Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

martedì 12 gennaio 2016

L'elegia alle Muse di Solone

Elegia alle Muse
Di Solone[1]
La poesia di Solone risente spesso del suo impegno politico.
Fra i testi a lui attribuiti compaiono anche testi di carattere autobiografico, ma egli trattò principalmente di politica e di morale.
La triade concettuale da lui introdotta, fu fondamentale per la letteratura greca:
·         la ὕβρις (hýbris): il peccato di presunzione esso è il male, inteso come tracotanza, ed è una scelta dell'uomo;
·         ἄτη (ate): è un procedimento di degradazione (accecamento) a cui gli dei sottopongono chi si è macchiato di ὕβρις;
·         δίκη (dike): è il motore del processo di giustizia divina.
Nell’Elegia alle muse raggiunge una consapevolezza maggiore: non sono le Muse a prendere l’iniziativa di parlare all’uomo o di dare l’investitura, ma è l’uomo stesso che si rivolge loro, non come servo, ma con un invito ad ascoltare la sua richiesta di ottenere fama e celebrità e di poter trasmettere la verità con il consenso di quelle depositarie della memoria e della verità collettiva. Le Muse sono infatti le garanti della giusta relazione che si instaura tra gli uomini.


O di Mnemòsine[2] figlie fulgenti e del Sire d’Olimpo,
Pièrie[3] Muse, ascolto date a me che vi prego.
Fate che felicità mi concedano i Numi, e ch’io goda
presso i mortali fama perennemente buona,
ed agli amici sia gradevole, amaro ai nemici,
esultino a vedermi questi, e tremino quelli.
Ricchezza, averne bramo, ma farne empio acquisto non bramo:
ché sopraggiunse sempre, sia pur tarda, Giustizia.
Quanto a Ricchezza, quella che i Numi concedono, salda
dalla base alla cima rimane al possessore:
quella che col Sopruso si lucra, non sa regolarsi,
anzi, sedotta, i passi segue del Male Oprare,
sinché piomba improvvisa su lei la Vendetta Divina.
Comincia essa dal poco, come avviene pel fuoco:
debole su le prime: ma niuno alla fin le resiste:
chè Sopruso vantaggio non arreca ai mortali.
Ma d’ogni cosa Zeus preordina il fine; e, improvviso,
come subito vento primaverile sperde le nubi,
e dal profondo sconvolge gl’innumeri[4] flutti
del mar che non si miete, poi della terra i campi
belli, feraci di spelta[5], distrugge, ed ascende alla sede
alta dei Numi, al cielo torna sereno l’ètra.
E su la pingue terra scintilla la forza del sole
bella, né più si vede traccia di nube in cielo:
procede la Vendetta di Zeus così; né lo sdegno
affila, come gli uomini fanno, caso per caso;
ma non le resta sempre nascosto chi cuore malvagio
chiude nel seno; e tutto vien finalmente a luce.
E questi lì per lì paga il fio[6], quegli dopo; e se pure
gli sfugge alcuno, e l’Ira dei Numi non lo coglie,
pure il momento arriva: la colpa i figliuoli innocenti
per lui scontano, oppure la più tarda progenie.
Tutti noialtri mortali, sia buoni, sia tristi, nutriamo
opinione grande di noi, sinché ci colga
qualche malanno: allora son lagni[7]; ma fino a quel punto
ci lusinghiam[8] con vane speranze, a bocca aperta.
E quegli ch’è schiacciato dal peso di gravi malanni,
s’illude che fra poco godrà fior di salute:
un altro, ch’è pusillo[9], s’immagina d’essere un prode:
uno di forme poco venuste, d’esser bello:
uno senz’arte né parte, gravato d’eterna miseria,
spera d’averne, quando che sia, ricchezza a iosa[10].
Tutti, chi qua, chi là, si danno da fare. Va errando
questi sul mar pescoso, ché nel suo legno[11] deve
portare a casa il lucro: lo sbattono i venti funesti:
pure, egli alla sua vita non ha riguardo alcuno.
Serve per tutto l’anno, scalzando la terra alberata,
un altro, a cui la cura spetta dei curvi aratri.
Un altro che d’Atèna, d’Efesto, maestro dell’arti,
l’opere apprese, il pane con le braccia guadagna.
Un altro, a cui le Muse d’Olimpo largirono[12] il dono,
apprese i modi tutti dell’amabil scienza.
Concesse a un altro il Dio dell’arco[13] il profetico dono,
e il mal da lungi vede che contro un uomo avanzi,
quando lo inviano i Numi; ma quello che vuole il Destino,
nessun augurio[14] può schermir, nessuna offerta.
Chi l’arte di Peòne[15], maestro di farmachi, apprese,
è medico; e pur egli non va mai sul sicuro;
sovente si sviluppa da piccola doglia un gran male,
né veruno[16] curarlo può coi farmachi blandi;
ed uno ch’è gravato da pena d’orribile morbo,
basta su lui la mano porre, ed eccolo sano.
Reca la Parca ai mortali malanni commisti a fortune,
né può l’uomo schivare ciò che mandano i Numi.
In ogni opera a tutti sovrasta pericolo: e niuno
sin da principio sa quale sarà la fine.
(traduzione di Ettore Romagnoli)




