio sarà prete metterà a posto i prevaricatori e i prepotenti. La vita del povero Argirò diventa insopportabile: gli incendiano la stalla, gli uccidono la mula che era l’unico mezzo del suo lavoro di trasportatore e gli fanno altri dispetti. Ma nessuno parla e denunzia i responsabili di questi misfatti. Intanto Antonello perde il suo lavoro e ritorna in paese disoccupato e malato: egli vendica il padre e tutti i pastori del paese, infatti, se ne va in montagna e lì prima brucia un bosco di Filippo Mezzatesta e poi ne uccide anche il bestiame donando ai poveri la carne. Drammatica è la reazione di Mezzatesta che cerca con ogni mezzo di salvare le sue proprietà. Ma nulla può fare contro il brigante Antonello che distribuisce ai poveri il suo bestiame e distrugge i raccolti del padrone; finché, braccato dai carabinieri, si arrende affermando che finalmente potrà parlare con la Giustizia. Intanto i Mezzatesta sono andati in rovina e i pastori hanno finalmente trovato una via di liberazione e di rivolta, una protesta che li presenta in qualche modo alla giustizia della società.
[13] Fontamara - La vicenda si inquadra nei primi anni della dittatura fascista a Fontamara, un paese della Marsica dimenticato da tutti, e i suoi abitanti, chiamati "cafoni" e considerati quali "intrattabili ribelli", sono uomini rudi che vogliono lavorare e donne severe che sfacchinano per tutta la giornata. Invitati a scendere ad Avezzano per prendere parte ad una parata fascista e, nel frattempo, partecipare alla suddivisione del Fucino bonificato dai Torlonia, essi sono presi in giro dall'avvocato concittadino Don Circostanza. Quando il torrente che irrigava i loro sassosi campicelli è deviato a favore di un possidente fascista. Ma tra i "cafoni" c'è un discendente di briganti che un poco alla volta apre gli occhi. E' Berardo Viola che, deciso a sposare Elvira solo dopo avere guadagnato un poco di soldi e acquistato un pezzo di terra, ha il chiodo fisso della grande città in cui emigrare temporaneamente. Nel corso di una spedizione punitiva, dei fascisti violentano Maria Grazia. Berardo finalmente si decide e parte con il minorenne Antonio, figlio di Giovanni e Maddalena, zii di Elvira che morirà dopo avere effettuato un pellegrinaggio ad un santuario mariano della montagna. A Roma Berardo e Antonio sono truffati da un avvocatucolo e finiscono in prigione quando, invitati al ristorante da un antifascista, sono trovati dalla polizia con un fascio di fogli stampati alla macchia. Berardo muore in conseguenza delle torture con cui ha favorito la liberazione dell'agitatore. Antonio può tornare al paese solo dopo aver firmato una confessione con la quale si fa passare la morte di Berardo come suicidio. Ma a Fontamara è nato il giornale "Che fare?".
[14] In antitesi netta con l’ottimismo che deve essere alla base di una letteratura realistica, democratica e popolare.
[15] Produzione narrativa di Palazzeschi - I tre libri di racconti Stampe dell'Ottocento (1932), Il palio dei buffi (1937), Bestie del Novecento (1951) e i romanzi Sorelle Materassi (1934), I fratelli Cuccoli (1948), Roma (1953).
[16] Il primo Bacchelli - Le tappe più importanti dell'attività di questo scrittore sono rappresentate dai vari periodi nei quali egli fu nella redazione de La Voce (dopo il '13), de La Ronda (dopo il ‘19) o collaborò alla Fiera letteraria, a La Stampa, al Corriere della Sera, alla Nuova antologia e dalla pubblicazione delle opere più importanti, fra cui Lo sa il tonno (1923), Il diavolo a Pontelungo (1927), Il pianto del figlio di Lais (1945), Iride, La città degli amanti, Lo sguardo di Gesù.
[17] svolto da Bacchelli in numerosi saggi storici
[18] Diotisalvi (Parte prima) - Il racconto inizia con Lazzaro Scacerni al tempo della campagna napoleonica di Russia che dal capitano Mazzacorati riceve dei beni ecclesiastici sacrilegamente violati. Al suo ritorno in patria, Lazzaro costruisce un mulino di fiume che chiama Diotisalvi, sulla prora del quale fa dipingere l’immagine salvifica di San Michele che con la lancia uccide il demonio. Il mulino è inaugurato, tra speranze e timori, con una modesta festa tra povera gente di fiume. Dopo avere superato diverse e non leggere difficoltà Lazzaro sposa Dosolina. I mesi di gravidanza della quale sono funestati da foschi fatti che s’incentrano sulla losca figura del Raguseo, un pericoloso contrabbandiere attivo proprio su quei confini cui Scacerni aveva coraggiosamente negato talune complicità: l’assassinio del feroce trafficante da parte d’uno dei membri della sua banda chiude la vicenda. Intanto nel ferrarese scoppiano i moti liberali del 1831 che scatenano la reazione dei conservatori, i quali piuttosto vorrebbero che l’Austria intervenisse coi suoi soldati “a sistemare una volta per sempre la canaglia giacobina”. Lazzaro riesce a rimanere estraneo a queste vicende. Nel frattempo Dosolina, madre premurosa e brava massaia, cerca di attenuare i contrasti tra il marito e Giuseppe, il loro unico figlio che tutti chiameranno Coniglio mannaro: per quanto Lazzaro è coraggioso, giusto, retto e disinteressato, tanto Coniglio mannaro è ambiguo, sordido, avido e vigliacco. Intanto a Lazzaro capita Cecilia Rei, che egli nel corso della terribile inondazione del 1834 salva coraggiosamente dalla piena. Così l’adolescente Cecilia, che nella sciagura aveva perduto il padre molinaro, trova in Lazzaro un nuovo padre, e con lei, Lazzaro, un secondo mulino e soprattutto quell’amorevole figlia del suo stesso sentire che, avendo Coniglio mannaro deviato, gli mancava fortemente. Intanto in mezzo a vicende politiche torbide e pericolose (stanno avvicinandosi i moti del 48 che incendiarono quasi tutti gli Stati della penisola) Coniglio mannaro, avanzando nel suo sordido e instancabile prodigarsi, va distaccandosi sempre di più dalla madre e soprattutto dal padre e dai mulini. Allo scoppio dei moti, l'Austria occupa il territorio di Ferrara e per mantenere l'ordine impone una severa legge marziale. Al centro dello scontro tra liberali e restauratori spiccano, tra i secondi, la nera figura del barone Flaminio, che della repressione antiliberale era uno dei più intransigenti teorizzatori.
La miseria arriva in barca (Parte seconda) - L’esoso Coniglio mannaro, legatosi ad un influente personaggio senza scrupoli, l’Alpi diviene contrabbandiere di grano per conto degli austriaci, guadagnandosi, in ragione dell’implacabile avidità e degli strozzi che commetteva, insieme con profitti altissimi, l’odio dei piccoli produttori e della gente del contado. In questi frangenti Coniglio mannaro, sentendosi sufficientemente forte e adeguatamente protetto dall’Alpi, sposa fraudolentemente, con un finto matrimonio sacramentale celebrato da un disonesto prete spretato nella casa di una zia prostituta, l’ingenua Cecilia, che, per ripugnanza del suo aspetto, per disprezzo del suo carattere arido e spietato e per essersi serbata del tutto aliena alle urgenze della carne, lo aveva sempre respinto. Nel 1855 muore di colera Dosolina e, di dolore, insieme con lei, Lazzaro. Così tocca a Cecilia, rimasta sola e con sette figli piccoli messi al mondo l’uno dopo l’altro, fare andare avanti i due mulini. Indurendosi molto vi riuscirà sempre bene con vigore mascolino e con abnegazione smisurata. Invece suo marito Coniglio mannaro, abbandonata lei e abbandonati i figli, continua ad espandere i suoi loschi traffici e, giacché gli era venuta l’ambizione di divenir latifondista, profittando delle disgrazie altrui, riesce ad ampliare a dismisura le sue proprietà. Per questo Lazzarino, suo primogenito, un ragazzo sensibile e onesto quanto pochi, per spezzare il cerchio di rancore che scivolando sul padre lo feriva, per andare a far l’eroe e riscattare il padre dal disonore fugge con Garibaldi e va a morire a Mentana. È solo l’inizio della nemesi, perché poco dopo su Coniglio mannaro si abbatte una seconda sventura. La grande piena del Po del 59 sotterra quelle terre sulle quali egli aveva investito tutto e, per il dissesto, impazzisce. Negli anni successivi, ricorrenti carestie di grano, gelate e nuove inondazioni rendono ancora più grama la vita dei molinari. Il lavoro si ferma e Cecilia, sempre forte e risoluta, è costretta ad elemosinare a gente altrettanto povera un tozzo di pane per i suoi numerosi figli; lei per gli stenti e le privazioni s’ammala di pellagra.
