Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

martedì 16 febbraio 2016

Noi ad Atene facciamo così di Massimo Capuozzo

Alla base della società greca primitiva intorno all'800 a.C. si collocavano le famiglie riunite in clan[1] e in tribù[2]. Durante i secoli IX e X a.C., con l’espansione commerciale e coloniale, un gran numero di Greci si era reso indipendente dai legami terrieri arcaici, segnando l’inizio del declino della classe aristocratica.
Nel 630 a.C. ad Atene fu suscitato un primo tentativo di tirannide da parte di Cilone che sfruttò una condizione di malcontento popolare.
In un passato mitico il primo sincretismo[3] politico, di natura vagamente democratica, fu considerato attuato da Teseo. Teseo si configurò come un basilèus cui fu attribuito il ruolo di creatore di una prima democrazia, per aver ceduto almeno una parte dei poteri al démos.
Il primo vero passo verso la democrazia può essere considerato tuttavia l’opera attuata da Dracone nel VII secolo a.C. che mise per iscritto le leggi di una tradizione orale, per volere degli aristocratici.
Quando però l’Attica fu scossa da una crisi agraria che causò disordini civili, fu nominato per la città di Atene un aisymnetes (magistrato) affinché regolasse la situazione politica e sociale.
Essendo stato nominato Solone (ca.594/3 o 592/1 a.C.) per questa carica, dunque, si avviò il principio democratico, ossia l'inizio evolutivo di questa forma di governo.

T 1 Elegia alle Muse
Di Solone[4]
La poesia di Solone risente spesso del suo impegno politico.
Fra i testi a lui attribuiti compaiono anche testi di carattere autobiografico, ma egli trattò principalmente di politica e di morale.
La triade concettuale da lui introdotta, fu fondamentale per la letteratura greca:
·         la ὕβρις (hýbris): il peccato di presunzione esso è il male, inteso come tracotanza, ed è una scelta dell'uomo;
·         ἄτη (ate): è un procedimento di degradazione (accecamento) a cui gli dei sottopongono chi si è macchiato di ὕβρις;
·         δίκη (dike): è il motore del processo di giustizia divina.
Nell’Elegia alle muse raggiunge una consapevolezza maggiore: non sono le Muse a prendere l’iniziativa di parlare all’uomo o di dare l’investitura, ma è l’uomo stesso che si rivolge loro, non come servo, ma con un invito ad ascoltare la sua richiesta di ottenere fama e celebrità e di poter trasmettere la verità con il consenso di quelle depositarie della memoria e della verità collettiva. Le Muse sono, infatti, le garanti della giusta relazione che s’instaura tra gli uomini.

O di Mnemòsine[5] figlie fulgenti e del Sire d’Olimpo,
Pièrie[6] Muse, ascolto date a me che vi prego.
Fate che felicità mi concedano i Numi, e ch’io goda
presso i mortali fama perennemente buona,
ed agli amici sia gradevole, amaro ai nemici,
esultino a vedermi questi, e tremino quelli.
Ricchezza, averne bramo, ma farne empio acquisto non bramo:
ché sopraggiunse sempre, sia pur tarda, Giustizia.
Quanto a Ricchezza, quella che i Numi concedono, salda
dalla base alla cima rimane al possessore:
quella che col Sopruso si lucra, non sa regolarsi,
anzi, sedotta, i passi segue del Male Oprare,
sinché piomba improvvisa su lei la Vendetta Divina.
Comincia essa dal poco, come avviene pel fuoco:
debole su le prime: ma niuno alla fin le resiste:
chè Sopruso vantaggio non arreca ai mortali.
Ma d’ogni cosa Zeus preordina il fine; e, improvviso,
come subito vento primaverile sperde le nubi,
e dal profondo sconvolge gl’innumeri[7] flutti
del mar che non si miete, poi della terra i campi
belli, feraci di spelta[8], distrugge, ed ascende alla sede
alta dei Numi, al cielo torna sereno l’ètra.
E su la pingue terra scintilla la forza del sole
bella, né più si vede traccia di nube in cielo:
procede la Vendetta di Zeus così; né lo sdegno
affila, come gli uomini fanno, caso per caso;
ma non le resta sempre nascosto chi cuore malvagio
chiude nel seno; e tutto vien finalmente a luce.
E questi lì per lì paga il fio[9], quegli dopo; e se pure
gli sfugge alcuno, e l’Ira dei Numi non lo coglie,
pure il momento arriva: la colpa i figliuoli innocenti
per lui scontano, oppure la più tarda progenie.
Tutti noialtri mortali, sia buoni, sia tristi, nutriamo
opinione grande di noi, sinché ci colga
qualche malanno: allora son lagni[10]; ma fino a quel punto
ci lusinghiam[11] con vane speranze, a bocca aperta.
E quegli ch’è schiacciato dal peso di gravi malanni,
s’illude che fra poco godrà fior di salute:
un altro, ch’è pusillo[12], s’immagina d’essere un prode:
uno di forme poco venuste, d’esser bello:
uno senz’arte né parte, gravato d’eterna miseria,
spera d’averne, quando che sia, ricchezza a iosa[13].
Tutti, chi qua, chi là, si danno da fare. Va errando
questi sul mar pescoso, ché nel suo legno[14] deve
portare a casa il lucro: lo sbattono i venti funesti:
pure, egli alla sua vita non ha riguardo alcuno.
Serve per tutto l’anno, scalzando la terra alberata,
un altro, a cui la cura spetta dei curvi aratri.
Un altro che d’Atèna, d’Efesto, maestro dell’arti,
l’opere apprese, il pane con le braccia guadagna.
Un altro, a cui le Muse d’Olimpo largirono[15] il dono,
apprese i modi tutti dell’amabil scienza.
Concesse a un altro il Dio dell’arco[16] il profetico dono,
e il mal da lungi vede che contro un uomo avanzi,
quando lo inviano i Numi; ma quello che vuole il Destino,
nessun augurio[17] può schermir, nessuna offerta.
Chi l’arte di Peòne[18], maestro di farmachi, apprese,
è medico; e pur egli non va mai sul sicuro;
sovente si sviluppa da piccola doglia un gran male,
né veruno[19] curarlo può coi farmachi blandi;
ed uno ch’è gravato da pena d’orribile morbo,
basta su lui la mano porre, ed eccolo sano.
Reca la Parca ai mortali malanni commisti a fortune,
né può l’uomo schivare ciò che mandano i Numi.
In ogni opera a tutti sovrasta pericolo: e niuno
sin da principio sa quale sarà la fine.
(traduzione di Ettore Romagnoli)

Dall’intermezzo costituito dalla tirannide di Pisistrato (561 a.C.) che donò splendore artistico alla città di Atene, si passò alla riforma di Clistene (508 a.C.) che rappresentò solo una forma più popolare  rispetto a quella di Solone.
Il momento della democrazia radicale fu contrassegnato dall'abbattimento dell'areopagocrazia, periodo centrale e di equilibrio politico nella concezione aristotelica. L'avvento di questa forma radicale della democrazia (462/1 a.C.) fu segnato dalle figure di Efialte, promotore della riforma del 462 e di Pericle.
Efialte, sfruttando l’emergere a ruolo politico della classe dei teti che si era emancipata con la partecipazione agli equipaggi navali, i quali avevano dato ad Atene il ruolo di potenza marittima, Efialte ridimensionò ulteriormente i poteri dell’Areopago, l’antica assemblea aristocratica, alla quale furono lasciate solo competenze religiose e giudiziarie.
Efialte fu assassinato pochi mesi dopo, ma la sua caduta portò alla ribalta Pericle, uno stratego della nobilissima famiglia degli Alcmeonidi, il quale fece del rispetto delle istituzioni democratiche una prerogativa della sua politica, fondata su un grande carisma che non volle però mai dotarsi di un potere personale.
Le due principali riforme attribuite a Pericle sono:
·         l’introduzione del misthós, cioè la pratica della retribuzione ai cittadini occupati in incarichi pubblici, cosa che divenne grande collante per la democrazia, pur introducendo elementi destabilizzanti proprio perché dava potere ai meno abbienti, ma spesso anche ai meno istruiti ed ai meno dotati, accusa questa mossagli da molti fra cui Platone.
·         l’attribuzione della cittadinanza ateniese ai soli figli di padre e madre ateniesi, mentre in passato sarebbe bastato essere figli di padre ateniese. Questa norma ebbe conseguenze stabilizzanti sul piano sociale, ma ampliò il divario esistente tra cittadini e non cittadini.

Qui ad Atene noi facciamo così
Da La guerra del Peloponneso di Tucidide
·         Il brano è tratto dal discorso di Pericle in commemorazione dei caduti del primo anno di guerra (431 a.C.), riportato (o ricostruito) da Tucidide nel libro II della Guerra del Peloponneso.
·         Vi si trova una rappresentazione orgogliosa della città che esercita un’egemonia incontrastata nel mondo greco. Pericle ne sottolinea la superiorità sul piano culturale e politico, conferendole i titoli di merito che ne fanno la «maestra» dei greci, e lasciando in ombra i motivi per cui la sua egemonia è diventata pesante e minacciosa per molte pòleis.
·         Il modello politico e formativo qui delineato ha esercitato un fascino straordinario sulla cultura umanistica occidentale. Nonostante si tratti evidentemente di un’idealizzazione, ciò che Pericle dice sul senso della democrazia e sui valori che costituiscono la persona umana ha fatto di Atene un mito che mantiene le sue ragioni.

