Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

mercoledì 20 settembre 2017

La modernità rappresenta un progresso o un regresso nella storia umana? di Francesco Lamendola

Bon si può dire che i dubbi sulla bontà della civiltà tecnologica, e particolarmente sulla sua pretesa di portare il benessere, se non addirittura la felicità, a tutti o quasi, abbiano cominciato a sorgere soltanto in questi ultimi anni, quando anche un cieco avrebbe potuto vedere una serie di "effetti collaterali" negativi e sempre più allarmanti (minaccia atomica, inquinamento ambientale, mutamento climatico, anonimità e spersonalizzazione della vita sociale).
No: se si vuole essere onesti, bisogna riconoscere che i dubbi sono sorti fino quasi dall'inizio della modernità, e precisamente in pieno illuminismo, quando i filosofi europei, e particolarmente francesi, erano impegnati nella loro crociata contro l'oscurantismo e la barbarie del passato e per la edificazione di un meraviglioso mondo nuovo, dove la ragione e le sue ancelle predilette, la scienza e la tecnica, avrebbero realizzato poco meno che il Paradiso in Terra per gli uomini (tutte cose, peraltro, già anticipate dai maestri della Rivoluzione scientifica del XVII secolo; cfr. il nostro precedente articolo: «Manipolazione spietata di cose, vegetali e animali nella "Nuova Atlantide" di Francesco Bacone», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Non solo in questi ultimi anni, dunque; ma in pieno illuminismo Jean-Jacques Rousseau aveva risposto negativamente alla domanda, posta dall'Accademia di Digione, «Se il progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito  a migliorare i costumi». Era il 1750 e il ginevrino aveva partecipato a quel concorso con il saggio: «Discorso sulle scienze e le arti», con il quale contestava frontalmente la grande premessa di tutto il pensiero illuminista: che la storia si possa rappresentare in termini di progresso e che da un tale progresso debba scaturire automaticamente un incremento del benessere, della pace, della felicità umana.
Il confronto fra la civiltà preindustriale e quella odierna, post-industriale e tecnologica, può apparire ozioso e sostanzialmente antistorico, specie nell'ottica di chi vorrebbe rappresentarlo come una questione riservata a pochi intellettuali cronicamente scontenti e caratterialmente incontentabili. Per le grandi masse umane, invece - si sostiene - non vi è alcun dubbio che un miglioramento vi è stato, e notevolissimo: non si muore più di colera, di peste, di tifo; non si vive nella povertà, nell'ignoranza, nella superstizione; non si è più in balia della natura, ma la si domina largamente e se ne estrae tutto quanto occorre ad una vita comoda e piacevole; e via magnificando.
Si dimentica di aggiungere che, in compenso, si muore abbondantemente di infarto e di tumore, come prima non accadeva; che alle vecchie forme di ignoranza ne sono subentrate altre, nuove ma non meno insidiose, proprio perché mascherate; che lo sfruttamento selvaggio e irresponsabile della natura si è ritorto contro l'uomo medesimo, dopo avere inflitto danni irreparabili alla natura stessa (con l'estinzione di migliaia e migliaia di specie viventi in poco più di tre secoli); e, soprattutto, che tutte le meraviglie del Mondo Nuovo, ammesso e non concesso che siano veramente tali, sono riservate a un quinto dell'umanità, mentre la parte restante deve accontentarsi delle briciole, a cominciare dalle riserve d'acqua dolce, sempre più in via di esaurimento.
Anche l'argomento di cui i cantori della modernità andavano più fieri, l'aumento della speranza di vita, non è che una pura e semplice invenzione: ciò che è aumentata è la vita media, essendo stata abbattuta l'alta mortalità infantile, tipica delle società pre-industriali; ma la vita dell'uomo e della donna adulti non si è allungata affatto: anzi.
Le persone centenarie erano relativamente frequenti nella società contadina, mentre ora sono una rara eccezione. E non erano affatto diffuse, allora, le malattie cardiocircolatorie, né le sindromi depressive e gli stati ansiosi, che inducono oggi centinaia di milioni di persone a spendere somme enormi per l'acquisto di prodotti farmaceutici di sintesi chimica o per le sedute dai nuovi guru del "benessere" mentale, gli psicanalisti.