Storie vecchie, sempre nuove (Parte terza) - Guarita dalla malattia, Cecilia viene a sapere che dietro il suo matrimonio vi fu una frode e prova sdegno, ma anche pietà per Coniglio mannaro che però, da lì a poco muore. Quando sembrava che le cose potessero aggiustarsi nuovi guai si abbattono sugli Scacerni: una tromba d'aria danneggia i due mulini e i debiti contratti per le riparazioni li costringono a nuove umiliazioni. Esacerbata, la donna tenta di eludere il balzello frodando sul contatore di controllo, ma in occasione di un sopralluogo notturno della Finanza, il figlio Princivalle, per scongiurare la confisca dei due mulini brucia al San Michele, figurando una disgrazia. Incarcerato come colpevole d'incendio doloso, Princivalle, passando per infermo di mente, dopo qualche mese è rilasciato. Nel frattempo l’intero contado passava dai decaduti marchesi Macchiavelli al commendatore Clapasson, un capitalista piemontese spregiudicato e assai spiccio di modi. Questi, intriso di concetti innovativi nel campo delle scienze agricole, vuole passare ai metodi intensivi. Clapasson, apprezzandone il coraggio e l’orgoglio imprenditoriale favorisce gli affari di Cecilia, con le sue vedute rivoluzionarie e con i suoi metodi reazionari suscita un subbuglio che produrrà conseguenze allora del tutto imprevedibili. All’inizio dei moti sindacali del 1882 contro gli agrari del ferrarese, si scatena lo sciopero generale che era visto, o era temuto, o era spacciato come arma risolutiva nella eterna lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori. A lui, spinti da facinorosi capipopolo e trascinati da miraggi di redenzione, i braccianti e i fittavoli della zona aderirono compatti col furore dei disperati. Durissima fu la risposta dei padroni. Duramente boicottati furono gli Scacerni che con Clapasson avevano solidarizzato sia perché il capitalista dava ai due mulini del buon lavoro e sia perché Cecilia, in quanto molinara, nel suo piccolo orgogliosamente si sentiva essere anche lei una padrona. In questo clima da guerra civile che Depetris non seppe o non volle né prevenire e né fronteggiare, emergono le vicende dei Verginesi, famiglia patriarcale delle più tradizionali, gente all’antica di grandissima laboriosità e di solidissimo attaccamento alla terra e al lavoro, che conduceva le terre di Clapasson. I Verginesi, precedentemente, per soccorrere gli Scacerni in uno dei loro momenti di bisogno, avevano adottato la più giovane delle sue figlie, Berta. Il vecchio bovaro, dopo un dolorosissimo dilanio interiore, opta per lo sciopero e quindi per il boicottaggio, ma, pur avendo incrociato le braccia, soffre nel vedere che nella stalla le sue bestie e nei campi il grano che lungo i precedenti trecent’anni tanti altri Verginesi avevano sempre amorevolmente curato, ora erano abbandonati e irrimediabilmente rovinavano. È il dolore di un uomo all’antica che d’improvviso viene a trovarsi in un mondo del tutto sconosciuto e troppo violento e più nemmeno il risultato d’essere riuscito ad affrancare i suoi discendenti dalla superbia dei padroni, se mai esso fosse stato conseguito, avrebbe potuto mai lenirglielo. Lo sciopero e il boicottaggio esasperano gli animi, dividono le famiglie, e dove prima c’erano laboriosità e concordia ora allignano l’accidia e il rancore.  In questo torbido clima, vedendo che la tensione degli scioperanti scemava e subentrava lo scoramento, allo scopo di riattizzare la prima e di fugare il secondo, Smarazzacucco, un radicale di malanimo, calunnia l’infelice Berta Scacerni, incolpandone ad Orbino Verginesi. Princivalle, preso da cieca furia, uccide il povero Orbino. Finisce lo sciopero, finisce la speranza, finisce tutto. E mentre su quella riva del fiume non giunge più nulla dei grandi avvenimenti, nel mulino il passare del tempo ha attenuato tutto. Cecilia è morta, Princivalle sta scontando trent’anni di lavori forzati e i Verginei, dopo trecent’anni, si sono dispersi. Adesso il mulino lo conduce, coadiuvato dalle due sorelle, Giovanni e il nuovo rampollo di casa Scarcerni è Lazzarino, un bastardo dato al mondo da Dosolina. Nell’autunno del 1918 Lazzarino, giovane, forte e valente pontiere proprio come 106 anni prima bisnonno Lazzaro, partecipa al passaggio del Piave. Ma quando già si profila il successo di Vittorio Veneto, un’ultima pallottola sparata dagli austriaci in ritirata lo uccide.
[19] Il primo Buzzati - Nei suoi primi romanzi, Barnabo delle montagne del 1933 e Il segreto del bosco vecchio del 1935, il genere favoloso ha una funzione morale. In essi, infatti, si trova un’atmosfera magica, in cui compaiono giganti, geni e paesaggi naturali che comportano miti e significati profondi. In particolare la montagna, con la sua vastità ed inaccessibilità, dà all’uomo da una parte un senso di solitudine ed inquietudine di fronte alla grandezza della natura che si contrappone alla limitatezza dell’uomo; dall’altra, un senso di elevazione e di speranza.
Dal mondo fantastico di questi due romanzi, emerge che l’uomo ha la possibilità di essere in comunione con la natura solo se egli sa vivere in uno stato d’innocenza.
[20] La produzione fascista di Brancati - Le opere brancatiane legate all'ideologia fascista celebrano il predominio dell'istinto, inteso come azione e come concreta energia operativa, sulla razionalità. È quanto avviene nel dramma Piave, dove un eroe autoritario e volitivo - che alla fine si scoprirà essere Mussolini - combatte tra le macerie per salvare la patria dopo la disfatta di Caporetto, o nel romanzo L'amico del vincitore in cui il timido Pietro Dellini è costretto a rendersi conto, durante una fallimentare spedizione al polo al seguito del comandante Gabriele Gabrieli, che il vero "vincitore" è l'amico Giovanni Corda perché ha scelto una vita attiva, appoggiando la politica d'intervento ed ispirandosi al trinomio fascista "ordine, equilibrio, autorità".
La crisi politica e morale di Brancati inizia a manifestarsi nel suo secondo romanzo Singolare avventura di viaggio. Una gita a Viterbo sconvolge la vita tranquilla ed abitudinaria di Enrico Leoni, che sente nascere dentro di sé un'intensa passione per la cugina Anna: dall'indifferenza di lei deriva la difficoltà di Enrico a ritrovare un autentico equilibrio spirituale. Egli riprende il lavoro di sempre con ritmo ancor più febbrile, ma in fondo al cuore sente che non potrà più avere la serenità interiore di prima. Si delinea così una contrapposizione fra istinto carnale e razionalità che tornerà nelle opere successive.