Abbiamo una costituzione che non emula[20] le leggi dei vicini, perché noi siamo più d’esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia: di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di parità, mentre per quanto riguarda l’amministrazione dello stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere in un determinato campo, non per la provenienza da una classe sociale, ma più che per quello che vale. E per quanto riguarda la povertà, se uno può fare qualcosa di buono alla città, non ne è impedito dall’oscurità del suo rango sociale.
Liberamente noi viviamo nei rapporti con la comunità, e in tutto quanto riguarda il sospetto che sorge dai rapporti reciproci nelle abitudini giornaliere, senza adirarci con il vicino se fa qualcosa secondo il suo piacere e senza infliggerci a vicenda molestie che, sì, non sono dannose, ma pure sono spiacevoli ai nostri occhi.
Senza danneggiarci esercitiamo reciprocamente i rapporti privati e, nella vita pubblica, il rispetto soprattutto ci impedisce di violare le leggi, in obbedienza a chi è nei posti di comando, e alle istituzioni, in particolare a quelle poste a tutela di chi subisce ingiustizia o che, pur essendo non scritte, portano a chi le infrange una vergogna da tutti riconosciuta. […]
Amiamo il bello, ma con semplicità, e ci dedichiamo al sapere, ma senza debolezza; adoperiamo la ricchezza più per la possibilità di agire che essa offre, che per sciocco vanto[21] di discorsi, e la povertà non è vergognosa ad ammettersi per nessuno, mentre lo è assai più il non darsi da fare per liberarsene.
Riuniamo in noi la cura degli affari pubblici insieme con quella degli affari privati e, se anche ci dedichiamo ad altre attività, pure non manca in noi la conoscenza degli interessi pubblici.
Siamo i soli, infatti, a considerare non già ozioso, ma inutile chi non se ne interessa, e noi Ateniesi o giudichiamo o, almeno, pensiamo convenientemente le varie questioni, senza pensare che il discutere sia un danno per l’agire, ma che lo sia piuttosto il non essere informati dalle discussioni prima di entrare in azione. E di certo noi possediamo anche questa qualità in modo differente dagli altri, cioè noi siamo i medesimi e nell’osare e nel ponderare al massimo grado quello che ci accingiamo a fare, mentre negli altri l’ignoranza produce audacia e il calcolo incertezza. È giusto giudicare superiori per forza d’animo coloro che distinguono chiaramente le miserie e i piaceri, ma non per questo si lasciano spaventare dai pericoli.
E anche per quanto riguarda la nobiltà d’animo, noi ci comportiamo in modo opposto a quello della maggioranza: ci procuriamo gli amici non già col ricevere i benefici, ma col farli. Chi ha fatto il favore è un amico più sicuro, perché è disposto con una continua benevolenza verso chi lo riceve a tener vivo in lui il sentimento di gratitudine, mentre chi è debitore, è meno pronto, sapendo che restituisce una nobile azione non per fare un piacere ma per pagare un debito. E siamo i soli a beneficare qualcuno senza timore, non tanto per aver calcolato l’utilità del beneficio, ma per la fiducia che abbiamo negli uomini liberi.
Concludendo, affermo che tutta la città è la scuola della Grecia, e mi sembra che ciascun uomo della nostra gente volga individualmente la propria indipendente personalità a ogni genere di occupazione, e con la più grande versatilità accompagnata da decoro.
E che questo non sia ora un vanto di parole più che una realtà di fatto, lo indica la stessa potenza della città, potenza che ci siamo procurata grazie a questo modo di vivere. Sola tra le città di adesso, infatti, essa affronta la prova in modo superiore alla sua fama, e lei sola al nemico che la assale non dà motivo d’irritazione quando costui considera da chi è vinto, né al suddito, motivo di disprezzo, come se costui non fosse dominato da persone degne.
Noi spieghiamo a tutti la nostra potenza con importanti testimonianze e molte prove, e saremo ammirati dagli uomini di ora e dai posteri senza bisogno delle lodi di un Omero o di un altro, che nei versi può dilettare per il momento presente, mentre la verità sminuisce poi le opinioni concepite sui fatti, ma per aver costretto tutto il mare e la terra a divenire accessibili alla nostra audacia, stabilendo ovunque monumenti eterni delle nostre imprese fortunate o sfortunate.
Per una tale città combattendo, costoro, che nobilmente pretesero di non esserne privati, sono morti, e ognuno dei sopravvissuti è giusto che sia disposto ad affrontare sofferenze per lei.

Comprensione del testo
1) Quali sono le caratteristiche e i vantaggi della democrazia, secondo Pericle?
2) Quali sono i valori che ispirano la condotta di vita di un ateniese?
3) Che cosa rappresenta Atene per i greci?
4) Come si è guadagnata il rispetto dei nemici e dei sudditi, l’amore dei cittadini?
Analisi del testo
1) Ricostruisci l’elogio della democrazia fatto da Pericle, mettendo in evidenza il rapporto tra uguaglianza e merito, il rispetto delle leggi, da un lato, della libertà individuale, dall’altro.
2) Prova a fare un ritratto dell’ateniese secondo i valori guida indicati da Pericle per la formazione e la vita sociale.
3) Spiega come Pericle fornisca una giustificazione indiretta alla guerra che si sta combattendo, sostenendo le ragioni dell’egemonia ateniese.
Contestualizzazione
Svolgi una ricerca per comprendere meglio il contesto del discorso di Pericle, riassumendo, da un lato, la storia della democrazia e delle guerre di Atene, e attingendo, dall’altro, alla storia dell’arte le informazioni sui monumenti che rendono bella la città nel periodo della sua egemonia.

Il dialogo dei Meli
Da La guerra del Peloponneso di Tucidide
·         Estate del 416 a.C. nell’ambito della guerra del Peloponneso (che oppone Atene e Sparta come città egemoni in un gioco di alleanze che investe tutto il mondo greco) a Melo, isoletta delle Cicladi legata a Sparta da vincoli di stirpe, Atene ingiunge formalmente di accettare la propria egemonia pagando un tributo. Melo si trova davanti a un’alternativa: accettare il dominio e salvarsi, o resistere, cosa che avrebbe causato l’assedio, la conquista e la distruzione della città.
·         Il rifiuto dei melii dà luogo a una punizione esemplare, uno degli episodi più tragici della guerra: la distruzione della città, l’uccisione di tutti gli uomini e la deportazione come schiavi di donne e bambini. Lo Tucidide presenta come antefatto il dialogo che gli ateniesi e gli ambasciatori dei melii avrebbero avuto per discutere un accordo. Nel brano, la difesa dei melii del loro diritto alla neutralità si fonda su criteri di giustizia condivisa, che comprendono il riconoscimento reciproco di autonomia tra le pòleis; gli ateniesi oppongono invece ragioni strategiche, ma soprattutto negano il valore di qualunque regola o patto che non tenga conto della disparità di forze.
·        Nella narrazione di Tucidide, l’episodio segnala il prevalere di una logica di guerra nei rapporti tra greci: l’affermazione del diritto del più forte su qualunque criterio di giustizia, equità, accordo.

