Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

venerdì 29 aprile 2011

La questione sociale di Massimo Capuozzo

La Storia come lotta di Classe
Carlo Marx - Federico Engels
Nel Manifesto del partito comunista, Marx ed Engels esaminano le leggi secondo le quali il capitalismo si è formato e si evolve. Ne individuano la genesi nello sfruttamen­to del lavoro salariale che consente al datore di lavoro un profitto che porta all’accu­mulazione del capitale, la quale a sua volta rende possibile lo sviluppo tecnico-industriale. Contemporaneamente essi indicano le contraddizioni insite nel sistema capi­talistico, le più significative delle quali sono: le periodiche crisi commerciali dovute a un eccesso di produzione che non trova sufficienti sbocchi sui mercati; i contrasti fra i detentori del capitale, per cui la ricchezza si accumula nelle mani di pochi e vengono eliminati i piccoli proprietari, che vanno ad accrescere il numero dei proletari; la soli­darietà e la coscienza di classe che si vanno via via costituendo tra gli operai, consci di essere sfruttati. Attraverso la lotta di classe, la classe operaia instaurerà una «dittatura del proletariato », abolirà la proprietà privata dei mezzi di produzione ed eliminerà così sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
Il motivo della storia come storia della lotta di classe, svolto nel brano del Manifesto è uno dei punti centrali del pensiero di Marx e di Engels. Ogni società dai tempi più remoti ad oggi, è stata caratterizzata dall’antagonismo delle categorie sociali che la costituivano, dalla «lotta di classe». Nella società attuale la lotta si è polarizzata fra la classe borghese e la classe proletaria.

La storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotta delle classi.
Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle cor­porazioni e garzoni[1], in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta.
Nelle epoche anteriori della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione[2] della società in differenti ordini[3], una molteplice graduazione del­le posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di que­ste classi.
La società borghese moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle anti­che, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta.
La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato[4] gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato.
(Dal Manifesto del partito comunista)


Accumulazione di capitali e rivoluzione industriale
di Valerio Castronovo
Gli storici concordano nel porre l’accumulazione di capitali - cioè la larga disponibi­lità di mezzi finanziari da investire in processi produttivi su larga scala. Il disaccordo incomincia quando si devono indicare le cause che hanno favorito l’accumulazione.
Castronovo  indica alcune delle tesi sull’origine di tale capitalizzazione:
·                    il commercio con le colonie d’oltremare che aveva favorito l’afflusso in madrepatria di ingenti quantità di me­talli preziosi;
·                    l’apporto del sistema bancario che aveva facilitato la concentrazione e il trasferimento dei capitali;
·                    la parsimonia nei costumi, legata alla morale protestante, e il risparmio e la capitalizzazione conseguenti.
·                    Nel brano, Castronovo riprende rapidamente alcune di queste spiegazioni per soffer­marsi su quella che a suo giudizio è la fondamentale, anche se non l’unica: la «rivolu­zione agraria». Fu questa che mise contemporaneamente a disposizione della rivoluzio­ne industriale tanto i capitali accumulati grazie ad una maggior produttività dell’agri­coltura, quanto le masse di contadini che la razionalizzazione del lavoro agricolo aveva «liberato», cioè lasciati disoccupati.
Molteplici furono, certo, le fonti di arricchimento[5] nella fase precedente la ri­voluzione industriale inglese: dall’inflazione dovuta ai cambiamenti monetari all’accrescimento dei valori locativi urbani, all’ininterrotta progressione dei pro­fitti realizzati con il commercio d’oltremare ecc. Né si può negare, ovviamente, l’esistenza di una classe specializzata di mercanti e di finanzieri[6] dotata di vaste risorse, o l’incidenza di particolari momenti di crescita dello stock di beni capi­tali e di mezzi di lavoro[7]. Ma tutto ciò [...] non sarebbe bastato a promuovere investimenti di natura industriale e a dar luogo a un moderno sistema di lavoro salariato, a una crescente divisione del lavoro e allo sviluppo degli scambi[8], se non fosse giunto a maturazione nel frattempo un processo iniziato dall’epoca dei Tudor[9] di arretramento della piccola proprietà rurale indipendente e di con-centrazione della terra in un numero sempre più ristretto di persone[10]. La dissoluzione dei monasteri, il sequestro e la vendita delle terre dei «realisti»[11] durante il periodo di Cromwell, le recinzioni di feudi[12], le pressioni usuraie, i cambia­menti di mano nella proprietà fondiaria in seguito a prestiti su ipoteca e a ri­strettezze finanziarie «vi avrebbero avuto ognuno la sua parte». Ma si deve os­servare anche che il processo di disgregazione sociale nelle campagne messo in moto dalle enclosures[13] conobbe varie fasi e non fu esente di volta in volta da li­mitazioni e interventi correttivi da parte della stessa monarchia inglese. D’altro canto, è oggi convinzione comune di larga parte della storiografia economica che la rivoluzione industriale sia stata preceduta in Inghilterra da una «rivolu­zione agraria»[14], conformemente all’avviso espresso a suo tempo da Marx: on­de l’esame del problema dell’accumulazione originaria si è riproposto nell’ambi­to di un quadro più generale, attento non solo alla «liberazione» dalle campa­gne di più ampie riserve di manodopera, ma anche all’accrescimento della pro­duttività agricola, alle esportazioni e all’aumento della domanda di attrezzi e strumenti di lavoro.
(La rivoluzione industriale, Sansoni, Firenze, 1973)

La «belle époque» in Italia
di Nino Valeri
La belle époque (in italiano «bella epoca» cioè epoca felice) è il periodo che va dagli inizi del secolo XX fino allo scoppio della grande guerra: un periodo nel complesso di benessere e di progresso, di cui si avvantaggiano le classi sociali inferiori che, grazie anche alla politica di Giolitti, riescono a migliorare la loro situazione. Lo storico Nino Valeri, nel brano che segue, si chiede come da una condizione così promettente si potè arrivare alla guerra e allo scatenarsi della violenza e della volontà di potenza ad ogni costo. La causa, secondo il Valeri, va ricercata nel fatto che certe tendenze irrazionalistiche, già presenti in alcune correnti letterarie (in particolare D’Annunzio e il futurismo), trovarono nel partito nazionalista un supporto che diede ad esse possibilità di espressione politica.

L’Italia della bella epoca o della belle époque, come si preferisce dire in ricor­do della vita e del costume di Parigi, che era il centro della «nuova ondata» eu­ropea di allora, abbraccia gli anni che vanno dall’alba del Novecento alla guerra del 1914. La definizione, belle époque, si congiunge sovente negli anziani con una forma di sorridente e malinconica nostalgia per quella perduta età, allietata dalla gioia del vivere e del costume cortese, coincidente con la loro vita giovani­le.
Era uno slancio di speranze (o di illusioni) che si traduceva, nel campo della lotta politica, in una generale disposizione al compromesso in nome delle ragio­ni superiori legate alla fede nell’avvento delle «sorti progressive»[15]. Nella cerchia della politica estera quella fiducia nella civiltà in cammino assumeva le forme di una diffusa tendenza a mantenere il «concerto europeo», come allora si diceva, cioè il sistema di equilibrio delle potenze risalente al secolo XIX[16]. In quella tem­perie maturò altresì il ravvicinamento tra il regime costituzionale-parlamentare e i partiti politici proletari[17] in ogni paese d’Europa. Da noi, il più efficiente e au­torevole rappresentante di questa intesa fu Giovanni Giolitti, che sembra incar­nare ancor oggi (seppure con un suo particolare tono austero) l’inclinazione dei tempi, per la straordinaria capacità che egli ebbe, fin dagli inizi del secolo, di avvertire lo spirito dell’ora, mettendosi alla testa del movimento, oramai con chiarezza delineato, che tendeva all’incontro degli operai organizzati e della bor­ghesia illuminata[18].
[...]
Ebbene: come si spiega che da questa età di equilibrio, di misura e insieme di benessere economico e di ascesa progressiva delle classi più umili si arrivò, ino­pinatamente, allo scatenamento della belva guerriera e quindi al trionfo di tutti gli elementi più brutali e ostili alla civiltà e al pensiero? Qual è, nella belle époque, il momento delle origini e quindi del trionfo di quella ventata di furore, fatta di spirito di violenza e di sopraffazione, che sfociò in una sorta di religio­ne del primato e della grandezza?[19]
[...]
Il momento culminante in cui queste tendenze[20] di diversa origine e tuttavia formanti nell’insieme una sola corrente, alimentata, nel suo fondo, dalla rottura dei freni logici[21] e quindi da una nuova seducente retorica dell’irrazionale, fu se­gnato dall’impresa di Libia[22].
Fino allora il mondo degli inquieti intellettuali d’avanguardia e quello dei po­litici di governo e di amministrazione erano rimasti quasi senza contatto l’uno con l’altro, secondo una linea di divisione nata spontaneamente dalle cose, in modo più netto, forse, che in ogni altro periodo della nostra tradizione unitaria.
[...]
La guerra [di Libia] diede ala a questi discorsi[23] rivelando quanto c’era di realmente politico al fondo di essi: come un oscuro presentimento dei rivolgi­menti che si annunziavano e della necessità di affrontarli in tempo utile, senza indugi e senza remore, per non restare sommersi dal fiotto degli altri popoli in­quieti, che erano saliti e stavano salendo alla ribalta della storia. Fu allora che il nazionalismo[24] si individuò nei confronti degli altri partiti dell’ordine, costituen­dosi, esso pure, nel 1910, come partito, che ebbe anche il suo quotidiano, «L’idea nazionale» (uscito il 1° marzo 1911), in cui prese a poco a poco forma quell’aspirazione alla violenza e alla politica di potenza, nel suo fondo antide­mocratico e antiliberale, in cui si riassumeva la polemica di tutta la letteratura d’avanguardia della belle époque. Il nazionalismo cementò e fuse quelle voci in­cendiarie in un programma fondato sull’esaltazione dello Stato-nazione, conce­pito alla maniera prussiana come volontà di potenza. Così precisato nei suoi scopi, il movimento batté la sua strada esercitando un’azione sempre più reali­sticamente politica che finì per sovvertire il vecchio mondo giolittiano.
Gabriele D’Annunzio, che più efficacemente di ogni altro scrittore aveva pre­parato quell’ambiente, diede il tono anche a queste attese, in cui confluivano tutte le inquietudini di quei tempi: l’elogio della violenza, l’esaltazione delle élites[25] e del superuomo, il nazionalismo guerriero, l’appello all’ispirazione e divi­nazione e presentimento demoniaco innalzato al posto della fredda realtà.
(Dalla «belle époque» al fascismo, Laterza, Bari 1971)

La «brutta époque»
di Valerio Castronovo
Nino Valeri, nel brano che precede, ha mostrato come nel periodo antecedente la pri­ma guerra mondiale, considerato un’età felice, covassero già e venissero via via preci­sandosi tendenze di pensiero irrazionaliste favorevoli alla violenza, che veniva esaltata come espressione di vitalità: una violenza alla quale l’incontro col movimento naziona­lista ed imperialistico offriva uno sbocco politico.
Valerio Castronovo è ancora più radicale nel negare agli anni che vanno dal declino del secolo XIX allo scoppio del primo conflitto mondiale l’appellativo di Belle époque. È una valutazione, egli dice, non consentita neppure dalle apparenze. Questo periodo fu lacerato da un seguito di guerre sia pure territorialmente limitate (la guerra anglo­boera, quella italo-etiopica, quella ispano-americana), da violenti scontri sociali (in Ita­lia i moti di Milano furono solo i più sanguinosi), da un susseguirsi di mortali attentati anarchici contro statisti e governanti, attentati che denunciavano l’odio fomentato nelle masse dalle loro misere condizioni di vita. Non una bella, dunque, ma una brutta epo­ca.

Tuttavia[26] ancor oggi sopravvive una vaga nostalgia per l’ultimo scorcio dell’Ottocento, un misto di affetto e di rimpianto, quasi che la «fin de siede»[27] avesse rappresentato il punto più alto e, insieme, l’inizio della decadenza, di un’età felice, svoltasi all’insegna della pace e della prosperità. In realtà la fase storica che ha coinciso con gli ultimi anni dell’Ottocento e il debutto del nuovo secolo, non fu una «belle époque»[28] e tanto meno fu un’età dell’oro (se non per la crosta sottile rappresentata dalla classe privilegiata). Ma il trauma della Gran­de Guerra, l’annientamento di tante vite umane e di tante speranze, contribuì a creare un mito, a rivestire di un’indistinta patina scintillante un’epoca che, quantunque pervasa da un’ondata di progresso e di ottimismo, non era minima­mente dominata dalla fiducia, dal benessere e dalla tranquillità. «Siamo stati sviati», osserva la scrittrice americana Barbara Tuchman in un libro che rico­struisce con brillante vena narrativa il clima sociale e culturale dell’Europa occi­dentale fra Otto e Novecento (Il tramonto di un’epoca, Mondadori), «dalla stessa gente di quell’epoca che, voltandosi indietro a guardare oltre il baratro della guerra, ha visto la prima metà della propria vita come sfumata da una te­nue foschia crepuscolare di pace e sicurezza».
Al concludersi dell’Ottocento, l’uomo europeo era entrato nel ventesimo seco­lo orgoglioso delle sue conquiste scientifiche e sicuro che gli sviluppi della tecni­ca e dell’industria gli avrebbero dischiuso nuove e migliori frontiere. Mai si era assistito a così profonde trasformazioni, come quelle che si erano succedute nel breve spazio di tempo tra la prima e la seconda metà del secolo decimonono. Mentre lo scientismo[29] prometteva la più profonda conoscenza dell’universo e il positivismo[30] proponeva all’umanità il culto di se stessa, l’Europa poteva com­piacersi dell’estensione raggiunta dai suoi domini territoriali; sembrava che nes­sun ostacolo si opponesse al trionfo del vapore e al moto espansivo delle merci e dei capitali.
Eppure si avvertiva già, alla vigilia del nuovo secolo, un clima sempre più ca­rico di tensione e di inquietudine. Un anno dopo il Giubileo del 1897, il sessan­tesimo anno di regno della regina Vittoria[31], festeggiato a Londra con una fasto­sa parata militare, che aveva visto sfilare la cavalleria inglese in ogni parte del globo, scoppiava in Sud Africa, in uno dei centri nevralgici dell’impero, l’insurrezione dei Boeri[32]. In Francia, fra il 1897 e il 1899 l’Affare Dreyfus[33] spaccò la nazione in due, riaprendo vecchie ferite e provocandone di nuove, in un vortice di violenze e di passioni contrastanti, alimentate tanto dall’odio e dalla paura, quanto dal coraggio e dallo spirito di sacrificio: da un lato, l’ultima speranza di bloccare le tendenze progressiste e di far valere i princìpi di casta, del sangue e del censo; dall’altro, la volontà di riscattare l’onore della Repubblica e salvare i princìpi del 1789[34]. In Italia, la destra conservatrice cercò nel 1898 - con le can­nonate del generale Bava Beccaris[35] a Milano e con il «ritorno allo Statuto»[36], cioè alla supremazia dell’esecutivo sul Parlamento - di esorcizzare la «questio­ne sociale»[37] e le frustrazioni subite con la sconfitta di Adua[38]. Nel resto dell’Europa, l’appello lanciato in quello stesso anno dallo Zar di Russia per giungere a una limitazione degli armamenti, più che sopire, accentuò il rullo dei tamburi: pochi giorni dopo, il Kaiser[39] inaugurava, con la sua celebre massima «II nostro futuro è sull’oceano», una politica senza precedenti di potenziamen­to della marina da guerra; e un po’ dovunque cresceva l’allarme per l’espansionismo americano, che, con la conquista di Cuba e delle Filippine, aveva messo definitivamente in ginocchio la Spagna e quanto ancora restava del suo impero. Ma è soprattutto l’impressionante susseguirsi di attentati anarchici a rivelare quanto fuoco covasse sotto le ceneri: fra il 1894 e il 1900 cadevano assassinati il presidente francese Carnet, il Primo Ministro spagnolo Canovas, l’imperatrice Elisabetta d’Austria, il re Umberto di Savoia. Ad armare la mano degli anarchi­ci non era soltanto la visione ideale di una società senza Stato, senza governo, senza proprietà, ma anche il sentimento di disperazione accumulato nei tuguri dove regnavano la fame e la miseria. E nel frattempo altri (socialisti, radicali, democratici progressisti) stavano traendo, dalla stessa sconsolata visione della sorte dei più umili, la forza e l’ispirazione per eliminare, con le armi del voto e delle riforme, l’ineguaglianza politica e le ingiustizie sociali, per cercare di assi­curare ai diseredati una vita migliore senza la continua altalena fra lo spettro della disoccupazione e il peso di fatiche interminabili per un tozzo di pane.
(La Brutta Epoca in «La Repubblica», 27-5-’82)

