Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

lunedì 12 settembre 2016

L'età romana I MODULO VII Unità

 T Cesare attraversa il Rubicone
Dalla Vita di Cesare di Svetonio
Quando raggiunse le coorti presso il fiume Rubicone, che segnava il confine della sua provincia, Cesare si fermò per un po', e riflettendo su quanto stesse facendo rivolto ai più vicini disse: "Possiamo ancora tornare indietro; perché se attraverseremo il ponticello, tutto ciò che faremo dovrà esser fatto con le armi. Mentre esitava accadde tale prodigio. Un uomo di straordinaria forma fisica e bellezza apparve all’improvviso seduto poco distante, mentre suonava il flauto: per ascoltarlo erano arrivati oltre i pastori anche moltissimi soldati dai posti di guardia e tra quelli anche dei trombettieri, e presa la tromba ad uno di questi si precipitò al fiume andò verso l’altra vira. Allora Cesare disse: "Andiamo dove ci chiamano i segnali degli dei e l'avversità dei nemici. Il dado è tratto."
Fatta passare così la sua armata, prese con sé i tribuni della plebe che, scacciati da Roma, gli si erano fatti incontro, si presentò davanti all'assemblea dei soldati e invocò la loro fedeltà con le lacrime agli occhi e la veste strappata sul petto. Si crede perfino che abbia promesso a ciascuno il censo di cavaliere, ma si trattò di un equivoco. Infatti, nel corso della sua arringa e delle sue esortazioni, egli mostrò molto spesso il dito della mano sinistra dicendo che di buon grado si sarebbe tolto anche l'anello per ricompensare tutti coloro che avessero contribuito alla difesa del suo onore. I soldati dell'ultima fila, per i quali era più facile vedere che sentire l'oratore, fraintesero le parole che credevano di interpretare attraverso i gesti e si sparse la voce che avesse promesso a ciascuno il diritto di portare l'anello e di possedere i quattrocentomila sesterzi.

Cesare attraversa il Rubicone
Dalla Vita di Cesare di Plutarco
Giunse al fiume che segna il confine tra la Gallia Cisalpina e il resto d’Italia (viene chiamato Rubicone). strinse un pò il morso ai cavalli rallentan­do la corsa e cominciò a riflettere: più si avvicinava il momento decisivo, più lo turbava l'audacia di ciò che stava per compiere. Si fermò e nel notturno silenzio, tutto raccol­to in se stesso, esaminò i vantaggi e gl'inconvenienti di quel­l'impresa. Più di una volta mutò parere, valutando con gli amici presenti - tra i quali c'era anche Asinio Pollione- da un lato i mali che l'attraversamento di quel fiume avrebbe causato a tutti, dall'altro la fama che un tale gesto avrebbe lasciato ai posteri. Alla fine, messa da parte la ragione, si gettò d'istinto verso il futuro, e come dice solitamente chi si accinge ad un'impresa ardimentosa e difficile esclamò: «Sia gettato il dado!». Così prese ad attraversare il fiume e poi di corsa, prima che spuntasse il giorno, si buttò su Rimini e la conquistò.

T La sconfitta delle truppe pompeiane
Siamo alle fasi decisive della battaglia. Compare la figura di Cesare bellicoso, instancabile nell’incitare i suoi e nell’assisterli da vicino esaltando la loro crudeltà. In tale atteggiamento si percepisce un compiacimento della strage che probabilmente era estraneo a Cesare personaggio storico. Si compiace anche della morte di Domizio, che aveva perdonato una prima volta: anche in questo c’è probabilmente un’esagerazione della ferocia del condottiero, o per lo meno un’enfasi conferita alla sua crudeltà, che lascia in ombra altri aspetti della personalità del generale. Negli ultimi versi del brano, il narratore con l’uso consueto dell’apostrofe lamenta la sfortuna delle generazioni posteriori a Farsalo, a cui non fu più concesso di tentare con le armi la riconquista della libertà.

Si era giunti al centro dell’esercito di Pompeo e al nerbo[1];
qui la guerra che aveva invaso di truppe sbandate tutta la campagna,
si fermò, e restò incerta la fortuna di Cesare.
Là non combattono gli ausiliari forniti dai re,
non impugnano il ferro mani pregate,
in quel luogo stanno fratelli e padri;
qui stanno rabbia e follia, i tuoi crimini, Cesare.
Fuggi, anima mia, questa parte e lasciala avvolta
nel buio, e nessun’epoca apprenda dal mio canto di tanti mali
quale enormità sia lecita nelle guerre civili[2].
Si perdano piuttosto lamenti e lacrime.
Tacerò quello che hai fatto, Roma, in quella battaglia[3].
Cesare, follia dei popoli, impulso al furore,
va tra le schiere perché non si perda neanche in minima parte
il suo crimine e aggiunge fuoco agli animi ardenti;
osserva anche le spade, quali grondano tutte di sangue,
quali brillano di sangue soltanto in cima,
quale mano trema nello stringerla, chi ha armi torpide
e chi le ha tese, chi combatte solo per obbedienza
e chi per piacere, chi cambia volto alla morte
di un concittadino; si accosta ai cadaveri sparsi
nei vasti campi; di persona richiude le ferite a molti
che avrebbero riversato tutto il sangue[4]. Dovunque
va, come Bellona che scuote la frusta cruenta,
o Marte che spinge i Traci, spronando con dure sferzate
i cavalli turbati dall’egida di Minerva[5],
è la notte fonda del crimine: nascono stragi
e come il lamento di una voce grandissima,
risuonano le armi di chi cade a terra, spade spezzate da spade.
Lui stesso porge le spade, distribuisce le frecce, ordina
di sfigurare i volti dei nemici col ferro,
lui stesso fa avanzare e spinge alle spalle le schiere dei suoi,
colpendo con l’impugnatura dell’asta quelli che indugiano.
Vieta di infierire sulla plebe e mostra il senato:
sa dov’è il sangue dell’impero, le viscere
del potere, da dove può attaccare Roma e dove resta
da ferire la libertà estrema del mondo.
Mescolata ai cavalieri la nobiltà veneranda
viene attaccata con le armi; uccidono i Lepidi,
i Metelli, i Corvini, i Torquati, nomi illustri e sovente
capi di grandi imprese, tolto te, Pompeo, i più grandi[6].
Là, col volto coperto da una visiera plebea,
ignoto al nemico, Bruto, quale ferro impugnavi![7]
Gloria dell’impero, speranza ultima del senato,
estremo nome di una stirpe illustre nei secoli, guardati
dal gettarti in mezzo ai nemici con troppo ardire,
non avvicinare prima del tempo Filippi fatale,
comunque morrai nella tua Tessaglia[8]. Non c’è alcun vantaggio
a mirare oggi alla gola di Cesare, che ancora non ha raggiunto
il potere supremo[9] né, superata la vetta del limite umano, che tutto controlla,
ha meritato dai fati una così nobile morte:
viva e regni per cadere vittima di Bruto[10]. Qui muore
ogni onore della nostra patria, giacciono in un grande tumulo
sui campi cadaveri di patrizi non mescolati alla plebe.
Pure spiccò in tanta strage di uomini illustri
la morte del bellicoso Domizio, che il destino guidava
per tutte le sventure[11]; non soccombette mai senza di lui la fortuna
di Pompeo[12]; tante volte sconfitto da Cesare, muore
salvando la sua libertà, cade lieto tra mille ferite
e gode di non avere un secondo perdono.
Lo vide Cesare che versava la vita in un bagno di sangue
e lo provocò: “Abbandoni le armi di Pompeo,
Domizio, mio successore[13], le guerre si fanno
ormai senza di te”. Ma a Domizio bastò il respiro
che gli pulsava nel petto e aprì la bocca morente per dire:
“Vedendo che ancora non hai raggiunto il compenso funesto dei tuoi delitti,
che il tuo fato è incerto e sei ancora inferiore a tuo genero,
sotto gli ordini di Pompeo vado alle ombre di Stige
sicuro e libero. Morendo, posso sperare
che tu sconfitto in una battaglia crudele
pagherai il fio a noi e a Pompeo[14]”. E non disse altro,
la vita fuggì e fitte tenebre gli rovesciarono gli occhi.
Nella morte universale, sarebbe vergogna piangere
le morti infinite[15] e seguendo i destini singoli
cercare a chi la ferita mortale ha trafitto le viscere,
chi ha calpestato i suoi organi riversi al suolo,
chi morendo respinse col respiro la spada
dalla gola dove fu piantata[16], chi precipitò a terra al primo colpo,
chi rimase in piedi mentre le membra cadevano,
chi fu trafitto nel petto o inchiodato al suolo
da una lancia, quale sangue sprizzò in aria
dalle vene rotte e ricadde sulle armi nemiche,
chi ferì il petto del fratello e tagliò il capo gettandolo
via lontano per poter depredare il cadavere noto,
chi straziò il volto del padre dimostrando a chi guardava
con l’enorme collera che non era suo padre[17].
Nessuna morte può avere il suo compianto,
non si può piangere nessun uomo[18].
Farsalia non ebbe lo stesso ruolo delle altre battaglie[19];
là Roma subiva la morte di uomini e qui di popoli,
quella che prima era la morte di un soldato, adesso
lo è di una stirpe; là scorse sangue pontico, acheo, assiro:
adesso il torrente di sangue romano
impedisce che gli altri sangui ristagnino nella pianura[20].
Da questa battaglia i popoli ricevono una ferita
troppo grande perché questa generazione la regga; è più che la vita
e la salvezza ciò che si perde; siamo abbattuti per tutto il tempo[21],
da queste spade è vinta ogni età e consegnata alla schiavitù[22].
Che hanno fatto i nipoti, i posteri per nascere in un regno?
Abbiamo forse combattuto da vili, proteggendo le nostre gole?[23]
La pena della viltà altrui pesa sul nostro capo.
Se hai dato un padrone, Fortuna, ai nati dopo Farsalo,
dovevi dar loro anche la guerra[24].

