Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

mercoledì 4 gennaio 2017

Classe II - Storia - Modulo III unità 7 - 16

7. Il Medioevo - Secondo la suddivisione più condivisa della Storia d'Europa che prevede tre ere, classica, medioevale e moderna, il Medioevo è il periodo intermedio, il cui inizio è collocato, per l'intera Europa, nel 476, cioè con la deposizione dell'ultimo imperatore romano Romolo Augustolo e di conseguenza con la fine dell'Impero Romano d'Occidente.
Diversamente, la conclusione del Medioevo è collocata in ciascun paese in date diverse, che coincidono con la nascita delle rispettive monarchie nazionali ed il periodo rinascimentale.
Alcune date comunemente utilizzate sono:
·        il 1453, con la caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi e la fine della Guerra dei Cent'Anni tra Inghilterra e Francia,
·        il 1492, con la fine del periodo islamico in Spagna e la scoperta delle Americhe da parte di Cristoforo Colombo,
·        il 1517, con la Riforma protestante.
Il termine Medioevo, inteso come età di mezzo, fase di transizione tra due stadi, implica già una visione negativa, che si radica già nel giudizio degli umanisti che descrive avvilente e pericolosa la quotidianità nell'età storica appena trascorsa, influenzati dalle recenti carestie e dall'arresto demografico dovuto alle epidemie. In realtà è storicamente accertato come non mancarono importanti innovazioni e conquiste. La visione negativa del Medioevo culminò nell'Illuminismo, quando prevaleva la visione del Medioevo come epoca della prigionia dello spirito, come fanatismo religioso che relegava l'uso della ragione e dell'arbitrio. I caratteri di rozzezza e oscurità davano però una visione deformata e semplificata. I mille anni di Medioevo, così ricchi di eventi e trasformazioni, hanno continuato ad essere riproposti come tenebra, barbarie, violenza, perdita d'identità, sterilità e carestia.
Per quanto numerosi possano essere i lati negativi attribuibili al Medioevo, non si può accettare che tali aspetti negativi siano assunti a linee guida per la descrizione della realtà plurisecolare dell'Europa medievale e dei gruppi umani limitrofi.
Lo studio del Medioevo ebbe una rivalutazione molto forte durante il Romanticismo, anche se non fu certo una rivalutazione filologica, ma piuttosto una distorsione in chiave contemporanea di un'idea di Medioevo. In particolare interessavano aspetti legati alla fede, alla purezza, all'etica cavalleresca e soprattutto legate alla nascita delle nazioni e delle indipendenze comunali, che erano usate come fondamento delle rivendicazioni indipendentiste dei movimenti rivoluzionari.
Anche oggi, per il Medioevo gli studi storici sono condizionati dalle deformazioni del proprio modo di pensare e delle influenze della società contemporanea.
Una suddivisione comunemente utilizzata del Medioevo è tra:
·        L’Alto Medioevo, che per convenzione va dalla caduta dell'Impero romano d'Occidente, avvenuta nel 476, all'anno 1000. La carica imperiale rimase vacante dopo la deposizione di Romolo Augusto nel 476. L'impero bizantino mantenne la sovranità nominale sui territori appartenuti all'impero d'Occidente e molte delle popolazioni germaniche che vi si erano stanziate riconobbero formalmente l'autorità del sovrano di Costantinopoli. La restaurazione bizantina in Italia mirò al controllo del papato, nell'ottica del tradizionale cesaropapismo orientale, suscitando la viva opposizione dei pontefici. Alla fine dell'VIII secolo, dopo le invasioni barbariche e la breve riconquista operata da Giustiniano, si erano consolidati il regno dei franchi a Occidente; il regno dei Longobardi nell'Italia settentrionale; l'Impero Bizantino nel sud dell'Italia e nei Balcani. La Chiesa si riorganizzò e grazie al prestigio politico e morale e all'accentramento esercitò un fermo controllo sulla popolazione. L'unità dell'impero carolingio fu ben presto minata dalle lotte fra i successori e dalle spinte disgregatrici delle aristocrazie.
·        Basso Medioevo che intende il periodo della storia europea compreso tra il 1000 e la scoperta dell'America nel 1492.

8. L’Alto Medioevo - Il periodo compreso tra il V e l’XI secolo è uno dei momenti più bui della storia d’Europa.
Il significato storico dei secoli di imbarbarimento che costituiscono l’Alto Medioevo è però ambivalente: mentre da una parte essi rappresentano la frattura con la civiltà classica i cui valori sembrano andare perduti per sempre, dall’altra, invece, grazie all’assimilazione di vari elementi, si attua la laboriosa gestazione di una nuova civiltà, del tutto originale, la civiltà europea che, progredendo e sviluppandosi, imporrà poi la sua egemonia sul mondo.
La morte dell’Imperatore Teodosio nel 395 segnò la definitiva sepa­razione delle province occidentali, di lingua e cultura latina, da quelle orientali, ed il conseguente rapido declino dell’Impero roma­no d’Occidente, meno abitato, me­no urbanizzato, meno civile, me­no ricco di risorse rispetto a quel­lo d’Oriente o bizantino. I sintomi dell’imminente dissoluzione dell’Impero già si delineavano:
·        nel 406 le difese della frontiera renana cedettero;
·        nel 410 Roma fu saccheggiata una prima volta da parte dei Visigoti di Alarico, i quali però, già cristianizzati, rispettarono gli edifi­ci religiosi;
·        nel 455 fu saccheggiata di nuovo da parte dei Vandali di Genserico che le infersero i colpi più gravi;
·        nel 476, deposto l’ultimo Imperatore romano da Odoacre, re degli Eruli, l’Impero d’Occidente cadde definitivamente e nuclei di popola­zioni germaniche (Goti, Vandali, Franchi) si insediano sul territo­rio imperiale, dando vita ai cosiddetti regni romano-barbarici[1].

9. Le grandi trasformazioni sociali e politiche dell’Alto Medioevo: le monarchie romano-barbariche.
a) Decadenza della città – Roma, imponendo il suo dominio politico sull’Europa occidenta­le, vi introdusse quella civiltà urbana, lì sconosciuta, che aveva invece caratterizzato tanto la Grecia quanto i grandi imperi dell’antichità.
Per civiltà urbana si intende che la città era il luogo delle decisioni politiche e amministrative, degli scambi commerciali e culturali, la residenza usuale dei detentori del potere, mentre alla campagna era assegnata una posizione subalterna in tutti questi campi, an­che se essa rappresentava la principale e quasi unica produttrice di ricchezza.
Il mo­dello di vita cittadina, portato dai legionari romani, si diffuse rapidamente nei paesi europei conquistati. Fu un processo che toccò il suo apice nel II secolo d.C., per av­viarsi poi alla progressiva decadenza.
Fra le cause di questa decadenza ai possono individuare molteplici fattori, ma la ragione principale sta nell’effettiva inconsistenza dell’economia legata alla civiltà urbana. Nell’Occidente, a differenza dell’Oriente, la città fu un organismo esclusivamente parassitario: essa[2] non era produttrice di ricchezza e tanto meno di ricchezza per un vasto mercato. Di qui la debolezza della civiltà urbana romana, debolezza che condizionò negati­vamente anche la potenza militare dell’Impero d’Occidente, gli impedì di resistere alla pressione dei barbari e, assieme ad altre cause, ne determinò la fine.
Le invasioni dei Germani, le scorrerie degli Unni e degli Ungari, accelerarono il processo di decadenza della città fino a portare, in molti casi, alla sua scomparsa materiale e comunque alla fine della sua posizione di predominio come centro politico, culturale ed eco­nomico.
b) La società rurale - È stato detto che l’Impero Romano d’Occidente non morì di mor­te naturale, ma fu assassinato dai barbari. L’affermazione è vera nel senso che essa efficacemente sottolinea la violenta frattura verificatasi con la civiltà precedente: senza le invasioni germaniche e le devastanti incursioni di altre popolazioni barbariche che distrussero la struttura materiale su cui si fondava la civiltà latina in Occidente, non si spiegherebbe la totale scomparsa di quella civiltà urbana che l’aveva caratterizzata dal­la Spagna al Reno, dalla Britannia alle sponde settentrionali dell’Africa; questa società lasciò il posto ad una società che ebbe i suoi centri politico-amministrativi, commer­ciali e culturali fuori delle città, nelle villae[3], le estese tenute dei grandi proprietari fon­diari, nei monasteri, nelle abbazie e nei castelli, residenza dell’aristocrazia guerriera che deteneva il potere sui paesi conquistati.
Intorno a questi centri si addensa­va la popolazione rurale: era una società che, per la forte regressione della produzione e degli scambi e la ridotta circolazione monetaria, si basava esclusivamente, con poche eccezioni, su un’agricoltura che operava in condizioni di estrema povertà e vedeva ridursi progressivamente le sue potenzialità in terre coltivate e in braccia lavora­tive.
La popolazione, decimata, più che dalle guerre, dalle epidemie e dalle carestie che le accompagnavano, toccò livelli bassissimi: nell’VIII secolo la popolazione dell’Italia non doveva superare i 4 milioni, mentre nel V secolo era di quasi 8 milioni.
Le terre coltivate erano divorate dalle selve che assediavano sempre più da vicino gli insediamenti umani rarefacendo i loro reciproci rapporti e dalle paludi, costituitesi per il dilagare e il ristagnare delle acque non più regolate. L’incolto e la foresta dominavano il paesaggio di questi secoli.
In queste condizioni l’agricoltura, utilizzando tecniche e strumenti primitivi, riusciva a stento, pur integrata dalla caccia, dalla pesca e dall’allevamento brado, a soddisfare i bisogni di sussistenza: il misero mantenimento dei contadini, dopo che erano state soddi­sfatte le esigenze della classe dominante, cioè i guerrieri e gli ecclesiastici.

10. Eclisse del primato dell’Occidente - La degradazione dell’Europa, ridotta a paese spopo­lato e selvaggio, dominato da un’aristocrazia turbolenta e ribelle ad ogni forma di ordine costituito, dove erano scomparse anche le vestigia della civiltà classica, comportò la perdita del primato dell’Occidente, come conseguenza della impotenza di Roma.
Nel periodo che va dal V all’XI secolo, le civiltà più fulgide ed evolute, gli organismi statali più vasti e potenti avevano i loro centri altrove: a Bisanzio, a Damasco e Bagdad, capitali dell’Islam, in Cina ed in India.
L’Europa, prostrata, a stento riusciva a difendere la sua indipendenza dagli assalti e dalla penetrazione dell’Islam e solo faticosamente riuscì a riprendersi, a cominciare dal XII secolo.
Quanto a Roma, anziché parlare d’eclissi del suo primato politico, è più preciso parlare di tramonto, in quanto essa non riuscirà più a conseguire la perduta posizione di primaria potenza mondiale. Di essa sopravvivrà però, lungo tutto il Medioevo, il vivo ed af­fascinante ricordo cui ci si richiamerà come ad un ideale di ordine civile e di grandezza politica da riconquistare. La Chiesa di Roma se ne considerò l’erede e an­che su questo fondò la sua rivendicazione di universalità.

Usi e costumi dei Germani
Dalla Germania di Tacito
13. Non trattano alcuna faccenda, né pubblica né privata, se non con le armi indosso: ma è usanza che ognuno le prenda solo quando la città l’ha riconosciuto in grado di servirsene. Allora, nell’assemblea stessa, o uno dei capi o il padre o i parenti armano il giovane di scudo e di framea: questa è per loro la toga virile, questa per i giovani la prima distinzione onorifica; fino allora vengono considerati appartenenti alla famiglia: dopo, allo Stato. Un altissimo titolo di nobiltà o grandi benemerenze di antenati conferiscono ad alcuni dignità di principe fin dalla prima giovinezza; tutti gli altri si aggregano a capi più robusti e già da tempo provati, e non è motivo di vergogna farsi vedere nel loro séguito. Vi sono anzi delle distinzioni nel séguito stesso, a giudizio di colui che esso accompagna: e grande è l’emulazione, sia tra i compagni, per stabilire a chi tocchi il primo posto accanto al capo, sia tra i capi, chi abbia i seguaci più numerosi e più agguerriti.
Questa è la dignità, queste son le forze: essere circondati sempre da una schiera numerosa di giovani scelti è ornamento in tempo di pace, difesa in tempo di guerra. E non soltanto nella propria patria, ma anche presso le genti vicine acquista rinomanza e gloria chi è segnalato dal numero e dal valore del séguito; lo si ricerca per le ambascerie lo si colma di doni, e spesso la sua sola fama fa vincere una guerra.
14. Sul campo di battaglia è disonorante per il capo esser superato in valore, per il séguito non uguagliare il valore del capo. È poi infamia e vituperio per la vita intera ritornare salvi dalla battaglia senza di lui: difenderlo, vegliare sulla sua sicurezza, ascrivere a gloria sua anche i propri atti di coraggio è supremo dovere. I prìncipi lottano per la vittoria, il séguito per il principe.
Se la tribù in cui sono nati s’intorpidisce in una pace lunga e inerte, molti giovinetti nobili ne raggiungono volontariamente un’altra, che allora conduca una guerra; tanto è sgradita a quel popolo la tranquillità, perché tra i rischi è più facile divenire famosi e perché non si mantiene un séguito numeroso se non con la violenza e con la lotta. Infatti dalla liberalità del capo si ottiene quel famoso cavallo da guerra, quella famosa framea, cruenta e vittoriosa; banchetti e imbandigioni non raffinate, ma copiose, tengono luogo di soldo.
Le guerre e i saccheggi forniscono i mezzi alla munificenza; e indurli ad arare la terra o ad aspettare il raccolto sarebbe meno facile che indurli a provocare il nemico e a meritarsi ferite. Anzi, sembra loro pigrizia e viltà acquistar col sudore ciò che potrebbero procurarsi col sangue. 15. Quando non fanno guerra, trascorrono molto tempo a cacciare e ancora di più ad oziare, dediti al sonno e al cibo; i più forti e bellicosi non fanno nulla, ché la cura della casa, dei penati e dei campi è lasciata alle donne e ai vecchi e ai meno validi della famiglia. Essi intanto poltriscono: strana contraddizione della natura, che i medesimi uomini abbiano caro l’ozio e detestino la pace.
È usanza che le tribù rechino spontaneamente ai capi un tanto a testa di bestiame o di biade, che, accettato in omaggio, sovviene pure alle loro necessità. I doni più apprezzati sono quelli dei popoli confinanti, offerti o da privati o a spese pubbliche: cavalli scelti, armi grandiose, medaglioni e collane. Ora hanno imparato da noi a prendere anche denaro.
16. È noto che i popoli germanici non abitano alcuna città e non sopportano nemmeno case riunite fra loro. Vivono in dimore isolate e sparse qua e là, a seconda che una fonte o una pianura o un bosco li ha attirati. Fondano villaggi non di edifici insieme connessi, all’uso nostro: ciascuno lascia uno spazio libero intorno alla propria casa, o contro il pericolo d’incendio o per imperizia del costruire. Non adoperano neppure pietre squadrate né tegole: per tutto si servono di legname greggio, senza preoccuparsi di renderne piacevole l’aspetto. Rivestono però accuratamente certe parti di una terra così fine e lucida, da imitare la pittura e i disegni colorati. Son soliti anche scavare dei sotterranei, e li caricano al di sopra di abbondante letame, per rifugio contro l’inverno e per depositarvi le biade, perché in tal modo mitigano il rigore del freddo; inoltre, se mai viene un nemico, saccheggia le località in vista, ma ciò che è nascosto sotto terra o rimane ignorato, o sfugge per il fatto stesso che bisogna farne ricerca.
17. Per abito portano tutti un saio trattenuto da una fibbia o – mancando questa – da una spina; altrimenti, stanno nudi e passano intere giornate accanto al focolare. I più ricchi si distinguono per una sottoveste non fluttuante, come i Sarmati e i Parti, ma serrata e aderente alle membra. Portano anche pelli di fiera, senza raffinatezze quelli più vicini alla riva, con maggiore eleganza quelli dell’interno, dove non arriva il commercio a portare alcun lusso. Scelgono gli animali e, dopo averli scuoiati, screziano i velli con pezzi di pelle dei mostri che vivono nel più remoto Oceano e nel mare sconosciuto.
Le donne vestono in maniera non diversa dagli uomini; senonché si coprono per lo più con tessuti di lino guerniti di porpora, e non prolungano la parte superiore del vestito a formare maniche. Le braccia sono nude fino alla spalla, e anche il sommo del petto rimane scoperto.
18 I matrimoni però sono severamente regolati, e non vi è nei loro costumi nulla che meriti maggior lode. Infatti, quasi soli tra i barbari, si accontentano d’una moglie per ciascuno, eccettuati pochissimi, non per avidità sensuale, ma perché la nobiltà del loro sangue fa sì che molte famiglie ne ambiscano il connubio.
Non la moglie al marito, ma il marito alla moglie porta la dote. Assistono alla cerimonia i genitori e i parenti e valutano i doni, scelti non per appagare il gusto femminile né per fornire ornamenti alla sposa: sono buoi, e un cavallo imbrigliato e uno scudo con framea e spada. In cambio di tali doni si riceve la moglie, ed essa per parte sua porta qualche arma al marito: essi considerano questo il vincolo più forte, questo l’arcano rito, queste le divinità coniugali.
Perché la donna non si creda estranea ai nobili pensieri e alle vicende della guerra, dagli auspici stessi, all’inizio del matrimonio, è avvertita ch’essa viene associata alle fatiche ed ai pericoli, che in pace come in guerra soffrirà e oserà tanto quanto il marito. Questo è il significato dei buoi aggiogati, del cavallo bardato, delle armi donate. Così deve vivere e morire: quanto essa riceve, dovrà consegnarlo inviolato e sacro ai figli, dai quali lo riceveranno le nuore e a loro volta lo trasmetteranno ai nipoti.
19. Vivono dunque ben difese nel loro pudore, non corrotte da attrattive di spettacoli né da eccitamento di conviti. Uomini e donne ignorano ugualmente i segreti della scrittura. Rarissimi, tra gente così numerosa, gli adulterii, dei quali il castigo è immediato. Ne è esecutore il marito, che scaccia di casa la donna, dopo averla denudata e averle reciso le chiome, e sotto gli occhi dei parenti la insegue a sferzate per tutto il villaggio. Non c’è infatti perdono per colei che si è prostituita: né bellezza, né gioventù, né ricchezza le farebbero trovare uno sposo. Perché là i vizi non destano riso, e non si dà il nome di moda al corrompere e all’essere corrotti.
Più sagge ancora sono quelle tribù, dove vanno a nozze soltanto le vergini, e la speranza e i voti della sposa non si appagano che una volta; esse prendono un solo marito, così come hanno un solo corpo e una sola vita, perché il loro pensiero e il loro desiderio non vadano oltre e perché non il marito, ma il matrimonio sia da loro amato. Limitare il numero dei figli o uccidere qualcuno di quelli nati in soprannumero è ritenuto colpa infamante, e là i buoni costumi valgono più che le buone leggi in altri paesi.
20. I bambini crescono in ogni casa nudi e sudici, eppure acquistano quelle membra, quelle corporature che noi guardiamo con meraviglia. Tutti vengono allattati dalla propria madre; non si affidano mai ad ancelle o a nutrici. Nessuna raffinatezza di educazione distingue il padrone dal servo: trascorrono la vita tra i medesimi animali domestici e sul medesimo terreno, finché l’età viene a distinguere dagli altri i nati liberi e il coraggio a rivelarli.
I giovani conoscono tardi il godimento sessuale, il che assicura loro una inesauribile forza virile. Né vi è fretta di maritare le fanciulle, che uguagliano gli uomini nel vigore giovanile e nella statura; vanno a nozze quando forti al pari di loro, e i figli rinnovano la gagliardia dei genitori.
I figli delle sorelle sono tenuti dallo zio nello stesso conto che dal padre. Alcuni ritengono anzi ancora più sacro e più stretto quel legame di sangue, e quando ricevono ostaggi lo preferiscono, come se vincolasse più saldamente gli animi e più largamente il parentado. Eredi però e successori sono a ciascuno i figli, e non si fanno testamenti. In mancanza di prole, subentrano nella successione i fratelli, gli zii paterni, gli zii materni. Quanto più numerosi sono i parenti, sia dello stesso sangue, sia acquistati per via di matrimoni, tanto più onorata è la vecchiaia; e non c’è alcun vantaggio a non avere discendenti.