La presa di posizione contro il fascismo è segnata dal romanzo Gli anni perduti, pubblicato nel 1941 ma composto tra il 1934 e il 1936. Nella sonnolenta città di Natàca, sotto il cui nome si cela quello di Catania, arriva il professor Buscaino, ricco e pieno di idee, che propone agli annoiati abitanti di costruire una torre panoramica. Quando la costruzione è pronta si scopre però che non sono stati fatti i permessi necessari e quindi la torre non può essere utilizzata: la città di Natàca ha passato gli anni credendo in un progetto irrealizzabile, ma è probabile che il titolo alluda anche agli anni perduti dall'autore nella fede in un progetto politico inconsistente come il fascismo.
[21] Don Giovanni in Sicilia - Del quarantenne Giovanni Percolla è raccontata la giovinezza vissuta con tre sorelle fin troppo premurose nel preparargli i pasti abbondanti ed il letto per il sonno pomeridiano, i discorsi sulla bellezza femminile fatti con gli amici e perfino i viaggi intrapresi da questi uomini soltanto per vedere belle donne e fantasticarvi sopra una volta tornati in Sicilia. Il tempo scorre uguale tra i ricordi dei viaggi già compiuti, un presente fatto di avventure banali e poco rilevante ed un futuro nel quale sono proiettati improbabili sogni erotici di cui è bello parlare con gli amici. Questa situazione cambia di colpo quando Giovanni vive un'esperienza assolutamente fuori dell'ordinario: Ninetta Marconella lo guarda ed egli ne rimane colpito a tal punto che rinuncia a tutte le sue antiche abitudini, andando a vivere da solo in una casa del quartiere Cibali e scegliendo nuove amicizie tra gli innamorati di Catania. Riesce a conquistare il cuore di Ninetta e, dopo averla sposata, si trasferisce con lei a Milano. La metropoli del Nord costringe Giovanni a cambiamenti radicali, ma non è difficile abituarsi alla nuova vita, fatta di docce mattutine e pasti frugali, dell'aria fredda e piena di nebbia e degli intellettuali che frequentano il salotto di Giovanni e Ninetta: anzi l'uomo si accorge che questi assidui visitatori lo ammirano molto e lo ritengono secentesco, barocco di complessione, ma un bel barocco. I lunghi e inconcludenti discorsi con gli amici siciliani di un tempo sono sostituiti da adulteri rapidi e privi di gioia. Quando Ninetta propone di fare un viaggio in Sicilia Giovanni ha qualche esitazione, ma alla fine accetta. Ritrova così gli odori e le abitudini di un tempo, la casa delle sorelle, il suo letto caldo ed accogliente, le strade piene di sole tra le quali è cresciuto, e all'improvviso si accorge di non essere mai cambiato, di non essere riuscito nemmeno a Milano a cancellare completamente le abitudini della sua giovinezza.
[22] Alberto Moravia - Nato a Roma nel 1907 (il suo vero nome era Alberto Pincherle), Moravia iniziò la carriera di scrittore con Gli indifferenti. Lo pubblicò a proprie spese nel 1929. Accolto con ostilità dalla cultura fascista che ne proibì la diffusione, fu salutato con entusiasmo solo da pochi critici, come Borgese, Pancrazi e Solmi. Moravia collaborò a riviste e quotidiani. Il suo secondo romanzo Le ambizioni sbagliate (1935) fu piuttosto velleitario. Colpito dalle leggi razziali fu costretto a firmare i suoi articoli con uno pseudonimo, ma continuò a pubblicare altri romanzi: L’imbroglio (1937), I sogni del pigro (1940); la satira grottesca di un dittatore sudamericano, La mascherata (1941) fu censurata alla seconda edizione. Si dovrà attendere il nuovo clima culturale post-bellico per un diverso e migliore Moravia: soprattutto il racconto Agostino (1944), i romanzi La romana (1947) e La ciociara (1957), i Racconti romani (1954) e i Nuovi racconti romani (1959).
Un impegno nella direzione del realismo, mentre non molto felici i suoi scritti a tematica sessuale.
Nel dopoguerra Moravia ebbe una importante funzione culturale in italia, attraverso la rivista Nuovi argomenti e le sue collaborazioni a vari periodici di larga diffusione.
[23] v. Italo Calvino
[24] Francesco Jovine - Francesco Jovine è nato a Guardialfiera (Campobasso) nel 1902, morì a Roma nel 1950. Ha ispirato alla nativa regione molisana le sue opere più significative: il romanzo Signora Ava (1942), la raccolta di racconti L’impero in provincia (1945), e il romanzo Le terre del Sacramento (1950) una specie di epopea del lavoro contadino e commossa celebrazione della propria terra.
I temi tradizionali del feudo che va in rovina, e del conflitto tra padroni e contadini, sono rappresentati, all’avvento del fascismo, con una forte carica polemica e uno stile asciutto che intreccia il rilievo di caratteri balzachiani alla coralità della scrittura. Narratore di tradizione essenzialmente naturalista, Jovine ha accolto nelle sue opere le istanze dell’antifascismo e delle lotte sociali del dopoguerra senza rinunciare a inflessioni di sottile lirismo. Nei suoi esiti migliori amalgama le agitate vicende della storia e l’aura immobile del mito.
Importante, nella Signora Ava e nell’Impero in provincia, il delinearsi di un giudizio riduttivo sul risorgimento.
[25] Vasco Pratolini - Nato in un quartiere di Firenze nel 1913, Pratolini perse la madre molto piccolo, vivendo così con i nonni materni e, in seguito, da solo, lavorando come operaio in una bottega di tipografi. Mentre Pratolini osservava i gesti e le parole, le abitudini della gente di quartiere, formava da autodidatta la propria cultura letteraria. Pratolini aveva il desiderio di raccontare e incontrò chi credette in lui: iniziò a scrivere di politica sulla rivista Il Bargello, ma fu soprattutto Vittorini che lo portò dalla politica alla letteratura. Pratolini fu un contestatore sentimentale che con i toni della propria cronaca personale e dei propri ricordi fu in grado di costruire storie corali dove il noi oltrepassava l’io e dove ai rapporti affettivi si accompagnava una progressiva presa di coscienza della classe proletaria e popolare.
Il tappeto verde, Le amiche, Il Quartiere, fino a Cronaca familiare e a Cronache di poveri amanti, scritti negli anni Quaranta, sono opere animate da uno sguardo d’amore, da legami affettivi con la propria gente; da un dolore privato a un dolore collettivo e, soprattutto, a una minaccia del Male incombente con un’ingiustizia da riscattare in nome del Bene. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta, Pratolini aveva già riscosso una certa fama con Cronache di poveri amanti e aveva avuto una breve esperienza giornalistica a Milano. Il ricordo di Firenze cominciava lentamente a sfumare. Decise allora di scrivere la trilogia Una storia italiana: un affresco storico che riuniva il mondo operaio (Metello), il mondo borghese (Lo scialo) e quello degli intellettuali (Allegoria e derisione). Una storia che fu in seguito definita dai critici ancora «troppo fiorentina» e ancora «troppo poco italiana».