Poi gli Ateniesi mossero anche contro l'isola di Melo con trenta navi loro, sei di Chio e due di Lesbo: vi erano imbarcati 1200 opliti ateniesi, 300 arcieri a piedi e venti arcieri a cavallo; inoltre circa 1500 opliti forniti dagli alleati e dagli abitanti delle isole. I Meli, che sono coloni spartani, non volevano assoggettarsi, come facevano gli abitanti delle altre isole, al predominio di Atene; ma, dapprima, se ne stavano tranquilli, senza schierarsi né con gli uni né con gli altri; poi, siccome gli Ateniesi ve li costringevano tormentando il loro territorio, erano venuti a guerra aperta.
Or dunque i generali ateniesi Cleomede, figlio di Licomede, e Tisia, figlio di Tisimaco, accampatisi nell'isola con le forze di cui si è parlato, prima di mettere a ferro e a fuoco il paese, mandarono un'ambasceria per intavolare trattative.
I Meli, però, non li condussero davanti al consiglio popolare e li invitarono invece a esporre lo scopo della loro venuta alla presenza dei magistrati e dei maggiorenti.
Allora gli inviati di Atene parlarono così: "Poiché non volete che noi esponiamo le nostre ragioni davanti al popolo, per timore che esso si lasci ingannare una volta che abbia sentito le nostre argomentazioni serrate, persuasive e che non ammettono replica (infatti, è per tale scopo, lo comprendiamo che ci avete condotti davanti a questo ristretto consiglio), voi che qui siete adunati garantitevi una sicurezza ancor maggiore. Non aspettate nemmeno voi di dare una risposta unica e conclusiva; ma vagliate ciò che noi diciamo punto per punto e replicate subito se qualche affermazione vi pare poco opportuna. E, tanto per cominciare, diteci se la nostra proposta incontra il vostro favore.”.
86. I consiglieri dei Meli risposero così: "Sull’opportunità che i vari punti siano vicendevolmente chiariti in tutta tranquillità, non c'è nulla da obiettare sennonché, la guerra ormai è alle porte; non è solo una minaccia e questo, pare, non si accorda con quanto proponete. Noi vediamo, infatti, che siete venuti in veste di giudici di ciò che si dirà e che, alla conclusione, questo colloquio porterà a noi la guerra se com'è naturale, forti del nostro diritto, non cederemo; se invece accetteremo, avremo la schiavitù".
87. Ateniesi: "Se, dunque, siete convenuti per fare sospettose supposizioni riguardo al futuro o per altre ragioni, piuttosto che per esaminare la situazione concreta che avete sotto gli occhi e prendere una decisione che comporta la salvezza della vostra città, possiamo far punto; se, invece, quest'ultimo è lo scopo del convegno, noi siamo pronti a continuare il discorso".
88. Meli: "È naturale, e merita anche scusa, che quando ci si trova in simili frangenti si volgano parole e pensieri in mille parti: tuttavia, questa riunione ha come primo intento la salvezza: e il colloquio si svolga pure, se vi pare; nel modo da voi suggerito".
89. Ateniesi: "Da parte nostra, non faremo ricorso a frasi sonanti; non diremo fino alla noia che è giusta la nostra posizione di predominio perché abbiamo debellato i Persiani e che ora marciamo contro di voi per rintuzzare offese ricevute: discorsi lunghi e che non fanno che suscitare diffidenze. Però riteniamo che nemmeno voi vi dobbiate illudere di convincerci col dire che non vi siete schierati al nostro fianco perché eravate coloni di Sparta e che, infine, non ci avete fatto torto alcuno. Bisogna che da una parte e dall'altra si faccia risolutamente ciò che è nella possibilità di ciascuno e che risulta da un'esatta valutazione della realtà. Poiché voi sapete tanto bene quanto noi che, nei ragionamenti umani, si tiene conto della giustizia quando la necessità incombe con pari forze su ambo le parti; in caso diverso, i più forti esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano".
90. Meli: "Orbene, a nostro giudizio almeno, l'utilità stessa (poiché di utilità si deve parlare, secondo il vostro invito, rinunciando in tal modo alla giustizia) richiede che non distruggiate quello che è un bene di cui tutti possono godere; ma quando qualcuno si trova nel pericolo, non gli sia negato ciò che gli spetta ed è giusto; e anche, per quanto deboli siano le sue ragioni, possa egli trarne qualche vantaggio, convincendone gli avversari. Questa politica sarà soprattutto utile per voi, poiché, in caso di insuccesso, servirete agli altri d'esempio per l'atroce castigo".
91. Ateniesi: "Non siamo preoccupati, anche se il nostro impero dovesse crollare, per la sua fine: poiché, per i vinti, non sono tanto pericolosi i popoli avvezzi al dominio sugli altri, come ad esempio, gli Spartani (d'altra parte, ora, noi non siamo in guerra con Sparta), quanto piuttosto fanno paura i sudditi, se mai, assalendo i loro dominatori, riescano a vincerli. Ma, se è per questo, ci si lasci pure al nostro rischio. Siamo ora qui, e ve lo dimostreremo, per consolidare il nostro impero e avanzeremo proposte atte a salvare la vostra città, poiché noi vogliamo estendere il nostro dominio su di voi senza correre rischi e nello stesso tempo salvarvi dalla rovina, per l'interesse di entrambe le parti".
92. Meli: "E come potremmo avere lo stesso interesse noi a divenire schiavi e voi ad essere padroni?".
93. Ateniesi: "Poiché voi avrete interesse a fare atto di sottomissione prima di subire i più gravi malanni e noi avremo il nostro guadagno a non distruggervi completamente".
94. Meli: "Sicché non accettereste che noi fossimo, in buona pace, amici anziché nemici, conservando intatta la nostra neutralità?".
95. Ateniesi: "No, perché ci danneggia di più la vostra amicizia, che non l'ostilità aperta: quella, infatti, agli occhi dei nostri sudditi, sarebbe prova manifesta di debolezza, mentre il vostro odio sarebbe testimonianza della nostra potenza".
96. Meli: "E i vostri sudditi sono così ciechi nel valutare ciò che è giusto, da porre sullo stesso piano le città che non hanno con voi alcun legame e quelle che, per lo più vostre colonie, e alcune addirittura ribelli, sono state ridotte al dovere?".
97. Ateniesi: "Essi pensano che, tanto agli uni che agli altri, non mancano motivi plausibili per difendere la loro causa; ma ritengono che alcuni siano liberi perché sono forti e noi non li attacchiamo perché abbiamo paura. Sicché, senza contare che il nostro dominio ne risulterà più vasto, la vostra sottomissione ci procurerà maggior sicurezza; tanto più se non si potrà dire che voi, isolani e meno potenti di altri, avete resistito vittoriosamente ai padroni del mare".
98. Meli: "E con l'altra politica, non pensate di provvedere alla vostra sicurezza? Poiché voi, distogliendoci dal fare appello alla giustizia, ci volete indurre a servire alla vostra utilità, bisogna pure che noi, qui, a nostra volta, cerchiamo di persuadervi, dimostrando qual è il nostro interesse e se per caso non venga esso a coincidere anche con il vostro. Or dunque tutti quelli che ora sono neutrali non ve li renderete nemici, quando, osservando questo vostro modo di agire, si faranno la convinzione che un giorno voi andrete anche contro di loro? E in questo modo, che altro farete voi se non accrescere i nemici che già avete e trascinare al loro fianco, pur contro voglia, coloro che fino ad ora non ne avevano avuto nemmeno l'intenzione?".
99. Ateniesi: "No, perché non riteniamo per noi pericolosi quei popoli che abitano sul continente e che, per la libertà che godono, ci vorrà del tempo prima che facciano a noi il viso dell'armi; sono piuttosto gli abitanti delle isole che ci fanno paura; quelli che, qua e là, come voi, non sono sottomessi ad alcuno; e quelli che mal si rassegnano ormai ad una dominazione imposta dalla necessità. Costoro, infatti, molto spesso affidandosi ad inconsulte speranze, possono trascinare se stessi in manifesti pericoli e noi con loro".
100. Meli: "Or dunque, se voi affrontate cosi gravi rischi per non perdere il vostro predominio e quelli che ormai sono vostri schiavi tanti ne affrontano per liberarsi di voi, non sarebbe una grande viltà e vergogna per noi, che siamo ancora liberi, se non tentassimo ogni via per evitare la schiavitù?".
101. Ateniesi: "No; almeno se voi deliberate con prudenza: poiché questa non è una gara di valore tra voi e noi, a condizione di parità, per evitare il disonore; ma si tratta, piuttosto, della vostra salvezza, perché non abbiate ad affrontare avversari che sono di voi molto più potenti".
102. Meli: "Ma sappiamo pure che le vicende della guerra prendono talvolta degli sviluppi più semplici che non lasci prevedere la sproporzione di forze fra le due parti. Ad ogni modo, per noi cedere subito significa dire addio a ogni speranza: se, invece, ci affidiamo all'azione, possiamo ancora sperare che la nostra resistenza abbia successo".
103. Ateniesi: "La speranza, che tanto conforta nel pericolo, a chi le affida solo il superfluo porterà magari danno, ma non completa rovina. Ma quelli che a un tratto di dado affidano tutto ciò che hanno (poiché la speranza è, per natura, prodiga) ne riconoscono la vanità solo quando il disastro è avvenuto; e, scoperto che sia il suo gioco, non resta più alcun mezzo per potersene guardare in futuro. Perciò, voi che non siete forti e avete una sola carta da giocare, non vogliate cadere in questo errore. Non fate anche voi come i più che, mentre potrebbero ancora salvarsi con mezzi umani, abbandonati sotto il peso del male i motivi naturali e concreti di sperare, fondano la loro fiducia su ragioni oscure: predizioni, vaticini, e altre cose del genere, che incoraggiano a sperare, ma poi traggono alla rovina".
104. Meli: "Anche noi (e potete ben crederlo) consideriamo molto difficile cimentarci con la potenza vostra e contro la sorte, se non sarà ad entrambi ugualmente amica. Tuttavia abbiamo ferma fiducia che, per quanto riguarda la fortuna che procede dagli dei, non dovremmo avere la peggio, perché, fedeli alla legge divina, insorgiamo in armi contro l'ingiusto sopruso; quanto all'inferiorità delle nostre forze, ci assisterà l'alleanza di Sparta, che sarà indotta a portarci aiuto, se non altro, per il vincolo dell'origine comune e per il sentimento d'onore. Non è, dunque, al tutto priva di ragione la nostra audacia".
105. Ateniesi: "Se è per la benevolenza degli dèi, neppure noi abbiamo paura di essere da essi trascurati; poiché nulla noi pretendiamo, nulla facciamo che non s'accordi con quello che degli dei pensano gli uomini e che gli uomini stessi pretendono per sé. Gli dèi, infatti, secondo il concetto che ne abbiamo, e gli uomini, come chiaramente si vede, tendono sempre, per necessità di natura, a dominare ovunque prevalgano per forze. Questa legge non l'abbiamo istituita noi, non siamo nemmeno stati i primi ad applicarla; così, come l'abbiamo ricevuta e come la lasceremo ai tempi futuri e per sempre, ce ne serviamo, convinti che anche voi, come gli altri, se aveste la nostra potenza, fareste altrettanto. Da parte degli dèi, dunque, com'è naturale, non temiamo di essere in posizione di inferiorità rispetto a voi. Per quel che riguarda l'opinione che avete degli Spartani, e sulla quale basate la vostra fiducia che essi accorreranno in vostro aiuto per non tradire l'onore, noi vi complimentiamo per la vostra ingenuità, ma non possiamo invidiare la vostra stoltezza. Gli Spartani, infatti, quando si tratta di propri interessi e delle patrie istituzioni, sono più che mai seguaci della virtù; ma sui loro rapporti con gli altri popoli, molto ci sarebbe da dire: per riassumere in breve, si può con molta verità dichiarare che essi, più sfacciatamente di tutti i popoli che conosciamo, considerano virtù ciò che piace a loro e giustizia ciò che loro è utile: un tal modo di pensare, dunque, non si accorda con la vostra stolta speranza di salvezza.
106. Meli: Anzi, è proprio questa la ragione che ci infonde la massima fiducia in quello che è un effettivo interesse loro: non vorranno essi, tradendo i Meli che sono loro coloni, suscitare il sospetto fra i Greci amici e favorire in tal modo i loro nemici".
107. Ateniesi: "Voi, dunque, non siete convinti che l'interesse di un popolo s’identifichi con la sua sicurezza, mentre giustizia e onestà si servono a rischio di pericoli: e questo è un coraggio che, di solito, gli Spartani assolutamente non dimostrano".
108. Meli: "Eppure noi siamo sicuri che, per la causa nostra, essi affronteranno più volentieri anche i pericoli e meno gravi li giudicheranno in confronto agli altri; perché, come campo di azione, siamo vicini al Peloponneso e, per disposizione d'animo, data la comune origine, diamo una garanzia di fedeltà maggiore degli altri". 109. Ateniesi: "Non è tanto la simpatia di coloro che invocano l'aiuto che garantisce la sicurezza di chi si accinge a portarlo, quanto, piuttosto, la superiorità effettiva delle loro forze: a questo gli Spartani badano anche più degli altri (non si fidano, si vede, della propria potenza e, per marciare contro i vicini, hanno bisogno dell'appoggio di molti alleati); sicché non c’è da pensare che essi facciano uno sbarco in un'isola, quando siamo noi i padroni del mare".
110. Meli: "Potrebbero, però, incaricare altri dell'impresa: è vasto il mare di Creta, e sarà meno facile ai padroni del mare intercettare i convogli nemici, che a questi mettersi in salvo se vogliono non farsi scorgere. E se anche qui dovessero fallire, potrebbero volgersi contro il vostro paese e contro quello dei vostri alleati che non sono stati attaccati da Brasida[22]; e così voi dovreste combattere non tanto per un paese estraneo, quanto per difendere i vostri alleati e il vostro stesso paese".
111. Ateniesi: "In tal caso non si tratterebbe di un’esperienza nuova, nemmeno per voi, che ben sapete come gli Ateniesi non si siano mai ritirati da alcun assedio, per paura d'altri. Osserviamo, invece, che, mentre dicevate di voler deliberare per la vostra salvezza, nulla in così lungo colloquio avete ancora detto, che possa giustificare in un popolo la fiducia e la certezza che esso sarà salvato dalla rovina: la vostra massima sicurezza è affidata a speranze che si volgono al futuro; le forze di cui al momento disponete non sono sufficienti a garantirvi la vittoria su quelle che, già ora, vi sono contrapposte. Darete, quindi, prova di grande stoltezza di mente, se anche dopo che ci avrete congedato, non prenderete qualche altra decisione che sia più saggia di queste. Poiché non dovrete lasciarvi fuorviare dal punto d'onore che tanto spesso porta gli uomini alla rovina tra pericoli inevitabili e senza gloria. Molti, infatti, che pur vedevano ancor chiaramente a quale sorte correvano, furono attirati da quello che noi chiamiamo sentimento d'onore, dalla suggestione di un nome pieno di lusinghe; sicché, soggiogati da quella parola, in effetto piombarono ad occhi aperti in mali senza rimedio, attirandosi un disonore più grave di quello che volevano fuggire, perché frutto della loro stoltezza, non imposto dalla sorte. Da questo errore voi vi guarderete, se intendete prendere una buona decisione; e converrete che non ha nulla di infamante il riconoscere la superiorità della città più potente di Grecia, che ha propositi di moderazione; diventarne alleati e tributari, conservando la sovranità nel vostro paese. Dato che vi si offre la scelta tra la guerra e la vostra sicurezza, non ostinatevi nel partito peggiore: il massimo successo arriderà sempre a quelli che s’impongono a chi ha forze uguali, mentre con i più forti si comportano onorevolmente e quelli più deboli trattano con moderazione e giustizia. Riflettete, dunque, anche quando noi ci ritireremo; ripetetevi spesso che è per la patria vostra che deliberate; che la patria è una sola, e la sua sorte da una sola deliberazione sarà decisa, di salvezza o di rovina".
112. Gli Ateniesi si ritirarono dalla sala del convegno; e i Meli, restati soli, costatato che il loro punto di vista rimaneva presso a poco quale l'avevano esposto, formularono questa risposta: "Noi, o Ateniesi, non la pensiamo diversamente da prima; né mai ci indurremo a privare della sua libertà, in pochi momenti, una città che ha già 700 anni di vita, ma, fidando nella buona sorte che fino ad oggi, con l'aiuto degli dei, l’ha salvata e nell'appoggio degli uomini, specie di Sparta, faremo di tutto per conservarla. Vi proponiamo la nostra amicizia e neutralità, a patto che vi ritiriate dal nostro paese, dopo aver concluso degli accordi che diano garanzia di tutelare gli interessi di entrambe le parti".
113. Tale fu la risposta dei Meli; e gli Ateniesi, mettendo fine ormai al colloquio, dissero: "A quanto pare, dunque, da queste decisioni, voi siete i soli a considerare i beni futuri come più evidenti di quelli che avete davanti agli occhi; mentre con il desiderio voi vedete già tradotto in realtà ciò che ancora è incerto e oscuro. Orbene, poiché vi siete affidati agli Spartani, alla fortuna e alla speranza, e in essi avete riposto la fiducia più completa, altrettanto completa sarà pure la vostra rovina".
114. Gli inviati di Atene se ne tornarono, quindi, all'accampamento; e i generali allora, vedendo che i Meli non volevano sentir ragione, subito si accinsero ad atti di guerra, e, ripartitisi per città i vari settori, costruirono un muro tutto intorno ai nemici. Poi gli Ateniesi lasciarono in terra e sul mare un presidio formato di soldati loro e alleati; quindi, con la maggior parte delle truppe si ritirarono. La guarigione rimasta sul posto continuò l'assedio.
115. Nello stesso periodo, gli Argivi fecero irruzione nel territorio di Fliunte[23]; ma, sorpresi in un'imboscata dai Fliasii, che erano rinforzati dagli esuli di Argo, lasciarono sul terreno circa ottanta uomini. Gli Ateniesi, rientrati da Pilo, avevano portato un ricco bottino degli Spartani; questi, però, anche così rifiutarono di rompere la tregua e far guerra aperta; tuttavia fecero proclamare per mezzo di araldi che autorizzavano chiunque volesse dei loro a depredare gli Ateniesi; i Corinzi per delle divergenze particolari dichiararono guerra ad Atene: tutto il resto del Peloponneso se ne stava tranquillo. Una notte i Meli attaccarono quella parte del muro degli Ateniesi che guardava la piazza del mercato e l'espugnarono: uccisero alcuni difensori, introdussero in città viveri e tutto quanto poterono trovare di generi utili, quindi si ritirarono e stettero all'erta. Gli Ateniesi, in seguito, provvidero a migliorare il servizio di guardia. Intanto anche l'estate volgeva al termine.
116. Nell'inverno seguente gli Spartani fecero i preparativi per un’irruzione nell'Argolide; ma, siccome i sacrifici fatti sui confini per il successo della spedizione non erano stati favorevoli, si ritirarono. Gli Argivi allora, in seguito a questo tentativo, sospettarono di complicità alcuni dei loro concittadini: qualcuno fu arrestato, qualche altro si diede alla fuga. Nella stessa epoca, i Meli con un nuovo assalto espugnarono un'altra parte del muro ateniese, approfittando che le guardie non erano numerose. Ma più tardi, siccome questi tentativi si ripetevano, venne da Atene una seconda spedizione, al comando di Filocrate, figlio di Demeo; sicché, stretti ormai da un assedio molto rigoroso, ed essendosi anche presentato il tradimento, i Meli si arresero senza condizioni agli Ateniesi. Questi passarono per le armi tutti gli adulti caduti nelle loro mani e resero schiavi i ragazzi e le donne: quindi occuparono essi stessi l'isola e più tardi vi mandarono 500 coloni.

