Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

venerdì 29 aprile 2011

La tragedia della guerra di Massimo Capuozzo

La tragedia della guerra
Le vicende del conflitto furono disastrose: la rotta in Grecia, la disfatta dell’Armata italiana in Russia, le sconfitte che avevano costretto al ritiro dall’Africa settentrionale, l’invasione della Sicilia alienarono l’animo del popolo dal partito fascista. La gente che, credendo all’ostentazione di forza di Mussolini, l’aveva acclamato al momento della dichiarazione di guerra, si sentiva tradita, vedeva che la nazione era stata gettata senza preparazione in una prova durissima che si era risolta in un disastro, manifestava ormai apertamente il suo dissenso e la sua volontà di pace.
Questa situazione alimentò il sorgere ed il concretarsi di trame che, partendo indipendentemente da ambienti diversi (gli alti comandi dell’esercito, la Corte, alcuni gerarchi dello stesso Partito fascista) tendevano ad agire sul Re perché ritirasse la sua fiducia a Mussolini e riprendesse nelle sue mani il comando dell’esercito: un primo passo verso il distacco dell’Italia dalla Germania, per procedere ad una pace separata e forse anche ad un capovolgimento del fronte.

Richard Collier
Il crollo del fascismo
Prima che queste trame venissero a conclusione, alcuni gerarchi del Gran Consiglio del Fascismo sconfessarono Mussolini e chiesero al Re, con una mozione di sfiducia a Mussolini, preparata dal gerarca Dino Grandi e da Galeazzo Ciano, di destituire il Duce: il brano narra la drammatica seduta del Gran Consiglio ed il suo drammatico svolgimento.

Ora o mai, disse Grandi fra sé. Si alzò. Le sue prime parole furono ponderate per infondere coraggio negli irresoluti: avrebbe dimostrato, sperava, che un uomo poteva dire a Mussolini la cruda verità e tuttavia sopravvivere.
«Non parlo per il Duce, ma per voi, camerati del Gran Consiglio, perché non faccio che ripetere quello che già dissi al Duce or sono quarantott’ore».
Distolse gli occhi da Mussolini, si protese tutto verso i colleghi guardandoli intensamente. Incominciò a leggere la sua mozione fissandoli di quando in quando; a molti la cosa risultava completamente nuova.
Finita la lettura, con voce fredda e modulata, si buttò a capofitto. La dittatura - disse - non la debolezza dell’Esercito era responsabile della situazione italiana.
«Il Popolo italiano è stato tradito da Mussolini il giorno in cui egli cominciò a germanizzare l’Italia. Questo è l’uomo che ci ha trascinato nelle braccia di Hitler. Ci ha costretti a una guerra che è contro l’onore, gli interessi, i sentimenti del Popolo italiano! »
Nel salone l’aria era greve come in una camera ardente. Mussolini sedeva inerte, appoggiato di fianco sul bracciolo sinistro della poltrona quasi a meglio distanziarsi da Grandi, la mano a proteggere gli occhi dalla luce viva della lampada da tavolo. Carlo Scorza, che gli era accanto, vide il suo ginocchio sinistro sobbalzare come al ritmo di un polso: era un indizio certo che l’ulcera lo tormentava. Ciascuno dei presenti poteva sentire, oltre al proprio, l’acuto disagio di lui. I tendaggi di velluto azzurro trattenevano l’aria notturna e non vi erano ventilatori. Si respirava appena. Il generale Enzo Galbiati smaniava all’attacco di Grandi, sentiva la camicia nera madida di sudore. A Giovanni Balella la notte del Gran Consiglio avrebbe sempre ricordato il supplizio degli stivali tanto stretti da tagliare il collo del piede. A un tratto, con un grido soffocato, Carlo Pareschi svenne. Qualcuno lo portò nell’anticamera; altri, trascinati dalle parole di Grandi, non gli prestarono neppure attenzione.
Grandi fissò in volto Mussolini puntando l’indice contro di lui; era come se i due uomini fossero soli, faccia a faccia su vent’anni di vita come su un abisso, mentre Grandi faceva sul regime la requisitoria di un pubblico accusatore.
«Voi credete di avere la devozione del popolo! — disse con impeto amaro. — Voi l’avete perduta il giorno in cui avete legato l’Italia alla Germania. Avete soffocato la personalità di ciascuno sotto il mantello di una dittatura storica e perenne. Voi vi credete un soldato. Lasciate che vi dica che l’Italia fu perduta il giorno stesso nel quale metteste i galloni di maresciallo sul berretto!».
Con un rimescolio di compassione e di rabbia, Grandi alzò la voce: «Strappati quella ridicola greca da Maresciallo e torna ad essere quello che eri: il nostro Mussolini, il Mussolini che abbiamo obbedito eseguito!».
«Il popolo è con me!», proruppe il Duce con ira. Erano le sue prime parole dall’inizio della requisitoria.
Grandi, cosciente di non poter transigere, attaccò di nuovo a fondo: «Nella passata guerra seicentomila madri italiane piansero la morte dei loro figli, ma esse sapevano che erano morti per il loro Re e per il loro Paese. In questa guerra noi abbiamo avuto finora centomila morti e abbiamo centomila madri che gridano “Mussolini ha assassinato mio figlio”».
«Non è vero! — urlò Mussolini con tutta la sua voce. — Non è vero! »
Grandi, sedendosi finalmente, dopo un’ora, gli rilanciò le parole che egli stesso aveva detto nel 1924, quando ancora cercava un accordo con i socialisti: «Periscano tutte le fazioni, anche la nostra, purché sia salva la Patria».
Ormai gli animi erano surriscaldati. Parlò Bottai, sulle prime con il tono pacato e sarcastico, che Mussolini detestava, ma ben presto accalorandosi, rosso in volto, battendo il pugno sul tavolo.
«Il vostro rapporto è stato un colpo mortale alle nostre ultime illusioni e speranze», disse rivolto a Mussolini.
I fedeli al Duce trattennero il fiato attendendo da lui una risposta che non venne. Si levò Ciano, parlò logico, con calma, elencando a uno a uno i tradimenti che Hitler aveva fatto costantemente seguire al Patto d’Acciaio.
«Noi non saremmo, in ogni caso, dei traditori, ma dei traditi», concluse.
Mussolini fissò suo genero con disgusto gelido.
«So dov’è il traditore! », disse, la voce carica di minaccia.
Parlò Farinacci, ringhioso e aggressivo. Difese la dittatura, propose una sua soluzione: la completa attuazione delle disposizioni di Feltre, che i Tedeschi subentrassero nel comando supremo delle Forze italiane.
Soltanto Giovanni Mannelli sedeva immobile, la mano all’orecchio, evidentemente senza sentire una parola.
Per il generale Galbiati le cose erano andate al di là di ogni limite. Era chiaro che Mussolini aveva toccato il fondo delle sue forze. Fece un cenno a Scorza, seduto in diagonale a lui e il segretario del Partito, comprendendolo, scribacchiò un appunto e lo passò a Duce.
«Alcuni camerati, data l’ora tarda, chiedono che la seduta venga rinviata a domani», egli annunciò.
Grandi non cedette; fiutando una trappola, balzò in piedi con impeto; un campanello d’allarme squillò alla mente di Scorza.
«No, no! Quando si trattò di discutere la Carta del Lavoro, ci avete trattenuti qui fino alle sette del mattino — argomentò Grandi. — Adesso che si tratta della vita della Patria possiamo rimanere a discutere, se occorre, una settimana. I nostri soldati stanno morendo mentre noi parliamo!»
«Sta bene, continuiamo pure», rispose Mussolini con un gesto di stanchezza.
Ascoltò Federzoni e poi Bignardi che sostenevano Grandi; improvvisamente impose una pausa di quindici minuti e si ritirò nel suo studio.
