Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

mercoledì 22 ottobre 2014

Le reazioni al romanticismo : la Scapigliatura il Classicismo e il Verismo di Massimo Capuozzo

Preludio
Da Penombre[1] di Emilio Praga[2]
·         La poesia Preludio che apre la raccolta Penombre, costituisce il manifesto della poesia scapigliata.
·         Praga vi descrive la crisi esistenziale propria della generazione successiva al Romanticismo, che ha esaurito la sua carica ideale e l’autore si fa interprete della nuova generazione di poeti.
·         La poesia è costituta da 8 quartine formate da tre endecasillabi e un settenario, sostituito nelle strofe pari da un quinario. La rima è alternata secondo lo schema ABAB, CDCD, ecc…

Noi siamo figli dei padri ammalati[3];
aquile al tempo di mutar le piume[4]
svolazziam muti, attoniti[5], affamati,
sull'agonia di un nume[6].

Nebbia remota è lo splendor dell'arca,
e già all'idolo d'or torna l'umano,
e dal vertice sacro il patriarca
s'attende invano[7];

s'attende invano dalla musa bianca
che abitò venti secoli il Calvario[8],
e invan l'esausta vergine s'abbranca
ai lembi del Sudario[9]...

Casto poeta che l'Italia adora[10],
vegliardo[11] in sante visioni assorto,
tu puoi morir!... Degli Antecristi è l'ora!
Cristo è rimorto[12]!

O nemico lettor[13], canto la Noia,
l'eredità del dubbio e dell'ignoto,
il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia,
il tuo cielo, e il tuo loto[14]!

Canto litane[15] di martire e d'empio;
canto gli amori dei sette peccati[16]
che mi stanno nel cor, come in un tempio,
inginocchiati.

Canto l' ebrezze dei bagni d'azzurro[17],
e l'Ideale che annega nel fango...
Non irrider, fratello[18], al mio sussurro,
se qualche volta piango:

giacché più del mio pallido demone[19],
odio il minio e la maschera al pensiero[20],
giacchè canto una misera canzone,
ma canto il vero!

Congedo
Da Rime nuove[21] di Giosuè Carducci[22]
·         Congedo è l'ultima poesia delle Rime nuove.
·         Si divide in tre parti. Nella prima (str. 1-3) Carducci dice ciò che il poeta non è; nella seconda parte (str. 4-6) Carducci dice ciò che invece il poeta è; nella terza parte (str. 7-fine) Carducci enumera i motivi d'ispirazione del poeta-artiere, un miracolo, l'ispirazione, che soltanto Dio conosce.

Il poeta, o vulgo sciocco,
un pitocco[23]
non è già[24], che a l'altrui mensa
via con lazzi[25] turpi e matti
porta i piatti
ed il pan ruba in dispensa.

E né meno è un perdigiorno
che va intorno
dando il capo ne' cantoni[26],
e co 'l naso sempre a l'aria
gli occhi svaria[27]
dietro gli angeli e i rondoni.

E né meno è un giardiniero
che il sentiero
de la vita co 'l letame
utilizza, e cavolfiori
pe' signori
e viole ha per le dame.

Il poeta è un grande artiere[28],
che al mestiere
fece i muscoli d'acciaio:
capo ha fier, collo robusto,
nudo il busto,
duro il braccio, e l'occhio gaio[29].

Non a pena l'augel pia[30]
e giulía[31]
ride l'alba a la collina,
ei co 'l mantice[32] ridesta
fiamma e festa
e lavor ne la fucina[33]:

E la fiamma guizza e brilla
e sfavilla
e rosseggia balda audace,
e poi sibila e poi rugge
e poi fugge[34]
scoppiettando da la brace.

Che sia ciò, non lo so io;
lo sa Dio
che sorride al grande artiero.
Ne le fiamme così ardenti
gli elementi
de l'amore e del pensiero

egli gitta, e le memorie
e le glorie
de' suoi padri e di sua gente.
Il passato e l'avvenire
a fluire[35]
va nel masso incandescente.

