Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

venerdì 29 aprile 2011

Gli intellettuali osservano l’ascesa del Fascismo di Massimo Capuozzo

Gli intellettuali osservano l’ascesa del Fascismo
Rievocando nel suo romanzo un momento della storia passata - le lotte dei braccianti del Molise troncate dal Fascismo, al servizio della reazione agraria – Jovine, ne Le terre del Sacramento[1] si impegna nella rappresentazione di una realtà storica che riguardava il passato, ma aveva chiare implicazioni e permetteva illuminanti raffronti con la storia presente. Il romanzo, quindi, si gioca su questa duplice dimensione, di storia e di cronaca, di ricognizione del recente passato che illumina però la realtà del meridione dell’immediato dopoguerra.
L’arrivo delle camice nere è rappresentato nei brani ‘La violenza di quattro mocciosi’,’Una bastonatura delle camicie nere’
Il Fascismo si affermò molto fortemente nelle grandi città, come a Napoli. Nel romanzo viene citato anche l’evento chiave del Fascismo, ossia la marcia su Roma avvenuta il  28 ottobre 1922. Jovine attraverso le pagine del suo romanzo ci racconta i preparativi al grande evento. È emblematico, in tal senso, il brano ‘I fascisti sul treno per Roma’.
Jovine rappresenta, con esemplare sobrietà, questo groviglio di atteggiamenti: nell’atteggiamento di Arduino c’è la logica elementare del cafone, senza neppure derisione per la superstizione rassegnata di Immacolata Marano. Lo scrittore sa che anche queste sono componenti essenziali di quella realtà scelta come oggetto di rappresentazione.
Raramente il neorealismo italiano è riuscito ad avere questo equilibrio e questa misura.
L’aspetto rilevante della svolta fascista fu l’avvio di una violenza sistematica i cui obiettivi primari erano i sindacati, le camere del lavoro, le leghe contadine, oltre, naturalmente, alle sedi e all’esistenza stessa dei partiti che al Fascismo si opponevano, e che erano in primo luogo i partiti della sinistra.

a) La violenza di quattro mocciosi
Le camicie nere, composte per la maggior parte dagli stessi giovani del paese, intervengono per reprimere associazioni di altro genere politico.
Clelia, udì un vociare confuso di persone ed accorse alla finestra da cui vide un gruppo di operai  in assemblea.
Ad un tratto, dal vicolo delle Cese, si affaccia un gruppo di camicie nere che scagliano sassi sul raduno dei socialisti in piazza. L’assemblea si sciolse e fortunatamente non ci fu una zuffa, ma solo tanta rabbia da parte dei socialisti che continuavano ad imprecare contro quel branco di mocciosi.
Questo episodio, però, è solo l’inizio di una serie di violenze che il Fascismo attuerà nei confronti di chi ne ostacola l’espansione.

Clelia non riusciva a capire che cosa stesse succedendo, ma dopo qualche attimo, prima che facesse in tempo a ritirarsi, vide apparire Enrico nel quadro della porta.
Viso acceso, testa bassa e tesa come d’un toro che si prepari a battere furiosamente un invisibile ostacolo. Enrico la vide; si arrestò un momento, poi riprese a camminare facendo con la mano un incomprensibile gesto che poteva essere di disperazione e di minaccia insieme. La casa rimase per qualche ora silenziosa. Enrico era uscito; Laura rimaneva chiusa in camera e nessuno avrebbe osato, senza essere chiamato, di picchiare al suo uscio. Nella camera dei ragazzi ci fu, a un tratto, il pianto stizzoso di Masino. Il bambino uscì dalla stanza frignando e stropicciandosi gli occhi. Sua madre gli corse dietro per tentare di trattenerlo. Diceva:
- Che gli hanno fatto, cuore di mamma sua, che gli hanno fatto.
Ma il bimbo si sottrasse all’abbraccio tempestando di pugni il petto della madre. Riuscì a liberarsi e si mise a correre attraverso il corridoio, verso l’appartamento della zia. Clelia lo seguì fino alla biblioteca; il bambino arrivato all’uscio dell’appartamento picchiò due colpi con i piedi. L’uscio si schiuse e il bambino entrò.
Più tardi Clelia udì, dall’interno, il riso di Laura e quello del bimbo.
Verso sera Enrico rientrò più eccitato che mai. Non appena fu giunto alla sommità della scala, dalla piazzetta antistante al palazzo Cannavale, si udì un vociare confuso e grida di evviva.
Clelia accorse, andò a una finestra, la dischiuse per guardare. Alle incerte luci delle lampade vide un gruppo di operai che urlavano e battevano le mani. All’improvviso, dal vicolo delle Cese che sboccava sulla piazzetta, vide affacciarsi un gruppo di giovani in camicia nera che fecero piovere sull’assembramento una gragnuola di sassi. Il gruppo di operai ebbe un attimo di perplessità, poi si divise. Ripararono nei vani delle porte. Ma dal vicolo delle Sponte, che era a sud della piazza, partirono altri sassi e altre grida. Dal vano di un portone uscì Pasquale Ficetra zoppicando; aveva in mano un trincetto. Disse: - Sono quattro mocciosi figli di puttana. Venite con me. Se non usciamo da quella parte, ci fregano, - e incominciò ad arrancare per la salita verso il vicolo delle Cese, seguito dai compagni che avevano messo mano al coltello.
I ragazzi, quando li videro avanzare decisi, incuranti delle sassate, si misero a correre verso il centro della città.
Il tumulto si era appena calmato quando arrivò Barberi.
- Non temo nessuno. Non mi fanno paura. Non mi fa paura questa banda di cretini e di violenti.
- Non ti capiscono, non possono capirti, - rispose Barberi con accento d’intensa sincerità.
- Il mondo è fatto di bestie, Barberi. Ero stato alla Società Operaia a parlare della libertà dell’individuo. Ho detto: «Ogni uomo è un dio che comincia. Chiunque si azzarda a negare questa intrinseca divinità dell’uomo vuole instaurare una tirannide. Si divinizzano alcuni uomini, o un uomo solo, sottraendo una parte di dignità ai propri simili. Da questa sottrazione nascono tutte le idolatrie». Pareva che avessero capito, ma poi si è alzato uno e ha detto che era il momento di organizzarsi per la lotta -. Si arrestò un momento e poi aggiunse con irruenza: - Capisci, vogliono organizzarsi. In fondo non aspirano che a diventare mani polo, truppa.
- Succedono delle cose, - disse timidamente Barberi, - delle cose tragiche. Ci sono dei morti, ogni tanto, per le strade. Non qui, naturalmente. Ma anche qui c’è la fame; l’inverno è duro.
- Io ho dato ordine di non riscuotere le pigioni di Terra Vecchia.
- Certo, l’ho sempre pensato. Tu fai quello che puoi, ma può bastare, questo?
- Non basta. Ma la miseria è una giustificazione sufficiente per rinnegare l’umanità che è in noi? Immagina una società progredita, che bandisca il verbo dell’eguaglianza e della libertà ma non si preoccupi degli individui da rendere uguali.
Una unione egualitaria di bruti non potrà creare che una società brutale.
Enrico parlava e camminava rapido, concitato, agitando le braccia.
Barberi piccolo, squallido, seduto sull’orlo d’una poltrona si tormentava con le magre dita i baffi grigi. Ma, mentre il suo amico continuava a eruttare un fiume di parole, si alzò in piedi di scatto e disse:
- Vento, vento; nuvole. Tu proponi il volo a chi ti chiede d’insegnargli a camminare. Tutto il mondo è pieno di nuvole e di vento -. Aveva preso a furia il cappello e si preparava ad andarsene continuando tra sé un confuso veemente discorso. Enrico si era arrestato di netto e lo guardava con dolorosa sorpresa.

b) Le bastonature delle camicie nere
In questo brano, l’avvocato ha appena sciolto la sua consueta riunione dei socialisti e sta tornando a casa con il suo caro amico Berberi. I due vengono accerchiati da un numeroso gruppo di camicie nere che si avvinghiano sull’avvocato e lo malmenano. La violenza continua per interminabili minuti, fino all’intervento dei carabinieri che fa dileguare gli aggressori. I due vengono caricati su  una barella e portati in infermeria dove saranno successivamente curati, ma i segni della lite resteranno indelebili sull’avvocato Cannavale che, da quell’episodio, resterà in uno stato di perenne infermità mentale.