A pochi isolati, in piazza Colonna, battevano al comando generale del Partito i rintocchi lenti e cupi della mezzanotte.
Nella sala adiacente, qualcuno bevve in fretta l’ultimo bicchiere di aranciata. Venticinque minuti dopo mezzanotte il Gran Consiglio si ricomponeva. Annio Bignardi quasi non credeva ai suoi occhi: nelle sette ore precedenti, la mozione di Grandi aveva avuto solo dieci sostenitori, ma in quel breve intervallo c’era stata «una vera pioggia di firme». Nemmeno i nuovi venuti, come Carlo Pareschi, che si era ripreso dal suo malore, tentennavano più.Due giorni prima, quando Bignardi lo aveva interpellato per la prima volta, il ministro dell’Agricoltura gli aveva risposto apertamente: «Le questioni politiche non interessano un ministero tecnico. Certo non firmerò».
Ma ora Pareschi, ferrarese e un tempo compagno e protetto di Balbo, si avvicinava frettolosamente all’ordine del giorno che giaceva sulla cartella di Grandi. Sgomento delle sonanti vacuità di Mussolini, disse a Bignardi, che gli era accanto: «Considerate la cosa a questo modo: io firmo per Balbo».
L’ultimo ad apporre la propria firma fu l’ambasciatore Dino Alfieri. Appena incominciato l’intervallo, il Duce lo aveva convocato d’autorità nella sala del Mappamondo. Nella penembra che il paralume della lampada lasciava sul tavolo, egli sorseggiava una tazza di latte zuccherato; con noncuranza aveva chiesto ad Alfieri:, « Che cosa succede in Germania?».
Dino Alfieri colse l’occasione per riaffermare quanto egli e il generale Ambrosio gli avevano già detto a Feltre: il Duce doveva fare un estremo tentativo per convincere Hitler a rendersi conto della situazione italiana.
«E siete voi, ambasciatore a Berlino, a dire ciò?», commentò freddamente Mussolini nel congedarlo.
Mentre Carlo Scorza entrava, Alfieri, perduta del tutto la pazienza, uscì e andò dritto verso Grandi. Risolutamente appose la sua firma, la ventunesima e ultima.
Nessuno più del generale Galbiati sentiva il pericolo. Durante l’intervallo il Capo di S.M. della Milizia era passato ansioso da una sala all’altra, cercando l’aiutante di campo che lo aveva accompagnato a palazzo Venezia. Ma era irreperibile; soltanto più tardi seppe che un Corpo speciale di polizia aveva isolato il palazzo. Vide solo gli uscieri con i colletti madidi di sudore, la paura negli occhi e pochi membri del Consiglio che gli volsero le spalle con fredda ostentazione. A un funzionario che passava, Galbiati — interpretando la paura che gli pareva di avvertire nei presenti — borbottò: «Qui se la fanno tutti addosso».
Nel riprendere il loro posto, Grandi e i suoi si chiedevano come si sarebbe difeso Mussolini. Il maresciallo De Bono, dal canto suo, era convinto che il Duce nell’intervallo avesse chiamato la Milizia. Una cosa era certa: avrebbe usato tutta la sua astuzia, tutta la sua abilità di attore per riprendere il suo ascendente su di loro.
Mussolini incominciò a parlare, lentamente, senza sfumature di tono, con argomenti patetici.
«Pare che vi sia qualcuno qui dentro che amerebbe sbarazzarsi di me», disse con tristezza. Riconobbe la sua piena responsabilità nella guerra, parlò del suo lavoro di vent’anni, confessò per la prima volta di averne sessanta e che non escludeva di «prendere persine in considerazione, date le circostanze, la possibilità di mettere fine a quella magnifica avventura».
A questo punto alcuni provarono per un momento un senso di compassione. Per Luigi Federzoni il Duce era «il grande attore invecchiato che per la prima volta nella sua trionfale carriera non sapeva la parte e si impaperava». Annio Bignardi sentì amarezza e tristezza insieme: quello pareva un consiglio di famiglia radunato «per discutere il fallimento di un padre che non era più in grado di mantenerli». Guido Buffarini Guidi, creatura del Duce, ex sottosegretario agli Interni, pensò per assurdo a Cesare: «egli riceveva i colpi come se ferissero altri».
Ma a poco a poco il malanimo inveleniva le parole di Mussolini. Puntando da un volto all’altro, come la bacchetta di un maestro di scuola, la sua matita blu rivestita di cuoio di Firenze, insinuò una domanda: se vi era una frattura fra il Partito e il popolo italiano, non poteva dipendere dal fatto che molti gerarchi si erano arricchiti a spese altrui? Un sussulto, e la compassione divenne risentimento. Se il Duce era ben documentato, se poteva citare nomi ed esempi, perché non lo aveva fatto prima? Già egli proseguiva con l’aria di un bambino che propone un indovinello.
«Potrei comunicarvi una grande notizia relativa ad un importantissimo fatto che capovolgerà la situazione della guerra a favore dell’Asse. Ma preferisco non darvela per ora».
Grandi si accorse che egli andava lentamente riprendendo sicurezza in sé. Diceva infatti: «Ma non me ne andrò. Sia il Re che il popolo sono con me».
Quel diabolico bluff mozzò il fiato all’oppositore: Mussolini sapeva benissimo che Grandi non poteva compromettere la monarchia in quelle circostanze. Nessuno intervenne e il Duce attizzò il suo vantaggio: «Quando io parlerò al Re, domani, di questa seduta, egli mi dirà: “Qualcuno dei vostri vi abbandona. Ma io, il Re, sono con voi”».
I presenti incominciavano a vacillare. Grandi se ne rese conto. Il Duce ne approfittò prontamente.
«Non ho mai avuto un amico — disse giocando di nuovo sui loro timori — ma il Re è con me. Io mi domando che cosa sarà di coloro che si sono opposti a me stanotte».
Sorrise loro in uno strano modo, dominando le due ali del tavolo, cosciente che nessuno era in condizione di rispondere. Per un momento Grandi vide balenare la forza del Duce di un tempo e, turbato, lanciò uno sguardo ai colleghi. Su ogni volto lesse soltanto una completa rassegnazione.
« Il Duce ci ha fatto un ricatto, — disse — poiché ci ha invitati a scegliere tra la nostra antica fedeltà alla sua persona e la nostra devozione alla Patria. Ebbene, io gli rispondo che non possiamo esitare un solo istante quando si tratta della Patria! »
Carlo Scorza si alzò. Secondo le istruzioni ricevute da Mussolini durante l’intervallo, il segretario del Partito propose una terza soluzione, draconiana come quella di Farinacci: prospettò non soltanto un radicale rimpasto nei ranghi dello Stato Maggiore, ma domandò che si garantissero al Partito fascista i pieni poteri, non escluso quello di dichiarare la legge marziale.
Il presidente del Senato, Giacomo Suardo, si alzò a fatica; tremante, con gli occhi velati di lacrime, ritrattò la firma che Grandi lo aveva persuaso ad apporre durante l’intervallo.
Gaetano Polverelli, da poco passato alla causa, fu il secondo apostata: «Sono nato e morrò mussoliniano! », proclamò con voce stridula.
Grandi contava ancora su diciannove firme. Ma quanti altri avrebbero ritrattato, quando le carte fossero tutte in tavola? «Abbiamo perduto», pensò amaramente.
Alcuni suggerirono un compromesso. Perché non unificare tutti gli ordini del giorno? - propose Ciano. Poi un comitato poteva forse stendere un nuovo abbozzo di soluzione accettabile da parte del Duce. Grandi si alzò di nuovo; rifiutava di ritirare il suo ordine del giorno: ogni parola doveva rimanere com’era. Detto questo, gettò il documento al dittatore.