Ei l'afferra, e poi del maglio
co 'l travaglio
ei lo doma su l'incude.
Picchia e canta. Il sole ascende,
e risplende
su la fronte e l'opra rude.

Picchia. E per la libertade
ecco spade,
ecco scudi di fortezza:
ecco serti[36] di vittoria
per la gloria,
e diademi[37] a la bellezza.

Picchia. Ed ecco istoriati
a i penati[38]
tabernacoli ed al rito:
ecco tripodi ed altari[39],
ecco rari
fregi e vasi pe 'l convito[40].

Per sé il pover manuale
fa uno strale[41]
d'oro, e il[42] lancia contro 'l sole:
guarda come in alto ascenda[43]
e risplenda,
guarda e gode, e più non vuole.

Presentazione
da La scapigliatura milanese di Cletto Arrighi
Quando una parola nuova o sconosciuta risponde perfettamente ad un’idea, ad una condizione, ad un caso qualunque della vita sociale, che non si potrebbe esprimere altrimenti che con una perifrasi, la fortuna di questa parola dovrebbe essere certa.
In Francia succede infatti così. Ogni mese, si può dire, fa capolino un neologismo, e quantunque l’Accademia, gli faccia il viso dell’arme, esso viene accettato a braccia aperte dal buon senso popolare, ed entra di balzo nella lingua viva appena sia riconosciuto necessario o di buona lega.
Demi-monde? per dirne uno. Trovatemi, di grazia, demi-monde sul vocabolario.
Ma qui da noi gli è un altro pajo di maniche. Da noi, senza ripetere le solite fastidiose canzoni, ognun sa quanto sia pericoloso e difficile l’osare, e tanto più per uno scrittoruccio di primo pelo, come sono io.
Avvenne che, un bel giorno, dovendo pur trovare un titolo - oh! lettori, il titolo d’un libro! Dio vi tenga ben lontani dal cercare un titolo... finchè durano queste condizioni!! - mi trovai nella necessità, o di coniare un neologismo o di andar a pescare nel codice della lingua qualche parola vecchia che rendesse pressapoco il concetto del mio qualsiasi romanzo.
Prima dunque di osare, consultai sua maestà il Vocabolario, se mai nella sua infinita sapienza avesse saputo additarmi un mezzo di salvezza. Cerca e ricerca, finalmente trovai una parola acconcia al caso mio; perchè, s’ha un bel dire, ma la nostra lingua, per chi la vuol frugare un po’ a fondo, non manca proprio di nulla, e sa dar a un bisogno parole vecchie anche per idee nuove, nello stesso modo che i Francesi sanno fabbricar parole nuove per idee che hanno tanto di barba.
Però, in quella maniera che potrei star garante che scapigliatura non è una parola nuova, sarei in un bell’imbarazzo se volessi persuadervi che la è molto usata e conosciuta.
Infatti fra le tante persone a cui domandai che cosa intendessero per scapigliatura, parte inarcò le ciglia, come a dire: non l’ho mai sentita a menzionare, e parte mi rispose così a tentoni, chi: l’atto dello scapigliarsi, chi: una chioma arruffata, e chi, finalmente - e costui fu un letterato - una vita da debauchè; definizioni tutte o false o inesatte e, in ogni modo, lontane le mille miglia da quel significato in cui m’ero proposto di adoperarla io.
Quell’io che credevo di aver rubato il lardo alla gatta, da quelle risposte n’ebbi una delusione che mi afflisse moltissimo - ben inteso, per quanto può affliggere una delusione filologica - e avrei messo il cuore in pace, e lasciato nel dimenticatojo la povera incompresa, se una certa rincalzante smania di spuntar le cose un po’ difficili - confesso un uno debole - non mi ci avesse incaponito sopra.
Ed ecco lettori, se il permettete, ch’io la prendo per mano e ve la presento.
In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui d’ambo i sessi v’è chi direbbe: una certa razza di gente - fra i venti e i trentacinque anni non più; pieni d’ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo; indipendenti come l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; inquieti, travagliati, turbolenti - i quali - e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca, e per una loro particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere, e per... mille e mille altre cause e mille altri effetti il cui studio formerà appunto lo scopo e la morale del mio romanzo - meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte quante le altre.
Questa casta o classe - che sarà meglio detto - vero pandemonio del secolo, personificazione della storditaggine e della follia, serbatojo del disordine, dello spirito d’indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più che altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana, l’ho battezzata appunto: la Scapigliatura Milanese.