Ma se anche fosse vero che la civiltà tecnologica è riuscita a strappare qualche anno di vita in più per i suoi membri, rispetto a quanto accadeva qualche decennio fa: è proprio così importante vivere qualche anno di più, se non si vive più felici e se non si è nemmeno padroni di morire nel proprio letto, serenamente e dignitosamente, circondati dalle persone care e da un esercito di nipotini; ma si viene trascinati a morire una anonima stanza di ospedale, dove non aspettano altro che noi lasciamo libero il posto a qualcun altro, che aspetta a sua volta un letto d'ospedale in cui morire?
Ma fermiamoci qui.
Sarebbe stucchevole e, in sostanza, inconcludente, una pura e semplice contrapposizione dei lati negativi dei due modelli di civiltà, tanto più che un giudizio conclusivo non può che scaturire dalle nostre convinzioni su che cosa sia "bene" e che cosa sia "male" per la vita degli individui.
Non si tratta, del resto, di esternare uno sterile rimpianto per ciò che si è perduto e che non potrà mai più ritornare, ma di valutare onestamente se davvero il mondo che abbiamo costruito sull'altare della tecnoscienza sia tale da giustificare i sacrifici, gli sprechi, le ingiustizie e le distruzioni che sono stati perpetrati e che continuano ad esserlo per consentirci di godere di alcune decine di canali televisivi, di consumare parecchie centinaia di litri d'acqua a testa ogni giorno (mentre la maggior parte degli abitanti del pianeta deve limitarsi a poche decine), o perché i nostri bambini possano giocare con l'ultimo modello di videogame elettronico o trascorrere ore ed ore con l'ultimo tipo di telefonino cellulare.
Un amico di una certa età, che - dopo essere stato emigrante per vent'anni in Africa, lavorando in imprese di costruzioni - è tornato al suo paese natio e vive serenamente fra l'orto e la casa costruita con tanti sacrifici, mi ripete spesso: «Si stava meglio quando si stava peggio». E mi racconta di come lui e i suoi coetanei, da bambini, si divertissero con cose da nulla - con la neve, ad esempio, d'inverno - pur conducendo una vita assai dura; e conclude dicendo che allora i bambini erano sempre allegri e di buon umore.
Ogni famiglia, formata da almeno una decina di persone, viveva in case di pietra, con poche e piccole stanze; non c'erano servizi igienici, non c'era l'acqua corrente: una o due fontane per tutto il paese, uomini e animali; e la sera, per scaldarsi e per stare in compagnia, tutti si riunivano nella stalla. I bambini andavano a scuola in un'unica pluriclasse, fino ala terza; la quarta e la quinta la facevano nel paese vicino, che raggiungevano a piedi, camminando per alcuni chilometri. La strada era sterrata, percorsa ogni tanto da una corriera e quasi mai dalle automobili.
Ogni fazzoletto di terra era coltivato, i vigneti si arrampicavano fino sulle colline più ripide, e nel bosco si faceva la legna (lui la fa ancora adesso); mentre oggi le colline sono state abbandonate alla vegetazione spontanea e le coltivazioni si sono concentrate nella valle, in mano a qualche grossa azienda che non conosce le proprietà della terra e che esaurisce il suolo con un utilizzo irrazionale delle superfici arabili.
I piccoli negozi di paese e perfino le vecchie osterie sono stati chiusi, uno dopo l'altro; la sera i borghi non sono più animati dalle risate dei ragazzi, perché molte famiglie se ne sono andate e le nascite sono un evento sempre più raro; dietro le tende delle finestre, nelle grandi case piene di benessere, si intravede solo la luce dello schermo televisivo.