Una casa di ringhiera
da “La Folla” [40] di Paolo Valera[41]

Per la prima volta Giorgio si trovò nella casa del Terraggio come proprietario. La sua prima impressione fu quella di rinnovare tutto poiché le case gli sembravano troppo disastrate per essere abitate, ma Tommaso Ghiringhelli, amministratore della famiglia da anni, era un uomo che badava molto alle cifre, e quindi i soldi che servivano per rattoppare le case, gli sembravano sciupati.
-                     Giorgio e Ghiringhelli iniziarono a girare per il Casone per riscuotere gli affitti e Ghiringhelli iniziò a raccontargli che il numero 38 del terzo piano del blocco C era rimasto vuoto perché la gente la considerava come una casa indiavolata, da quando un pittore vi si era tolto la vita.
-                     Arrivarono al primo piano del blocco A, numero 26 e Ghiringhelli bussando, chiamava Tognazzo, ossia l’inquilino di quell’appartamento. Ghiringhelli spinse l’uscio ed entrando Giorgio si rese conto che la casa era vuota e che c’era solo un crocifisso. Ghiringhelli gli spiegò che prima Tognazzo era un inquilino modello, ma che dopo si era ridotto a vendere anche l’ultima delle sue sedie per bruciarsi lo stomaco con l’alcool.
-                     Giorgio si commuoveva a vedere quella casa misera mentre Ghiringhelli, vedendo Tognazzo a terra, lo scuoteva per comunicargli lo sfratto. Giorgio e Ghiringhelli ripresero il loro giro, quando ad un tratto sentirono una donna urlare. Tutte le donne andarono a vedere cosa era successo e videro che Tognazzo era morto. Alcune donne piangevano per la paura che fosse morto di fame, le più vecchie di facevano il segno della croce e altre, vedendo ormai che Tognazzo era morto, pensavano di giocarsi i numeri. I numeri fecero il giro delle ringhiere.

Era la prima volta che Giorgio si trovava nella casa del Terraggio come proprietario. Il suo amministratore, Tommaso Ghiringhelli, un uomo fatto che conosceva gli interessi degli Introzzi assai meglio degli eredi, lo consi­gliava di non essere troppo rivoluzionario. La casa del Terraggio era di quelle che vanno lasciate così, come so­no, per paura che si sfascino. Bisogna contentarsi di blin­darle dove il pericolo è maggiore e di imbiancarle ogni tre quattro anni per nascondere le magagne che indispongo­no gli inquilini. Sono case alle quali non si deve pensare che per la demolizione - una cosa sconsigliabile fino a quando producono. Anche Pasquale aveva di queste idee danari per i rattoppi gli parevano sciupati e lo diceva agli inquilini che lo seccavano per qualche riparazione.
- Tirate innanzi come faccio io, e verrà il giorno che rifaremo tutto dalla base al tetto. Provatevi, signor Giorgio, a concedere a uno il muratore e all'altro l'im­bianchino, e vedrete che tutto il vicinato avrà bisogno di imbiancare la stanza, di tappare i buchi o di mettere a po­sto qualche mattone del suolo. Date retta a me e lasciate correre.
L'idea di Giorgio di proclamare un indulto per tutti gli inquilini in arretrato era buona e onorava la memoria del padre. Ma Ghiringhelli era uomo di cifre e l'uomo di cifre non poteva occuparsi del cuore. Il rappresentante di una savia amministrazione che cede, conduce gli amministrati alla malora. L'indulto è sempre un atto di debolezza. Salvo qualche eccezione, chi non paga regolarmente l'af­fitto è un uomo destinato a naufragare nella miseria tutta la vita. A lasciarlo affondare piuttosto oggi che domani la società non perde nulla. Sul modo di riscuotere gli affitti con una popolazione fluttuante e sempre in margine alla povertà senza rimedio, l'esperienza non ammetteva due sistemi. Bisognava riscuoterli di settimana in settimana, se si voleva trovarsi contenti alla fine dell'anno.
Col libriccino delle noterelle alla mano, diceva al si­gnor Giorgio che c'erano alcune passività che toglievano anche l'idea di un indulto. Il numero 38 del terzo piano del blocco C, per esempio, rimaneva vuoto perché la gen­te s'ostinava a considerarla una stanza indiavolata dal giorno in cui quel matto di pittore vi si era tolta la vita in­vece di sloggiare o pagare l'affitto.
- Vedete come fanno gli spiantati: si ammazzano piuttosto che fare il loro dovere. Se ne vanno e lasciano gli altri negli impicci.
Il signor Pasquale fu tanto disgustato degli artisti che non ne volle più sapere.
Ghiringhelli continuava a scorrere le note e a salire i gradini. Giunto al primo piano del blocco A, si fermò al 26, bussando.
- Ehi, Tognazzo? Siete morto? - diss'egli spingendo l'uscio.
Tognazzo era disteso sul pagliericcio fetente con una gamba giù dal letto e le braccia slargate coi pugni chiusi. La stanza era spaventevolmente vuota. Non c'era che un crocifisso di stagno ricamato di ragnatele alla parete e una panca spaccata dalla falce e buttata sul focolare spen­to. I calzoni e il giacchettone sporchi e pezzati erano in terra vicino alle pezze dei piedi marce e alle scarpe squinternate. Ghiringhelli, cercandolo sul libriccino, par­lava come a se stesso e si riconvinceva della sua convin­zione che la grappa era la maledizione della povera gen­te. Tognazzo, dopo essere stato il modello degli inquilini per tanti anni, dopo avere avuto la stanza piena di mobilia, si era ridotto l'ultimo pitocco che vende l'ultima seg­giola per bruciarsi lo stomaco con un'altra mezza zaina di liquido ardente.
- Se vi lascerete impietosire - diceva rivolto a Giorgio - le loro disgrazie diventeranno le vostre.
Lo prese per il pugno e lo scosse con qualche violenza.
Tognazzo, svegliatevi che sono già le dodici. Giorgio che si commoveva in casa della pitoccheria si volse verso la ringhiera. Egli avrebbe voluto lasciarlo dormire. Tanto e tanto all'affitto non c'era da pensare. Ma Ghiringhelli che voleva comunicargli lo sfratto, gli riprese il pugno tirando­ lo verso la sponda.
Svegliatevi, che ho fretta - diss'egli con voce stiz­zita. - O è ubriaco fradicio o non è più tra i vivi. Ecco la vita da cane che conducono questi pezzenti. Invece di te­nere da conto, consumano tutto dall'acquavitaio e all'osteria.
La donnicciuola del 27 uscì a dirgli che poteva darsi che dormisse della quarta, perché la notte passata lo ave­va sentito a lamentarsi e a fare del fracasso fino alle tre del mattino. Non era andata a vederlo perché da un po' di tempo si guardavano in cagnesco. Bevendo, era diventato permaloso e ipocondriaco e bestemmiava.
- Sugli arretrati possiamo tirare la croce - disse l'am­ministratore degli Introzzi.
Giorgio e Ghiringhelli ripresero il loro giro e Mar­gherita, la 27, dimenticando le villanie dell'ultima volta, passò il gradino sul quale aveva giurato di non mettere più piede, e, adagio adagio, colla schiena alla parete, andò verso i piedi, guardando e non guardando per paura di trovarsi a faccia a faccia col cadavere. I morti le mette­vano addosso la terzana e andavano a turbarla di notte con sogni che le davano i brividi. La Lucia dell'anno scorso, morta col sangue alla bocca, non era ancora uscita dalla mente. Tognazzo era là che pareva rovesciato da qualcuno in una lotta disperata. Sembrava che i peli dello stomaco tentassero risollevarsi dalla sconfitta. La faccia spaurita dalla magrezza aveva conservato i segni delle contrazioni crudeli e gli occhi vitrei nella profondità delle occhiaie completavano una figura spaventevole. Margherita non seppe trattenere un grido che andò giù dalla ringhiera a chiamare disopra le donne nel cortilone a pettinarsi.
- Che c'è? Che cosa c'è?
Le si pigiarono intorno come sbigottite esse stesse di trovarsi dinanzi il 28 lungo e disteso con la barba che sem­brava stata scompigliata dal vento. Giovanna si stringeva nelle spalle e diceva all'altra che non poteva vedere i morti senza sentirsi gelare il sangue. Provava dei tremori alle gambe. L'opinione di tutte era che il povero Tognazzo do­veva essere crcpato come un cane.
- Povero diavolo!
Ciascuna di esse se lo avesse saputo sarebbe andata a portargli almeno una goccia d'acqua. Erano tutte cristiane e in un momento di bisogno sapevano farsi in quattro. Vivo lo si lasciava nel suo brodo perché era un selvatico-ne che non si sapeva da che parte prendere. Se gli si dice­va buona sera, rispondeva con una spallata e voltava via la faccia come se gli si avesse detto una porcheria. A chi gli domandava se stava bene o male, digrignava i denti come una bestia cattiva.
La poverezza dell'ambiente faceva venir freddo. Non c'era proprio nulla, neppure uno straccio per far giù la polvere al crocifisso da mettergli sul letto. Giovanna piangeva dalla paura ch'egli fosse morto di fame. Era una crudeltà lasciar morir di fame un povero cristo che non faceva nulla di male. Ma Luigia la consolava dicendo che non si poteva morire di fame. Ne aveva fatta lei della fa­me e non ne era morta.
Intanto che Margherita versava qualche goccia di olio nel lumicino di vetro per non lasciarlo allo scuro, le altre gli raccoglievano le braccia dalla pelle che ingialliva e lo coprivano fin sotto la gola con la coperta sucida e piena di buchi e di rattoppi che faceva schifo.
Era una vergogna lasciarlo li con gli occhi che butta­vano indietro dalla paura. Parevano indemoniati e Luigia, dicendo ch'era meglio chiuderglieli, gli calava la palpe­bra, la quale risaliva lentamente come quella dell'occhio meccanico. Un orrore che non si era mai visto. Le più vecchie si facevano il segno della croce e dicevano che doveva essere stregato se non poteva tener chiusi gli oc­chi. Qualcuna voleva scappare o chiamar gente in aiuto. Ma Margherita le tranquillò tutte dicendo che gli occhi aperti portavano fortuna.
Si guadagnava nove volte su dieci. Il gioco del lotto era diventato birbone e ormai col nuovo governo non guadagnavano più che i signori. Un tempo, quando c'era­no gli austriaci, anche le povere donne prendevano degli ambi. Adesso non rimanevano loro che gli occhi aperti dei cadaveri e qualche sogno in cui i morti portavano loro i numeri. Sul Tognazzo non c'era dubbio. Egli era un morto che poteva rovinare il lotto. C'erano semplicemen­te dei numeri che bisognava buttar via e il guaio era che si potevano buttar via proprio quelli che potevano venire. Il libro dei sogni parlava chiaro. Morte, senza alcuno di notte, 50; occhi spalancati 22.
Il 22 è venuto la settimana scorsa - disse Luigia.
Va bene, ma può venire anche stavolta. C'è nella ruota tutte le settimane. Chi tira su i numeri ha gli occhi bendati, ed è un ragazzo innocente come l'acqua. State attente: miseria 55, fuoco spento 3, cadavere 61, numero della stanza 28, non ammogliato 10, capelli castani 27. Ci sono degli ambi e dei terni per tutto il vicinato. Margherita si sceglieva i più buoni. Il fuoco spento perché rappresentava la desolazione, il cadavere perché era tutto l'uomo e gli occhi spalancati perché non perde­vano mai.
- Io giuoco 3, 22 e 61. Giovanna metteva al posto del fuoco spento il 55, la miseria. Il fuoco poteva essere spento anche perché non aveva voluto accenderlo. Ma la miseria era li bella e buo­na che nessuno poteva negare. Anche la Luigia era di questo parere. Il fuoco era spento, ma c'era la legna. La miseria invece non avrebbe potuto cacciarla via anche se avesse voluto.
- E poi - disse Giovanna - io credo che sia morto di fame.
E questo pensiero faceva spuntare i lacrimoni a Luigia.
- Io metto 22, 55 e 61.
- Fate come volete, ma non venite poi a lamentarvi da me. Io vi ho dato tre numeri che in coscienza sono buoni. Adesso tocca a voi. È venerdì e io corro per paura di dimenticarmene.
I numeri scelti fecero il giro delle ringhiere.