La morte di Cesare
Dalla Vita di Cesare di Plutarco
E Artemidoro, cnidio di nascita, maestro di eloquenza greca e divenuto per questo familiare ad alcuni degli amici di Bruto, tanto da conoscere anche gran parte delle cose che si stavano preparando, giunse portando in un biglietto le cose che appunto intendeva denunciare: ma vedendo che Cesare riceveva ciascuno dei biglietti e li passava ai segretari che gli stavano vicino, accostatosi molto vicino "Questo - disse - Cesare, leggilo da solo e subito; infatti c'è scritto (qualcosa) riguardo a faccende importanti e che ti riguardano." Cesare dunque avendo ricevuto (il foglio), fu impedito dal leggerlo, pur avendo iniziato molte volte, dalla calca di quelli che gli andavano incontro per supplicarlo, ma giunse in senato tenendolo in mano e conservando solo quello.
Alcuni invece sostengono che un altro (gli) diede quel foglio, e che Artemidoro neppure si avvicinò del tutto, ma fu spinto via in tutto il percorso. Ma questi fatti, dopo tutto, talvolta li determina anche la casualità; invece il luogo che accolse quell'assassinio e l'attentato, (luogo) nel quale allora si radunò il senato, (luogo) che aveva collocata una statua di Pompeo e che costituiva un edificio di Pompeo tra quelli costruiti a ornamento per il teatro, indicava assolutamente che il fatto si verificò perché una divinità condussee richiamò lì l'azione. E infatti si dice appunto anche che Cassio, prima dell'attentato, guardando verso la statua di Pompeo la invocò in silenzio, pur non essendo estraneo alle teorie di Epicuro: mala circostanza, come sembra, essendo già vicino il terribile momento in fondeva esaltazione ed emozione in luogo delle precedenti opinioni filosofiche.
Antonio dunque, che era fedele a Cesare e robusto, lo tratteneva fuori Bruto Albino, avendo iniziato intenzionalmente una discussione che tirava per le lunghe; e mentre entrava Cesare il senato si alzò facendo atto di riverenza, e tra i complici di Bruto alcuni si disposero dietro il suo seggio, altri invece si fecero incontro proprio come se intendessero rivolgergli una supplica assieme a Tillio Cimbro che lo supplicava per il fratello esule, e parteciparono insieme alla supplica accompagnandolo fino al seggio. Ma poiché, sedutosi,respingeva le richieste e, siccome insistevano più decisamente, era arrabbiato con ciascuno (di loro), Tillio afferrando la sua toga con entrambe le mani la tirò giù dal collo, il che era il segnale convenuto dell'attentato. E per primo Casca lo colpisce con una spada vicino al collo (procurandogli) una ferita non mortale né profonda, ma, come è naturale, emozionato all'inizio di una importante azione temeraria, tanto che anche Cesare, voltatosi, afferrò il pugnale e lo trattenne. E nello stesso tempo gridarono in qualche modo, il ferito in latino: "Disgraziatissimo Casca, che cosa fai?" e colui che lo aveva ferito, in greco, rivolto al fratello: "Fratello, aiuta(mi)."
E tale essendo stato l'inizio, quelli che per nulla erano consapevoli li prese spavento e terrore di fronte alle cose che accadevano, tanto che non osavano né fuggire, né difenderlo, ma neppure pronunciare una parola. Ma siccome di quelli che erano preparati all'assassinio ciascuno mostrava la spada sguainata, circondato intorno, e verso qualsiasi cosa rivolgesse lo sguardo, imbattendosi in ferite e in armi puntate sia contro il volto sia contro gli occhi, cercando di allontanarsi come una fiera era avvolto dalle mani di tutti; tutti quanti infatti bisognava che compissero e assaggiassero l'assassinio. Perciò anche Bruto gli inferse un unico colpo nell'inguine. E da parte di alcuni si dice che allora difendendosi dagli altri e spostandosi qua e là e gridando, quando vide Bruto che aveva sguainato la spada, tirò la toga sulla testa e si lasciò cadere, sia per caso, sia spinto da coloro che lo uccidevano, presso la base su cui è collocatala statua di Pompeo. E l'assassinio la insanguinò
abbondantemente, tanto da sembrare che lo stesso Pompeo presiedesse alla vendetta sul nemico, steso sotto i (suoi) piedi e agonizzante per il gran numero delle ferite. Si dice infatti che ne abbia ricevute ventitré, e molti furono feriti gli uni dagli altri, dirigendo tanti colpi contro un solo corpo.