C’erano, in luoghi lontani, tribunali segreti che emettevano giudizi sommari e irrevocabili. I giudicati non rivedevano mai la luce del sole. Ma dappertutto sorgevano squadre di giovani purissimi che avevano già dato il loro sangue per la bandiera tricolore, che lo avrebbero dato ancora perché risorgessero i morti. E non solo i morti recenti, ma anche quelli seppelliti duemila anni prima; gli eroi che avevano dettato le leggi al mondo e avevano portato il nome di Roma ai quattro angoli dell’universo.
Gli studenti liceali di Galena, alcuni delle Università, accompagnati da barbieri disoccupati, da qualche ufficiale in congedo, senza impiego, percorrevano la città, a branchi, per scovare i nemici di quella grandezza. Tutti avevano una incontenibile voglia di rompere, di fracassare, di aprire le porte chiuse delle donne, abbandonare le aule, diventare tripudianti, feroci, felici.
Giancarlo Pistalli, l’arcangelo fidanzato con la signorina Già Jannaccone, la domenica parlava in piazza e affermava che incominciava a essere tardi per partecipare alla grande riscossa. Galena dormiva, Galena si doveva svegliare e tutti trovavano che Galena doveva svegliarsi.
Don Benedetto Ciampitti partecipava assiduamente alle riunioni. A un tratto, tra la folla si udiva la sua potente voce cavernosa, che lanciava un grido, un motto, e suscitava una tempesta di fischi o di applausi. Dopo la riunione don Benedetto si trascinava dietro, fino a casa, un codazzo di giovani, li faceva entrare in una grande stanza a terreno, poi si faceva all’imboccatura della scalinata e chiamava a gran voce Leopoldo. Leopoldo accorreva, seguito da Maria Rosa e portava vino, salame, pane per quell’improvviso festino alla valorosa gioventù di Galena.
Don Benedetto mangiava, beveva con i ragazzi, si divertiva a scoprire i loro furtarelli, a costringere qualcuno dei più discreti e timidi a bere smodatamente. Poi montava su una seggiola e faceva un discorso. Di solito, la sua orazione era scritta: venti o trenta fogli coperti da una grande scrittura pesante, lunga, con i tagli delle consonanti che sembravano vigorosi colpi di pennello. Leggeva, gesticolava, volgeva gli occhi al cielo, recitava con voce piangente i brani più patetici, rideva per quelli che gli parevano umoristici. I ragazzi mangiavano, bevevano, berciavano, gli battevano le mani. Qualche volta improvvisava riprendendo i temi dell’oratore ascoltato in piazza e diceva:
- Sono convinto che si farà una rivoluzione definitiva, quella che metterà fine a tutte le rivoluzioni. Il mondo ha bisogno di silenzio e di immobilità. Che cos’è il paradiso, signori miei? Inerzia e contemplazione. Qual è il dovere del buon cristiano? Tendere al paradiso; dunque procurarsi l’immobilità. Battetevi perché il mondo si fermi e inaugurerete il paradiso in terra. Io mi domando ancora: che cos’è il paradiso? Gerarchia. Senza gerarchie non c’è felicità. Battetevi per le gerarchie.
Finito il suo discorso ordinava a Leopoldo che lo ascoltava, con un sorriso malvagio sulla bocca sdentata, di portar via tutto.
Di fronte alle proteste degli studenti il viso di don Benedetto si faceva tetro. Pareva che sulla faccia gioviale fosse all’improvviso calata una grande tristezza. Guardava il suo uditorio e si allontanava rinculando a piccoli passi. Faceva malinconici gesti di addio con la mano tesa, come se stesse imbarcandosi per un lontanissimo viaggio.
Ma un giorno, quando Giancarlo Pistalli gli chiese in affitto dei locali terreni al vicolo dei Fornaciari, mostrò di comprendere pienamente le ragioni che inducevano l’avvocato a organizzare il fascio a Galena. Disse che le idee espresse dal capo del movimento corrispondevano alle sue, e si rifiutò di accettare un compenso per la cessione dei locali.
Dopo l’inaugurazione della sezione dei fasci di combattimento, le riunioni, i tumulti divennero più frequenti a Galena. Incominciarono ad arrivare anche oratori forestieri. Gli avvenimenti lontani della grande lotta che insanguinava il paese furono narrati con particolari che non apparivano sui giornali. Le notizie si dilatavano, giganteggiavano; venivano deformate da’ una fantasia corale che si alimentava delle sue stesse favole. Pareva che a sud verso i paesi e le città della Piana ci fosse una cintura di ferro e di fuoco, che falangi sempre più folte di giovani cercavano di contenere perché non rimontasse fino a Galena. Gli oratori parlavano anche di nemici interni, di serpi nascosti nel seno che minavano segretamente la vita della città, che facevano parte della grande congiura; quella che da anni tentava di far precipitare nell’abisso la patria.
Il linguaggio degli oratori era sibillino, contraddittorio. Alcuni parlavano di sfruttatori del popolo, forse alludendo agli amministratori della città, altri di anarchia sanguinaria che preparava colpi proditori per offuscare l’antica fama di civilissima e fedele città che Galena si era conquistata nei secoli.
Un giorno, mentre si stava svolgendo una di queste riunioni, era un dolce tiepido pomeriggio di aprile, Enrico Cannavale spuntò da un vicolo sulla piazza della Fraterna accompagnato da Raimondo Barberi. Udirono il vociare, i battimani, gli evviva, le grida guerriere.
- Che succede? - chiese Enrico a Barberi.
- I soliti eroi, - rispose Raimondo. E aggiunse: - Forse faremmo bene a evitarli.
Esitò un istante, e disse:
- Io non sopporto certe scene.
Enrico non gli rispose. Continuò a camminare chiuso nei suoi pensieri.
Il professore si arrestò un attimo, si diede un’assestatina al bavero della giacca e riprese il cammino con ostentata fierezza. Qui si udì all’improvviso, tra l’adunata dei fascisti, un raddoppiarsi rabbioso delle grida. Ci fu un disordinato movimento al centro del gruppo. Poi, sulla scia di un manipolo di gente che tentava di farsi largo, tutti operarono un rapido movimento di convergenza verso Enrico e il professor Barberi. Una voce gridò:
- Eccoli!
Il coro rispose:
- Purga!
Barberi continuava a camminare volgendo inquieto gli occhi a destra e a sinistra come se cercasse una via di scampo. Ma quando si accorse che erano circondati da una turba di giovani urlanti, che brandivano minacciosamente i loro manganelli, si fermò di scatto e si volse a guardare il suo amico. Enrico si era ridestato dal suo torpore; aveva le pupille brillanti e i pomelli accesi; le vene del collo gli erano diventate turgide come se stessero per esplodere. Chiuse i pugni e li tese, con atto furente, sulla folla che gli stava dintorno.
- Via di qui, farabutti.
Ma un colpo di bastone gli cadde sulla testa violentissimo. Enrico diede un urlo e si portò le mani alla nuca. Poi cadde, di schianto, a terra. Barberi, udendo il grido dell’amico, fece un balzo fulmineo, abbracciò stretto l’uomo che gli era più vicino e gli affondò crudelmente i denti nella mano che reggeva il manganello. Se ne impadronì, resistette ai primi colpi che gli caddero sulle spalle, si volse di scatto e avventò botte all’impazzata a destra e a sinistra. Gli erano caduti gli occhiali, aveva perduto il cappello, la folta zazzera grigia gli velava gli occhi miopi. Vedeva agitarsi intorno a lui corpi di uomini frenetici che tentavano di raggiungerlo con le loro percosse. Barberi schivava i colpi con un’agilità di gatto impermalito. Urlava, bestemmiava, insultava. Poi una gragnuola di pugni, di bastonate lo raggiunse sulla testa, sulle spalle e lo fece cadere tramortito accanto al suo compagno. Sui due caduti ci fu un groviglio di teste, di braccia. Ai margini dell’assembramento la gente spingeva urlando furibonda, impaziente di partecipare alla mischia. Poi, tra il parapiglia si elevarono delle grida più acute e si udirono sibili di fischietti metallici. Una voce disse:
- Via! i carabinieri!
Il groviglio si sciolse, la folla diradò ai margini. Quelli che erano al centro scantonarono a passo veloce nei vicoli. In qualche attimo la piazza fu deserta. I carabinieri si avvicinarono ai due caduti per sollevarli; alcune donne che avevano assistito alla scena dalla finestra, accorsero affannate, lacrimanti. Dopo qualche istante arrivò il dottor Bulgarella il quale disse:
- Con cautela, mi raccomando. Portateli in farmacia.
Enrico e Raimondo, privi di sensi, furono sollevati dai militi, da Dentice e due sergenti del distaccamento che erano accorsi. Una donna, guardandoli e vedendo il viso imbrattato di sangue, gli occhi chiusi dei due feriti, si fece il segno della croce e disse:
- Sono morti. Signore, aiutaci!
In farmacia l’avvocato e il professore furono adagiati su due poltrone che erano nel retrobottega. Il dottor Bulgarella si chinò prima sul petto di Enrico, poi su quello di Barberi. Disse rivolto al farmacista:
- Bende; canfora.
Enrico rientrò a casa su una barella, con la testa chiusa in un casco di bende. Clelia era nel cortile con gli occhi dilatati dallo spavento. Dietro i portatori c’era un codazzo di gente. Il presidente, che aveva udito le voci, il calpestio dei passi, aveva levato la testa dal libro, allarmato. Giorgina, chiamata da Elettra, si era mossa basendo, mugolando, portandosi le mani al cuore. Il presidente si fece all’uscio, attraversò la prima stanza, arrivò nel corridoio e vide in un angolo le bambine che singhiozzavano abbracciate. Gianfilippo gli passò accanto come un puledro impazzito. Il vecchio si diresse con il suo passo lento, leggermente stecchito, verso il luogo da cui provenivano i pianti, il calpestio, il vociare sommesso. Arrivato ai limiti del corridoio di destra il suo passo divenne ancora più esitante. Procedeva cautamente appoggiandosi al muro come se un pericolo certo lo sovrastasse via via che si avvicinava al ballatoio. Si fermò, si mise la mano sull’orecchio destro a conchiglia, concentrò tutta la sua attenzione. Poi scosse la testa come se, avendo compreso esattamente l’accaduto, fosse incerto sul partito al quale appigliarsi.
L’avvocato Colonna che il presidente non riconobbe, gli disse:
- Il vostro illuminato parere, presidente. Come si può parlare di provocazione a proposito di due onorati cittadini? È un modo di sfuggire a responsabilità precise. Ho già chiesto un’udienza al procuratore del Re.
Il presidente lo fece finire, poi gli strinse calorosamente la mano e continuò a farsi strada fra la gente che affollava l’anticamera. L’avvocato Colonna tentava di raggiungerlo, insinuando la sua pancetta assestata ed energica in mezzo alla siepe dei corpi. Il presidente se lo ritrovò alle spalle, si sentì prendere per un braccio, si volse di scatto:
- Bisogna che voi interveniate, - disse con foga l’avvocato.
- Occorre telegrafare al Ministero. Autorizzatemi. Lo farò io stesso a vostro nome.
Il presidente lo guardò fisso, e poi all’improvviso, come se si ridestasse da un sogno, disse precipitosamente:
- Ma che è stato?
- Voi non sapete nulla, nulla, - esclamò piagnucolando l’avvocato Colonna. - Non vi hanno avvertito, ed era il primo dovere. Lo hanno aggredito i soliti facinorosi.
- Ho capito, - fece il presidente e lo lasciò di nuovo.
Voltò a destra, aprì una porta ed entrò nella stanza attigua alla biblioteca. Appena entrato levò le mani in alto, e incominciò a gridare:
- Era il compagno di Titta. Era il compagno di Titta!
Camminava velocemente per la stanza, continuando a gridare quella sua frase dolente. L’avvocato Colonna lo raggiunse:
- Presidente, ci sono i carabinieri. Vogliono interrogare il ferito. Ma le sue condizioni non lo permettono.
Il presidente non lo ascoltava. Continuava a passeggiare per la stanza e a gridare confuse interiezioni verso invisibili interlocutori.
Mentre l’avvocato tentava invano di farsi ascoltare dal presidente, comparve Linda, che aveva per mano Masino.
- Avvocato, bisognerebbe avvertire la signora.
L’avvocato Colonna s’era messo le mani nei capelli e diceva:
- Ma non è stato ancora fatto, santo Dio!  Io credevo che qualcuno avesse già provveduto.
- Impossibile. Soltanto io e don Enrico conosciamo il suo indirizzo.
- Ma allora pensateci voi. Pensateci voi.
La ragazza gli indicò il piccolo che gli stava cucito alle sottane e piagnucolava.
- Oggi è impossibile levarmelo dattorno.
Nelle stanze accanto il tramestio si era attenuato. I carabinieri avevano avuto l’ordine di far sgombrare. Si rifece finalmente il silenzio. Il ferito aveva ripreso i sensi e si guardava intorno spaurito.
Clelia, quando rimase sola con Enrico, gli mise una mano sulla fronte con gesto materno e lo guardava accorata, coi suoi occhi fedeli. Quando Enrico poté parlare chiese:
- Come sta Barberi?
- Non è grave. L’hanno portato a casa sua.
- Bisognerebbe mandargli del danaro.
- Ci penso io, - disse Clelia. - Adesso cerca di calmarti.
La voce di Enrico era bassa. La sua balbuzie si era accentuata. Le mani stese sulle coperte tremavano.
Laura era a Napoli da una settimana. Il telegramma di Linda la raggiunse un pomeriggio nell’atrio dell’Albergo Excelsior, mentre stava prendendo il té con il duca di Pietracatella. Laura non riceveva che raramente telegrammi o lettere da Galena; quell’inatteso messaggio le diede, immediatamente, l’impressione che fosse successo qualcosa di grave. Il duca la guardava tacendo; poi, quando vide che Laura aveva richiuso il telegramma e se l’era cacciato in tasca, disse:
- Mi posso permettere?
- Naturalmente.
- Cattive notizie?
- Sì, cattive; mio marito è stato ferito.
- Come ferito?
- In un tafferuglio. Credo con dei fascisti. Non ho precise notizie. Il telegramma è breve, parla di facinorosi. Partirò domani mattina. Intanto, se permettete, chiederò notizie con un telegramma urgente.
- Penso io, - fece premurosamente il duca. - Dammi l’indirizzo.
Laura tirò frettolosamente dalla sua borsetta un taccuino, scrisse l’indirizzo di Linda e lo consegnò al duca che si allontanò.
Tornò dopo qualche istante.
- Fatto, - disse rimettendosi a sedere.

c) I fascisti sul treno per Roma
Il brano racconta del ritorno a casa di Luca Marano, il quale, mentre si trova sul treno diretto in Molise, vedeva radunati nelle piazze gruppetti di camicie nere che attendevano il treno diretto a Napoli dove avrebbero organizzato la vera e propria marcia. Intanto per le strade di Napoli la gente si unisce alle camicie nere e sfila per le strade tumultuosamente, persino i ragazzetti, lasciate le lezioni si uniscono all’immensa folla che occupava tutta via Toledo ed il rettifilo. Ai muri c’erano dei manifesti tricolore che traducevano in termini più chiari quello che la gente urlava a squarciagola. L’ora della grande marcia era ormai imminente.
Ma nonostante questo brano sia dedicato ai preparativi della marcia su Roma, Jovine, nella parte finale si abbandona ad una descrizione impressionante del degrado napoletano. Nelle ultime tre righe, con una potenza descrittiva impressionante, l’autore ci mostra le case malconce che quasi crollano nei vicoli napoletani, mentre le persone sono per la strada a porre disperatamente le proprie speranze in un nuovo governo: “Napoli sotto l’acqua si disfaceva. La luce fredda della giornata di autunno mostrava il profilo delle case contorte, provvisorie; mura reggenti penosamente il carico dei tetti che parevano pronte a piegarsi per colmare i vicoli di macerie”.