E non è neanche vero che la tecnologia abbia reso sempre più comoda la vita. Quando nevicava parecchio, come in questi giorni, cinquant'anni fa le strade della vallata erano tenute sempre sgombre dagli spalaneve trainati dai buoi; oggi, pur con tutti gli attrezzi meccanici, molte strade rimangono chiuse al traffico. Il comune fa porre un cartello: «Divieto di accesso», e non se ne parla più: chi vuol raggiungere i borghi più a monte deve fare un lungo giro con l'automobile; un giro di alcuni chilometri.
In compenso, il sindaco - come mille altri suoi colleghi - ha fatto piastrellare e ornare di aiuole e di panchine una stradina isolata, dove non passa mai nessuno; e costruire l'ennesima - e inutile - rotatoria stradale,  del costo di alcune centinaia di migliaia di euro. Sarà perché gli spetta la percentuale del dieci per cento per ogni lavoro pubblico intrapreso, indipendentemente dalla sua opportunità e dalla sua utilità?
Scriveva Massimo Fini nel suo libro «La Ragione aveva torto?» (Milano, Camunia, 1985, pp. 6-9):
«L'idea di progresso, così come modernamente la intendiamo, era estranea alle civiltà classiche, sia greca che latina, e alle antiche civiltà orientali e mediorientali. Esse vivevano soprattutto nel presente, erano sostanzialmente astoriche. Furono gli ebrei e poi i cristiani che, come nota Edward H. Carr in una delle sue preziose "lezioni sulla storia", "introdussero un elemento del tutto nuovo postulando un fine verso cui si dirigerebbe l'intero processo storico; nasceva così la concezione teleologica della storia. Questa teleologia, la concezione cioè che la storia avesse un fine, fu ripresa in chiave non più religiosa ma mondana, epperò ancor più ottimistica, dall'illuminismo: "La storia fu concepita sotto forma di evoluzione progressiva, avente per fine la miglior condizione è possibile dell'uomo sulla terra". Ed uno dei maggiori storici illuministi, E. Gibbon, affermò che "ogni età della storia ha accresciuto, e continua ad accrescere, la ricchezza effettiva, la felicità, la conoscenza e forse la virtù della razza umana".
L'ottimismo illuminista aveva alla sua base l'incipiente rivoluzione industriale e la fiducia che la tecnica avrebbe risolto i problemi dell'uomo dandogli, alla fine, la felicità. Il positivismo ottocentesco, nutrito degli ulteriori e poderosi successi della tecnica, segnerà l'apogeo di questa teleologia mondana. Lo stesso marxismo si svilupperà su tale convinzione.
La prima rilevante incrinatura in questa fiducia senza riserve nella tecnica e, di conseguenza, nell'illimitato progresso umano, si avrà dopo la Belle Époque, con la prima guerra mondiale e lo shock delle applicazioni belliche, su vasta scala, delle scoperte scientifiche, incrinatura che è venuta allargandosi man mano che, salendo verso i nostri giorni, la rivoluzione tecnologica si è fatta sempre più penetrante, prepotente, onnicomprensiva, totalitaria. Oggi ci sono dei sospetti sulla scienza e sulla tecnica e lo stesso concetto di progresso è in crisi.