La famiglia Cristaboni
da “La Folla” di Paolo Valera
Paolo Valera ha avuto e ha tuttora un de­stino particolare: la sua opera ha conosciuto numerose ri­stampe, ma proprio per questo è identificata con un tipo di letteratura d'inchiesta e moraleggiante, ma anche pruriginosa e a tinte forti. Giudizio fondato, ma al tempo stesso riduttivo, cui va aggiunto che Valera non fu scrittore regolare ma fu giornalista, editore, mili­tante socialista, autore di pamphlet di denunzia e tra le altre cose fu anche scrittore, entrando a far parte così della nutrita schiera degli irregolari. A rafforzare l'identificazione del romanzo con un tema fortemente datato è proprio il titolo e il fatto che esso abbia in Valera una connessione espli­cita con ‘La psicologia delle folle’ di Gustave Le Bon,  vale a dire con una psicologia sociale di stampo positivi­sta che esercitò una notevole influenza agli inizi del seco­lo e che fu un referente esplicito della formazione cultu­rale del giovane Mussolini. ‘La Folla’ è un romanzo ambientato alla fine dell'ottocento in un Casone, quello del Terraggio di Porta Magenta, per mettere in risalto le condizioni miserevoli in cui si trovano i popolani. La vicenda ruota attorno a Giorgio Introzzi che, ereditando dal padre un grande caseggiato dove vivono in affitto decine di famiglie proletarie, con la scusa della riscossione, visita sempre i diversi affittuari. All'interno del romanzo, molto spesso, le persone vengono chiamate con i numeri dei loro appartamenti che con i loro cognomi e ognuno di loro affronta una vita di sofferenza e di miseria che spesso si risolve con la prostituzione, con l'alcool... Il successo del romanzo fu notevole ed che esso fu letto dallo stesso Emile Zola, di cui Valera era ammira­tore e al cui naturalismo, ispirato dalla ‘questione socia­le’, esso si richiamava. Ma anche questa l’influen­za di Zola costituisce uno specifico e particolare proble­ma di inquadramento dell'opera di Valera poiché nel 1901 il Verismo si è già affermato da tempo comincia ad affermarsi il decadentismo. Tuttavia La folla non è un romanzo ‘retro’ rispetto ai suoi tempi, anzi segnala l'importan­za di riconoscere nell'opera i tratti peculiari di un percor­so di transizione, in cui il romanzo segna un passaggio tra scapigliatura, verismo e decadentismo.
La corruzione borghese è il segno del disfacimento di una classe sociale in decadenza, quella proletaria è conseguenza della miseria. I rapidi cenni a episodi incestuosi nel Casone sono a loro volta il frutto di una coabitazione e un sovraffollamento di corpi in una scarsità di letti, incidenti sociali. Quando l'immaginario sociale di un sesso degradato dal corrotto mondo borghese si fa peculiare alla scrittura e ne marchia le regole della rappresentazione artistica, allora Valera rischia l'oscillazione, perde la stessa carica di ‘impersonalità’, il suo realismo torna a essere populista. Ma riemerge subito il Valera sulfureo e icastico, cru­dele e dal linguaggio polivalente, che affronta il male, il dolore, la violenza, la superstizione; fino a quando non ricompare il coro, la festa, la processione, il gruppo, la scala e il caseggiato, il susseguirsi di una vita popolare e di una sociabilità proletaria raccontata senza retoriche nella sua riproduzione e nei suoi riti mino­ri. Il romanzo riprende fiato e il lettore rimane ammirato dai giochi di bravura espressiva, riconoscendo in tutto ciò quasi un sapiente e colorito dizionario della vita popolare, a tratti una vera e propria anticipazione della ci­fra espressionista della letteratura del novecento italiano che ritroviamo poi in autori di più famosi.
Si può ipotizzare che un lavoro di scavo sulle ascendenze e le parentele, sulle suggestioni che comunque Valera ha esercitato su scrittori di maggior fama, sia ancora da iniziare.
Rimane infine il fatto complesso di riconoscere come un unicum Valera scrittore e quello giornalistico e politi­co, senza che questo serva in qualche modo a sminuirlo o concorra a quel singolare gioco delle tre carte cui è stato spesso relegato il nostro: il gioco per cui lo storico dice che in fondo è un letterato e non se ne occupa, il critico lettera­rio dice invece che in fondo è un politico e non se ne occu­pa nemmeno lui e via discorrendo. Che è poi anche il biva­lente destino politico del nostro: anche se la scheda della polizia dell'Archivio di stato descrive Valera come uno dei primi anarchici difficilmente gli storici dell'anarchia si occupano di Valera perché lo identificano coi socialisti, che a loro volta storcono il naso perché non era allineato coi turatiani di Critica sociale e ha concorso a favorire l'ascesa del giovane Mussolini. C'è di vero in tutto questo che Valera è stato, nel corso di tutta la sua vita, un socialista li­bertario e un irregolare, o forse, per meglio dire, un follaiolo.
Quel "mezzo anarchico, mezzo socialista, restato fe­dele a se stesso" che è stato Paolo Valera, vero e pro­prio "free lance del giornalismo d'opposizione a cavallo tra i due secoli", viene spesso ricordato tra gli esponenti della Scapigliatura democratica con il soprannome di Giuda Iscariota. Ma una recente definizione può consentire un ulteriore inquadramen­to, quella di cantastorie politico della piazza, che gli rico­nosce una sorta di collocazione dì frontiera, a metà tra let­teratura e comizio, feuilleton e giornalismo di protesta, espressione di un tipo di intellettuale militante che ha un rapporto diretto e simpatetico con la piazza. Nella sua Storia dell'Italia in piazza Isnenghi accosta tra l'altro, acutamente, Paolo Valera a Francesco Saverio Merlino, personaggi entrambi immersi "nelle emozioni e nelle sof­ferenze delle classi popolari", protagonisti di processi memorabili, costretti all'esilio, socialisti libertari o se si preferisce appunto mezzo anarchici e mezzo socialisti. Certo le differenze tra i due permangono: avvocato e teorico Merlino, giornalista e scrittore Valera, con una diver­sa qualità di elaborazione e di proposta politica. Il confronto fra i due è diseguale: nelle Questioni di storia del socialismo di Leo Valiani, Paolo Valera, è citato una sola volta, Merlino occupa invece tre­dici pagine; altrettanto nella storia documentaria dell'anar­chismo fa Adriana Dada, che ricorda Merlino in sedici pagi­ne diverse e ignora Valera. Invece il Valera scrittore torna a campeggiare nella einaudiana Letteratura italiana diretta da Asor Rosa, dove è citato per dodici pagine. Valera occupa uno spazio tutto speciale nella nascente cultura politica dell'inchiesta sociale, qualcosa di più e di diverso dal realismo letterario e dal naturalismo, una prassi di ricognizione sociale in cui la conoscenza è basata sui fatti.
È da indagare il legame tra il metodo di scrittura adot­tato per fare cronaca-storia con la narrazione in presa diret­ta delle "terribili giornate del maggio 1898" e il metodo del romanzo sperimentale adottato per La folla mette in crisi della "struttura portante del romanzesco nei suoi elementi cardinali, sostituendo la trama col documento analitico e l'eroe con il coro".
Il metodo di concepire la cronaca come storia moderna spinge Valera a riconoscere che essa è fatta "da coloro che passano aura verso le narrazioni, i racconti, le lettere confi­denziali, le scene fotografate, le note calde degli avvenimenti". Ma in questo senso è lavoro di montaggio e smontaggio dei testi, il reporter osserva e conduce la sua inchiesta, prende nota, si fa consegnare appunti e memo­rie, poi monta e rimonta il testo, protagonista è la folla coi suoi soggetti, una folla che si fa coro e al tempo stesso si compone di microstorie, testimonianze, storie individuali, un po' come i medaglioni biografici, a metà tra scheda e narrazione, che Valera adotta per la scrittura narrativa. La scrittura in presa diretta del reportage d'inchiesta e la scrittura documentaria della vita romanzata alludono en­trambe a una presenza corale che non fa da sfondo o da testimone ma partecipa alla scena e la fa raccontare allo scrittore raccontandola a sua volta. Qualcosa di più del po­sitivistico fatto con la sua impersonalità, una osservazione-scrittura che cerca un suo ritmo a contatto con la folla.
La famiglia che più riassumeva tutto ciò che c'era dì tragico nel Casone, era la famiglia Cristaboni.
Pietro Cristaboni aveva tutte le caratteristiche dei denutriti della miseria. A ventidue anni s'innamorò di Vittoria, un’orlatrice di scarpe che rivaleggiava con lui in bruttezza. Una volta sposati ebbero due bambini e una bambina bellissimi ma non destarono alcuna meraviglia per le persone che abitavano nel Casone perché essi dicevano che i ragazzi più belli uscivano dalle coppie più mostruose, ma questa opinione per i figli dei Cristaboni non durò molto infatti questi bambini invece di svilupparsi, s'immiserivano prendendo tutte le caratteristiche dei genitori.
Questo brano è essenziale per la comprensione del romanzo. Paolo Valera descrivendo anche la fisionomia dei personaggi, mette in rilievo tutti gli effetti della miseria.
Il tema principale del brano è la miseria in cui vivono le famiglie proletarie che, non sapendo come migliorare le proprie condizioni si dedicano all'alcool e alla prostituzione. Il tema secondario del componimento è la sofferenza di queste famiglie poiché molte volte devono subire anche mariti, padri...che ubriachi si riversono sulle proprie mogli e figlie. Il nesso di relazione tra il tema principale e quello secondario è che le condizioni miserevoli delle famiglie proletarie spingono queste persone a cercare dei rimedi in quello che apparentemente sembra la cosa più facile, ma che provoca molte sofferenze.
I personaggi principali del brano sono: Vittoria e Pietro Cristaboni. Il narratore si sofferma molto sulle caratteristiche fisiche dei personaggi mettendo in rilievo tutte le conseguenze che la miseria provoca anche sull'aspetto fisico dei personaggi.
Il brano è tratto da “La Folla” di Paolo Valera, un romanzo ambientato alla fine dell’Ottocento.
L'autore usa un linguaggio medio perché affronta temi sociali come la miseria e la sofferenza e vuole che il pubblico del suo romanzo deve essere un popolano. Sperimentale è una scrittura naturalista che Valera presenta come un morceau de rue che non vuole avere nulla a che fare con i "romanzi immaginari, stucchevoli, indigeribili, malsani, rimpinzati di personag­gi artificiali". La piattaforma teorica dell'impersona­lità artistica cara al programma verista è proclamata più volte dallo stesso Valera e ripresa nei suoi enunciati da M. Gioda nel 1911, che sottolinea come negli scritti di Valera non ci sia mai "l'io ipertrofico, l'esibizionismo dell'io; ma campeggia il noi che rias­sume la tonalità collettiva". Ma questo inquadramento è riduttivo e legittima la qualificazione di Valera come di un verista minore, a metà strada fra cronachismo e  documentarismo sociale, bozzettismo e foto d'epoca e lo collochi infine tra gli au­tori delle vite di città, in compagnia ad esempio di opere come I misteri di Napoli di Francesco Mastriani, ad esemplificazione di un genere che ha avuto i suoi piccoli fasti ma rimane datato nei suoi stessi esiti, vincolato alle regole di comunicazione della demagogia populista. Ghidetti sottolinea lo smarcarsi dello scrittore dal populismo, il riconoscimento di una specifi­cità che lo porta a fare a meno di certi toni, a saper rinunziare al sublime dei Misteri di Parigi come ai toni epici dei Miserabili e alle perorazioni rivolte ai potenti dei Misteri di Napoli di Francesco Mastriani. C'è un di più che investe appunto le moda­lità di scrittura, l'impasto continuo di realismo documentario e linguaggio popolare, lo straripamento delle parole e delle atmosfere che a volte cade nel truculento e nel granguignolesco, nel facile effetto o solo nella forzatura ma più spesso diviene una miscela esplosiva. Questo tipo di scrittura trovi subito tra i suoi ammiratori lo sperimentalista Lucini, che per primo evidenzia la corrispondenza fra estremismo del messaggio e irregolarità dello stile.