Dopo due giorni Luca era in treno, diretto a Morutri. Era di pomeriggio avanzato; pioveva fitto: una pioggia minuta, bavosa e tiepida. L’interno della vettura di terza classe era gremito di contadini, di operai carichi di fagotti che parlavano i dialetti cantanti del sud. Gente che andava nei paesi della Piana o tornava ai suoi luoghi nelle province montuose.
Il treno si fermava a tutte le stazioni; nella penombra del crepuscolo, Luca vedeva sui piazzali delle stazionane gruppi di giovani in camicia nera che attendevano il treno che li portasse verso Napoli. Durante la mattina aveva visto le squadre percorrere le vie del centro cantando e gridando nell’aria fosca della giornata autunnale. Erano parole violente; voci che annunziavano una futura gioia o una gloria grandissima. I giovani in camicia nera che alzavano le mani nel ciclo grigio, incitavano la gente a gridare con loro, a partecipare alle loro speranze. Andavano a Roma. Il Capo, qualche giorno prima, aveva proclamato Napoli Regina del Mediterraneo, e le aveva promesso prosperità, pane, vino, gioia; il riscatto fulmineo di secoli di abiezione. Ai muri c’erano dei manifesti tricolori che traducevano in termini più chiari le ragioni delle grida; manifesti che la pioggia aveva immollati, macchiandoli con la lebbra dell’intonaco fradicio di acqua.
Tra Toledo e il Rettifilo, per qualche ora erano passati gruppi incalzanti di camicie nere, seguiti da cortei di uomini in borghese, dai ragazzi delle scuole che, lasciate le lezioni, tentavano di fare tumultuosa e imponente la gazzarra. Nei vicoli che costeggiavano Toledo, in quelli dei «quartieri», la gente era stata costretta dalla pioggia a rientrare nelle case. I venditori avevano portato nell’interno dei bassi le loro povere mercanzie, le carni cotte nelle pentole ingrommate di fuliggine, il pesce fritto nell’olio rancido, le frutta che marcivano accumulate sulle panche, coperte da un panno sudicio. Nelle stanze che si aprivano sulla strada si vedevano nello spazio brevissimo tra le materasse accumulate alle pareti, cassapanche sgangherate, giacigli pieni di paglia putrida; gli abitanti rimanevano in piedi a guardare la pioggia che scrosciava tra le immondizie della strada.
Sulle pareti l’acqua s’infiltrava insidiosamente, disegnando dei bizzarri geroglifici che coronavano le immagini colorate dei santi. Napoli sotto l’acqua si disfaceva. La luce fredda della giornata di autunno mostrava il profilo delle case contorte, provvisorie; mura reggenti penosamente il carico dei tetti che parevano pronte a piegarsi per colmare i vicoli di macerie.
La notizia della «grande marcia» non era arrivata ai «quartieri», e Luca aveva l’impressione che quelle grida festose, udite poco prima, partissero da un punto remotissimo dell’orizzonte.
Cercava palazzo Pietracatella; camminava in mezzo alla strada; era inutile rasentare i muri, l’acqua scrosciava dalle grondaie. I suoi calzoni, sempre troppo corti, si erano arricciati come colti da un brivido sulla caviglia, e lasciavano vedere le calze tramate dall’uso. Camminava rapido, concentrato in un pensiero doloroso, che andava collegandosi con tutte le impressioni tristi della strada, con quel gridare funesto che da due giorni gli rintronava negli orecchi. Luca non sapeva esattamente dove si trovasse palazzo Pietracatella, non sapeva neanche con certezza che il vecchio duca lo abitasse. Forse la ricerca era inutile. Tutto inutile sembrava a Luca quel tentativo fatto a Napoli per capire quello che stava succedendo a Galena e a Morutri. Che cosa significava: «Torna immediatamente. Sabs invia primo gruppo sfratti»? Il telegramma dello zio Filoteo glielo aveva portato la padrona con aria appenata. Il telegramma, per quello studente che non riceveva mai posta, non poteva essere che l’annunzio di una sciagura.
Luca, dopo averlo letto, sentiva che si trattava di una sciagura, ma non ne conosceva ancora i termini e l’estensione. D’Angelo non c’era, rientrava tardi quella sera. Aveva il sospetto che qualcuno riuscisse a rintracciare la sua abitazione. La furiosa rissa all’osteria della Calabrese si era conchiusa senza morti; c’erano stati, come dicevano i giornali, soltanto dei feriti leggeri e dei contusi. La polizia non avrebbe fatto probabilmente delle ricerche a fondo, ma c’erano gli squadristi. D’Angelo temeva gli squadristi ed evitava le vie del centro; aveva consigliato anche a Luca di non farsi vedere all’Università, o nei luoghi frequentati da studenti. Luca aveva tenuto conto del consiglio, aveva passato quei due giorni quasi sempre in casa, tentando di studiare; ma la sua mente vagava verso pensieri malinconici. Si veniva rifacendo la sua storia interna, a brano a brano, senza lume d’indulgenza per sé e per i suoi simili. Luca Marano, figlio di Giuseppe, non era più una vittima solitaria. Il suo destino, la sua tristezza di ventenne miserabile era simile a quella di Gesualdo, del canonico, di Ferdinando, delle migliaia di studenti che piovevano a Napoli tra ottobre e novembre, per esporre ai professori le nozioni lette nei manuali di Diritto Civile durante le desolate stagioni trascorse in villaggi come Morutri. Lunghi mesi passati a fumar cicche avvolte nelle carte di giornale, mangiando lasagnette di farina grigia condite con aglio e peperoni fritti, accanto ai camini ingrommati di fumo. Ragazzi che studiavano i manuali d’igiene e andavano a deporre i loro escrementi ai margini del villaggio, nelle cunette delle rotabili, seminando una scia di fiori fetidi agli imbocchi delle strade.
Giovani che la notte s’insinuavano come ladri, con le vene gonfie, nei tuguri di contadine disfatte dai parti e dalla miseria, e abbrancavano la preda senza una parola d’amore. Ne uscivano con le vene secche e l’anima colma di veleno.
Sorrisi, frasi dolci, grazia, eleganza; parole lette nei libri di scuola. Donne profumate, ricche di sentimenti preziosi, immaginate fervidamente, le incontravano camuffate da prostitute, nelle case di tolleranza a dieci lire. Giovani come lui, che si lasciavano intossicare l’anima senza speranza. Domani avrebbero vissuto sfruttando, derubando subdolamente i contadini dei loro villaggi che erano legati alla loro stessa sorte, dalla stessa ingiustizia. Luca capiva ormai i legami sotterranei della sua tristezza con quella degli altri. Ne ragionava la notte con Giulio D’Angelo. Facevano l’alba seduti sul suo letto nella camera fredda, tappezzata di carta di Francia che si strappava a brani, dalle pareti umide.

Giorgio Bassani[2]
Discorso di un giovane comunista
da Il giardino dei Finzi Contini[3]
Significativo è anche il brano ‘Discorso di un giovane comunista’, tratto anch’esso dal terzo capitolo del romanzo.
È un brano che, facendo riferimento al fenomeno del Fascismo lascia conoscere le diverse idee dei personaggi.
Infatti si collega al ‘38, anno dell’emanazione delle leggi razziali e della pubblicazione del famigerato manifesto della razza, con il quale gli ebrei erano dichiarati non appartenenti alla ‘razza italiana’, cosa che ne implicava l’esclusione dalla vita pubblica e sociale.
Così anche i personaggi sono stati costretti ad abbandonare i luoghi pubblici, come il circolo di tennis e la biblioteca.
Il passo è significativo perché, facendoci penetrare nei sentimenti dei personaggi, fa capire il rimorso e l’amarezza nei confronti del regime fascista.