Mussolini vi posò lo sguardo, ricordò Alfieri più tardi, «con ostentata indifferenza». Anche se fu colpito dal peso delle firme, non lo lasciò trasparire. D’un tratto con voce metallica annunciò: «La discussione è stata lunga ed esauriente. Sono stati presentati tre ordini del giorno. Quello di Grandi avendo la precedenza, lo metto in votazione. Scorza, fate l’appello».
Si protese, i gomiti puntati sul tavolo, gli occhi fissi in loro quasi a magnetizzarli.
Erano le due e quaranta. Scorza, lasciando tutti meravigliati, derogò alla prassi: De Bono, essendo il più anziano, avrebbe dovuto votare per primo, ma il segretario del Partito, giocando una carta psicologica in favore di Mussolini, chiamò il proprio nome e rispose con un fermo «No!». Fu la volta di De Bono. «Sì», rispose distintamente, ma sembrò che la sua vecchia voce si spegnesse affondando nell’assoluto silenzio della sala.
La votazione continuò. Scorza scriveva si o no accanto a ciascun nome, secondo le risposte. Suardo si astenne. Farinacci votò il proprio ordine del giorno. Gottardi e Pareschi, gli incerti nuovi venuti, votarono sì, incoraggiati dall’apparente acquiescenza di Mussolini. Scorza chiamò il nome di Ciano. Gli occhi di Mussolini cercarono, socchiusi, quelli di suo genero. I due uomini — ricordò Alfieri — si scambiarono «uno sguardo lungo e penetrante». Ciano, sostenendo perfettamente tranquillo lo sguardo del Duce, rispose: «Sì». A poco a poco Grandi si rese conto che l’incredibile accadeva: stavano vincendo.
Che cosa passava in quel momento nella mente di Mussolini? Grandi non cessava di chiederselo. La pressione della granata gli ricordò i timori di dieci ore prima: che il duce li facesse arrestare tutti, se avessero osato portare a termine l’iniziativa. O forse voleva che votassero contro di lui, sperando di presentare a Hitler un fatto compiuto, come appiglio per uscire dalla guerra? In realtà il Duce, come Grandi, non sapeva nulla dei complotti paralleli del generale Ambrosio e della principessa Maria Joséocchi nel Gran Consiglio — per quanto amaro — costituiva un ammutinamento interno dei suoi burattini e niente altro.
Scorza sommava i voti. Il silenzio pareva eterno. Finalmente egli annunciò: «Diciannove sì, otto no, una astensione».
Mussolini accennò ad alzarsi. Nel raccogliere le sue carte disse: «L’ordine del giorno Grandi essendo approvato, gli altri decadono. La seduta è tolta».
Fissò con odio palese l’uomo che era stato il cervello del complotto. Più tardi riferì di aver detto: «Voi avete provocato la crisi del Regime. La seduta è tolta». Grandi ricorda parole più nette: «Voi avete ucciso il fascismo».
Scorza, mentre Mussolini si alzava, pronunciò il grido di rito: «Saluto al Duce!». Persino Alfieri si scoprì a rispondere piano, meccanicamente: «A noi!». Mussolini fece immediatamente il gesto di respingere da sé qualcosa di disgustoso: «No, no — disse con brusca violenza — vi dispenso».
Nel silenzio che seguì la sua uscita, passò la voce querula di Mannelli: «Che cosa ha detto? Che cosa succede? La mozione di Grandi è stata approvata?».

Primavera di bellezza[1]: Beppe Fenoglio[2] racconta l’ultimo atto del Fascismo
Il Re, fino allora restio a prendere posizione, forte ormai della risoluzione del Gran Consiglio, il 25 luglio, dopo un colloquio, fece dimettere Mussolini quindi, col pretesto di volerne tutelare l’incolumità, lo relegò prima a Ponza e poi al Gran Sasso.
Leggiamo ora tre brani di Beppe Fenoglio tratti dal romanzo Primavera di bellezza

a) Mussolini si dimette
Il racconto fa riferimento al 25 luglio, quando, pochi giorni dopo l’attacco a Roma, il capo del Governo Mussolini rassegna le dimissioni.
Il governo del Duce aveva deluso un po’ tutti, ma a preoccupare fu soprattutto l’evolversi della guerra, giunta ormai ad un punto non più sostenibile per l’Italia. Il voto del Gran Consiglio fu unanime, Mussolini fu costretto ad abdicare e con lui anche il Partito Fascista.
La notizia viene promulgata al popolo alle 22,45 della notte tra il 25 ed il 26 luglio dalla radio ed il silenzio della notte estiva è subito rotto da canti, da grida, da clamori. Strade e piazze vengono invase da gente che si abbraccia e che vuole far festa. Non si sarebbe mai sospettato che tanti italiani fossero antifascisti.
La notizia giunge anche tra i soldati; c’è chi l’accoglie con tristezza e chi invece con gioia, consapevole che da quel momento sarebbero cambiate molte cose.
Ma Pietro Badoglio, succeduto al Duce, afferma che la guerra continua, non c’è tempo per ritorsioni e polemiche, l’unica cosa che conta è difendere l’Italia ed il Re, al quale bisognava mostrare grande fedeltà.

Da ore, sotto il sole fermentante, la gente di Montesacro rumoreggiava, dalle villette le radio al massimo volume vociferavano caoticamente, dall’urbe sopravveniva per la Nomentana una risonanza sorda e costante. La tromba emise un segnale speciale. I soldati non ebbero nemmeno il tempo di interrogarsi con gli occhi, i sergenti pressavano, i moschetti saltavano via dalle rastrelliere a un ritmo rapinoso.
In cortile il capitano Vineis presentò la forza al capitano Vargiu, fuso nella sua indeperibile uniforme.
- Allievi, - disse, - la radio sta ripetendo a intervalli regolari un annunzio della massima importanza. Ieri il capo del governo, cavalier Benito Mussolini, ha rassegnato le dimissioni nelle mani di Sua Maestà il re.
- Viva il re!
- Mentre è possibile che qualcuno accolga questo annunzio con tristezza e smarrimento, io voglio ricordare che noi siamo soldati, solamente soldati, nulla di meno che soldati, legati a un sacro giuramento di fronte alla grandezza del quale...
- Viva il re! Viva il re! Viva il re!
Popolo doveva accalcarsi contro i muri della caserma, perché l’acclamazione venne ripresa, ingigantita e variata: - Sì, viva il re! Viva il re e i suoi soldati! Viva l’esercito!
Ma Vargiu si accigliò, come all’intrusione di plebe non unta nel capitolo metropolitano.
- È sicuramente superfluo rammentarvi, allievi, che questo giuramento suona nel finale: per il bene inseparabile del re e della patria.
- Viva il re!
- Un comunicato speciale diramato qualche ora fa contiene una frase sulla quale richiamo, senza commenti, la vostra attenzione: «La guerra continua». Esso reca la firma di un soldato, di un grande soldato, il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, che dalla fiducia del re è stato chiamato a succedere quale capo del governo.
Rientrerete ora nelle vostre camerate.
L’istruzione è sospesa fino a nuovo ordine. Sono certo che di tutte le considerazioni che potrete sviluppare nel sacro recesso della vostra mente una sarà la risultante: che farete cioè, in ogni possibile circostanza e fino in fondo, il vostro dovere di soldati. Cosi come son certo che non vi abbandonerete a ritorsioni e polemiche, proprio per la vostra natura di soldati e in nome di quella fraternità che è il dono supremo dell’esercito. Come dissi, l’istruzione è sospesa. Tenetevi però pronti a balzate a un cenno, perché non è escluso, sebbene sommamente improbabile, che noi si venga chiamati a testimoniare con le armi in pugno la nostra fedeltà al re...