La famiglia che riassumeva tutto ciò che vi era di tra­gico e di deforme nel Casone[42] era quella del donatore Pietro Cristaboni, un satiro che arrivava all'orlo del tavo­lo se si rizzava sulla punta dei piedi. Rachitico nell'utero, era venuto al mondo un mostricciattolo, con delle protu­beranze davanti e di dietro che gli si andarono sviluppan­do cogli anni, inghiottendogli il collo fino al di sopra del­la carotide, caratteristica dei denutriti della miseria. Con la testa enorme e mobile, con gli occhi bigi in fondo alle orbite sotto tettoie pelose, col naso orribilmente schiac­ciato alla radice, con le mascelle voluminose e le labbra turgide e scarlatte faceva scappare le donne dal ventre grosso. Era di una forza straordinaria. Con delle braccia lunghe e sproporzionate al corpo sapeva levare pesi enormi e contorcere, nei momenti bestiali, dei bastoni di ferro. Le dita si attaccavano alle carni delle sue vittime come  tentacoli che stritolavano. A ventidue anni, con dei baffuti nerissimi, le cui punte attorcigliava con orgoglio, correva dietro a un'orlatrice di scarpe che rivaleggiava con lui in bruttezza. Era bassotta, con la fronte dalla pelle gualcita, con le palpebre scervellare e rossastre, e con una configurazione facciale scimmiesca. Era la cagna del Cortilone. Chiunque poteva darle un pizzicotto o palpeg­giarla dove voleva. Alla sera, col boccone in bocca della cena, andava sul bastione a giocare coi giovanotti delle fabbriche, che la sdraiavano sull'erba o la schiacciavano contro gli alberi, non suscitando in lei che le risate con­vulsive. Era così ripulsiva che nessuno, neppure la madre che la tirava grande a schiaffi e a pedate, sentiva il biso­gno di proteggere la sua verginità dagli assalti maschili.
L'indignazione era tutta per gli sporcaccioni che non ave­vano schifo di mettere le mani in un corpo marcioso co­me quello di Vittoria.
Pietro sentiva per lei una passione brutale di abbatterla in terra e saziarsi sul suo corpo. Più ella si ostinava a vol­tar via gli occhi e più lui le teneva dietro nelle ore libere con la tenacità del questurino. In sull'imbrunire l'aspetta­va sulla porta e la seguiva fingendo di andare pei fatti suoi, aspettandola dovunque poteva spiarla, sull'angolo della via o dietro un albero. Assisteva ai palpeggiamenti e alle colluttazioni con gli uomini, coi bramiti sordi della concupiscenza[43], coprendola di nomi ingiuriosi, chiaman­dola la troietta di tutti e giurando di impadronirsene non appena gli sarebbe venuta alla portata delle mani.
Poi se la vedeva ripassare ancora imbrattata degli altri come una superbiona che gli avrebbe sputato in viso alla prima pa­rola.
Con la faccia terrea e le mani agitate la vedeva an­dar via vestita alla diavola, con delle vesti svanite che le cascavano giù dai fianchi che non aveva, a piedi nudi, col seno incipiente, ridendo a tutti, tranne che a Pietro, che odiava perché era orribile e che malediva perché la perse­guitava da sei mesi.
- Piuttosto che divenire sua moglie diceva alle ami­che che la canzonavano - preferirei saltare nel tombone di San Marco!
Pietro lo sapeva e sapeva anche che si metteva in ri­dicolo l'idea del suo matrimonio. Ma lui non ascoltava nessuno e continuava a pedinarla, determinato a carpirse­la come una preda, a farsela sua per diritto di conquista, a contenderla agli altri col suo pugno di ferro che spaccava i tavoli e frantumava le scranne. Non mancava che una goccia di vino per far traboccare la sua violenza. Quando era bevuto, non rimaneva di lui che l'animale feroce che sconquassa e che passa sul corpo di non importa chi. Una volta vuotò un'osteria con una semplice chiave. La mena­va alla cieca, senza badare se schocchiava o se la sprofondava nella testa o se smascellava qualcuno. Rimasto solo, con la gente fuori che gridava aiuto, egli si mise a sfogarsi contro i vetri, scaraventando i bicchieri nelle finestre e adoperando un doppio litro per rompete i litri, passando dappertutto con la bava alla bocca e con gli occhi stralunati e iniettati di sangue, come una bufera che lascia dietro di sé il disastro della sua furia.
Il momento era venuto. Era una sera di maggio con l'aria tepida e col cielo che pareva un immensa cupola chiara riflettente l'azzurro annacquato sulla popolazione della strada. Si distingueva una persona dalle altre assai meglio che di giorno. Pietro si era fatto sbarbare, aveva bevuto mezzo litro di tram e sfoggiava una cravatta di la­na rossa che gli buttava una fiammata sulle guance livide. Vittoria era sul bastione, in mezzo a una frotta di giovani operai che passavano dalla luce nelle ombre del fogliame degli alberi, che la cingevano alla vita e le davano dei ga­nascini che la facevano trepidare con dei gridi che anda­vano nelle orecchie di Pietro come tanti spilli. Le stelle si illuminavano una dopo l'altra, popolando la distesa di gruppi che parevano centri di faville. Vittoria scompariva nella chiazza larga di un ippocastano affollato e fiorito e Pietro se la immaginava allungata sull'erba sotto il peso di un uomo che se la sgingottava tra le braccia. Gli calò sulle pupille una foscaggine che gli inpetrò la scena svol­gentesi sotto il largo fogliame che sussurrava alitato dall'arietta che rinfrescava la temperatura e, incalzato dalla gelosia, andò di filato, di corsa, verso il capannello, che si sciolse a gambe levate, e si gettò sulla donna come un cane rabbioso, morsicandola dappertutto e tappandole la bocca per impedirle di urlare come una scalmanata.
La fanciulla sorpresa rimase vinta. Si alzò come una smemorata, col corpo indolenzito dalle strette del gobbo, che le si era attorcigliato alla vita come un serpente. Il malefiziato in piedi, coi capelli sottosopra, cogli occhi che lampeggiavano di lussuria, si rifece il gruppo della cravatta rossa, si calcò il cappello sulla testa, le passò il braccio sotto il braccio e si avviarono verso casa senza scambiarsi una parola. Sull'angolo, Pietro, entrò dall'ac­quavitaio a bere un grappino, lasciando la ragazza sul marciapiede come una sbalordita che non aveva più volontà propria. Alla porta si separarono.
A domani.
- A domani.
Non mancò mai agli appuntamenti. Col succedersi delle settimane i desiderii di Pietro diventavano per Vittoria degli ordini imperativi. Non rideva più con alcu­no, non guardava più in faccia ai giovinastri che conosce­va e filava diritto per paura di sentirsi alla pula le mani che l'avrebbero strangolata come una gallina. La sera in cui le disse: - Domani andremo coi testimoni a prendere il consenso - la ragazza si limitò a rispondere che non aveva scarpe e che la settimana doveva darla alla mamma perché l'aveva mantenuta.
II vicinato, vedendoli passare, faceva delle risatine di compassione o masticava parolacce contro una coppia che faceva partorire qualche mese prima le gravide che incontrava. Alcune donne non riuscivano a convincersi che ci fosse una legge divina che permettesse a un mostro come il gobbo e a una infelice come Vittoria di unirsi in matrimonio per produrre dei bimbi deformi come il padre o scrofolosi come la madre o orribili come i genitori. Ma la cosa era un fatto compiuto. Domenica scorsa don Paolo aveva annunciato ai devoti, tra le altre pubblicazio­ni, che Pietro Cristaboni, indoratore, di anni 26, e Vittoria Angelucci, orlatrice, di anni 18, intendevano contrarre tra di loro matrimonio. Bastò l'annuncio per sollevare il sus­surro. Le donne e le ragazze che li conoscevano si face­vano il seguo della croce coree per scongiura re una di­sgrazia. Ma don Paolo continuò l'annuncia, aggiungendo che chi sapesse correre tra questi contraenti qualche legit­timo canonico impedimento, si ricordasse l'obbligo di denunciarli, ricordandosi pure che denunciando il falso incorreva in colpa mortale e nella pena della scomunica.
Il chiacchierio della folla femminile fu sul canonico impedimento. Non c'era bisogno di denunciarlo. Chiunque sapeva che erano due sgorbi umani che facevano vomitare a guardarli. Pietro poi era un gobbo pericoloso che si sa­rebbe dovuto incatenare in un manicomio.
Era stato veduto dai vicini della sua ringhiera sbattere la madre violente­mente sulla parete e tutti sapevano che era lui che l'aveva fatta crepare a botte e a spaventi. Una volta il bilanciere Antonio gliela strappò di mano tutta sanguinolenta. E per compenso, Antonio, s'ebbe una sgabellara sulla testa che lo lasciò in terra tramortito.
La loro casa di sposi non valeva venti soldi. L' aveva­no incominciata con dei cavalletti e un pagliericcia, un tavolo dì tre lire con le due scranne e qualche stoviglia per la cucina, e non l'avevano migliorata lungo gli anni che con degli stracci. Anche se si era abituati ai cenci, chi dava una capatina nella loro stanza si sentiva umiliato di sapere che vi erano degli esseri che vivevano in tanta melma. Pareva un'abitazione di cani pìrocchi. C'era della caria straccia e unta sul focolare, negli angoli e sotto il tavolo. Il letto era sempre sfatto e le lenzuola stracciare non si distinguevano dal calore della coperta. Le pareti erano piene di ditate del colore del caffè sporco. Dal soffitto a travicelli penzolavano le ragnatele che infittivano e si allungavano giù, di anno in anno, senza che la moglie sen­tisse il bisogno di romperle con un colpo di scopa.
L'ammattonaro era molle di cacheríe, di spuracchi neri del ma­sticatore di mozziconi raccolti per la strada, dei piedi che vi entravano infangati, e di tutta la miseria che cadeva dalle loro teste, dai loro corpi, dal loro tavolo e dal loro focolare. Il primo frutto della loro unione fu un piccino che fece meravigliare il vicinato. Era grassottello, con de­gli occhioni celesti, dei capelli biondi, con la carne della faccia biancastra imporporata di un roseo piccante, con delle manine bianche come il latte. II secondo fu una bimba vispa, con degli occhi fulvi come i capelli, con un nasino che si slargava alla base, e delle guance che in cer­te giornatone di sole fiorivano di salute. Alcune vicine si conciliavano coi genitori, che consideravano orribili, per avere l'opportunità di dare a quei monelli dei buffetti sul naso o delle mezz'once sul faccino.
Tre anni dopo ne nasceva un altro più leggiadro dei primi due senza destare alcuna meraviglia sulle ringhiere e sulle scale popolate di inquilini. Nel Casone si era abituati a dire che i ragazzi più belli uscivano dalle coppie più mostruose. Ma questa opinione per i figli dei Cristaboni non durò molto. La gente incominciava a ve­dere che era di loro come di quelle mele che hanno la pel­le fresca e sana. I primi due invece di svilupparsi e cre­scere, si immiserivano, il primo rimanendo come era na­to, il secondo ingrassando come se fosse stato affetto d'idropisia, senza allungarsi mai fuori. I bimbi degli altri camminavano e si rincorrevano giù per i cortili con le manate di papa per sporcarsi la faccia e gridare a perdita di fiato.
I bimbi dei due Cristaboni non sapevano stare in piedi e le gambe di entrambi si andavano arcuando co­me se le loro ossa fossero troppo pastose per non piegarsi sotto il peso del corpicino. Invecchiavano sculacciando per il pattume della casa e della scala, emettendo dei gridi sgarbati e mangiando quel diavolo che capitava loro tra le manucce. La madre, che doveva orlare anche nelle ore in cui avrebbe avuto diritto al riposo, lasciava che le cose andassero per la loro china senza tante preoccupazioni. Mentre si sgravava di altri due, Richerto e Gigi perdeva­no la fioritura, divenivano flosci e erano tormentati dalla clentizione che cresceva orribilmente. I denti uscivano dalle gengive aguzzi, addossati e irregolari. Sotto il men­to avevano sovente dei gonfiori che l'olio d'amandorla non sapeva più distruggere.
Ci voleva spesso la lancetta del chirurgo dell'ambulanza, la quale lasciava sempre della carne spellata e rossastra, con delle escrescenze lun­go i tagli che commovevano le vicine fin nell'imo delle viscere. Il padre si era riversato tutto in Franceschino, un monello rachitico in fasce che lacerava i capezzoli della madre che gli dava il latte. A cinque anni era un demonio che percorreva i fratelli e le sorelle e alle volte tentava di rovesciarli nel fuoco. Giocando sulla ringhiera, portò fuo­ri un occhio al figlio della 82 con un'unghiata. Più invec­chiava e più si sviluppava in lui il genitore con la sua te­sta massiccia, coi suoi orecchioni fioriti di esantemi, coi suoi occhi illuminati dalla delinquenza, con l'ossatura della faccia voluminosa, con le esuberanze sullo stomaco e sulla schiena, con le mani che parevano artigli. Brutale come lui, rompeva le scodelle e buttava il coltello e la forchetta in faccia alla madre, se lo seccava. Antonietta teneva più della madre. Con una faccia patita, con le pal­pebre arcovesciate, scrofolosa, esile, senza fianchi, coi piedi pesanti e piatti e con la spalla sinistra che le si deformava senza addolorarla. L'altra, l'ultima, aveva la testa piena di croste, la faccia piena di croste, con un'apertura ombelicale a sei anni, un piede contorto e uno stomaco che buttava su quasi tutto quello che mangiava.
Pietro, in mezzo a questo spettacolo iragiro, rinizunc­va l'uomo di prima. Indifferente, crapulone, bestiale. Se, aveva della grappa in corpo più del solito, prendeva stia donna per le spalle e la calcava sulla parete, come se avesse voluto schiacciarvela, dandole calci nel ventre ogni qualvolta gridava per farlo sapere ai vicini.

Uno sciopero del 1902
da Metello[44] di Vasco Pratolini[45]
Metello è ambientato a Firenze e rappresenta il periodo che va dal 1875 al 1902, tempo delle prime lotte sindacali e della crescita organizzativa del movimento operaio. Il protagonista è Metello Salani, figlio di un anarchico. Rimasto orfano neonato di pochi mesi, viene allevato a Rincine, in campagna, da una semplice famiglia di contadini. Vive nei campi del Mugello la sua adolescenza, e solo il caso o forse il destino lo riporterà in città all'età di quindici anni, in cerca di lavoro. Impiegato come manovale, egli acquisisce pian piano coscienza di sé e consapevolezza politica. Impegnatosi attivamente nelle lotte operaie, Metello, in seguito ad una manifestazione, finisce in prigione nel 1898 e nuovamente nel 1902, a causa della lunga dimostrazione dei muratori. Questo sciopero rappresenta l'apice della lotta politica del giovane ed è, anche, un momento cruciale per il parallelo percorso di educazione sentimentale, che va dalla scoperta dell'amore per Ersilia - figlia di un anarchico morto in un incidente sul lavoro - al matrimonio nel 1900, dal cedimento ad un'avventura proprio durante lo sciopero del 1902 alla riconquista dell'equilibrio familiare. Pratolini racconta la storia di questo sciopero dal punto di vista di chi vi ha partecipato e fa capire come gli operai, alla luce delle nuove idee socialiste, si stringono attorno ai sindacati e alla camera del lavoro,diventano un' identità ben precisa che ha come scopo l'aumento del salario. La vita è troppo cara e i salari per le famiglie sono insufficienti. Metello partecipa personalmente allo sciopero e,incapace di trattenere il suo carattere irruente,si espone in prima persona per l'affermazione delle idee in cui crede. Infatti, numerosi sono gli scontri che l'uomo ha con l'ingegnere Badolati affermare il rifiuto dei muratori di ritornare a lavoro. Metello rappresenta l'uomo che riesce a mantenere la sua dignità e la cui forza sta proprio nella sua semplicità. Nonostante le difficoltà economiche che dovette affrontare e i vari pensieri di cedimento, riuscì a tener duro e a sostenere i muratori in questo sciopero. Alla fine ci fu la vittoria degli operai ma Metello dovette ritornare in galera con l'accusa di istigazione alla sommossa.
Il brano scelto è importante per la comprensione del romanzo. Esso spiega le motivazioni che hanno spinto gli operai a scioperare. Ci fa capire le condizioni di miseria e sofferenza nelle quali il proletariato si trovava
La domenica del 14 maggio del 1902 i lavoratori di tutte le imprese si riunirono per discutere dello sciopero. Essi chiedevano sei soldi per i primimuratori e via via diminuendo per i manovali,in più le tariffe non retribuite. Del Buono, direttore della Camera del Lavoro, dall'alto del poggio chiese ai muratori se erano d'accordo con lo sciopero. Molti chiesero la parola. Volevano spiegare le proprie ragioni, le proprie private situazioni e la precarietà delle loro condizioni. Iniziò il giovane Aminta, dicendo di avere due figli ma che non aveva potuto comprarsi una casa. Disse che lavorava tutta la settimana e solo la domenica incontrava la moglie e i figli, in cambio di un salario bassissimo. Anche altri spiegarono le loro ragione e lo sciopero per l'indomani fu confermato. Si nominò un responsabile per ogni cantiere. Quello dell'ingegner Badolati scelse Metallo. Lo sciopero del 1902 durò quarantasei giorni e si risolse con la capitolazione degli imprenditori. Fu una vittoria per i muratori e soprattutto per Metallo.
Il tema principale del brano è lo sciopero dei lavoratori. Essi scioperano perché vogliono l’aumento del salario: la vita è troppo cara, ed i salari sono pressoché insufficienti. Metello per i propri compagni si sacrifica e sempre subisce le dure conseguenze, senza mai pentirsi di ciò che commette. I muratori scioperano contro la politica delle tariffe che sono troppo basse. Chiedono un aumento e in più le tariffe non retribuite.
Il tema secondario è la miseria e la sofferenza dei muratori. Essa viene presentata attraverso le situazioni personali dei personaggi. Ogni muratore espone agli altri la condizione della propria famiglia per far capire loro la necessità di un aumento del salario. Quindi la necessità di ribellarsi alla politica delle tariffe troppo basse.
Tra il tema centrale e quello secondario c’è un nesso di relazione. I muratori scioperano contro la politica delle tariffe per i salari troppo bassi. Essi si trovano in condizioni di miseria. Molti di loro hanno difficoltà nel mantenere la propria famiglia e proprio per questo, durante l’incontro con gli altri lavoratori, espongono le proprie condizioni e cercano l’appoggio degli altri nel continuare a scioperare.
Pratolini fa leva principalmente su descrizioni.
La vicenda è narrata da un narratore esterno, informato dei fatti. Egli espone le condizioni delle famiglie dei muratori che intendono scioperare contro la politica delle tariffe.
I principali personaggi sono: Metello, protagonista del romanzo che si sacrifica per i compagni e subisce delle conseguenze, e Del Buono, direttore della Camera del Lavoro.
Il narratore non si sofferma solo sulle caratteristiche fisiche ma si dedica soprattutto a rappresentare le loro condizioni, i loro pensieri e le motivazioni che li spingono a scioperare.
I personaggi secondari sono tutti gli altri muratori: Aminta, il piccolo Renzoni, il decano Lippi, Giannotto, Olindo.
L'autore usa un linguaggio medio, per far capire a tutti le precarie condizioni dei lavoratori e la loro necessità di scioperare.