Parlavamo di molte cose, tra noi due (Alberto preferiva stare ad ascoltare), ma, è ovvio, soprattutto di politica.
Erano i mesi immediatamente successivi al patto di Monaco[4], e questo, appunto, il patto di Monaco e le sue conseguenze, era l’argomento che tornava più di frequente nei nostri discorsi. Che cosa avrebbe fatto, Hitler, ora che la regione dei Sudeti era stata incorporata nel Grande Reich? In quale direzione avrebbe colpito, adesso? Io, per me, non ero pessimista, e una volta tanto Malnate mi dava ragione. Secondo me, l’accordo che Francia e Gran Bretagna erano state forzate a sottoscrivere al termine della crisi del settembre scorso, non sarebbe durato a lungo. Sì: Hitler e Mussolini avevano indotto Chamberlain e Daladier ad abbandonare la Cecoslovacchia di Benes al suo destino. Ma poi? Cambiando magari Chamberlain e Daladier con uomini più giovani e più decisi (ecco il vantaggio del sistema parlamentare! — esclamavo —), tra breve Francia e Gran Bretagna sarebbero state in grado di puntare i piedi. Il tempo - sostenevo - non poteva, giocare che a loro favore.
Bastava però che il discorso cadesse sulla guerra di Spagna[5], oramai agli sgoccioli, o ci si riferisse in qualche modo all’U.R.S.S., perché l’atteggiamento di Malnate nei confronti delle democrazie occidentali, e di me, nella fattispecie, considerato ironicamente loro rappresentante e paladino, diventasse subito meno accomodante. Lo vedo ancora sporgere in avanti la grande testa bruna dalla fronte lustra di sudore, figgere gli sguardi nei miei nel solito, insopportabile tentativo di ricatto, tra morale e sentimentale, a cui ricorreva così facilmente, mentre la sua voce assumeva toni bassi, caldi, suadenti, pazienti. Chi erano stati, per favore - chiedeva -, chi erano stati i veri responsabili della rivolta franchista? Non erano state, per caso, le destre francesi e inglesi, le quali l’avevano non soltanto tollerata, all’inizio, ma poi, in seguito, addirittura appoggiata e applaudita? Allo stesso modo che il comportamento anglo-francese, corretto nella forma, in realtà ambiguo, aveva permesso a Mussolini, nel ‘35, di fare un solo boccone dell’Etiopia, anche in Ispagna era stata soprattutto la colpevole incertezza dei Baldwin, dei Halifax, e dello stesso Blum, a far pendere la bilancia della fortuna dalla parte di Franco. Inutile dar la colpa all’U.R.S.S. e alle Brigate internazionali insinuava, sempre più soave -, inutile imputare alla Russia, diventata la comoda testa di turco a portata di tutti gli imbecilli, se gli avvenimenti, laggiù, stavano ormai precipitando. Altra, la verità: soltanto la Russia aveva capito fin dall’inizio chi fossero il Duce e il Fùhrer, lei sola aveva previsto con chiarezza l’inevitabile intesa dei due, e agito per tempo di conseguenza. Le destre francesi e inglesi, al contrario, sovversive dell’ordine democratico come tutte le destre di tutti i paesi e di tutti i tempi, avevano sempre guardato all’Italia fascista e alla Germania nazista con malcelata simpatia. Ai reazionari di Francia e di Gran Bretagna, il Duce e il Fùhrer potevano sembrare tipi un po’ scomodi, certo, un tantino maleducati e eccessivi: da preferirsi sotto ogni aspetto a Stalin, però, giacché Stalin, si sa, era sempre stato il diavolo. Dopo aver aggredito e annesso Austria e Cecoslovacchia, la Germania cominciava già a premere sulla Polonia. Ora, se la Francia e la Gran Bretagna erano ridotte al punto a cui erano ridotte, cioè a stare a vedere e a subire, non c’erano storie: la responsabilità della loro attuale impotenza bisognava accollarla proprio a quei bravi, degni, decorativi galantuomini in cilindro e stiffelius - così adatti a corrispondere, almeno nel modo di vestire, alle nostalgie ottocentesche di tanti letterati decadenti —, che ancora adesso le governavano.
La polemica di Malnate si faceva tuttavia particolarmente vivace ogni qualvolta fosse chiamata in causa la storia italiana degli ultimi decenni.
Era evidente - diceva -: per me, ed anche per Alberto, in fondo, il fascismo non era stato altro che la malattia improvvisa e inspiegabile che attacca a tradimento l’organismo sano, oppure, per usare una frase cara a Benedetto Croce, «vostro comune maestro» (Alberto a questo punto scuoteva desolato il capo, negando, ma lui non gli dava retta), l’invasione degli Hyksos. Per noi due, insomma, l’Italia liberale dei Giolitti, dei Nitti, degli Orlando, e perfino quella dei Sonnino, dei Salandra e dei Facta, era stata tutta bella e tutta santa: una specie di età dell’oro, a cui, potendo, sarebbe stato opportuno tornare pari pari. E invece sbagliavamo, eccome se sbagliavamo! Il male non era sopraggiunto improvviso. Al contrario, esso veniva da molto lontano: e cioè dagli anni del primo Risorgimento, il quale infatti era stato compiuto nella pratica assenza del popolo, del popolo vero. Giolitti? Se Mussolini aveva potuto superare la crisi seguita al delitto Matteotti, nel ‘24, quando tutto attorno a lui sembrava sfaldarsi, e perfino il re tentennava, noi dovevamo ringraziare di ciò proprio il nostro Giolitti, e Benedetto Croce, anche, ambedue disposti a mandar giù qualsiasi rospo pur di impedire l’avanzata delle classi popolari. Erano stati proprio loro, i liberali dei nostri sogni, a concedere a Mussolini il tempo necessario perché riprendesse fiato. Nemmeno sei mesi dopo, il Duce li aveva ripagati del servizio sopprimendo la libertà di stampa e sciogliendo i partiti. Giovanni Giolitti si era ritirato dalla vita politica, riparando nelle sue campagne, in Piemonte; Benedetto Croce era tornato ai prediletti studi filosofici e letterari. Ma c’era stato chi, di gran lunga meno colpevole, anzi incolpevole affatto, aveva pagato molto più duramente. Amendola e Gobetti erano stati bastonati a morte; Filippo Turati si era spento in esilio, lontano da quella sua Milano dove, pochi anni prima, aveva sepolto la povera signora Anna; Antonio Gramsci aveva preso la via delle patrie galere (era morto l’anno scorso in carcere: non lo sapevamo?); gli operai e i contadini italiani, insieme coi loro capi naturali, avevano perduto ogni effettiva speranza di riscatto sociale e di dignità umana, e da quasi vent’anni, oramai, vegetavano e morivano in silenzio.
Non era facile, a me, contrappormi a queste idee, e per varie ragioni: in primo luogo, perché la cultura politica di Malnate, che il socialismo e l’antifascismo li aveva respirati in famiglia, fin dall’infanzia più tenera, soverchiava la mia; in secondo luogo, perché il ruolo al quale lui pretendeva inchiodarmi - il ruolo del letterato decadente, o «ermetico», come diceva, formatosi in politica sui libri di Benedetto Croce -, mi sembrava inadeguato, non rispondente alla mia reale personalità, e quindi, prima ancora che tra noi fosse avviata qualsiasi discussione, da rifiutarsi. In conclusione preferivo tacere, atteggiando il volto a un sorriso vagamente ironico. Subivo, e sorridevo.
Quanto ad Alberto, anche lui stava zitto: un po’ per la ragione che, al solito, non aveva nulla da obbiettare, ma principalmente per dar modo all’amico di infierire contro di me, e pago soprattutto di questo, era fin troppo chiaro. Fra tre persone, chiuse a discutere per giorni e giorni in una stanza, è quasi fatale che due finiscano col far fronte comune contro la terza. Comunque sia, pur d’andare d’accordo col Giampi, di mostrarglisi solidale, Alberto pareva pronto ad accettare tutto, da lui, compreso il fatto che lui, il Giampi, spesso lo mettesse in un solo fascio con me. Era vero: Mussolini e compari stavano accumulando contro gli ebrei italiani infamie e soprusi gravissimi - diceva per esempio Malnate —; il famigerato Manifesto della Razza, del luglio scorso, redatto da dieci cosiddetti «studiosi fascisti», non si sapeva come considerarlo, se più vergognoso o più ridicolo. Ma ammesso ciò - soggiungeva -, gli sapevamo dire noialtri quanti erano stati prima del ‘38, in Italia, gli «israeliti» antifascisti? Ben pochi, temeva, un’esigua minoranza, se anche a Ferrara, come Alberto gli aveva detto più volte, il numero di loro, iscritti al Fascio, era sempre stato elevato. Io medesimo, nel ‘36, avevo partecipato ai Littoriali della Cultura. Leggevo già, a quell’epoca, la Storia d’Europa del Croce? Oppure avevo aspettato, per averne la rivelazione, l’anno successivo, l’anno dell’Anschluss e delle prime avvisaglie dì un razzismo italiano?
Subivo e sorridevo, talora ribellandomi, ma più spesso no, ripeto, conquistato mio malgrado dalla sua franchezza e sincerità, un po’ troppo rozze e impietose, certo, un po’ troppo da goi — così mi dicevo —, ma in fondo veramente pietose perché veramente uguaglianti, fraterne. E quando Malnate, trascurando per un momento di occuparsi di me, si volgeva contro Alberto, accusando bonario lui e la sua famiglia di essere «dopo tutto» degli sporchi agrari, dei biechi latifondisti, e degli aristocratici, per giunta, nostalgici del feudalesimo medioevale, cosicché non era poi tanto ingiusto, «dopo tutto», che adesso pagassero in qualche modo il fio dei privilegi di cui avevano goduto per tanti anni (Alberto rideva fino alle lacrime, sotto le sue invettive, e intanto accennava col capo di sì, che lui, per parte sua, era prontissimo a pagare), non era senza segreto compiacimento che lo ascoltavo tuonare contro l’amico. Il bambino degli anni anteriori al ‘29, quello che, camminando a fianco della mamma lungo i vialetti del cimitero, la udiva ogni volta definire la solitaria tomba monumentale dei Finzi-Contini «un vero orrore», insorgeva d’un tratto, dal più profondo di me, ad applaudire malignamente.

Vasco Pratolini[6]
Inseguimento per le vie di Firenze
Da Cronache di poveri amanti[7]
A un particolare e drammatico momento della lotta politica fiorentina si riconnette l’episodio qui riportato. I fascisti stanno partendo in azione punitiva contro alcuni avversari politici; ma la notizia è trapelata; e Maciste, il fabbro socialista di via del Corno, nella notte corre per la città sul suo sidecar per avvisare le vittime designate del pericolo che le sovrasta. È una vicenda piena di tensione e che ha per posta la morte.

Il sidecar è la stella cometa che annunzia il diluvio agli uomini di buona volontà. Lo guida un San Giorgio di due metri, a testa nuda, le labbra fra i denti e gli occhi fissi all’orizzonte: un centauro mitologico che indossa una giacca operaia. I rari passanti si stringono ai muri. Un vigile urbano che rincasa dal servizio, compreso della propria divisa, si pone in mezzo alla strada spalancando le braccia; il sidecar lo evita di precisione. Oltrepassata Porta la Croce, lo sterrato della periferia è cosparso di larghe pozze piovane: la carreggiata una striscia melmosa.
Nella sua corsa il sidecar supera i carri carichi di damigiane, di sacchi di fieno, guidati da cavalli sonnolenti, col barrocciaio addormentato alla base delle stanghe vestito dal fango che la moto proietta al suo passaggio. Il carrozzino corre la sua gymkana fra scosse, sobbalzi, capovolgimenti miracolosamente evitati. Ugo vi si destreggia come l’argonauta sorpreso dalla tempesta. Il tremotìo, la corsa pazza gli impediscono di connettere un pensiero.
[...]
Maciste impugna le manopole con la forza e l’abilità con cui regge sulle pinze il ferro arroventatosione del suo spirito è tutta in quel suo stringersi le labbra tra i denti. Nel dramma egli trova una serenità maggiore, una lucidità che gli suggerisce immagini precise, pensieri e determinazioni conseguenti prima tappa a casa del compagno fonditore.
Adesso Maciste combatte con il suo nemico una gara di velocità. È come se sull’altro lato della strada un sidecar verniciato di nero, e un teschio al posto del fanale.
[...]
Il sidecar vola col suo centauro infuriato. Il suo fragore desta i dormienti, sconvolge i pollai e le chiuse passanti ritardatari: li avvolge nella nuvola dello scappamento. Ugo si è seduto sul sellino posteriore della moto. La macchina acquisterà velocità. Anche se alle curve il pericolo di capovolgersi diventa maggiore, si tratta ora di far presto, far presto! La città è addormentata, protetta dalla luna. Gli uomini sono raccolti nel tepore della casa, che il primo freddo dell’autunno fa apprezzare. I prati della periferia intrisi delle piogge recenti, della brina, sono piattaforme viscide, acquitrini di palude. Tuttavia occorre percorrerli in diagonale per abbreviare la strada e guadagnar tempo. Attraversando il Campo di Marte, ove un reggimento ha disposto le sue tende, la sentinella lancia il chi va là, lo intima sparando in aria, lo ripete mirando al di sopra delle teste. È una moschettata, due, tre. Maciste si abbassa con la fronte sul manubrio, Ugo si rannicchia, alle sue spalle: le pallottole fischiano di lato. Il sidecar, guidato alla cieca, s’impantana in una pozzanghera vasta e profonda: ne esce di rabbia, con una sventagliata d’acqua che bagna i due compagni dalla testa ai piedi. Ma ormai sono fuori tiro: il quarto proiettile s’immerge, con uno zampillo, nel risucchio della pozzanghera. La moto ha imboccato un viale lungo e diritto: una pista, con l’asfalto bianco sotto la luna. È alle Cureno di notte delle Officine Berta è a pied’arm davanti alle garitte. Lo superano di volo.
[...]
Più avanti, più veloci: è la vita che noi portiamo! Ecco di nuovo un torrente, magro, che la luna inquadra in un orizzonte di ciminiere, di colline punteggiate di ville e di cipressi. È il Mugnone, sui suoi argini erbosi si tramano adesso burle mortali.
[...]
Stanotte la Polizia è consegnata: la ronda degli ammoniti perlustrazione segnalando «n.n.» compiono l’eccidio.
Ma la città è resa esperta dalla sua storia, di cui ogni pietra, ogni campana, conservano il ricordo. Il Priore di San Lorenzo, Don Fratto, ha spalancato l’uscio della sagrestia, ha acceso una lampada sulla soglia, semmai un braccato voglia cercarvi rifugio. Nelle case del popolo si acconciano solai, si aprono cantine; si adatta, al riparo di un comignolo, un giaciglio di fortuna.
I fascisti, eccitati dal sangue e dal fuoco, si annunziano con crepitii di salve «A noi!». Se in via dei della Robbiala neutralità, nei quartieri di Rifredi e del Pignone l’arrivo del compagno fonditore ha messo in moto uomini e donne, una popolazione che veglia ora col cuore in gola su coloro che sono nascosti: ne condivide l’ansia, stando di vedetta, recitando rosari. E non tutto il popol grasso nei palazzi di via Maggio e dei Lungarni a cui il censo non ha velato la ragione: qui è un incrociarsi di telefonate che partecipano l’allarme, che offrono ospitalità.
Le strade sono deserte, i caffè notturni hanno abbassato le saracinesche: è spenta ogni luce.
Le auto degli squadristi traversano un deserto di pietre e di luna. Con gli squadristi è la Morte.
Ciascuno di essi ne reca il ritratto sul cuore: un teschio ricamato sulla camicia nera. La Morte li accompagna di casa in casa, è in ogni loro gesto e pensiero. Il suo contatto ha gelato i cuori, acceso le menti della sua idea ossessiva. La sua presenza rende i fascisti audaci e guardinghi, li sconvolge e li esalta. Li opprime. Essi ne sollecitano la complicità e insieme ne temono la potenza. Avanzano sulle auto come su vascelli corsari incalzati dalla tempesta; avvertono la sorda ostilità che li insegue, per cui ogni palazzo, ogni manifesto, ogni sporto appaiono occhiuti ed aggressivi. Dopo le prime irruzioni, che l’hanno colta di sorpresa, la città si è barricata dietro le sue pietre. Gli squadristi hanno trovato appartamenti disabitati, letti ancora caldi e disfatti. È in ciascuno di essi una follia omicida, il bisogno di uccidere per sentirsi vivi, scampati all’agguato. La Morte li ha costretti nel proprio gioco: è una partita che soltanto le luci dell’alba decideranno. Essi cantano per riconoscersi solidali, si aizzano l’un altro, gli chauffeur premono sugli acceleratori, le macchine hanno sbalzi paurosi. Ad ogni crocicchio, essi dubitano un’imboscata, sparano a raffiche sui presunti aggressori: al loro passaggio crollano vetrine, lampioni vanno in frantumi. Tirano al volo sulle saracinesche, sui chioschi, sui portoni ove è sembrato che un’ombra si muovesse. Non v’è gatto randagio, insegna pensile che non siano raggiunti dagli spari: uccisi, forati. Si sono, partendo, divisa la città in zone di operazioni.
Adesso in ogni Quartiere risuona l’eco della loro frenesia.
[...]
L’incontro avvenne nella strada parallela al Mercato Coperto.
[...]
La strada era breve, una traversa, una delle strade dai pochi palazzi. Il sidecar fu costretto a rallentare per entrarvi. Si trovò davanti l’automobile.
Osvaldo lanciò un grido: «Sono loro! Li conosco io!».
Maciste comprese in un attimo, la moto si impennò come un cavallo, roteò su se stessa; il carrozzino si riversò su un lato, tornò in assesparato per primo; il colpo era andato a vuoto.
Già il sidecar imboccava la strada aperta; scomparve. L’auto gli fu dietro, lo ritrovò distante, voltato l’angolo: lo inseguì. Un fuoco continuato. Gli squadristi erano in piedi che sparavano.
L’auto guadagnava rapidamente terreno. Era alle curve che il sidecar recuperava qualche metro. Osvaldo sparava ora furiosamente; urlava i nomi dei due fuggitivi, miracolosamente equilibrato sul predellino.
Il Pisano era, fra tutti, il più composto. Attendeva, per sparare, che la distanza si raccorciasse e le schiene degli uomini gli prestassero la mira.
Il sidecar cercava il dedalo delle viuzze a lato del Mercato, correva a zig-zag appena si presentava una dirittura. Ma l’auto gli era sempre più a ridosso: i proiettili fischiavano vicini.
Maciste era curvo sul manubrio. Ugo rannicchiato ai suoi fianchi. Non si gridavano parole fra di loro. Li univa un’imminenza di morte, più forte di ogni legame di vita. Maciste capi che la partita era perduta se si ostinava per i vicoli. Gli rimaneva un solo scampo: raggiungere l’ospedale, lì vicino, infilare l’androne. Sperdersi nei corridoi, nelle corsie, poteva significare la salvezza.
[...]
Ma per raggiungere l’Ospedale, occorreva attraversare piazza San Lorenzo, bianca di luna: un campo aperto. Era l’ultima speranza: vi si affidò. Gridò ad Ugo: «Tieniti forte a me! ». Lanciò la moto sulla piazza.
Era il momento che il Pisano attendeva. Egli aveva la mano ferma, l’occhio sicuro. Quella schiena curva, a meno di cento metri, carica di luna, era una bersaglio mobile nel tirare al quale egli era maestro.
Il sidecar sbandò, si capovolse sulla scalinata della Chiesa, col guidatore riverso; colpito alla nuca. L’altro uomo, subito rialzatosi, fuggì: svicolò lontano. L’auto si fermò davanti al sidecar.
Osvaldo scese di un balzo, si chinò su Maciste: gli sollevò la testa per i capelli. Intravide in una nebbia la sua faccia rantolante. Egli era ebbro, allucinato: calciò sul corpo di Maciste. Come eccitati dal suo furore, gli altri lo imitarono: rivoltarono a calci il cadavere, di petto e di schiena.

