Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

mercoledì 19 settembre 2012

Il poeta e la poesia nel testo poetico

È del poeta il fin la maraviglia
Da La Murtoleide di Gian Battista Marino
Vuo' dar una mentita per la gola
a qualunque uom ardisca d'affermare
che il Murtola non sa ben poetare,
e ch'ha bisogno di tornar a scuola.

E mi viene una stizza mariola
quando sento ch'alcun lo vuol biasmare;
perché‚ nessuno fa meravigliare
come fa egli in ogni sua parola.

È del poeta il fin la meraviglia
(parlo de l'eccellente, non del goffo):
chi non sa far stupir, vada a la striglia.

Io mai non leggo il cavolo e 'l carcioffo,
che non inarchi per stupor le ciglia,
com'esser possa un uom tanto gaglioffo.

Alla Musa
di Ugo Foscolo
Pur tu copia versavi alma di canto
su le mie labbra un tempo, Aonia Diva,
quando de’ miei fiorenti anni fuggiva
la stagion prima, e dietro erale intanto

questa, che meco per la via del pianto
scende di Lete ver la muta riva:
non udito or t’invoco; ohimè! soltanto
una favilla del tuo spirto è viva.

E tu fuggisti in compagnia dell’ore,
o Dea! tu pur mi lasci alle pensose
membranze, e del futuro al timor cieco.

Però mi accorgo, e mel ridice amore,
che mal ponno sfogar rade, operose
rime il dolor che deve albergar meco.

Alla Musa
di Alessandro Manzoni
Novo intatto sentier segnami, o Musa,
onde non stia tua fiamma in me sepolta.
È forse a somma gloria ogni via chiusa,
che ancor non sia d’altri vestigi folta!

Dante ha la tromba, e il cigno di Valchiusa
la dolce lira; e dietro han turba molta.
Flora ad Ascra agguagliosse; e Orobbia incolta
Emulò Smirna, o vinse Siracusa.

Primo signor de l’italo coturno,
te vanta il secol nostro, o te cui dièo
venosa il plettro, o chi il flagello audace?

Clio, che tratti la tromba e il plettro eburno,
deh! fa che, s’io cadrò sul calle Ascreo,
dicasi almen: Su l’orma propria ei giace!


Congedo
Da Rime nuove di Giosuè CarducciIl poeta, o vulgo sciocco,
un pitocco
non è già, che a l'altrui mensa
via con lazzi turpi e matti
porta i piatti
ed il pan ruba in dispensa.

E né meno è un perdigiorno
che va intorno
dando il capo ne' cantoni,
e co 'l naso sempre a l'aria
gli occhi svaria
dietro gli angeli e i rondoni.

E né meno è un giardiniero
che il sentiero
de la vita co 'l letame
utilizza, e cavolfiori
pe' signori
e viole ha per le dame.

Il poeta è un grande artiere,
che al mestiere
fece i muscoli d'acciaio:
capo ha fier, collo robusto,
nudo il busto,
duro il braccio, e l'occhio gaio.

Non a pena l'augel pia
e giulía
ride l'alba a la collina,
ei co 'l mantice ridesta
fiamma e festa
e lavor ne la fucina:

E la fiamma guizza e brilla
e sfavilla
e rosseggia balda audace,
e poi sibila e poi rugge
e poi fugge
scoppiettando da la brace.

Che sia ciò, non lo so io;
lo sa Dio
che sorride al grande artiero.
ne le fiamme cosí ardenti
gli elementi
de l'amore e del pensiero

egli gitta, e le memorie
e le glorie
de' suoi padri e di sua gente.
Il passato e l'avvenire
a fluire
va nel masso incandescente.

Ei l'afferra, e poi del maglio
co 'l travaglio
ei lo doma su l'incude.
Picchia e canta. Il sole ascende,
e risplende
su la fronte e l'opra rude.