Se tale parola non andasse a genio de’ miei lettori me ne dorrebbe moltissimo, perchè io la trovo assolutamente bella. E posso ripeterlo con franchezza perché appunto non l’ho inventata io. Ed è per me tanto più bella, in quanto che essa mi rende, quasi a capello, il concetto di questa parte della popolazione Milanese tanto diversa dall’altra per i suoi misteri, le sue miserie, i suoi dolori, le sue speranze, i suoi traviamenti, sconosciuti ai giovani morigerati e dabbene, ed agli adulti gravi e posati, che della vita hanno preso la strada maestra, comoda, ombreggiata, senza emozioni, come senza pericoli.
La Scapigliatura Milanese è composta da individui di ogni ceto, di ogni condizione, di ogni grado possibile della scala sociale. Plebe, medio ceto e aristocrazia; foro, letteratura e commercio; celibato e matrimonio, ciascuno vi porta il suo tributo, ciascuno vi conta qualche membro d’ambo i sessi; ed essa li accoglie tutti in un amplesso amoroso, e li lega in una specie di mistica consorteria, forse per quella forza simpatica che nell’ordine dell’universo attrae fra di loro le sostanze consimili.
La speranza nell’avvenire è la sua religione; la povertà il  suo carattere essenziale. Non la povertà del mendico che stende per Dio la mano all’elemosina, ma la povertà di un Duca a cui tocca di licenziare una dozzina di servitori, vendere molte coppie di cavalli, e ridurre a quattro le portate della sua tavola, perchè, fatti i conti coll’intendente, ha trovato di non aver più che cinquantamila lire di rendita.
Essa è figlia soprattutto di un’epoca non lontana e fatale; figlia generosa, giacché, chi ha traveduto il cielo, è un imbecille od un santo se si rassegna a vivere di nuovo contento e felice sulla terra.
Nè voglio dire con ciò che prima di quell’epoca non ci fossero scapigliati a Milano....... Dio me ne guardi!
Strano paese sarebbe stato questo in cui la gioventù avesse avuto nelle vene tanta pacatezza, e tanto senno in cervello per soffrire con calma e senza riluttanza l’ozio forzoso e la vita monotona e indecorosa che vi si conduceva.....
Come il Mefistofele del Nipote essa ha dunque due aspetti, la Scapigliatura: il buono ed il cattivo.
Da un lato un profilo più Italiano che Meneghino pieno di brio, di speranza e di amore, e rappresenta il lato simpatico e forte di questa numerosa classe, inconscia delle proprie forze, anzi della propria esistenza, propagatrice delle brillanti utopie, focolare delle idee generose, anima di tutti gli elementi geniali, artistici e politici del proprio paese, che ogni causa o grande o folle fa balzar d’entusiasmo, che conosce della gioja la sfumatura arguta del sorriso, e lo scroscio franco e prolungato, ed ha le lagrime del fanciullo sul ciglio e le memorie feconde nel cuore.
Dall’altro invece un volto smunto, solcato, cadaverico, su cui stanno le impronte delle notti passate nello stravizzo e nel giuoco, su cui si adombra il segreto del dolore infinito, e i sogni tentatori d’una felicità inarrivabile, e le lagrime di sangue, e le tremende sfiducie e la finale disperazione.
Presa in complesso dunque, la Scapigliatura è tutt’altro che disonesta.
Se non che, come accade di tutti i partiti estremi, che accolgono nel loro seno i rifiuti di tutti gli altri, anch’essa conta un buon numero di persone tutt’altro che oneste, le quali finiscono collo screditare la classe intera. Ma cotesti signori sono come nel ferro le scorie, nel demolito il marame; e c’è per essi un nome abbastanza conosciuto senza ricorrere alla scapigliatura; e anch’io sarei tentato di chiamarli cavalieri d’industria e birbanti, se l’educazione di moda non mi vietasse di chiamar chicchessia col suo vero nome. Ma, appunto come tali, essi non hanno una fisionomia particolare e si perdono in quella putrida vegetazione comune a tutti i paesi del mondo come i ladri, e le spie... gente nata per lo più dal fango, e vivente nel fango del proprio mestiere, senza perdono e senza poesia possibile.
Però la Scapigliatura li fugge per la prima e li rinnegherebbe ad alta voce, se ella avesse la coscienza della propria esistenza.
Giacchè la vera... la mia Scapigliatura potrà pentirsi qualche volta de’ fatti proprii, arrossirne giammai.