Comprensione del testo
1.       Con quali argomentazioni gli ateniesi chiedono ai melii di sottomettersi?
2.       Quali argomenti invocano i melii a difesa della loro autonomia? Elencali, annotando quando lo fanno in nome del giusto o dell’utile.
3.       Come giustificano i melii la decisione di non arrendersi?
4.       Come rifiutano gli ateniesi l’accusa di mettersi contro la divinità e la giustizia?
5.       Ricostruisci l’analisi strategica degli ateniesi che giustifica l’esigenza di ottenere sottomissione e non amicizia dai melii.
6.       Spiega quali valori, secondo i melii, andrebbero completamente persi se si accettasse la logica del dominio e della sottomissione.
7.       Il dialogo rivela un’irriducibile divergenza tra gli ateniesi e i melii. Pensi che ciò sia frutto della differente posizione nei rapporti di potere o di una diversità di principi?
Analisi del testo
1.       La forza giustifica il dominio?
2.       Che cosa dà il diritto ad una popolazione di dominare altre popolazioni, se a trarne vantaggio sono soprattutto, se non solamente, i dominatori?
3.       Qual è l’inquietante risposta di Tucidide.
4.       Quali sono i punti salienti del dialogo e quali sono le argomentazioni?
5.       Vale la legge del più forte?
Approfondimenti
1.       Ragioni strategiche e principi di giustizia sono spesso in conflitto nella politica internazionale. Con l’aiuto dell’insegnante, puoi svolgere una ricerca sull’argomento dei diritti umani, a partire dall’articolo 11 della Costituzione italiana.