Giovanni Gentile[8]
Manifesto degli intellettuali fascisti
[21 aprile 1925]
La stesura di questo manifesto fu decisa al Convegno per la cul­tura fascista di Bologna (29-30 marzo 1925) al quale parteciparono circa 250 intellettuali; fu scritto da Giovanni Gentile. «È il primo tentativo di sistemazione teorica del  fascismo  alla  quale il Gentile continuò  a lavorare  negli  anni  successivi. Punto  di  arrivo  di  tale elaborazione  sono una parte  della  voce  fascismo  sulla  enciclopedia Treccani, firmata da Mussolini, l’opera origine e dottrina del fa­scismo e altre» (M. Bartolotti).
Fu pubblicato sui giornali il giorno del «natale di Roma» (solennità civile di recente, fascistica istituzione) con centinaia di firme di ade­sione: molte quelle di uomini di rilievo nella cultura italiana. Il pri­mo maggio gli intellettuali antifascisti risposero con un manifesto re­datto da Croce.
Occorre sottolineare: 
a) il legame tra Risorgimento e mo­vimento fascista, tra squadrismo e...  « Giovane  Italia » che Gentile tenta di stabilire;
 b) l’insistenza sul carattere religioso del fascismo e di conseguenza sulla sua intransigenza che legittimerebbe la violenza;
c) una componente di verbosità retori­ca e fumosa particolarmente evidente nell’ultima parte.

LE ORIGINI
Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito ita­liano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana, ma non privo di significato ed interesse per tutte le altre. Le sue ori­gini prossime risalgono al 1919, quando intorno a Benito Mussolini si raccolse un manipolo di uomini reduci dalle trincee e, risoluti a combattere energicamente la politica demosocialista[9] al­lora imperante. La quale della grande guerra da cui il popolo ita­liano era uscito vittorioso ma spossato, vedeva soltanto le imme­diate conseguenze materiali e lasciava disperdere se non lo nega­va apertamente il valore morale rappresentandola agl’italiani da un punto di vista grettamente individualistico ed utilitaristico co­me somma di sacrifici, di cui ognuno per parte sua doveva essere compensato in proporzione del danno sofferto, donde una presun­tuosa e minacciosa contrapposizione dei privati allo Stato, un di­sconoscimento della sua autorità, un abbassamento del prestigio del Re e dell’Esercito, simboli della Nazione soprastanti agli indi­vidui ed alle categorie particolari dei cittadini ed un disfrenarsi delle passioni e degl’istinti inferiori, fomento di disgregazione sociale, di degenerazione morale, di egoistico ed incosciente spi­rito di rivolta ad ogni legge e disciplina.
L’individuo contro lo Stato; espressione tipica dell’aspetto poli­tico della corruttela degli animi insofferenti di ogni superiore nor­ma di vita umana che vigorosamente regga e contenga i senti­menti ed i pensieri dei singoli. Il Fascismo pertanto alle sue ori­gini fu un movimento politico e morale. La politica sentì e propugnò come palestra di abnegazione e sacrificio dell’individuo ad un’idea in cui l’individuo possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà ed ogni suo diritto; idea che è Patria, come ideale che si viene realizzando storicamente senza mai esaurirsi, tradizione storica determinata e individuata di civiltà ma tradizione che nella coscienza del cittadino, lungi dal restare morta memoria del passato, si fa personalità consapevole di un fine da attuare, tra­dizione perciò e missione.
IL FASCISMO E LO STATO
Di qui il carattere religioso del Fascismo.
Questo carattere religioso e perciò intransigente, spiega il metodo di lotta seguito dal Fascismo nei quattro anni dal ‘19 al ‘22. I fa­scisti erano minoranza, nel Paese e in Parlamento, dove entraro­no, piccolo nucleo, con le elezioni del 1921. Lo Stato costitu­zionale era perciò, e doveva  essere, antifascista, poiché era lo Stato della maggioranza, ed il Fascismo aveva contro di sé appunto questo Stato che si diceva liberale; ed era liberale, ma del liberalismo agnostico ed abdicatorio, che non conosce se non la libertà esteriore. Lo Stato che è liberale perché si ritiene estraneo alla coscienza del libero cittadino, quasi meccanico si­stema di fronte all’attività dei singoli. Non era perciò, evidentemente, lo Stato vagheggiato dai socialisti, quantunque i rappresentanti dell’ibrido socialismo democratizzante e parlamentaristico, si fossero, anche in Italia, venuti adattando a codesta conce­zione individualistica della concezione politica. Ma non era nean­che lo Stato, la cui idea aveva potentemente operato nel periodo a eroico italiano del nostro Risorgimento, quando lo Stato era sorto dall’opera di ristrette minoranze, forti della forza di una idea alla quale gl’individui si erano in diversi modi piegati e si era fondato col grande programma di fare gli italiani, dopo aver dato loro l’indipendenza e l’unità.
Contro tale Stato il Fascismo si accampò anch’esso con la forza della sua idea la quale, grazie al fascino che esercita sempre ogni idea religiosa che inviti al sacrificio, attrasse intorno a sé un nu­mero rapidamente crescente di giovani e fu il partito dei giovani (come dopo i moti del ‘31 da analogo bisogno politico e morale (era sorta la «Giovane Italia» di Giuseppe Mazzini). Questo partito ebbe anche il suo inno della giovinezza che venne cantato dai fascisti con gioia di cuore esultante! E cominciò ad essere, come la «Giovane Italia» mazziniana, la fede di tutti gli italiani sdegnosi del passato e bramosi del rinnovamento. Fede, come ogni fede che urti contro una realtà co­stituita da infrangere e fondere nel crogiolo delle nuove energie e riplasmare in conformità del nuovo ideale ardente ed intran­sigente.
Era la fede stessa maturatasi nelle trincee e nel ripensamento intenso del sacrificio consumatosi nei campi di battaglia pel solo fine che potesse giustificarlo: la vita e la grandezza della Patria. Fede energica, violenta, non disposta a nulla rispettare che opponesse alla vita, alla grandezza della Patria. Sorse così lo squadrismo. Giovani risoluti, armati, indossanti la camicia nera, ordinati militarmente, si misero contro la legge per instaurare una nuova legge, forza armata contro lo Stato per fondare il nuovo Stato.
Lo squadrismo agì contro le forze disgregatrici antinazionali, la cui attività culminò nello sciopero generale del luglio 1922 e finalmente osò l’insurrezione del 28 ottobre 1922, quando co­lonne armate di fascisti, dopo aver occupato gli edifici pubblici delle province, marciarono su Roma. La Marcia su Roma, nei giorni in cui fu compiuta e prima, ebbe i suoi morti, soprattutto nella Valle Padana. Essa, come in tutti i fatti audaci di alto contenuto morale, si compì dapprima fra la meraviglia e poi l’ammirazione ed infine il plauso universale. Onde parve che ad un tratto il popolo italiano avesse ritrovato la sua unanimità entu­siastica[10] della vigilia della guerra, ma più vibrante per la coscien­za della vittoria già riportata e della nuova onda di fede ristoratrice venuta a rianimare la Nazione vittoriosa sulla nuova via faticosa della urgente restaurazione delle sue forze finanziarie e morali.
IL GOVERNO FASCISTA
Lo squadrismo e l’illegalismo cessavano e si delineavano gli ele­menti del regime voluto dal Fascismo. Tra il 29 e il 30 ottobre ripartirono da Roma nel massimo ordine le 50.000 camicie nere che dalle province avevano marciato sulla Capitale; partirono do­po aver sfilato davanti a S. M. il Re; partirono ad un cenno del loro Duce, divenuto Capo del Governo e anima della nuova Italia auspicata dal Fascismo. [...]
Ma gli stranieri, che sono venuti in Italia, sorpassando quella cerchia di fuoco creata intorno all’Italia fascista dai tiri di in­terdizione con cui una feroce propaganda cartacea e verbale, in­terna ed esterna, di italiani e non italiani, ha cercato di isolare l’Italia fascista, calunniandola come un paese caduto in mano all’arbitrio più violento e più cinico, negatore di ogni civile li­bertà legale e garanzia di giustizia; gli stranieri che hanno po­tuto vedere coi propri occhi questa Italia, e udire coi propri orecchi i nuovi italiani e vivere la loro vita materiale e morale, hanno cominciato dall’invidiare l’ordine pubblico oggi regnante in Italia, poi si sono interessati allo spirito che si sforza ogni giorno più d’impossessarsi di questa macchina così bene ordi­nata e han cominciato a sentire che qui batte un cuore pieno di umanità, quantunque scosso da un’esasperante passione patriot­tica; giacché la Patria del Fascista è pure la Patria che vive e vibra nel petto di ogni uomo civile, quella Patria cui il senti­mento dappertutto si è riscosso nella tragedia della guerra e vi­gila, in ogni paese, e deve vigilare a guardia di interessi sacri, anche dopo la guerra; anzi per effetto della guerra, che nessuno più crede l’ultima.
Codesta Patria è pure riconsacrazione delle tradizioni e degli isti­tuti che sono la costanza della civiltà, nel flusso e nella peren­nità delle tradizioni. Ed è scuola di subordinazione di ciò che è particolare ed inferiore a ciò che è universale ed immortale, è rispetto della legge e disciplina, è libertà ma libertà da conquistare attraverso la legge, che si instaura con la rinuncia a tutto ciò che è piccolo arbitrio e velleità irragionevole e dissipatrice. È concezione austera della vita, è serietà religiosa, che non di­stingue la teoria dalla pratica, il dire dal fare, e non dipinge ideali magnifici per relegarli fuori di questo mondo, dove intanto no si possa continuare a vivere vilmente e miseramente, ma è duro sforzo di idealizzare la vita ed esprimere i propri convincimenti nella stessa azione o con parole che siano esse stesse azioni, impegnando chi le pronuncia e impegnando con lui il mondo stesso di cui egli è parte viva e responsabile in ogni istante del tempo, in ogni segreto respiro della coscienza.
[...]