L’amante di Gramigna
da Vita dei campi (1880)
Questo è un documento nato come momento di scambio d’opinione con un amico letterato, in cui Verga definisce i suoi orientamenti e le sue scelte e ci fornisce indirettamente la strada per arrivare alla definizione dei suoi princìpi teorici.
È la Prefazione a ‘L’amante di Gramigna’, nota anche come ‘Lettera a Salvatore Farina’ perché è in forma epistolare. È un documento di estrema importanza, che contiene tutti gli elementi fonda­mentali della poetica verista. La lettera ha anche un intento argomentativo, perché Farina si oppone alle nuove ten­denze della letteratura verista.

A Salvatore Farina.
Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico - un documento umano, come dicono oggi - interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d’arrivo; e per te basterà, - e un giorno forse basterà per tutti.
Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?
Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d’origine.

Introduzione
da I Malavoglia
Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio. 
Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa de Leyra; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all’Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto. A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno della passione va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l’educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all’idea, in un’epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un’uniformità di sentimenti e d’idee. Perché la produzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacché la forma è così inerente al soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell’argomento generale. 
Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguandosi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorìo universale, dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada quest’immensa corrente dell’attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi intorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sovravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani. 
I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l’Onorevole Scipioni, l’Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione - dall’umile pescatore al nuovo arricchito - alla intrusa nelle alte classi - all’uomo dall’ingegno e dalle volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri uomini, di prendersi da sé quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge - all’artista che crede di seguire il suo ideale seguendo un’altra forma dell’ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.