Mat 1 Il testo argomentativo
Il testo argomentativo è un testo in cui l'autore esprime le proprie opinioni o tesi su un determinato problema.
Questo tipo di testo serve a convincere il destinatario che il proprio punto di vista è corretto. I testi argomentativi sono, le prediche in chiesa, i discorsi politici, i discorsi degli avvocati, gli articoli culturali o di fondo, i saggi, i testi pubblicitari, le recensioni di un avvenimento artistico e culturale, un tema scolastico su un problema di attualità.
Per scrivere un testo argomentativo si usano delle argomentazioni cioè dei ragionamenti per dimostrare che la tesi può essere condivisa.
Il testo argomentativo è formato dai seguenti elementi:
• Un problema da discutere
• La tesi in cui l'autore esprime la propria idea.
• Uno o più argomenti per convincere il destinatario e eventualmente demolire le ipotesi contrarie (antitesi) attraverso dei ragionamenti logici.
• Nelle argomentazioni si può far riferimento a persone autorevoli (Il premio Nobel Rita Levi Montalcini ha dichiarato…), enti o Istituti (Il WWF ha confermato…; secondo le ricerche statistiche dell'ISTAT…) per dare più forza alle proprie opinioni sul problema trattato.
Di solito il lessico è semplice e comprensibile, tranne quando il testo argomentativo è destinato a riviste scientifiche o testi specialistici.
L'emittente può presentare la tesi in due modi:
• esplicitamente (Secondo me, il buco nell'ozono è dovuto all'effetto serra);
• affermando semplicemente (Il buco nell'ozono è dovuto all'effetto serra).
Il discorso alterna coordinate e subordinate. Si usano spesso degli avverbi, delle congiunzioni e delle locuzioni per collegare le frasi e le parti delle argomentazioni:
• legami di causa-conseguenza (quindi, perciò, dal momento che, pertanto, di conseguenza);
• con valore dimostrativo (in realtà, in effetti, insomma, in conclusione);
• con valore avversativo (ma, nonostante, tuttavia, mentre, invece);
• con valore additivo (anche, allo stesso modo, ancora, inoltre, infine).

Dopo Pericle iniziò il declino, che sfociò nel IV secolo in una crisi delle istituzioni democratiche.
Le avvisaglie c’erano già state prima, quando il partito oligarchico aveva denunciato la pericolosità di un sistema che coinvolgesse tutti, anche i meno dotati. Ci furono episodi di instabilità politica che ebbero ripercussioni sul piano militare, che a loro volta portarono a ripetuti tentativi di restaurazione oligarchica, compreso quello ben riuscito imposto da Sparta nel 404 con il regime dei Trenta tiranni.
I successivi tentativi di restaurazione democratica non poterono poi fare a meno di agire sul diritto di cittadinanza, ripristinando in merito la legge di Pericle, così come dal 403 a.C. dovette essere introdotta la procedura legislativa della nomothesía, cioè la differenziazione tra le leggi (nómoi), approvate dalla commissione dei nomoteti, ed i decreti approvati invece dal démos, ai quali fu attribuito un peso minore e sui quali si cercò di convogliare le questioni meno importanti, proprio per evitare i pericoli della volubilità popolare.
Altro elemento di degradazione democratica fu l’estensione della pratica del misthòs, la retribuzione per le cariche pubbliche, per bloccare l’assenteismo ed evitare la paralisi.
Circa mezzo secolo più tardi (nel 411 a.C.) si arrivò al secondo grande trauma della democrazia, di segno opposto al precedente: il governo dei Quattrocento, favorito dai sostenitori della pátrios politeía, una posizione moderata e centrista che proponeva l'accostamento Clistene/Solone, tipico di una concezione politica che voleva salvare i tratti più moderati e conservatori della costituzione democratica. In forme assai più aspre si presentò il colpo di Stato dei Trenta tiranni, che da un lato ripeté, dall'altro aggravò, in senso negativo, l'esperienza dei Quattrocento.
La teoria costituzionale della democrazia ateniese è molto semplice: il popolo è sovrano (kurios). Sieda nell’Assemblea o nei tribunali, è il sovrano assoluto di tutto ciò che concerne la città e i cittadini sono liberi e uguali sotto l’egida della legge.
La riflessione filosofica del V-IV secolo a.C. fu però generalmente ostile alla democrazia.
Quando la filosofia, con Socrate, Platone e, sia pure in misura meno radicale, con Aristotele, iniziò a riflettere sistematicamente sui fondamenti della democrazia, assunse un atteggiamento critico e polemico.
Non mancarono tuttavia, soprattutto in ambiente sofistico, tentativi di legittimare teoreticamente la prassi democratica. Il più interessante di questi tentativi fu compiuto da Protagora di Abdera, uno degli intellettuali più prestigiosi e celebri, attivi ad Atene nella seconda metà del V secolo.


Protagora racconta il mito di Prometeo
Dal Protagora[24] (320-323) di Platone[25]
·         Nel Protagora Platone fa esporre al sofista il mito sull'origine della civiltà.
·         In base al racconto di Protagora nella distribuzione originaria delle capacità, che Zeus affidò al poco previdente Epimeteo, gli uomini restarono privi di dotazioni naturali, cioè senza forza, velocità, robustezza, ecc., e di conseguenza non erano in grado di sopravvivere di fronte alla soverchiante forza degli altri esseri viventi. Per supplire a questa carenza, Prometeo donò agli uomini la sapienza tecnica, cioè la competenza artigianale (demiourgikè techne) sotto forma di fuoco.
·         Per Protagora, tuttavia, il possesso di una competenza tecnico-artigianale non è ancora sufficiente a garantire la sopravvivenza, perché gli uomini sono naturalmente portati a sopraffarsi a vicenda e, sulla base della sola dotazione tecnica, non risultano orientati ad associarsi tra loro e a dare vita a forme di collaborazione e a nuclei associativi.
·         Per questa ragione intervenne direttamente Zeus, donando la tecnica politica (politikè techne), la quale si costituisce di due principi: il rispetto (aidòs), cioè una forma di riconoscimento reciproco, e il senso di giustizia (dike).
·         A differenza delle dotazioni naturali e delle singole competenze artigianali, la tecnica politica fu distribuita a tutti gli uomini, i quali risultano così legittimati ad assumere le decisioni che riguardano la vita della comunità.
·         Il mito di Protagora viene considerato il ‘manifesto’ dell'ideologia democratica perché in esso trova giustificazione una certa forma di uguaglianza tra gli uomini, i quali sono tutti, almeno potenzialmente, in possesso della virtù politica, cioè sia di una dotazione minima di competenze utili a governare la città, sia di un'autonomia decisionale, che rinvia a una soggettività autonoma e trasparente. In altre parole, Protagora sembra fondare la tesi fondamentale dell'ideologia democratica, che stabilisce che i membri di un gruppo chiamati a discutere, a deliberare e a istituire norme valide per tutti, sono liberi e consapevoli, cioè perfettamente in grado di stipulare un patto negoziale.