Ora il sole batteva a picco, filtrava attraverso il verde dei faggi come tante spade, l’estate era venuta in an­ticipo, ma essi c’erano abituati. La più parte conser­vava il gilè sopra la camicia della festa, e teneva la giacca sul braccio. Guardavano in alto Del Buono[46] che parlava. Stavano a bocca aperta ad ascoltarlo, o masticando la cicca o un filo d’erba, d’avena. Del Buono gli parlava, in piedi e dall’alto del Poggio, tut­to chiuso nella giacca che gli arrivava ai ginocchi, mezzo strozzato dal solino, gli occhiali a pizzicotto sul naso, e ripeteva la domanda.
«Chi non è d’accordo, rappresenti le sue ragioni.»
C’era tanto silenzio che venne avanti l’eco e s’in­grossò il coro delle cicale.
«Ragazzi» disse ancora Del Buono «chi ha un ro­spo, lo sputi. Perché se a un certo momento, in pieno sciopero, dovesse saltare fuori qualche crumiro[47], ho l’impressione che questa volta ci sia gente disposta a fargli del male. E questo bisogna non succeda. Non aspettano di meglio, gli impresari.»
Lo ascoltavano, sparsi per il pendio, a gruppi o ad­dirittura inginocchiati, come stavano alcuni, sembrandogli di riposarsi meglio che seduti. Erano più di trecento, e di tutte le età, dal manovale che non aveva vent’anni, al più anziano che aveva passato la sessantina - e che non era più Renzoni, ormai ritiratosi all’Impruneta[48] dove viveva a carico di una figlia vedova e dei nipoti, uno dei quali era manovale ed era lì e doveva ancora andar soldato. Il decano dicia­mo, adesso era Lippi[49]: stava appoggiato a un albero con la spalla, a qualche passo da Del Buono. Era pic­colo e dritto malgrado l’età, aspirava a vuoto il cannuccio della pipa di terracotta, e fu il primo a inter­venire: «Voglio dire io una cosa».
«Bravo vecchio» gli gridarono. «Rompi il ghiac­cio, con questo calore.»
«Ché! Non ho nessuna voglia di scherzare.»
Aveva due occhi come due spilli, e furbi, arguti. Era un divertimento sentirlo parlare; lo si pigliava sul serio e insieme non si poteva fare a meno di ridere.
«Io allo sciopero ci sto, ci sono sempre stato. Sol­tanto volevo dirti: o Del Buono, mi meraviglio di te. Ti sembra cotesto il modo di parlare? Tu minacci! Io, se tu vuoi, sai cosa fo? Metto in tasca la pipa e ci si prova.»
Fece seguire il gesto alle parole, e questo suo in­tervento, riuscì a diradare l’impaccio che c’era un pò in tutti, siccome era la circostanza che lo determina­va, anche nei più decisi. L’ilarità[50] che seguì, li mosse, tre cinque dieci mani si alzarono, non per significare il proprio disaccordo, ma per chiedere la parola e ri­petere, ciascuno a suo modo, il concetto espresso da Del Buono, e che condividevano.
Fu come se ciascu­no sentisse il bisogno di ripetersi le proprie ragioni, per dimostrare a se stesso di essere nel giusto, e co­me per darsi coraggio, una volta impegnatosi, di cor­rere l’avventura. Era, per tutti, una avventura. Ma anche se non li avesse animati un sentimento di dignità, di ribellione, c’era la propria privata situazio­ne a deciderli. La precarietà delle loro condizioni, in certi casi la fame, li spingeva. «Pongo il mio caso» uno disse. Era un uomo ancora giovane, bruno, dallo sguardo mite e deciso, il volto magro, i baffi corti, la mosca sotto il labbro; era in corpetto e maniche di camicia, questa senza solino, fermata al collo da un gemello.
«Come sa chi mi conosce, ho ventott’anni e sono mezzomuratore. Mi chiamo Donnini Aminta, vengo dal Ponte a Ema[51]. Lavoro nel Cantiere Badolati di via XX Settembre e prima, da manovale, stavo sotto il Tajuti. Cipressino mi conosce.»
Metello[52] assentì e Del Buono disse: «Anch’io ti co­nosco. Bravo, parla».
«Pongo il mio caso. Ero bracciante, prima di far questo mestiere, più di dieci anni fa. E nelle campagne c’era anche allora sempre meno lavoro per chi ha biso­gno d’andare a giornata. Eppoi, fare il bracciante è un mestiere? Sei lo schiavo del fattore e del contadino. Il padrone non ti conosce nemmeno, mai. Sei lo schiavo dello schiavo dello schiavo, E fatichi e guadagni di conseguenza. Meno di uno dei nostri manovali.»
(«Purtroppo» borbottò il ragazzo Renzoni. «Se no, chi si sarebbe mosso dall’Impruneta?»)
«Ora statemi a sentire. Avanti d’andar soldato[53], mi ero impegnato con una brava ragazza. Mi ero preso anche l’acconto. Ora è la mia donna, e non c’è nulla di vergognoso a farlo sapere. Al Ponte a Ema l’hanno sempre saputo, Lei l’ebbe a dire in confessione e il pie­vano[54] la tolse dalle Figlie di Maria[55]. Così la voce fece il giro del paese. Io ero digià militare. E appena conge­dato, non me la dovevo sposare? L’ho sposata anche perché ci si voleva bene. Ma in Municipio l’ho sposata, non in Chiesa. E non perché io sia ateo dichiarato, ma perché al pievano, appena tornato da fare il militare, la prima cosa che feci, gli feci uscire il sangue dal naso. Sono stato per questo sette mesi alle Murate[56]
«Peccato quelle che ti andarono di fuori, Aminta» gli gridarono.
«Poche andarono di fuori, ve l’assicuro. Era anco­ra in età di poterle sopportare. Lo bacchiai[57] seguendo un ragionamento. Poi, feci conto che la ferma[58] invece di tre anni, fosse durata tre e mezzo. Questo succe­deva due anni fa. Quando uscii dalle Murate, mia moglie aveva appena partorito.»
«Ti eri preso un acconto più grosso, a quanto pa­re» disse Lippi, il decano, e giù per il pendìo, sotto il sole, scrosciò una gagliarda risata.
Rise Aminta con gli altri, e disse: «Dopo tre anni di ferma, capirai!». Tuttavia, l’interruzione di Lippi e la ilarità ch’essa aveva suscitato, sembrarono spe­gnere la foga del giovane muratore, che un attimo indeciso, dopo essersi guardato attorno, anche se adesso nessuno più rideva, rapidamente concluse:
«Questo per dire che oggi i figlioli sono due, il se­condo ha otto mesi, e non abbiamo ancora potuto metter su casa. Mia moglie sta ancora coi suoi, al Ponte a Ema, e io dormo nella baracca in cantiere, sei giorni la settimana. Ci si incontra la domenica come dei fidanzati, a mezza strada, siccome i suoi sono contadini e la terra dove lavorano è della Chie­sa. Il pievano gli ha permesso di tenere lei e le crea­ture, ma li ha minacciati di mandargli la disdetta se viene a sapere che danno ricovero a me, anche per un’ora. Vi par giusta?» chiese, alzando il tono della voce «che dopo aver lavorato tutta una settimana, da due anni senza perdere una giornata, uno come me, non sia in grado di potere affittare quattro mura e riunire la famiglia?»
Tacque e prese il fiasco dell’acqua e bevve a gar­ganella.
«Sicché» gli domandò Del Buono «per te lo scio­pero va bene?»
«E allora?» disse Aminta, si asciugò la bocca sull’avambraccio «perché avrei parlato?» E subito aggiunse: «Mi appello a quelli che vengono a lavorare dalla campagna, che come me tornano a casa una volta la settimana, anche se non sì trovano nella mia combi­nazione particolare. È vita dormire sei giorni la setti­mana in cantiere, mangiare asciutto[59] il più spesso an­che la sera, e poi fare quindici o venti chilometri, a piedi, il sabato col buio e il lunedì mattina, per porta­re a casa che? Se le nostre dorme non facessero buca­ti o non andassero a opra[60] anche loro, non si cresce­rebbero i figlioli. Sempre chi una casa ce l’ha, io non ce l’ho» ripetè. «Mi appello a voi che venite di campa­gna. È giusta che si sia sfruttati a questo modo?»
Gli risposero più voci insieme, come tirate l’una dall’altra, in coro.
«L’altr’anno ci presero in tranello.»
«Ci promisero un soprassoldo[61]. Perciò dopo due settimane si tornò sul lavoro. Ormai è risaputo.»
«E anche perché non si sapeva come tirare avanti. Non si voleva fare i crumiri.»
«Ma all’atto pratico fu così.»
«Parliamo uno per volta» gridò Del Buono. «E non rinvanghiamo il passato. Non è questione di rin­facciarsi delle colpe. L’importante è che ci sia servito di lezione. Pigliamo esempio dai padroni. Vedete lo­ro come sanno stare uniti? Anche l’ingegner Badolati, ch’è il più grosso, e sembra avere sempre il cuore in mano, avete visto in questa occasione che si trattava di venire al sodo, come si è tirato indietro anche lui? Uno per volta, via, chi ha chiesto la parola?»
Seguì un silenzio, e tornò più forte e vicino il frini­re delle cicale, il cinguettìo dei passeri che volavano a stormi sulla cima degli alberi e contro il cielo.
«Avanti» li esortò Giannotto.
«Forza» Metello disse. «Se c’è chi ha qualcosa in contrario, come spiegava Del Buono.» E d’improvvi­so, gli ridevano gli occhi e ancor più, si sarebbe detto, la voce, per questo era intervenuto. «Tu, ad esem­pio, Tinaj» aggiunse, rivolgendosi a Olindo[62] che sede­va pochi passi distante e che, fisicamente proprio, in quella gran calura, si sentì percorrere da un brivido, e agghiacciare. «Appartieni da poco tempo alla cate­goria. Che te ne sembra, ci si comporta bene?»
Più che rispondere, Olindo farfugliò: «Sono do­mande da fare? Certo. Ho anch’io, modestamente, un’esperienza di miniera che...». Non continuò; co­me mangiandosi le parole, fissava il fratello dal bas­so in alto, con uno sguardo in cui l’umiltà, l’affetto, sembravano mischiarsi al risentimento, al rancore. «Perché chiami in causa proprio me?» gli chiese.
«Così, per interrogare qualcuno, per muovere le acque» Metello gli rispose, e c’era un’intonazione protettiva, di complicità e di vittoria insieme, in quel­le sue parole. «Se non si comincia dalla famiglia.»
«Dammela a me, Cipressino, la parola.»
«Ecco, sentiamo il tedesco.»
Era un uomo di quarant’anni, alto, pingue, pleto­rico, non sarebbe sembrato un muratore, ma in realtà lo era, e fino da ragazzo si poteva dire, aveva cominciato aiutando i manovali a impastare calcina. Butòri, Pio Butòri, era adesso primo muratore, lavo­rava nello stesso cantiere con Metello, con Lippi, e col piccolo Renzoni, e non c’era chi non lo conosces­se e non gli portasse rispetto. Gli piaceva bere, ma a chi non piaceva? A lui in un modo forse un po’ esage­rato, sempre dopo il lavoro comunque, col buio. E siccome il vino lo reggeva, questo anziché limitarla, gli aumentava la considerazione. Nell’86, era emi­grato in Germania, aveva lavorato a Colonia, a Li­psia, mai a Berlino, ed era tornato, senza risparmi anche lui, ma in buona salute, l’animo allegro e una famiglia creatasi lassù, tra i mangiasego. Perciò ora lo chiamavano il tedesco, perché era stato in Allemagna[63], e aveva sposato una tedesca e ci aveva una fi­gliola di dieci anni, più albina[64] che bionda, come la madre. Egli di persona, era l’opposto. Com’era gran­de e grosso, così aveva un viso largo, bonario, ora paonazzo[65] più di sempre per via dell’afa che lo tor­mentava. E ciò che disse, le parole con cui si espres­se, dettero la sensazione che veramente partecipas­sero l’opinione generale. Si tolse di bocca il filo d’erba, d’avena che masticava, disse: «Con tutto il ri­spetto per l’Aminta, io dico che non è necessario tro­varsi sull’orlo della disperazione come si trova lui, per essere d’accordo sullo sciopero.
Se ne è ormai parlato e riparlato. Quelli di Torino come quelli di Napoli, ci hanno dato l’esempio.
Quelli di Bari, di Li­vorno e d’altrove, è già delle settimane che sono alle prese coi padroni. E a parte questo, è da bambini, far questione di campagna e di città. Si mangia forse di grasso, noi che siamo di città e dormiamo tutte le notti nel nostro letto? Io ho una bambina che stenta un poco a esprimersi in italiano, siccome più che vi­cino a me sta tutto il giorno vicino alla madre, è naturale. Bene, anzi male, che se la voglio mandare a ripetizione, debbo fare a meno di bere e di qualche altra cosa...
Ora, lavoro ce n’è, e questi sudici di impresari, ci succhiano il sangue. Una norma di un me­tro e mezzo al giorno non è uno scherzo, vuoi vedere l’uomo in viso. Tu, Del Buono, queste cose le sai dire e le hai dette ora ora meglio di me... Ragion per cui, io dico che noi non dobbiamo scendere in sciopero soltanto perché di quegli otto soldi e di quel trentino al giorno di aumento che chiediamo, ne abbiamo bi­sogno. Che ne abbiamo di bisogno, lo sanno anche le Pietre. Le nostre disgrazie, che ce le raccontiamo a fare? Sembra si stia qui a togliersi le pulci l’uno con l’altro... Io parlo per me» si corresse «intendiamoci, e dico che per quello che mi riguarda, io allo sciopero ci sto perché oltre che averne bisogno, di questa miseria di aumento, mi pare di averne ma diritto!»
«Questo sì che è parlare» disse Del Buono. Si era messo un fazzoletto attorno al solino, e lo stesso, benché magro e tutto nervi, grondava di sudore.
«Caro Bastiano» lo interruppe Butòri «ci si cono­sce da un pezzo. Anche se sono stato fuorivia tanti anni, ti ho ritrovato quale ti avevo lasciato. Se tu fossi vescovo ti bacerei la scarpa... Non succederà mai, lo credo. Comunque, tu sai che a me, come al tempo de­gli anarchici[66] quando ero giovane, così ora che avete preso piede voialtri socialisti, la politica non mi ha mai commosso. Qui come in Germania me ne sono tenuto sempre lontano. In galera non ci sono mai an­dato e spero di chiudere gli occhi senza doverla as­saggiare. Ma se si parla di trovarsi d’accordo, io non vedo chi si possa tirare indietro! Non importa essere socialisti per capire che se noi ci si mette con le brac­cia conserte, i muri restano all’altezza in cui sono... Quindi, proponiamoci di resistere finché si può, sen­za far troppo i congiurati e mettere la mano sul fuo­co... Io sono del parere che, volendo, si patisce meno noi a saltare una minestra che uno di loro, specie Fia­schi e Madii, a rischiare un ritardo nelle consegne. D’altra parte, se si continua a lasciarsi mettere sotto i piedi, l’esperienza c’insegna che la minestra si salta lo stesso, e dopo la minestra, il lesso e il mezzolitro... E allora, sotto, finché ci si fa, poi di cosa nasce cosa.»
Del Buono si tolse e si ricollocò gli occhiali sul na­so. «Sei più socialista te di tutti noi, Butòri» gli disse. «Peccato ti trovi costaggiù[67], se no ti abbraccerei. Da uomini come te, bisognerebbe si venisse tutti a scuo­la .Questa è l’idea che deve dare il Sindacato...»
«E va bene» lo interruppe di nuovo il tedesco «ri­lasciami la licenza.»
E ancora, su e giù, sotto i faggi, in riva al torrente, si sorrise. Quindi» caparbio, monotono tutta luce ne­gli occhi e tutto sudore, Del Buono riprese:
«Dopodiché siamo proprio d’accordo? Tutti? Anche se lo sciopero dovesse durare più dell’anno passato?»
«Ora non ci mettere paura» intervenne il vecchio Lippi. «Paura cerchiamo di metterla agli impresali.»
Ma una voce sopraffece la sua, e si zittì, come am­bisse restare nel coro da cui proveniva, giù in basso, là dove il Terzolle era un rivolo appena e ci si riflet­teva il sole.
«Tre settimane vorrebbe dire la fame per davvero.»
Tutti guardarono in basso, e colui che aveva parla­to non riuscì a sottrarsi.
«Vieni avanti» disse Del Buono «bravo, rappresen­ta la tua opinione.»
(«Bixio, che coraggio che hai» sussurrò il ragazzo Renzoni.)
Era uno di quei giovani che stavano in ginocchio. Così restando, aggiunse, a più alta voce: «Dicevo...che se le cose si dovessero mettere come l’altr’anno, in coscienza, non lo so»
«Tu saresti?»
«Falorni Bixio, lavoro nel cantiere dei Massetani, alle Cure.»
«Sei di Vingone.»
Questo era Del Buono che l’interrogava.
«Sì, sono dì Vingone, e non ho nessuna voglia di tornare sulla terra. Mi sono dato un mestiere proprio per questo. Ho fatto il soldato e da pochi mesi sono passato mezzomuratore. Non mi trovo nelle condizioni dell’Aminta, sorto ancora giovanotto, e dai miei a Vingone, un piatto di fagioli non mi man­cherebbe, ma io non gli voglio chiedere nulla. Mio padre non è mai stato d’accordo che mi sia dato un mestiere. Perciò, vivo in casa, ma faccio da me. E voi, avete un bel dire, ma se dopo una o due settimane, Massetani non si piega, io non saprei proprio co­me rimediare. È bene dirla schietta.»
«Perfettamente» Del Buono convenne. «Anche se è un discorso storto, ci ha la sua parte di ragione.
Per ora basta che tu sia d’accordo d’incominciare e di poter resistere una o due settimane. Se si desse il ca­so peggiore, prima di fare il crumiro, se ne riparla. Mica potrai fare il crumiro da te solo.»
Il giovane assentì; e si buttò indietro col corpo, appoggiandosi sulle mani, e così piegato, come liberatosi di un peso che gli gravava sulla coscienza, guardò in alto il cielo. Vide uno stormo di passeri sollevarsi da un albero, dividersi, intrecciarsi, fuggi­re, e spontaneamente, sui labbri gli si disegnò un sorriso. Fu uno dei primi ad alzare il braccio, allor­ché si trattò di fare la conta generale, ed ogni brac­cio alzato era un sì e non c’era nessuno che non avesse il braccio alzato.
Confermato lo sciopero per l’indomani, si provvi­de a nominare un responsabile per ciascun cantie­re: colui che dandosi l’opportunità avrebbe parlato a nome di tutti col padrone. Tra gli altri, quelli del Cantiere Madii si fidavano di Giannotto, era natu­rale. Così, in testa a coloro che lavoravano da Fiaschi, ci sarebbe stato Corsiero che durante gli ulti­mi quindici anni, pur restando fedele alla sua passione per le carte e per i Tre Moschettieri, aveva cambiato una o due volte impresa. Loro di Badolati, infine, li avrebbe dovuti capeggiare Lippi, gli spettava di diritto, per i suoi capelli bianchi e per­ché non gli mancavano né gli argomenti né la lin­gua che li sapesse colorire. Ma, inaspettatamente: «Apprezzo la fiducia» egli disse. «È meglio che ci pensi Cipressino. Io mi conosco, a volte non mi so controllare.»
Metello cercò di sottrarsi a cotesta investitura, ma poteva sembrare, insistendo nel diniego, ch’egli avesse da opporre delle riserve sullo sciopero e pre­ferisse tacere.
«Va bene, accetto» disse, «Non vi voglio far fred­dare il desinare.»
Discesero la strada di Careggi che il sole picchiava dall’occaso, e la polvere della strada, sotto il sole, era bianca come calcina, a fissarla accecava. Metello da­va il braccio a Olindo; e Aminta, il Falorni e il ragaz­zo Renzoni (Renzoni piccolo, Renzoni Nipote come lo chiamavano) erano un terzetto che camminava solo. Forse proprio da essi, e via via di gruppo in gruppo divenne un coro, si alzò l’inno:

Noi vivremo del lavoro
o pugnando si morrà

Del Buono era in testa a tutti, con Metello, con Giannotto, con Lippi, che trotterellava per mantenere il passo, sotto il sole. Del Buono lo prese a braccetto e gli dette una spuntatura di toscano; gli occhiali gli brillavano per il riflesso del sole. Raggiunsero le pri­me case del Romito e Del Buono gridò:
«Ora zitti, ragazzi, se no si finisce prima d’inco­minciare.»
Un gruppo, con in mezzo il Tedesco che ansimava, si era seduto sul muricciolo e riprendeva fiato. Si sa­lutarono con la mano; e se le strinsero quelle mani, facendosi, l’uno con l’altro, gli auguri.
«A domani.»
«Speriamo bene.»
«Ormai ci siamo.»
«A domani.»
E fu, dall’indomani, e per l’epoca in cui avvenne, appunto il 1902[68], e per la sua durata e gli episodi che lo caratterizzarono, uno sciopero rimasto leg­gendario. Durò quarantasei giorni, e si risolse con la capitolazione degli imprenditori. Fu una grande vittoria, ma a che prezzo conquistata e in che termini sottoscritta? Fu comunque, una vittoria. E per la categoria dei muratori, e per Metello in specie, e per Ersilia.
Durante cotesto mese e mezzo, c’entrasse o no lo sciopero, avrebbe vacillato il loro amore.