[1] Solone di Atene fu un grande legislatore, che credeva in quello che faceva, e ciò che ci è giunto sotto il suo nome ci è giunto testimonia della sua volontà di trasmettere ai suoi concittadini le sue idee e la saggezza acquisita nella sua attività politica, l'ispirazione morale delle sue riforme.

Solone nacque ad Atene nel 640 da una famiglia aristocratica. Si era già segnalato come poeta con una celebre elegia per la conquista di Salamina intorno al 600, quando fu nominato arconte con poteri straordinari nel 594: gli aristocratici al potere ebbero la paura di perdere il potere per cui nominarono lui. Solone respinse la richiesta popolare di una ridistribuzione delle terre, ma sancì retroattivamente l'abolizione delle ipoteche sui terreni dei contadini e decretò l'illegalità della schiavitù per debiti. I suoi provvedimenti (legge sull'eredità, riforma monetaria, legge sulla tutela statale degli orfani ecc.) fornì la base costituzionale alla repubblica ateniese.

La sua opera poetica è il primo documento letterario di Atene. Restano frammenti di elegie politiche e morali (intera ci è giunta la cosiddetta Elegia alle Muse, una specie di repertorio delle sue idee).
Solone è poeta della giustizia: su questa divinità fonda il benessere e la pace sociale della città; basa la convivenza sulla legge. Le sue idee, familiari fin dall'infanzia a tutti gli ateniesi, furono alla base della grandezza civile di Atene.
[2] Nella mitologia greca, Mnemosine (dea della memoria) è figlia di Gea, dea della terra, e di Urano, il cielo stellato.
Il mito vuole che all’inizio fosse solo il caos, una massa enorme e confusa che comprendeva in sé tutti gli elementi, senza ordine né distinzione. Dal Caos nacque, un giorno, Gea, la Terra ed essa generò l’Erebo (la notte), l’Etere (il giorno), Urano (il cielo stellato), l’Oceano e i Monti.
Unendosi poi con Urano, Gea diede vita a Mnemosine, dea della Memoria, di cui si invaghì Zeus.
Il re dell’Olimpo si intrattenne con Mnemosine per nove notti, generandone le nove Muse, protettrici delle arti. Attribuire carattere divino alla figurazione astratta della memoria distingue la concezione greca di memoria da quella di altre civiltà antiche. La presenza di un Dio a sovrintendere alla memoria, significa ed implica la consapevolezza della funzione fondamentale del ricordare come fattore di cultura e garanzia della storia dell’uomo che è posta sotto il volere della divinità.
[3] lett. Della Pieria, regione della Grecia, o del monte Pierio, sacro ad Apollo e alle Muse
[4] innumerevoli
[5] farro
[6] lett. Castigo, pena || pagare il fio, subire la giusta punizione
[7] Lamento provocato da sofferenza
[8] Illudiamo da lusingarsi
[9] servo
[10] In abbondanza
[11] Nave || per sineddoche
[12] Sta per elargirono
[13] Apollo
[14] profezia
[15] Mitico medico degli dei
[16] Pron. e agg. Indefinito|| Alcuno, nessuno

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