- Viva il re!
- ... contro certe formazioni le quali, soggette a un secondario giuramento, potrebbero ardire di contrastare la decisione presa dal re nel superiore interesse della nazione.
- Ohè, ohè, ohè! - farfugliò D’Addio.
- Allievi, io vi invito a elevare il pensiero alla maestà del re.
- Saluto al re.
- Viva il re!
- Saluto al re.
- Viva il re!
- Saluto al re.
- Viva il re!
All’altoparlante scattò il disco dell’inno al Piave e a quelle note paterne il battaglione sfilò via.

b) L’armistizio dell’8 Settembre
I Tedeschi, presagendo la mutata condizione politica italiana, acceleravano l’occupazione della penisola, iniziata dopo il 25 luglio, e deportavano in Germania, in vagoni piombati, i soldati italiani fatti prigionieri nelle caserme. L’8 settembre del 1943, l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati segnò lo sfacelo dell’esercito italiano abbandonato dal Re, da Badoglio, in quel momento capo del governo, e dal Comando supremo. Costoro, fuggendo da Roma, si rifugiarono a Brindisi, senza lasciare precisi ordini che coordinassero le operazioni militari contro le forze tedesche in Italia.
Tutti pensavano che con la caduta di Mussolini e del Fascismo le cose sarebbero cambiate in meglio per l’Italia, ma chi aveva riposto le proprie speranze in Badoglio fu ben presto deluso.
La situazione italiana, infatti, non solo non migliorò, ma diventò ancora più critica.
I soldati abbandonano le armi, pensando che la guerra sia ormai conclusa. Ma a questo punto inizia in realtà un’altra guerra, contro i Tedeschi. Beppe Fenoglio conosce bene le vicende e le condizioni di questo periodo, avendo partecipato in prima persona alla Resistenza, prima da ufficiale badogliano e poi da partigiano e descrive la reazione delle truppe naziste. I Tedeschi, traditi dall’Italia, riversano la loro rabbia e la loro delusione sui soldati italiani; ne conseguono continui bombardamenti e le persecuzioni nei confronti di tutti coloro che indossano la divisa italiana.

La mattina del 7 settembre D’Addio marcò visita e venne riconosciuto ammalato, la sera Dian risultò assente al contrappello. Molto dopo la mezzanotte si senti salir la scala una voce strascicata di ubriaco, vanamente zittito. Entrarono, l’atletico istriano pesando sul fianco sottile ma nerboruto di Perego. - Nessuno accenda la luce, - ordinò il sergente, che li sapeva tutti svegli e attenti. - Adios muchachos companeros de mi vida, - biascicò Dian. Perego intimò silenzio, il primo che appena lo incrinasse avrebbe seguito Dian in cella.
- Tu mettiti in tela.
- Certo, certo, sergente. In tela. Mica posso mettermi in seta.
I compagni soffocarono il ridere nel telo pulverulento dei pagliericci.
- Va bene, Dian, - diceva il sergente assistendolo nel cambio alla cieca, - straparla quanto ti pare, ma non so come l’arrangerai con l’ufficiale di picchetto. L’hai detta grossa al tenente Cerisola.
Dopo questi avvenimenti fu una ridotta squadra mortaisti che nel pomeriggio dell’8 settembre parti per il turno di guardia alla polveriera nell’Agro. Johnny fu nominato capoposto, contro ogni previsione. Meno Pezzullo, erano tutti entusiasti di quel servizio esterno. Ci andarono a fantasioso passo di strada; all’ultima borgatella, appiccicata come un fortino all’orlo del deserto, Lippolis deviò a comprare uva e marmellata per tutti: la marmellata era orrendamente artificiale, l’uva gonfia e acquosa, proprio come la desideravano.
Sul posto presero le consegne dai mitraglieri smontanti. Dovevano essercisi trovati bene, partivano malinconici, Zummo il più depresso, si allontanarono come per traslazione magica nell’erba alta e fitta.
Le munizioni stavano immagazzinate in grotte naturali in due dentoni tufacei che violavano oscenamente la platitudine dell’Agro. Johnny assegnò i turni, una sentinella per dentone, gli altri facessero finalmente e tutto intero il comodaccio loro.
Lorusso si era messo a torso nudo: mostrava un torace esiguo ma perfettamente disegnato e colmato, efebicamente implume, i capezzoli di un viola carico, e Johnny pensò che se mai un colore era associabile al coito era proprio quel viola. Pezzullo lo imitò: aveva un torace tubolare, corrugato alle anche per pura stanchezza fisica, gli montava al petto aggressiva e come alata una mantellatura nerissima. Stava visibilmente scaricandosi del pensiero della moglie, fra poco sarebbe stato in piena forma, non un impiastro, ma un elemento positivo per tutte quelle incredibili ventiquattro ore nell’Agro deliziosamente vuoto, a cinque chilometri dalla caserma.
Domandarono del rancio e Johnny spiegò che li servivano a domicilio, sarebbe arrivata la carretta del battaglione con un fante ai servizi e la cassa di cottura, quell’orribile parallelepipedo blindato e inchiavardato, macchiato di fuliggine indelebile e striato di quasi mineralizzati rivoli di antico rancio.
Alle cinque e mezzo Garofalo segnalò la carretta.
Veniva traballando sulla pista gialla, assolutamente niente in essa di militare; il fante ai servizi era, in uniforme, sbracato e pittoresco come un carrettiere d’altri tempi, parlava audibilmente al mulo nel dialetto di casa, impiegò un’eternità ad attraversare quel braccio di terra accesa e approdare ai dentoni. Si fece dare un paio di sigarette, poi scaricò la cassa e l’apri: riso e verdura, in razioni maggiorate, roventi. Lasciarono Oprandi a far le parti e Pezzullo, con una comica aria d’avamposto, si informò dal fante come andava in caserma. L’anziano risalito in serpa nemmeno gli rispose.
- Dov’è il battaglione?
- Ora è al rancio. Prima all’istruzione. E dove aveva da essere?
- Tu lo puoi sapere. Quando daremo gli esami da sergenti ?
- Booh? - Era di quelli che ce l’avevano a morte con gli allievi, di quelli che a Moana si erano sfacchinata tutta la dissenteria.
- Lascialo perdere, - consigliò rudemente Johnny.
Allora il soldato squadrò male il capoposto e per ripicco parlò.
- Non li darete mai questi esami, vi piaccia o non vi piaccia.
- Nessuno piange, stanne sicuro, - disse Lippolis.
- I bottoni d’oro potete toglierveli dalla capa. Non e più tempo d’esami -. E come se l’angoscia per l’immediato futuro glieli affratellasse si sporse dalla cas­setta e riferì che per caso aveva sentito i capitani Vargiu e Vineis parlare di un molto prossimo sbarco alleato.
- Dove?
- Sulla porta degli uffici.
- Dove lo sbarco ?
- Ah, questo non si sa, sarebbe comodo -. La carretta virò e se ne riandò a Roma, con quello strano effetto ottico di navigazione in mare liscio.
Il rancio scottava ancora, mangiavano cautelosamente, a cucchiaiate minime e veloci, con lunghi e acuti risucchi. Poi guardarono il sole tramontare, ogni volta che distoglievano per un attimo l’occhio dal rotante disco rosa-argenteo la campagna appariva di due, tre gradazioni più spenta. Sospiravano di piacere, era una personale delizia la visione del compagno che si stirava nella ricerca di un agio anche maggiore, e veniva da sorridere languidamente quando il movimento smoriva al giusto, massimo grado di benessere. Le mani accarezzavano la terra dell’Agro, ne annientavano dolcemente i grumi. Le sentinelle cominciavano a sfumarsi contro il tufo già spettrale.
