Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

venerdì 29 aprile 2011

La Resistenza: fra mito e smitizzazione di Massimo Capuozzo

La Resistenza: fra mito e smitizzazione
Al di là del mito resistenziale, non tutto nella resistenza è stato eroico: in tal senso è opportuno, onde evitare ritratti oleografici, riportare tre passi di due lucide coscienze della letteratura del neorealismo, Elio Vittoriani e Cesare Pavese ed uno del giovane Italo Calvino.

Elio Vittorini[1]
L’attentato
da Uomini e no[2]
·         Milano, inverno 1944. La Resistenza a Milano ha un suo clas­sico nella nostra narrativa: il romanzo-documento di Elio Vittorini, ‘Uomini e no’. Da esso è tratto questo brano nel quale viene descritto l’attentato contro il presidente del Tribunale speciale e i suoi collaboratori tedeschi.
·         L’azione si svolge rapida, senza in­dugi descrittivi: gli attentatori agiscono con gesti tanto precisi che sembrano cronome­trati e che rivelano una preparazione lunga e minuziosa e subito dopo si mimetizzano nella folla che li avvolge e li copre. Una folla nella quale l’esasperazione e l’odio con­tro i sopraffattori è più forte del pur acuto terrore per le immancabili rappresaglie la cui violenza e ferocia balena sullo sfondo, nell’immagine evocata del capo fascista chiamato emblematicamente Cane Nero.

Corse fino alle dodici meno un quarto, avanti e indietro[3] per gli alti viali dei bastioni, tra Porta Nuova e Porta Venezia; e alle dodici meno un quarto si fermò davanti a un’edicola.
Una signora[4] che comprava il giornale gli si avvicinò.
«Che faccia scura!» gli disse.
« Sì? » Enne 2 rispose.
Essa aprì la borsetta, ed egli ne ritirò una rivoltella che fece sparire nella ta­sca del soprabito.«In gamba,» egli le disse.
«In gamba,» gli disse lei.
XIV. — Tre uomini in tuta grigia, con borsa da lattonieri a tracolla[5], lo aspettavano poco più in là, le biciclette contro il marciapiede, dietro un grande palazzo.
«Ehi!» egli li salutò.
I tre erano giovani e lieti: con occhi che ridevano[6].
«Allora?»
«Ve l’ho mostrato ieri. Escono a mezzogiorno...»
«Mancano tre minuti. »
«Voi passate con le biciclette, lasciate che salgano sulla macchina.»
«E appena saliti diamo dentro?»
«Appena la macchina si mette in moto.»
«Ma tu, capitano? »
«Ve l’ho detto. Resto dietro.»[7]
I tre ragazzi si guardarono.
«Mica è indispensabile.»
«Andiamo.» Disse Enne 2. «È mezzogiorno.»
I tre montarono in bicicletta.
« In gamba. »
« In gamba. »
Si allontanarono, e l’uomo Enne 2[8], portando per mano la bicicletta, passò davanti alla facciata del palazzo, tra una nera macchina ferma e una breve gra­dinata in cima alla quale montava la guardia un biondo ragazzo tedesco delle S.S.[9], in uniforme anch’essa bionda. Il sole dell’inverno splendeva sulla canna nera del suo mitragliatore, e d’un tratto egli fece un brusco movimento[10], quat­tro uomini uscirono, con lunghi cappotti militari, al sole.
Enne 2 vide un momento le loro facce, tre tedesche, una italiana dalle soprac­ciglia grigie, e passò oltre, andò all’angolo senza mai voltarsi[11].
XV. — I tre ragazzi in bicicletta lo incrociarono.
Parlavano tra loro, pedalando piano, e non lo guardarono, avevano capelli bruni che luccicarono, al sole dell’inverno, come pelo bruno di animali. Enne 2 si voltò, allora, nell’atto di disporsi a salire in bicicletta. Vide sulla gradinata il ragazzo biondo, rimasto impietrito nel suo brusco movimento[12], vide la macchi­na con lo sportello aperto, vide i quattro dai lunghi cappotti ch’erano già al pie­de della gradinata.
I tre dalle facce tedesche si salutavano, quello[13] dalla faccia italiana, un po’ più avanti, teneva chino il capo, ed ecco ch’egli ebbe una risoluzione improvvi­sa, entrò a prendere posto nella macchina.
Ma i tre ragazzi in bicicletta erano già all’altezza della macchina, e ancora i tedeschi si salutavano[14].
Enne 2 vide i tre ragazzi continuare il loro cammino.
«Bene», disse. «Meglio[15]
Due dei tedeschi entrarono in macchina, l’uomo nero chiuse lo sportello, salì a sua volta, e il tedesco rimasto a terra ancora salutava, ancora s’inchinava. En­ne 2 guardò il ragazzo biondo sull’alto della gradinata, e l’ufficiale che salutava al piede di essa.
Partì la macchina.
I tre ragazzi in bicicletta si scansarono davanti ad essa, tutti e tre dalla stessa parte, e allora Enne 2 vide le loro braccia levate in aria[16], udì in tre tempi lo scoppio.
«Ci siamo,» disse. E salì in bicicletta, ed estrasse la rivoltella.
In alto il ragazzo biondo mirava con la sua arma nera i tre che scappavano sulle biciclette, e al piede della gradinata l’ufficiale, che fino a quel momento aveva salutato, toglieva la sicura alla sua rivoltella.
Egli gridava in tedesco.
«Che vuoi tu?» disse Enne 2. «Che vuoi anche tu?[17]»15
Si trovò a far fuoco, due volte, e il ragazzo biondo cadde ripiegato sulla sua arma, l’ufficiale si voltò e sparò contro di lui.
Era come se fosse ingrandito[18].16 Ingrandiva, continuava a ingrandire, egli sparò dentro a quel corpo che ingrandiva, e vide al di là la nera macchina che fumava, in nera rovina attraverso la strada.
XVI. — Presto fu dietro al palazzo.
Entrò in piccole strade dove la gente scappava[19], le facce bianche, e corse con altri[20] che pure correvano in bicicletta. Si chiudevano i portoni, venivano abbas­sate le saracinesche delle botteghe, le facce erano bianche, ed egli domandò che cosa accadesse.