Ci fu un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali. Quando giunse anche per queste il momento fatale della nascita, gli dei le plasmarono nel cuore della terra, mescolando terra, fuoco e tutto ciò che si amalgama con terra e fuoco. Quando le stirpi mortali stavano per nascere, gli dei ordinarono a Prometeo e a Epimeteo[26] di dare con misura e distribuire in modo opportuno a ciascuno le facoltà naturali.
Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione: "Dopo che avrò distribuito - disse - tu controllerai".
Così, persuaso Prometeo, iniziò a distribuire. Nella distribuzione, ad alcuni dava forza senza velocità, mentre donava velocità ai più deboli; alcuni forniva di armi, mentre per altri, privi di difese naturali, escogitava diversi espedienti per la sopravvivenza.
Ad esempio, agli esseri di piccole dimensioni forniva una possibilità di fuga attraverso il volo o una dimora sotterranea; a quelli di grandi dimensioni, invece, assegnava proprio la grandezza come mezzo di salvezza. Secondo questo stesso criterio distribuiva tutto il resto, con equilibrio. Escogitava mezzi di salvezza in modo tale che nessuna specie potesse estinguersi. Procurò agli esseri viventi possibilità di fuga dalle reciproche minacce e poi escogitò per loro facili espedienti contro le intemperie stagionali che provengono da Zeus. Li avvolse, infatti, di folti peli e di dure pelli, per difenderli dal freddo e dal caldo eccessivo. Peli e pelli costituivano inoltre una naturale coperta per ciascuno, al momento di andare a dormire. Sotto i piedi di alcuni mise poi zoccoli, sotto altri unghie e pelli dure e prive di sangue.
In seguito procurò agli animali vari tipi di nutrimento, per alcuni erba, per altri frutti degli alberi, per altri radici. Alcuni fece in modo che si nutrissero di altri animali: concesse loro, però, scarsa prolificità, che diede invece in abbondanza alle loro prede, offrendo così un mezzo di sopravvivenza alla specie.
Ma Epimeteo non si rivelò bravo fino in fondo: senza accorgersene aveva consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione. Il genere umano era rimasto dunque senza mezzi, e lui non sapeva cosa fare.
In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi. Intanto era giunto il giorno fatale, in cui anche l’uomo doveva nascere.
Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco - infatti, era impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco - e li donò all’uomo. All’uomo fu concessa in tal modo la perizia tecnica necessaria per la vita, ma non la virtù politica. Questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era più possibile accedere all’Acropoli, la dimora di Zeus, protetta da temibili guardie.
Entrò allora di nascosto nella casa comune di Atena ed Efesto, dove i due lavoravano insieme. Rubò quindi la scienza del fuoco di Efesto e la perizia tecnica di Atena e le donò all’uomo. Da questo dono derivò all’uomo abbondanza di risorse per la vita, ma, come si narra, in seguito la pena del furto colpì Prometeo, per colpa di Epimeteo.
Quando l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la parentela con gli dei, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in loro, e innalzò altari e statue di dei. Poi subito, attraverso la tecnica, articolò la voce con parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e l’agricoltura.
Con questi mezzi in origine gli uomini vivevano sparsi qua e là, non c’erano città; perciò erano preda di animali selvatici, essendo in tutto più deboli di loro. La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve (infatti, gli uomini non possedevano ancora l’arte politica, che comprende anche quella bellica).
Cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano.
Zeus dunque, temendo che la nostra specie si estinguesse del tutto, inviò Ermes per portare agli uomini rispetto e giustizia, affinché fossero fondamenti dell’ordine delle città e vincoli d’amicizia.
Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire rispetto e giustizia agli uomini: «Devo distribuirli come sono state distribuite le arti? Per queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a tutti gli uomini?»
«A tutti - rispose Zeus - e tutti ne siano partecipi; infatti, non esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come succede per le arti. Istituisci inoltre a nome mio una legge in base alla quale si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e giustizia».
Per questo motivo, Socrate, gli Ateniesi e tutti gli altri, quando si discute di architettura o di qualche altra attività artigianale, ritengono che spetti a pochi la facoltà di dare pareri e non tollerano, come tu dici - naturalmente, dico io - se qualche profano vuole intromettersi. Quando invece deliberano sulla virtù politica - che deve basarsi tutta su giustizia e saggezza - ascoltano il parere di chiunque, convinti che tutti siano partecipi di questa virtù, altrimenti non ci sarebbero città.
Questa è la spiegazione, Socrate. Ti dimostro che non ti sto ingannando: eccoti un’ulteriore prova di come in realtà gli uomini ritengano che la giustizia e gli altri aspetti della virtù politica spettino a tutti. Si tratta di questo. Riguardo alle altre arti, come tu dici, se qualcuno afferma di essere un buon auleta o esperto in qualcos'altro e poi dimostri di non esserlo, viene deriso e disprezzato; i familiari, accostandosi a lui, lo rimproverano come se fosse pazzo. Riguardo alla giustizia, invece, e agli altri aspetti della virtù politica, quand’anche si sappia che qualcuno è ingiusto, se costui spontaneamente, a suo danno, lo ammette pubblicamente, ciò che nell’altra situazione ritenevano fosse saggezza - dire la verità - in questo caso la considerano una follia: dicono che è necessario che tutti diano l’impressione di essere giusti, che lo siano o no, e che è pazzo chi non finge di essere giusto. Secondo loro è inevitabile che ognuno in qualche modo sia partecipe della giustizia, oppure non appartiene al genere umano. Dunque gli uomini accettano che chiunque deliberi riguardo alla virtù politica, poiché ritengono che ognuno ne sia partecipe.
Ora tenterò di dimostrarti che essi pensano che questa virtù non derivi né dalla natura né dal caso, ma che sia frutto di insegnamento e di impegno in colui nel quale sia presente. Nessuno disprezza né rimprovera né ammaestra né punisce, affinché cambino, coloro che hanno difetti che, secondo gli uomini, derivano dalla natura o dal caso. Tutti provano compassione verso queste persone: chi è così folle da voler punire persone brutte, piccole, deboli? Infatti, io credo, si sa che le caratteristiche degli uomini derivano dalla natura o dal caso, sia le buone qualità, sia i vizi contrari a queste. Se invece qualcuno non possiede quelle qualità che si sviluppano negli uomini con lo studio, l’esercizio, l’insegnamento, mentre ha i vizi opposti, è biasimato, punito, rimproverato.

MAT 2 I miti in Platone
Gli studiosi hanno individuato le risonanze ed i legami tra i poemi mitici ed i primi filosofi, i presocratici, che scrivono anch’essi poemi, di cui abbiamo solo frammenti, intitolati "Περί φύσεος" (sulla natura). Ma con Platone ci troviamo ad una situazione paradossale: egli rifiuta la poesia ed il mito, fonti di pura fantasia e di falsità, ma che nei suoi dialoghi ricorre a spunti poetici e soprattutto a miti (gli studiosi ne hanno conteggiati ventitré).
Dunque per un verso Platone rappresenta il passaggio definitivo dal μύθος, racconto favolistico, al trionfo del pensiero razionale, al λόγος e sembra con le sue affermazioni dar ragione allo schema dal mito al logos razionale. Ma poi qualcosa non funziona, questo schema che egli stesso presenta non corrisponde del tutto a quello che troviamo poi nei suoi dialoghi.
In effetti, pur attaccando il valore conoscitivo dei miti, poi li dissemina nella sua intera opera di conoscenza. Ma allora i miti non sono del tutto estranei a questa finalità conoscitiva. Non c’è quella frattura totale tra mito e pensiero razionale. I miti in realtà hanno funzioni diverse nei differenti dialoghi platonici. Essi sono di volta in volta: 
1.      un semplice espediente didattico-espositivo di cui Platone fa uso per comunicare in maniera più accessibile e intuitiva le sue dottrine.
2.      Un mezzo per superare quei limiti oltre i quali l'indagine razionale non può andare, diventando un vero e proprio strumento di verità, una "via alternativa" al solo pensiero filosofico, grazie alla sua capacità di armonizzare unitariamente gli argomenti.
3.      Un momento in cui Platone esprime la bellezza della verità filosofica, in cui questa si manifesta anche con immagini e figure sensibili, e di fronte alla quale i discorsi razionali sono insufficienti Platone ha un atteggiamento diverso nei confronti del mito, che ritiene vada rivalutato perché utile, e anzi necessario, alla comprensione.
Il mito va inteso come esposizione di un pensiero ancora nella forma di racconto, quindi non come ragionamento puro e rigoroso. Esso ha una funzione allegorica e didascalica, presenta cioè una serie di concetti attraverso immagini che facilitano il significato di un discorso piuttosto complesso, cercando di renderne comprensibili i problemi, e creando nel lettore una nuova tensione intellettuale, un atteggiamento positivo nei confronti dello sviluppo della riflessione.

La degenerazione deriva dalla democrazia
da La Repubblica[27] di Platone.
·         La parola demokratia è in sé stessa una parola di rottura, in quanto esprime la prevalenza di una parte e non, invece, la partecipazione di tutti coloro che sono dotati di cittadinanza alla gestione della politeia.
·         Tra le definizioni teoriche della democrazia antica vale la pena di prendere in considerazione quella di Platone, secondo la quale la democrazia nasce dalla violenza popolare, che induce il demos, dopo la vittoria politica, a infierire penalmente (con l'esilio) e per via di fatto sui ricchi.
·         Lo stesso ostracismo, che nasce per prevenire tentativi di accentramento del potere da parte di individui dotati di eccessivo prestigio politico, può essere pensato come una forma di repressione basata sul sospetto, sull'illazione o sull'inganno da parte di una parte politica che alimenta la "cattiva stampa" di cui gode l'avversario più in vista; queste osservazioni, tra l'altro, non perdono di significato anche qualora si consideri l'ostracismo o qualsiasi altra forma di controllo poliziesco come un prodotto inevitabile della vita in una comunità ristretta, in cui ciascun membro ha l'effettiva possibilità di avere quotidianamente dei contatti significativi coi concittadini. 