Nondimeno, nonostante sia ormai abbandonata la certezza positivista chela storia ha come fine la felicità dell'uomo e sia generalmente ammesso che comunque nel cammino umano sono possibili interruzioni, involuzioni, "ampi ritorni", nessuno ha avanzato mai esplicitamente il sospetto che il regresso potesse aver superato il progresso e nessuno ha mai azzardato affermare, attraverso un raffronto concreto, sul campo, fra la vita di oggi e quella di ieri, che "si stava meglio quando si stava peggio". Anche coloro che hanno svolto critiche serrate e dure all'attuale civiltà, sia "da destra", come Huizinga, sia "da sinistra", come Horkheimer e Marcuse, hanno comunque tenuto ben fermo il postulato che quello prodotto dalla tecnologia, con tutte le sue ombre, resta pur sempre, rispetto a un "ancien régime" descritto come un mondo di fame, di miseria, di bestialità e di morte, un mondo senza misura migliore. Se le cose attualmente non vanno del tutto bene, la responsabilità non è dello sviluppo industriale e della tecnologia,  ma del cattivo uso che se ne fa. Verranno tempi migliori. Questa convinzione ha finito per risolversi, a sinistra, con un ulteriore rilancio di speranze sul "progresso tecnologico ed industriale che contribuiranno - secondo Horkheimner - a dare vita a un mondo nuovo in cui l'individualità potrà riaffermarsi come elemento d'una forma di esistenza  meno ideologica e più umana. E Marcuse, di rincalzo: "Io credo che i benefici della tecnica e dell'industrializzazione possano risultare evidenti e reali solo rimuovendo l'industrializzazione e la tecnica di tipo capitalistico". In quanto alla critica conservatrice e borghese ed è stata spesso feroce ed autopunitiva nei confronti della società sorta dalla rivoluzione industriale, ma, in nome soprattutto dell'accumulo di ricchezze materiali che lo sviluppo tecnologico ha permesso, non si è mai spinta oltre certi limiti. Scrive per esempio lo stesso Carr: "Credo che pochi, oggi, oserebbero mettere in dubbio l'esistenza di un progresso nell'accumulazione delle risorse materiali e della conoscenza scientifica, nonché il dominio dell'ambiente da un punto di vista tecnologico". In un caso e nell'altro ci si è sempre fermati sulla soglia di un paragone aperto con l'"ancien régime" e quindi di una critica realmente radicale ala civiltà tecnologica.
Le ragioni di un simile atteggiamento mi sembrano sostanzialmente due.  La prima è che le grandi correnti di pensiero che ancor oggi dominano la scena , l'illuminismo, il positivismo, il marxismo, con tutti i loro derivati, sono nate e si sono sviluppate con la rivoluzione industriale, per cui è molto difficile per esse ammettere che questo Dio ha fallito fino in fondo senza mettere in discussione anche se stesse fino in fondo.
La seconda, che è legata intimamente alla prima, riguarda il pregiudizio democratico ed egualitario che è stato uno dei motivi conduttori  del pensiero occidentale negli ultimi due secoli. Per cui si afferma che un certo malessere contemporaneo non è che una nevrosi d'élite, ma che la massa degli individui sta infinitamente meglio di quanto non stesse due secoli fa.  Il malessere insomma riguarderebbe qualche intellettuale e borghese decadente e decaduto., indispettito per aver perso i propri privilegi ("Tutti questi discorsi  sulla decadenza della civiltà significano semplicemente che i professori universitari avevano in passati delle donne di servizio, mentre ora si devono lavare i piatti da soli" [A. J. P., Taylor, "The Observer",  21 giugno 1959]).
L'obiezione è indubbiamente importante e decisiva - anche perché il miglioramento della vita delle masse è, in definitiva, la legittimazione stessa della società industriale - ha solo il difetto di dare per presupposto ciò che invece è da documentare e da dimostrare: che la maggioranza degli individui stesse peggio nel mondo preindustriale di quanto non stia adesso. Ma è proprio vero? Su quali elementi di fatto si basa tale convinzione? Siamo davvero sicuri che il progresso tecnologico abbia accresciuto la ricchezza, il sapere, l'uguaglianza, la libertà, la felicità della specie umana? Che, per usare un'espressione sola, tanto in voga nel giornalismo e nella sociologia contemporanei, abbia migliorato la "qualità della vita"? O non è il caso, attraverso il confronto con un passato in fondo abbastanza recente, di fare qualche modesta ma onesta verifica, tanto più che oggi numerosi ed eccellenti studi di storia materiale e di storia delle mentalità consentono di sapere meno approssimativamente quale fosse la reale vita quotidiana dell'"ancien régime"?
Non si tratta di esaltare il "buon tempo andato". Non ce ne importa niente.  Il mondo preindustriale era un mondo fatto di durezze, di sofferenze,  di disuguaglianze, di fatiche spesso bestiali, lo sappiamo benissimo. Quello che qui ci si chiede è se l'uomo moderno non si sia costruito, senza rendersene conto, delle condizioni di vita ancor più intollerabili di quelle cui aveva tentato sottrarsi e se credendo, con l'ottuso e pericoloso ottimismo di "Candide", di edificare "il migliore dei mondi possibili" non se ne sia fabbricato invece uno dei peggiori.»