[26] Italo Calvino - Calvino nacque, il 15 ottobre 1923, a Santiago de Las Vegas, vicino all’Avana (Cuba), dove il padre dirigeva una stazione sperimentale di agricoltura e una scuola d’agraria. Nel 1925 la famiglia Calvino ritornò in Italia e si stabilì a San Remo dove Calvino vive fino a vent’anni. Compiuti gli studi liceali, Calvino fu avviato dai genitori agli studi di Agraria, che non portò a compimento. Dopo l’8 settembre 1943, Calvino si sottrasse all’arruolamento forzato nell’esercito fascista e si aggregò ai partigiani della Brigata Garibaldi. Dopo la liberazione, aderisce al PCI, collabora a giornali e riviste e si iscrive alla Facoltà di Lettere di Torino, dove nel 1947 si laurea con una tesi su Conrad. A Torino collabora al Politecnico di Vittorini ed entrò a far parte del gruppo redazionale della casa editrice Einaudi nel cui ambiente, aperto alla cultura mondiale, matura la sua vocazione a scrivere. Nel 1947 esordisce come scrittore, pubblicando, grazie a Pavese, Il sentiero dei nidi di ragno. A questo romanzo segue il volume di racconti Ultimo viene il corvo (1949). Negli anni Cinquanta e Sessanta svolge le funzioni di dirigente nella casa editrice Einaudi e intensifica sempre più la sua attività culturale e il suo impegno nel dibattito politico-intellettuale, collaborando a numerose riviste. Inoltre si impone nel panorama letterario italiano, come il più originale tra i giovani scrittori, in seguito alla pubblicazione della raccolta dei Racconti (1958), e soprattutto del volume I nostri antenati (1960), la trilogia di romanzi fantastici sull’uomo contemporaneo: Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957) e Il cavaliere inesistente (1959). Pubblica anche il saggio Il midollo del leone (1955) e raccoglie e traduce Le fiabe Italiane che pubblica nel 1956, anno in cui i fatti di Ungheria lo distaccarono dal PCI e lo condussero progressivamente a rinunciare a un diretto impegno politico. Tra il 1959 e il 1967 dirige, insieme a Vittorini, l’importante rivista culturale letteraria Il Menabò, in cui pubblica interventi caratterizzati da un impegno di tipo etico-conoscitivo, quali Il mare dell’oggettività (1959) e La sfida del labirinto (1962). Nel 1963 pubblica, oltre a Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, il racconto costruito ancora su schemi di tipo tradizionale La giornata di uno scrutatore. Nel 1964 si apre una nuova fase della vita e della carriera di Italo Calvino: sposa l’argentina Judith Esther Singer e si trasferisce a Parigi dove viene a contatto con gli ambienti letterari e culturali più all’avanguardia. Nel 1965 nasce la figlia Abigail ed esce il volume Le Cosmicomiche, a cui segue nel 1967 Ti con zero, in cui si rivela la sua passione giovanile per le teorie astronomiche e cosmologiche. Il nuovo interesse per le problematiche della semiotica e per i processi combinatori della narrativa trova espressione anche ne Le città invisibili (1972), e ne Il castello dei destini incrociati (1973). Intanto cresce il suo successo e il suo prestigio in tutto il mondo. Nel 1979 esce il romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore, che diviene subito un best seller. Nel 1980 si trasferisce a Roma, e pubblica una raccolta dei suoi saggi più importanti, Una pietra sopra. Nel 1983 escono i racconti di Palomar, ricchi di disillusa amarezza. Nel 1984 pubblica il volume Collezione di sabbia. Nel 1985 tiene una serie di conferenze negli Stati Uniti a Cambridge, alla Harvard University, prepara le Lezioni Americane. All’inizio di settembre Italo Calvino muore all’ospedale di Siena, colpito da un’emorragia celebrale. Nel maggio 1986 presso Garzanti esce Sotto il sole giaguaro, il primo libro postumo di Calvino.
[27] Beppe Fenoglio - Nacque ad Alba (Cuneo), il 1 marzo 1922. Nonostante l’estrazione modesta della sua famiglia arriva a frequentare il liceo. Qui incontra due insegnanti di gran valore: il professore di filosofia, Pietro Chiodi, e quello d’italiano, Leonardo Cocito. Agli anni del tanto amato liceo risale la sua fortissima passione per la lingua e la letteratura inglese e americana: per James, Lawrence, Conrad, Yeats, Coleridge, Shakespeare. S’iscrisse alla Facoltà di Lettere di Torino, ma per la chiamata alle armi interruppe gli studi universitari, senza mai più riuscire poi a conseguire la laurea. Nel 1943 frequentò un corso per allievi ufficiali; quindi fu trasferito a Roma, da dove, dopo l’8 settembre, riuscì a tornare ad Alba. Qui si arruola tra i partigiani. Negli ultimi mesi di guerra è ufficiale di collegamento con la missione inglese di stanza nel Monferrato. Dopo la liberazione, ritornò nella sua amatissima Alba. Solamente nelle Langhe, Fenoglio, il gentleman-writer dal carattere duro e ostinato ritrova e riconosce intero se stesso e il mondo. S’impiega pertanto come procuratore presso un’azienda vinicola, lavoro che fino alla fine non vorrà mai abbandonare. All’indomani della guerra Fenoglio inizia a dedicarsi alla narrativa. Molti dei suoi manoscritti sono vergati sul retro delle carte commerciali della ditta. La sua vita si svolge così, tra gli affetti familiari e il lavoro d’ufficio, la passione per lo sport e la dedizione alla scrittura. Il suo esordio letterario, tuttavia, non è affatto facile. Nel 1949 Einaudi rifiuta la sua prima raccolta Racconti della guerra civile e l’anno successivo Elio Vittorini gli consiglia di sacrificare il romanzo La paga del sabato per ricavarne due racconti. Solamente nel 1952 Vittorini gli pubblica, nella collana di narrativa I gettoni di Einaudi, la raccolta di racconti I ventitré giorni della città di Alba. Poi, nel 1954, sempre nella stessa collana, esce il romanzo breve, centrato sul mondo delle Langhe, La malora.  Deluso dalla sfavorevole accoglienza della critica e dalle riserve espresse da Vittorini su La malora, rompe con Einaudi e nel 1959 pubblica presso Garzanti il romanzo Primavera di bellezza, per il quale nel ‘60 gli viene assegnato il Premio Prato. Nel 1962, inoltre, vince il Premio Alpi Apuane per il racconto Ma il mio amore è Paco, apparso su Paragone. Proprio in Versilia per la prima volta, in modo acuto e allarmante si fa sentire il male che presto lo condurrà alla morte. Nella notte tra il 17 e il 18 febbraio 1963 Fenoglio muore a Torino per un cancro ai polmoni. Nello stesso 1963 viene edita, insieme con Una questione privata, la raccolta di racconti Un giorno di fuoco, che ottiene il Premio Puccini-Senigallia. Lo stesso volume viene riedito nel 1965, ma con il titolo Una questione privata. Postumi appaiono Il partigiano Johnny, vincitore del Premio Prato (1968) e La paga del sabato (1969).
[28] Cesare Pavese - Nacque a Santo Stefano Belbo nel 1908. Di famiglia piccolo-borghese di estrazione contadina, orfano di padre all’età di sei anni, ricevette una educazione austera, intrisa di sentimenti di nostalgia per la campagna. Compì gli studi a Torino. Ebbe come professore di liceo Augusto Monti, figura di grande prestigio della Torino anti-fascista. Studiò letteratura inglese e dopo la laurea fece il traduttore. Dopo l’arresto di Leone Ginzburg, anche Pavese fu condannato al confino per aver tentato di proteggere una donna iscritta al PCI. Passò un anno a Brancaleone Calabro. Tornò poi a Torino. Dopo l’8 settembre 1943 riparò con la sorella a Serralunga.
Alla fine della guerra si iscrisse al PCI. Nel 1950 raggiunge il riconoscimento della critica, con l’assegnazione del premio Strega. Pavese entrò in depressione, il suo carattere fragile e introverso, caratterizzato da difficili rapporti umani, lo portò al suicidio. A Torino, nell’agosto 1950.
Pavese è stato tra gli scrittori più amati del dopoguerra, anche per via del mito avviato con il suicidio. Simbolo contraddittorio dell’impegno politico e del disagio esistenziale, la figura di Pavese è condizionata dall’intreccio vita- letteratura. Ciò dà suggestione ai suoi esperimenti stilistici, ma non evita i luoghi comuni di un certo vitalismo estetista.