L’età romana (146 – 31) – Il periodo dagli anni delle riforme dei Gracchi fino ai primi imperi personalistici di Mario e di Silla, arrivando a toccare l’inizio del consolato di Pompeo, ruota essenzialmente attorno agli eventi interni, poiché le guerre contro i nemici esterni hanno un’importanza marginale.
Roma fu impegnata in un gigantesco sforzo di riassestamento organizzativo, conseguenza dei profondi mutamenti sociali e strutturali introdotti dall’ampliamento territoriale dei decenni precedenti.
Nel II secolo Roma da semplice città-stato si trasforma in Impero a livello territoriale, economico, giuridico e politico. Furono anni segnati dalla lotta per il potere tra due opposte fazioni politiche: quella oligarchica senatoria e quella popolare.
In questo periodo, si assiste al declino dell’oligarchia senatoria e all’affermazione progressiva di poteri personalistici ad essa antagonistici.
Le trasformazioni interne e esterne hanno determinato esigenze profondamente nuove nella gestione dello Stato.
Il Senato tenta in qualche modo di ‘aggiornarsi’ rispetto alla nuova situazione, per arginare il dilagare delle forze antagonistiche e rimanere quindi l’istituzione centrale, ma appare evidente l’impossibilità di tale cambiamento. Esso, infatti, finirebbe per snaturare la sostanza stessa di un’istituzione che si basa sul principio di eguaglianza tra pari e sul dominio, esercitato da questi nei confronti della società.
Roma che per sei secoli era stata governata dal Senato, dal 110 a.C. passa nelle mani di uomini ambiziosi. Inizia Caio Mario che per quasi dieci anni esercita un potere assoluto.
Dopo di lui è la volta di Silla, che governa lo Stato fino al 78 a.C. Le sue riforme, miranti a rafforzare il potere del Senato contro il partito popolare, furono poi annullate nel 70 dai consoli Pompeo e Crasso. Entrambi avevano interesse a ottenere i voti dei plebei, perciò ripristinarono molte leggi in loro favore.
Approfittando delle guerre interne ed esterne di Roma, bande di pirati si erano stabilite sulle coste di Creta e dell’Asia Minore. Infestavano il Mediterraneo con vere e proprie flotte da guerra e procuravano danni gravissimi ai commerci di Roma. Nel 67 il Senato affida a Pompeo il compito di reprimere la pirateria. Dotato di mezzi enormi e di poteri straordinari, in soli tre mesi il generale romano spazza via i pirati e distrugge le loro basi. Diventa così l’uomo più potente di Roma.

La crisi della Repubblica - Dopo le guerre puniche e la conquista della Grecia e dell’Oriente, a Roma avvennero profondi cambiamenti.
La diffusione della cultura ellenistica (molti artisti greci si stabilirono a Roma, mentre i ricchi romani trascorrevano sempre più tempo in Grecia e in Oriente) mandò in crisi i valori dei princìpi romani.

Dalla crisi economica e sociale alla riforma dei Gracchi - L'incontro con la cultura ellenistica, determinato dall'estensione dei domini romani sulla Grecia, la Macedonia e parte dell'Asia Minore, fece sì che in Roma si formassero due correnti: quella conservatrice di Marco Porcio Catone, che predicava il ritorno agli antichi costumi e valori romani, e quella innovatrice del circolo degli Scipioni che, pur non rinnegando la tradizione latina, vedeva di buon occhio la cultura greca alla quale cercò di adattare il proprio patrimonio di conoscenze.
La classe dirigente dei senatori aveva consolidato il suo potere durante le guerre, mentre le classi medie si erano impoverite. Era poi emersa, in campo finanziario, la classe dei cavalieri (ordine equestre) che reclamava i propri diritti di fronte al senato. La grande ricchezza che affluiva dalle regioni conquistate permise ai ricchi di comprare territori dell'ager publicus cioè confiscati ai vinti e appartenenti allo Stato. Si diffusero il latifondo e la schiavitù (anch'essa conseguente alle guerre); molti piccoli proprietari, impoveriti, si trasferirono a Roma in cerca di miglior fortuna.
Un primo tentativo di riforma fu attuato da Tiberio Gracco, un patrizio eletto tribuno della plebe nel 133. La sua proposta di riportare in vigore la legge che vietava di possedere più di 125 ettari di terreno pubblico e di ridistribuire quindi le parti in eccesso, fu avversata dall'aristocrazia senatoria. Tiberio, ripropostosi alla carica di tribuno, fu ucciso in un tumulto e i suoi seguaci condannati a morte. Di ciò risentirono anche gli Italici, che si vedevano tolti i loro territori e che, non essendo cittadini romani, non avevano diritto alle nuove distribuzioni. Molti di loro si ribellarono ma furono puniti duramente.
Nel 123 fu eletto tribuno Caio Gracco, fratello minore di Tiberio, promotore di riforme ancor più radicali. Innanzitutto cercò l'appoggio della classe equestre, facendo in modo che i cavalieri fossero in numero maggiore dei senatori nei tribunali che giudicavano i reati di concussione. Per ottenere il favore della plebe, promosse la fondazione di nuove colonie e propose una Lex frumentaria che dava diritto ai cittadini meno abbienti di ricevere grano a prezzo ridotto. Eletto tribuno una seconda volta, chiese la concessione della cittadinanza agli Italici. I senatori, contrari, si servirono del tribuno Livio Druso per contrastarlo.
Druso propose riforme demagogiche (abolizione del canone d'affitto delle terre per i piccoli proprietari, fondazione di nuove colonie) che offuscarono la popolarità di Caio. In un clima di tensione e di conflitti interni, nel 121, il senato approvò il Senatus consultum ultimum, un provvedimento che conferiva ai consoli, tra cui Lucio Opimio avversario di Caio, i pieni poteri perché provvedessero alla salvezza dello Stato con qualsiasi mezzo. Caio, sentendosi ormai sconfitto, si fece uccidere da uno schiavo, mentre i suoi seguaci (circa 3000) furono massacrati.