Benedetto Croce[11]
Il manifesto degli intellettuali antifascisti
[da il mondo, 1 maggio 1925]
Ecco, quasi per intero, il manifesto redatto da Croce, su invito di Giovanni Amendola, e pubblicato il primo maggio 1925 in contrap­posizione al manifesto degli intellettuali fascisti. Numerose furono le adesioni di uomini rappresentativi della cultura italiana, anche se in seguito ci furono parecchie defezioni.
Non è il caso di soffermarsi sul problema largamente dibattuto – l’ambiguo atteggiamento iniziale di Croce nei riguardi del Fascismo e il ruolo sostanzialmente conservatore,  nella  cultura  e  nelle implicazioni  politiche,  della  sua opera — ma è necessario precisare che con questo manifesto, Croce superava, nei riguardi del fascismo, la posizione di attesa, a volte be­nevola, fino ad allora tenuta[12]. Ora la posizione è ben diversa; ma in­serita sempre in un quadro di conservatorismo illuminato di cui due punti vanno sottolineati:
a) la cultura concepita come ricerca che non si contamina con la poli­tica, come attività che ripudia ogni impegno di lotta;
b) la soluzione politica proposta da Croce è una restaurazione pura e semplice degli ordinamenti e dei metodi del vecchio Stato liberale; il fascismo è solo una momentanea deviazione e quindi il problema del rapporto fra Stato liberale precedente e fascismo non si pone nemmeno.

Gl’intellettuali fascisti, riuniti in congresso a Bologna, hanno in­dirizzato un manifesto agl’intellettuali di tutte le nazioni per spie­gare e difendere innanzi ad essi la politica del partito fascista. Nell’accingersi a tanta impresa quei volenterosi signori non debbono essersi rammentati di un consimile e famoso manifesto, che, agli inizi della guerra europea, fu bandito al mondo dagli intel­lettuali tedeschi: un manifesto che raccolse, allora, la riprova­zione universale, e più tardi dai tedeschi stessi fu considerato un errore.
E, veramente, gl’intellettuali, ossia i cultori della scienza e del­l’arte, se, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l’ascriversi a un partito e fedelmente servirlo, come intellettuali hanno solo il dovere di attendere, con l’opera dell’indagine e della critica, e con le creazioni dell’arte, a innal­zare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale, affinchè, con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessaria. Varcare questi limiti dell’ufficio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e scienza, è un errore, che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi neppure un errore generoso. E non è nemmeno, quello degl’intellettuali fascistici, un atto che risplenda di molto delicato sentire verso la Patria, i cui travagli non è lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti (co­me, del resto, è naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle proprie nazioni.
Nella sostanza, quella scrittura, è un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati ra­ziocini: come dove si prende in iscambio l’atomismo di certe costruzioni della scienza politica del secolo decimottavo col liberalismo democratico con la concezione sommamente storica della libera gara e dell’avvicendarsi dei partiti al potere, anche, mercé l’opposizione, si attua, quasi graduandolo, il progresso; - o co­me dove, con facile riscaldamento retorico, si celebra la doverosa sottomissione degl’individui al Tutto, quasi che sia in questione ciò, e non invece la capacità delle forme autoritarie a garantire il più efficace elevamento morale[13].
[...]
Ma il maltrattamento della dottrina e della storia è cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell’abuso che vi si fa della parola «religione»; perché, a senso dei signori intellettuali fascistici, noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di reli­gione, dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione, che rilutta alla morte, la quale le sta sopra e alla quale dovrà pur acconciarsi; - e ne recano a prova l’odio e il rancore che ardono, ora come non mai, tra italiani e italiani. Chiamare contrasto di religione l’odio e il rancore che si accendono da un partito che nega ai componenti degli altri partiti il carattere d’italiani e li ingiuria stranieri, e in quest’atto stesso si pone esso agli occhi di quelli come straniero e oppres­sore, e introduce così nella vita della Patria i sentimenti e gli abiti  che sono propri di altri conflitti; nobilitare col nome di religione il sospetto e l’animosità sparsi dappertutto, che hanno tolto per­fino ai giovani dell’Università l’antica e fidente fratellanza nei comuni e giovanili ideali, e li tengono gli uni contro gli altri in sembianti ostili: è cosa che suona, a dir vero, come un’assai lugubre facezia.
In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova religione, la nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso manifesto; e, d’altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza,  mostra  allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all’autorità e di demagogismo, di professata riverenza alle leggi e di violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti asso­lutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamento alla Chiesa cattolica, di aborrimento dalla cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdi­linquimenti mistici e di cinismo. E, se anche taluni plausibili prov­vedimenti sono stati attuati o avviati dal governo presente, non è in essi nulla che possa vantare un’originale impronta, tale da dare indizio di un nuovo sistema politico, che si denomini dal fascismo.
Per questa caotica e inafferrabile «religione» noi non ci sentia­mo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l’anima dell’Italia che risorgeva, del­l’Italia moderna; quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l’educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento. Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l’Italia, patirono e morirono, e ci sembra di vederli offesi e turbati in volto alle parole che si pronunziano e agli atti che si compiono dai nostri italiani avversari, e gravi e ammonitori a noi perché teniamo salda in pugno la loro bandiera[14]. La nostra fede non è un’escogitazione artificiosa e astratta o un invasamento di cervello, cagionato da mal certe o mal comprese teorie; ma è il possesso di una tradizione, diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale e morale.
Ripetono gl’intellettuali fascisti, nel loro manifesto, la trista fra­se che il Risorgimento d’Italia fu l’opera di una minoranza; ma non avvertono che in ciò appunto fu la debolezza della nostra costituzione politica e sociale e anzi par quasi che si compiacciano della odierna per lo meno apparente indifferenza di gran parte dei cittadini d’Italia di fronte ai contrasti tra il fascismo e i suoi oppositori. I liberali di tal cosa non si compiacquero mai, e si studiarono a tutto potere di venire chiamando sempre maggior numero d’italiani alla vita pubblica; e, in questo fu la precipua origine anche di qualcuno dei più disputati loro atti, come la lar­gizione del suffragio universale. Perfino il favore, col quale ven­ne accolto da molti liberali, nei primi tempi, il movimento fasci­stico, ebbe tra i suoi sottintesi la speranza che, mercé di esso, nuove e fresche forze sarebbero entrate nella vita politica, forze di rinnovamento e (perché no?) anche forze conservatrici[15]. Ma non fu mai nei loro pensieri di mantenere nell’inerzia e nell’in­differenza il grosso della nazione, appagandone taluni bisogni ma­teriali, perché sapevano che, a questo modo, avrebbero tradito le ragioni del Risorgimento italiano e ripigliato le male arti dei go­verni assolutistici e quietistici.
Anche oggi, né quell’asserita indifferenza e inerzia, né gli impe­dimenti che si frappongono alla libertà, c’inducono a disperare o a rassegnarci. Quel che importa, è che si sappia ciò che si vuole no e che si voglia cosa d’intrinseca bontà. La presente lotta politica in Italia varrà, per ragione di contrasto, a ravvivare e a fare in­tendere in modo più profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali, e a farli amare con più consapevole affetto. E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l’Italia doveva percor­rere per rinvigorire la sua vita nazionale, per compiere la sua edu­cazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile.
Firmato: Antonino Anile — Giovanni Ansaldo — Giovanni Amendola — Roberto Bracco – Leonardo Bianchi – Sem Benelli – Carlo Cassola — Emilio Cecchi — Giuseppe Chiovenda — Bene­detto Croce – Cesare De Lollis – Vincenzo De Bartholomaeis – Guido De Ruggiero — Roberto De Ruggiero – Luigi Einaudi — Carlo Fadda — Guglielmo Ferrerò — Nicola Festa — Giustino Fortunato – Tommaso Gallarati Scotti — Alfredo Galletti – Pietro Giacosa – Ettore Ianni – A. C. Jemolo – Giorgio Levi della Vida – Alberto Marghieri – Rodolfo Mondolfo – Bortolo Nigrisoli — Silvio Perozzi — Enrico Presutti — Giuseppe Ricchieri — Tullio Rossi Doria — Francesco Ruffni — Luigi Sal­vatorelli — Giuseppe Santarelli — Matilde Serao — Arturo Solari – Giuseppe Tarozzi — Guido Villa – Leonida Tonello – Pietro Toldo.