Uno dei suoi testi più letti è stato Il mestiere di vivere che registra la professione della sua ricerca umana e letteraria. Ma notevole importanza hanno gli esiti del suo lavoro poetico, soprattutto quelli della prima raccolta, capace di forgiare una struttura ritmica e metrica tesa al racconto, a un’epica umile e quotidiana.
[29] Elio Vittorini - Nacque a Siracusa nel 1908. Figlio di un ferroviere, passò l’infanzia in varie località della Sicilia seguendo gli spostamenti del padre. Nel 1924 fuggì improvvisamente dall’isola, andando a lavorare nella Venezia-Giulia come edile. Si inserì nel mondo letterario, nel 1930 si stabilì a Firenze. Nel 1938 è a Milano. Aderì tiepidamente al fascismo, senza esibire con posizioni ufficiali questa sua adesione. Negli anni della guerra e della lotta interna antifascista si iscrisse al partito comunista e partecipò alla resistenza a Milano. Nel dopoguerra svolse una intensissima attività culturale di riorganizzazione. Nel 1947 la polemica con Togliatti. Nel 1951 lasciò il PCI e si dedicò all’attività editoriale. Morì a Milano nel 1966. In Vittorini agisce un forte radicalismo intellettuale, costantemente impiegato a verificare i valori della cultura e dell’arte con le istanze della società. In lui agiscono due impulsi: da una parte quello razionale, che lo spinge a un continuo ammodernamento delle forme e dei contenuti. Dall’altra l’interesse per le costruzioni narrative mitico-simboliche, più evidente nella produzione degli anni immediatamente precedenti la guerra. Il vitalismo dannunziano viene incanalato nel realismo e rivisto alla luce di una particolare, mitica, lettura dei ‘classici’ statunitensi. Lo svecchiamento apportato da Vittorini nel panorama culturale italiano fu importantissimo e decisivo.
[30] Pavese con le liriche di Lavorare stanca e Vittorini con Conversazione in Sici­lia
[31] Carlo Cassola - Nasce a Roma nel 1917, la Maremma diventerà la patria poetica e spirituale dello scrittore, che vi si trasferirà nel ‘40, partecipandovi anche alla Resistenza. L’attività letteraria era già cominciata negli anni ‘30: tra il ‘37 e il ‘40 Cassola aveva composto una serie di brevi racconti raccolti nel volume dal titolo La visita. Dopo l’interruzione della guerra, durante la quale il lavoro di scrittura era stato quasi completamente interrotto, Cassola si dedica con continuità alla narrativa, affiancata all’insegnamento di filosofia in un liceo di Grosseto. Pubblicò i racconti lunghi Baba (1946), I vecchi compagni (1953), Fausto e Anna (1952), tutti di argomento partigiano e ambientati in Maremma una terra arida, avara, crudele, che nelle pagine dei suoi romanzi diventa un simbolo della condizione umana, quasi un “correlativo oggettivo” della fatica di vivere. Con il racconto lungo Il taglio del bosco pubblicato nel 1954, cassola si allontana dalle tematiche storiche per assumere un tono più dimesso e intimistico, tipico dell’autore anche nella sua produzione successiva. Cassola mette a punto la sua poetica del “realismo subliminare”, ossia uno sguardo letterario attento a cogliere le vibrazioni più sottili e umbratili della realtà, spesso nascoste dalle apparenze banali del quotidiano che racchiudono il significato vero e profondo della vita umana. In questa sua ricerca, Cassola tende ad isolarsi dal panorama letterario italiano, riconoscendo il suo unico maestro in Joyce, particolarmente nel Joyce di Gente di Dublino. Questo netto distacco dal naturalismo tradizionale segnerà tutte le opere dello scrittore, determinando anche una nuova visione della storia, considerata sempre meno come il teatro di grandi eventi e di ideali alti, ma piuttosto sempre proiettata nella dimensione interiore e privata dei soggetti che in essa si trovano a vivere, spesso loro malgrado. Così, se Il soldato tratta il tema della solitudine e dell’elegia amorosa, nella raccolta di racconti La casa di Via Valadier (1956) il motivo politico si colora di forti implicazioni esistenziali, in un quadro che all’elemento storico contingente, si tratti della condizione operaia o della caduta degli ideali della Resistenza, sempre viene anteposto lo stato d’animo che ne scaturisce, spesso segnato da un senso di inerzia ed abbandono dinanzi all’ineluttabilità degli eventi. In questa scia si colloca anche il romanzo La ragazza di Bube, pubblicato nel 1960. Le scelte poetiche di Cassola non mancarono di suscitare numerose ed accese polemiche, e si attirarono a più riprese l’accusa di sfuggire all’impegno letterario e civile rifugiandosi in un vuoto lirismo e in un realismo facile, idilliaco, privo di conflitti. Nonostante l’animosità a volte carica di acrimonia evocata dalla sua opera, il lavoro di Cassola si mantenne fedele alla propria poetica chiusa, minimale e volutamente astorica, anche nella produzione degli ultimi anni che, tra romanzi e racconti, si mantenne regolare e costante: Un cuore arido (1961), Il cacciatore (1964); Tempi memorabili (1966); Storia di Ada (1967); Ferrovia locale (1968); Una relazione (1969); Paura e tristezza (1970); Monte Mario (1973); L’antagonista (1978); Il ribelle (1980). Da ricordare anche la collaborazione con il «Corriere della Sera», con la rubrica di terza pagina Fogli di diario, e la produzione saggistica, in cui si distinguono l’inchiesta condotta con Luciano Bianciardi sui Minatori in Maremma (1958) e il volume Viaggio in Cina (1956). Negli ultimi anni, Cassola si è dedicato con passione all’attività antimilitarista ed ecologista, mantenendosi sempre autonomo dai gruppi politici ufficiali. Costretto all’immobilità da una grave malattia, lo scrittore si è spento nel 1987 a Montecarlo, in provincia di Lucca.
[32] Giuseppe Tomasi di Lampedusa - Giuseppe Tomasi duca di Palma e principe di Lampedusa nacque a Palermo il 23 dicembre del 1896 da un’antica famiglia nobiliare. La madre, donna di forte personalità, di spirito aperto e indipendente, esercitò una grande influenza su di lui, manifestando anche un’accentuata possessività nei suoi confronti. I rapporti con il padre furono invece piuttosto freddi. Nel 1911 si iscrisse al liceo classico che frequentò prima a Roma, poi a Palermo. Si iscrisse, in seguito, alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma, nel 1915, ma non conseguì mai la laurea. Partecipò alle due ultime guerre mondiali poi abbandonò l’esercito e si ritirò in Sicilia, allontanandosi da essa solo per compiere viaggi finalizzati alla conoscenza delle letterature straniere, in particolare della narrativa francese dell’Ottocento. Nella biografia di Tomasi di Lampedusa un’importanza decisiva ha la partecipazione al congresso letterario di San Pellegrino del 1954, al seguito del cugino poeta Luigi Piccolo. In quell’occasione, Tomasi di Lampedusa conobbe Montale, Bellonci e Bassani. Della sua biografia, cosa che sfogliando libri ed enciclopedie lascia alquanto delusi, non si hanno molte altre notizie, oltre a quelle già riportate; sappiamo che gran parte del tempo fu speso dal nobile scrittore in letture e meditazione. Taciturno e schivo, tendeva volentieri all’isolamento; diceva: «Ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone». Poco si sa circa l’origine e lo sviluppo dell’attività letteraria dell’autore siciliano, anche se si è accreditata l’ipotesi che, tornato a Palermo, egli si sia messo a scrivere quasi di getto Il Gattopardo, vincitore del Premio Strega, fu anche oggetto dell’impegno di Luchino Visconti, che nel 1963 lo tradusse in film. Il dattiloscritto de Il Gattopardo fece il giro di diverse case editrici e fu respinto da lettori autorevoli come Vittorini. Se ne interessò invece Bassani che, ormai morto l’autore, trovò un manoscritto dell’opera, altri scritti, testi di saggi e racconti, riuscendo così a ricostruire la complessa personalità di Tomasi di Lampedusa.  Oltre al romanzo principale, sono apparsi postumi i Racconti (1961), le Lezioni su Stendhal (1977) e Invito alle lettere francesi del Cinquecento (1979).