Picchia. E per la libertade
ecco spade,
ecco scudi di fortezza:
ecco serti di vittoria
per la gloria,
e diademi a la bellezza.

Picchia. Ed ecco istoriati
a i penati
tabernacoli ed al rito:
ecco tripodi ed altari,
ecco rari
fregi e vasi pe 'l convito.

Per sé il pover manuale
fa uno strale
d'oro, e il lancia contro 'l sole:
guarda come in alto ascenda
e risplenda,
guarda e gode, e più non vuole.

Preludio
da Penombre di Emilio Praga
Noi siamo figli dei padri ammalati;
aquile al tempo di mutar le piume
svolazziam muti, attoniti, affamati,
sull'agonia di un nume.

Nebbia remota è lo splendor dell'arca,
e già all'idolo d'or torna l'umano,
e dal vertice sacro il patriarca
s'attende invano;

s'attende invano dalla musa bianca
che abitò venti secoli il Calvario,
e invan l'esausta vergine s'abbranca
ai lembi del Sudario...

Casto poeta che l'Italia adora,
vegliardo in sante visioni assorto,
tu puoi morir!... Degli Antecristi è l'ora!
Cristo è rimorto!

O nemico lettor, canto la Noia,
l'eredità del dubbio e dell'ignoto,
il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia,
il tuo cielo, e il tuo loto!

Canto litane di martire e d'empio;
canto gli amori dei sette peccati
che mi stanno nel cor, come in un tempio,
inginocchiati.

Canto l'ebrezze dei bagni d'azzurro,
e l'Ideale che annega nel fango...
Non irrider, fratello, al mio sussurro,
se qualche volta piango:

giacché più del mio pallido demone,
odio il minio e la maschera al pensiero,
giacchè canto una misera canzone,
ma canto il vero!

La poesia
da Canti di Castelvecchio di Giovanni Pascoli
I
Io sono una lampada ch'arda
soave!
la lampada, forse, che guarda,
pendendo alla fumida trave,
la veglia che fila;
e ascolta novelle e ragioni
da bocche
celate nell'ombra, ai cantoni,
là dietro le soffici rócche
che albeggiano in fila:
ragioni, novelle, e saluti
d'amore, all'orecchio, confusi:
gli assidui bisbigli perduti
nel sibilo assiduo dei fusi;
le vecchie parole sentite
da presso con palpiti nuovi,
tra il sordo rimastico mite
dei bovi:
II
la lampada, forse, che a cena
raduna;
che sboccia sul bianco, e serena
su l'ampia tovaglia sta, luna
su prato di neve;
e arride al giocondo convito;
poi cenna,
d'un tratto, ad un piccolo dito,
là, nero tuttor della penna
che corre e che beve:
ma lascia nell'ombra, alla mensa,
la madre, nel tempo ch'esplora
la figlia più grande che pensa
guardando il mio raggio d'aurora:
rapita nell'aurea mia fiamma
non sente lo sguardo tuo vano;
già fugge, è già, povera mamma,
lontano!
III
Se già non la lampada io sia,
che oscilla
davanti a una dolce Maria,
vivendo dell'umile stilla
di cento capanne:
raccolgo l'uguale tributo
d'ulivo
da tutta la villa, e il saluto
del colle sassoso e del rivo
sonante di canne:
e incende, il mio raggio, di sera,
tra l'ombra di mesta viola,
nel ciglio che prega e dispera,
la povera lagrima sola;
e muore, nei lucidi albori,
tremando, il mio pallido raggio,
tra cori di vergini e fiori
di maggio:
IV
o quella, velata, che al fianco
t'addita
la donna più bianca del bianco
lenzuolo, che in grembo, assopita,
matura il tuo seme;
o quella che irraggia una cuna
- la barca
che, alzando il fanal di fortuna,
nel mare dell'essere varca,
si dondola, e geme -;
o quella che illumina tacita
tombe profonde - con visi
scarniti di vecchi; tenaci
di vergini bionde sorrisi;
tua madre!... nell'ombra senz'ore,
per te, dal suo triste riposo,
congiunge le mani al suo cuore
già róso! -
V
Io sono la lampada ch'arde
soave!
nell'ore più sole e più tarde,
nell'ombra più mesta, più grave,
più buona, o fratello!
Ch'io penda sul capo a fanciulla
che pensa,
su madre che prega, su culla
che piange, su garrula mensa,
su tacito avello;
lontano risplende l'ardore
mio casto all'errante che trita
notturno, piangendo nel cuore,
la pallida via della vita:
s'arresta; ma vede il mio raggio,
che gli arde nell'anima blando:
riprende l'oscuro viaggio
cantando.