A buio rimisero le canottiere e presero a vagolare all’intorno, ognuno per suo conto eppure tutti collegati, come monaci in chiostro. Montavano Lorusso e Garofalo. Gli altri si preparavano a dormire, sazi e quasi spauriti di quell’abbondanza di libertà, ma Johnny continuò a vegliare e passeggiare, deciso a sfruttare fino all’ultimo atomo quell’occasione unica di ripossedersi interamente; con prodigiosa facilità spostava i pesanti sipari della bassa notte, marino gli risuonava il fruscio dell’erba e terra sotto il suo passo. Garofalo non capì e dalla sua garitta di tenebra disse:
- Non credevo, Johnny, la pigliassi tanto sul serio questa guardia.
Al mattino tutto era fantastico, il sole discreto in un ciclo leggero e venato, mancava soltanto un ruscello in cui bagnarsi lungamente, per la perfezione dell’essere. Ma Oprandi e Lippolis vennero a parole e quasi a pugni. Il pugliese non arrivava all’ascella del bergamasco, questi però era quel tal tipo di nordico che non solo non fa mai il primo ma gli occorre una serie di cazzotti sul naso per svegliarsi al combattimento. Il motivo nessuno lo sapeva né lo intuiva, Lippolis era torvo e ringhioso, Oprandi miserabilmente interdetto, ora si degradava a fare il gesto napoletano delle dita riunite a mazzetto. Li separarono. Pezzullo probabilmente conosceva l’origine della lite, ma non si sbottonò, prese a scuotere tristemente la testa, era bastato lo screzio degli altri a sprofondarlo nella sua pena personale.
Cannoni tuonarono da ogni parte, così repentini e diretti che i sei soldati quasi stramazzarono, come se le loro nuche fossero l’assurdo bersaglio. Si inserì un crepitìo di armi automatiche, a centinaia, dapprima frenetico, poi regolantesi in scariche omogenee e puntuali, che però svanirono abbastanza presto, mentre l’artiglieria insisteva, tetra e sistematica. Essi si muovevano straniti entro quel cerchio di boati.
- Che è?
- Uno scherzo non è.
- Una manovra?
- Che sia lo sbarco?
- È lo sbarco.
- Ma sono vicini, ahò! Dovrebbero sbarcare a Ostia.
- A Ostia è impossibile, proprio in faccia a Roma.
- Ostia o non Ostia, non può essere che lo sbarco.
- Che siano paracadutisti? Da un pezzo gli inglesi volevano lanciarne su Roma.
-Macché paracadutisti! Non può essere che lo sbarco.
Per Johnny veniva da Roma un rombo sordo e intermittente, ma non si fidava più del suo orecchio ottuso e suggestionato dalle cannonate, e di chiedere conferma ai compagni non osava, nemmeno a Lorusso. A mezzogiorno la carretta del rancio non fu vista, l’attesero invano per un’altra ora buona, rivolti alla pista gialla, sotto il ciclo straziato. Allora Oprandi si offrì di marciare all’ultima borgata e di là telefonare al comando di battaglione, ma prima che Johnny gliela bocciasse aveva già ripudiato l’idea al tardivo pensiero del capitano Vargiu che gli rispondeva dall’altro capo del filo.
Numerose mitragliatrici rafficavano senza posa, con vicina virulenza, e la cosa era tanto più intrigante in quanto dominavano coi loro giovani occhi un vastissimo tratto dell’Agro e tutto ostinatamente deserto. Lippolis, stufo di chiedersi che cosa succedeva e di patir la fame, si buttò a narcotizzarsi nella lingua d’ombra proiettata da un dentone; in breve dormì, a strappi e sussulti, con gemiti. Al suo turno Johnny dovette chiamarlo e scuoterlo parecchio.
- Sono arrivati?
- Al rancio puoi fare la croce, ma il cambio arriverà certamente. Dovrebbero essere della prima squadra del primo fucilieri della seconda.
- Ti dirò che non mi dispiace niente rientrare in caserma. Hanno sparato sempre questi e... di cannoni?
- Mai mollato.
- Ma che succede? Ti ripeto che non mi dispiace niente rientrare in caserma.
I cannoni tacquero, l’Agro si rifece silenzioso, salvo per un lontano, liquido suono di vento sognato. Verso le sei - persa ogni speranza anche per il cambio - un rumorino prese a trapanare il compensato grigio del ciclo. Si avvicinò, sempre più bilioso, e riconobbero una Cicogna tedesca, col suo volo precario e risentito. Sbalzò giù come per un vuoto d’aria e li mitragliò. Si tuffarono dentro le grotte, inseguiti da spruzzi di terra, Garofalo addossato al tufo fece partire una fucilata contro la pancia verde della Cicogna che riprendeva laboriosamente quota. Attendevano il secondo passaggio, coi moschetti puntati al confondente ciclo, ma la Cicogna non virò, si dileguò sbilenca. Corsero a incontrarsi sullo spiazzo, invano cercando il solco della enorme raffica, furiosi e smarriti, sgranando bestemmie e congetture.
- Questa per me è la prova che hanno lanciato paracadutisti. I tedeschi ci hanno scambiati per paracadutisti inglesi. Non è spiegabile altrimenti.
- Lui è fissato coi paracadutisti.
- E voi siete fissati con lo sbarco.
Si intromise Pezzullo, agitatissimo. - Fosti pazzo, Garofalo, a sparare. Ora per quel colpo si dovrà stendere verbale. E che ci scriverai?
- Piantala, Pezzullo, - troncò Johnny. – Garofalo ha fatto benissimo e non deve preoccuparsi di niente. Anzi, è stato il più pronto di noi, l’unico che ha reagito a dovere.
A notte fatta echeggiarono esplosioni a sud, senza che il ciclo lumeggiasse. Più tardi subentrò un rumore reumatico e poderoso, e tutti pensarono a un grosso reparto motocorazzato in movimento verso la città. A mezzanotte Pezzullo chiese riposo e con lui Johnny mandò a dormire Oprandi, Garofalo e Lippolis, conveniva riosservare i turni o gli uomini si scaricavano tutti insieme. Furono presto addormentati, immobili e col respiro tranquillo, sordi ai tuoni dal sud.
Lorusso intimò il chivalà, tre volte, poi l’altolà.
Balzarono tutti in guardia, l’armamento dei fucili risuonò fortissimo.
- Altolà o sparo.
Risposero allora voci soffocate e stridule: - Italiani! Amici! Siamo fratelli. Non sparate, non sparate.
Una decina di ombre ubriache vennero incontro ai fucili e alla lampada portatile.
- Ma chi siete, conciati cosi?
Vestivano mezzo borghese e mezzo militare, da mentecatti, con un effetto tra l’osceno e l’orrido.
- Soldati siamo, soldati come voi -. E tornavano alle loro case dalle guarnigioni del Lazio.
- Che cosa raccontate? Volete dire che avete disertato?
Uno di quelli scoppiò in una risata isterica, ma gli altri parlarono gravemente, con affetto, da fratelli maggiori. - Voi che ci fate qui, ancora in divisa e armati? Ma non sapete? Ieri l’altro Badoglio ha fatto l’armistizio.
Essi boccheggiarono, poi Johnny si riprese. - L’ar­mistizio è una bella cosa, ma voi scappate.
- Attenzione, - intervenne Lorusso, - questi sono disertori.
- Voi siete pazzi da legare! - insorse uno degli sbandati.
Un altro si staccò dal gruppo: - Io ero sergente. Centrami la luce in faccia, capoposto, così ci intenderemo meglio. I tedeschi non hanno accettato il nostro armistizio, i tedeschi ci hanno dichiarato subito guerra e hanno occupato le nostre caserme. Chi non scappa è preso ed ammazzato. Nel migliore dei casi ti spediscono prigioniero in Germania in carro bestiame piombato, senza mangiate né bere fino a destino -.