[33] Giorgio Bassani - Nacque a Bologna il 4 marzo del 1916 da una famiglia della borghesia ebraica, ma trascorse l’infanzia e la giovinezza a Ferrara, destinata a divenire il cuore pulsante del suo mondo poetico, dove si laureò in Lettere nel 1939. Durante gli anni della guerra partecipò attivamente alla Resistenza e conobbe anche l’esperienza del carcere; nel 1943 si trasferì a Roma, dove visse per tutta la vita. Dopo il ‘45 che si dedicò all’attività letteraria in maniera continuativa, lavorando sia come scrittore (poesia, narrativa e saggistica) sia come operatore editoriale: è significativo ricordare che fu proprio lui ad appoggiare presso l’editore Feltrinelli la pubblicazione del Il gattopardo, romanzo segnato dalla stessa visione liricamente disillusa della storia che si incontra anche nelle opere dell’autore de Il giardino dei Finzi Contini. Bassani ha lavorato anche nel mondo della televisione, arrivando a ricoprire il ruolo di vicepresidente della Rai; ha insegnato nelle scuole ed è stato anche docente di Storia del teatro presso l’Accademia d’Arte Drammatica di Roma. Ha partecipato attivamente alla vita culturale romana collaborando a varie riviste, tra cui «Botteghe Oscure», rivista di letteratura internazionale uscita tra il ‘48 e il ‘60. Va inoltre ricordato il suo lungo e costante impegno come presidente dell’associazione Italia Nostra, creata in difesa del patrimonio artistico e naturale del Paese. Dopo alcune raccolte di versi e la pubblicazione in un unico volume delle Cinque storie ferraresi nel 1956, Bassani raggiunse il grande successo di pubblico con Il giardino dei Finzi Contini (1962): nel 1970 il romanzo riceverà anche un’illustre trasposizione cinematografica per opera di De Sica, dalla quale però Bassani vorrà sempre prendere le distanze. Le opere successive dello scrittore, sviluppate tutte intorno al grande tema geografico-sentimentale di Ferrara, sono Dietro la porta (1964); L’Airone (1968); L’odore del fieno (1973), riunite nel 1974 in un unico volume insieme al romanzo breve Gli occhiali d’oro (1958), dal significativo titolo Il romanzo di Ferrara. Dopo un lungo periodo di malattia, segnato anche da dolorosi contrasti all’interno della sua famiglia, Bassani si spense a Roma il 13 aprile del 2000.
[34] Iniziata dal filosofo danese Soren Kierkegaard (1813-1855), ebbe notevole sviluppo nella prima metà del Novecento ad opera del tedesco Martin Heidegger. L’Esistenzialismo studia la condizione dell’uomo non nel suo “essere” ma nel suo “esistere”: l’uomo è stato “gettato” nel Mondo e poco conta il suo “essere” senza il rapporto con tutto il resto: come “essere” è libero, ma non può manifestare ed esercitare la libertà nel suo “esistere” perché fortemente condizionato dagli altri uomini, dalle cose, dagli accidenti, ecc. Esistere significa essere in rapporto col mondo e questo significa trovarsi in una situazione determinata.
[35] Elio Pagliarani - Presente nell’antologia dei "Nuovissimi", fece parte del Gruppo 63. Alle prime raccolte degli anni ‘50 rimandano Pagliarani propose un originale sperimentalismo attraverso il recupero di una narratività realistica e di una epicità brechtiana. Nei volumi degli anni ‘60 si mostrò più vicino alle prove radicali della neoavanguardia: La ragazza Carla (1962), Lezione di fisica (1964), Lezione di fisica e fecaloro (1968). Pagliarani operò qui sul linguaggio ma anche sui significati, attraverso collages, combinazioni, montaggi di forme linguistiche stereotipate.
[36] Edoardo Sanguineti - Nato a Genova il 9 dicembre 1930. Docente di letteratura italiana. Esponente di punta della neo-avanguardia del Gruppo 63, è autore di poesie in cui la dissoluzione del linguaggio, raggiunta attraverso la commistione delle forme linguistiche, intende porsi come registrazione della crisi storica dell’ideologia borghese, politica e letteraria
[37] Lalla Romano - Nata a Demonte [Cuneo] nel 1909, negli anni ‘30 a Torino la Romano fu pittrice impressionista, amica di Carlo Levi, Mario Soldati, Cesare Pavese ecc. Dopo il 1947, quando si trasferì a Milano, prese regolarmente a scrivere. Significativa è la sua opera di narratrice: le prose di Le metamorfosi (1951), il romanzo Maria (1953). La Romano rivela una specifica attitudine a creare atmosfere rarefatte e analizzare affetti semplici e domestici. E’ una poetica che ha toccato il momento più alto nel lungo racconto autobiografico La penombra che abbiamo attraversato (1964). Toni delicatamente psicologici anche nelle opere successive: Le parole tra noi leggere (1969), L’ospite (1973), Inseparabile (1981).
[38] Alba de Céspedes - nata a Roma nel 1911, è morta nel 1997 a Parigi dove si era trasferita alla fine degli anni ‘60. Ha scritto numerosi libri di narrativa, aventi per protagoniste donne, di cui ha descritto il contrasto tra conformismo e morale individuale.  Tra i suoi titoli: Nessuno torna indietro (1938) con cui esordì, Dalla parte di lei (1949), Quaderno proibito (1952), Il rimorso (1964), La bambolona (1967), Nel buio della notte (1976).
[39] il ciclo I segreti di Milano che comprende la cui raccolta Il ponte della Ghisolfa (1958), La Gilda del MacMahon (1959), due commedie La Maria Brasca (1960) e L’Arialda (1961), e il romanzo Il fabbricone (1961) i cui personaggi sono operai, popolane, prostitute; l’ambientazione è quella della periferia e dei sobborghi di Milano, ma il suo non è neorealismo: il violento impasto di lingua e dialetto, il disegno a volte esasperato dei caratteri lo collocano infatti nell’ambito di un espressionismo sanguigno. Testori ha espresso una tematica mistica e moraleggiante: le raccolte di poesia Crocifissione (1966), L’amore (1968), Diadèmata (1986); i drammi La monaca di Monza (1967), L’Ambleto (1972), Macbetto (1974), I promessi sposi alla prova (1985); le azioni teatrali in versi Conversazione con la morte (1978) e Interrogatorio a Maria (1979).
[40] Horcynus Orca - Pur essendo di una vastità e di una difficoltà di lettura a volte scoraggianti il testo si snoda ondeggiando e rifluendo in un unicum narrativo di rara densità. Le suddivisioni dell’opera sono tutte interne alla narrazione e quella principale che divide in due il testo, è costituita dai due momenti del nostos del protagonista e della sua ripartenza verso la morte. La grande novità e originalità di Horcynus Orca stanno, però, nella sua particolarissima tessitura linguistica, perché D’Arrigo ha letteralmente inventato una nuova lingua, affinata e portata a capacità espressive inaudite. Horcynus Orca é una lettura che manifesta l’immensa ricchezza tematica con cui Stefano D’Arrigo ha voluto caratterizzare la sua opera. Le scelte lessicali misteriose, i parallelismi tra i suoi personaggi e quelli dei grandi poemi epici, come l’Odissea e l’Eneide, l’Orca vista come simbolo accostabile al Leviatano o a Moby Dick, sono tutti elementi che affascinano e costringono il lettore ad addentrarsi nella grandiosa costruzione su cui D’Arrigo ha trascorso una vita.