T Il viaggio a Costantinopoli
Dall’Antapodosis, di Liutprando di Cremona, Trad di M. Oldoni e P. Ariatta 1987.
Uscendo da Pavia il l° d'agosto (949), giunsi in tre giorni lungo il corso del Po a Venezia, dove trovai l'eunuco Salemone kitonite [4], ambasciatore dei Greci, che, di ritorno dalla Spagna e dalla Sassonia, desiderava tornare a Costantinopoli e conduceva con sé il messo del signore nostro, allora re, ora imperatore[5], con grandi doni, cioè Liutifredo, ricchissimo mercante di Magonza.
Partiti da Venezia il 25 agosto arrivammo il 17 settembre a Costantinopoli, dove in che modo inaudito e meraviglioso fummo accolti, non ci rincrescerà di scriverlo.
Vi è a Costantinopoli una casa, contigua al palazzo, di meravigliosa grandezza e bellezza, che dai Greci è detta Magnaura, quasi grande aura, con la «v» posta al luogo del «digamma». Costantino[6] fece così preparare questa casa sia per i messi degli Ispani, che allora erano appena arrivati, sia per me e Liutifredo. Innanzi al sedile dell'imperatore stava un albero di bronzo, ma dorato, i cui rami erano pieni di uccelli ugualmente di bronzo e dorati di diverso genere, che secondo le loro specie emettevano i versi dei vari uccelli. Il trono dell'imperatore era. disposto con una tale arte, che in un momento appariva al suolo, ora più in alto e subito dopo sublime, e lo custodivano, per dir così, dei leoni di immensa grandezza, non si sa se di bronzo o di legno, ma ricoperti d'oro, i quali percuotendo la terra con la coda, aperta la bocca emettevano il ruggito con le mobili lingue. In questa casa dunque fui portato alla presenza dell'imperatore sulle spalle di due eunuchi. E sebbene al mio arrivo i leoni emettessero un ruggito, e gli uccelli strepitassero secondo le loro specie, non fui commosso né da paura, né da meraviglia, poiché di tutte queste cose ero stato informato da chi le conosceva bene.
Chinatomi prono per tre volte adorando l'imperatore alzai il capo e quello che avevo visto prima seduto elevato da terra in moderata misura, lo vidi poi rivestito di altre vesti seduto presso il soffitto della casa; come ciò avvenisse non lo potei pensare, se non forse perché era stato sollevato fin là da un ergalion (argano), con cui si elevano gli alberi dei torchi.
Allora non disse nulla di sua bocca, giacché, anche se lo volesse, la grandissima distanza lo renderebbe sconveniente, ma per mezzo del logoteta mi domandò della vita e della salute di Berengario[7]. Avendogli risposto conseguentemente, ad un cenno dell'interprete uscii e mi ritirai subito nell'ostello concessomi.
Ma non m'incresca di ricordare neppure questo, che cosa allora io abbia fatto per Berengario, perché si conosca con quanto amore abbia prediletto costui e che razza di ricompensa abbia da lui ricevuto per le mie buone azioni.
Gli ambasciatori degli Ispani ed il nominato Liutifredo, messaggero di Ottone nostro signore, allora re, avevano portato molti doni da parte dei loro signori all'imperatore Costantino. Io invece da parte di Berengario non avevo portato nulla se non una lettera, per di più piena di menzogne. Il mio animo ondeggiava non poco per questa vergogna e meditava attentamente che fare a questo proposito. Mentre ondeggiavo e fluttuavo assai, la mente mi suggerì di conferire i doni, che da parte mia avevo recato all'imperatore, come da parte di Berengario e di ornare, per quanto potevo, di parole il piccolo dono (Teren., Eunuch., 214). Offrii dunque nove bellissime corazze, sette bellissimi scudi con borchie dorate, due coppe d'argento dorato, spade, lanche. spiedi, quattro schiavi karzimasi, più preziosi per l'imperatore di tutte le cose nominate. Infatti i greci chiamanoKarzimasio il fanciullo reso eunuco per amputazione dei testicoli e della verga; il che i mercanti di Verdun sogliono fare per grande guadagno e li vendono in Spagna.
Fatte queste cose, l'imperatore diede ordine di chiamarmi a palazzo tre giorni dopo e, rivolgendosi a me di sua bocca, mi invitò a banchetto, dopo il quale donò a me ed al mio seguito un grande regalo. Ma giacché si è presentata l'occasione di narrarlo, ritengo bene non tacere, ma descrivere quale sia la sua mensa, soprattutto nei giorni di festa e quali giochi si facciano a mensa.
Vi è una casa presso l'ippodromo rivolta a nord di meravigliosa altezza e bellezza, che si chiama Dekaenneakubita[8], nome che ha preso non dalla realtà, ma per cause apparenti; deka in greco è dieci in latino, ennéa è nove, kubita poi possiamo dire le cose inclinate o curvate dal verbo cubare. E questo pertanto, perché nella natività secondo la carne del signor nostro Gesù Cristo (25 dicembre) vengono apparecchiate diciannove mense. A queste l'imperatore e parimenti i convitati banchettano non seduti, come negli altri giorni, ma sdraiati; in quei giorni si serve non con vasellame d'argento, ma solo d'oro. Dopo il cibo furono recati dei pomi in tre vasi d'oro che, per l'enorme peso, non sono portati dalle mani degli uomini, ma da veicoli coperti di porpora. Due vengono posti sulla mensa in questo modo. Attraverso fori del soffitto tre funi ricoperte di pelli dorate sono calate con anelli d'oro che, posti alle anse che sporgono nei vassoi, con l'aiuto in basso di quattro o più uomini, vengono sollevati sopra la mensa per mezzo di un ergalion girevole, che è sopra il soffitto, e allo stesso modo vengono deposti. Tralascio di scrivere, che sarebbe troppo lungo, i giochi che ho visto lì; uno solo non mi increscerà d'inserire qui per la meraviglia.
Venne un tale che portava sulla fronte senza aiuto delle mani un palo lungo ventiquattro piedi o più, che aveva un altro legno di due cubiti per traverso ad un cubito più in basso dalla sommità. Furono introdotti due fanciulli nudi, ma campestrati, cioè con un cinto, i quali salirono sulla pertica, vi fecero evoluzioni e discesero poi a capo in giù, mantenendola immobile come se fosse infitta al suolo con le radici. Quindi, dopo la discesa di uno, l'altro, che era rimasto e lassù aveva fatto giochi da solo, mi rese attonito per ancor più grande meraviglia. In ogni modo, finché entrambi avevano giocato, sembrava cosa possibile, perché, sebbene in modo mirabile, governavano con un peso uguale la pertica su cui erano saliti. Ma quel solo che rimase sulla sommità della pertica, poiché seppe equilibrare il peso così bene da giocare e discendere indenne, mi rese così stupefatto che la mia meraviglia non passò inosservata anche all'imperatore in persona. Perciò, fatto venire l'interprete, mi chiese che cosa mi paresse più straordinario: il fanciullo che si era equilibrato con sì gran misura che la pertica rimaneva immobile, oppure quello che sulla fronte aveva sorretto il tutto con tanta abilità che, né il peso, né le evoluzioni dei fanciulli lo piegarono neppure un po'. Dicendo io di non sapere che cosa mi sembrassethaumastòteron, cioè più meraviglioso, egli, scoppiato in una gran risata, rispose che similmente non lo sapeva neppure lui.
Ma nemmeno penso di dover tralasciare in silenzio quest'altra cosa che colà vidi di nuovo e straordinario. Nella settimana prima del baiophoron, che noi diciamo i rami delle palme, l'imperatore fa l'erogazione di monete d'oro sia ai militari, sia a quelli preposti ai vari uffici, a seconda del merito di ciascun ufficio (24-30 marzo 950). E poiché volle che io partecipassi all'erogazione, mi ordinò di venire. Fu una cosa di tal genere. Era stata posta una mensa di dieci cubiti di lunghezza e quattro di larghezza, che aveva le monete poste in scatolette, secondo che era dovuto a ciascuno, col numero scritto all'esterno delle medesime. Entravano alla presenza dell'imperatore non alla rinfusa, ma in ordine secondo la chiamata di colui che recitava i nomi scritti degli uomini secondo la dignità dell'ufficio. Fra questi è chiamato per primo il rettore della casa, al quale vengono posti non nelle mani ma sugli omeri le monete con quattro scaramangi (mantelli). Dopo di lui ho domestikòs tes askalónes e ho deloggáres tes ploôs, dei quali il primo è capo dei soldati, l'altro della flotta. Questi, siccome la dignità è pari, ricevono monete e mantelli in pari numero e, per la gran quantità, non li portarono già sugli omeri, ma se li trascinarono dietro a fatica con l'aiuto di altri. Dopo questi furono ammessi i magistri nel numero di ventiquattro, ai quali furono erogate libbre di monete d'oro, a ciascuno secondo lo stesso numero ventiquattro, con due mantelli. Dopo questi seguì l'ordine dei patrizi, che ricevettero in dono dodici libbre di monete con un mantello. Non so il numero dei patrizi né quello delle libbre, ma soltanto ciò che era dato a ciascuno. Dopo queste cose vien chiamata una turba immensa, deiprotospathari, degli spathari, degli spatharokandidati, dei kitoniti, dei manglaviti, dei protokarabi, dei quali uno aveva preso sette libbre, altri sei, cinque, quattro, tre, due, una libbra, secondo il grado di dignità. Non vorrei tu credessi che questa cosa si sia compiuta in un sol giorno. Si cominciò il giovedì dall'ora prima del giorno fino all'ora, quarta del venerdì e al sabato fu terminata dall'imperatore. A questi che prendono meno di una libbra, non già l'imperatore ma ilparakoimómenos distribuisce per tutta la settimana che precede la Pasqua. Assistendo io e considerando con meraviglia la cosa, l'imperatore per mezzo del logoteta mi domandò che cosa mi piacesse di questa faccenda. E a lui dissi: «Mi piacerebbe assai, se mi giovasse; come anche al ricco assetato e ardente il riposo di Lazzaro apparsogli sarebbe piaciuto se gliene fosse venuto pro; ma poiché non gliene venne, come, di grazia, avrebbe potuto piacergli?» Sorridendo l'imperatore, un po' mosso da vergogna, accennò con capo che andassi da lui e volentieri mi diede un grande pallio con una libbra di monete d'oro, che ricevetti ancor più volentieri.