Dalla Guerra giugurtina all’ascesa di Mario - Sconfitti i Gracchi, l’oligarchia senatoria, cercando il favore dei cavalieri e quello del popolo attraverso piccole concessioni, guadagnò prestigio.
Fra il 125 e il 118 Roma ridusse a provincia la Gallia meridionale. Poco dopo dovette intervenire in Africa, in Numidia dove Giugurta aveva massacrato Romani e Italici residenti a Cirta e aveva usurpato il trono di Aderbale, il quale aveva chiesto l'aiuto romano.
Nel 111 iniziò la guerra che si protrasse fino al 107, quando il comando fu affidato a Caio Mario, affiancato dal questore Cornelio Silla. Quest'ultimo riuscì a farsi consegnare Giugurta, che fu giustiziato. Al termine del conflitto tutti gli onori furono tributati a Mario che fu rieletto console, mentre Silla mal tollerò di non essere stato considerato.
Il potere di Mario fu consolidato in seguito alla riforma dell'esercito in cui ammise anche volontari nullatenenti ai quali assegnò una paga. Con questo esercito ben addestrato e con nuove tattiche di guerra, Mario, eletto console dal 103 al 100, sconfisse i Cimbri e i Teutoni, popolazioni germaniche che insidiavano i confini settentrionali. Nell'anno 100 il tribuno della plebe Lucio Apuleio Saturnino, affiancato dal pretore Gaio Servilio Glaucia, fece approvare una legge che assegnava ai veterani dell'esercito di Mario alcune terre della Gallia Cisalpina. Il senato, contrariato, concesse pieni poteri a Mario per liberarsi dei due politici. Egli li fece uccidere e ciò irritò il partito dei popolari.
Mario lasciò la vita politica e si recò in Asia.

La questione italica e le guerre sociali – Il partito degli ottimati governò da allora incontrastato per una decina d'anni.
Nel 91 ottenne il tribunato Livio Druso, figlio del precedente. Le sue proposte (promozione di alcuni cavalieri a senatori e concessione della cittadinanza agli Italici) provocarono l'ostilità del senato che lo fece uccidere.
Dopo questo fatto i soci (da cui il nome Guerra sociale) Italici si ribellarono per ottenere l'indipendenza da Roma. Molte popolazioni, guidate dai Marsi e dai Sanniti, crearono uno stato federale italico con capitale Corfinio che fu detta Italica. I Romani richiamarono Mario per combattere contro i Marsi, mentre le altre operazioni furono condotte da Pompeo Strabone e Cornelio Silla, eletto console nell'88 a.C. Quando Roma decise di concedere la cittadinanza a coloro che non si erano ribellati o avessero deposto le armi, la lotta si affievolì ma l'esercito romano piegò definitivamente la resistenza dei Sanniti solo nell'80.
Nel frattempo, il re del Ponto Mitridate si preparava a guidare alla ribellione tutti gli stati greci e asiatici soggetti a Roma. Il senato decise di inviare in Asia Silla. Nello stesso tempo, il tribuno Sulpicio Rufo, che proponeva di dividere gli Italici nelle 35 tribù già esistenti e non di crearne delle nuove, fece votare questa proposta, insieme a quella di mandare Mario in Asia, da senatori e cavalieri, i quali, non gradendo Silla, le approvarono entrambe. Silla, contrariato, dopo aver sconfitto i seguaci di Mario (che fuggì), marciò su Roma impadronendosene.
Nell'87 ottenne di nuovo il comando delle truppe dirette in Oriente. In Grecia saccheggiò ed espugnò Atene alleata di Mitridate. Mario, aiutato dal console Lucio Cornelio Cinna, a capo di un esercito entrò in Roma massacrando i nemici del partito popolare. Un anno dopo, nell'86 a.C. morì.
Silla, in Asia, vinse Mitridate e, nell'83, tornò in Italia. Con l'aiuto di Gneo Pompeo, combatté i seguaci di Mario e gli Italici, sconfiggendoli entrambi. Si fece quindi nominare dittatore e iniziò una serie di feroci repressioni a danno di tutti gli avversari. Confiscò diverse terre che andarono ai suoi soldati e si arricchì a spese dei perseguitati. In politica interna restaurò il potere del senato, limitò quello dei tribuni e dei cavalieri. Infine, nella sorpresa generale, abdicò alla dittatura e si ritirò a Pozzuoli dove morì nel 78.
Alla sua morte le forze più tradizionali ripresero il potere detennero il predominio politico in Roma, mantenendo intatti i cambiamenti portati da Silla all’assetto istituzionale e cercando di estirpare i germi rivoluzionari antioligarchici.
Questo Fino al 70, anno del consolato di Crasso e di Pompeo.

L’ascesa di Pompeo Il giovane Gneo Pompeo, già ufficiale di Silla, si mise in evidenza attraverso tre imprese. Nel 77 ebbe ragione di Marco Emilio Lepido che, nell'Etruria e nella Cisalpina, aveva tentato di abolire la costituzione sillana. In Spagna, nel 72, domò l'insurrezione dei Lusitani guidata da Quinto Sertorio. In Italia, pose fine a una rivolta di schiavi guidata dal trace Spartaco nel 73, e già affrontata dal generale Marco Licinio Crasso. Insieme a questo fu eletto console nel 70; allo scopo di diminuire l'attività del senato, i due restituirono l'autorità ai tribuni e il controllo dei processi ai cavalieri. Un altro uomo stava emergendo, Marco Tullio Cicerone, l'oratore che era riuscito a far condannare, per le molte ruberie, Verre, ex governatore della Sicilia. Nel 67 Pompeo, al comando di una potente flotta, vinse i pirati che spadroneggiavano nel Mediterraneo. Nel 66 Mitridate, il re del Ponto, tentò una nuova offensiva contro Roma. Pompeo fu mandato in Oriente e, dopo il suicidio del re, conquistò la regione, fece della Siria e della Giudea due provincie romane e sottomise l'Armenia e la Bitinia.

Il primo Triumvirato Nel frattempo a Roma il partito dei popolari appoggiava Gaio Giulio Cesare, un aristocratico simpatizzante di Mario.
Un altro personaggio raccoglieva seguaci, promettendo l'allargamento della cittadinanza, la cancellazione dei debiti e la distribuzione di nuove terre, il sillano Lucio Sergio Catilina. Sconfitto da Cicerone nell'ascesa al consolato nel 63 a.C., ordì una congiura. Cicerone lo smascherò in una seduta senatoria (le famose 4 orazioni Catilinarie), costringendolo a fuggire in Etruria dove poco dopo fu sconfitto e ucciso in battaglia. Rientrato dall'Oriente, Pompeo sciolse l'esercito e rinunciò a instaurare una dittatura; contestato dal senato per l'ordinamento dato all'Asia, si alleò con Cesare e Crasso formando il primo Triumvirato.