[41] Paolo Volponi - Nato a Urbino nel 1924 Volponi Ha partecipato al gruppo di lavoro messo su da Adriano Olivetti nel dopoguerra che poneva un nuovo modo di produrre e vivere il lavoro industriale. E’ stato vicino alle posizioni politiche della sinistra. Esordì con libri di poesie: Il ramarro (1948), L’antica moneta (1955), Le porte dell’Appennino (1960). Sono poesie caratterizzate da un ritmo breve e secco, dal costante riferimento al paesaggio appenninico. Passò alla narrativa con Memoriale (1962). Si impegnò nella rappresentazione spontaneamente simbolica dei rapporti alienati tra individui e strutture produttive. Il discorso continuò, con uno scarto ironico e poetico, nella Macchina mondiale (1965), il cui protagonista è ossessionato dal progetto di costruire una macchina che sia in grado di rimettere in sesto un mondo travolto dalla generale pazzia. La tematica dello scontro tra realtà fittizia e autenticità esistenziale è arricchita nelle opere successive di motivi psicoanalitici, lirico-meditativi e fantascientifici, che si sviluppano in più ambiziosi progetti narrativi. E’ il caso soprattutto di Corporale (1974), dove la nevrosi del soggetto ribelle si dissolve, dopo complesse vicende, nel tentativo furibondo di fagocitare in solitudine il «reale» attraverso le «ventose della sua accesa corporalità». Nei due romanzi successivi, Il sipario ducale (1975) e Il pianeta irritabile (1978), l’impulso di rivolta dell’io tende a smorzarsi e a perdersi tra le esplosioni del «tragico quotidiano» e gli allettamenti di un piccolo mondo provinciale ancorato alle sue tradizioni storiche come la Urbino di "Sipario ducale", tra visioni interplanetarie apocalittiche e il dilagare dell’organizzazione consumistica e tecnologica. Alla deviante educazione di un ragazzo in periodo fascista è dedicato Il lanciatore di giavellotto (1981). Torna al tema industrialista e all’analisi del mondo capitalistico con Le mosche del capitale, in cui quel mondo è visto dall’interno, attraverso la storia tra il realismo e le incursioni esopiane, di un dirigente di una grande azienda del nord italico.
[42] Andrea Zanzotto esordì con Dietro il paesaggio (1951) legato a una personale forma di elegia, un vivo senso della campagna veneta e a tarde e decentrate suggestioni ermetiste. Nella raccolte successive è uno spostamento verso altre forme: attraverso Vocativo (1957) e IX Ecloghe (1962) verso lo sperimentalismo formale e la percezione dell’invadenza drammatica e nevrotizzante della nuova realtà industriale e consumistica.
Nelle poesie di La beltà (1968), uno dei maggiori risultati della poesia italiana della seconda metà del XX secolo, tutto è posto in crisi e in discussione, in un pullulare di sollecitazioni interne e esterne, nella ricchezza esorbitante di un mondo interiore impossibilitato alla chiarezza e alla normalità e tuttavia animato da una forte tensione comunicativa. La sua ricerca si è arricchita nelle raccolte successive: Gli sguardi i fatti e senhal (1969), Pasque (1973), Filò (1976), Il Galateo in bosco (1978), Fosfeni (1983). In queste raccolte è un rimescolamento sempre più vorticoso di materiali linguistici: il latino e il provenzale, i formulari dei mass-media e le riprese auliche della tradizione petrarchesca, il dialetto veneto e lo straordinario petèl, il gergo infantile della provincia di Treviso.
Raccolta di saggi e articoli di critica e di lettura di poeti a lui contemporanei e amici è il volume "Aure e disincanti" (1994). Dedicato ad autori nati prima del XX secolo il volume "Fantasie di avvicinamento".
[43] Leonardo Sciascia - Sciascia nasce a Recalmuto l’8 gennaio 1921. Da subito affiora la sua forte passione per la storia, unita all’amore per la scrittura e gli strumenti dello scrivere. Nel 1935 l’autore si trasferisce a Caltanissetta con la famiglia e si iscrive all’Istituto Magistrale IX Maggio, nel quale insegna Vitaliano Brancati. Lo scrittore diventerà per Sciascia un modello, mentre all’incontro con il giovane insegnante Giuseppe Granata (futuro senatore del PCI) Sciascia riconosce la scoperta degli illuministi e della letteratura americana. Nel 1941 supera l’esame per diventare maestro elementare. Pochi anni dopo, nel 1948, il suicidio del fratello Giuseppe lascia un segno profondo nell’animo dell’autore. Nel 1949 inizia ad insegnare nella scuola elementare nel suo paese. È del 1952 la pubblicazione di Favole della dittatura, ventisette testi brevi di prosa assai studiata. Sempre nel 1952, esce la raccolta di poesie La Sicilia, il suo cuore. Sciascia vince nel 1953 il Premio Pirandello per un suo importante intervento critico sull’autore di Girgenti (Pirandello e il pirandellismo). Nel 1956 esce il primo libro di rilievo Le parrocchie di Ragalpetra, a cui seguono nell’autunno del ‘58 i tre racconti della raccolta Gli zii di Sicilia: La zia d’America, Il quarantotto e La morte di Stalin. Nel 1960 è pubblicata la seconda edizione de Gli Zii di Sicilia, a cui s’è aggiunto un quarto racconto, L’antimonio. Del 1961 è invece Il giorno della civetta, il romanzo sulla mafia che porterà a Sciascia la maggior parte della sua celebrità: e proprio l’impegno civile e la denuncia sociale dei mali di Sicilia saranno uno dei tratti più pertinenti per la definizione della fisionomia dello scrittore e intellettuale Leonardo Sciascia. Oltre a Il consiglio d’Egitto (1963), gli anni Sessanta vedranno nascere alcuni dei romanzi più sentiti dallo stesso autore, dedicati proprio alle ricerche storiche sulla cultura siciliana: A ciascuno il suo (1966) e Morte dell’Inquisitore (1967). Il 1970 è l’anno del pensionamento e dell’uscita de La corda pazza, una raccolta di saggi su cose siciliane nella quale l’autore chiarisce la propria idea di "sicilitudine" e dimostra una rara sensibilità artistica espressa per mezzo di sottili capacità saggistiche. Il 1971 è l’anno de Il contesto. Tuttavia si fa sempre più forte la propensione ad includere la denuncia sociale nella narrazione di episodi veri di cronaca nera: gli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (1971), I pugnalatori (1976) e L’affaire Moro (1978) ne sono un esempio. Nel 1974 nasce Todo modo. Alle elezioni comunali di Palermo nel giugno ‘75 lo scrittore è candidato come indipendente nelle liste del partito comunista. Nel 1979 accetta la proposta dei radicali e si candida sia al Parlamento europeo sia alla Camera. Eletto in entrambe le sedi istituzionali opta per Montecitorio, dove rimarrà fino al 1983 occupandosi quasi esclusivamente dei lavori della commissione d’inchiesta sul rapimento Moro. In seguito a nuovi contrasti con il PCI di Berlinguer Sciascia abbandona l’attività politica, ma non rinuncia all’osservazione delle vicende politico-giudiziarie dell’Italia, in particolare per quanto riguarda la mafia. Dalla collaborazione con la casa editrice Sellerio di Palermo origina una collana chiamata appunto "La memoria", che si apre con un suo libro, Dalle parte degli infedeli (1979), e che con le sue Cronachette festeggia nel 1985 la centesima pubblicazione. Per un ritratto dello scrittore da giovane è un’opera considerata “minore” di Leonardo Sciascia. In realtà, ci troviamo di fronte a un altro importante scritto che aiuta a cogliere l’ispirazione più profonda dell’autore, attraverso la letture di pagine e la scoperta di luoghi letterari ancora poco frequentati. Gli ultimi anni di vita dello scrittore sono segnati dalla malattia che lo costringe a frequenti trasferimenti a Milano per curarsi. Carichi di dolenti inflessioni autobiografiche sono i brevi racconti gialli Porte aperte (1987), Il cavaliere e la morte (1988) e Una storia semplice. Pochi mesi prima di morire pubblica Alfabeto pirandelliano, A futura memoria (pubblicato postumo), e Fatti diversi di storia letteraria e civile edito da Sellerio. Sciascia muore a Palermo il 20 novembre 1989.