a) I Germani e i regni romano-barbarici - Le infiltrazioni prima e le invasioni poi dei popoli germanici (Visigoti, Ostrogoti, Franchi, Sassoni, Burgundi, Longobardi e altri) portarono sulla scena europea un fattore nuovo che, insieme con ­la civiltà classica e con il Cristianesimo, contribuì alla formazione della nuova civiltà.
Fu una comparsa drammatica che sembrò sommergere totalmente la civiltà precedente e mandò in pezzi l’unità politica dell’Europa occidenta­le, base di tale civiltà.
Vi si sostituì una molteplicità di stati autonomi che prefigurava così la condizione politica della futura Europa.
I regni romano-barbarici si erano formati nelle ex province romane dalle invasioni del V secolo ed, inizialmente, erano stati formalmente dipendenti dall'impero.
Il regno era l'unica istituzione politica nuova elaborata dagli invasori, ma il regno barbarico non conobbe la separazione dei poteri, concentrati tutti nelle mani del re che li aveva acquisiti per diritto di conquista, al punto che la cosa pubblica tendeva a confondersi con la sua proprietà personale e la stessa nozione di regno con la persona di chi esercitava il potere politico ed assicurava la protezione militare dei sudditi, dai quali esigeva in cambio fedeltà. La monarchia dei popoli barbarici non fu territoriale bensì nazionale, ossia rappresentò chi era nato nella stessa tribù.
Nonostante il ruolo distruttivo che spesso i popoli invasori svolsero sulle terre invase, quasi tutti i nuovi regni furono estremamente vulnerabili. Alcuni, come quelli dei Burgundi o degli Svevi (Suebi), furono assimilati dai vicini; altri, come quelli dei Vandali o degli Ostrogoti, crollarono sotto l'offensiva di Bisanzio, che tentò di ricostruire l'unità dell'impero. Quelli dei Visigoti in Spagna e dei Franchi nelle ex province galliche invece sopravvissero, sia per la rapida integrazione tra le popolazione dei residenti e gli invasori, sia per la collaborazione con la Chiesa e con esponenti del mondo intellettuale latino.
In tutti questi regni l’esercito, cioè il potere effettivo, era nelle mani dei Germani con­quistatori, mentre le istituzioni giuridiche e amministrative romane continuavano a sopravvivere, anche se lo spirito che le animava non era più lo stesso, ma era quello che discendeva dalla cultura agraria e guerriera della gente ger­manica.
I più importanti regni romano-barbarici furono:
·        il regno di Odoacre[9](476-493) in Italia, cui seguì il regno degli Ostrogoti[10] (493-533), ma una più netta frattura con la civiltà latina si ebbe con l’ultima invasione germanica, quella dei Longobardi[11] del 568. Gli eccidi, le razzie, le distruzioni che accompagnarono l’occupazione violenta, il protratto conflitto con i Bizantini che ave­vano precedentemente riconquistata l’Italia con la lunga e devastante guerra greco-gotica[12] (535-553); l’anarchia dei capi Longobardi, i duchi, portarono l’Italia alle massima prostrazione. Solo in seguito allo stabilizzarsi della situazione politica e della conversione dei Longobardi al cattolicesimo, la condizione degli Italiani migliorò. L’invasione dei Longobardi e la loro incapacità di occupare tutta la penisola ebbero co­me conseguenza la fine dell’unità politica dell’Italia.
·        il regno dei Franchi[13], nel nord dell’attuale Francia, da cui nascerà, con la dinastia dei Carolingi, il più importante orga­nismo statale dell’Europa;
·        il regno dei Visigoti[14], nella Francia occidentale e in Spagna, che fu quasi totalmente spazzato via nell’VIII secolo dagli Arabi;
·        il regno dei Vandali[15], in Africa settentriona­le (Tunisia e Algeria), che nel VI secolo fu abbattuto dai Bizanti­ni nel quadro dell’opera di ricostituzione dell’unità mediterranea da parte di Giustiniano.
La violenta intrusione dei Germani apportò al mondo occidentale nuovi costumi, nuovi istituti, una diversa concezione del potere e della libertà personale e anche una nuova, prorompente vitalità. Questi elementi concorsero a dare alla civiltà europea la sua novità e la sua caratteristica di varietà, di ricchezza di articolazione e di voci, che mancarono alla ben più raffinata civiltà bizantina, che, al riparo da questa trau­matica frattura col passato, venne esaurendosi in se stessa, tanto che nei quasi dieci secoli in cui sopravvisse all’Impero d’Occidente non creò nulla di paragona­bile a ciò che l’Europa produsse dal XIII al XV secolo.
b) L’Impero Bizantino - L’Impero Romano d’Oriente[16], più comunemente chiamato Impero Bizantino, riuscì a sostenere vittoriosamente l’urto dei popoli slavi e germanici e, nell’VIII secolo, quello ancor più pericoloso degli Arabi che assediarono ben due volte Costantinopoli. Le ragioni di questa sua resistenza vanno trovate nella maggiore solidità della sua economia urbana sostenuta da un consistente traffico commer­ciale, reso sicuro dal dominio bizantino del mare, e da una produzione industriale cit­tadina. Queste condizioni assicurarono stabilità per secoli al bisante[17], la moneta bizantina, indice di una situazione finanziaria sana.
Il punto di partenza della civiltà bizantina fu proprio l’Impero romano in crisi. La nuova capitale, trasferita nell’oriente mediterraneo nel 330 d.C., era stata costruita sul modello dell’Urbe e fu proprio Costantinopoli[18] a divenire la novella Roma tenendo così in vita fino al XV secolo, pur nelle sostanziali differenze ideologiche, le grandi tradi­zioni ereditate da Roma.
Il trasferimento della capitale dell’Impero a Bisanzio fu dunque un avvenimento determinante: alla nuova capitale si volle conferire l’aspetto dell’antica Roma, perciò furono intrapresi grandiosi lavori per i quali arrivarono pittori, scultori, architetti dalla Siria e da altre province dell’Asia Minore. La nuova capitale si arricchì in breve di nuove mura, di una grande piazza e di molti edifici pubblici. Nacque dunque una Roma novella, in cui Costantino volle conciliare il potere imperiale e quello della religione cristiana, da poco riconosciuta uffi­cialmente.
Verso il VI secolo, ad opera dell’Imperatore Giustiniano[19] (527-565), Bisanzio tentò di ricostituire l’unità politica del Mediterraneo e riuscì a riconquistare le coste settentriona­li dell’Africa, le coste meridionali della Spagna, l’Italia e le sue isole, strappandole rispettivamente ai Vandali, ai Visigoti e agli Ostrogoti.
La guerra per la conquista dell’Italia fu lunga (535-553) e rovinosa e la dominazione bizantina che la seguì, inter­rotta dall’invasione dei Longobardi nel 568, fu caratterizzata da rapine e vessazioni. Ciò nonostante, dove i Bizantini resistettero, ricacciando i Longobardi, e in particolare a Ravenna e a Roma, la domi­nazione bizantina mantenne un legame con l’Impero d’Oriente che rappresentava l’organizzazione statale, il mondo civile, la cultura antica.
Bisanzio, per quasi dieci secoli, assolse il compito di baluardo della cristianità contro l’Islam, contrappose alla rozza Europa un centro di splendida raffinata civiltà, operò come agente dì diffusione del cristianesimo tra i popoli slavi, conservò le testimonianze della letteratura e della scienza greca che i suoi dotti portarono in Italia ai letterati umanisti che si mi­sero alla loro scuola per riapprendere il greco.
c) L’avanzata dell’Islam - Tra il VII e l’VIII secolo l’Europa fu sul punto di essere soffocata dall’irrompente espansione dell’Islam.
Le tribù dell’appartata e arretrata penisola araba, unificate politicamente dalla predicazione di Maometto[20] creò come lemento propulsivo dell’Islam l’esalta­zione della fede e della legge musulmana, che dovevano essere propagate con la guer­ra santa[21], che garantisce il paradiso a chi muore combattendo contro gli infedeli.
Nel 632, alla morte di Maometto, fu creato l'istituto del califfato[22] che, tra il 632 e il 661, annoverò quattro successori politici di Maometto e che, per la sua strutturazione tradizionale è ancor oggi chiamato ortodosso. Nel corso di quest'epoca furono realizzate le prime conquiste della Siria-Palestina, dell'Egitto, della Mesopotamia e di parte della Persia.
Dal 661 al 750 il califfato fu gestito invece dal clan omayyade della tribù meccana dei Quraysh.
Dal 750 al 1258 il califfato fu appannaggio del clan hascemita degli Abbasidi, più strettamente imparentato al Profeta.
Già dal IX secolo però il califfato si disintegrò per le enormi dimensioni raggiunte e per le pressioni regionalistiche. Nacque una lunga serie di Stati dinastici che furono in realtà estremamente vivaci da un punto di vista sociale, economico e culturale.
Galvanizzate  da questo fanatismo religioso, gli Arabi si lanciarono alla conquista dei più civilizzati Paesi confinanti: ad oriente sino all’Indo nel 711, ad occiden­te assoggettarono le coste settentrionali dell’Africa, dominio bizantino, per passare, attraversato lo stretto di Gibilterra nel 711, alla conquista della Spagna visigota e puntare, superati i Pirenei, al cuore del regno dei Franchi. Qui li fermò, sconfiggendoli a Poitiers, Carlo Martello[23] nel 732. Quattordici anni prima era fallito, grazie alla resistenza dell’Imperatore bizantino Leone III Isaurico[24], il tentativo arabo di prendere Costantinopoli (717-18).
La cristianità era riuscita a sottrarsi all’attanagliamento dell’Islam, che tut­tavia conseguì ancora notevoli successi, come la conquista delle grandi isole che fece del Mediterraneo un grande lago musulmano, e continuò per secoli a costituire una minaccia per le pericolose incursioni contro i paesi costieri. Però nell’Europa occidentale gli Arabi non riuscirono più ad avanzare, anzi furono, sia pure lentamente, ricacciati.
Il dominio arabo, stabilitosi per alcuni secoli nel bacino del Mediterraneo (Spagna, Africa settentrionale, Sicilia, Egitto), vi consentì la fioritura di una delle più elevate ci­viltà che il mondo abbia conosciuto. In essa confluivano culture diverse che gli Arabi avevano assimilato nel corso delle loro conquiste: elementi della civiltà greca diffusasi nel periodo ellenistico in Asia minore e nel Medio Oriente ed elementi delle culture ci­nesi e indiane. Ne risultò una civiltà originale che diede i suoi frutti sia nell’ambito delle conoscenze teoriche (filosofia, matematica, astronomia) sia di quelle applicate (medicina, alchimia), con un rapido progresso delle tecniche, particolarmente nel cam­po dell’agricoltura, ma anche in quello della lavorazione delle stoffe, della carta, del cuoio, della seta, delle armi.
Nel campo artistico gli Arabi si segnalarono soprattutto nell’architettura, come testimoniano fra l’altro l’Alhambra di Granada e l’Alcazar di Siviglia.
La Sicilia, sotto la dominazione araba protrattasi fino al 1072 quando l’isola fu occupata dai Normanni, diventò una delle regioni più progredite del mondo occidentale: la tecnica applicata all’agricoltura ne aveva fatto un unico grande giardino; Palermo fu in quell’epoca una delle città più popolate e più raffinate del mondo.
Lo splendore della civiltà araba tramontò quando agli Arabi si sostituirono i Turchi, popoli di razza mongolica che, convertiti all’Islam nell’VIII secolo, a partire dal Mille conquistò progressivamente i territori occupati dagli Arabi.

11. La Chiesa – Dopo l’editto di tolleranza emanato dall’Imperatore Costantino a Milano nel 313, la vita della Chiesa era stata turbata dalle lotte tra le diver­se confessioni. La funzione religiosa della Chiesa richiese che essa si desse una struttura gerarchica, amministrativa, politi­ca ed economica. Infatti il Papato ebbe sempre la necessità di gestire i rapporti con i re, gli Imperatori, ma anche con i signori a livello locale.
Per quel che riguarda l’Italia, il contrasto più importante fu quello fra cattolicesimo e arianesimo. Non si trattava di una semplice contrapposizione teologica in cui i cattolici affermavano la divinità di Cristo, figlio di Dio; e gli ariani vedevano in Cristo esclusivamente la natura umana, ma di un contrasto politico:
·        i sostenitori del cattolicesimo erano anche i sostenitori della tradizione romana e dell’autonomia della Chiesa nei confronti dell’Imperatore,
·        l’arianesimo, invece, che aveva i suoi seguaci particolar­mente fra le truppe germaniche, tendeva a sottoporre la Chiesa all’Imperatore come strumento politico.
La vittoria del cattolicesimo sull’arianesimo significò perciò il raf­forzarsi dell’autonomia della Chiesa di Roma, così che, quando l’Impero d’Occidente cadde, la Chiesa non fu coinvolta nella rovina.
Mentre l’assetto economico-culturale dell’Occidente diventava sem­pre più precario per la debolezza o l’assenza del potere politico, la Chiesa divenne sempre più un’istituzione autonoma, contemporaneamente erede dell’antica organizzazione civile e maestra dei barbari.
Già nel VI secolo d.C. la Chiesa di Roma era il maggior proprietario terriero dell’Occidente; dalle sue proprietà traeva i guadagni necessari alle opere di carità, alla sovvenzione delle Chiese locali più povere e al mantenimen­to della corte che si andava formando a Roma attorno al papa.
La corte papale, composta dai cardinali, dagli ecclesiastici che amministravano i beni e svolgevano funzioni diplomatiche, da intellettuali che scrivevano i documenti ufficiali, fu defini­ta Curia romana. Attraverso questa organizzazione i papi riuscirono a far ri­conoscere la loro diretta proprietà sul Patrimonio di San Pietro (le terre che si estendevano dal Lazio fino alla Romagna, attraverso l’Umbria e le Marche), nucleo del futuro Stato pontificio[25]; la Curia gestì an­che i difficili rapporti con l’Impero bizan­tino e il vescovo di Costantinopoli, che non riconosceva l’autorità del papa di Ro­ma, fino alla definitiva rottura.
La Curia, secondo le scelte dei papi, favorì anche le alleanze di Roma con i vari re del­la cristianità, molti dei quali accettavano di essere formalmente vassalli del papa in cambio del riconoscimento ufficiale del loro potere.
Fruendo di questo duplice prestigio, nelle città, durante i regni romano-barbarici, la Chiesa, in quanto erede del si­stema politico e amministrativo creato da Roma e depositaria del patrimonio culturale latino-cristiano, assunse anche il potere civile, essendo l’unica autorità sopravvissuta cui spettava il compito di fronteggiare la situazione storica, nata dal mutato rapporto tra lati­ni e barbari.
Con i Longobardi il governo delle città fu affidato ai duchi, ma nella realtà costoro furono soltanto i comandanti delle forze militari ivi stanziate ed il potere civile restò prevalentemente in mano al ve­scovo, soprattutto dopo la conversione dei Longobardi al cattolicesimo ad opera particolarmente della regina Teodolinda[26] all’inizio VII secolo.
Il duplice potere, religioso e se­colare, nelle mani degli ecclesiastici, portò alla mondanizzazione della Chiesa, fenome­no che si aggravò con l’età feudale, quando i vescovi, gli abati e i priori dei conventi assunsero anche formalmente la veste di signori.
Un’ulteriore causa della degradazione della Chiesa fu la costituzione dello Stato ponti­ficio che si sviluppò dalla donazione del castello di Sutri[27], fatta al pontefice dal re longobardo Liutprando nel 728. Trasformatosi il pontefice in un sovrano temporale, la cat­tedra di Pietro divenne l’oggetto di sfrenate e sanguinose lotte tra le grandi famiglie ro­mane. La degenerazione della Chiesa toccò il fondo tra i secoli IX e X, la cosiddetta età ferrea del Papato.
Per tutto l’alto Medioevo la Chie­sa ebbe un vero e proprio monopolio sulla cultura: fino al VII secolo gli intel­lettuali erano quasi tutti uomini di Chiesa e solo gli ecclesiastici erano in grado di leg­gere, scrivere, studiare e insegnare in strutture scolastiche, riservate a chi aveva già scelto la vita religiosa. La Chiesa ebbe quin­di il controllo della trasmissione del sape­re, in gran parte affidata all’attività degli ordini monastici e delle abbazie.
Anche quando, dal IX secolo, le richieste di istruzione si allargarono e provenivano da strati del mondo laico, fu soprattutto la Chiesa che risponde alle nuove esigenze con la creazione di scuole annesse alle se­di vescovili e alle parrocchie.

T prologo
Dalla regola di san Benedetto
Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica con impegno, in modo che tu possa tornare attraverso la solerzia dell'obbedienza a Colui dal quale ti sei allontanato per l'ignavia della disobbedienza.
Io mi rivolgo personalmente a te, chiunque tu sia, che, avendo deciso di rinunciare alla volontà propria, impugni le fortissime e valorose armi dell'obbedienza per militare sotto il vero re, Cristo Signore.
Prima di tutto chiedi a Dio con costante e intensa preghiera di portare a termine quanto di buono ti proponi di compiere, affinché, dopo averci misericordiosamente accolto tra i suoi figli, egli non debba un giorno adirarsi per la nostra indegna condotta.
Bisogna dunque servirsi delle grazie che ci concede per obbedirgli a ogni istante con tanta fedeltà da evitare, non solo che egli giunga a diseredare i suoi figli come un padre sdegnato, ma anche che, come un sovrano tremendo, irritato dalle nostre colpe, ci condanni alla pena eterna quali servi infedeli che non lo hanno voluto seguire nella gloria.
Alziamoci, dunque, una buona volta, dietro l'incitamento della Scrittura che esclama: "È ora di scuotersi dal sonno!" e aprendo gli occhi a quella luce divina ascoltiamo con trepidazione ciò che ci ripete ogni giorno la voce ammonitrice di Dio: "Se oggi udrete la sua voce, non indurite il vostro cuore!" e ancora: " Chi ha orecchie per intendere, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese!". E che dice? "Venite, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore di Dio. Correte, finché avete la luce della vita, perché non vi colgano le tenebre della morte".
Quando poi il Signore cerca il suo operaio tra la folla, insiste dicendo: "Chi è l'uomo che vuole la vita e arde dal desiderio di vedere giorni felici?". Se a queste parole tu risponderai: "Io!", Dio replicherà: "Se vuoi avere la vita, quella vera ed eterna, guarda la tua lingua dal male e le tue labbra dalla menzogna. Allontanati dall'iniquità, opera il bene, cerca la pace e seguila".
Se agirete così rivolgerò i miei occhi verso di voi e le mie orecchie ascolteranno le vostre preghiere, anzi, prima ancora che mi invochiate vi dirò: "Ecco sono qui!".
Fratelli carissimi, che può esserci di più dolce per noi di questa voce del Signore che ci chiama? Guardate come nella sua misericordiosa bontà ci indica la via della vita! Armati dunque di fede e di opere buone, sotto la guida del Vangelo, incamminiamoci per le sue vie in modo da meritare la visione di lui, che ci ha chiamati nel suo regno.
Se, però, vogliamo trovare dimora sotto la sua tenda, ossia nel suo regno, ricordiamoci che è impossibile arrivarci senza correre verso la meta, operando il bene.
Ma interroghiamo il Signore, dicendogli con le parole del profeta: "Signore, chi abiterà nella tua tenda e chi dimorerà sul tuo monte santo?".
E dopo questa domanda, fratelli, ascoltiamo la risposta con cui il Signore ci indica la via che porta a quella tenda: "Chi cammina senza macchia e opera la giustizia; chi pronuncia la verità in cuor suo e non ha tramato inganni con la sua lingua; chi non ha recato danni al prossimo, né ha accolto l'ingiuria lanciata contro di lui"; chi ha sgominato il diavolo, che malignamente cercava di sedurlo con le sue suggestioni, respingendolo dall'intimo del proprio cuore e ha impugnato coraggiosamente le sue insinuazioni per spezzarle su Cristo al loro primo sorgere; gli uomini timorati di Dio, che non si insuperbiscono per la propria buona condotta e, pensando invece che quanto di bene c'è in essi non è opera loro, ma di Dio, lo esaltano proclamando col profeta: "Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria!".
Come fece l'apostolo Paolo, che non si attribuì alcun merito della sua predicazione, ma disse:" Per grazia di Dio sono quel che sono" e ancora: "chi vuole gloriarsi, si glori nel Signore".
Perciò il Signore stesso dichiara nel Vangelo: "Chi ascolta da me queste parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio il quale edificò la sua casa sulla roccia.
E vennero le inondazioni e soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia".
Dopo aver concluso con queste parole il Signore attende che, giorno per giorno, rispondiamo con i fatti alle sue sante esortazioni. Ed è proprio per permetterci di correggere i nostri difetti che ci vengono dilazionati i giorni di questa vita secondo le parole dell'Apostolo: "Non sai che con la sua pazienza Dio vuole portarti alla conversione?"
Difatti il Signore misericordioso afferma: "Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva".
Dunque, fratelli miei, avendo chiesto al Signore a chi toccherà la grazia di dimorare nella sua tenda, abbiamo appreso quali sono le condizioni per rimanervi, purché sappiamo comportarci nel modo dovuto.
Perciò dobbiamo disporre i cuori e i corpi nostri a militare sotto la santa obbedienza.
Per tutto quello poi, di cui la nostra natura si sente incapace, preghiamo il Signore di aiutarci con la sua grazia.
E se vogliamo arrivare alla vita eterna, sfuggendo alle pene dell'inferno, finche c'è tempo e siamo in questo corpo e abbiamo la possibilità di compiere tutte queste buone azioni, dobbiamo correre e operare adesso quanto ci sarà utile per l'eternità.
Bisogna dunque istituire una scuola del servizio del Signore nella quale ci auguriamo di non prescrivere nulla di duro o di gravoso; ma se, per la correzione dei difetti o per il mantenimento della carità, dovrà introdursi una certa austerità, suggerita da motivi di giustizia, non ti far prendere dallo scoraggiamento al punto di abbandonare la via della salvezza, che in principio è necessariamente stretta e ripida.
Mentre invece, man mano che si avanza nella vita monastica e nella fede, si corre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall'indicibile sovranità dell'amore.
Così, non allontanandoci mai dagli insegnamenti di Dio e perseverando fino alla morte nel monastero in una fedele adesione alla sua dottrina, partecipiamo con la nostra sofferenza ai patimenti di Cristo per meritare di essere associati al suo regno.