La conquista della Gallia - Il carattere di questo accordo fu soltanto privato, non istituzionale. Cesare ottenne il consolato nel 59 e fece approvare la distribuzione di terre ai veterani di Pompeo.
Nel 58 Cesare ottenne il governo della Gallia Cisalpina e Narbonese. Arrivato in Gallia, costrinse gli Elvezi a rinunciare alla Gallia Narbonese e poi affrontò e ricacciò indietro il principe germanico Ariovisto al protettorato sugli Edui.
Da allora in poi Cesare non arresta più la sua marcia, dirigendosi dapprima verso il Nord della Gallia, poi verso la sua parte occidentale.
Nel 57, sconfitti anche Belgi e Aquitani, riorganizzò l’intera Gallia in una nuova provincia.
Nel giro di appena due anni riesce a occuparla completamente fino al Reno.
Nel frattempo a Roma la vita politica si faceva sempre più confusa e violenta: i capi delle fazioni dei popolari e degli aristocratici organizzano bande armate, e con esse si scontrano per le strade con gli avversari politici, provocando sanguinosi disordini.
Nel convegno di Lucca del 56, Cesare, Pompeo e Grasso si incontrarono una seconda volta, per rinnovare i loro accordi e dividersi le province: Cesare si assicurò il comando in Gallia per un altro quinquennio, Pompeo si riservò la Spagna e Crasso, anch’egli desideroso di procurarsi la gloria militare come i suoi colleghi, scelse la Siria, e diede inizio alla conquista del regno dei Parti, che sbaragliarono l’esercito romano a Cana, in Siria nel 53 e Crasso fu ucciso.
Rientrato in Gallia, Cesare ricacciò al di là del Reno alcune tribù germaniche che avevano tentato di valicarlo, e per due volte sbarcò in Britannia, senza però soffermarsi sull’isola, costretto a rientrare in Gallia per sedare la rivolta di Vercingetorige, re degli Arverni. Nel 52 Vercingetorige si era messo a capo di una grande rivolta contro Roma. In breve tempo molte tribù celtiche si unirono a lui. Cesare deve ricorrere a tutta la sua abilità per domare l’insurrezione. Vercingetorige fu infine sconfitto nel 51 ad Alesia, e Cesare riuscì a pacificare l’intera Gallia nel 50, trasformandola in provincia, che assorbì rapidamente la civiltà romana. Cesare potette così celebrare un grandioso trionfo.

La guerra civile e la morte di Cesare Cesare rimase in Gallia fino al 49, quando il senato inviò un ultimatum con l'imposizione di abbandonare la provincia. Varcato il Rubicone (il fiume che divideva la Cisalpina dall'Italia), Cesare marciò verso Roma.
Era l'inizio della guerra civile. Pompeo, con il senato, fuggì in Oriente cercando di organizzare l'esercito. Lo scontro decisivo avvenne a Farsalo, in Tessaglia nel 48. Cesare ebbe la meglio: Pompeo si rifugiò in Egitto presso Tolomeo XIV, il quale, per ottenere il favore di Cesare, lo fece uccidere a tradimento.
Giunto in Egitto, Cesare affidò il trono a Cleopatra, sorella di Tolomeo, della quale era divenuto l'amante. Nel 47 sconfisse Farnace, figlio di Mitridate; in Africa e in Spagna vinse definitivamente la resistenza dei pompeiani fra il 46 e il 45.
Tornato a Roma, ormai senza rivali, si dedicò a una serie di riforme economiche e sociali. Console dal 48 in poi, nel 46 fu nominato dittatore per dieci anni e, all'inizio del 44, dittatore a vita. Tale somma di poteri provocò il risentimento di uomini del suo partito.
Alle Idi di marzo del 44, durante una riunione del senato, fu ucciso in una congiura dai repubblicani Bruto e Cassio.

Esordio e ascesa di Ottaviano – La successione a Cesare fu contesa da Antonio, generale di Cesare, e Ottaviano, un giovane adottato da Cesare col nome di Gaio Giulio Cesare Ottaviano.
Dapprima Ottaviano cercò di affrontare il rivale ma, accortosi dell’opposizione del senato, fattosi nominare console, si alleò con lui.
Per liberarsi del controllo del Senato, Marco Antonio, capo dei sostenitori di Cesare, propose un’alleanza a Lepido, comandante delle legioni della Gallia, e ad Ottaviano, pronipote di Cesare che, nel suo testamento, Cesare aveva nominato erede.
Nel 43 nacque così il secondo Triumvirato, composto da Ottaviano, Antonio e Lepido, che ebbe il compito di elaborare una nuova costituzione.
Tutti i rivali di Cesare entrarono nelle liste di proscrizione. Nel 42 le truppe dei tre sconfissero a Filippi, in Macedonia, l’esercito di Bruto e degli altri uccisori di Cesare.
I tre triumviri si spartirono l’Impero: Antonio ebbe la Gallia e l’Oriente, Lepido l’Africa Ottaviano, pur restando in Italia, la Spagna.
In seguito allo scontro tra Ottaviano e i seguaci di Antonio rimasti in Italia, fu stretto un nuovo accordo a Brindisi nel 40 a.C., secondo il quale Antonio rinunciava alla Gallia. Lepido, che aveva aiutato Ottaviano a togliere a Sesto Pompeo (figlio di Gneo) la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, pretese per sé la Sicilia.
Ottaviano, contrariato, gli tolse l’Africa e lo espulse dal Triumvirato lasciandogli soltanto la carica di Pontefice Massimo.

Ottaviano e Antonio - Ottaviano diventò il padrone dell’Occidente ed Antonio dell’Oriente. Antonio, si stabilì nelle province orientali, dove si innamorò della regina Cleopatra, che gli mise a disposizione le immense ricchezze del suo regno, dividendo con lui il potere. Nel 37 Antonio la sposò, dimenticando il legame con Ottavia, sorella di Ottaviano, e cominciò a farsi adorare come un dio, secondo il modello orientale.
Ciò indignò Ottaviano, difensore degli austeri valori romani, e, rinfacciando al rivale gli insuccessi contro i Parti, indusse il senato a privare Antonio della sua carica e a dichiarare guerra all’Egitto.
Ottaviano approfittò astutamente dei sospetti che i Romani nutrivano contro Cleopatra, regina straniera, e riuscì a far credere che Antonio fosse diventato un nemico di Roma.
Si giunse così allo scontro decisivo avvenuto ad Azio, davanti alle coste dell’Epiro, nel 31: la flotta egiziana fu sconfitta dal generale Agrippa, al comando della flotta di Roma, e ciò costrinse Antonio e Cleopatra alla fuga ad Alessandria. I due, per non cadere nelle mani del nemico, preferirono uccidersi alcuni mesi dopo, quando seppero dell’arrivo delle truppe di Ottaviano.
Con il suicidio di Cleopatra, l’unica dei Tolomei che parlasse la lingua egiziana, si concluse la monarchia dei Tolomei e l’ultima fase storica di un Egitto indipendente. Le legioni di Ottaviano invasero l’Egitto così l’ultimo regno ellenistico rimasto indipendente divenne una provincia romana, posta direttamente sotto l’autorità dell’imperatore rappresentato da un prefetto.
Scomparsi gli ultimi avversari in grado di contrastarlo, Ottaviano rimase l’unico padrone di Roma, e si preparò a trasformare la repubblica in un suo dominio personale, in un impero.
Ottaviano, rientrato a Roma nel 29, fu accolto da trionfatore.
Con la vittoria di Ottaviano su Antonio ad Azio, si tirarono le fila della confusa storia tardorepubblicana. All’inevitabile sbocco autoritario sul piano del governo corrispose un tentativo di restaurazione morale e religiosa che mirava a presentare all’opinione pubblica più conservatrice il nuovo ordine in termini di continuità con il vecchio.