[1] PenombreIl maledettismo predomina nella raccolta, Penombre del 1864, ma il poeta cerca anche il conforto nella sanità della Natura e nel mondo familiare. Il linguaggio diventa volutamente esasperato, con l'uso di termini brutalmente realistici: la raccolta scandalizzò il pubblico, soprattutto quello dei salotti, contro cui Praga si scagliava spesso.
Le liriche di questa raccolta segnano il momento più scapigliato e anticonformista di Praga, toccando infatti tutti i temi caratteristici della corrente milanese: il rifiuto della società contemporanea attraverso la consapevole distruzione di se stesso, l'anticlericalismo, il gusto del macabro, le deviazioni sessuali, la profanazione del sentimento d'amore romantico e dell'immagine femminile idealizzata.
Il linguaggio si fa più tormentato, meno comune e più aperto a termini brutalmente realistici.
Assai forte è l'influsso di Baudelaire, apprezzato da Praga come un modello di rivolta alla tradizione e, contemporaneamente, di aspirazione alla perfezione artistica.
[2] Emilio Praga - Nato a Gorla nel 1839 da un'agiata famiglia industriale, la sua condizione sociale gli permise, tra il 1857 e il 1859, di compiere numerosi viaggi in Europa, durante i quali trascorse lunghi soggiorni a Parigi e si dedicò allo studio di Baudelaire, Victor Hugo, Alfred de Musset e Heinrich Heine. A Parigi iniziò anche a dipingere.
Tornato a Milano, cominciò a frequentare gli ambienti della Scapigliatura, movimento culturale sviluppatosi nell'Italia settentrionale dagli anni sessanta dell'Ottocento, e ne divenne uno dei maggiori esponenti.
Nel 1862 pubblicò la raccolta Tavolozza.
Nel 1864 una seconda raccolta Penombre.
Dopo la morte del padre ed il conseguente dissesto finanziario dell'azienda familiare, Praga non seppe adattarsi ad un lavoro regolare e si diede all'alcool, abbandonandosi ad una vita disordinata, costellata spesso dall'uso di sostanze stupefacenti. In questo, tra gli scapigliati, fu quello che visse più autenticamente il modello del maledettismo incarnato da Baudelaire.
La separazione dalla moglie e poi il litigio con il figlio Marco nel 1873 accentuarono il suo malessere: morì in miseria, nel 1875, a soli 36 anni, distrutto dai propri vizi.
Postumi furono pubblicati Trasparenze nel 1878 ed il romanzo Memorie del presbiterio, che restò incompiuto ma fu successivamente completato dall'amico Roberto Sacchetti: l'opera, uscita a puntate su Il Pungolo tra giugno e novembre del 1877, e in volume nel 1881.
[3] figli… ammalati: gli eredi della generazione romantica e di una cultura in crisi.
[4] aquile... piume: le aquile sono capaci di spiccare il volo ma nel periodo della muta sono incerte e timorose. Fuor di metafora, il poeta vuol dire che gli scapigliati desiderano staccarsi dalla tradizione, ma non sono capaci di individuare una meta precisa, un percorso autonomo e originale.
[5] attoniti: sgomenti; affamati: desiderosi di ideali nuovi.
[6] sull’agonia di un nume: mentre agonizza una divinità, che rappresenta gli ideali dell’età precedente. Può essere un accenno a Manzoni (definito al v. 13 il casto poeta) o allo spegnersi della fede in Dio.
[7] Nebbia... invano: la metafora, con i riferimenti alla storia ebraica, indica l’allontanamento dell’uomo dai valori religiosi in nome della logica economica: la condizione del poeta è come quella degli Ebrei nel deserto, per i quali l’Arca santa con le Tavole delle leggi date da Dio a Mosè è avvolta come in una nebbia; così gli uomini si sono dati ad adorare il vitello d’oro (simbolo di denaro e di corruzione), e invano si attende dalla vetta del Sinai il ritorno del profeta.
[8] dalla musa... Calvario: da parte della musa (la poesia religiosa, cristiana) che ha abitato per venti secoli il colle dove fu innalzata la croce di Cristo.
[9] invan... Sudario: la Musa, ormai stanca (esausta), si aggrappa inutilmente ai lembi del Sudario, il lenzuolo in cui fu avvolto il corpo di Cristo. L’espressione, dal tono polemico, significa che è inutile aggrapparsi ai simboli della civiltà cristiana: la società si allontana sempre più dalla fede.
[10] Casto poeta: Manzoni, definito casto per la sua religiosità e i suoi valori morali.
[11] vegliardo: è un’indicazione oggettiva (Manzoni all’epoca era quasi ottantenne); l’età avanzata conferisce al poeta autorevolezza e venerazione come maestro di poesia cristiana e patriottica.