E' noto che ci sono quattro categorie di monaci.
La prima è quella dei cenobiti, che vivono in un monastero, militando sotto una regola e un abate. La seconda è quella degli anacoreti o eremiti, ossia di coloro che non sono mossi dall'entusiastico fervore dei principianti, ma sono stati lungamente provati nel monastero, dove con l'aiuto di molti hanno imparato a respingere le insidie del demonio; quindi, essendosi bene addestrati tra le file dei fratelli al solitario combattimento dell'eremo, sono ormai capaci, con l'aiuto di Dio, di affrontare senza il sostegno altrui la lotta corpo a corpo contro le concupiscenze e le passioni.
La terza categoria di monaci, veramente detestabile è formata dai sarabaiti: molli come piombo, perché non sono stati temprati come l'oro nel crogiolo dell'esperienza di una regola, costoro conservano ancora le abitudini mondane, mentendo a Dio con la loro tonsura.
A due a due, a tre a tre o anche da soli, senza la guida di un superiore, chiusi nei loro ovili e non in quello del Signore, hanno come unica legge l'appagamento delle proprie passioni, per cui chiamano santo tutto quello che torna loro comodo, mentre respingono come illecito quello che non gradiscono.
C'è infine una quarta categoria di monaci, che sono detti girovaghi, perché per tutta la vita passano da un paese all'altro, restando tre o quattro giorni come ospiti nei vari monasteri, sempre vagabondi e instabili, schiavi delle proprie voglie e dei piaceri della gola, peggiori dei sarabaiti sotto ogni aspetto.
Ma riguardo alla vita sciagurata di tutti costoro è preferibile tacere piuttosto che parlare. Lasciamoli quindi da parte e con l'aiuto del Signore occupiamoci dell'ordinamento della prima categoria, ossia quella fortissima e valorosa dei cenobiti.

T Arrivo all’abbazia
Era una bella mattina di fine novembre. Nella notte aveva nevicato un poco, ma il terreno era coperto di un velo fresco non più alto di tre dita. Al buio, subito dopo laudi[28], avevamo ascoltato la messa in un villaggio a valle. Poi ci eravamo messi in viaggio verso le montagne, allo spuntar del sole.
Come ci inerpicavamo per il sentiero scosceso che si snodava intorno al monte, vidi l’abbazia. Non mi stupirono di essa le mura che la cingevano da ogni lato, simili ad altre che vidi in tutto il mondo cristiano, ma la mole di quello che poi appresi essere l’Edificio. Era questa una costruzione ottagonale che a distanza appariva come un tetragono[29] (figura perfettissima che esprime la saldezza e l’imprendibilità della Città di Dio), i cui lati meridionali si ergevano sul pianoro dell’abbazia, mentre quelli settentrionali sembravano crescere dalle falde stesse del monte, su cui s’innervavano[30] a strapiombo. Dico che in certi punti, dal basso, sembrava che la roccia si prolungasse verso il cielo, senza soluzione di tinte e di materia, e diventasse a un certo punto mastio e torrione (opera di giganti che avessero gran familiarità e con la terra e col cielo). Tre ordini di finestre dicevano il ritmo trino della sua sopraelevazione, così che ciò che era fisicamente quadrato sulla terra, era spiritualmente triangolare nel cielo[31]. Nell’appressarvici maggiormente, si capiva che la forma quadrangolare generava, a ciascuno dei suoi angoli, un torrione eptagonale[32], di cui cinque lati si protendevano all’esterno – quattro dunque degli otto lati dell’ottagono maggiore generando quattro eptagoni minori, che all’esterno si manifestavano come pentagoni. E non è chi non veda l’ammirevole concordia di tanti numeri santi, ciascuno rivelante un sottilissimo senso spirituale. Otto il numero della perfezione d’ogni tetragono, quattro il numero dei vangeli, cinque il numero delle zone del mondo, sette il numero dei doni dello Spirito Santo. Per la mole, e per la forma, l’Edificio mi apparve come più tardi avrei visto nel sud della penisola italiana Castel Ursino o Castel dal Monte[33], ma per la posizione inaccessibile era di quelli più tremendo, e capace di generare timore nel viaggiatore che vi si avvicinasse a poco a poco. E fortuna che, essendo una limpidissima mattinata invernale, la costruzione non mi apparve quale la si vede nei giorni di tempesta.
Non dirò comunque che essa suggerisse sentimenti di giocondità. Io ne trassi spavento, e una inquietudine sottile. Dio sa che non erano fantasmi dell’animo mio immaturo, e che rettamente interpretavo indubitabili presagi iscritti nella pietra, sin dal giorno che i giganti vi posero mano, e prima che la illusa volontà dei monaci ardisse consacrarla alla custodia della parola divina[34]. Mentre i nostri muletti arrancavano per l’ultimo tornante della montagna, là dove il cammino principale si diramava a trivio, generando due sentieri laterali, il mio maestro si arrestò per qualche tempo, guardandosi intorno ai lati della strada, e sulla strada, e sopra la strada, dove una serie di pini sempreverdi formava per un breve tratto un tetto naturale, canuto di neve.
“Abbazia ricca,” disse. “All’Abate piace apparire bene nelle pubbliche occasioni”. Abituato come ero a sentirlo fare le più singolari affermazioni, non lo interrogai. Anche perché, dopo un altro tratto di strada, udimmo dei rumori, e a una svolta apparve un agitato manipolo di monaci e di famigli[35]. Uno di essi, come ci vide, ci venne incontro con molta urbanità[36]: “Benvenuto signore,” disse, “e non vi stupite se immagino chi siete, perché siamo stati avvertiti della vostra visita. Io sono Remigio da Varagine, il cellario[37] del monastero. E se voi siete, come credo, frate Guglielmo da Bascavilla, l’Abate dovrà esserne avvisato. Tu,” ordinò rivolto a uno del seguito, “risali ad avvertire che il nostro visitatore sta per entrare nella cinta!”
“Vi ringrazio, signor cellario,” rispose cordialmente il mio maestro, “e tanto più apprezzo la vostra cortesia in quanto per salutarmi avete interrotto l’inseguimento. Ma non temete, il cavallo è passato di qua e si è diretto per il sentiero di destra. Non potrà andar molto lontano perché, arrivato al deposito dello strame[38], dovrà fermarsi. È troppo intelligente per buttarsi lungo il terreno scosceso…”
“Quando lo avete visto?” domandò il cellario.
“Non l’abbiamo visto affatto, non è vero Adso?” disse Guglielmo volgendosi verso di me con aria divertita. “Ma se cercate Brunello, l’animale non può che essere là dove io ho detto.” Il cellario esitò.
Guardò Guglielmo, poi il sentiero, e infine domandò: “Brunello? Come sapete?”.
“Suvvia,” disse Guglielmo, “è evidente che state cercando Brunello, il cavallo preferito dall’Abate, il miglior galoppatore della vostra scuderia, nero di pelo, alto cinque piedi, dalla coda sontuosa, dallo zoccolo piccolo e rotondo ma dal galoppo assai regolare; capo minuto, orecchie sottili ma occhi grandi. È andato a destra, vi dico, e affrettatevi, in ogni caso.”
Il cellario ebbe un momento di esitazione, poi fece un segno ai suoi e si gettò giù per il sentiero di destra, mentre i nostri muli riprendevano a salire. Mentre stavo per interrogare Guglielmo, perché ero morso dalla curiosità, egli mi fece cenno di attendere: e infatti pochi minuti dopo udimmo grida di giubilo, e alla svolta del sentiero riapparvero monaci e famigli riportando il cavallo per il morso.
Ci passarono di fianco continuando a guardarci alquanto sbalorditi e ci precedettero verso l’abbazia. Credo anche che Guglielmo rallentasse il passo alla sua cavalcatura per permettere loro di raccontare quanto era accaduto. Infatti avevo avuto modo di accorgermi che il mio maestro, in tutto e per tutto uomo di altissima virtù, indulgeva al vizio della vanità quando si trattava di dar prova del suo acume e, avendone già apprezzato le doti di sottile diplomatico, capii che voleva arrivare alla meta preceduto da una solida fama di uomo sapiente.
“E ora ditemi,” alla fine non seppi trattenermi, “come avete fatto a sapere?”
“Mio buon Adso,” disse il maestro. “È tutto il viaggio che ti insegno a riconoscere le tracce con cui il mondo ci parla come un grande libro. […] Al trivio, sulla neve ancora fresca, si disegnavano con molta chiarezza le impronte degli zoccoli di un cavallo, che puntavano verso il sentiero alla nostra sinistra. A bella e uguale distanza l’uno dall’altro, quei segni dicevano che lo zoccolo era piccolo e rotondo, e il galoppo di grande regolarità – così che ne dedussi la natura del cavallo, e il fatto che esso non correva disordinatamente come fa un animale imbizzarrito. Là dove i pini formavano una tettoia naturale, alcuni rami erano stati spezzati di fresco giusto all’altezza di cinque piedi. Uno dei cespugli di more, là dove l’animale deve aver girato per infilare il sentiero alla sua destra, mentre fieramente scuoteva la sua bella coda, tratteneva ancora tra gli spini dei lunghi crini nerissimi… Non mi dirai infine che non sai che quel sentiero conduce al deposito dello strame, perché salendo per il tornante inferiore abbiamo visto la bava dei detriti scendere a strapiombo ai piedi del torrione orientale, bruttando[39] la neve; e così come il trivio era disposto, il sentiero non poteva che condurre in quella direzione.”
“Sì,” dissi, “ma il capo piccolo, le orecchie aguzze, gli occhi grandi…”
“Non so se li abbia, ma certo i monaci lo credono fermamente. Diceva Isidoro di Siviglia che la bellezza di un cavallo esige ‘ut sit exiguum caput et siccum prope pelle ossibus adhaerente, aures breves et argutae, oculi magni, nares patulae, erecta cervix, coma densa et cauda, ungularum soliditate fixa rotunditas[40]’. Se il cavallo di cui ho inferito[41] il passaggio non fosse stato davvero il migliore della scuderia, non spiegheresti perché a inseguirlo non sono stati solo gli stallieri, ma si è incomodato addirittura il cellario. E un monaco che considera un cavallo eccellente, al di là delle forme naturali, non può non vederlo così come le auctoritates[42] glielo hanno descritto, specie se”, e qui sorrise con malizia al mio indirizzo, “è un dotto benedettino…” “Va bene,” dissi, “ma perché Brunello?”
“Che lo Spirito Santo ti dia più sale in zucca di quel che hai, figlio mio!” esclamò il maestro.
“Quale altro nome gli avresti dato se persino il grande Buridano17, che sta per diventare rettore a Parigi, dovendo parlare di un bel cavallo, non trovò nome più naturale?”
Così era il mio maestro. Non soltanto sapeva leggere nel gran libro della natura, ma anche nel modo in cui i monaci leggevano i libri della scrittura, e pensavano attraverso di quelli. Dote che, come vedremo, gli doveva tornar assai utile nei giorni che sarebbero seguiti. La sua spiegazione inoltre mi parve a quel punto tanto ovvia che l’umiliazione per non averla trovata da solo fu sopraffatta dall’orgoglio di esserne ormai compartecipe e quasi mi congratulai con me stesso per la mia acutezza. Tale è la forza del vero che, come il bene, è diffusivo di sé. E sia lodato il nome santo del nostro signore Gesù Cristo per questa bella rivelazione che ebbi.