«Cane Nero! Cane Nero![21]»19 gli risposero.
«Cane Nero?» egli domandò.
«Viene Cane Nero! » gli risposero.
Davanti a una latteria c’era una coda per il latte. Il lattaio voleva chiudere, le donne volevano prima il loro latte[22].
«Ma viene Cane Nero! » il lattaio gridò.
Le donne maledissero Cane Nero.
«Ma che cosa è accaduto?[23]» domandò Enne 2.
Egli aveva visto la persona che cercava. Era ferma tra la latteria e un negozio di parrucchiere, dietro la gente che correva, ed era la stessa delle dodici meno un quarto.
«Sembra che abbiano fatto saltare il comando tedesco,» essa gli rispose.
Era intrepida e sorrideva.
«Perdio! » pensò Enne 2 guardandola. E non trovò altro che potesse dire.
«Perdio!» rispose alla sua risposta.
La signora aprì, tra la gente, la sua borsetta, ne prese fuori un fazzoletto e si soffiò il naso.
«Molti morti?» Enne 2 domandò.
La signora guardò nella borsetta, vide che c’era di nuovo la rivoltella.
«Sembra di sì,» rispose. «Venti o trenta.»
Un garzone di droghiere la urtò passando. Passò e gridava: «Hanno fatto fuori un generale! »
La signora aveva richiuso la borsetta, e trattenne il garzone per il braccio.
« Che cosa hanno fatto? »
«Hanno fatto fuori il capo del Tribunale.»
Il garzone era bianco in faccia, ma con gli occhi felici. «Era, era,» rispose. «Lo hanno ammazzato.»
La signora lo lasciò andare, guardò Enne 2 che si accendeva, fermo in sella, una sigaretta, e attraversò la strada. Vicino all’altro marciapiede Enne 2 la rag­giunse.
«In gamba, Lorena,» le disse.
«In gamba,» Lorena gli rispose.

Al di là del ‘mito’ resistenziale, non tutto nella resistenza è stato eroico: in tal senso è opportuno, onde evitare ritratti oleografici, riportare due passi di due lucide coscienze della letteratura del neorealismo, Cesare Pavese ed Italo Calvino.

Cesare Pavese[24]
L’arresto di Cate
Da La casa in collina[25]
·         Il brano  contiene la narrazione dell’arresto di Cate e degli altri partigiani.
·         Corrado, che assiste da lontano alla scena, immobilizzato dalla paura, riesce a fuggire con l’aiuto di Elvira, l’anziana signorina presso la quale vive ed evita di essere anch’egli catturato.
·         La novità del romanzo sta nell’aver scelto un personaggio che ha i tratti dell’antieroe. I suoi attributi sono, infatti, il disimpegno, la paura e la fuga. L’io narrante non cerca giustificazioni né si costruisce alibi, ma evidenzia tutte le sue debolezze, si guarda, si trova colpevole e si accusa impietosamente. Il romanzo pertanto assume i tratti di un esame di coscienza lucida e terribile, ma anche estremamente coraggioso, soprattutto se si pensa che il personaggio è la proiezione autobiografica dell’autore il quale racconta il suo dramma interiore di uomo e di intellettuale di fronte alla Resistenza che per lui è una scelta mancata.
·         L’articolazione del racconto è basata sulla successione di frasi brevi e su frequenti ripetizioni che creano un effetto di monotonia voluta.

Seguì una notte di tiepida pioggia che liberò la primavera. L’indomani nel sereno stillante si respirava un odore di terra. Passai metà della mattina nei boschi, nella conca sul sentiero del Pino ritrovando i muschi e i vecchi tronchi. Mi parve ieri che c’ero salito con Bino, mi chiesi per quanto tempo ancora sarebbe stato il mio solo orizzonte, e guardavo il ciclo fresco come una vetrata di chiesa. Belbo correva al mio fianco.
Tornando passai per una cresta da cui si dominava il versante delle Fontane. Molte volte con Dino avevamo cercato di lassù lo stradone e la casa. Quel giorno fra i tronchi spogli, vidi subito il cortile, e vidi due automobili ferme, color verde-azzurro, e intorno figurine umane dello stesso colore. Provai un senso di nausea, di gelo, tentai di dirmi ch’eran gli uomini di Ponsò, 10 mi parve che il sole si fosse coperto. Guardai meglio; non c’erano dubbi, vidi i fucili nelle mani dei soldati.
Per qualche secondo non mi mossi; fissavo la conca, il ciclo terso, il gruppetto laggiù; non pensavo a me stesso, non ebbi paura. Mi sbalordì il modo inatteso che hanno le cose di accadere; avevo visto tante volte quella casa dall’alto, mi ero pensato in ogni sorta di pericoli, ma una scena così - vista dal ciclo nel mattino - non l’avevo preveduta.
Ma il tempo stringeva. Che fare? Potevo far altro che attendere? Avrei voluto che ogni cosa fosse finita, fosse già ieri: il cortile deserto, le automobili scomparse. Pensavo a Cate, se era scesa a Torino, se la stavano arrestando a Torino. Pensai di accostarmi, di sentire le voci. Mi riprese quel senso di nausea. Era evidente che dovevo correre subito a Torino, rischiare ogni cosa. Sperai vagamente che fosse rimasta.
Nel cortile si agitavano. Vidi gonne, abiti borghesi, non distinsi le facce. Salivano sulle automobili. Di casa uscirono soldati, salirono anche loro. Riconobbi la vecchia. «Bruceranno la casa?» pensavo. Poi, remoto, mi giunse lo scoppio dei motori che si allontanavano.
Passò del tempo. Non mi mossi. Di nuovo, tutto era terso e tranquillo. «Se hanno preso la vecchia» pensavo, «hanno preso tutti». Mi accorsi di Belbo, che, accucciato ai miei piedi, ansimava. Gli dissi: «Laggiù» e lo sospinsi col piede. Lui saltò sulle zampe abbaiando. Per la paura mi ritrassi dietro un tronco. Ma Belbo era già partito come una lepre.