[12] degli anticristi... rimorto: la società contemporanea è anticristiana: poiché Cristo è morto per la seconda volta (condannato dalla religione del profitto) è il momento dei nuovi scrittori atei. Nell’Apocalisse di Giovanni l’anticristo è la personificazione del diavolo che alla fine della storia dell’umanità combatterà contro Cristo e la Chiesa.
[13] nemico lettor: il lettore è definito nemico perché appartiene a quel ceto borghese incapace di comprendere la nuova poesia degli scapigliati.
[14] Noja... loto: l’ennui o spleen, cioè il senso angoscioso di vuoto, è uno dei temi di Baudelaire. La noia deriva (eredità) dal dubbio e dalla perdita di certezze, essa domina (re… pontefice) e al tempo stesso tormenta (boja) il poeta e lo spinge sia verso mete elevate (cielo) sia verso la degradazione (loto
[15] litane... d’empio: il poeta canta sia le preghiere (litane significa letteralmente “litanie”) dei martiri (perché tormentato dal bisogno di ideali) sia quelle dei bestemmiatori (perché nega ogni fede).
[16] sette peccati: i sette peccati capitali della dottrina cattolica (superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira, accidia).
[17] bagni d’azzurro: gli slanci verso l’ideale, di cui il cielo è simbolo.
[18] fratello: il lettore prima nemico (v. 17) ora è fratello, nel senso che la borghesia vive la stessa crisi di certezze del poeta, ma la nega ipocritamente (invece il poeta le si ribella).
[19] miodemone: è il demone del dubbio e del tormento interiore.
[20] il miniopensiero: il poeta, ancor più del demone della noia, odia il belletto (minio) e la maschera, ossia le ipocrisie e le convenzioni sociali, che impediscono di osservare la realtà nel suo vero aspetto.
[21] Rime NuoveRime nuove è la più importante e significativa raccolta di Carducci.
Il libro, pubblicato nel 1887, comprende centocinque poesie, composte tra il 1861 e il 1887 e distribuite in nove libri ed in esso Carducci fissò un'immagine ideale di sé e della propria arte, offrendo con essa una compiuta sintesi poetica dalle origini giovanili fino agli esiti più maturi.
Tra i filoni tematici più importanti della raccolta, il primo è quello della poesia storica: in queste liriche, Carducci indossa i panni del poeta vate, maestro e guida della nazione, per riproporre episodi del Medioevo italiano – Il comune rustico, La leggenda di Teodorico, Su i campi di Marengo, Faida di comune. Le sue ricostruzioni storiche sono rigorose e riescono a penetrare e far rivivere lo spirito dei fati narrati. Talvolta la celebrazione investe la storia recente: è il caso dei dodici sonetti di Ca ira, dedicati alla vittoria dei francesi a Valmy nel 1792 contro gli austro prussiani.
Un secondo filone è quello intimistico e autobiografico, che si sviluppa tra memoria, natura e immaginazione poetica. A poesie di tipo nostalgico – Visione e Nostalgia – si accompagnano testi ambientati nella vita della campagna, con i suoi umili quadri di vita animale e vegetale – Il boveSan Martino.
L'ispirazione più sincera si rivela nei testi della trilogia maremmana – Traversando la Maremma toscana, Idillio maremmano, Davanti San Guido – e nelle due liriche ispirate alla morte del figlioletto Dante – Pianto antico e Funere mersit acerbo.
Altre liriche sono dedicate alla celebrazione della bellezza classica: è la linea che ispira le tre bellissime odi delle Primavere elleniche tra le più felici dell'intera produzione di Carducci.
Molte liriche delle Rime nuove nascono da un motivo comune: l'opposizione tra l'esaltazione della vita e il pensiero o sentimento della morte, della caducità e fragilità di ogni esistenza terrena. I due motivi sono complementari, poiché l'amore per ciò che vive rende più forte la coscienza dell'ineluttabilità della fine; in tal modo ogni gioia dell'ora presente è incrinata da note di dolore e da tristi presentimenti. È precisamente questa dialettica che ispira la parte più suggestiva della poesia carducciana.
[22] Giosuè Carducci – La tradizione classicista ha un momento di rinascita e di rinnovamento nell’opera di Giosuè Carducci, che la rivitalizzò riproponendo la missione etico-civile del poeta e l’esaltazione del lavoro rigoroso sulla forma. Carducci, che scriveva negli stessi anni di Baudelaire, fu maestro di una tendenza che ebbe un peso rile­vante nella cultura del tempo ed ebbe i seguaci più illustri in Severino Ferrari, Enrico Panzacchi, Giovanni Marradi.