T Lo scriptorium
Mentre salivamo vidi che il mio maestro osservava le finestre che davano luce alla scala. Stavo probabilmente diventando abile come lui, perché mi avvidi subito che la loro disposizione difficilmente avrebbe consentito a qualcuno di raggiungerle. D’altra parte neppure le finestre che si aprivano nel refettorio (le uniche che dal primo piano dessero sullo strapiombo) parevano facilmente raggiungibili, dato che sotto di esse non vi erano mobili di sorta.
Arrivati al sommo della scala entrammo, per il torrione settentrionale, allo scriptorium e quivi non potei trattenere un grido di ammirazione. Il secondo piano non era bipartito come quello inferiore e si offriva quindi ai miei sguardi in tutta la sua spaziosa immensità. Le volte, curve e non troppo alte (meno che in una chiesa, più tuttavia che in ogni altra sala capitolare che mai vidi), sostenute da robusti pilastri, racchiudevano uno spazio soffuso di bellissima luce, perché tre enormi finestre si aprivano su ciascun lato maggiore, mentre cinque finestre minori traforavano ciascuno dei cinque lati esterni di ciascun torrione; otto finestre alte e strette, infine, lasciavano che la luce entrasse anche dal pozzo ottagonale interno.
L’abbondanza di finestre faceva sì che la gran sala fosse allietata da una luce continua e diffusa, anche se si era in un pomeriggio d’inverno. Le vetrate non erano colorate come quelle delle chiese, e i piombi di riunione fissavano riquadri di vetro incolore, perché la luce entrasse nel modo più puro possibile, non modulata dall’arte umana, e servisse al suo scopo, che era di illuminare il lavoro della lettura e della scrittura. Vidi altre volte e in altri luoghi molti scriptoria, ma nessuno in cui così luminosamente rifulgesse, nelle colate di luce fisica che facevano risplendere l’ambiente, lo stesso principio spirituale che la luce incarna, la claritas, fonte di ogni bellezza e sapienza, attributo inscindibile di quella proporzione che la sala manifestava. Perché tre cose concorrono a creare la bellezza: anzitutto l’integrità o perfezione, e per questo reputiamo brutte le cose incomplete; poi la debita proporzione ovvero la consonanza; e infine la clarità e la luce, e infatti chiamiamo belle le cose di colore nitido. E siccome la visione del bello comporta la pace, e per il nostro appetito è la stessa cosa acquetarsi nella pace, nel bene o nel bello, mi sentii pervaso di grande consolazione e pensai quanto dovesse essere piacevole lavorare in quel luogo.
Quale apparve ai miei occhi, in quell’ora meridiana, esso mi sembrò un gioioso opificio di sapienza. Vidi poi in seguito a San Gallo uno scriptorium di simili proporzioni, separato dalla biblioteca (in altri luoghi i monaci lavoravano nel luogo stesso dove erano custoditi i libri), ma non come questo bellamente disposto. Antiquarii[43], librarii[44], rubricatori[45] e studiosi stavano seduti ciascuno al proprio tavolo, un tavolo sotto ciascuna delle finestre. E siccome le finestre erano quaranta (numero veramente perfetto dovuto alla decuplicazione del quadragono, come se i dieci comandamenti fossero stati magnificati dalle quattro virtù cardinali) quaranta monaci avrebbero potuto lavorare all’unisono, anche se in quel momento erano appena una trentina. Severino ci spiegò che i monaci che lavoravano allo scriptorium erano dispensati dagli uffici di terza, sesta e nona per non dover interrompere il loro lavoro nelle ore di luce, e arrestavano le loro attività solo al tramonto, per vespro[46].
I posti più luminosi erano riservati agli antiquarii, gli alluminatori[47] più esperti, ai rubricatori e ai copisti. Ogni tavolo aveva tutto quanto servisse per miniare e copiare: corni da inchiostro, penne fini che alcuni monaci stavano affinando con un coltello sottile, pietrapomice per rendere liscia la pergamena, regoli per tracciare le linee su cui si sarebbe distesa la scrittura. Accanto a ogni scriba, o al culmine del piano inclinato di ogni tavolo, stava un leggio, su cui posava il codice da copiare, la pagina coperta da mascherine che inquadravano la linea che in quel momento veniva trascritta. E alcuni avevano inchiostri d’oro e di altri colori. Altri invece stavano solo leggendo libri, e trascrivevano appunti su loro privati quaderni o tavolette.
Non ebbi peraltro il tempo di osservare il loro lavoro, perché ci venne incontro il bibliotecario, che già sapevamo essere Malachia da Hildesheim. Il suo volto cercava di atteggiarsi a una espressione di benvenuto, ma non potei trattenermi dal fremere di fronte a una così singolare fisionomia. La sua figura era alta e, benché estremamente magra, le sue membra erano grandi e sgraziate. Come procedeva a grandi passi, avvolto nelle nere vesti dell’ordine, v’era qualcosa di inquietante nel suo aspetto. Il cappuccio, che venendo di fuori aveva ancora levato, gettava un’ombra sul pallore del suo volto e conferiva un non so che di doloroso ai suoi grandi occhi melanconici. Vi erano nella sua fisionomia come le tracce di molte passioni che la volontà aveva disciplinato ma che sembravano aver fissato quei lineamenti che ora avevano cessato di animare. Mestizia e severità predominavano nelle linee del suo volto e i suoi occhi erano così intensi che a un solo sguardo potevano penetrare il cuore di chi gli parlava, e leggergli i segreti pensieri, così che difficilmente si poteva tollerare la loro indagine e si era tentati di non incontrarli una seconda volta.
Il bibliotecario ci presentò a molti dei monaci che stavano in quel momento al lavoro. Di ciascuno Malachia ci disse anche il lavoro che stava compiendo e di tutti ammirai la profonda devozione al sapere e allo studio della parola divina. Conobbi così Venanzio da Salvemec, traduttore dal greco e dall’arabo, devoto di quell’Aristotele che certamente fu il più saggio di tutti gli uomini. Bencio da Upsala, un giovane monaco scandinavo che si occupava di retorica. Berengario da Arundel, l’aiuto del bibliotecario. Aymaro da Alessandria, che stava ricopiando opere che solo per pochi mesi sarebbero state in prestito alla biblioteca, e poi un gruppo di miniatori di vari paesi, Patrizio da Clonmacnois, Rabano da Toledo, Magnus da Iona, Waldo da Hereford[48].
L’elenco potrebbe certo continuare e nulla vi è di più meraviglioso dell’elenco, strumento di mirabili ipotiposi[49]. Ma devo venire all’argomento delle nostre discussioni, dal quale emersero molte indicazioni utili per capire la sottile inquietudine che aleggiava tra i monaci, e un non so che di inespresso che gravava su tutti i loro discorsi.
Il mio maestro iniziò a discorrere con Malachia lodando la bellezza e l’operosità dello scriptorium e chiedendogli notizie sull’andamento del lavoro che ivi si compiva perché, disse con molta accortezza, aveva udito parlare ovunque di quella biblioteca e avrebbe voluto esaminare molti dei libri. Malachia gli spiegò quello che già l’Abate aveva detto, che il monaco chiedeva al bibliotecario l’opera da consultare e questi sarebbe andato a reperirla nella biblioteca superiore, se la richiesta fosse stata giusta e pia. Guglielmo domandò come poteva conoscere il nome dei libri custoditi negli armaria soprastanti, e Malachia gli mostrò, fissato da una catenella d’oro al suo tavolo, un voluminoso codice coperto di elenchi fittissimi.
Guglielmo infilò le mani nel saio, dove esso si apriva sul petto a formare una sacca, e ne trasse un oggetto che già gli avevo visto tra le mani, e sul volto, nel corso del viaggio. Era una forcella, costruita così da potere stare sul naso di un uomo (e meglio ancora sul suo, così prominente e aquilino) come un cavaliere sta in groppa al suo cavallo o come un uccello su un trespolo. E ai due lati della forcella, in modo da corrispondere agli occhi, si espandevano due cerchi ovali di metallo, che rinserravano due mandorle di vetro spesse come fondi di bicchiere. Con quelli sugli occhi Guglielmo, di preferenza, leggeva, e diceva di vedere meglio di quanto natura lo avesse dotato, o di quanto l’età sua avanzata, specie quando declinava la luce del giorno, gli consentisse. Né gli servivano per vedere da lontano, che anzi aveva l’occhio acutissimo, ma per vedere da vicino. Con quelli egli poteva leggere manoscritti vergati in lettere sottilissime, che quasi faticavo anch’io a decifrare. Mi aveva spiegato che, giunto che fosse l’uomo oltre la metà della vita, anche se la sua vista era stata sempre ottima, l’occhio si induriva e riluttava ad adattar la pupilla, così che molti sapienti erano come morti alla lettura e alla scrittura dopo la loro cinquantesima primavera. Grave iattura per uomini che avrebbero potuto dare il meglio della loro intelligenza per molti anni ancora. Per cui si doveva lodare il Signore che qualcuno avesse La descrizione degli occhiali di Guglielmo: un vezzo che stava diventando di grande utilità, come abbiamo visto nella sezione dedicata alla completezza del testo. E me lo diceva per sostenere le idee del suo Ruggiero Bacone[50], quando diceva che lo scopo della sapienza era anche prolungare la vita umana. Gli altri monaci guardarono Guglielmo con molta curiosità, ma non ardirono porgli domande. E io mi avvidi che, anche in un luogo così gelosamente e orgogliosamente dedicato alla lettura e alla scrittura, quel mirabile strumento non era ancora penetrato. E mi sentii fiero di essere al seguito di un uomo che aveva qualcosa con cui stupire altri uomini famosi nel mondo per la loro saggezza. Con quegli oggetti sugli occhi, Guglielmo si chinò sugli elenchi stilati nel codice. Guardai anch’io, e scoprimmo titoli di libri mai uditi, e altri di celeberrimi, che la biblioteca possedeva.

12. I monasteri benedettini - Importanti centri di resistenza alla degradazione della vita civile furono i monasteri benedettini che si diffusero in tutta Europa a partire dalla fondazione del primo a Montecassino nel 528 ad opera di San Benedetto da Norcia (480-547). La regola[51] che egli dettò per i suoi monaci che costituivano una comunità ra­zionalmente organizzata, imponeva, accanto alla preghiera e alla meditazione, il lavo­ro manuale e intellettuale.
Dall’inizio del VI secolo la so­cietà intera fu modificata dall’impo­nente diffusione degli ordini monastici che fondarono in tutta Europa centinaia di conventi, dove si radunarono grandi mas­se di monaci.
Queste comunità si collocarono in genere nelle campagne, inizialmente su terreni loro concessi da feudatari, vescovi, re e papi; ben presto di­vennero i centri più attivi non solo dal punto di vista religioso, ma anche economico. I monasteri benedettini crearono infatti organizzate e potenti aziende agricole, alle quali si dovette il dissodamento e la bonifica di terre strappate al­le selve e alle paludi.
Molti monasteri crebbero enormemente, sia per il disso­damento di terreni resi coltivabili, sia per le continue donazioni e concessioni fatte dai signori locali; perciò fu necessaria una rigida organizzazione gerarchica, in cima alla quale si pose l’abate, il religioso che aveva il governo della comunità e dei suoi beni che, nel complesso, presero il nome di abbazia. Alcune di queste giunsero a controllare territori vasti come grandi feu­di e i loro abati esercitarono un potere pa­ri a quello di baroni o marchesi.
Accanto alla chiesa abbaziale e al convento, sorse­ro molti altri edifici: biblioteche, magazzi­ni, botteghe artigianali e anche veri opifici per la fabbricazione di merci. Molte ab­bazie ebbero anche un’importanza strate­gica e furono fortificate.
I monasteri furono i principali luoghi del­la conservazione e della trasmissione del sapere; i più importanti avevano una bi­blioteca e provvedevano, nello scriptorium, alla trascrizione e allo studio dei ma­noscritti di testi sacri, ma anche di opere profane. I monaci che operavano nello scriptorium avevano mansioni distinte ed erano spesso affiancati da amanuensi sa­lariati; diverse erano le competenze e le re­sponsabilità culturali poiché la scelta dei testi da ricopiare era di fatto una selezione delle opere che si ritenevano degne di es­sere tramandate.
Furono oasi in cui si salvò l’ideale di ordine, di vita regolata dalla legge, che costituiva la più cospicua eredità della cultura romana in un mondo in preda al disordine e alla violenza.
I monaci, più dei vescovi cittadini, ebbero il merito della conversione del­le popolazioni rurali ancora pagane, favoriti dalla vicinanza ai contadini e dalla maggior comprensione per la loro cultura e il monastero, con il declino del primato della città, prese il posto del vescovado come centro della vita religiosa e dell’organizzazione ecclesiastica; nelle biblioteche dei conventi, infine, sopravvissero i documenti della cultura antica.
I monasteri ebbero una funzione di primaria importanza per la circola­zione non solo delle idee, ma anche delle tecniche e dei linguaggi figu­rativi in tutto l’Occidente.
Nelle isole britanniche, dove dalla metà del V secolo si erano insedia­ti gli angli e i sassoni, ebbe un ruolo determinante, per il tramandarsi delle tradizioni letterarie antiche e per la produzione di opere miniate, l’apostolato dei monaci irlandesi;
fra questi spicca la figura di San Colombano (540-615), infaticabile missionario e viaggiatore che fondò, fra l’altro, l’abbazia di Bobbio, centro propagatore di spiritualità ma anche di copiatura e decorazione di straordinari codici miniati.
I frequenti spostamenti dei monaci irlande­si e anglosassoni da un monastero all’altro della Britannia e del continente favorirono gli scambi e gli influssi reciproci fra i più attivi centri scrittori del continente e quelli delle isole britanniche. I monasteri divennero un luogo d’incontro e di scambio culturale tra monaci che passava­no da un’abbazia ad un’altra e nei luoghi di so­sta dei grandi pellegrinaggi.

T Ritratto di Carlo Magno
(da Eginardo, Vita di Carlo Magno)
Ebbe un corpo largo e robusto, statura alta, ma tuttavia non sproporzionata (risulta infatti che la sua altezza misurasse sette volte il suo piede), la sommità del capo rotonda, gli occhi assai grandi e vivaci, il naso un po’ lungo del normale, una bella chioma bianca, un volto piacevole e gioviale, che gli conferiva un aspetto molto autorevole e dignitoso sia quando stava in piedi sia quando era seduto. Sebbene il suo collo potesse sembrare grasso e troppo corto, e il suo ventre alquanto prominente, tuttavia le misure proporzionalmente corrispondenti delle altre membra non facevano notare quei difetti. Aveva ferma andatura e tutto l’atteggiamento del corpo virile, la voce era chiara, ma la meno adatta al suo aspetto fisico. Di salute buona, solo prima di morire, e per quattro anni, fu spesso colto dalla febbre, e alla fine zoppicava anche da un piede. E anche allora faceva più come gli pareva che come lo consigliavano i medici, che gli erano praticamente odiosi, perché lo esortavano a smettere di mangiare arrosti.
Praticava assiduamente l’equitazione e la caccia, esercizi che erano i lui connaturati, perché sulla terra non si trova forse alcun popolo che in quest’attività possa paragonarsi ai Franchi. Gli piacevano anche i bagni di vapore di acque termali e spesso esercitava il suo corpo nel nuoto, del quale era così esperto da non essere superato da alcuno. Anche per questo motivo costruì in Aquisgrana una reggia, nella quale abitò ininterrottamente negli ultimi anni di vita, fino alla morte. E invitava al bagno non solo i suoi figli, ma anche i nobili e gli amici, e qualche volta anche la folla dei soldati di scorta e delle guardie del corpo, cosicché talora prendevano il bagno insieme cento persone e anche di più.
Indossava il costume nazionale dei Franchi: a contatto del corpo portava una camicia di lino e mutande di lino; di sopra, una tunica orlata di seta e calzoni; poi avvolgeva le gambe con fascette e i piedi con calzari; d’invero proteggeva le spalle e il petto con un farsetto[52] di pelle di lontra o di topo; indossava un mantello azzurro e cingeva sempre una daga[53], che aveva l’elsa e la bandoliera d’oro e d’argento. Talora si serviva anche di una spada ornata di gemme, ma soltanto in occasione delle feste principali e dei ricevimenti di ambasciatori stranieri.
Disdegnava gl’indumenti forestieri, anche se erano bellissimi, non volle mai vestirsene, tranne che a Roma, dove, una volta su richiesta di papa Adriano e un’altra per preghiera del suo successore Leone [III], indossò una tunica lunga e una clamide[54] e si mise anche scarpe di foggia romana. Nei giorni di festa andava coperto di una veste ricamata d’oro, portava calzari adorni di gemme, fermava il mantello con una fibbia d’oro e si ornava anche di un diadema d’oro e di pietre preziose; negli altri giorni, invece, il suo abbigliamento differiva poco da quello comune e popolare.
Era moderato nel mangiare e nel bere, ma più moderato nel bere, tanto che aveva in odio l’ubriachezza in qualsiasi uomo, non solo in sé e nei suoi. Mentre nel mangiare non riusciva a fare altrettanto, e spesso si lamentava che i digiuni erano nocivi al suo fisico. Mangiava a banchetto molto di rado, e questo solo nelle principali feste, allora però con un gran numero di persone. La cena di ogni giorno era di quattro portate, a parte l’arrosto, che i cacciatori erano soliti infilzare allo spiedo, e che egli mangiava molto più volentieri di qualsiasi altro cibo. Mentre cenava stava ad ascoltare qualche artista o lettore. Gli veniva lette le storie e le gesta degli antichi. Gli piacevano anche i libri di sant’Agostino, soprattutto quelli intitolati La città  di Dio. Era così modesto nel bere, sia vino che altro, che durante la cena di rado beveva più di tre volte. D’estate, dopo il pasto di mezzogiorno, prendeva un po’ di frutta e beveva una volta sola, poi levatisi vesti e calzari, come era solito fare la notte, riposava per due o tre ore.
La notte dormiva poi interrompendo il sonno quattro o cinque volte, e non soltanto si svegliava, ma anche si alzava dal letto. Mentre si alzava o si vestiva, ammetteva alla sua presenza gli amici; non solo, perché se il conte di palazzo gli diceva che c’era in corso qualche procedimento che non poteva essere definito senza il suo imperio, ordinava di introdurre immediatamente i contendenti, come se sedesse in tribunale, e conosciuti i termini della disputa dava la sua sentenza; e in quei momenti non solo sbrigava cose del genere, ma anche qualsiasi ordine ci fosse da dare a qualche subalterno.
Era dotato di eloquio facile ed esuberante ed era capace di esprimere con la più grande chiarezza tutto ciò che voleva. Non contento di conoscere soltanto la propria lingua materna, si dedicò anche allo studio delle lingue straniere, tra le quali apprese così bene la latina, che abitualmente si esprimeva con uguale padronanza in questa lingua o nella sua lingua materna, mentre la greca era in grado di capirla più che di parlarla. E in verità aveva una tale facilità di parola, da apparire un po’ prolisso.
Coltivò le arti liberali con grande passione, e poiché nutriva una profonda venerazione per coloro che le insegnavano, tributava loro grandi onori. Per lo studio della grammatica, ascoltò le lezioni del diacono[55] Pietro da Pisa, che allora era vecchio; per le altre discipline ebbe come maestro Albino, detto Alcuino, anche lui diacono, un Sassone venuto dalla Bretagna, l’uomo più dotto in qualsiasi campo; sotto la sua guida spese moltissimo tempo e fatica nello studio della retorica, della dialettica e particolarmente dell’astronomia. Si dedicava all’apprendimento dell’arte del calcolo e con estrema curiosità indagava il corso degli astri, applicandovisi con la sua acuta intelligenza. Tentò anche di scrivere, e a questo scopo aveva l’abitudine di spargere sotto i guanciali del suo letto tavolette e foglietti di pergamena, per abituare la mano a tracciare le lettere, quando aveva un po’ di tempo libero; ma quest’applicazione, iniziata troppo tardi, ebbe poco successo.
Praticò col più grande scrupolo e col più alto fervore la religione cristiana, nella quale era stato educato fin dall’infanzia. Appunto per ciò innalzò in Aquisgrana[56] una basilica di eccezionale bellezza, che adornò d’oro e d’argento, di lampadari e di balaustrate e porte di bronzo massiccio. Poiché non poteva procurarsi altrove le colonne e i marmi necessari alla sua costruzione, li fece trasportare da Roma e da Ravenna. Frequentava assiduamente la chiesa al mattino e alla sera, sia agli uffici notturni che alla messa, finché glielo permise la salute, e curava molto che tutto quel che vi si celebrava fosse nel massimo decoro, ammonendo continuamente i custodi a non permettere che fosse introdotto o rimanesse nella chiesa mai nulla di indecoroso o riprovevole. Procurò alla basilica tale quantità di vasi sacri in oro e argento e di vesti sacerdotali, che neppure gli ostiari, che sono gli ultimi nella scala degli ordini ecclesiastici, ebbero mai necessità, durante le messe, di celebrare senza abiti di cerimonia.
Curò e perfezionò con grande zelo la disciplina delle letture e del canto. Era infatti molto preparato in ambedue le arti, sebbene egli stesso non leggesse pubblicamente né cantasse mai se non sommessamente e insieme con gli altri.