Canta la gioia
da Canto novo di Gabriele D’Annunzio

Canta la gioia! Io voglio cingerti
di tutti i fiori perchè tu celebri
la gioia la gioia la gioia,
questa magnifica donatrice!
Canta l'immensa gioia di vivere,
d'essere forte, d'essere giovine,
di mordere i frutti terrestri
con saldi e bianchi denti voraci,
di por le mani audaci e cupide
su ogni dolce cosa tangibile,
di tendere l'arco su ogni
preda novella che il desìo miri,
e di ascoltar tutte le musiche,
e di guardar con occhi fiammei
il volto divino del mondo
come l'amante guarda l'amata,
e di adorare ogni fuggevole
forma,ogni segno vago, ogni immagine
vanente, ogni grazia caduca,
ogni apparenza ne l'ora breve.
Canta la gioia! Lungi da l'anima
nostra il dolore, veste cinerea.
E' un misero schiavo colui
che del dolore fa sua veste.
A te la gioia, Ospite! Io voglio
vestirti da la più rossa porpora
s'io debba pur tingere il tuo
bisso nel sangue de le mie vene.
Di tutti i fiori io voglio cingerti
trasfigurata perchè tu celebri
la gioia la gioia la gioia,
questa invincibile creatrice!


Desolazione del povero poeta sentimentale
Dal Piccolo libro inutile di Sergio Corazzini
I
Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?
II
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te
arrossirei.
Oggi io penso a morire.
III
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle catedrali
mi fanno tremare d'amore e di angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.
Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.
IV
Oh, non maravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l'aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.
V
Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.
VI
Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.
VII
Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.
VIII
Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.


Chi sono?
Da Poesie di Aldo Palazzeschi
Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
follia.

Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
malinconia.

Un musico, allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
nostalgia.

Son dunque... che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.

Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.



Italia
Da l’Allegria di Giuseppe Ungaretti
Locvizza, l'1 ottobre 1916
Sono un poeta
un grido unanime
sono un grumo di sogni

Sono un frutto
d'innumerevoli contrasti d'innesti
maturato in una serra

Ma il tuo popolo è portato
dalla stessa terra
che mi porta
Italia

E in questa uniforme
di tuo soldato
mi riposo
come fosse la culla
di mio padre


Non chiederci la parola
Da Ossi di seppia  di Eugenio Montale
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Il poeta 
Da Canzoniere di Umberto Saba
Il poeta ha le sue giornate
contate,
come tutti gli uomini; ma quanto,
quanto variate!

L’ore del giorno e le quattro stagioni,
un po’ meno di sole o più di vento,
sono lo svago e l’accompagnamento
sempre diverso per le sue passioni
sempre le stesse; ed il tempo che fa
quando si leva, è il grande avvenimento
del giorno, la sua gioia appena desto.
Sovra ogni aspetto lo rallegra questo
d’avverse luci, le belle giornate
movimentate
come la folla in una lunga istoria,
dove azzurro e tempesta poco dura,
e si alternano messi di sventura
e di vittoria.
Con un rosso di sera fa ritorno,
e con le nubi cangia di colore
la sua felicità,
se non cangia il suo cuore.

Il poeta ha le sue giornate
contate,
come tutti gli uomini; ma quanto,
quanto beate!

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