Tra Repubblica e Impero: il Principato di Augusto - L’ultimo secolo della Repubblica, percorso da conflitti civili e instabilità politica, aveva messo in evidenza l’inadeguatezza del sistema di governo romano.
Tutti sentivano il bisogno di una pacificazione. La classe dirigente non ammetteva la cancellazione delle istituzioni e considerava la monarchia assoluta come una negazione della libertà.
Ottaviano comprese questa situazione: la solidità del governo di Augusto (titolo ottenuto dal senato) fu determinata dalla larga adesione del popolo al suo programma e dal senso di riconoscenza per l’instaurazione della pace.

Augusto princeps - Dopo la vittoria di Azio contro Antonio, Ottaviano cercò di consolidare il suo potere, evitando atti che potessero farlo sospettare di aspirare al dominio assoluto. Nel gennaio del 27 a.C. il senato gli confermò le funzioni precedenti e gli conferì un potere militare, l’imperium decennale e il governo di un certo numero di province; ricevette inoltre il titolo di Augusto, termine che indicava l’autorità quasi sacra, sottolineandone la dignità) e onorificenze simboliche.
Dal 31 al 23 a.C. fu ininterrottamente console, non potendo avere il consolato a vita, si fece assegnare, nel 23 a.C., un nuovo tipo di imperium, detto imperium proconsulare maius et infinitum. In particolare questo potere fu conferito dal Senato ad Augusto insieme alla tribunicia potestas a vita.
Si trattava di un imperium maius perché era superiore a quello di tutti gli altri proconsoli, e infinitum in senso spaziale e temporale, perché non limitato a una sola provincia e non predeterminato nel tempo e sull’esercito, superiore a quello dei proconsoli; la tribunicia potestas, cioè la totalità dei poteri dei tribuni, con diritto di veto e facoltà di proporre e far approvare le leggi che egli stesso, come princeps senatus, capo del senato, aveva il diritto di votare per primo.
Nel 23 a.C. erano dunque poste le basi costituzionali del Principato; altre connotazioni essenziali del nuovo regime prenderanno corpo in seguito, per esempio il pontificato massimo nel 12 a.C. alla morte di Lepido e il titolo di padre della patria, nel 2 a.C.
In campo militare Ottaviano ridusse il numero delle legioni a 28, dalle 60 delle guerre civili, e costituì una guardia personale del principe, la guardia pretoriana, comandata da due prefetti equestri. Il collocamento in congedo dei veterani richiese la fondazione di colonie e l’istituzione di una cassa apposita, l’erario militare (6 d.C.).
In politica estera il principato di Augusto fu il più travagliato da guerre di quanto non lo siano stati quelli della maggior parte dei suoi successori: furono, infatti, coinvolte quasi tutte le frontiere, dall’oceano settentrionale fino alle rive del Ponto, dalle montagne della Cantabria fino al deserto dell’Etiopia, in un piano strategico preordinato che prevedeva il completamento delle conquiste lungo l’intero bacino del Mediterraneo ed in Europa, con lo spostamento dei confini più a nord lungo il Danubio e più ad est lungo l’Elba. Le campagne di Augusto furono effettuate per consolidare le conquiste disorganiche dell’età repubblicana, che rendevano indispensabili numerose annessioni di nuovi territori. Mentre l’Oriente poteva restare più o meno come Antonio e Pompeo lo avevano lasciato, Augusto rafforzò i confini settentrionali dell’Impero con una serie di campagne militari e con l’istituzione di nuove province l’Europa fra il Reno ed il Mar Nero necessitava una nuova riorganizzazione territoriale in modo da garantire una stabilità interna e, contemporaneamente, frontiere più difendibili: il Norico, parte dell’Austria, la Pannonia, attuale Ungheria, la Mesia, (tra il Mar Nero e i Balcani, e la Rezia, Trentino Alto Adige e parte della Svizzera.
Il tentativo di penetrazione della Germania, fino all’Elba, fu interrotto dall’insurrezione di tribù germaniche (9 d.C.) guidate da Arminio. Il confine fu così stabilito al fiume Reno.
In campo amministrativo Augusto riformò
·         il sistema dei servizi (corpi di polizia, riscossione delle imposte, censimenti periodici di tutta la popolazione),
·         l’amministrazione della città di Roma con a capo il prefetto urbano, dell’Italia (ripartita in undici regioni) e delle province (divise in imperiali, ovvero quelle non pacificate e direttamente dipendenti dal principe, e senatorie, sottoposte al governo del senato).
Il senato, pur avendo perso importanza dal punto di vista politico, fu coinvolto nell’amministrazione dell’Impero. Dal senato provenivano
·         i proconsoli, amministratori delle province pubbliche,
·         i comandanti degli eserciti,
·         i curatores addetti alle opere pubbliche
·         il praefectus urbi, il prefetto urbano, che esercitava poteri di polizia.
Solo i senatori più ricchi o i loro figli potevano percorrere la carriera politica, il cursus honorum fino alle cariche più alte, dalla questura al consolato.
Generalmente i consoli, dopo sei mesi o meno, abbandonavano la carica, cedendo il posto a sostituti, i suffecti, garantendo un ricambio che accontentava un gran numero di aspiranti.
Coloro che possedevano almeno 400.000 sesterzi, per diritto di famiglia o per concessione dell’imperatore, potevano aspirare alla carriera equestre. I cavalieri potevano diventare praefecti governatori e amministratori del fisco delle province imperiali. Potevano inoltre aspirare alla carica di prefetto del pretorio, capo della guardia personale del princeps, o alla prefettura in Egitto, provincia considerata dominio personale di Augusto.
I comizi persero tutto il loro potere, limitandosi ad acclamare i candidati scelti dal senato a sua volta influenzato dalle decisioni del princeps.
Augusto creò anche una fitta rete di funzionari con i quali controllava l’attività degli organi repubblicani e governava le province imperiali. Essi erano nominati e dipendevano direttamente da Augusto che dava loro anche una retribuzione, a differenza di quanto avveniva per i magistrati della Repubblica che svolgevano i loro compiti gratuitamente. La carriera dei funzionari prevedeva promozioni per i più meritevoli che potevano anche aspirare a diventare membri del senato.