13. Il Sacro Romano Impero - Il regno dei Franchi, che aveva riacquistato la sua unità e potenza grazie all’opera dei fondatori della dinastia carolingia[57] (Pipino di Heristal e Carlo Martello, il vincitore degli Arabi), fu, nei secoli VIII e IX, il vero centro ove si elaborò la nuova cultura medioevale.
L’alleanza fra la monarchia franca e il Papato, che fece dei Franchi la spada della Santa Sede e i difensori e organizzatori della cristianità, stette alla base della nascita di quella che fu, accanto alla Chiesa, la massima isti­tuzione medioevale: il Sacro Romano Impero.
Esso fu fondato da Carlo Magno[58] (742-814) con l’intento di ricostituire, al di sopra dei singoli regni, l’unità politica del continente. In realtà esso era limitato nella sua estensione a una piccola parte dell’odierna Europa: comprendeva
·        il regno dei Franchi, il regno dei Longobardi, di cui Carlo Magno assunse la corona dopo averli sconfitti,
·        il territorio dei Sassoni assogget­tati,
·        al di là dei Pirenei, la Marca spagnola, baluardo contro gli Arabi che Carlo aveva respinto dalla Francia.
L’Impero però era universale nell’intenzione, nel senso che esso doveva estendersi a tutta la cristianità, i cui confini dovevano coincidere con quelli dell’umanità.
Lo Stato che così nasceva doveva rap­presentare, nel programma di Carlo Magno, la restaurazione dell’antico Impero roma­no[59], alla cui tradizione Carlo si ricollegava come erede dei Cesari. In realtà esso ne differiva profondamente: era infatti un agglomerato di popoli con leg­gi e forme amministrative diverse, la cui unità era costituita esclusivamente dalla comu­ne fede cattolica che giustificava l’appellativo di sacro con cui veniva denominato.
L’Imperatore era la spada che difendeva il cristianesimo contro gli infedeli i quali erano assoggettati e convertiti a forza, come i Sassoni, o ricacciati al di là dei Pirenei fino all’Ebro, come gli Arabi musulmani.

14. Il trattato di Verdun: la nascita dell’Europa - Alla morte di Carlo Magno l’Impero fu travagliato da un seguito di guerre fra gli eredi per la successione. Un momento stori­camente importante fu il trattato di Verdun[60] dell’843, che, con la tripartizione dell’Impero in:
·        regno dei Franchi
·        regno dei Germani
·        regno d’Italia, con annessa la Lotaringia (territorio compreso tra la Francia e la Germania, corrispondente in parte all’odierna Lorena)
Questo dava origine ai primi tre stati autonomi che avrebbero costituito il nucleo della futura Europa.
L’Europa, nuovo organismo politico-culturale, per quanto debole, divisa da discordie e minacciata da forze esterne, avendo ricacciato gli Arabi, si era assicurata la sopravvivenza e la possibilità di espansione.
Il Sacro Romano Impero di nazione franca scompariva definitivamente con la deposizione di Carlo il Grosso nell’887.
I tre regni di Francia, Germania, Italia, iniziavano una vita autonoma che, per l’Italia, fu caratterizzata da continue lotte fra i grandi feudatari per la conquista della corona, fino a che Ottone di Sassonia, re di Germania, cinse la corona del regno d’Italia nel 961 e si fece incoronare Imperatore nel 962, restauran­do il Sacro Romano Impero, ma questa volta di nazionalità germanica.

T Giuramenti di Quierzy
Quierzy, 21 marzo 858
Giuramento dei fedeli. Con l'aiuto di Dio vi servirò con fedeltà per quanto saprò e potrò, senza alcun inganno o frode, ma col consiglio e l'aiuto, secondo il mio incarico e la mia persona, affinché possiate mantenere ed esercitare con [senso del] dovere, dignità e fermezza quel potere che Dio vi concesse con la carica di re e con il regno, sia per volontà sua, sia per la salvezza vostra e dei vostri fedeli. Giuramento del re. Con l'aiuto di Dio anch'io, per quanto saprò e potrò ragionevolmente fare, tratterò con onore e proteggerò ciascuno di voi [fedeli] secondo il suo rango e la sua persona e, onorato, nonché protetto, lo custodirò lontano da ogni male, condanna e inganno e garantirò ad ognuno la propria legge ed il proprio diritto e sarà usata la giusta misericordia nei confronti di chi ne avrà avuto necessita e che l'avrà meritata, come un re fedele deve premiare e salvaguardare i suoi fedeli secondo giustizia e rispettare la legge ed il diritto di ciascuno in un Unico ordinamento e deve elargire la giusta misericordia ai poveri e a coloro che la meritano. E non abbandonerò questo [impegno], né per sollecitazione, né per odio, né per esortazione ingiusta, per non compiacere nessuno, per quanto lo consenta 1'umana fragilità e per quanto Dio mi avrà donato intelletto e potere; e se qualcosa mi condizionerà inconsapevolmente contro di ciò a causa della [umana] debolezza, dopo che lo avrò riconosciuto, cercherò di porvi rimedio spontaneamente.

T Capitolare di Quierzy
Quierzy, 14 giugno 877
Questi capitoli1 furono emanati dal glorioso signor imperatore Carlo [il Calvo] con il consenso dei suoi fedeli, presso Quierzy, nell'anno 877 dell'Incarnazione del Signore, trentasettesimo del suo regno, secondo del suo impero, diciotto giorni dalle calende di luglio [15 giugno], decima indizione2 . Carlo definì alcuni di essi da solo, mentre sugli altri dispose che si pronunciassero i suoi fedeli. [...] 8. Bisogna esaminare come comportarsi nel caso in cui alcuni benefici rimanessero privi del titolare prima del mio ritorno. [...] 9. In caso di morte di un conte il cui figlio sia al mio seguito, mio figlio3 , con ali altri miei fedeli4, scelga, tra i parenti più stretti del conte e maggiormente legati a lui, uno che amministri la contea insieme con i ministeriali5 e con il vescovo o fino a quando io non verro a conoscenza della morte del conte. [...] 10. Se qualcuno tra i nostri fedeli, spinto dall'amore per Dio e per noi, dopo la nostra morte vorrà rinunciare al secolo ed avrà un figlio od un parente prossimo in grado di agire a favore dello Stato, potrà trasmettergli i suoi feudi come riterrà più opportuno.

T Constitutio de feudis (Edictum de beneficiis)
Durante l'assedio di Milano, 18 giugno 1037 Nel nome della santa ed individuale Trinità, Corrado [II], per grazia di Dio augusto imperatore dei Romani. Vogliamo sia noto a tutti i fedeli della Santa Chiesa di Dio e ai nostri [sudditi] presenti e futuri che noi, alfine di riconciliare gli animi dei signori e dei milites1 , in modo che siano sempre d'accordo, così da servire con fedeltà e fermezza noi ed i loro signori, decidiamo e fermamente ordiniamo [quanto è di seguito esposto]: 1. Che nessun miles [sottoposto] a vescovo, abate, badessa, marchese o conte, o chiunque altro che gestisca un beneficio appartenente ai nostri beni pubblici o alle proprietà ecclesiastiche o che lo abbia gestito o che allo stato attuale lo abbia perduto ingiustamente, sia che si tratti di nostri valvassori maggiori sia che si tratti di loro milites, non debba perdere il suo beneficio senza colpa certa e dimostrata, se non secondo quanto stabilito dai nostri predecessori e per giudizio dei suoi pari [...]. 4. Quando un milites, sia maggiore sia minore, lascerà questo mondo, comandiamo che il figlio ne erediti il beneficio2 . Se poi il miles non avrà un figlio, ma lascerà nipote nato da un figlio maschio, questi ottenga in pari modo il beneficio, con l'osservanza dell'uso praticato dai valvassori maggiori nel fornire cavalli ed armi ai loro signori. Se non lascerà [neanche] un nipote nato da un figlio, ma [ha] un fratello legittimo da parte di padre che ha offeso il signore, questi abbia i1 beneficio che fu di suo padre dopo che avrà rimediato divenendo miles [del signore].
T Il giuramento del vassallo al suo signore
Io giuro su questi santi vangeli che d’ora innanzi sino all’ultimo giorno della vita sarò fedele a te, mio signore, contro ogni uomo eccetto l’imperatore. Giuro che consapevolmente non parteciperò giammai a deliberazioni o ad atto per cui tu perda la vita o qualche parte del tuo corpo, o riceva danno nella persona o ingiustizia o insulto, che tu perda qualche diritto presente o futuro. E se accadrà che tu perda qualche cosa che hai o avrai, per ingiustizia o caso, ti aiuterò a ricuperarla e, ricuperata, a conservarla. E se avrò saputo che tu vuoi giustamente assalire qualcuno e sarò stato da te invitato, sia in forma generale sia personale, ti darò il mio aiuto come potrò. E se mi chiederai consiglio su qualche cosa, ti darò il consiglio che mi sembrerà più utile per te. E mai di persona farò consapevolmente cosa che possa essere di danno a te e ai tuoi.

15. Il feudalesimo - Il fenomeno che caratterizzò la civiltà europea nel periodo che seguì la morte di Carlo Magno fu il feudalesimo[61], un nuovo sistema di organizzazione politi­ca, sociale ed economica. Si era sviluppato nella Francia tra l’VIII e il IX secolo dall’elaborazione e dalla fusione di elementi che risalivano al Basso Impero e alla originaria cultura germanica. Dalla Francia si diffuse poi in tutta l’Europa occidentale e più tardi, con i Normanni, passò in Inghilterra.
Il feudalesimo nacque dall’uso di assegnare terre in concessione a dignitari laici ed ecclesiastici collaboratori del sovrano. Tale concessione era detta beneficio[62], in quanto gli assegnatari ne traevano rendite sia direttamente, sia con l’imposizione di tributi e bal­zelli agli abitanti. Al beneficio si accompagnò l’immunità[63], cioè l’esenzione dalla giurisdizione sovrana e il corrispettivo diritto di amministrare in nome proprio la giustizia e di arruolare uomini. Al beneficio corrispondeva il vassallaggio[64]: il beneficia­rio, in compenso del beneficio ottenuto, si considerava vassallo dell’Imperatore o del signore che glielo aveva elargito, cioè si riteneva legato da un vincolo di fedeltà che lo obbligava a garantire al signore servizi militari e amministrativi, contributi in uomini e in denaro, e il suo consiglio, sia in pace che in guerra.
L’unione del beneficio, dell’im­munità e del vassallaggio costituiva appunto il feudo.
a) La gerarchia feudale - Si formava così una piramide gerarchica che aveva al suo verti­ce l’Imperatore, al di sotto i grandi feudatari o vassalli[65], al di sotto di questi i valvassori (vassalli dei vassalli) e sotto ancora i valvassini (vassalli dei valvassori).
Connettivo di questa piramide era il legame di vassallaggio, cioè un rapporto di carattere prettamente personale che subordinava ogni vassallo al suo diretto signore.
Inizialmente, i feudi erano concessi alla persona e, alla morte del beneficiario, ritornavano all’Imperatore o al signore che li aveva concessi. Successivamente, prima i grandi feudi con il Capitolare di Quiersy[66] dell’877, poi i feudi minori con la Constitutio de feudis[67] del 1037 divennero ereditari.
b) L’economia feudale: la curtis - Il feudalesimo oltre che un sistema politico-giuridico, fu un’organizzazione di tutta la società, organizzazione corrispondente alla civiltà rura­le costituitasi col declino della città e dell’economia industriale e mercantile. Il centro della vita feudale era il castello del signore e il centro dell’economia la sua corte o cur­tis.
La curtis[68] era costituita dall’insieme delle terre di proprietà padronale (pars dominica), degli edifici dove dimoravano i servi addetti alla coltivazione della terra signorile, alla produzione artigianale e ai servizi indispensabili per la vita del castello e dalle terre assegnate in lotti ai contadini liberi (pars massaricia), in cambio di censi in natura o in denaro e dell’obbligo di collaborare, per due o tre giorni alla settimana, alla coltivazione della ter­ra signorile.
Il latifondo, veniva suddiviso così in due tipologie di territorio: la parte centrale, quella più vicina al polo amministrativo, era detta pars dominica o indominicata cioè gestita a coltura direttamente dal signore mediante il lavoro dei servi ed una pars massaricia che era data in affitto o mezzadria a famiglie di coloni che la coltivavano privatamente e sulla quale il proprietario, ne ricavava un terzo della rendita. Oltre a questo, i coltivatori erano tenuti a pagare alcune tasse ed a svolgere alcune giornate lavorative gratuite sui fondi gestiti dal padrone, le corvées.
L’economia curtense[69] è un’economia di sussistenza: si produce per il consumo diretto, e non vi sono eccedenze da commerciare. È pertanto un’economia chiusa, e i rari scambi vengono fatti per lo più sulla base del baratto dei prodotti, data la scarsità di dena­ro circolante.
c) La società feudale - Dal punto di vista delle classi, la società feudale era caratterizza­ta da una rigida stratificazione:
·        sopra stavano i potentes, coloro che detenevano il po­tere, che erano o guerrieri (la gerarchia dei vassalli) o ecclesiastici: e spesso questi se­condi erano anch’essi guerrieri.
·        Sotto vi era una massa amorfa, non articolata, costitui­ta quasi esclusivamente da contadini in condizione di semischiavitù, perché legati alla terra del signore, dalla quale non potevano allontanarsi senza correre il rischio di gravi pene, e perciò chiamati servi della gleba[70].
Anche i coltivatori liberi che lavoravano appezzamenti avuti in concessione dal signore, erano tenuti a fornirgli, oltre a un corrispettivo in derrate, prestazioni in mano d’opera le corvées[71] e a pagare balzelli per l’uso di strade, ponti, mulini, forni che erano di esclusiva proprietà del signore.
Pochi gli artigiani e scarsi anche i mercanti che aumentarono di numero e di importanza solo con la ripresa dell’economia e della vita civile che sboccheranno nella ri­nascita della società urbana.
d) La cavalleria - Manifestazione caratteristica del mondo feudale fu la cavalleria. Essa sorse come conseguenza dell’istituto giuridico del maggiorasco[72], per la quale il feudo era trasmesso indiviso al primogenito. I fratelli minori, i cadetti, avevano due possi­bilità: o darsi alla carriera ecclesiastica o mettersi al servizio, come cavalieri, di qualche potente signore, nella speranza di conseguire a loro volta un feudo in ricompensa delle loro prestazioni.
Per incanalare la violenza di questi guerrieri che, per arricchirsi, non di rado si abban­donavano al brigantaggio o al saccheggio, la Chiesa, verso l’inizio del secolo XI, pro­pose al cavaliere di mettere la sua forza e il suo coraggio al servizio della fede e della giustizia, in difesa dei deboli e degli oppressi. La cavalleria[73] si trasformò così in una specie di grande confraternita sottoposta a severe regole morali. Il significato religioso dell’istituzione era sottolineato da un preciso rito che regolava la cerimonia dell’investi­tura.