Lo vidi arrivare trotterellando per la strada. Lo vidi entrare nel cortile. Mi ricordai quella notte d’estate che alle Fontane si cantava e tutto doveva ancora succedere. Col cuore sospeso tesi l’orecchio e spiavo se qualcuno era rimasto laggiù. Belbo, piantato nel cortile, riprese ad abbaiare, contro la porta, provocante. Si udì il canto di un gallo, strepitoso e lontano; si udì dalla strada del Pino il cigolio di carri in condotta.
Il cortile era sempre deserto. Poi vidi Belbo che saltava e aveva smesso di latrare; saltava intorno a qualcuno, a un ragazzetto, Dino, sbucato da sotto la siepe. Li vidi scendere in strada e incamminarsi insieme sul sentiero che avevo percorso tante volte rientrando. Senza dubbio era Dino. Riconobbi la rossa sciarpa che portava sul soprabito, il passo trottante. Mi misi a correre fra sterpi e foglie marce, mi scansavo e battevo nei rami bagnati, correvo come un pazzo; la paura, l’orgasmo, la smania, diventarono corsa affannosa. Da una radura vidi ancora le Fontane, il cortile tranquillo. Non c’era nessuno. Incontrai Dino a mezzacosta. S’arrampicava con le mani in tasca. Si fermò rosso in faccia e ansimando. Non mi pareva spaventato. «I tedeschi» mi disse. «Sono venuti stamattina in automobile. Hanno dato dei pugni a Nando. Volevano ucciderlo...». «La mamma dov’è?».
Anche Cate era presa. Anche il vecchio Gregorio. Tutti. Lui e la mamma uscivano per andare a Torino e li avevano visti arrivare. Non avevano fatto in tempo a voltarsi che già i tedeschi eran saltati correndo nel cortile. Puntavano dei fucili corti, gridando. La mamma tremava. Nando faceva colazione e non aveva più finito. C’era ancora la scodella sul tavolo. «Sono entrati in cantina?».
Un tedesco aveva preso una cesta di bottiglie. Si, Nando l’aveva picchiato in cantina, si sentiva urlare. Avevano trovato le casse e i fucili. Gridavano in tedesco. Li comandava un ometto in borghese, che parlava italiano. La moglie di Nando era caduta per t’erra. A lui la mamma aveva detto che cercasse di nascondersi, poi venisse da me a dirmi tutto. Ma avrebbe voluto restare con gli altri, salire anche lui in automobile; era venuto avanti e i tedeschi non l’avevano lasciato salire. Allora la mamma gli aveva fatto gli occhiacci e lui era scappato nel campo e la nonna chiamava, gridava. Tanto valeva nascondersi. «Ti ha detto di dirmi qualcosa?».
Dino disse di no e si rimise a descrivere quel che aveva veduto. L’uomo in borghese aveva chiesto a chi servivano le stanze di sopra. Quanti venivano di sera all’osteria. Poi parlava in tedesco con gli altri.
Arrivammo al cancello. Dino disse che aveva già mangiato e che s’era riempito le tasche di mele. Per tutta la strada io pensai alle ville nascoste nei parchi, e che nessuna era sicura per nascondersi.
Ma sulla porta ci aspettava l’Elvira. S’era messa il mantello e aspettava. Era scura, nervosa. Mi corse incontro e più rossa del fuoco balbettò senza voce: «Ci sono i tedeschi».
«Lo so già» volli dirle, ma un suo gesto di prendermi il braccio e tirarmi in disparte senza nemmeno fare caso a Dino, mi spaventò. Non era rossa per pudore, aveva gli occhi costernati. «Sono venuti due tedeschi» disse ansando, «hanno detto il suo nome... Sono entrati... hanno visto la stanza...». Fu più che una nausea, mi si disciolsero le gambe. Dissi qualcosa, non usci la voce.
«Un’ora fa» disse l’Elvira bassa e rauca, «non sapevo dove era... non volevo che l’aspettassero. Gli ho scritto su un foglio la scuola e la via. Ci sono andati... Ma ritornano, ritornano...». Oggi ancora mi chiedo perché quei tedeschi non mi aspettarono alla villa mandando qualcuno a cercarmi a Torino. Devo a questo se sono ancora libero, se sono quassù. Perché la salvezza sia toccata a me e non a Gallo, non a Tono, non a Cate, non so. Forse perché devo soffrire dell’altro? Perché sono il più inutile e non merito nulla, nemmeno un castigo? Perch’ero entrato quella volta in Chiesa? L’esperienza del pericolo rende vigliacchi ogni giorno di più. Rende sciocchi, e sono al punto che esser vivo per caso, quando tanti migliori di me sono morti, non mi soddisfa e non mi basta. A volte, dopo avere ascoltato l’inutile radio, guardando dal vetro le vigne deserte penso che vivere per caso non è vivere. E mi chiedo se sono davvero scampato.
Quel mattino non stetti a pensare. Un sapore di morte mi riempiva la bocca. Saltai nel sentiero dietro i boschi; dissi all’Elvira sul cespuglio che desse i miei soldi e il libretto di banca al ragazzo, io correvo ad aspettarlo nella conca delle felci. Dissi a Dino di fare attenzione che non lo seguissero. Gli dissi di andare al cancello e guardare.
Ai tedeschi, raccomandai all’Elvira, bisognava rispondere che sovente passavo settimane a Torino e che lei non sapeva dove. Dino gridò. Disse: «C’è un uomo».
Mi appiattii sulla ghiaia bagnata. Tornò l’Elvira e bisbigliò: «Non era niente. Un carretto che passa».
Allora dissi «Siamo intesi», e mi salvai.
Arrivai tra le felci ch’ero tutto sudato. Non mi sedetti. Passeggiavo avanti e indietro per sfogarmi. Fra gli alberi spogli s’apriva il grande cielo, leggero, mai visto così. Compresi cos’è il cielo per i carcerati. Quel sapore di sangue che m’empiva la bocca m’impediva di pensare. Guardai l’orologio. Mi pentii di aver promesso di aspettare. Quell’attesa era orribile. Tendevo l’orecchio se sentivo abbaiare dei cani, sapevo che i tedeschi usano i cani poliziotti. «Purché Belbo non venga a cercarmi» dicevo, «sono capaci di seguirlo».