L’organizzazione del consenso - Ottaviano riuscì a creare attorno a sé un clima di consenso e di riconoscenza per la pace che era finalmente tornata dopo anni di lotte intestine, di persecuzioni tra avversari politici e di instabilità amministrativa.
Tale consenso fu anche frutto di una incisiva attività propagandistica. Augusto si presentò come il restauratore del vecchio ordine, degli antichi valori morali e religiosi.
Tali messaggi furono ampiamente diffusi attraverso tutti i canali della comunicazione allora disponibili (epigrafi, monete, oggetti d’arte e monumenti), oltre che dall’attività del circolo di Mecenate.
Mecenate svolse un ruolo molto importante nell’organizzazione della propaganda politica di Augusto. Egli aveva compreso l’importanza dell’arte e della poesia presso l’opinione pubblica: intorno a lui si raccolsero i principali intellettuali del tempo come Livio, Virgilio, Properzio e Orazio. Mecenate li sosteneva con doni e aiuti finanziari tratti dal suo ingente patrimonio, affinché potessero dedicarsi unicamente alla loro arte. I poeti contraccambiavano celebrando nei loro versi lo stesso Mecenate, Augusto e il suo programma politico. Eppure, il tratto più notevole dei letterati riuniti attorno a Mecenate è che essi mantennero gran parte della loro indipendenza e che nessuno di loro mise direttamente in versi l’epopea di Augusto.
Grazie alla personalità di Mecenate, i suoi amici poeti subirono la sua influenza a loro insaputa: a Mecenate non interessava se essi si rifiutavano di cantare Augusto nei loro versi o se qualche altro grande poeta non faceva parte del suo circolo. L’importante era che in quei versi aleggiasse la restaurazione augustea nella serenità e nell’equilibrio delle passioni con cui i poeti cantavano l’amore, la vita semplice della campagna, l’odio per la guerra, le antiche favole del mito.
Inoltre, Augusto persegue un’azione religiosa che si ispirava agli imperativi nazionali. Ossessionato dall’angoscia della decadenza religiosa dei suoi concittadini e dall’urgenza di rimediarvi, egli dà vita ad una rigida restaurazione religiosa, recuperando le forme più tradizionali del passato, riproponendo il mos maiorum, cioè gli esempi tramandati dagli avi, le virtù di semplicità, di purezza familiare, di incrollabile fermezza, di coraggio, su cui era fondata la grandezza di Roma. Oltre  che dal ritorno ai culti arcaici, Augusto fece restaurare vecchi templi in rovina e riorganizzò i collegi sacerdotali di cui egli stesso fece parte, fu caratterizzata dalla nascita di forme di culto alla persona del principe che, spontanee in Oriente, furono associate in Occidente e in Italia alla dea Roma. Con questo proclamato nazionalismo, la restaurazione religiosa di Augusto combatteva i culti orientali e i loro misteri
Il nuovo equilibrio garantì una ripresa generale della vita civile e dell’economia; furono restaurati vecchi edifici e ne furono costruiti di nuovi per abbellire la città di Roma. Sorsero numerosi templi, basiliche, piazze e portici (il Pantheon, il teatro di Marcello, l’Ara pacis[25]).

La questione della successione - Augusto si preoccupò di assicurare una trasmissione pacifica del suo potere. Egli non avrebbe nemmeno diritto legalmente a designare un successore: sarebbe spettato al senato designare il successore, ma grande importanza avevano ormai acquisito anche i cavalieri e i funzionari imperiali.
A Roma, la soluzione imperiale era quella prevalente perciò non sarebbe dovuto essere difficile per l’Imperatore predisporre la propria successione. Il vero ostacolo a tale impresa fu costituito tuttavia dalle molte guerre, che causeranno la morte di tutti gli eredi putativi di Ottaviano, in particolare i nipoti Marcello, Gaio e Lucio. La loro morte e gli scandali che coinvolsero la figlia Giulia allontanarono e resero sempre meno praticabile la soluzione familiare e dinastica, che egli aveva progettato.
Augusto pensò a una successione ereditaria e, non avendo figli maschi, individuò possibili successori che progressivamente adottò, ma ai quali egli sopravvisse. Fu pertanto indotto ad adottare, nel 5 d.C. Tiberio appartenente alla potente famiglia dei Claudi e figlio di primo letto della seconda moglie Livia e a conferirgli riconoscimenti istituzionali quali la potestà tribunizia e l’imperium proconsulare maius associandolo al governo imperiale e preparandolo ad accogliere la sua eredità.
L’instaurazione nel 14 di un nuovo sovrano, fu segnata subito dall’eliminazione dei molti rivali nella successione al trono. L’Imperatore e la sua corte sono realtà troppo ambite perché vi si rinunci facilmente. Inizia difatti una lotta spietata per la conquista delle cariche più prestigiose dell’Impero, lotta che è segno della nuova temperie assolutistica, che cova sotto l’immagine illusoria dell’antica Repubblica.