16. La riforma della Chiesa - A risollevare la Chiesa dalla condizione in cui era caduta in seguito alla sua mondanizzazione, intervennero due forze:
·        l’Impero di nazio­nalità germanica sotto i tre Ottoni,
·        il monachesimo con un movimento di riforma che prese le mosse dal monastero di Cluny in Francia.
a) Gli Ottoni e la feudalità ecclesiastica - Ottone I, per ridare dignità al Papato, sottraendolo alle grandi famiglie romane che se lo contendevano, dopo aver restaurato in veste germanica il Sacro Romano Impero nel 962, stabilì, col privilegium Othonis[74], che l’elezione del papa dovesse essere confermata dall’Imperatore.
Tale decisione all’inizio rappresentò un risanamento della Chiesa, perché Ottone favorì la nomina di papi moralizzatori; ma comportò in cambio una subordinazione della Chiesa al potere politico, tanto più che Ottone I, per contrastare i feudatari laici, creò, con la nomina dei vescovi-conti[75], una feudalità ecclesiastica che, per il fatto di non poter trasmettere il feudo in eredità, rappresentava una categoria di feudatari la cui fedeltà all’Imperatore era più sicura. Tale estesa subordinazione della Chiesa all’Impero contrastava col risanamento programmato da Ottone ed era anzi causa di mali peggiori. La scelta delle persone cui conferire la dignità ecclesiastica (un’abbazia, un vescovado, una pieve, un canonicato) dipendeva infatti non dalle loro doti morali e dalla loro dottrina religiosa, ma dalle capacità di governo e militari, e, ancor più, dalle garanzie di fedeltà che offri­vano o, non ultima, dalla somma in denaro che erano in grado di versare per ottenere l’investitura.
b) La riforma di Cluny - A questo punto s’innesta il vero rinnovamento della Chiesa, quello portato avanti dai monaci benedettini riformati dell’abbazia di Cluny[76] in Fran­cia che si proponeva dì sottrarre la Chiesa al potere politico, incominciando col sottrargli l’elezione del papa e dei dignitari ecclesiastici.
Qualunque ingerenza dei laici nella loro nomina fu combattuta e bollata come peccato col termine di simonia (= ven­dita di cose sacre).
c) Il grande scisma – Lo scisma[77] fu la rottura definitiva tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, causata dalla crescente separazione politica e culturale tra Oriente e Occidente cristiano iniziata dal IV secolo.
Il Papato, impegnato in un processo di rinnovamento e di consolidamento della struttura della Chiesa, tentava di riprendere il controllo effettivo della chiesa orientale; questo avrebbe significato per l’Impero d’Oriente accettare la sovranità religiosa di un potere, come il Papato, che l’Imperatore non era in grado di controllare.
Già in precedenza le due Chiese si erano trovate in contrasto:
·        sull'iconoclastia, ossia il movimento politico-religioso iniziato dall'Imperatore bizantino Leone III Isaurico, che nel 726 condannò come idolatrico il culto delle immagini della Madonna e dei santi, considerandolo idolatrico, e ne ordinò la distruzione; la Chiesa occidentale si oppose all'iconoclastia e condannò Leone III nel 731. Il VII concilio ecumenico di Nicea condannò l'iconoclastia (787), che riprese tuttavia con gli Imperatori Leone Barda e Teofilo; L'Imperatrice Teodora dichiarò nuovamente lecito il culto delle immagini (843).
·        con il breve scisma di Fozio infatti quando l’Imperatore d’oriente depose il patriarca di Costantinopoli Ignazio che censurava la sua licenziosa condotta e mise al suo posto Fozio, papa Nicola I scomunicò Fozio e l’Imperatore, restituendo la sede patriarcale ad Ignazio, con il quale la scisma ebbe termine.
Saliti al soglio patriarcale di Costantinopoli Michele Cerulario (1043) e a quello pontificio Leone IX (1049) ci fu lo scisma definitivo.
Il motivo occasionale si ebbe quando il patriarca Michele Cerulario intervenne sull’uso del pane azimo nelle chiese dell’Apulia e della Calabria che l’Imperatore Niceforo II Foca aveva proibito. Cerulario intervenne facendo chiudere tutte le chiese dove veniva praticato questo rito.
Le divergenze investirono quasi subito il terreno dogmatico e liturgico, sul quale nessuna delle due parti era disposta a venire a patti. Erano vecchie questioni che avevano già diviso gli animi ai tempi di Fozio (IX secolo):
·        la dottrina occidentale della duplice processione dello Spirito Santo[78],
·        il digiuno romano del sabato
·        il divieto del matrimonio dei preti
·        l'uso del pane lievitato o di quello azzimo[79].
La situazione precipitò nel 1054 quando Papa Leone IX inviò a Costantinopoli il cardinale Umberto di Silva Candida per tentare di risolvere questa situazione critica, ma la visita terminò nel peggior modo: il 16 luglio 1054, il cardinale Umberto depositò una Bolla di Scomunica contro il Patriarca Michele Cerulario sull'Altare di Santa Sofia, atto inteso come scomunica di tutta la Chiesa bizantina, al quale Cerulario rispose in modo analogo, con la sottoscrizione degli altri Patriarchi, scomunicando il papa Leone IX (intendendo la Chiesa occidentale). Le Chiese, inoltre, attraverso i loro rappresentanti ufficiali, si scomunicarono l'una l'altra: si separarono così la Chiesa Cattolica Romana e la Chiesa Ortodossa, ognuna delle quali rivendicante per sé il titolo di Chiesa Una Santa Cattolica ed Apostolica.
Lo scisma non aveva dirette ragioni teologiche. I motivi che scatenarono il Grande Scisma includevano:
·        dispute sul primato del Papa, ossia se il Patriarca di Roma dovesse essere considerato un'autorità superiore a quella degli altri Patriarchi[80].
·        dispute circa quale Chiesa avesse giurisdizione[81] nei Balcani.
·        la designazione del Patriarca di Costantinopoli come Patriarca Ecumenico (attributo inteso da Roma come patriarca universale, e quindi rifiutato).
·        il concetto di cesaropapismo[82], un modo per mantenere unite in qualche modo le autorità politiche e religiose, che si erano separate molto tempo prima, quando la capitale dell'Impero venne spostata da Roma a Costantinopoli. Vi sono ora controversie su quanto tale cosiddetto cesaropapismo esistesse effettivamente o quanto invece fosse frutto dell'invenzione degli storici occidentali, alcuni secoli dopo.
·        la relativa perdita di influenza dei Patriarchi di Antiochia, di Gerusalemme e di Alessandria conseguente alla crescita dell'Islam, fatto che portò le politiche interne alla Chiesa ad essere viste sempre più come un rapporto Roma contro Costantinopoli.
Sul piano immediato, le conseguenze furono gravi per l’Impero bizantino, che restava una potenza cristiana, ma scismatica: ciò indebolì la solidarietà nei sui riguardi degli stati europei legati al Papato. A lunga scadenza, tuttavia, le conseguenze furono ancora più gravi per il Papato che perse per sempre il controllo sulla cristianità di lingua greca e sugli Slavi russi e balcanici.
d) La lotta per le investiture - Si erano poste le premesse della lotta per le investitu­re tra Papato e Impero. Il Papato, infatti, dopo aver affermato con Nicolò II l’autonomia del pontefice e l’indipendenza della sua elezione dall’Imperatore nel 1059, pretendeva che l’investitura imperiale, o comunque laica, dei dignitari ecclesiastici, spettasse al pontefice o alle altre autorità religiose.
La fase culminante della lotta vide, nel suo cor­so, contrapporsi due personalità eccezionali, l’Imperatore Enrico IV[83] e il papa Gregorio VII.
La conclusione della lotta si ebbe però solo nel 1122 con un accordo tra Enrico V e Callisto II, il Concordato di Worms. Quest’atto stabiliva che:
·        l'investitura spirituale è separata da quella temporale
·        In Italia precede l'investitura del papa, in Germania quella dell'imperatore.
In pratica l'imperatore, che voleva controllare le nomine dei vescovi conti (senza eredi e quindi facilmente manovrabili alla morte del feudatario) può farlo solo in territorio germanico. L'Italia è controllata dal pontefice che nomina direttamente i vescovi.
Questo segnava nel complesso una vittoria della Chiesa e di coloro che ne avevano voluto la riforma.



[1] Regni romano-barbarici - Regni nati dall’insediamento di popolazioni germaniche nei territori dell’impero romano d’occidente.
Nella prima metà del V secolo questi popoli furono accolti come federati nell’impero occidentale, che intendeva così ottenere un rilevante appoggio militare ed evitare un loro insediamento in aree troppo vicine all’Italia. A questa fase risale la formazione dei regni
·         visigoto (tra Francia meridionale e Spagna),
·         suebo (Spagna occidentale),
·         vandalo (Africa)
·         burgundo (bacino del Rodano).
Nel 476 Odoacre creò in Italia un regno di tutte le popolazioni germaniche lì stanziate, ma dopo pochi anni fu travolto dagli ostrogoti, mentre un altro regno fu istituito dai franchi in gran parte della Gallia.
I germani insediati in questi regni imitarono lo stile di vita delle popolazioni locali, conservando anche molte istituzioni romane; lo stesso potere del re perse il precedente carattere puramente militare, divenendo un potere di tipo territoriale.
I regni più solidi furono quelli in cui fu più forte la solidarietà tra germani e latini, soprattutto dove gli invasori si convertirono dall’arianesimo al cattolicesimo.
[2] Diversamente dalla città quale venne deli­neandosi dal XII secolo in avanti e da quella che noi oggi conosciamo.
[3] Villae - Complessi residenziale e agricoli romano. Nella tarda antichità divennero le grandi proprietà rurali incentrate su una corte (la riserva) e altre terre dipendenti dalla medesima azienda chiamate mansi (o massarici). In alcune regioni, e sempre più a partire dall’VIII secolo, il termine acquistò il senso territoriale di villaggio o di distretto politico.
[4] Dignitario eunuco di corte.
[5] Ottone I.
[6] Costantino VII Porfirogenito
[7] Berengario II marchese di Ivrea.
[8] Il triclinio dei Diciannove letti, all’interno del Gran Palazzo