Poi cominciarono i sospetti e le questioni. Se i tedeschi arrestavano l’Elvira e la madre, la madre diceva certo ch’ero qui. Avrei voluto ritornare e supplicarle. Ripensai quanti torti avevo fatto all’Elvira. Mi chiesi se Dino le aveva già detto dei suoi arresti e dei fucili. Mi calmò un poco ricordarmi che fucili da me non ne avevano nemmeno cercati.
Così passavo quell’attesa, appoggiandomi ai tronchi, parlando tra me, passeggiando, seguendo la luce. Mi venne fame, guardai l’orologio, erano le undici e dieci. Aspettavo da solo mezz’ora. A Cate, a Nando, a tutti gli altri non osavo pensare, quasi per darmi un attestato d’innocenza. A un certo punto mi scrollai, mi feci schifo. Per la terza volta pisciai contro un tronco. Dino arrivò due ore dopo, insieme all’Elvira, che s’era messo il velo nero sul capo come quando tornava da messa. «Non si è visto nessuno» mi dissero. Portavano un pacco e un pacchetto più piccolo. «C’è da mangiare e c’è la roba» disse lei. La roba erano calze, fazzoletti, il rasoio. «Siete matti» strillai. Ma l’Elvira mi disse che ci aveva pensato, che mi aveva trovato un bel rifugio sicuro. Era oltre il Pino, in pianura, il collegio di Chieri, una casa tranquilla con letti e refettorio. «C’è un bel cortile e fanno scuola. Starà bene» mi disse. «Qui c’è una lettera del parroco. È una scuola di preti. Tra loro s’aiutano, i preti».
Parlava tranquilla, non più spaventata. Anche il rossore era scomparso. Tutto avveniva naturale, consueto. Ripensai quelle sere che le dicevo «Buona notte». «E Dino?» dissi.
Per ora restava con loro. Disse: «Ci siamo già spiegati» guardandolo appena, e lui fece di sì col mento.
La stanchezza, il sapore di sangue tornavano a invadermi. Mi si annebbiarono gli occhi. Galleggiavo dentro un mare di bontà, di terrore, e di pace. Anche i preti, e il perdono cristiano. Cercai di sorridere ma la faccia non mi disse. Brontolai qualcosa, che rientrassero su che soprattutto non venissero a cercarmi. Presi i pacchi e partii.
Mangiai nei boschi e verso sera ero entrato nel collegio per una viuzza fuori mano. Nessuno aveva veduto. Giurai, se potevo, di non uscirne mai più.

Italo Calvino[26]
Andato al comando
da I racconti[27]
·         Il racconto è una tragica passeggiata: un partigiano ha preso una spia e si accinge a portarla al Comando, dove lo fucileranno come già è accaduto ad altre spie della zona. Ma ad un certo  punto il partigiano è attratto dalle scarpe del suo prigioniero (le scarpe del partigiano sono scalcagnate e tutte buchi) e con un pretesto se le fa dare; poi, fingendo di puntargli contro l’arma per gioco, lo uccide.
·         L’ambiente della vicenda ha l’aspetto di quell’interno ligure in cui è collocato anche il famoso romanzo resistenziale di Calvino, ‘Il sentiero dei nidi di ragno’.
·         L’essenza del racconto è costituita dalla situazione psicologica dei due personaggi che giocano ognuno nei confronti dell’altro un gioco nascosto: il partigiano, che sa la fine che aspetta la spia, gli lascia tuttavia credere che, appurata la sua innocenza, al Comando lo rilasceranno; la spia che, mentre sostiene la propria estraneità alle delazioni, pensa come si farà bello al Comando tedesco per aver ingannato il partigiano, e intanto, di tempo in tempo, sprazzi di terrore lo attanagliano.

Il bosco era rado, quasi distrutto dagli incendi, grigio nei tronchi bruciati, rossiccio negli aghi secchi dei pini. L’uomo armato e l’uomo senz’armi se ne venivano a zig-zag tra gli alberi, scendendo.
«Al comando, - diceva quello armato. - Al comando, andiamo. Mezz’ora di cammino a dir tanto.»
«E poi?»
«Poi cosa?»
«Dico se poi mi lasciano andare» fece l’uomo disarmato; a ogni risposta si metteva in ascolto, sillaba per sillaba, come cercasse una nota falsa.
«Certo che vi lasciano andare, - disse l’armato. - Io do il documento del battaglione, segnano sul registro e allora potete tornare a casa.»
Il disarmato scuoteva il capo, faceva il pessimista.
«Eh, son cose lunghe, capisco... » diceva, forse solo per sentirsi ripetere:
«Vi lasceranno subito, vi dico».
«Facevo conto, - aggiunse, - facevo conto d’essere a casa per stasera. Pazienza».
«Io dico che ci arriverete, - rispose l’armato. - Il tempo che loro facciano il verbale, poi vi lasciano. Bisogna bene che cancellino il vostro nome dal registro delle spie.»
«Avete il registro delle spie?»
«Sicuro che l’abbiamo. Tutti quelli che fanno la spia, noi lo sappiamo. E uno per uno li prendiamo».
«E c’è il mio nome segnato sopra?»
«Già. C’era anche il vostro nome. Ora bisogna bene che lo cancellino, se no rischiate d’esser preso di nuovo».
«Allora bisogna proprio che vada io là, che spieghi a loro tutta la storia.»
«Ecco che stiamo andando. Bisogna bene che vedano, che controllino.»
«Ma ormai, - disse l’uomo senz’armi, - ormai lo sapete che sono dei vostri, che non ho mai fatto la spia.»
«Appunto. Ormai lo sappiamo. Ormai siete tranquillo.»
Il disarmato annuiva e si guardava intorno. Erano in una grande radura, con pini e larici magri, uccisi dagli incendi, ingombra di rami caduti. Avevano abbandonato, ritrovato e riperso il sentiero, andavano come a caso per i pini radi, traversando il bosco. Il disarmato non riconosceva i luoghi, la sera saliva con lame sottili di nebbia, in basso il bosco s’infoltiva dentro il buio.