[1] patrizi... garzoni: le classi contrapposte, rispettivamente nell’antico mondo romano, nell’età feudale e nell’età comunale.
[2] articolazione: strutturazione, divisione.
[3] ordini: classi.
[4] semplificato: in quanto gli «antagonisti» sono ormai soltanto due: borghesi e proletari.
[5] fonti di arricchimento: le principali fonti di formazione di capitali, il cui investimento favorirà il sorgere della rivoluzione industriale.
[6] classe... finanzieri: l’esistenza di mercanti e banchieri fu una delle altre componenti che con­sentirono la rivoluzione industriale.
[7] crescita... lavoro: è una terza componente, e consiste nella larga disponibilità (stock = quan­tità di merci immagazzinate) di beni da investire (= dei capitali) e di strumenti per il lavoro.
[8] natura... scambi: Indica alcuni caratteri che contraddistinguono la produzione industriale: gli investimenti in mezzi e macchinari per produrre, il lavoro salariato, la divisione del lavo­ro, lo sviluppo degli scambi commerciali.
[9] Tudor: dinastia di sovrani inglesi che regnò dal 1485 (Enrico VII) al 1603 (morte di Elisabetta I).
[10] arretramento... persone: a cominciare dall’età dei Tudor l’Inghilterra conobbe una radicale tra­sformazione della sua agricoltura caratterizzata da una progressiva riduzione della piccola proprietà a favore della grande riunita nelle mani di poche famiglie.
[11] «realisti»: i sostenitori di Carlo I Stuart deposto e giustiziato (1647) dalla rivoluzione puritana guidata da Oliviero Cromwell. I realisti erano nobili, cattolici e grandi proprietari terrieri.
[12] recinzione di feudi: le recinzioni delle grandi proprietà, le cosiddette enclosures, che ebbero il doppio effetto di razionalizzare l’agricoltura, aumentandone la produttività, e di privare i contadini poveri dei diritti di legnatico e di pascolo di cui prima beneficiavano, facendone una massa di di­soccupati e di miserabili.
[13] enclosures: v.n. 8.
[14] «rivoluzione agraria»: la radicale trasformazione dell’agricoltura cui concorsero le cause pri­ma accennate e che alla fine portò a una maggior disponibilità di mano d’opera e a una maggior di­sponibilità di capitali.
[15] «sorti progressive»: citazione da Leopardi (La ginestra), che ironizzava sulla fiducia nel pro­gresso ininterrotto dell’umanità.
[16] al secolo XIX: tutta la politica del secolo XIX, dopo il Congresso di Vienna, era stata segnata dalla preoccupazione di impedire che una delle potenze europee potesse prevalere sulle altre, come era accaduto per la Francia ai tempi di Napoleone.
[17] partiti proletari: i partiti socialisti, che avevano cercato di integrarsi nel sistema parlamentare.
[18] borghesia illuminata: la borghesia che aveva preso coscienza delle profonde ragioni che porta­vano avanti le masse e ritenevano se ne dovesse tener conto.
[19] religione ... grandezza: nella religione del primato conquistato anche con la violenza.
[20] queste tendenze: le tendenze irrazionalistiche che l’Autore ha illustrato e che trovano le loro manifestazioni più rilevanti nel futurismo e nel D’Annunzio.
[21] freni logici: il freno costituito dalla ragione.
[22] Libia: 1911-1913.
[23] questi discorsi: ai discorsi che gli intellettuali come D’Annunzio andavano facendo circa una politica nazionale di potenza.
[24] nazionalismo: partito che si costituì ufficialmente nel 1910 (anno di nascita della Associazione nazionalista italiana), ma che era stato precorso da intellettuali raccolti intorno a riviste di destra. Fu un movimento antiliberale e antisocialista, sostenitore di uno stato forte, capace di mantenere l’ordine, la gerarchia, e in grado di svolgere una politica espansionistica di grande potenza.
[25] élites: minoranze con funzione di guida.
[26] tuttavia: nonostante gli aspetti negativi che l’Autore ha prima illustrato, sottolineando in parti­colare l’atteggiamento autoritario e antipopolare che caratterizzò l’opera dei governi di fine secolo.
[27] «fin de siede»: fine del secolo XIX.
[28] «belle époque»: epoca felice; denominazione entrata nell’uso per designare gli anni che vanno dalla fine del secolo XIX allo scoppio della prima guerra mondiale.
[29] scientismo: atteggiamento caratterizzato dalla più completa fiducia nella scienza e dalla fede in un immancabile e irreversibile progresso.
[30] positivismo: la scuola filosofica che proponeva il metodo delle scienze sperimentali come unico metodo di conoscenza; sul piano etico la caratterizzava un accentuato filantropismo che faceva dell’umanità l’unica divinità che meritasse il culto dell’uomo.
[31] Vittoria: la sovrana della Gran Bretagna e del suo impero.
[32] Boeri: coloni olandesi e in parte tedeschi stanziatisi nel Sud Africa dove avevano fondato due repubbliche indipendenti (del Transvaal e dell’Orange). L’Inghilterra li assoggettò con una durissima e feroce guerra durata dal 1899 al 1902.
[33] Affare Dreyfus: Alfredo Dreyfus fu un ufficiale francese ebreo accusato ingiustamente di spio­naggio a favore della Germania, e condannato alla deportazione in Guyana. In realtà Dreyfus fu da una parte il capro espiatorio di coloro che volevano difendere la condizione di privilegio dell’eserci­to, e dall’altra fu una bandiera per i progressisti che intendevano mettere sotto accusa la classe diri­gente.
[34] i principi del 1789: i principi democratici e progressisti della rivoluzione francese.
[35] Bava Beccaris: il generale che soffocò i tumulti di Milano, provocati dal rincaro del pane e presentati all’opinione pubblica dall’impaurita classe dirigente come una concertata rivolta per abbattere lo Stato.
[36] «ritorno allo Statuto»: parola d’ordine della destra per favorire l’affermarsi di uno stato auto­ritario nel quale la funzione del Parlamento fosse sminuita nei confronti del governo (= l’esecuti­vo).
[37] esorcizzare la «questione sociale»: scacciare dal corpo sociale, quasi fosse un demonio, uno spirito maligno, la «questione sociale», cioè l’insieme dei problemi relativi ai rapporti fra le classi e in particolare tra capitale e lavoro.
[38] sconfitta di Adua: nel 1896, da parte di Menelik, imperatore di Etiopia.
[39] il Kaiser: Guglielmo II, imperatore di Germania.
[40] La folla - Se dunque l’ipotesi del realismo di cui parla un libro di Ghidetti è il retroterra comune degli ultimi trent’anni dell’Ottocento, la discussione sui colori del vero e sulla patologia del reale rimane aperta e Valera vi partecipa coniugando insieme il metodo dell’indagine sociologica e l’antiletteratura, lo stile dell’intellettuale refrattario e il genere della letteratura dei bassifondi con piglio davvero sperimentale.
Ma l’idea più politica di una prospettiva di un vero e proprio Palazzo dei lavoratori, sul modello delle case popolari, deriva dal lungo periodo di fuga ed esilio in Inghilterra - i dieci anni che vanno dal 1894 al 1894. E del resto è assai probabile che la stesura fondamentale di un libro come La folla risalga al periodo inglese, quanto meno per una ragione. Un decennio è un lasso di tempo ben vasto e consente a una scrittura, giornalistica e immediatistica come quella di Valera, di ripulirsi e di arricchirsi senza la fretta della pubblicazione immediata. In più Valera è reduce a fine secolo dal libro di inchiesta sulle sanguinose giornate della repressione milanese, ma ne La folla non c’è traccia del radicalismo politico e sociale del 1898, semmai è operante come modello politico un misto di mutualismo associativo e di riformismo all’inglese.
Ma questa volta l’opera ha l’ampiezza e il respiro del romanzo, anche se esso si sviluppa senza una vera e propria trama. Per meglio dire la parvenza di una trama esiste ed è data dai due protagonisti, Giorgio Introzzi e Annunciata, la 49 - così chiamata per il numero dell’appartamento in cui vive in affitto. Del re­sto tutti i personaggi son chiamati col numero del loro ap­partamento, a conferma di un primato sociale della folla e del milieau che rende irrilevante il soggetto e lo fa esistere solo in quanto numero dell’insieme. Il terzo personaggio è Giuliano Altieri, che emerge dalla folla perché è il proleta­rio che studia e cerca il suo riscatto.
All’inizio del romanzo Giorgio Introzzi eredita dal padre il Casone del Terraggio e comincia a far visita agli affittuari, invaghendosi appunto della bella Annunciata e decidendo infine di sposarla, fino a quando la donna non farà un figlio col Giuliano Altieri.
Annunciata è descritta inizialmente come una ragazza di grande sensualità e con una enorme gioia di vivere. Se la sensualità domina il suo corpo, il suo fiero bisogno di indipendenza è il suo vero tratto distintivo. "Fu di molti senza mai essere di alcuno", dice Valera,  tratteggiando con la sua figura un tipo di donna che riesce a sottrarsi al mondo della prostituzione e non sa che farsene del mondo delle grandi dame e delle mantenute di lusso. Già la presenza di una simile figura di donna collega Valera all’universo femminile zoliano. Fanno da sfondo alla spontanea vitalità di Annunciata le tante donne del Casone, per lo più mogli e madri abbrutite dalla eccessiva maternità o costrette a reggere le miserie di un marito alcolizzato, ma anche contesse decadute, vedove, signore malate e in fin di vita. Le storie di vita sono spesso al limite, come nel caso di Agata, che ha partorito undici figli in otto anni e per mantenerli va in giro la notte tra gli alberi di Sant’Ambrogio a masturbare i clienti di passaggio. O l’in­quieta Adalgisa, che prova prima a fare la gran dama e la mantenuta, ma poi preferisce tornare alla vita del Casone rimanendo una disadattata.
Le pagine corali di vita, mescolano la lezione verghiana e il ricorso al lin­guaggio truculento, la parolaccia popolare, la psicologia delle scene di gruppo al gusto per il pezzo di colore.
[41] Paolo Valera - Paolo Valera nacque a Como il 18 gennaio 1850: suo padre era venditore di zolfanelli e sua madre cucitrice. Partecipò da giovanissimo alla campagna del Trentino del 1866 con i volontari garibaldini. Successivamente si dedicò al giornalismo; scrisse su La farfalla fondò e diresse periodici tra cui La plebe e La folla, attraverso i quali si rivelò come uno dei più battaglieri e vivaci rappresentanti di quella scapigliatura democratica che egli cercò di condurre in politica su posizioni estremiste, ispirate alle idee della Comune parigina, di cui fu un appassionato apologista, e in letteratura alla più radicale interpretazione del naturalismo come denuncia sociale attraverso la rappresentazione violenta e colorita delle classi sociali più umili e oppresse. Ebbe numerosi processi per diffamazione, e in seguito a uno di questi, condannato a tre anni di reclusione, fu costretto a vivere in esilio a Londra per quasi un decennio (1888-1898).
Nel 1898 Valera ritornò in Italia e fu arrestato durante la repressione antipopolare di Bava Beccaris del maggio 1898 e tenuto in prigione sotto l’accusa di aver sobillato il popolo.
Assolto al processo, nel diverso clima politico dell’Italia giolittiana, visse ritirato dedicandosi a opere di storia e alle proprie memorie.
Il suo ultimo scritto, Mussolini, redatto a caldo dopo il delitto Matteotti, fu fatto oggetto di provvedimento di sequestro da parte del gerarca Giampaoli e provocò l’espulsione di Valera dal partito socialista.
Il 1 maggio 1926 Valera muore povero a Milano.
[42] Casone - L’idea di ambientare il suo romanzo in un Casone, quello del Terraggio di Porta Magenta, recupera in parte alcuni aspetti autobiografici rievocati da Valera stesso vent’anni prima, quando lavorava da facchino e aveva preso in affitto un canile proprio in quel Terraggio.
La vita del Casone è brulicante come quella di un formicaio ma non è il rapporto col lavoro al primo posto, è la miseria della fame e della sopravvivenza, la condizione di una vita a rischio in cui il declassamento, la caduta nella criminalità o nella prostituzione sono i fantasmi sempre presenti. Nessuna "civiltà del lavoro" con la sua etica vi compare, se non tramite gli studi di Giuliano Altieri, l’autodidatta che leg­ge autori difficili come Guerrazzi e osa perfino chiedere per strada al prete se "si dice tabernacolo o cappella".
Gli affìttuari del Casone sono straccivendoli e osti, fruttiven­doli, commesse di sartoria, ex detenuti. Tutti i protagonisti e i loro numeri sono esponenti quasi anonimi della folla, che agiscono come un coro e irrompono nella loro ritualità delle occasioni festive, del sabato sera che è un po’ come la Fiera, dei bagordi per Natale, del lavaggio di biancheria, delle risse improvvise, delle morti: la folla che si agita e implora negli ospedali quando  va a visitare i pa­renti, la folla che grida e si agita inconsulta nel suo pellegrinare verso la Madonna di Caravaggio.
[43] Concupiscenza - La brama di possesso e la debolezza intrinseca della natura umana che porta l’uomo a commettere il peccato, di qualunque natura esso sia. Essa non è considerato un peccato quanto un’inclinazione verso il male, ed è considerata uno dei segni del peccato originale.
[44] Metello - Nel 1955 Pratolini pubblica Metello. L’opera è ambientata nella Firenze di fine secolo, al tempo delle prime lotte operaie. È la storia di un giovane contadino inurbato, che prende parte attiva alle agitazioni sindacali, pur dedicandosi, contemporaneamente, ad appassionate esperienze amorose. Il romanzo dà luogo a un clamoroso caso letterario: alcuni vedono in esso la fase di sviluppo dal neorealismo al realismo, altri invece lo riconducono a una matrice decadentistica. Metello rappresenta il periodo che va dal 1875 al 1902 attraverso le proprie vicende, cioè di Metello Salani, figlio di un anarchico, il quale rimasto orfano, appena quindicenne è a Firenze e trova lavoro come manovale. Il narratore lo concepisce come eroe positivo. Metello attraverso le esperienze di lavoro acquista consapevolezza politica e si impegna attivamente nelle lotte operaie, nel 1898 è in carcere per aver partecipato a una manifestazione di protesta. Il romanzo culmina con la descrizione del lungo sciopero dei muratori del 1902, in occasione del quale il protagonista viene di nuovo arrestato. Alla progressiva consapevolezza politica del protagonista: il narratore unisce l’educazione sentimentale l’amore per Ersilia, figlia di un anarchico morto per un incidente sul lavoro, il matrimonio nel 1900, uno sbandamento per una banale avventura proprio durante lo sciopero del 1902, il riconquistato equilibrio familiare.
[45] Vasco Pratolini - L’infanzia e la giovinezza di Vasco Pratolini, nato a Firenze nel 1918, sono state particolarmente dure e travagliate e la sua formazione è stata alquanto diversa da quella tradizionale del letterato italiano. Orfano di madre a cinque anni, vive coi nonni, modestamente, prima in via de’ Magazzini poi in via del Corno (che descriverà nei suoi romanzi), fa studi irregolari e vari mestieri fino a diciotto anni: lasciato poi il lavoro si impegna in un intenso studio da autodidatta, ma negli anni fra il 1935 e il 1936, ammalatosi di tubercolosi, viene ricoverato in sanatorio.
Tornato definitivamente nel 1951 a Roma, pubblica nel 1955 Metello, primo testo della trilogia Una storia italiana, proseguita con Lo scialo (1960, ma rielaborato notevolmente in una nuova edizione del 1976) e con Allegoria e derisione (1966): si tratta di «un grande affresco storico intriso di interessi ideologici, sociali, e morali: dalla lotta per il riscatto sociale del mondo operaio, in Metello, attraverso il quadro della società borghese durante il fascismo con Lo scialo, fino alla crisi delle ideologie nel dopoguerra consegnata alle pagine inquiete di Allegoria e derisione» (G. Luti).
La pubblicazione nel 1981 de II mannello di Natascia - testimonianze e notazioni risalenti agli anni Trenta - ha interrotto il lungo silenzio seguito alla pubblicazione della trilogia. Pratolini è morto a Roma nel gennaio del 1991.
[46] Del Buono – direttore della Camera del Lavoro. Fu l’organizzatore dello sciopero del 1902 per l’impresa dell’ingegner Badolati.
[47] Crumiro - Crumiro è il termine con cui oggi si indica - con accezione tendenzialmente negativa - un lavoratore che non aderisce allo sciopero e continua la sua attività sostituendosi agli scioperanti.
Il termine Krumiri (e successivamente, senza più maiuscola né K iniziale, crumiri) entrò massicciamente nel lessico sindacale italiano nei primi mesi del 1901. In precedenza è stata rilevata qualche attestazione dell’uso di Krumiri per designare i lavoratori non specializzati utilizzati nelle tipografie durante gli scioperi (Avanti, 28 febbraio 1900), ma si trattava di un’espressione limitata al gergo tipografico.
In Italia questo termine (all’epoca diffuso soprattutto in Francia) venne, di fatto, introdotto in occasione di un grande sciopero dei lavoratori del porto di Marsiglia (in grande maggioranza italiani) proclamato il 28 febbraio 1901 e continuato fino all’8 aprile. Nel corso dello sciopero si ventilò la possibilità di sostituire gli scioperanti con "Arabi", e probabilmente qui nacque l’uso (non politicamente corretto) di identificare con i Krumiri i non scioperanti. Il termine è impiegato per la prima volta nello scritto sul quotidiano socialista Avanti! del 31 marzo 1901, e intende esprimere disprezzo per un gruppo di lavoratori italiani che furono ingaggiati per sostituire gli scioperanti.
Per qualche tempo dopo quella data il termine cominciò ad essere impiegato in un’accezione generica di sottoproletari non sindacalizzati e disposti a qualunque compromesso (Francesco Papafava, Giornale degli economisti maggio 1901). A consacrare il senso attuale di "sabotatore dello sciopero" fu poi, in giugno, uno sciopero dei carbonai a Genova, in occasione del quale fu formalmente costituito un sindacato giallo, (Lega cattolica di lavoro, 12 giugno 1901) con lo scopo di fornire lavoratori durante gli scioperi. In tale occasione il termine krumiro fu utilizzato in modo così massiccio che in breve divenne il termine tecnico per designare i non scioperanti.
[48] Impruneta - Impruneta è un comune della provincia di Firenze celebre soprattutto per l’industria della terracotta, per la tradizionale Fiera di S. Luca che si svolge ogni anno alla metà di ottobre.
[49] Lippi – uno degli operai approfondire il pers analizzandolo
[50] Ilaritàallegria.