[1] Si era giunti… al nerbo: Cesare ha respinto l’avanzata della cavalleria pompeiana ed ha massacrato la fanteria: ora si arriva “al centro dell’esercito di Pompeo e al nerbo” (v. 545),e a questo punto c’è un momento di arresto.
[2] Fuggi… nelle guerre civili: Lucano rivolge un’esortazione alla sua anima perché rifugga l’orrore delle guerre civili.
[3] Tacerò… in quella battaglia: il poeta tacerà le azioni dei Romani, per concentrarsi su quelle di Cesare.
[4] di persona… tutto il sangue: Cesare in persona cura le ferite dei suoi soldati.
[5] Dovunque va… di Minerva: Cesare è paragonato a Bellona, divinità italica della guerra, rappresentata come una Furia, e a Marte, dio della guerra, che si accompagna ai Traci, popolazione molto bellicosa, e sprona i cavalli turbati dall’egida, lo scudo di Minerva, strumento di guerra perché su di essa è fissata la testa della Gorgone Medusa che la dea usa per pietrificare chi la guarda, datale da Perseo.
[6] uccidono… i più grandi: sono i grandi rappresentanti delle casate senatorie romane: i Lepidi, a cui appartiene il cesariano Marco Emilio Lepido, il futuro triumviro, i Metelli, fra i quali Lucio Cecilio Metello, questore in Sicilia, tribuno della plebe nel 49 a.C. oppositore di Cesare, i Corvini, come Marco Valerio Messalla Corvino, che nella battaglia di Filippi combatterà con Bruto e Cassio, e i Torquati, a cui appartiene Manlio Torquato, ex-pretore.
[7] Là, col volto coperto… impugnavi!: Bruto è ritratto sotto l’armatura di un soldato semplice, già nell’atto di impugnare la spada per uccidere Cesare.
[8] non avvicinare… nella tua Tessaglia: la vittoria di Ottaviano e Antonio sui cesaricidi Cassio e Bruto, nel 42 a.C. a Filippi, in Grecia, al confine tra la Macedonia e la Tracia.
[9] Non c’è… il potere supremo: Cesare lo raggiunse nel 45 a.C., quando ottenne la carica di dittatore a vita, che aumentò a dismisura il suo potere su Roma.
[10] ha meritato… di Bruto: la morte per mano di Bruto è ritratta da Lucano come un rito sacrificale.
[11] Pure spiccò… per tutte le sventure: Lucio Domizio Enobarbo, pretore nel 58 a.C. e console nel 54 a.C., trisavolo di Nerone, comandante di Corfinio, ostinato nemico di Cesare, ma protagonista di una serie di imprese sfortunate. Dopo la conquista di Corfinio da parte di Cesare (49 a.C.), tenta di fuggire abbandonando i suoi soldati e poi, scoperto, si arrende a Cesare. A Farsalo comanda una delle ali dell’esercito pompeiano; in realtà trova la morte, ucciso dalla cavalleria di Antonio, mentre tenta la fuga.
[12] non soccombette… di Pompeo: oltre che a Corfinio, Lucio Domizio Enobarbo era presente anche all’assedio di Marsiglia (49 a.C.), dove giunse con una flotta e fu nominato comandante della città. Anche in quel caso era fuggito, e la città si era arresa ai soldati di Cesare.
[13] Domizio, mio successore: Cesare si rivolge ironicamente a Domizio, che nel 49 a.C. era stato nominato dal senato governatore della Gallia al suo posto.
[14] Morendo… a Pompeo: prima di morire, Domizio preannuncia a Cesare il castigo.
[15] Nella morte universale… le morti infinite: nella parte finale del brano (vv. 617-646) Lucano esprime le proprie considerazioni sull’orrore della guerra civile.
[16] chi morendo… dove fu piantata: Lucano allude al celebre episodio della morte di Niso narrato da Virgilio nell’Eneide (IX, 442-443).
[17] chi ferì… suo padre: i vincitori massacrano familiari e amici, a cui tagliano la testa per evitare di ricordare il vincolo di parentela.
[18] Nessuna morte… nessun uomo: la norma epica impone la menzione del nome dell’eroe caduto in battaglia per la conservazione della memoria, ma in questo caso nessun nome può essere menzionato. Anche in questo caso Lucano rovescia l’apostrofe rivolta da Virgilio a Eurialo e Niso (Eneide IX, 446-449).
[19] Farsalia… delle altre battaglie: le altre pesanti sconfitte subite dai Romani, come quella sul fiume Allia ad opera dei Galli Senoni guidati da Brenno (390 a.C.) e quella di Canne ad opera di Annibale (216 a.C.).
[20] là scorse… nella pianura: nelle guerre contro nemici esterni, fu versato sangue straniero, ma adesso il sangue romano versato è come un torrente impetuoso, che sospinge quello degli altri.
[21] siamo abbattuti per tutto il tempo: Lucano utilizza il plurale perché è partecipe delle conseguenze della battaglia di Farsalo.
[22] da queste spade… alla schiavitù: la conseguenza della battaglia di Farsalo è che i Romani sono condannati alla schiavitù.
[23] Che hanno fatto… le nostre gole?: il brano si chiude con due interrogative retoriche; si noti ancora l’uso della prima persona plurale (cfr. nota 21).
[24] Se hai dato… anche la guerra: Lucano accusa la Fortuna di non aver dato la possibilità alle generazioni nate dopo Farsalo di combattere per la libertà.
[25] L'Ara Pacis – È una delle più alte espressioni dell'arte augustea e un'opera di profondo simbolismo, che acquista significato nel quadro del passaggio storico dalla Repubblica all’Impero.
La sua costruzione fu votata dal Senato romano nel 13 a.C. per celebrare il vittorioso ritorno di Augusto dalle province occidentali. Poiché la dedicatio del monumento fu celebrata il 30 gennaio del 9 a.C., il completamento dell'opera richiese tre anni e mezzo, per realizzare la ricca e complessa decorazione, affidata a scultori attici attivi a Roma nel I sec. a.C.
L'Ara Pacis è costituita da un recinto con due fronti e due lati. Al centro dei lati più corti due aperture danno accesso all'altare, sul quale venivano compiuti i sacrifici.
La decorazione scultorea corre sui lati esterni e su quelli interni del recinto.
Quella esterna si svolge su due fasce: la superiore reca un fregio figurato, l'inferiore una decorazione vegetale a girali d'acanto. I girali si sviluppano con simmetria rigorosa intorno all'asse disegnato dallo stelo verticale dell'acanto e celano nel fogliame piccoli animali o si intrecciano con rami di altre piante. L'intera composizione è sormontata dalla presenza di cigni ad ali spiegate. La valenza simbolica dell'intero disegno e dei singoli elementi allude allo stato aureo di natura e al ritorno di un'età di rinascita e prosperità sotto la guida del princeps.
La fascia superiore esterna del recinto rappresenta, sui lati nord e sud, una processione. Sul fronte meridionale, compare Augusto a capo velato e coronato di alloro, preceduto e seguito dai membri delle principali cariche sacerdotali dello Stato: lo precedono i Pontifices e lo circondano gli Augures mentre al suo seguito si riconoscono i tre Flamines maiores.
Il significato della processione è oggetto di diverse interpretazioni: è possibile che sia rappresentato il reditus di Augusto, il suo ritorno a Roma dalle vittoriose campagne in Gallia e Spagna ed i consoli e i massimi sacerdoti romani sarebbero rappresentati nell'atto di accogliere il principe vittorioso, portatore di pace, prosperità e abbondanza.
Sullo stesso fronte meridionale è ritratto Agrippa, amico, principale collaboratore e genero di Augusto, morto durante la realizzazione dell’Ara Pacis. Agrippa apre la sequenza dei familiari, concepita come un vero e proprio programma dinastico. La successione dei congiunti è così sapientemente calcolata che tutti gli imperatori romani, fino a Nerone, discendono dai membri della famiglia Giulia qui raffigurati.
Altri membri della famiglia imperiale, di minore spicco, compaiono sul lato settentrionale del recinto. Qui la processione ritrae gli ordines sacerdotali dei Septemviri epulones, addetti ai sacrifici cruenti, degli Augures e dei Quindecemviri sacris faciundis, custodi dei libri sibillini, esaurendo in questo modo la rappresentazione delle cariche religiose più importanti dell’ordinamento romano.
Le due fronti dall'edificio, ai lati delle porte, sono decorate nella fascia superiore da quattro pannelli, due per ciascun lato.
Sui pannelli del fronte occidentale sono rappresentati Enea che sacrifica una scrofa ai penati, e Romolo e Remo allattati dalla lupa. Il primo motivo celebra la discendenza della gens Julia, da Enea e da suo figlio Julo, da cui prende il nome la famiglia di Augusto.
Il pannello di sinistra è molto frammentario. In esso era rappresentata la lupa che allatta Romolo e Remo alla presenza del dio Marte, padre dei gemelli, e del pastore Faustolo. In questo modo l’Ara Pacis significava la doppia origine divina dei romani e del principe: dal dio guerriero i primi, tramite i gemelli, da Venere il secondo, tramite il pius Enea.
Sul fronte orientale il pannello di sinistra rappresenta la cosiddetta Tellus, secondo il motivo ellenistico della terra fertile e dei suoi frutti, rappresentati dai due putti che le siedono in grembo. La Tellus è interpretabile come divinità polisemica, dalle molte valenze simboliche, riassuntiva dei significati di pace e prosperità e assimilabile alle figure di Gea, Venere e Rea Silvia. Ai lati due ninfe, una su un cigno, la seconda su un drago marino. Del pannello di destra resta solo il frammento di una figura femminile seduta sopra un trofeo d’armi: la dea Roma vincitrice, forse affiancata dalle figurazioni di Honos e Virtus.
l’Ara Pacis accoglieva chi entrasse dalla via Flaminia con la rappresentazione della pax romana stabilita tramite l’imperio terra marique.
Anche lungo le pareti interne del recinto si svolgono due fregi sovrapposti, rappresentanti l'inferiore una palizzata in legno e il superiore una serie di ghirlande di frutta e foglie.
L'altare interno è la parte meno conservata dell'Ara. ll'altezza della mensa rimane invece una figurazione di dimensioni ridotte, dove si distinguono le vestali.

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