L’allontanarsi dal sentiero lo faceva inquieto; provò - visto che l’altro sembrava camminasse a caso - provò a piegare verso destra, dove forse il sentiero proseguiva: l’altro piegò anche lui a destra, come a caso. Se lui si rimetteva a seguirlo, riprendeva a sinistra o a destra, secondo com’era più agevole il cammino.
Si decise a domandare: «Ma dov’è il comando?»
«Ci andiamo, - rispose l’armato. - Ora lo vedrete.»
«Ma in che luogo, in che regione, pressappoco?»
«Come si fa a dire? - rispose. - Il comando non si dice che è in un luogo, in una regione. Il comando è dov’è il comando. Voi capite.»
Capiva; era un uomo che capiva le cose, il disarmato. Pure chiese: Ma non c’è una strada, per andarci?»
L’altro rispose: «Una strada. Voi capite. Una strada va sempre in qualche luogo. Al comando non si va per le strade. Voi capite.»
Il disarmato capiva, era un uomo che capiva le cose, un uomo astuto.
Chiese: «Voi ci andate spesso al comando?»
«Spesso, - disse l’armato. - Spesso, ci vado.»
Aveva una faccia triste, senza sguardo. Conosceva poco i luoghi: sembrava, ogni tanto, che si fosse smarrito, e pure continuava a camminare come non gli importasse.
«È perché siete di turno per la corvè, quest’oggi, che v’hanno mandato a accompagnarmi?» chiese il disarmato, studiandolo.
«È un lavoro che spetta a me, l’accompagnarvi, - rispose - Accompagno io la gente al comando.»
«La staffetta, siete?»
«Ecco, - disse l’armato, - la staffetta.»
«Una strana staffetta, - pensava il disarmato, - che non conosce i luoghi. Ma, - pensava, - oggi non vuole passare per le strade perché io non capisca dov’è il comando, perché non si fidano di me». Brutto segno, che non si fidassero ancora di lui; il disarmato s’ostinava a pensare questo.
Ma c’era, in questo brutto segno, una sicurezza, che davvero lo stessero conducendo al comando e volessero lasciarlo libero, e al di fuori di questo brutto segno un segno più brutto ancora, c’era il bosco che si faceva più fitto e da cui non s’accennava a uscire, c’era il silenzio, la tristezza di quell’uomo armato.
«Il segretario l’avete pure accompagnato al comando? E i fratelli del mulino? E la maestra?» Fece questa domanda d’un fiato, senza rifletterci, perché era la domanda decisiva, che significava tutto: il segretario comunale, i fratelli, la maestra, erano tutta gente portata via, mai più tornata, di cui mai più nulla s’era saputo.
«Il segretario era un fascista, - disse l’armato, - i fratelli erano nella milizia, la maestra era nelle ausiliarie.»
«Dicevo così per sapere, visto che non sono tornati più indietro.»
«Dico, - insisté l’armato. - Loro erano quello che erano. Voi siete quello che siete. Non c’è da far confronti.»
«Certo, - fece l’altro, - non c’è da far confronti. Solo chiedevo cosa ne è stato, così, per curiosità.»
Si sentiva sicuro di sé, il disarmato, enormemente sicuro di sé. Era l’uomo più astuto del paese, era difficile fargliela. Gli altri, segretario e maestra, non erano più tornati: lui sarebbe tornato. «Io grande kamarad, - avrebbe detto al maresciallo. - Partisan niente kaputt me. Io kaputt tutti partisan». Forse il maresciallo si sarebbe messo a ridere.
Ma il bosco bruciato era interminabile e i pensieri dell’uomo erano fasciati di sconosciuto e di oscuro, come zone di radura in mezzo a un bosco.
«Io non so bene del segretario, di tutti quegli altri. Faccio la staffetta io.»
«Ma al comando lo sapranno, - insisteva il disarmato.»
«Ecco. Lo domanderete al comando. Là lo sanno.»
Si faceva sera. Bisognava camminare guardingo, in mezzo alla brughiera,  badando come metteva i passi, per non scivolare su sassi nascosti sotto i cespugli fitti. E badare come si mettevano i pensieri, uno dietro l’altro, nel fitto dell’inquietudine, per non trovarsi a un tratto sepolto di paura.
Certo, se lo avessero creduto una spia non l’avrebbero lasciato così nel bosco, solo con quell’uomo che sembrava non gli badasse nemmeno; avrebbe potuto scappargli tutte le volte che avesse voluto. Se lui tentava di fuggire, cosa avrebbe fatto, l’altro?
Il disarmato cominciò, scendendo in mezzo agli alberi, a prendere un po’ di distanza, a piegare a destra quando quello piegava a sinistra. Ma l’armato continuava a camminare quasi senza badargli, e scendevano così per il bosco rado, distanti ormai l’uno dall’altro. Talora anche si perdevano di vista, nascosti da tronchi, da cespi di arbusti, ma a tratti il disarmato tornava a vedere l’altro sopra di lui che sembrava non gli badasse e pure gli teneva sempre dietro, a distanza.
«Se mi lasciano libero un momento, è la volta che non mi pigliano più», aveva pensato fin allora il disarmato. Ma ora si sorprese a pensare: «Se faccio tanto da riuscire a scappargli, è la volta...» E già vedeva nella sua mente i tedeschi, tedeschi a colonne, tedeschi su camion e autoblinde, visione di morte per gli altri, di sicurezza per lui, uomo astuto, uomo a cui nessuno poteva farla.
Erano usciti dalle radure e dalle brughiere, erano entrati nel bosco fitto e verde, risparmiato dagli incendi: il suolo era coperto d’aghi secchi di pino. L’uomo armato era rimasto indietro, forse aveva preso un altro cammino. Il disarmato allora, cauto, con la lingua tra i denti, affrettò il passo, si spinse più nel folto, cacciandosi giù per i dirupi, tra i pini. Stava scappando: se ne accorse. Allora ebbe paura; ma comprese che ormai s’era allontanato troppo, che l’altro s’era certo accorto del suo voler scappare e certo lo stava inseguendo: non c’era che continuare a correre, guai se ricascava a tiro dell’altro, adesso che aveva tentato di fuggire.