Un altro: - Io penso abbiano già catturato mezzo il nostro esercito. Non si può resistere, padreterni sono; un tedesco, uno, fa calar le brache a un reggimento nostro. Aveste visto a Perugia.
Gli cascarono le braccia e il moschetto gli rimbalzò sul ginocchio. - Tu vieni già da Perugia!?
- Veramente, e ora ripartiva per casa, imboccando la più nera delle gallerie della notte.
Il sergente si voltò a dire: - Non fate i fessi, ragazzi. Buttate tutto, niente più serve. Cercatevi qualche straccio borghese che vi mascheri un pochino e filatevela a casa. È tutto finito. Può dispiacere, ma tutto è finito cosi.
Lippolis gridò: - Bada, capoposto: questi sono miserabili disertori.
- Tutti siamo disertori ormai.
- Noi no, noi non siamo disertori.
- Che diserzione può esserci dove non c’è più naja?
- Non fate i fessi, ragazzi. Avvertiti vi abbiamo avvertiti. Buttate tutto e a casa. Pensate a mamma vostra.
Non avevano più la forza di trattenere, richiamare quelle ombre stranamente alonate di bianco che ripigliavano verso sud.
La divisa li fasciò come una tenuta di vergogna e di morte, i fucili che ancora impugnavano non li sentivano più onorevoli armi nazionali ma individuali arnesi da caccia o banditismo. Si trascinarono al tufo, per appoggiarvisi contro la vertigine. Smozzicavano le parole «esercito, armistizio, i tedeschi, il re, l’esercito», erano atterriti e increduli, come se avessero visto una grande montagna sprofondare d’un tratto, senza boato, né masse di polvere.
- Ma che hanno combinato? - singhiozzò poi Lorusso. - Che cosa possono aver combinato per farsi fregare così dai tedeschi?
- E il re? E Badoglio?
Lippolis si scagliò contro il battaglione: - L’armistizio è di ieri l’altro, nientemeno. Potevano pure avvisarci, i porci. Porco anche Vargiu.
Qualcuno stava martellandosi la fronte con nocche aspre, crudeli: era Pezzullo, in collasso. - I tedeschi mi prenderanno e mi manderanno in Germania. Io morrò per strada, lo sento, e che sarà di mia moglie?
- Ancora non t’hanno preso e non ti prenderanno mai. A Roma il colpo non gli riuscirà.
Pezzullo balbettò che se i tedeschi avevano dato quella pestata alle piccole e medie guarnigioni, figurarsi che mano avrebbero usato in Roma.
- A Roma non gli riuscirà, vedrai. C’è un’intera nostra armata intorno a Roma. A Roma batteremo i tedeschi -. Ma balenò a Johnny che in un simile frangente le munizioni occorrevano a camionate e da Montesacro nemmeno la carretta si era rifatta viva, e allora dovette aggrapparsi al tufo, per non crollare. Gli arrivò, calma fino allo sprezzo, la voce di Garofalo: - Io non ci credo ancora, anzi non ci credo affatto. Un esercito non si sbriciola cosi, andiamo. Quelli era no miserabili disertori, spero li acciuffino presto e li fucilino senza processo -. Pezzullo intanto stava attanagliandosi l’uniforme, quasi volesse ridurla a brandelli, prima che lo uccidesse, nuova camicia di Nesso.
All’alba avvistarono un altro branco di fuggiaschi, la luce crescente pareva polarizzarsi malignamente sul grigioverde dei pochi indumenti militari non potuti sostituire. Come videro quel drappello ancora in ordine, fecero una fulminea diversione, cosicché dovettero inseguirli di corsa e con la voce, dopo aver gettato le armi in segno di non ostilità. Li raggiunsero al largo: tremavano di stanchezza e di orgasmo, rugosi come ottantenni, acuta nell’aria l’acidità del loro sudor freddo. Uno arrivava già da Bologna; naturalmente in treno, era sceso a una stazioncina prima di Roma, per scansare l’epicentro del terremoto. Gridò: - Venti tedeschi hanno fatto arrendere una caserma con dentro tremila di noi! - Era un meridionale tarchiato e irsuto, una canottiera smagliata su calzoni di accatto e scarpe lampantemente militari.
- E gli ufficiali?
Esplosero tutti insieme: - Chiamali ufficiali. Non mi si parli mai più di ufficiali. Scapparono i primi, i bellimbusti avevano il vestito borghese bell’e pronto e stirato nelle pensioni. Pensare a tutto l’onore e rispetto che si è dovuto portargli, pensare che per tre anni ci hanno fatto ingoiare merda, una bella porzione ogni giorno. Lascia che abbia un figlio e la patria venga a chiedermelo soldato. Ma voi che fate? Gli eroi o i fessi? I fessi fanno.
- Il comando non ci ha avvisati dell’armistizio, si sono completamente dimenticati di noi.
- Vedi lì i signori ufficiali. E che aspettate a mollar tutto e puntare a casa vostra ?
- Ma ai tedeschi non potevate proprio resistere? Questo non comprendiamo. Se erano venti, hai detto?
- Farsi ammazzate per chi? Per il re, o per il principe o per Badoglio? Dovunque stiano, meglio di noi poveri cristi stanno. E poi, nemmeno l’ordine hanno saputo darci. Di ordini ne è arrivato un fottìo, ma uno diverso dall’altro, o contrario. Resistere ai tedeschi - non sparate sui tedeschi - non lasciarsi disarmare dai tedeschi - uccidete i tedeschi - autodisarmarsi - non cedere le armi. Tutti ci serravamo la testa tra i pugni, perché non ci scoppiasse.
La truppa non ha tardato ad annusare il quarantotto completo, ha pensato alla pelle e a casa sua e ha mandato l’esercito a fare in c... Voltavi gli occhi e di cento ne ritrovavi settanta, poi cinquanta, gli ufficiali rimasti allargavano le braccia o piangevano come bambini, i soldati saltavano il muro come tanti ranocchi. Io l’ho vista sì la bellezza di resistere ai tedeschi, ma mi sono detto: debbo crepare proprio io per le migliaia che già corrono verso casa? A casa, a casa! Se la sbrighino gli altri, finisca come vuole, e mi sono lanciato dalla finestra giusto mentre il carro armato tedesco svoltava nel viale della caserma. Io sto a Capua e non sogno altro che casa mia.
- Ce la farai?
- Dovrei, Dio benedetto. Tenendo sempre la campagna, viaggiando di notte e stando fermo e nascosto di giorno pieno. Questi cornuti tedeschi non saranno dappertutto. Son quattro gatti!
Il giorno era fatto, ritornarono ai dentoni, in silen­zio, tastandosi le labbra secche e le palpebre gonfie. Lippolis si strappò di testa la bustina e la sbatté in terra, senza poi calpestarla, anzi scavalcandola accuratamente. E tutti avevano raccattato i moschetti.
- Togliamo il disturbo pure noi, - disse Johnny senza tono.
Oprandi si torse le mani. - Un momento, ragazzi. Consideriamo bene quel che decidiamo, perché qui c’è da finire a Gaeta.
- Bastasse Gaeta, - rincarò Garofalo. - Qui si finisce al muro. Abbandono di posto, di deposito munizioni, scherziamo?
- Alle conseguenze io nemmeno ci penso. Come ha detto il soldato, questo è il quarantotto completo.
Non ci sarà mai più un esercito in Italia. Pallottola in canna, si rientra a Montesacro. Se arrivando troviamo il battaglione a ramengo, ciascuno se ne va alla sua ventura.