Quando la città retta a democrazia si ubriaca di libertà, confondendola con la licenza[28], con l’aiuto di cattivi coppieri costretti a comprarsi l’immunità[29] con dosi sempre massicce d’indulgenza verso ogni sorta di illegalità e di soperchieria; quando questa città si copre di fango, accettando di farsi serva di uomini di fango, per continuare a vivere e ad ingrassare nel fango; quando il padre si abbassa al livello del figlio e si mette, bamboleggiando, a copiarlo perché ha paura del figlio; quando il figlio si mette alla pari del padre e, lungi da rispettarlo, impara a disprezzarlo per la sua pavidità; quando il cittadino accetta che, di dovunque venga, chiunque gli capiti in casa, possa acquistarvi gli stessi diritti di chi l’ha costruita e ci è nato; quando i capi tollerano tutto questo per guadagnare voti e consensi in nome di una libertà che divora e corrompe ogni regola ed ordine; c’è da meravigliarsi che l’arbitrio si estenda a tutto e che dappertutto nasca l’anarchia e penetri nelle dimore private e perfino nelle stalle?
In un ambiente siffatto, in cui il maestro teme ed adula gli scolari e gli scolari non tengono in alcun conto i maestri; in cui tutto si mescola e si confonde; in cui chi comanda finge, per comandare sempre di più, di mettersi al servizio di chi è comandato e ne lusinga, per sfruttarli, tutti i vizi; in cui i rapporti tra gli uni e gli altri sono regolati soltanto dalle reciproche convenienze nelle reciproche tolleranze; in cui la demagogia dell’uguaglianza rende impraticabile qualsiasi selezione, ed anzi costringe tutti a misurare il passo delle gambe su chi le ha più corte; in cui l’unico rimedio contro il favoritismo consiste nella molteplicità e moltiplicazione dei favori; in cui tutto è concesso a tutti in modo che tutti ne diventino complici; in un ambiente siffatto, quando raggiunge il culmine dell’anarchia e nessuno è più sicuro di nulla e nessuno è più padrone di qualcosa perché tutti lo sono, anche del suo letto e della sua madia[30] a parità di diritti con lui e i rifiuti si ammonticchiano per le strade, perché nessuno può comandare a nessuno di sgombrarli; in un ambiente siffatto, dico, pensi tu che il cittadino accorrerebbe a difendere la libertà, quella libertà, dal pericolo dell’autoritarismo?
Ecco, secondo me, come nascono le dittature. Esse hanno due madri.
Una è l’oligarchia quando degenera, per le sue lotte interne, in satrapia. L’altra è la democrazia quando, per sete di libertà e per l’inettitudine dei suoi capi, precipita nella corruzione e nella paralisi.
Allora la gente si separa da coloro cui fa la colpa di averla condotta a tale disastro e si prepara a rinnegarla prima coi sarcasmi, poi con la violenza che della dittatura è pronuba e levatrice.
Così la democrazia muore: per abuso di se stessa.
E prima che nel sangue, nel ridicolo.

I limiti della democrazia
Dalla Politica (VI, 2) di Aristotele 
·         Nel II libro della Politica Aristotele fa la famosa distinzione tra le forme "buone" di governo dello Stato (monarchia, aristocrazia e politeia) e le tre forme degenerate (tirannia, oligarchia e democrazia). Ciò che Aristotele definiva politeia è quella che oggi noi chiameremmo democrazia mentre quella che egli chiama democrazia (degenerazione della politeia) è quella che oggi chiameremmo demagogia (nella prima governa il démos, il popolo, nella seconda il potere è dell'oklos, la folla, la plebaglia guidata dal primo capopopolo di turno. Per Aristotele la migliore forma di governo è proprio la politeia quindi quella aristotelica è più una democrazia "aristocratica".
·         Secondo Aristotele l'aspetto caratterizzante della democrazia è che in essa il criterio del numero prevale su quello del giusto: i poveri perciò prevalgono sui ricchi. Il fatto che poi, com’è tipico della democrazia ateniese, le magistrature siano sorteggiate, va a discapito della competenza.

Base della costituzione democratica è la libertà (così si è soliti dire, quasi che in questa sola costituzione gli uomini partecipino di libertà, perché è questo, dicono, il fine di ogni democrazia).
Una prova della libertà consiste nell'essere governati e nel governare a turno: in realtà, il giusto, in senso democratico, consiste nell'avere uguaglianza in rapporto al numero e non al merito, ed essendo questo il concetto di giusto, di necessità la massa è sovrana e quel che i più decidono ha valore di fine ed è questo il giusto: in effetti dicono che ogni cittadino deve avere parti uguali. Di conseguenza succede che nelle democrazie i poveri siano più potenti dei ricchi perché sono di più e la decisione della maggioranza è sovrana.
E questo, dunque, un segno della libertà che tutti i fautori della democrazia stabiliscono come nota distintiva della costituzione.
Un altro è di vivere ciascuno come vuole, perché questo, dicono, è opera della libertà, in quanto che è proprio di chi è schiavo vivere non come vuole. Ecco quindi la seconda nota distintiva della democrazia; di qui è venuta la pretesa di essere preferibilmente sotto nessun governo o, se no, di governare e di essere governati a turno: per questa via contribuisce alla libertà fondata sull'uguaglianza.
Posti questi fondamenti e tale essendo la natura del governo democratico, le seguenti istituzioni sono democratiche: i magistrati li eleggono tutti tra tutti; tutti comandano su ciascuno e ciascuno a turno su tutti: le magistrature sono sorteggiate o tutte o quante non richiedono esperienza e abilità; le magistrature non dipendono da censo alcuno o minimo; lo stesso individuo non può coprire due volte nessuna carica o raramente o poche, a eccezione di quelle militari[31]; le cariche sono di breve durata o tutte o quante è possibile; le funzioni di giudice sono esercitate da tutti.



[1] Gruppo sociale intermedio tra la famiglia in senso ampio e la tribù, il cui carattere fondamentale è dato dall’esogamia, e l’appartenenza al quale si acquista per discendenza paterna o materna; i membri del clan si considerano discendenti da un comune progenitore che ha per lo più carattere mitico, e di conseguenza seguono regole di comportamento sociale simili a quelle in uso fra consanguinei.
[2] La tribù indicava un raggruppamento sociale di carattere antropologico che più tardi ebbe un carattere politico.
[3] Fusione di dottrine di origine diversa, sia nella sfera delle credenze religiose sia in quella delle concezioni filosofiche.

[4] Solone di Atene fu un grande legislatore, che credeva in quello che faceva, e ciò che c’è giunto sotto il suo nome c’è giunto testimonia della sua volontà di trasmettere ai suoi concittadini le sue idee e la saggezza acquisita nella sua attività politica, l'ispirazione morale delle sue riforme.

Solone nacque ad Atene nel 640 da una famiglia aristocratica. Si era già segnalato come poeta con una celebre elegia per la conquista di Salamina intorno al 600, quando fu nominato arconte con poteri straordinari nel 594: gli aristocratici al potere ebbero la paura di perdere il potere per cui nominarono lui. Solone respinse la richiesta popolare di una ridistribuzione delle terre, ma sancì retroattivamente l'abolizione delle ipoteche sui terreni dei contadini e decretò l'illegalità della schiavitù per debiti. I suoi provvedimenti (legge sull'eredità, riforma monetaria, legge sulla tutela statale degli orfani ecc.) fornirono la base costituzionale alla repubblica ateniese.