Si voltò a un calpestio sopra di sé: a pochi metri c’era l’uomo armato che se ne veniva col suo passo calmo, indifferente. Aveva l’arma in mano. Disse: «Di qua ci dev’essere una scorciatoia, - e gli fece cenno di precederlo.»
Allora tutto tornò come prima: un mondo ambiguo, tutto in male o tutto in bene: il bosco che invece di finire, s’infittiva, quell’uomo che quasi lo lasciava scappare senza dir niente.
Chiese: «Ma non finisce mai, questo bosco?»
«Appena girata la collina ci siamo, - disse l’altro. - Coraggio, che stanot­te siete a casa.»
«Così, senz’altro mi lasceranno andare a casa? Dico, non vorranno tenermi lì come ostaggio, per esempio?»
«Non siamo mica tedeschi, noi, da prendere degli ostaggi. Tutt’al più potranno prendervi gli scarponi, per ostaggio, che siamo tutti mezzo scalzi.»
L’uomo prese a brontolare come se gli scarponi fossero la cosa per cui temesse più che tutto, ma in fondo ci si rallegrava: ogni particolare della sua sorte, in bene o in male, serviva a ridargli un po’ di sicurezza.
«Sentite, - disse l’armato, - visto che ci tenete tanto, facciamo così: mettetevi i miei, di scarponi, fin tanto che siamo al comando, che i miei sono tutti rotti e non ve li pigliano. Io mi metto i vostri e quando vi accompagno indietro ve li rendo.
Ora anche un bambino avrebbe capito che era tutta una storia. L’uomo armato voleva i suoi scarponi, ebbene, il disarmato gli avrebbe dato tutto quel che voleva, era un uomo che capiva, lui, era contento di cavarsela così a buon mercato. «Io grande kamarad, - avrebbe detto al maresciallo. - Io dato loro scarpe e loro lasciato me andare». Il maresciallo forse gli avrebbe fatto avere un paio di stivaletti come i soldati tedeschi.
«Allora voi non tenete nessuno: ostaggio, prigioniero? Nemmeno il segretario comunale e gli altri?» «Il segretario aveva fatto prendere tre nostri compagni; i fratelli facevano i rastrellamenti con la milizia, la maestra andava a letto con quelli della Decima.»
L’uomo disarmato si fermò. Disse: «Non credete mica che sia una spia anch’io. Non mi avete portato mica qui per ammazzarmi» -e scoprì un po’ i denti, come per sorridere
«Se vi credessimo una spia, - disse l’armato, - non starei tanto a far così».
Tolse la sicurezza all’arma.– E’ così». La puntò alla spalla, fece l’atto di sparargli addosso.
«Ecco, - pensava la spia, - non spara».
Ma l’altro non abbassava l’arma, schiacciava il grilletto, invece.
«A salve, a salve spara», fece in tempo a pensare la spia. E quando sentì i colpi sferrati addosso a lui come pugni di fuoco che non si fermavano più, riuscì ancora a pensare: «Crede d’avermi ucciso, invece vivo».
Cascò con la faccia al suolo e l’ultima cosa che vide fu un paio di piedi calzati coi suoi scarponi che lo scavalcavano.
Così rimase, cadavere nel fondo del bosco, con la bocca piena d’aghi di pino. Due ore dopo era già nero di formiche.


[1] Elio Vittorini - Nacque a Siracusa nel 1908. Figlio di un ferroviere, passò l’infanzia in varie località della Sicilia seguendo gli spostamenti del padre.
 Nel 1924 fuggì improvvisamente dall’isola, andando a lavorare nella Venezia-Giulia come edile. Si inserì nel mondo letterario, nel 1930 si stabilì a Firenze.
Nel 1938 è a Milano. Aderì tiepidamente al fascismo, senza esibire con posizioni ufficiali questa sua adesione.
Negli anni della guerra e della lotta interna antifascista si iscrisse al Partito comunista e partecipò alla Resistenza a Milano.
Nel dopoguerra svolse una intensissima attività culturale di riorganizzazione.
Nel 1947 la polemica con Togliatti.
Nel 1951 lasciò il PCI e si dedicò all’attività editoriale.
Morì a Milano nel 1966.
In Vittorini agisce un forte radicalismo intellettuale, costantemente impiegato a verificare i valori della cultura e dell’arte con le istanze della società. In lui agiscono due impulsi: da una parte quello razionale, che lo spinge ad un continuo ammodernamento delle forme e dei contenuti. Dall’altra l’interesse per le costruzioni narrative mitico-simboliche, più evidente nella produzione degli anni immediatamente precedenti la guerra. Il vitalismo dannunziano è incanalato nel realismo e rivisto alla luce di una particolare, mitica, lettura dei ‘classici’ statunitensi. Lo svecchiamento apportato da Vittorini nel panorama culturale italiano fu importantissimo e decisivo.
[2] Uomini e no - In una Milano occupata dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale, una città per certi versi lugubre e attonita ma, per altri, ancora vibrante di sdegno e capace di reagire, l’autore racconta le vicende di un gruppo di partigiani imbastendo una riflessione sul senso profondo della dignità dell’uomo e della vita.
Attraverso le aspirazioni e le attività quotidiane di uomini semplici e normali, quasi costretti a farsi combattenti, emerge l’atrocità della violenza.
Così, quasi per caso la Storia diventa tale, dipanandosi attraverso le storie di ognuno e, in particolare, attraverso la storia frustrata fra Berta e il capitano Enne2, un partigiano attivo e coraggioso, ma anche un uomo disperato che, disperatamente, tenta di non cedere alla mancanza di senso che sembra pervadere ogni azione. Qual è il senso se Berta vuole stare con lui e invece dieci anni prima se ne è andata con un altro lasciandogli il vestito appeso alla porta, come il fantasma della sua presenza; qual è il senso se ella continua a cercarlo e lui può non cercarla, qual è il senso se ogni volta che lui aspetta ella non arriva? Qual è il senso della lotta se ogni azione è destinata al fallimento, se la distruzione e l’orrore si affacciano ad ogni angolo di strada. Qual è il senso se il capitano Clemm può dare in pasto un uomo a suoi cani? L’uomo disperato è l’uomo, senza dubbio lo è. Ma l’uomo che conquista e uccide è uomo anch’esso: cos’altro è se non uomo? È lupo? No, è uomo anch’egli.