[51] Ponte a Ema – località del Val d’Arno vicino Firenze
[52] Metello - Metello Salani, rimasto orfano ancora in fasce, viene allevato da una famiglia di contadini dai quali il padre lo aveva messo a balia.
Ancora giovanissimo si trasferisce a Firenze dalla campagna in cerca di lavoro. Non appena gli mettono la prima cassa sulle spalle, egli s’impegna per procurarsi in pane.
Affronta volenterosamente la dura realtà dei lavoratori a giornata la mercato. Riconosciuto dai vecchi amici del padre, un anarchico di nome Caco morto affogato nell’Arno mentre lavorava come renaiolo, viene ospitato da Betto, un altro vecchio anarchico, istruito e stimato, ma troppo dedito al vino. Quando Betto scompare, Metello ormai diciottenne va a chiedere notizie alla polizia, ma viene arrestato e in guardina incontra il socialista Chellini e riesce a chiarirsi la differenza fra la concezione anarchica della lotta di classe e quella socialista che va organizzandosi in partito e in sindacato. L’unica scuola di Metello gli viene offerta dalle difficoltà della vita che deve affrontare e dai contatti con i compagni di lavoro. In un primo tempo egli lavora come manovale in un cantiere poi come muratore prende coscienza della propria condizione di operaio sfruttato nell’impresa dell’ing. Badolati.
Egli frequenta la camera del lavoro di Firenze, ma non rinuncia a dedicare parte del tempo libero a caccia di ragazze, finche incontra Viola, una vedova esuberante con la quale acquista anche esperienza e padronanza dei propri sentimenti. L’esperienza sentimentale e amorosa con la vedova maestra è interrotta dal servizio militare. Al ritorno a Firenze, Metallo è riassunto nei cantieri Badolati, dove la tensione sociale è grande. Un giorno un’impalcatura non regge e l’anarchico Quinto Pallesi si schianta al suolo facendo appena in tempo a raccomandare ai compagni la famiglia. Ai funerali Metallo conosce la figlia di Pallesi, Ersilia. In seguito ai tumulti popolari del maggio 1898 è catturato con altri dalla polizia e imprigionato alle Murate. La sera le donne gridano i loro saluti ai prigionieri ed Ersilia grida il suo a Metallo. Per lettera i due si confidano il loro amore e quando nel 1900 Metello ritorna libero si sposano.
Metallo ed Ersilia abitano in Santa Croce e hanno un figlio. Metallo, che ha ripreso il lavoro all’impresa Badolati, diventa uno dei compagni più stimati della camera del lavoro e quando viene proclamato uno sciopero ad oltranza è nominato responsabile del suo cantiere. Metallo ha giurato ai suoi compagni di non cedere per nessuna ragione.  Viene distratto per un po’ da una relazione amorosa con la bella Idina, ma anche grazie all’intelligente condotta della moglie, riprende ben presto la piena consapevolezza del proprio dovere e sostiene fino in fondo lo sciopero comportandosi con fierezze e dignità. La polizia arresta tutti i dirigenti sindacali e i responsabili del picchettaggio. Ersilia affronta duri sacrifici ma lo attende fedelmente, portando in grembo un’altra creatura. Uscendo di prigione stanco, disfatto ma non domo, Metallo la trova ad attenderlo “col bambino in braccio e i capelli ben pettinati, uno scialle rosa sulle spalle”.
Le sue caratteristiche principali, e vincenti sono l’umiltà e la riflessività: egli è sempre attento ad imparare da ogni situazione.
[53] Avanti … soldato – prima del sevizio di leva. L’espressione è un toscanismo
[54] pie­vano - Toscanismo per piovano. La Pieve era una chiesa rurale inserita in una circoscrizione ecclesiastica minore, da cui dipendevano altre chiese e cappelle, che successivamente è stata sostituita dalla parrocchia.
[55] Figlie di Maria – Congregazione laica di fanciulle e donne che collaboravano al mantenimento di una chiesa.
[56] Murate - Le Murate prima convento poi complesso carcerario di Firenze è situato nel quartiere di Santa Croce.
[57] Bacchiai – percossi, battere con il bacchio i rami di un albero per farne cadere i frutti.
[58] Ferma - periodo di tempo durante il quale un militare presta servizio obbligatorio, se di leva, o volontario, se di carriera
[59] mangiare asciutto - pane
[60] Opra – lavoro. Altro toscanismo
[61] Soprassoldo – aumento del salario
[62] Olindo – fratello di latte di Metello. Dopo aver trascorso l’infanzia nella fattoria a Rincine con Metello, si trasferì con il padre e la famiglia in Belgio, a lavorare in una miniera. In miniera gli morirono il padre e i fratelli. Non cambiò mai nazionalità. Si sposò ed ebbe quattro figli. Durante uno scoppio di gas in miniera, svenne per il gas rovinato e si rovinò i polmoni. Ricevette la liquidazione ma quando i soldi finirono, per necessità ritornò a Rincine. Nella fattoria la zia li accettò solo per farli lavorare. Andò a cercare l’aiuto di Metello e quest’ultimo lo fece assumere come manovale nel cantiere. Partecipò al grande sciopero ma dopo poco ritorno a lavorare. Per questo fu considerato crumino.
[63] Allemagna – nome tedesco della germania
[64] Albina - affetto da albinismo, ossia assenza di pigmentazione nella pelle, nei capelli e nell’iride
[65] Paonazzo- che ha un colorito acceso tendente al rosso porpora, per un difetto di circolazione, per il freddo o, anche, per la collera o la vergogna
[66] Anarchismo italiano in età Crispina - Nella storia dell’anarchismo italiano, il periodo compreso tra il 1892 e il 1900, fu caratterizzato dal consolidarsi dell’estesa tendenza socialista e anarchica.
Lo sviluppo di tale tendenza fu ostacolato dall’affermarsi del socialismo legalitario e dal terrorismo anarchico.
Il moltiplicarsi degli atti di violenza e di terrorismo politico, spinse vasti strati di lavoratori a organizzarsi in una forma moderna di organizzazione partitica; però la crisi che investì il movimento anarchico non dipendeva esclusivamente dal diffondersi di quelle forme anomale di propaganda del fatto ma anche dalla dura repressione governativa.
Fin dal 1892 si era abbattuta sui socialisti anarchici un’ondata di arresti, di sequestri di stampa e una serie di prevaricazioni che travagliarono il movimento anarchico.
In Italia, in quegli anni si tendeva del resto a negare agli anarchici una qualificazione politica. Nuoceva poi al movimento anarchico il troppo spazio conquistatovi dalle tendenze individualistiche e terroristiche che avevano gradualmente determinato la scissione degli elementi moderati preoccupati delle reazioni negative dell’opinione pubblica. La borghesia italiana, sobillata da una stampa governativa, guardava con crescente apprensione allo spettro della sovversione anarchica e reclamava severi provvedimenti.
Alla fine del 1893, con il ritorno di Crispi al governo, la repressione si fece più dura. Il periodo crispino, contraddistinto da una generale svolta in senso autoritario e in particolare dalla volontà di rafforzare il potere esecutivo a scapito di quello legislativo, segnò il più rilevante tentativo di istituzionalizzare e di legalizzare questi metodi. Tipico di tale indirizzo, fu l’ampliamento delle facoltà prefettizie e l’emanazione di nuove leggi di pubblica sicurezza, grazie alle quali il non indifferente potere discrezionale della polizia, risultava notevolmente allargato.
Crispi potè ritornare al potere grazie al fatto che Giolitti fu travolto dallo scandalo della Banca Romana, provocato da un’eccessiva espansione del credito nel campo dell’edilizia e dalle pressioni esercitate da molti esponenti della finanza su alcune nomine politiche.
Nello stesso tempo scoppiarono i moti in Sicilia e nella Lunigiana : i disordini in Sicilia si verificarono sotto la spinta dei Fasci dei Lavoratori, organizzazione contadina e operaia sorta in conseguenza della terribile miseria provocata dalla folle politica doganale che aveva danneggiato gravemente l’esportazione della frutta e dei vini meridionali; nella Lunigiana, invece centinaia di anarchici, in massima parte lavoratori alle cave di marmo, insorsero in segno di protesta, con un indirizzo spiccatamente libertario.
Crispi si dimostrò completamente incapace di comprendere le ragioni di fondo delle agitazioni rurali e operaie; legato ad una concezione strettamente giuridica della proprietà, non avvertiva la complessità del problema sociale e della miseria meridionale. Pertanto, si ritenne in dovere di reprimere le agitazioni con la forza. Inoltre, l’attentato compiuto il 9 dicembre 1893 da August Vaillant, turbò il movimento anarchico internazionale, lanciando alla Camera dei Deputati francese una bomba. L’indomani il ministro degli Interni Giolitti inviò ai prefetti un telegramma con il quale li invitò ad aumentare la sorveglianza sugli anarchici, inasprendo la persecuzione e prendendo provvedimenti sempre più duri contro di loro.
In Italia, la sorveglianza sugli anarchici aumentò e fu sequestrata la loro stampa, accusata di incitare alla disobbedienza delle leggi, all’odio tra le varie classi sociali e al vilipendio delle istituzioni dello Stato. Nonostante ciò il movimento non si intimorì anzi rinvigorì la propria attività al fine di estendere in tutta Italia i moti scoppiati in Sicilia e nella Lunigiana.
Il 30 gennaio 1894 a Napoli fu arrestato l’anarchico Merlino, colpito da mandato di cattura per la condanna subita nel 1884 dal Tribunale di Roma. Tale arresto suscitò tra gli anarchici italiani e residenti all’estero vivaci proteste.
Il 5 febbraio 1894 fu ghigliottinato Vaillant e vennero arrestati una trentina di anarchici. Questi atti ebbero ripercussioni in Italia, dove l’8 marzo esplose un ordigno davanti Montecitorio. In quell’occasione rimasero ferite otto persone, due delle quali successivamente decedute.
La bomba a Roma, l’astio di Crispi e della Corte, aggravarono la situazione degli anarchici, rendendo la repressione ancora più dura.
In questi anni si svolsero due importanti processi a carico dei “sovversivi più pericolosi per l’ordine pubblico”, che si conclusero con delle condanne: uno si tenne a Genova e fu detto “il processone”, l’altro a Palermo contro Montalto, Verro, Basco e Giulì. I numerosi processi intentati in questo periodo contro gli anarchici permettevano agli avvocati difensori, il più delle volte militanti essi stessi del movimento anarchico, di denunciare sistematicamente troppo “sbrigative” procedure.
Le persecuzioni delle autorità governative si fecero sempre più impudenti e gli arresti più numerosi e frequenti.
In risposta, il 16 giugno, a Roma, l’anarchico Paolo Sega sparò un colpo di pistola contro Crispi mentre transitava in carrozza. Comunque Crispi uscì indenne dall’attentato, ma il Sega fu arrestato, processato e condannato a venti anni di carcere. Fecero riscontro, in quel periodo, opuscoli, libri e libelli stilati per lo più da indignati benpensanti, desiderosi di vedere estirpata dal paese quella mala pianta. Conseguentemente, si scatenò una repressione poliziesca di impensata violenza e vastità, che diede un colpo quasi mortale al movimento.
Il 18 luglio 1894 furono approvate dal Parlamento tre leggi di carattere eccezionale per la repressione delle attività eversive, che prevedevano pene severe per tutti i reati tentati o compiuti con esplosivi, furono vietate le associazioni che si proponevano di sovvertire gli ordinamenti sociali e fu esteso il domicilio coatto, di cui gli anarchici caddero vittime : iniziò, così, la peregrinazione dei “sovversivi” all’estero. Le leggi furono approvate dal Parlamento sotto l’incubo delle azioni anarchiche, susseguentisi a ritmo crescente nell’Europa di fine secolo e in Italia. Esse servirono a Crispi per operare centinaia di arresti tra socialisti e repubblicani, per sciogliere circa duecento associazioni e circoli e per sopprimere molti giornali.
Crispi affermò, in seguito, che l’introduzione delle leggi e l’inasprimento delle pene non era arbitrario bensì una necessità perché il pericolo sociale è incontestabile ed urgente. Lo scopo di dare un colpo mortale a tutto il movimento operaio  coinvolgendolo nella repressione, era più che lampante.
Nel corso del ‘95 il domicilio coatto rappresentò la misura cardine dell’opera repressiva del governo. Infatti, si presentò il problema di reperire località da adibire a colonie, poiché quelle esistenti erano fin troppo affollate. Tali colonie erano spesso delle vere e proprie carceri fornite di celle sotterranee in cui venivano rinchiusi i più turbolenti. Le condizioni a cui erano sottoposti i domiciliati coatti erano disumane e misere ; infatti alcuni sconfessando le loro idee chiedevano la libertà condizionata, altri tentavano la fuga. Da giugno a luglio del 1895, si ebbe un susseguirsi di proteste, rivolte da parte dei coatti nelle colonie di Favignana, Lampedusa, Ustica e delle Tremiti.
Con le azioni persecutorie, gli arresti e le deportazioni, Crispi riuscì a cancellare, ma per poco tempo, ogni traccia concreta in Italia di presenza anarchica. La centrale anarchica si trasferì all’estero, dove la vita del movimento era più che mai viva. Il centro più attivo era Londra, dove il gruppo  dei   fuoriusciti  anarchici era animato da Malatesta che promosse, nel settembre del ‘95, un’associazione segreta denominata Alleanza socialista rivoluzionaria. Essa si proponeva di concorrere a mezzo dello sciopero generale o dell’insurrezione armata, al rovesciamento delle istituzioni borghesi. In Italia, il movimento riuscì a prendere fiato solo con il ritorno di Malatesta e la nascita del giornale “L’Agitazione”.
[67] Costaggiù - laggiù, toscanismo
[68] Il 1902: L’anno si apre con alcune manifestazioni dei ferrovieri che minacciano scioperi se non saranno soddisfatte le loro rivendicazioni salariali. Seguono a febbraio gli scioperi degli addetti al gas di Torino e a marzo quello dei braccianti e mezzadri nel Mantovano, Ferrarese, Vercellese, Polesine. Eventi che mettono in crisi in Governo dove ZANARDELLI minaccia le dimissioni. Il re rifiuta le dimissioni di Zanardelli. Per iniziativa di GIOLITTI, lo Stato si assume parte dell’onere finanziario previsto per i miglioramenti economici concessi ai ferrovieri. Segue un accordo fra i socialisti di TURATI e lo stesso Governo che quindi riapre le trattative con gli scioperanti.
Turati, infatti, teme che il governo appoggi ora la controffensiva dei padroni che minacciano in questo clima di fare le serrate.
TURATI poi il 6 settembre al congresso dello PSI, più coerente preferisce parlare di una lotta contro lo Stato con progetti riformistici, piuttosto che progetti rivoluzionari contro il capitalismo che invece vuole LABRIOLA.
Quest’ultimo dopo lo scontro, a dicembre a Milano fonda con MOCCHI "L’Avanguardia socialista, organo della sua corrente intransigente socialista rivoluzionaria contro il capitalismo GIOLITTI usa il pugno di ferro su chi vuole scioperare e creare difficoltà al governo. Di fronte ai ferrovieri che vogliono paralizzare il Paese, minaccia di militarizzare la categoria e fa pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale le severe sanzioni del Codice Penale previste per tutti i dipendenti pubblici che abbandonano il loro posto di lavoro.
GENNAIO -   Una legge sul sistema tributario, presentata dal ministro delle finanze P. Carcano, abolisce la quota del dazio sui farinacei dovuta allo Stato e prevede un contributo statale da concedere ai comuni. La legge aumenta nel contempo la tassa di circolazione sui titoli industriali e la tassa di successione, che viene riveduta con l’imposizione di un’aliquota cautamente progressiva. Con questo provvedimento viene messo da parte l’innovativo progetto di riforma tributaria presentato nel marzo 1901 dal ministro delle  finanze L. Wollemborg.
19 GIUGNO -   La Camera approva la legge per la protezione del lavoro femminile e minorile.   Si vota la legge sul lavoro minorile che eleva l’età a 12 anni, a 15 quelli impiegati in lavori notturni e pesanti, e fissa ad un massimo di 12 ore lavorative il lavoro delle donne nelle fabbriche. Ma se tali disposizioni sono osservate dalle grandi fabbriche, nell’artigianato e nelle campagne nulla cambia. I bambini impiegati sono anche di 6 anni e le donne lavorano in media 14-15 ore il giorno.
9 NOVEMBRE. Sonnino espone un progetto legislativo a favore del Mezzogiorno. Egli presenta un piano organico di riforme teso a favorire da un lato i proprietari meridionali, con la riduzione dell’imposta fondiaria, e dall’altro i contadini, con una vantaggiosa riforma dei contratti agrari. L’economista L. Einaudi pubblica un articolo in cui critica i "regali alle classi proprietarie" previsti dal disegno legislativo di Sonnino per il Mezzogiorno e dichiara la sua fiducia nella scelta liberalista, sottolineando la necessità di eliminare il protezionismo granario.
SALVEMINI è duro sull’"Avanti" contro la riforma agraria che vuole fare SONNINO per aiutare il Mezzogiorno, cioè di ridurre l’imposta fondiaria ai latifondisti meridionali. La definisce un regalo ai proprietari per consolidare ancora di più le loro proprietà. Mentre  lui invoca un opera riformatrice che dovrebbe espropriare i latifondi e quindi distribuire le terre ai contadini. Gli si aggiunge un bravo giovane economista LUIGI EINAUDI che dalla "Tribuna" critica la legge come un "regalo alle classi proprietarie", e anche lui auspica, con scelte governative liberiste, la fine del protezionismo granario nel sud che penalizza di riflesso tutta l’intera economia meridionale, impedendo alternative. TRE SONO LE CORRENTI DI PENSIERO per la "questione meridionale" in fermento e che va diventando (fra ribellioni, morti e feriti fra i dimostranti e la polizia) sempre di più un problema di carattere nazionale:
a) Il governo Giolitti (con SONNINO) tende a favorire i potenti ceti agrari a danno delle masse contadine. La sua utopistica idea è che i latifondisti pagando meno tasse incentiveranno le culture.
b) Per porre rimedi al divario Nord e Sud NITTI invece propone l’industrializzazione del Mezzogiorno, aiutare il commercio marittimo, incentivare il turismo.
c) SALVEMINI invece, mettendo l’accento sulla vocazione agraria del meridione, propone la distribuzione delle terre ai liberi contadini che vogliono autonomamente lavorarla. A tal fine propone di estendere il suffragio universale ai meridionali per modificare gli equilibri politici a loro favore. (Salvemini subirà poi un profondo mutamento)

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