c)Johnny si arruola fra i partigiani
Nel frattempo, si manifestavano i primi atti di resistenza armata da parte di militari che intendevano mostrare concretamente i loro sentimenti, contrari al Fascismo e alla guerra da esso voluta. Ai militari resistenti si affiancarono, a volte, i borghesi, come ad esempio negli scontri di Porta San Paolo a Roma. Rilievo particolare ebbe, per il suo carattere di rivolta di popolo, l’insurrezione antitedesca di Napoli.
Questi furono i primi atti della Resistenza, il vasto movimento di insurrezione popolare che costituì un fenomeno di eccezionale portata nella storia d’Italia. L’effimera rinascita del regime fascista che, per l’occasione, richiamandosi alle sue origini repubblicane, proclamò la Repubblica Sociale Italiana, detta Repubblica di Salò, dal paese sul lago di Garda dove il governo aveva sede.
La Repubblica di Salò fu costituita il 27 Settembre 1943: essa raccolse i fascisti in fuga dal sud e dal centro Italia e con l’appoggio dell’esercito di occupazione nazista tedesco.
Il comando dell’esercito della RSI fu affidato al generale Graziani. Furono costituiti due gruppi scelti, la Guardia Nazionale Repubblicana e la X MAS, comandata da Junio Valerio Borghese, che si distinsero nelle rappresaglie contro la popolazione civile accusata di collaborazionismo con i partigiani. Le formazioni resistenti ebbero allora per nemici non solo gli occupanti tedeschi, ma anche i fascisti loro alleati. Il conflitto, di conseguenza, si allargò e si esasperò, fino ad assumere le forme di una guerra civile.
Sarebbe però erroneo immaginare che un movimento come la resistenza sia sorto improvvisamente alla caduta del Fascismo: molti intellettuali antifascisti ed uomini del dissenso politico avevano continuato dall’estero la loro opera di resistenza alla dittatura. Questo brano, tratto dall’ultima parte del romanzo di Beppe Fenoglio e descrive il periodo della Resistenza, durante la quale i partigiani combattono per la liberazione dell’Italia dai Tedeschi e dai Fascisti.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre, i rappresentanti dell’esercito, primi tra tutti gli Alti Comandi, si sono dati alla fuga temendo di essere catturati dai tedeschi. Pochi rischiano la propria vita pur di salvare l’Italia.
Questo provoca il giudizio negativo di Fenoglio sull’esercito: “L’esercito, che schifo l’esercito, c’è da ringraziare l’8 settembre per aver permesso all’Italia di constatare che schifo era il suo esercito, che vergogna i suoi ufficiali”. Essi combattono una guerra da loro non sentita, non hanno nessun valore e nessun ideale, dicono di combattere per il Re e per la patria, ma nel momento in cui hanno la possibilità di lasciarsi tutto e tornarsene a casa, non ci pensano su due volte.
Ad essi sono contrapposti i partigiani, coloro che, come dice Fenoglio, “non corrono a casa, ma restano a combattere”.
Essi rappresentano l’aspetto positivo dell’Italia, coloro che invece sono convinti che la libertà della patria ed il bene collettivo vengono prima di se stessi.
Questo è il caso di Johnny, il protagonista di Primavera di bellezza, il quale, dopo aver smesso la divisa, sente l’esigenza di rimettersi in gioco e di fare qualcosa per la propria patria. Quando, nel ritorno al sua paese natio, incontra i partigiani di Garisio non ha esitazioni e decide di arruolarsi.

Fu per il vento e per il fatto che sopravvenne da una curva che udì troppo tardi il rumore dell’autocarro. Si comandò di non voltarsi e marciò avanti a gambe rigide, ma il camion frenò appena lo ebbe sorpassato e Johnny si sentì tradito e perduto, perché gli uomini a bordo erano in grigioverde e armati; due soli in borghese, in una strana combinazione di rusticano e sciatorio.
- Ehi, militare! - gridò un sergente siciliano.
Rimase dov’era. - Chi ti dice che sono militare?
- L’occhio e il naso, - rise quello. - Pensa che guaio, se tutti i tedeschi avessero l’occhio e il naso mio!
Il sergente aveva una certa obliquità di sguardo e di bocca, la voce catarrosa, sotto la frusta uniforme si indovinava un misero e fortissimo fisico di beduino. Accanto a lui stavano due altri siciliani, identici, come mimeografati, gli unici a indossare pastrano, lo sfilacciato, penurioso pastrano della fanteria.
- Da dove vieni?
- Da Roma.
- Mizzica, non mi dirai a piedi!
Parlò uno dei civili: - Sei piemontese? - e quando Johnny ebbe nominata la sua città, precisò: - È a meno di trenta chilometri da qui.
- Questo arriva a casa, - disse con rancore un caporale.
Johnny si avvicinò di un passo. - Voi chi siete?
- Siamo della quarta armata. Veniamo dalla Francia.
- So che la quarta armata stava in Francia.
- Allora la conosci l’armata del profumo, - scherzò un soldato dall’accento lombardo, addetto al mitragliatore piazzato sul tetto della cabina.
- E che ci fate ancora in divisa e in armi?
- La guerra, no? la guerra ai tedeschi. Noi siamo ribelli, noi abbiamo sputato la pillola dell’otto settembre. Noi non andiamo a casa, restiamo a combattere i tedeschi fin che ce ne sarà uno in Italia.
- Se è così, datemi una mano, sergente, - disse Johnny puntando il piede sulla ruota, ma in quel momento arrivò dalla cabina un fischio leggero. Johnny si voltò da quella parte e vide al finestrino una faccia adolescente e dispeptica; notò ancora su una manica stinta un gallone da sottotenente e, più sotto, la canna di un mitra. Il sergente gli bisbigliò dietro: - Bada che parli col tenente Geo.
- Allievo ufficiale? - do­mandò subito il tenente.
- Sì.
- Ti unisci a noi per purgarti dello schifo generale che è stato in Italia?
- Io ho visto Roma e laggiù è stato uno schifo, - ammise Johnny.
- Scommetto che di tedeschi ne abbiamo uccisi più noi a B...bourg che non tutta la guarnigione di Roma.
- Bastava ci dessero l’ordine, eravamo talmente pronti a farci ammazzare.
- Già, - disse il tenente Geo, - ma bisognava farsi ammazzate anche senza l’ordine.
- È per questo che salgo sul suo camion, tenente. Il vento si era fatto largo e teso, contundente.
Qualcuno protestò: - Che non si riparte? Dobbiamo buscarci una polmonite per quello lì? - Ma quando Johnny si issò a bordo tutti applaudirono.
- Vedrai, - disse il sergente Modica lasciandogli il braccio che gli aveva afferrato, - vedrai.
- Dove andiamo?
- A Garisio, noi stiamo di base a Garisio.
Il pianale era costellato di enormi trance di lardo, spruzzate di carburante, sulle quali gli uomini pesticciavano liberamente.
- Vedrai, - disse il piemontese Sciolla dal muso di topo, - a Garisio ti faremo conoscere il nostro capitano Solari. Se hai in bocca la nausea degli ufficiali, quello te la farà passare.
Il capitano Solari, spiegò Modica, era l’ufficiale che a B...bourg li aveva fatti resistere ai tedeschi, sputando in faccia a colonnelli e aiutanti maggiori che erano per la resa, e poi li aveva portati in salvo di qua delle Alpi; durante quella marcia si erano decisi e votati alla guerriglia.
- Hai dei rimpianti? - domandò il sergente.
- Sì, rimpiango il moschetto che ho buttato a Roma.
- Non ti preoccupare. Siamo una compagnia scarsa e abbiamo armi e munizioni per un battaglione bello robusto. Intendiamoci: tutto materiale portato fin quassù con le unghie e coi denti. Mica roba trovata, roba da rispettare.