Il problema, quindi, non è di conferire la pagella alla società pre-industriale ed a quella tecnologica,  per vedere chi è promosso e chi bocciato; anche perché - lo ripetiamo - nessun confronto è possibile,  se non sulla base di un giudizio preliminare sui valori sociali fondamentali.
Il problema è quello di non essere ciechi di fronte agli aspetti regressivi della modernità e ai pericoli verso i quali ci sospinge il modello di sviluppo attuale, senza che noi abbiamo la possibilità di rendercene conto e di modificare la rotta che i nostri economisti, i nostri amministratori e i nostri politici hanno deciso di tenere, tutti uniformemente convinti della assoluta bontà della tecnoscienza e dei suoi effetti nella vita sociale.
Prima che sia troppo tardi, dobbiamo riscuoterci dal letargo conformistico in cui siamo caduti, contestate l'assurdo teorema secondo cui possedere più cose e avere un più grande potere di manipolazione sulla natura equivalgono, di per sé, a un aumento del benessere e della felicità; e recuperare quel giusto della sobrietà, quel senso della misura e quel rispetto del mistero, che caratterizzavano la vita dei nostri nonni.
Se non lo vorremo farlo con le buone, dovremo faro con le cattive; anzi, questa inversione di rotta si sta già delineando all'orizzonte, sotto l'incalzare della crisi finanziaria che sta diventando una vera e propria crisi economica e che ci costringerà, nei prossimi anni, a rivedere radicalmente il modello consumistico e a reimparare le virtù della parsimonia e della semplicità.
Troppo pane, troppa frutta, troppa carne hanno riempito i bidoni dei rifiuti delle nostre città, in questi ultimi decenni; troppi ettolitri d'acqua sono stati consumati per intrattenersi le mezz'ore sotto la doccia o per cambiare ogni giorno l'acqua della piscina privata.
Se non vogliamo capirlo da soli, ci penserà la crisi ad insegnarci quelle semplici norme di ben vivere che, per i nostri nonni, erano scontate: che non si getta il cibo nei rifiuti, lo si mangia prima che vada a male; che si impara a non acquistarne più di quanto se ne possa consumare in tempo utile; che si impiegano gli avanzi per fare torte col pane duro, macedonie di frutta con le banane e le mele troppo mature, e così via.
Saranno le cause di forza maggiore ad insegnarci il ritorno alla sobrietà, se non vorremo capirlo in altro modo.
Non vedremo più milioni di automobili viaggiare con una sola persona a bordo: impareremo a metterci d'accordo con vicini e colleghi per fare il viaggio in tre o quattro alla volta, a turno, con i mezzi di ciascuno. Tireremo fuori la bicicletta dal garage e torneremo a fare l'abbonamento al treno o alla corriera.
Impareremo a sopportare il caldo facendo a meno del condizionatore, e a sopportare il freddo riducendo l'uso del riscaldamento.
Impareremo a tirar fuori dall'armadio il cappotto dell'anno scorso e porteremo le scarpe dal calzolaio, invece di gettarle via e di comperarcene un paio nuove.
E ai nostri bambini spiegheremo che papà e mamma non possono permettersi di comprare loro il computer nuovo per Natale o di mandarli due settimane al mare nei centri di soggiorno sportivo; e che, anzi, dovranno cercasi loro, i bambini, qualche lavoretto estivo, per arrotondare il bilancio familiare.
Oh, sì che impareremo. Dovremo imparare.
E allora, forse, cominceremo a riscoprire il piacere delle cose semplici, della partita a carte con gli amici, della passeggiata nei boschi vicino a casa, delle lunghe conversazioni o della lettura di un buon libro nelle sere d'inverno.
Ci disintossicheremo un poco dalla tecnologia, dalla moda, dai riti e dai miti aberranti del consumismo cieco e della modernità senz'anima.
Scopriremo che si può stare meglio, pur avendo di meno.

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