Nessun poeta ebbe la fama di Giosuè Carducci, il più noto letterato di fine Ottocento, artefice di una reazione al Romanticismo, ma nella direzione di un recupero del Classicismo[22]. Egli fu il primo italiano a ricevere il premio Nobel per la letteratura nel 1906.
Figlio di un medico condotto affiliato alla carboneria, Carducci nacque a Valdicastello, Lucca, presso Pietrasanta nel 1835, trascorse l'infanzia in Versilia e in Maremma, il cui passaggio fece rivivere in tante sue poesie; adolescente si recò con la famiglia a Firenze e a Pisa, laureandosi in lettere con una tesi sulla poesia cavalleresca nel 1856.
Insegnò in un ginnasio, esperienza, questa, che sarebbe confluita nelle autobiografiche Risorse di San Miniato nel 1863.
Il suo interesse per la filosofia lo indusse a fondare, nel 1859, la rivista Il Poliziano, che tuttavia ebbe vita breve.
All’insegnamento, dal quale era stato sospeso per tre anni a causa delle sue idee filorepubblicane, tornò a dedicarsi tra il 1860 e il 1904, quando, su nomina del ministro Terenzio Mamiani, fu titolare della cattedra di letteratura italiana nell'Università di Bologna, cattedra che tenne fin quasi alla morte, facendo fiorire intorno a sé una «scuola» numerosa e seria. In politica combatté il papato e la monarchia, ma a questa si riavvicinò verso la fine degli anni ’70 e, in seguito, nominato senatore nel 1890, si schierò con il governo conservatore di Francesco Crispi.
Carducci morì a Bologna nel 1907.
La sua vasta produzione poetica costituisce le raccolte:
  • Juvenilia (1850-1857) e Levia Gravia (1857-1870) esprimono le concezioni laiche e repubblicane di Carducci, e costituiscono un complesso apprendistato poetico, in cui egli sperimentò molte forme della tradizione lirica italiana.  
  • Giambi ed epodi (1882), che comprendeva componimenti già pubblicati nella raccolta Poesie (1871), prevalsero i tomi polemici.
  • Rime nuove (1861-1887) sono probabilmente la raccolta migliore, quella in cui Carducci seppe alternare con maggiore ricchezza l’ispirazione intima e privata alla poesia storica e politica. Questo doppio registro caratterizza anche, sia pure con minore felicità espressiva, l’ultima raccolta di versi, Rime e ritmi (1898).
  • Odi barbare (1877-1893) cercano di riprodurre in versi italiani i metri della lirica greco-latina.
  • Rime e ritmi (1898)
Carducci fu anche autore di scritti in prosa di tono lirico-autobiografico e fu inoltre critico, orato­re, polemista. Grande influenza ebbe il magistero carducciano nel campo della critica. Suoi allievi furono Giovanni Pascoli, Severino Ferrari, Renato Serra, Manara Valgimigli, e, se la sua lezione si iscrive entro i confini storici del positivismo, l’attenzione ai valori testuali evidente negli studi su Petrarca, Poliziano, Parini fa di Carducci un precursore della critica stilistica. Lo sterminato, vivace ed estroso epistolario, contribuì a rendere meno paludata la figura di un poeta stretto nella propria ufficialità.
[23] Pitocco: accattone.
[24] Già: davvero.
[25] Lazzi: buffonate
[26] dando … cantoni: sbattendo la testa contro le cantonate.
[27] Svaria: distrae.
[28] Artiere: artigiano.
[29] Nudo… gaio: notare i chiasmi
[30] Pia: dal verbo piare, lett. Pigolare, cinguettare.
[31] Giulìa: sta per giuliva e si concorda con l’alba
[32] Mantice: Apparecchio di forma varia mediante il quale si aspira aria in una sacca per poi soffiarla con forza, al fine di attivare la fiamma
[33] Fucina: officina
[34] E …. fugge: notare l’anafora
[35] Fluire: colare concordato con va quindi cola
[36] Serti: corone
[37] Diademi: corone
[38] La poesia che celebra la storia patria oggettivata negli altari dedicati al culto e ai penati
[39] La poesia celebrativa in genere i tripodi e gli altari vanno bene per ogni cerimonia
[40] La più raffinata celebrazione di eventi del presente [i vasi e gli ornamenti per il convito
[41] Strale: Freccia
[42] Il: poetico sta per lo pronome
[43] Ascenda: salga

1 commento:

  1. è in corso a Pavia "Tranquillo Cremona e la Scapigliatura", una mostra non solo di pittura, ma anche "un racconto musicale e letterario che andrà ad approfondire i principali scritti degli autori della Scapigliatura."
    http://www.artonweb.it/eventimostre/articolo253.html

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