[1] Le terre del Sacramento - I tratti essenziali dell’ideologia di Jovine sono presenti nel romanzo Le terre del Sacramento, pubblicato nel 1950, poco dopo la sua morte, dalla casa editrice Einaudi.
Il tema principale del romanzo è la terra attorno alla quale ruota la vita dei protagonisti: Enrico Cannavale, un avvocato dotato di qualche velleità socialista, dedito al bere, al gioco e alle donne; sua cugina Clelia, venuta a vivere da lui dopo la morte di sua madre; sua cugina Laura de Martiis, che riesce a sedurlo e a divenire sua moglie; Luca Marano, un ex seminarista figlio di contadini, studente in legge a Napoli, giovane di nobili ideali. Accanto a loro, una selva di personaggi minimi e minori, ben distinguibili: da una parte i padroni e i loro amici (avvocati, notai, nobili e nobilastri ecc.), dall’altra i contadini ed i diseredati.
La vicenda si svolge, tra il 1921 e il 1922, nei paesi di Calena e di Morutri, alla vigilia della marcia su Roma. Enrico è sommerso di debiti: tenta di gestire la grande proprietà del Sacramento, ma non ne ha né la voglia né la costanza di applicarsi per uscire da una situazione che volge al peggio, finendo per delegare tutta la gestione al proprio fattore, Felice Protto, che lo imbroglia regolarmente.
Un giorno, nella vita di Enrico entra la cugina Laura de Martiis, tornata a Calena a causa di un lutto familiare, dopo aver vissuto alcuni anni a Napoli: i due cominciano a frequentarsi e alla fine si sposano. Laura decide di occuparsi del feudo del Sacramento, per tentare di riportare ordine negli sconclusionati affari del marito e di scongiurare il tracollo finanziario che sembra imminente. Ottenuta una delega totale da parte di Enrico, Laura si dedica con grande energia ed entusiasmo all’impresa.
Ricorre così anche all’aiuto di Luca, impiegato dallo zio in piccoli servizi di notariato locale; in realtà, Luca serve a Laura principalmente come tramite con i contadini di Calena e Morutri, presso i quali il giovane gode di notevole prestigio, grazie ai suoi studi universitari, alla sua cortesia ed ai consigli legali pieni di buon senso che dispensa a chiunque glieli chieda.
I propositi di Laura sembrano onesti: il suo fine pare davvero quello di risanare la situazione finanziaria del Sacramento, tanto che non esita a profondere nell’impresa denari e proprietà personali e ad esporsi in prima persona per ottenere prestiti a Napoli. Grazie alle sue amicizie Laura ottiene credito, nonostante la proprietà sia già gravata da ipoteche: perché il denaro arrivi, occorre però che le terre comincino a fruttare quindi i contadini devono mettersi a lavoro. Qui interviene Luca: il suo compito è convincere i contadini ad anticipare lavoro in cambio della promessa di ottenere, dopo i primi raccolti degli appezzamenti di terreno in concessione.
I contadini accettano la proposta e cominciano a lavorare, fiduciosi della parola data da Luca. Per un po’ di tempo, tutto sembra procedere per il meglio, quando improvvisamente lo scenario cambia: Laura parte con il marito (convalescente dopo uno scontro con i fascisti locali) e non dà più notizie di sé. Dopo qualche tempo, Enrico torna da solo a Calena e Laura sembra sparita nel nulla. Luca si mette sulle sue tracce: va a Napoli, la cerca invano. Infine apprende che è partita per San Remo.
Intanto da Calena giungono notizie allarmanti: molti contadini hanno ricevuto ingiunzioni di sfratto, altri si sono visti moltiplicare venti, trenta volte il canone d’affitto. La situazione precipita: una società anonima di Roma risulta la legittima proprietaria delle terre ed opera con l’intenzione di cacciare i contadini dalle zone più fertili, riservando loro quelle più aride e pietrose a prezzi di affitto esorbitanti.
Luca torna a Calena ed organizza una resistenza bianca: i contadini vogliono solo lavorare e pretendono il rispetto della parola data. Così le terre del Sacramento sono occupate, ma la calata di fascisti e di carabinieri coalizzati spazza via il tentativo dei contadini. Luca e qualche altro muoiono sul campo.
Dal punto di vista strutturale il romanzo non è suddiviso in capitoli, ma presenta stacchi bianchi ad intervalli regolari, in modo tale che la storia ci appare come una serie di tasselli che compongono un puzzle.
Il narrativo è quello neorealistico anche se la sua collocazione più che avvenire nella contemporaneità descrive una vicenda che si colloca una generazione almeno prima del 1950. Pertanto esso può oggi essere definito anche di grande valenza storica. La storicità del romanzo è di livello medio infatti non compaiono personaggi appartenenti alla grande Storia, ma solo un evento e precisamente la vicenda si svolge nel contesto storico dell’avvento del Fascismo, un  evento storico di portata nazionale, che nel romanzo produce degli effetti che coinvolgono e condizionano lo sviluppo della vicenda e dei personaggi che appartengono tutti alla piccola storia, ma che completano l’affresco nei minimi dettagli.
L’arco di  tempo in cui si svolge la storia è abbastanza breve, infatti il romanzo inizia nell’autunno del 1921 e termina alla vigila della marcia su Roma nel 1922. Siamo  agli  inizi del Fascismo, quando le camicie nere cominciavano a sopprimere qualsiasi altra tendenza politica, e si spingevano ad usare la violenza senza indugiare. Due delle vittime di questa violenza furono Berberi e l’avvocato socialista Enrico Cannavale che  quando “un colpo di bastone gli cadde sulla testa violentemente” “Cadde di schianto a terra”.
Il rapporto che intercorre tra il tempo della storia ed il tempo del racconto è strettissimo, in quanto il romanzo stesso si basa sull’ascesa del Fascismo e sulla sua espansione, anche in paesini del Molise così remoto come Calena o Morutri.
Nonostante il legame sia forte tra il romanzo ed il tempo, non  vi sono molte date che appartengono alla grande storia, e si  può classificare tale solo la marcia su Roma del 1922.
[2] Giorgio Bassani - Nacque a Bologna il 4 marzo del 1916 da una famiglia della borghesia ebraica, ma trascorse l’infanzia e la giovinezza a Ferrara, destinata a divenire il cuore pulsante del suo mondo poetico, dove si laureò in Lettere nel 1939. Durante gli anni della guerra partecipò attivamente alla Resistenza e conobbe anche l’esperienza del carcere; nel 1943 si trasferì a Roma, dove visse per tutta la vita. Dopo il ‘45 che si dedicò all’attività letteraria in maniera continuativa, lavorando sia come scrittore (poesia, narrativa e saggistica) sia come operatore editoriale: è significativo ricordare che fu proprio lui ad appoggiare presso l’editore Feltrinelli la pubblicazione del Il gattopardo, romanzo segnato dalla stessa visione liricamente disillusa della storia che si incontra anche nelle opere dell’autore de Il giardino dei Finzi Contini. Bassani ha lavorato anche nel mondo della televisione, arrivando a ricoprire il ruolo di vicepresidente della Rai; ha insegnato nelle scuole ed è stato anche docente di Storia del teatro presso l’Accademia d’Arte Drammatica di Roma. Ha partecipato attivamente alla vita culturale romana collaborando a varie riviste, tra cui «Botteghe Oscure», rivista di letteratura internazionale uscita tra il ‘48 e il ‘60. Va inoltre ricordato il suo lungo e costante impegno come presidente dell’associazione Italia Nostra, creata in difesa del patrimonio artistico e naturale del Paese. Dopo alcune raccolte di versi e la pubblicazione in un unico volume delle Cinque storie ferraresi nel 1956, Bassani raggiunse il grande successo di pubblico con Il giardino dei Finzi Contini (1962): nel 1970 il romanzo riceverà anche un’illustre trasposizione cinematografica per opera di De Sica, dalla quale però Bassani vorrà sempre prendere le distanze. Le opere successive dello scrittore, sviluppate tutte intorno al grande tema geografico-sentimentale di Ferrara, sono Dietro la porta (1964); L’Airone (1968); L’odore del fieno (1973), riunite nel 1974 in un unico volume insieme al romanzo breve Gli occhiali d’oro (1958), dal significativo titolo Il romanzo di Ferrara. Dopo un lungo periodo di malattia, segnato anche da dolorosi contrasti all’interno della sua famiglia, Bassani si spense a Roma il 13 aprile del 2000.
[3] Il giardino dei Finzi Contini - Il giardino dei Finzi Contini è un romanzo scritto da Giorgio Bassani tra il 1958-1961, il libro è diviso in quattro capitoli racchiusi tra un prologo e un epilogo.
Romanzo avvincente sia sul piano storico che su quello sentimentale, la sua componente fondamentale è la memoria attraverso la quale Bassani è riuscito a ricostruire un pezzo di storia del difficile periodo fascista.
Nel 1938 furono promulgate le leggi razziali in attuazione delle quali tutte le famiglie ebraiche e gruppi di giovani ebrei furono esclusi dalle forze armate, dalle industrie, dalle attività commerciali, dagli enti pubblici e privati.
Bassani ha scritto un romanzo con bellissima valenza storica: storica è l’inconcepibile discriminazione nei confronti degli ebrei e storica è la descrizione del rituale della cena pasquale il Kippur.
L’autore si immedesima nella realtà storica che lo ha circondato, lo riconduce al presente e si confronta nel fluire del tempo.
Nel romanzo egli descrive la triste sorte della famiglia ebraica dei Finzi Contini proprietari a Ferrara di un’enorme villa all’interno della quale è ambientato il romanzo.
L’io narrante è ospitato da questa famiglia che gli permette di poter completare gli studi usufruendo dei testi presenti nella loro biblioteca di famiglia.
Anche se la storia raccontata in questo romanzo è confinata al passato le violenze e le discriminazioni razziali e religiose continuano ancora oggi a persistere nella nostra società.
[4] Patto di Monaco - Accordo raggiunto nella capitale bavarese tra i rappresentanti di Germania (Hitler), Gran Bretagna (N. Chamberlain), Francia (E. Daladier) e Italia (Mussolini), che consentì ai tedeschi di occupare (1-10 ottobre) il territorio cecoslovacco abitato dalla forte minoranza tedescofona dei Sudeti.
La regione fin dal 1933 era oggetto di rivendicazioni territoriali dei nazionalsocialisti, miranti a riunire tutte le popolazioni di lingua e tradizioni tedesche in un unico stato.
L’esplicita minaccia di Hitler (12 settembre 1938) di procedere all’annessione violenta dei Sudeti e il montare della tensione internazionale spinsero Mussolini a farsi promotore dell’incontro di Monaco, dove non furono invitati i dirigenti cecoslovacchi, diretti interessati.
Il cedimento di britannici e francesi alle pretese naziste in nome dell’appeasement provocò in Hitler la convinzione che le potenze occidentali non avrebbero scatenato un grave conflitto di fronte ad altre espansioni del Terzo Reich, mentre presentò il duce italiano come salvatore della pace e contribuì ad avvicinare l’Urss ai tedeschi (successivo accordo dell’agosto 1939).
Il compromesso si rivelò fragile, poiché l’intera Cecoslovacchia fu poi occupata dalla Germania nel marzo 1939.
[5] La guerra civile spagnola - La guerra civile spagnola scoppia nel 1936. Alle elezioni politiche di febbraio le forze di sinistra tornano al governo,  grazie al primo esperimento di Fronte popolare. Il 18 luglio però la situazione precipita: alcune guarnigioni militari insorgono contro il governo repubblicano e il generale Franco sbarca sul suolo nazionale con le truppe coloniali, dal Marocco.
È l’inizio della guerra civile, con pesanti ripercussioni anche sul piano internazionale. Sarà infatti la prova generale della seconda guerra mondiale perché il conflitto vede impegnate a sostegno delle due parti in lotta da un lato Urss, Messico e, a fasi alterne, Francia, e dall’altro Italia, Germania e Portogallo.
La Spagna è anche il teatro del primo scontro armato tra fascismo e antifascismo, con la partecipazione di molti intellettuali da ogni parte del mondo, a partire dagli Usa, e con gli italiani – le camicie nere di Mussolini da un lato, e gli antifascisti e gli anarchici dall’altro – impegnati su entrambi i fronti. La guerra si concluderà nel marzo del ‘39, con la vittoria di Francisco Franco e l’instaurazione di una dittatura fondata sul potere legislativo del Caudillo e sulla repressione degli oppositori, che durerà fino al 1975 e causerà la morte di 200.000 antifascisti, centinaia di migliaia condannati a pene varie, 300.000 esiliati.