In Uomini e no, uscito nel 1945, c’è quindi il tentativo di dare voce a cose che per anni erano state soffocate ed anche, per la cifra stilistica con cui è scritto (l’autore che si presenta egli stesso in prima persona come autore di quella storia e dialoga con i suoi personaggi, la scrittura caratterizzata da iterazioni e da uno stile cadenzato ed evocativo) c’è anche l’occasione di scoprire una sorta di laboratorio della letteratura in cui sono esibite le sue strutture nascoste.
Alla fine il capitano Enne2 finirà con il cedere alla tentazione di perdersi, ma solo in parte. Poi, in mezzo all’orrore e causa essi stessi di orrore, gli altri uomini continueranno a battersi. Uomini contro uomini. Così come sempre e così da sempre; tuttavia quello che questo libro ci può dare in più è non solo la messa in scena della storia, ma della nostra storia.
[3] Corse... indietro: aspettando l’ora fissata per l’attentato. Soggetto è il capo partigiano che viene indicato nel romanzo col nome di battaglia Enne 2.
[4] Una signora: è la sua portatrice d’arma. Per gli uomini era doppiamente pericoloso girare in città armati.
[5] Tre... a tracolla: mimetizzati da operai, portano nella borsa le bombe per l’attentato.
[6]  giovani... ridevano: il rischio imminente è alleggerito da una giovane fiducia nel successo, e dal­la sicurezza — libera di scrupoli e di problemi — di essere nel giusto.
[7] Resto dietro: per coprire — come farà — la loro fuga. È la parte più pericolosa dell’azione.
[8] l’uomo Enne 2: nel momento estremo del rischio l’epiteto «uomo» unito alla sigla di riconosci­mento del personaggio ribadisce la distinzione proposta dal titolo fra non-uomini, cioè colóro che esercitano il sopruso, e uomini, cioè coloro che, conculcati, affermano la loro dignità ribellandosi.
[9] S.S.: Schutz-Staffeln ( = reparti di difesa) era la milizia armata del partito nazista, che nei paesi occupati si macchiò dei peggiori crimini di guerra.
[10] fece un brusco movimento: mettendosi di scatto sull’attenti.
[11] senza mai voltarsi: con controllata indifferenza, per non suscitare sospetti; similmente i tre ra­gazzi lo incroceranno senza guardarlo.
[12] impietrito... movimento: immobile nella posizione di attenti.
[13] quello: più avanti lo si indica come un ufficiale.
[14] e ancora... si salutavano: alterando così i tempi predisposti per l’attentato.
[15] Bene... Meglio: l’idea che l’attentato vada a vuoto gli dà, nonostante tutto, un senso di sollie­vo.
[16]  le loro braccia levate in aria: nel lancio dei proiettili.
[17] «Che vuoi tu... anche tu?»: nella domanda c’è la disperazione di esser costretto a colpire ed uc­cidere ancora, e per di più persone contro le quali l’attentato non era diretto.
[18] Era... ingrandito: per effetto della tensione spasmodica con cui Enne 2 lo guarda e ne controlla i movimenti.
[19] Entrò ecc.: è il terrore corale di un popolo che sente incombere su di sé la rappresaglia.
[20] corse con altri: mimetizzandosi con loro.
[21] Cane Nero: è il nome con cui viene indicato il feroce capo della milizia fascista. Neri erano la camicia e il berretto della divisa.
[22] volevano... latte: sono tempi di razionamento e di fame.
[23] «Ma... accaduto?»: è un modo di attaccare discorso con la sua portatrice d’arma per avvici­narsi a lei senza destare sospetti.
[24] Cesare Pavese - Nacque a Santo Stefano Belbo nel 1908. Di famiglia piccolo-borghese di estrazione contadina, orfano di padre all’età di sei anni, ricevette una educazione austera, intrisa di sentimenti di nostalgia per la campagna.
Compì gli studi a Torino. Ebbe come professore di liceo Augusto Monti, figura di grande prestigio della Torino anti-fascista. Studiò letteratura inglese e dopo la laurea fece il traduttore. Dopo l’arresto di Leone Ginzburg, anche Pavese fu condannato al confino per aver tentato di proteggere una donna iscritta al PCI. Passò un anno a Brancaleone Calabro. Tornò poi a Torino. Dopo l’8 settembre 1943 riparò con la sorella a Serralunga.
Alla fine della guerra si iscrisse al PCI. Nel 1950 raggiunge il riconoscimento della critica, con l’assegnazione del premio Strega. Pavese entrò in depressione, il suo carattere fragile e introverso, caratterizzato da difficili rapporti umani, lo portò al suicidio. A Torino, nell’agosto 1950.
Pavese è stato tra gli scrittori più amati del dopoguerra, anche per via del mito avviato con il suicidio. Simbolo contraddittorio dell’impegno politico e del disagio esistenziale, la figura di Pavese è condizionata dall’intreccio vita- letteratura. Ciò dà suggestione ai suoi esperimenti stilistici, ma non evita i luoghi comuni di un certo vitalismo estetista.
Uno dei suoi testi più letti è stato Il mestiere di vivere che registra la professione della sua ricerca umana e letteraria. Ma notevole importanza hanno gli esiti del suo lavoro poetico, soprattutto quelli della prima raccolta, capace di forgiare una struttura ritmica e metrica tesa al racconto, a un’epica umile e quotidiana.
[25] La casa in collina - Pubblicato nel 1949, Non è facile nascondere la sua tendenza all’autobiografia: Cesare/Corrado narra la guerra come idea, come impegno, la guerra civile, i bombardamenti che non risparmiano le città, la guerra che termina solo per chi muore, la guerra che continua, che è sempre presente, che non cessa con la fine del romanzo, il quale termina alle soglie del suo ultimo difficile inverno.