Johnny accennò con la testa ai due borghesi. Ragazzi di paese che si erano uniti a vista ai militari ribelli. Per la verità, precisò il sergente, sulle prime il capitano Solari non ne voleva sapere, null’altro che soldati accettava, e possibilmente veterani, ma poi il tenente Geo aveva tanto insistito che Solari glieli aveva concessi, beninteso sotto la sua intera responsabilità.
- Ha fatto bene, - osservò Johnny. - Questi dovrebbero essere preziosi per la conoscenza dei posti.
- Dei due Tito è il migliore. Tito è il moretto. Ma è anche il più cavilloso, il meno disciplinato. A me ora la naja non convince più granché, però Dio come gli avrebbe fatto bene a Tito un anno di naja! Cosi invece fagliela entrare a Tito l’obbedienza pronta, cieca, assoluta.
Johnny squadrò Tito. Poteva avere indifferentemente quindici o vent’anni, era piccolo e villoso, di una vibratile magrezza di ragno non mascherata dalla voluminosa imbottitura: indossava due giacche e sotto di esse più di un pullover. Il mefisto gli ballava sulla testa non più grossa di un pugno. Era armato di un moschettuccio della cavalleria. L’altro, Nino, era basso e tarchiato, il torace scoppiante nel maglione granata, uno di quegli antipatici ragazzi che profittano del cibo fino all’ultimo atomo. Non portava armi lunghe ma un pistolone calibro 12 di vecchia dotazione ai carabinieri. Entrambi, Tito e Nino, parevano a Johnny di generazione spontanea.
Un sobbalzo dell’autocarro lo spedì in braccio a Nino. Si divincolarono, poi Nino disse: - Sei nato con la camicia, militare travestito. Sei appena in prova. Alla base dai un’occhiata e se non ti garba ti rimetti per la tua strada. In ogni caso ti avremo risparmiato dei bei chilometri a piedi.
Ma uno dei siciliani borbottò: - Questo è da vedere. Il capitano non scherza, gli ci vuoi poco a far passare uno per disertore.


[1] Primavera di bellezza - Terzo ed ultimo romanzo di Beppe Fenoglio pubblicato nel 1959 a Torino dalla casa editrice Garzanti.
Il romanzo racconta il periodo storico del Fascismo declinante, descritto dal punto di vista dell’esercito italiano e focalizza l’attenzione sulla vita, sul comportamento e sul pensiero dei soldati coinvolti in prima persona.
Il romanzo inizia a Moana, in Piemonte, dove sono giunti uomini provenienti da tutta Italia, per partecipare al corso di formazione per allievi ufficiali: tra loro c’è Johnny, protagonista del romanzo.
La prima parte descrive la dura vita di leva che questi allievi sono costretti a vivere. Successivamente l’intero plotone è trasferito a Roma, proprio quando le truppe inglesi ed americane invadono la Sicilia. A Roma i giovani ufficiali vivono il bombardamento alleato del 19 luglio 1943, vedono i morti, la disperazione popolare, il bagno di folla che accoglie il papa e la successiva caduta di Mussolini avvenuta il 25 luglio.
L’esercito è ormai allo sfascio ed aspetta solo la fine della guerra e l’8 settembre, quando Badoglio, succeduto a Mussolini, firma l’armistizio con gli Alleati.
A questo punto inizia un’altra guerra, quella contro i tedeschi. Le truppe naziste, tradite dall’Italia, cominciano la devastazione ed uccidono tutti i soldati italiani che incontrano. Per questo motivo, molti abbandonano le armi e tornano a casa, a nascondersi come fanno anche prima degli altri i membri dell’Alto Comando. La frustrazione è estrema: occorre disfarsi della divisa per evitare di essere rastrellati, catturati, fucilati. Anche Johnny, seppure a malincuore, decide di lasciare tutto e tornare a Moana, il suo paese natio. Ma proprio quando è ormai vicino casa, incontra un gruppo di partigiani i quali – dicono – “non vanno a casa, ma restano a combattere i tedeschi finché ce ne sarà uno in Italia”.
I partigiani si trovano a Garisio, un piccolo paese situato tra le montagne alpine. Il 19 settembre i nazisti bombardano Garisio, provocando la distruzione del paese e la morte di numerose persone, tra cui anche quella di molti partigiani. Per onorare e vendicare tutti coloro che hanno combattuto per l’Italia, Johnny propone un’imboscata dove riescono ad uccidere molti tedeschi, ma dove lui e gli altri
[2] Beppe Fenoglio - Nacque ad Alba (Cuneo), il 1 marzo 1922. Nonostante l’estrazione modesta della sua famiglia arriva a frequentare il liceo. Qui incontra due insegnanti di gran valore: il professore di filosofia, Pietro Chiodi, e quello d’italiano, Leonardo Cocito. Agli anni del tanto amato liceo risale la sua fortissima passione per la lingua e la letteratura inglese e americana: per James, Lawrence, Conrad, Yeats, Coleridge, Shakespeare. S’iscrisse alla Facoltà di Lettere di Torino, ma per la chiamata alle armi interruppe gli studi universitari, senza mai più riuscire poi a conseguire la laurea. Nel 1943 frequentò un corso per allievi ufficiali; quindi fu trasferito a Roma, da dove, dopo l’8 settembre, riuscì a tornare ad Alba. Qui si arruola tra i partigiani. Negli ultimi mesi di guerra è ufficiale di collegamento con la missione inglese di stanza nel Monferrato. Dopo la liberazione, ritornò nella sua amatissima Alba. Solamente nelle Langhe, Fenoglio, il gentleman-writer dal carattere duro e ostinato ritrova e riconosce intero se stesso e il mondo. S’impiega pertanto come procuratore presso un’azienda vinicola, lavoro che fino alla fine non vorrà mai abbandonare. All’indomani della guerra Fenoglio inizia a dedicarsi alla narrativa. Molti dei suoi manoscritti sono vergati sul retro delle carte commerciali della ditta. La sua vita si svolge così, tra gli affetti familiari e il lavoro d’ufficio, la passione per lo sport e la dedizione alla scrittura. Il suo esordio letterario, tuttavia, non è affatto facile. Nel 1949 Einaudi rifiuta la sua prima raccolta Racconti della guerra civile e l’anno successivo Elio Vittorini gli consiglia di sacrificare il romanzo La paga del sabato per ricavarne due racconti. Solamente nel 1952 Vittorini gli pubblica, nella collana di narrativa I gettoni di Einaudi, la raccolta di racconti I ventitré giorni della città di Alba. Poi, nel 1954, sempre nella stessa collana, esce il romanzo breve, centrato sul mondo delle Langhe, La malora.  Deluso dalla sfavorevole accoglienza della critica e dalle riserve espresse da Vittorini su La malora, rompe con Einaudi e nel 1959 pubblica presso Garzanti il romanzo Primavera di bellezza, per il quale nel ‘60 gli viene assegnato il Premio Prato. Nel 1962, inoltre, vince il Premio Alpi Apuane per il racconto Ma il mio amore è Paco, apparso su Paragone. Proprio in Versilia per la prima volta, in modo acuto e allarmante si fa sentire il male che presto lo condurrà alla morte. Nella notte tra il 17 e il 18 febbraio 1963 Fenoglio muore a Torino per un cancro ai polmoni. Nello stesso 1963 viene edita, insieme con Una questione privata, la raccolta di racconti Un giorno di fuoco, che ottiene il Premio Puccini-Senigallia. Lo stesso volume viene riedito nel 1965, ma con il titolo Una questione privata. Postumi appaiono Il partigiano Johnny, vincitore del Premio Prato (1968) e La paga del sabato (1969).

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