[6] Vasco Pratolini - L’infanzia e la giovinezza di Vasco Pratolini, nato a Firenze nel 1918, sono state particolarmente dure e travagliate e la sua formazione è stata alquanto diversa da quella tradizionale del letterato italiano. Orfano di madre a cinque anni, vive coi nonni, modestamente, prima in via de’ Magazzini poi in via del Corno (che descriverà nei suoi romanzi), fa studi irregolari e vari mestieri fino a diciotto anni: lasciato poi il lavoro si impegna in un intenso studio da autodidatta, ma negli anni fra il 1935 e il 1936, ammalatosi di tubercolosi, viene ricoverato in sanatorio. Tornato definitivamente nel 1951 a Roma, Pratolini pubblica, nel 1955, Metello, primo testo della trilogia Una storia italiana, proseguita con Lo scialo (1960, ma rielaborato notevolmente in una nuova edizione del 1976) e con Allegoria e derisione (1966): si tratta di «un grande affresco storico intriso di interessi ideologici, sociali, e morali: dalla lotta per il riscatto sociale del mondo operaio, in Metello, attraverso il quadro della società borghese durante il fascismo con Lo scialo, fino alla crisi delle ideologie nel dopoguerra consegnata alle pagine inquiete di Allegoria e derisione» (G. Luti).
La pubblicazione nel 1981 de Il mantello di Natascia - testimonianze e notazioni risalenti agli anni Trenta - ha interrotto il lungo silenzio seguito alla pubblicazione della trilogia.
Pratolini è morto a Roma nel gennaio del 1991.
[7] Cronache di poveri amanti - Via del Corno è la protagonista di Cronache di poveri amanti e le cronache che mette in scena sono quelle della Firenze negli anni che vanno dal 1920 al 1925. Sono cronache che diventano storia.
Via del Corno «è tutta udito» ed è ben diversa da Via dei Robbia, la via dei borghesi, dove le stanze sono in ordine, dove la gente non è curiosa; in Via del Corno anche quando le finestre sono chiuse, gli occhi «marinano il sonno»; in Via del Corno il teatrino di ogni famiglia diviene argomento di conversazione.
Aurora Cecchi, figlia di uno spazzino, Milena Bellini figlia di un ufficiale giudiziario, Bianca Quagliotti figlia di un dolciere ambulante, Clara Lucatelli figlia di uno sterratore. Maciste, Ugo e Mario, i «sovversivi», Osvaldo e Carlino i «camerati». La «Signora», che dalla finestra osserva le vicende dei «cornacchiai», con lo sguardo del Male, quello di una donna senza cuore, sola, che ha perso la bellezza di un tempo e ha sogni folli e perversi. Ma altri ancora sono i nomi che compaiono in questo quartiere, con case dalle finestre aperte per il caldo, case con i ventilatori, parole dette sottovoce nella lontananza dei davanzali, i due angoli della strada per molti di loro sono l’orizzonte. I dolori hanno cambiato l’espressione dei loro occhi. Alcune donne hanno dovuto crescere per forza, non portano più i capelli con le trecce lunghe, hanno un taglio alla garçonne, sono le donne con più esperienza, sono le prostitute. Elisa, «dal corpo robusto ma dall’animo corroso», si trascina dietro gli uomini con lo sguardo, ma non può permettersi di innamorarsi di Bruno solo perché lui l’ha desiderata per anni, perché Bruno ha ben chiara la differenza tra le donne da sposare e quelle con cui fare l’amore.
Osvaldo e Maciste i due antifascisti, Osvaldo e Carlino i due fascisti. Pratolini ce lo dice, ognuno di loro ha scelto la propria vocazione, il proprio destino, perché il confine tra il bene e il male è molto sottile, «Infinite sono le strade della Grazia, sterminate come quelle del Peccato».
Osvaldo, consapevole di aver tradito «teme i propri pensieri», Ugo ha paura di aver perso la stima dei propri compagni. Nessun eroe è impavido, ma diviene coraggioso perché ha consapevolezza della sua paura.
Si corre avanti, si scappa, si fugge, si fa la rivoluzione. E la rivoluzione si fa con il sidecar di Maciste, «la stella cometa che annunzia il diluvio agli uomini di buona volontà».
Dopo aver lottato e «essersi sudati la vita» il viso avrà perso lo sguardo della curiosità, a volte anche quello della speranza, ciascuno avrà la propria storia scritta e non sempre potrà ribellarsi agli eventi, ma continuerà a «correre sempre più avanti per non morire».
[8] Giovanni Gentile - Nacque a Castelvetrano nel 1875. Docente a Palermo dal 1906 al 1914; passò poi a Pisa alla cattedra di filosofia teoretica; nel 1915 partecipò attivamente al Comitato pisano di preparazione e mobilitazione civile, secondo i principi espressi ne La filosofia della guerra (1914).
Nel 1919 venne chiamato all’Università di Roma; dal 1922 al 1924 fu ministro della Pubblica Istruzione e legò al suo nome la riforma della scuola.
A conclusione di quanto aveva scritto e fatto nel decennio precedente, nel 1923 si iscrisse al partito fascista, adoperandosi per dargli un programma ideologico e culturale: primo atto di questo suo impegno fu il Manifesto degli intellettuali del fascismo  (1925), a cui Croce rispose con un contromanifesto che da allora rese insanabile il contrasto fra i due filosofi.
Gentile tentò di collegare il Fascismo direttamente al Risorgimento. Dal 1920 in poi il filosofo diresse il Giornale critico della filosofia italiana e numerose collane di classici e di testi scolastici; dal 1925 al 1944 diresse l’Enciclopedia Italiana.
Negli ultimi anni del fascismo Gentile tentò di porsi al di sopra dei contrasti con un nuovo programma di unità nazionale (“Discorso agli Italiani”, 1943).
Fu ucciso dai partigiani fiorentini il 15 aprile del 1944 in quanto considerato uno dei maggiori responsabili del regime fascista.
[9] demosocialista: di ispirazione democratica e socialista, ma il termine rientra nel linguaggio spregiativo fascista.
[10] unanimità entusiastica: qui siamo di fronte ad un vero e proprio falso. Se vi fosse stata una tale unanimità, perché ricorrere allora alle leggi del 3 gennaio 1925 contro la stampa e i partiti di opposizione?
[11] Benedetto Croce - Nacque a Pescasseroli in Abruzzo il 25 febbraio 1866.
Il più grande mostro di cultura italiano non era laureato: aveva studiato in casa, figlio di ricchi possidenti di Pescasseroli.
Legato per tutta la vita a Napoli, Benedetto Croce era dotato di una enorme capacità lavorativa, durata fino alla morte, a 86 anni. Messo al riparo dalle necessità materiali da un ingente patrimonio personale, svolse come libero scrittore un’ininterrotta e intensa attività nei più svariati campi della filosofia, della storia, della letteratura e dell’erudizione.
Filosofo e mentore politico, Croce era un liberale molto moderato, diffidente verso il suffragio universale fino alla prima guerra mondiale.
Teorico dello storicismo e dell’idealismo, è conosciuto per la sua teoria delle quattro sfere dello spirito: la morale, la politica, l’estetica e l’etica; ognuna di queste ha, secondo Croce, una propria autonomia, ma tutte godono della circolarità dello spirito.
Giolittiano, senatore di nomina regia, fu ministro della Pubblica istruzione nel dopoguerra.
All’avvento del Fascismo, fino al delitto Matteotti, dimostrò grande indulgenza verso il regime. Legato da amicizia con Giovanni Gentile (che fu per molti anni, e fin dall’inizio nel 1903, collaboratore della sua rivista La critica), Croce ruppe questa amicizia quando Gentile pubblicò il Manifesto degli intellettuali fascisti. Croce promosse sulla sua rivista un contromanifesto che diventò un riferimento dell’antifascismo interno (pubblicato il 1° maggio 1925). A questa rottura, seguì da ambo le parti una polemica puntigliosa, durata molti anni. Il regime fascista, per costruirsi un alibi di fronte agli ambienti internazionali della cultura, consentì tacitamente a Croce una certa libertà di critica politica. Mussolini chiese: “Quante copie tira Critica?”. Gli risposero: “1500”. “Allora lasciatelo stare”.
Croce pensava del Fascismo che fosse una brusca interruzione, frutto di una necrosi spirituale portata dalla guerra. Croce si avvalse di questa possibilità nei libri e nelle note che pubblicava su La critica per una difesa degli ideali della libertà.
Esiliato in patria, diventò il riferimento di molti intellettuali italiani.
Nel 1944, elaborò la teoria del Fascismo come parentesi
Nel 1943-47 fu presidente del Partito Liberale, e partecipò ai governi Badoglio e Bonomi e alla Costituente. Decisamente avverso al comunismo, si commosse leggendo le lettere di Gramsci, di cui loda il valore letterario.
Collaborò anche al Mondo di Pannunzio.
Morì a Napoli il 20 novembre 1952.
La poesia, l’arte, la bellezza erano ritenute dai Positivisti e dagli Evoluzionisti, piacere dei sensi, piacere di associazioni psichiche, piacere di abitudini.
Contro tutto questo, egli riconduce l’arte a espressione della vita dello spirito ed insiste che proprio questo aspetto va ricercato in un’opera d’arte.
La logica dei distinti consente a Croce di salvaguardare la diversità e l’autonomia dell’arte rispetto alle altre forme di vita dello spirito. L’arte è autonoma dalla filosofia, dell’economia, della scienza, dalla morale. Né è mezzo di propaganda politica o etco-religiosa. Se si trasforma in pensiero logico, l’arte viene meno.
L’arte, non è giudicabile in base a criteri di carattere scientifico, morale o pratico-utilitario. Ad esempio non si può dire che un’opera d’arte, in quanto tale, cioè prodotto artistico, sia immorale, anche quando i suoi contenuti riguardino atti di per sé riprovevoli.
L’arte è per Croce la conoscenza dell’individuale, l’espressione dell’individuale in forma fantastica e sentimentale. In essa l’uomo intuisce ed esprime le immagini della fantasia senza preoccuparsi se esse siano vere, se corrisponda loro una realtà.
Per quanto riguarda la poesia, secondo lui, il sentimento, nell’opera poetica è superato nella sua immediatezza. Il sentimento immediato non è, infatti, linguaggio, ma può tradursi solo in un insieme di suoni articolati, senza raggiungere la poesia. L’espressione poetica è, invece, la morte del sentimento immediato. In essa il sentimento si crea insieme alla forma
[12] «il fascismo non poteva e non doveva essere altro, a mio parere, che un ponte di passaggio per la restaurazio­ne di un più severo regime liberale... Bisogna dar tèmpo allo svolgersi del processo di trasformazione del fascismo » dichiarava sul giornale d’italia del 9 luglio 1924)
[13] doverosa.,, morale: attento a questo problema qui lucidamente cen­trato: è indiscutibile e doveroso che nella vita associata gli interessi e le prospettive del tutto, della comunità contino più di quelli del singolo; si tratta di scegliere forme ed istituti di vita collettiva che permettano l’ele­vamento e la maturazione, attraverso la partecipazione, del singolo. E non è sostenibile che le forme autoritarie permettano ciò.
[14] quella fede... bandiera: è la parte più commossa e, si direbbe, più accorata del « manifesto ». Croce guarda al lungo travaglio per la creazione dello Stato liberale come ad un’età eroica e agli ideali della libertà democra­tica come ad ideali perenni: sarà da questo nostalgico rimpianto del passato che scaturiranno, a distanza di qualche anno da questo scritto, la storia d’italia dal 1870 al 1915 e la storia d’europa.
[15] favore... conservatrici’. è una evidente autocritica. Nell’aggiunta del 1950 al contributo alla critica di me stesso il Croce più esplicitamente dirà: considerai il fascismo, a dire il vero poco accortamente, un episodio del dopoguerra, con alcuni tratti di reazione giovanile e patriottica, che si sa­rebbe dissipato senza far male e anzi lasciando dietro di sé qualche effetto buono. Non mi veniva lontanamente nel pensiero che l’Italia potesse farsi togliere dalle mani la libertà che le era costata tanti sforzi e tanto sangue e si teneva dalla mia generazione un acquisto per sempre. Ma l’inverosimile accadde...

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