La sua opera poetica è il primo documento letterario di Atene. Restano frammenti di elegie politiche e morali (intera c’è giunta la cosiddetta Elegia alle Muse, una specie di repertorio delle sue idee).
Solone è poeta della giustizia: su questa divinità fonda il benessere e la pace sociale della città; basa la convivenza sulla legge. Le sue idee, familiari fin dall'infanzia a tutti gli ateniesi, furono alla base della grandezza civile di Atene.
[5] Nella mitologia greca, Mnemosine (dea della memoria) è figlia di Gea, dea della terra, e di Urano, il cielo stellato.
Il mito vuole che all’inizio fosse solo il caos, una massa enorme e confusa che comprendeva in sé tutti gli elementi, senza ordine né distinzione. Dal Caos nacque, un giorno, Gea, la Terra ed essa generò l’Erebo (la notte), l’Etere (il giorno), Urano (il cielo stellato), l’Oceano e i Monti.
Unendosi poi con Urano, Gea creò a Mnemosine, dea della Memoria, di cui si invaghì Zeus.
Il re dell’Olimpo s’intrattenne con Mnemosine per nove notti, generandone le nove Muse, protettrici delle arti. Attribuire carattere divino alla figurazione astratta della memoria distingue la concezione greca di memoria da quella di altre civiltà antiche. La presenza di un Dio a sovrintendere alla memoria, significa ed implica la consapevolezza della funzione fondamentale del ricordare come fattore di cultura e garanzia della storia dell’uomo che è posta sotto il volere della divinità.
[6] lett. Della Pieria, regione della Grecia, o del monte Pierio, sacro ad Apollo e alle Muse
[7] innumerevoli
[8] farro
[9] lett. Castigo, pena || pagare il fio, subire la giusta punizione
[10] Lamento provocato da sofferenza
[11] Illudiamo da lusingarsi
[12] servo
[13] In abbondanza
[14] Nave || per sineddoche
[15] Sta per elargirono.
[16] Apollo
[17] profezia
[18] Mitico medico degli dei
[19] Pron. e agg. Indefinito|| Alcuno, nessuno
[20] Imita
[21] millanteria
[22] militare spartano, protagonista della prima fase della guerra del Peloponneso.
[23] Fliunte o Flio era una città situata nella parte nord orientale del Peloponneso, il cui territorio denominato Fliàsia era indipendente e limitato a nord da Sicione, a ovest dall'Arcadia, a est da Cleone, a sud dall'Argolide
[24] Protagora (o Dei Sofisti) è un dialogo di Platone. Interlocutori sono Socrate, Ippia di Elide,Prodico di Ceo, Callia, Alcibiade e Protagora.
Apre la discussione Protagora, che afferma essere la sofistica la base del progresso umano e l'unica scienza capace d'insegnare la virtù politica (l'arte di convivere assieme).
Socrate avanza dubbi su quest'ultima affermazione e Protagora, per salvare la sua tesi, introduce un mito: Giove diede agli uomini la giustizia e il pudore, fondamento della virtù politica. Questa è quindi una virtù innata e quando la si insegna ai giovani si cerca di farla armonizzare con la virtù in senso generale.
Socrate allora chiede se le singole virtù fanno parte della virtù così intesa oppure se ognuna di esse fa parte a sé. Protagora si dichiara per l'indipendenza delle varie virtù. Intervengono gli altri presenti; Callia si schiera con Protagora, Alcibiade con Socrate. Ora l'interrogante è Protagora, che però si slancia in un lungo excursus sulla differenza fra la “difficoltà di diventar buoni” e la “difficoltà di essere buoni”.
Socrate, usando le stesse arti di Protagora, gli rivolta il discorso e gli dimostra che “nessuno fa il male volontariamente”; quindi riprende le sue domande e chiede a Protagora se rimanga del parere di prima.
Protagora ammette che le varie virtù sono simili fra loro, ma che da esse si differenzia il coraggio.
Socrate incalza osservando che anche il coraggio, se non è folle temerarietà, si riconduce alla saggezza con cui l'uomo coraggioso disciplina le sue forze. Quindi la virtù è una e come tale si deve insegnare.
[25] Platone – Platone nacque ad Atene nel 428 a. C. da nobile famiglia, discendente per parte di madre da Solone; secondo Aristotele si familiarizzò con la dottrina eraclitea. Ma in questo primo periodo la sua attività fu rivolta a composizioni letterarie, epiche e tragiche. A vent'anni conobbe Socrate, che lo guidò a un contatto fecondo con la filosofia. A Socrate Platone si mantenne fedele per tutta la vita, avendo visto in lui l'incarnazione del filosofare; l'intera sua produzione fu un continuo approfondimento interpretativo della personalità di Socrate, l'interlocutore principale di molti dialoghi e portavoce della filosofia originale di Platone.
Il pensiero storico di Socrate è pertanto trasceso e allo stesso tempo rimane connesso alla sua ispirazione fondamentale. Già dalla giovinezza parve a Platone che la caratteristica prima del filosofo, il rapporto con la verità, potesse manifestarsi nella vita storica, fecondando e alimentando la politica, che riguarda la vita comune degli uomini.
Inizialmente Platone fu tentato di partecipare alla vita politica della sua città, ma ne fu distolto prima dalle delusioni provocategli dal governo dei Trenta tiranni, poi dalla restaurata democrazia che se lo alienò del tutto per aver messo a morte Socrate.
Da allora a Platone fu chiaro che solo un governo guidato dai filosofi poteva essere degno di venir detto buono.
Dopo la morte di Socrate, Platone intraprese svariati viaggi, di cui uno forse in Egitto. Significativi per il rapporto con la politica sono i tre viaggi in Magna Grecia. A Siracusa, dove divenne amico di Dione, zio di Dionisio il Giovane, Platone tentò di attuare la sua idea del governante illuminato dal filosofo. Ma Dionisio il Vecchio, allora tiranno della città, preoccupato dei suoi progetti, lo fece allontanare.
Ritornato ad Atene, Platone costituì l'Accademia, società culturale, alla quale diede la struttura di un'associazione religiosa. Quando Dionisio il Giovane succedette al padre, Platone tornò a Siracusa per riprendere il suo progetto, ma Dionisio deluse Platone che se ne tornò ad Atene. Una terza volta egli tornò a Siracusa, ma ancora fallì il suo tentativo di instaurare un governo retto dalla filosofia.
Platone morì ad Atene nel 347.
I dialoghi vengono ordinati in base a vari criteri stilistici e di contenuto e raggruppati come segue:
1.       I periodo, scritti giovanili socratici, Apologia di Socrate, Critone, Ione, Alcibiade I, Lachete, Liside, Carmide, Eutifrone;
2.       II periodo, di trapasso, Eutidemo, Ippia Minore, Cratilo, Ippia Maggiore, Menesseno, Gorgia, Repubblica I, Protagora, Menone;
3.       III periodo, dottrina delle idee, Fedone, Simposio, Repubblica II-X, Fedro;
4.       IV periodo, autocritica fase finale, Parmenide, Teeteto,Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Le leggi.
A questi dialoghi vanno aggiunte 13 Lettere, di cui la VII e l'VIII sono in genere date per autentiche. Il carattere dialogico degli scritti di Platone rappresenta la sostanza stessa della sua filosofia. Il dialogo platonico è sempre costituito da una tesi aperta, che nel contraddittorio viene esplicandosi, mentre l'interlocutore-contraddittore sposta di continuo le sue opposizioni di volta in volta che una verità va affermandosi.
È lui stesso adeguatamente sollecitato a riconoscere la verità. Notevole è il cambiamento di stile da un dialogo all'altro: i dialoghi giovanili sono caratterizzati da interventi brevi e vivaci da parte dei partecipanti e conservano intatta la loro natura dialogica; gli ultimi sono appesantiti da lunghi interventi, che svisano l'andamento del dialogo e ne fanno quasi un trattato. Socrate è quasi sempre il protagonista, ma negli ultimi dialoghi la sua figura è sempre più sfocata o addirittura scompare.
[26] Prometeo, il previdente (il nome in greco significa “colui che pensa prima”), e suo fratello Epimeteo, lo stolto (“colui che pensa dopo”), erano Titani,
[27] La Repubblica - Il dialogo dei dieci libri della Repubblica si svolge tra il 420 ed il 425 a.C.
Socrate si reca presso la casa del ricco meteco Cefalo, proprietario di una manifattura produttrice di scudi, durante le feste della dea tracia Bendis, e si avvia il dialogo cui partecipano il figlio di Cefalo Polemarco ed i fratelli di Platone, Glaucone ed Adimanto.
Nella Repubblica si affrontano tre domande sulla polis:
1.       qual è lo scopo?
2.       chi la deve governare?
3.       Ma soprattutto qual è il fondamento di questa comunità?
Rispetto alla prima domanda lo scopo è la coesione sociale, detto in termini moderni l’equilibrio tra diverse classi, che devono tutte praticare le virtù per garantire tale coesione.
Le diverse classi riflettono la prevalenza di una parte dell’anima sulle altre: la parte razionale, la irascibile, la concupiscibile.
I governanti assumono la parte razionale e quindi devono essere i filosofi, i guerrieri la parte irascibile, i produttori la parte concupiscibile, e ad ognuna corrisponde una virtù: saggezza, coraggio, temperanza che deve essere propria non solo dei produttori ma anche degli altri gruppi della società.
Ma c’è una virtù che sintetizza tutte le altre ed è la stella polare della polis per garantire il bene: la giustizia, che trova il suo compimento nelle leggi della polis. Ma dove cercare la giustizia? Inoltre, questo è il fondamento reale e praticato della polis in quanto è proponibile che la giustizia sia il vero riferimento dei comportamenti umani? Questo è un tema su cui la discussione sarà più prolungata ed accanita, in quanto Socrate si troverà isolato e in difficoltà rispetto ai suoi interlocutori, molto irruenti nelle loro argomentazioni contro una concezione che attribuisce vero valore etico alla pratica della giustizia. Su questo punto si giocherà una partita filosofica decisiva per tutta la teoria della polis sostenuta in questo dialogo e, più in generale, per l’edificio teorico edificato da Platone. Infatti, considerando il primo libro della Repubblica semplicemente introduttivo all’intera opera, il tema verrà posto subito all’inizio del secondo libro e le sorti della discussione saranno determinanti per quelli successivi.
[28] Abuso, eccesso di libertà || Sregolatezza di costumi
[29] privilegi
[30] dispensa
[31] Aristotele si riferisce alla carica di stratego che non era sottoposta ai normali vincoli delle altre magistrature

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