La trama naufraga in un mare di idee, di simboli, di descrizioni ed è difficilmente rintracciabile, è solo un pretesto, un punto di partenza per raccontare delle idee. Pavese è impegnato a scavare in sé, a vivisezionarsi spietatamente, a cercare la sua strada, a compenetrarsi con la natura fatta di luna, di vigne, di stelle e di campagna: le fughe, i rifugi, gli interrogativi, il suo rapporto con Dio, con la paternità mai realizzatasi, ma disperatamente agognata e qui vissuta nel rapporto con Dino, il figlio che potrebbe essere l’altro lui, quello che ha il coraggio di scappare dal rifugio, di buttarsi nella mischia, di viverla la guerra, anche a costo di morire.
Proprio questa forza di rappresentazione oggettiva permette al romanzo di resistere al tempo: Corrado è simbolo dell’individuo, l’uomo comune che non ha più la pretesa di poter influire sul corso della storia, che si vergogna di questa abominevole esperienza che uccide, che mette gli uni contro gli altri gli stessi italiani, che deve espiare e che solo grazie alla speranza di un rinnovamento dell’uomo può sopportare la vista di tutti quei morti che appaiono quasi la concretizzazione della colpa, dell’efferatezza, della bestialità.
Il lettore resta incantato dalla capacità di Pavese di ritrarre il paesaggio, di utilizzare un linguaggio straordinariamente accattivante che rimane antiletterario, fatto di una sintassi utilizzata in modo libero, di ampie e variegate figure retoriche che immettono dentro alle parole, specchio di immagini, a loro volta specchio di una natura che ha ancora il coraggio e la forza di incantare, con quella luna che appare e scompare, che resta sospesa sulle vigne, che disegna un percorso, un itinerario spirituale, antidoto bianco e smagliante all’orrore della devastazione, al rosso del sangue, al verde opaco del rame che resta l’unico attestato di quelle che una volta erano vigne e profumo di campagna.
[26] Italo Calvino - Calvino nacque, il 15 ottobre 1923, a Santiago de Las Vegas, vicino all’Avana (Cuba), dove il padre dirigeva una stazione sperimentale di agricoltura e una scuola d’agraria. Nel 1925 la famiglia Calvino ritornò in Italia e si stabilì a San Remo dove Calvino vive fino a vent’anni. Compiuti gli studi liceali, Calvino fu avviato dai genitori agli studi di Agraria, che non portò a compimento. Dopo l’8 settembre 1943, Calvino si sottrasse all’arruolamento forzato nell’esercito fascista e si aggregò ai partigiani della Brigata Garibaldi. Dopo la liberazione, aderisce al PCI, collabora a giornali e riviste e si iscrive alla Facoltà di Lettere di Torino, dove nel 1947 si laurea con una tesi su Conrad. A Torino collabora al Politecnico di Vittorini ed entrò a far parte del gruppo redazionale della casa editrice Einaudi nel cui ambiente, aperto alla cultura mondiale, matura la sua vocazione a scrivere. Nel 1947 esordisce come scrittore, pubblicando, grazie a Pavese, Il sentiero dei nidi di ragno. A questo romanzo segue il volume di racconti Ultimo viene il corvo (1949). Negli anni Cinquanta e Sessanta svolge le funzioni di dirigente nella casa editrice Einaudi e intensifica sempre più la sua attività culturale e il suo impegno nel dibattito politico-intellettuale, collaborando a numerose riviste. Inoltre si impone nel panorama letterario italiano, come il più originale tra i giovani scrittori, in seguito alla pubblicazione della raccolta dei Racconti (1958), e soprattutto del volume I nostri antenati (1960), la trilogia di romanzi fantastici sull’uomo contemporaneo: Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957) e Il cavaliere inesistente (1959). Pubblica anche il saggio Il midollo del leone (1955) e raccoglie e traduce Le fiabe Italiane che pubblica nel 1956, anno in cui i fatti di Ungheria lo distaccarono dal PCI e lo condussero progressivamente a rinunciare a un diretto impegno politico. Tra il 1959 e il 1967 dirige, insieme a Vittorini, l’importante rivista culturale letteraria Il Menabò, in cui pubblica interventi caratterizzati da un impegno di tipo etico-conoscitivo, quali Il mare dell’oggettività (1959) e La sfida del labirinto (1962). Nel 1963 pubblica, oltre a Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, il racconto costruito ancora su schemi di tipo tradizionale La giornata di uno scrutatore. Nel 1964 si apre una nuova fase della vita e della carriera di Italo Calvino: sposa l’argentina Judith Esther Singer e si trasferisce a Parigi dove viene a contatto con gli ambienti letterari e culturali più all’avanguardia. Nel 1965 nasce la figlia Abigail ed esce il volume Le Cosmicomiche, a cui segue nel 1967 Ti con zero, in cui si rivela la sua passione giovanile per le teorie astronomiche e cosmologiche. Il nuovo interesse per le problematiche della semiotica e per i processi combinatori della narrativa trova espressione anche ne Le città invisibili (1972), e ne Il castello dei destini incrociati (1973). Intanto cresce il suo successo e il suo prestigio in tutto il mondo. Nel 1979 esce il romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore, che diviene subito un best seller. Nel 1980 si trasferisce a Roma, e pubblica una raccolta dei suoi saggi più importanti, Una pietra sopra. Nel 1983 escono i racconti di Palomar, ricchi di disillusa amarezza. Nel 1984 pubblica il volume Collezione di sabbia. Nel 1985 tiene una serie di conferenze negli Stati Uniti a Cambridge, alla Harvard University, prepara le Lezioni Americane. All’inizio di settembre Italo Calvino muore all’ospedale di Siena, colpito da un’emorragia celebrale. Nel maggio 1986 presso Garzanti esce Sotto il sole giaguaro, il primo libro postumo di Calvino.
[27] I racconti - In questo volume confluiscono racconti pubblicati nel corso di un decennio in giornali o in raccolte parziali. Le storie sono di stampo realistico e i racconti hanno una lunghezza che va dalla misura più breve a quella del racconto lungo (o romanzo breve).

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