[44] Dario Fo - Nato a Leggiuno Sangiano [Varese] nel 1926, ha scritto diretto e interpretato testi in cui fonde umorismo paradossale, comicità istrionesca e clownesca e satira politica. Fo è un comico colto, che si è inventato una tradizione popolare di riferimento, quella giullaresca. Il suo è un teatro politico e sociale che usa il grottesco e la satira dissacrante, legato all’attualità politica contemporanea e alla tradizione del cabaret milanese. Tra i titoli dei suoi testi si ricordano: Il dito nell’occhio (1953), Settimo: ruba un po’ meno (1964), Mistero buffo (1969), Morte accidentale di un anarchico (1971) esempio di teatro politico e in presa diretta sull’attualità, Ci ragiono e canto (1972), Non si paga, non si paga (1974) ecc., Johan Padan performance di teatro d’autore caratterizzata da una elevata qualità linguistica e poetica. Mamma! I sanculotti! (1993) storia di un giudice che indaga sulla corruzione politica e mafiosa che si trova alle prese con una bomba (nel sedere) e con una poliziotta-gorilla che sconvolge la sua vita privata e pubblica, tra spie corrotti e concussioni del malaffare. Ai suoi testi ha collaborato in maniera spesso determinante la compagna Franca Rame, attrice e autrice di teatro legata alle tematiche del femminismo. Mentre Fo è più animale da palcoscenico e teatrante, la Rame esprime una diversa connotazione, fortemente e violentemente ideologica e vissuta. Nel 1997 gli è stato assegnato il premio nobel per la letteratura, con questa motivazione: "who emulates the jesters of the Middle Ages in scourging authority and upholding the dignity of the downtrodden".
[45]  Eduardo De Filippo - Nato a Napoli nel 1900 (morto a Roma nel 1984), dal 1920 scrisse i testi per la compagnia diretta insieme ai fratelli Peppino e Titina fino al 1944, con la sola Titina fino al 1951, da solo negli anni successivi.
Dopo una serie di commedie farsesche, a partire dal 1945 puntò su toni più accorati, in cui anche gli effetti mimici, gli equivoci verbali, le battute ecc. diventano strumento per un discorso globale sulla vita. Al centro della sua opera è il personaggio di Pulcinella, in abiti moderni e senza "maschera": ingenuo e furbo insieme, da tutti maltrattato e sbeffeggiato, ma ancora in grado di rivalersi delle proprie sconfitte (che sono le sconfitte dell’uomo solo nella società divoratrice) con il riso, il sogno, con la propria amara saggezza, di scattare in improvvise e violente affermazioni di dignità. Al protagonista, da lui stesso interpretato, fa da cornice un ambiente quotidiano e domestico carico di sofferenza. Tra i numerosi titoli del suo teatro si ricordano: Natale in casa Cupiello (1931), Napoli milionaria (1945), Filumena Marturano (1946), Questi fantasmi (1946), Le voci di dentro (1948), Mia famiglia (1955), Bene mio e core mio (1955), De Pretore Vincenzo (1957), Sabato, domenica e lunedì (1959), Il sindaco del rione Sanità(1961), Il monumento (1970), Gli esami non finiscono mai (1973). Nel 1975 è stato edito il corpus teatrale sotto il titolo di "Il teatro di Eduardo". De Filippo è stato interprete e regista anche di alcuni films, subito dopo la guerra. Tra essi si ricordano Napoletani a Milano (1953): la storia è quella di alcuni poveri diavoli fatti sloggiare dalla bidonville napoletana, che arrivano a Milano per ottenere un indennizzo dalle future società immobiliari. Ti conosco mascherina (1943) in cui recita (oltre a dirigere) accanto a Paolo Stoppa. Nei suoi films, anche in quelli girati prima della guerra, è sempre il tentativo di andare oltre la macchietta, giungere a ambiti di moralità o di asserzione pirandelliana. L’opera di De Filippo si inserisce all’interno di una tradizione, che è quella del teatro dialettale ottocentesco e novecentesco napoletano, rinvigorito con componenti provenienti dal teatro pirandelliano, dal moralismo e dalla polemica sociale. Raggiunge la sua grandezza nella misura della disperazione umanissima dei personaggi, il superamento del pietismo e della retorica che invece fanno affossare altri tentativi analoghi. De Filippo diceva che «la mia vera casa è il teatro, là so esattamente come muovermi, cosa fare: nella vita sono uno ‘sfollato’». In lui vive la tradizione dell’attore, di colui che ha passato nel teatro tutta la sua vita, che sa cosa significa scrivere per un pubblico: «Scrivere una commedia impegnata è facile. Il difficile è impegnare il pubblico a ascoltarla». Di qui una umiltà umanissima, fino a sconfinare nella religiosità del teatro: «del teatro non ci si serve. Il teatro si serve». «Lo sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualunque significato è teatro». Sono i brani di saggezza consegnati nelle interviste nell’arco di una vita dedicata al teatro.
[46] Rancore (1946), Inquisizione (1950), Processo di famiglia (1953), Processo a Gesù (1955), Veglia d’armi (1956). A questi drammi alternò due ritratti di costume: Il seduttore (1951), e La bugiarda (1956).
[47] (legati anche a esempi come quelli del Living Theatre del nordamericano Julian Beck, al Teatro Laboratorio del polacco Jerzy Grotowski, alla performance, il teatro di Tadeusz Kantor, di Peter Brook ed altro)
[48] la fotografia della situazione dell’editoria italiana alla metà degli anni Ottanta. A parte il caso di Umberto Eco che, con Il nome della rosa, si colloca ai vertici delle classifiche mondiali, l’industria editoriale italiana non sembra conoscere uno sviluppo. Il mercato resta sostanzialmente fermo a basse vendite, mentre si moltiplicano i piccoli editori e i medi editori tradizionali sono progressivamente assorbiti in conglomerati editoriali sempre più vasti. L’editoria di qualità resta appannaggio della Feltrinelli, guidata da Inge Feltrinelli, e da Garzanti a Milano, dalla torinese Einaudi che però negli anni ‘80 è travolta dalla crisi e sopravvive solo al prezzo di un duro ridimensionamento. Il mercato di consumo è dominato soprattutto dal gruppo editoriale Mondadori che mantiene solo il nome del fondatore. A Roma gli Editori Riuniti[48], azienda editoriale legata al PCI, è specializzata in classici del marxismo e non solo. Al settore specialistico saggistico appartengono una casa editrice storica come quella dei Fratelli Laterza di Bari e Il Mulino di Bologna vicina agli ambienti universitari; nel campo delle pubblicazioni d’arte è la Electa di Milano. Tra i piccoli editori di qualità si pone Sellerio di Palermo, grazie soprattutto al contributo consultivo di Leonardo Sciascia e guidata da Elvira Sellerio. La maggior parte delle case editrici sono concentrate a Milano, e il settentrione resta la zona del paese dove sono concentrate più librerie e dove si vendono (e leggono) più libri e giornali.
Negli anni Novanta, lo smantellamento delle strutture culturali legate al P.C.I. va di pari passo con processi di omogeneizzazione culturale, accorpamento di case editrici che persistono ancora quali semplici sigle editoriali. Hanno consistenza culturale case editrici che veicolano culture e ideologie che rompono la sostanziale bipartizione degli anni precedenti al 1989: così la destra con Adelphi.

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