[9] Odoacre - Primo re barbarico d’Italia (476-493). Di origine germanica, servì l’impero romano sotto diversi capi militari, ma si ribellò nel 476. Uccise Oreste e depose il figlio di questi Romolo Augustolo. Fu acclamato dalle truppe barbariche e governò l’Italia finché fu assediato a Ravenna dal re degli ostrogoti Teodorico, che lo fece uccidere.
[10] Ostrogoti - Popolazione germanica attestata nel III secolo d.C. nella Russia meridionale. Legati agli unni tra IV e V secolo, si stanziarono in seguito tra Pannonia e Norico, dove strinsero patti con l’impero d’oriente, che nel 488 li dirottò verso l’Italia, sotto la guida di Teodorico, figlio e successore di Teodomiro.
Vissuto a lungo alla corte bizantina come ostaggio, Teodorico, tra il 489 e il 493, con l’appoggio dell’imperatore Zenone, conquistò l’Italia, sconfiggendo Odoacre. Impostò una pacifica convivenza e collaborazione tra le aristocrazie gota e latina incaricate rispettivamente dell’attività militare e di quella amministrativa, perseguendo un progetto di egemonia sulle stirpi germaniche insediate nei territori dell’impero, in concorrenza con le aspirazioni politiche dei franchi e di Bisanzio. Questa ambiziosa politica ebbe però fine con la sua morte. Già nei suoi ultimi anni egli era entrato in duro contrasto con la gerarchia cattolica. La sua figura ebbe grande rilievo nelle leggende germaniche medievali.
Gli Ostrogoti costituirono in Italia un regno autonomo con capitale a Ravenna che resistette fino alla guerra greco-gotica (535-553).
[11] Longobardi - Popolazione originaria della Germania settentrionale, si insediò nell’area danubiana alla fine del V secolo d.C. Dopo aver brevemente partecipato come mercenari dei bizantini alla guerra greco-gotica, nel 568 iniziarono l’invasione dell’Italia, conquistando, tra VI e VII secolo, la pianura padana, la Toscana e l’area tra Spoleto e Benevento; il territorio italiano fu così segnato da numerose fratture territoriali tra le dominazioni longobarde e bizantine, divise anche dalle differenze religiose.
Distrussero il vecchio ceto senatoriale ed esclusero dal potere la popolazione romana, mentre probabilmente i due gruppi etnici si assimilarono abbastanza rapidamente. Persero in breve tempo le caratteristiche di nomadismo, si insediarono per tribù, guidate da duchi, con una continua tendenza a distaccarsi dal potere regio. I re quindi, tra VI e VII secolo, operarono per affermare la propria superiorità e creare uno stato unitario. In questo processo rientrarono la creazione di una capitale stabile, Pavia, e la redazione dell’editto di Rotari (643), prima legislazione scritta longobarda, che unì consuetudini germaniche e alcuni accenni del diritto romano. Questa azione unificatrice del regno non ebbe mai pieno successo e fu in ogni caso limitata alla pianura padana e alla Toscana, mentre i ducati meridionali mantennero un’ampia autonomia.
Si realizzò nel contempo un avvicinamento politico e culturale al mondo romano e al papato, che, pur tra grandi resistenze, fu sancito nella prima metà del VII secolo dalla conversione al cattolicesimo.
Tuttavia continuarono, nel secolo successivo, i contrasti tra il regno, che aspirava alla conquista del Lazio, e il papato, che iniziava in questo periodo a costruire una propria dominazione politica attorno a Roma. Fu decisivo, a metà dell’VIII secolo, l’intervento militare del re franco Pipino, che obbligò i longobardi a restituire al papato alcune terre conquistate. Questo intervento franco fu una premessa dell’invasione di Carlo Magno (774), che segnò la fine del regno longobardo. Restò indipendente, seppur formalmente sottomesso ai Carolingi, il ducato di Benevento, dove si realizzarono autonomi sviluppi sociali e politici fino alla conquista normanna.
[12] Guerra greco-gotica – Fu combattuta fra Bizantini ed Ostrogoti per il dominio sull’Italia. Per la ricostruzione dell’impero, Giustiniano inviò nella penisola un’armata guidata da Belisario, che riconquistò la Sicilia e Roma (536), ma solo dopo molte difficoltà riuscì a prendere anche Ravenna (540) e a catturare il re Vitige.
La guerra riprese sotto il nuovo re ostrogoto Totila (541), che riconquistò tutto il territorio tranne Ravenna. Soltanto con l’arrivo del generale Narsete (552) i bizantini riuscirono a sconfiggerlo e a ucciderlo, battendo poi anche il successore Teia. Sterminii, assedii e razzie ebbero conseguenze disastrose per l’Italia.
[13] Franchi – La popolazione franca si formò nella prima metà del III secolo dall’unione di diverse tribù germaniche. Comparsi intorno al 235 sulla riva orientale del basso Reno, compirono incursioni nelle province romane Germania e Belgica, apparendo ai Romani come dei giganti dai capelli rossi e dai lunghi baffi, abili combattenti a piedi e specializzati nel lancio della scure a doppio taglio.
Nel IV secolo, sconfitti da Aureliano, furono ammessi nell’esercito romano come ausiliari
Nel 357 i Franchi che si stabilirono ad occidente della Mosa ebbero da Giuliano l’Apostata lo status di foederati. Essi furono allora chiamati con il nome di franchi salii, mentre quelli rimasti sulla riva destra del Reno furono chiamati franchi ripuari.
Nel 451 furono alleati di Ezio ai Campi catalaunici, contro gli Unni
Alla fine del V secolo, i Franchi avevano fatto della Renania e del Belgio settentrionale regioni interamente germanizzate: i Franchi ripuari si impossessarono di Colonia e Treviri, mentre i Franchi salii arrivarono fino alla Loira.
Dinastia di re dei franchi salii, stanziati nella regione di Tournai, che con il re Clodoveo unificò e ampliò a tutta la Gallia il regno franco.
Nel 486, Clodoveo eliminò i resti dell’esercito romano in Gallia, nel 496 sconfisse sul Reno gli Alemanni e cominciò a penetrare nella Gallia visigota.
Nel 498, con il battesimo di Clodoveo, i Franchi godettero dell’appoggio dei vescovi della Gallia e condussero la guerra contro i visigoti ariani anche in nome della religione.
Nel 507, dopo la battaglia di Vouillé, annetté la Gallia visigota.
Prima di morire, Clodoveo riuscì ad imporre la sua autorità anche sui ripuari.
Benché diviso in quattro regni, il popolo franco restò per due secoli inquadrato dal potere dei Re merovingi, una dinastia che deriva il nome dal loro capostipite, Meroveo, fu la prima dinastia dei franchi.
I re Merovingi sono stati chiamati a lungo re fannulloni, per il fatto che il loro potere ben presto si affievolì a favore di un casato di servi, i Pipinidi. Le implicazioni e le cause di ciò sono tante, tra storicità e leggenda, e spiegano anche le ragioni di un altro epiteto dei Merovingi: re taumaturghi. Al tempo dei Merovingi il potere politico era diviso tra il re e il signore o maggiordomo di palazzo. Allo stesso modo infatti, formalmente il Maggiordomo non poteva avere un potere maggiore del suo sovrano, tuttavia era proprio il Signore di Palazzo che radunava le truppe al campo Maggio (il campo Maggio era il campo nel quale venivano reclutate le truppe dell'esercito) e portava avanti le campagne militari.
Proprio questo potere che cresceva sempre di più nelle mani dei maggiordomi, permise ai maestri di palazzo Pipinidi, dalla quale proveniva la maggior parte dei signori di palazzo, prese progressivamente il sopravvento sui Merovingi per poi sostituirli completamente assumendo nel 751 il titolo regio con Pipino il Breve.
[14] Visigoti - Si installarono in Dacia nel III secolo d.C. Nel corso del secolo successivo si insediarono come federati nell’impero e si convertirono all’arianesimo.
All’inizio del V secolo si spostarono verso occidente, prima in Italia, dove saccheggiarono Roma (410), poi nell’area compresa tra la Spagna e la Gallia sudoccidentale dove si insediarono, abbandonando poi la Gallia all’inizio del VI secolo per la pressione militare del franco Clodoveo.
Seppero creare, anche prima della conversione al cattolicesimo, un’efficace convivenza con l’aristocrazia romano-iberica, di cui rispettarono l’ordinamento religioso e da cui trassero importanti collaboratori nell’organizzazione amministrativa del regno, con centro a Toledo. Tuttavia solo la conversione e lo stretto legame tra la monarchia e l’episcopato, dalla fine del VI secolo, favorirono la fusione culturale ed etnica delle due stirpi, la cui aristocrazia unì modelli culturali romani con uno stile di vita militare di tradizione germanica.
La loro costante debolezza politica permise però la conquista araba, tra il 711 e il 713, che pose fine al regno visigoto.
[15] Vandali - Antica tribù germanica originaria dello Jütland. Si scontrarono con i romani, quando, occupata e devastata la Gallia (406), si trasferirono in Spagna e vi si insediarono. Passati in Africa sotto la guida di Genserico, furono riconosciuti come federati (435). Ma Genserico, dichiarata l’indipendenza, attaccò e saccheggiò Roma nel 455.
[16] Impero bizantino - Organismo politico che per tutto il medioevo continuò in oriente l’impero romano, reggendosi intorno alla capitale Costantinopoli (l’antica Bisanzio, restaurata e ribattezzata da Costantino nel 330).
Il suo atto d’origine può datarsi al 395, quando alla morte di Teodosio l’impero venne diviso in una parte occidentale e in una orientale, oppure al momento della caduta di Roma nel 476, quando Odoacre inviò a Costantinopoli le insegne imperiali. Fino a circa la metà del VII secolo, grazie anche alla riconquista dell’Italia, dell’Illirico e dell’Africa da parte di Giustiniano (527-565), mantenne aspirazioni di dominio universale, espresse dalla monumentale raccolta del Corpus giuridico e dalla edificazione di Santa Sofia a Costantinopoli.
Potenza e ricchezza dell’impero durarono inalterate, nonostante le tensioni e le tendenze autonomistiche delle province accese dai conflitti religiosi interni, fino al regno di Eraclio (619-641), il quale sconfisse i persiani, ma dovette cedere agli arabi Siria, Egitto e Africa.
Nei decenni seguenti, vennero persi i Balcani continentali colonizzati dagli slavi, gran parte dell’Italia invasa dai longobardi e gli arabi arrivarono a minacciare direttamente Costantinopoli. La salvezza e la resistenza dell’impero (ridotto sostanzialmente al dominio dell’Asia minore, della penisola balcanica e di parte dell’Italia meridionale) furono assicurate dall’azione militare e dall’opera di riorganizzazione e riforma interna di nuove e forti dinastie, succedutesi fino alla fine del XII secolo.
Per primi gli Isaurici (717-802), che con Leone III arrestarono l’avanzata degli arabi battuti ad Akronos (739) e, nel tentativo di consolidare il potere imperiale, promosse l’iconoclastia, scatenando violente reazioni interne e la scomunica da parte di papa Gregorio III.
Quindi Basilio I il Macedone e i suoi successori (867-1057) che riportarono l’impero alla sua antica potenza, strappando agli arabi parte dei territori perduti in Italia e soprattutto riassoggettando i Balcani, con la sconfitta dei bulgari (1014).
Un grave indebolimento del potere imperiale, a vantaggio delle famiglie magnatizie dei grandi proprietari fondiari, coincise con un nuovo più grave periodo di crisi, dovuto all’attacco dei turchi, che si impadronirono dell’Armenia, della Cappadocia, della Mesopotamia e di parte della stessa Anatolia, mentre i normanni conquistavano tutta l’Italia meridionale e attaccavano Macedonia ed Epiro.
I problemi interni e i pericoli esterni furono combattuti ancora con grande energia dai Comneni (1081-1185), specialmente i primi tre restaurarono l’impero rinvigorendo l’apparato militare contro la burocrazia della capitale. Fecero larghe concessioni fondiarie alle famiglie aristocratiche in cambio del servizio militare. Da un lato ciò rafforzò l’esercito, ma dall’altro causò un processo di feudalizzazione a danno del potere centrale. Con un’abile politica di alleanze, in particolare con i crociati e con Venezia, i Comneni riuscirono per lungo tempo a contenere i normanni dell’Italia meridionale e i russi. I Comneni attuarono tuttavia quella politica di apertura all’occidente e ai suoi mercanti e di alleanza con le spedizioni crociate, che doveva infine condurre allo scontro fra bizantini e latini e alla decadenza definitiva dell’impero orientale. Questa si manifestò sotto gli Angeli (1185-1204), quando nei Balcani Bulgaria e Serbia riacquistarono l’indipendenza e la quarta crociata guidata dai veneziani si impadronì di Costantinopoli (1204). Il suo territorio rimase diviso in impero latino a Costantinopoli, imperi grecobizantini di Trebisonda (sul mar Nero) e di Nicea (in Anatolia) e despotato bizantino in Epiro.
Nel 1261 Michele VIII Paleologo imperatore di Nicea si alleò con Genova contro Venezia, riconobbe la supremazia ecclesiastica di Roma e tentò di ripristinare i confini del XII secolo. riconquistò Costantinopoli, ma gli occidentali e i veneziani rimasero nel Peloponneso e nelle isole ionie ed egee, mentre i turchi si impadronivano dell’Anatolia.
L’organizzazione militare e burocratica e il governo autocratico dell’imperatore non ressero alle continue crisi di successione dinastica, alla crescita della forza centrifuga delle potenti aristocrazie fondiarie provinciali, alla lenta e inesorabile decadenza della fortuna economica e della potenza navale, determinata dall’espansione prima dei musulmani e poi dell’Europa latina: agli inizi del 1400 non restava più che la provincia intorno alla capitale e una parte dell’Acaia. Nel 1453 i turchi presero Costantinopoli e nel 1461 anche Trebisonda, ponendo fine alla millenaria storia dell’impero bizantino.
[17] Bisante –  Il Vai a: Navigazione, cerca
bisante è il nome medioevale delle monete d'oro bizantine. nell'Europa del primo medioevo le monete d’oro non erano battute mentre le valute più diffuse erano in argento e bronzo, tuttavia circolavano in piccole quantità, provenienti dalla regione del Mar Mediterraneo, in particolare erano altamente stimate le monete d'oro del mondo islamico (dīnār) e bizantino. Queste monete d'oro erano comunemente chiamate bisanti, dalla parola Byzantium, forma latinizzata del nome greco della capitale, Costantinopoli, da dove generalmente venivano le monete d'oro e a cui erano associate. Il rapporto tra oro ed argento in questo periodo era di 1:9 e, generalmente, le monete d'oro erano usate quando i pagamenti avevano qualche speciale significato rituale o per mostrare una qualche forma di rispetto.
La monetazione in oro fu reintrodotta in Europa nel 1252, quando Firenze iniziò a battere la moneta d'oro conosciuta con il nome di fiorino.
[18] Costantinopoli - Caduto l'Impero Romano d'Occidente, per tutto il Medioevo, Costantinopoli restò capitale dell'Impero Bizantino, e la più grande e ricca città d'Europa: nel X sec. contava un milione di abitanti.
La base del diritto romano fu gettata a Costantinopoli da Giustiniano, che tra il 528 e il 565 formò il Corpus Iuris Civilis.
Dotata di un notevole impianto di fortificazioni, la città rimase per secoli inespugnata, fino al 1204, quando fu saccheggiata dagli eserciti della quarta crociata al comando di Enrico Dandolo e Bonifacio I del Monferrato che insediarono un Impero Latino, che durò per poco più di mezzo secolo, fino a Baldovino II, quando nel 1261 la città fu riconquistata dai bizantini.
La conquista crociata aveva accelerato il lento declino della città, iniziato da tempo.
I bizantini la tennero per altri due secoli fino a Costantino XI, quando, il 29 maggio 1453, divenuta una testa senza corpo, capitale di un impero inesistente, ospitava solamente 50.000 abitanti, cadde in mano ai turchi ottomani guidati da Maometto II il Conquistatore, che ne fece la capitale dell'Impero Ottomano.
La caduta di Costantinopoli, e quindi la fine dell'Impero Romano d'Oriente, è indicata come l'evento che convenzionalmente chiude il Medioevo e inizia l'Evo moderno.
[19] Giustiniano - Nipote e successore di Giustino col quale collaborò fin dal 518, fu da lui associato al trono.
Il suo lungo regno fu caratterizzato da una attenta restaurazione dell’antico impero romano in tutti i suoi aspetti. Questo disegno politico si attuò soprattutto nel campo del diritto.
Abile nella scelta dei suoi collaboratori, Giustiniano affidò la riforma della legislazione a Triboniano, incaricandolo di mettere ordine nell’immenso materiale legislativo prodotto dall’impero romano, così da renderlo immodificabile, pur lasciando spazio alle nuove leggi bizantine.
Ne risultò il Corpus iuris civilis realizzato in quattro parti:
·         il Codex, raccolta degli editti imperiali;
·         il Digesto, raccolta dei maggiori scritti dei giuristi romani;
·         le Institutiones, manuale per lo studio del diritto;
·         le Novellae, leggi successive al codice.
Dal punto di vista religioso l’imperatore cercò di far prevalere la ragione di stato, perseguendo l’unità religiosa. Per questo nel 533 fece condannare i cosiddetti tre capitoli del concilio di Calcedonia, cercando nel contempo di salvare le altre decisioni di quel concilio e di accontentare i monofisiti: in realtà la sua azione non portò ai risultati sperati perché creò uno scontento generale che aumentò la tensione preesistente.
Le sue ambizioni politico-militari erano dirette alla riconquista dell’antico impero romano. Grazie all’aiuto di Belisario, riaffermò la pace sui confini orientali con il regno persiano (532), recuperò le coste dell’Africa (533-534), parte del sud della Spagna in mano ai visigoti (554) e l’Italia, dove gli ostrogoti sostennero una resistenza ventennale che fu piegata solo dal generale stratega Narsete (555).
Il progetto giustinianeo ebbe però breve durata poiché la restaurazione territoriale mancava di solide basi e l’imperatore lasciò ai suoi successori un impero in completa rovina economica e finanziaria incapace di resistere alle pressioni esterne.
[20] Maometto (575-632) è il profeta che si dice scelto da Dio per comunicare agli Arabi la vera religione ri­velatagli dall’arcangelo Gabriele e regi­strata fedelmente nel Corano, il libro sacro della religione musulmana.
La nuova dot­trina predica l’esistenza di un solo Dio, Al­lah, al quale si deve una sottomissione in­condizionata (= Islam, termine che designò la religione nel suo complesso e il mondo che la pratica); questa richiede l’ubbidienza a cinque precetti fondamen­tali:
·         il giuramento di fede,
·         la preghiera ri­tuale cinque volte al giorno,
·         il digiuno du­rante il mese del ramadan,
·         l’elemosina legale (una sorta di tassa da versare alla co­munità),
·         il pellegrinaggio alla Mecca.
Maometto organizzò i suoi fedeli in una specie di Stato teocratico ed i suoi successo­ri cominciarono un processo di espan­sione che, tra il VII e la prima metà dell’VIII secolo, estese i confini dell’Islam dalla Spagna alla Siria, dall’Egitto all’Asia occidentale, amalgamando popo­li e culture diverse.
[21] Guerra santa o gihâd - Termine arabo che significa letteralmente sforzo o impegno. Esso indica per il musulmano, la guerra santa, intesa sia come opera missionaria per la propagazione della fede sia come vera e propria lotta armata contro gli infedeli.
[22] Califfo - Termine impiegato per indicare il Vicario o Successore di Maometto alla guida politica e spirituale della Comunità islamica. La massima magistratura islamica non è prevista nel Corano e neppure nella Sunna di Maometto e fu quindi realizzata da alcuni fra i primissimi compagni del Profeta nella stessa giornata della sua morte, l'8 giugno 632.
Per evitare probabilmente che i musulmani di Medina scegliessero come successore politico di Maometto uno dei loro, un gruppo di musulmani meccani riuscirono a far sì che il prescelto fosse per l'appunto Abū Bakr che, per essere stato il miglior amico di Maometto e verosimilmente il primo uomo convertitosi all'Islam, era assai apprezzato da tutti e garantiva perciò una linea di comportamento non dissimile da quella messa in atto dal Profeta.
L'espressione usata per indicarlo fu quindi "khalīfat rasūl Allāh" (vicario, o successore, dell'Inviato di Dio).
[23] Carlo Martello - Maestro di palazzo dei re franchi. Figlio naturale di Pipino di Héristal, resse di fatto il regno franco come maggiordomo degli ultimi re merovingi, grazie al prestigio conquistato con le vittorie militari. Sconfisse gli arabi a Poitiers nel 732. Favorì la cristianizzazione delle popolazioni settentrionali sottomesse e mantenne buoni rapporti con i longobardi.
[24] Leone III di Bisanzio - Noto anche come Leone III l'Isaurico fu stato imperatore bizantino dal 717 sino alla sua morte nel 741.
Elevato al trono nel 717 in sostituzione di Teodosio III, vinse l'anno dopo gli Arabi, che assediavano Costantinopoli, e li respinse fino all'Eufrate.
Dopo la vittoria militare si dedicò alle riforme interne dello stato, ormai precipitato nell’anarchia, provvide a rappacificarsi con i popoli slavi e riorganizzò le forze armate. Grazie a tutto questo poté con maggior facilità respingere i successivi tentativi da parte dei Saraceni di invadere l'impero nel 726 e nel 739.
Nel suo regno introdusse numerose riforme fiscali, liberò dalla schiavitù i servi e introdusse nuove leggi marittime, sollevando molte critiche da parte dei ceti più nobili e del clero.
In campo religioso dapprima promosse una campagna per il battesimo della popolazione, in seguito si batté per eliminare il culto delle immagini sacre, l’iconoclastia, ormai troppo diffuso nell'Impero, andando anche contro le opinioni della Chiesa di Roma e di Papa Gregorio II che lo scomunicò. La condanna di Leone fu confermata anche dal successore Gregorio III che, nel 731 riunì un sinodo apposito per condannarne il comportamento.
Leone III decise allora di portare la Grecia ed il sud dell'Italia sotto l'egida del Patriarca di Costantinopoli e, a tal fine, promosse una campagna militare nel 737.

[25] Stato della Chiesa - La formazione del patrimonio temporale della Chiesa romana risale a una serie di donazioni fondiarie (secoli IV-VI).
Nell’insufficienza del potere imperiale bizantino, il patrimonium Sancti Petri divenne la base territoriale per l’azione politica della sede apostolica nell’Italia centrale: con gli accordi tra papa Stefano II e Pipino il Breve (754) poggianti sulla Donazione di Costantino, essa figurò come autorità sovrana su vasti territori compresi tra il Po e Benevento.
La donazione di Costantino è un documento apocrifo attribuito a Costantino I (IV secolo d.C.). Rivolto a papa Silvestro I, si compone di due parti: una, agiografica, narra la leggenda di san Silvestro, secondo la quale l’imperatore fu guarito dalla lebbra dal papa; l’altra espone la gerarchia ecclesiastica e narra la donazione da parte di Costantino alla Santa sede della parte occidentale dell’impero, compresa la città di Roma.
La redazione risale probabilmente alla seconda metà dell’VIII secolo. È però opinabile anche una sua composizione in occasione dell’incoronazione di Carlo Magno (800).  Dopo l’età carolingia la Donazione fu riesumata da Leone IX nel 1053, passando poi nel Decretum Gratiani e in altre raccolte di decretali, essendo considerato documento di tutto rispetto dagli stessi avversari del potere temporale dei pontefici. La falsità del documento, già ipotizzata da Ottone III per motivi formali (mancanza del sigillo), fu poi dimostrata in base a incontrovertibili argomenti storici e linguistici da N. Cusano e da L. Valla (De falso credita et ementita Costantini donatione) nel XV secolo.
Con la Riforma gregoriana il papato si liberò della giurisdizione tutelare esercitata dall’impero sulle terre della chiesa. La simonia, i patrimoni ecclesiastici, il matrimonio e il concubinato dei preti erano così diffusi che le austere arringhe dei religiosi più intransigenti trovarono ampi consensi fra gli strati popolari. Il movimento della riforma mirò alla moralizzazione del clero, a togliere all’impero il diritto di nominare i vertici della gerarchia ecclesiastica e alla trasformazione del papato in una monarchia, tale da permettere una più agevole riorganizzazione della chiesa. Le proteste e i fermenti di rinnovamento arrivarono soprattutto dai monaci che avevano subito l’influenza dell’abbazia di Cluny, che appoggiò il papato nella Riforma; in Italia si schierarono contro il clero corrotto Romualdo di Ravenna, fondatore dell’eremo di Camaldoli, e Giovanni Gualberto, fondatore dei vallombrosani, mentre in Lombardia si diffondeva il movimento della pataria. Di fronte a tutte queste richieste interne all’organismo ecclesiastico, il papato si impegnò in un’azione di riforma; in particolare tutta l’opera di Gregorio VII fu rivolta al risanamento del comportamento del clero e alla riorganizzazione del mondo ecclesiastico in un sistema monarchico di governo.
Dal XIII secolo in poi i papi elevarono la sovranità diretta sul loro territorio a garanzia della libertas ecclesiae. Innocenzo III (1198-1216) divise lo Stato pontificio in quattro province, affidate a rettori: Campania (basso Lazio), Patrimonio (alto Lazio), ducato di Spoleto, marca di Ancona. Durante la cattività avignonese (1309-1377) il controllo dello Stato pontificio venne ripreso dal cardinale Albornoz, che con le Constitutiones (1357) diede a esso una legislazione unitaria, rimasta in vigore fino al 1816. Non fu però eliminato il problema delle signorie detenute come vicariati del papa, rafforzatesi durante il Grande scisma (1378-1417): il loro smantellamento, avviato nel Rinascimento mentre lo Stato pontificio si inseriva nel sistema politico delle potenze europee, fu portato a termine da Giulio II (1503-1513) con il recupero di Bologna, Perugia e della Romagna.
Il papato della Controriforma utilizzò le risorse statali come supporto finanziario per il rilancio del suo universalismo; tali esigenze portarono con Sisto V (15851590) all’adozione di riforme centralistiche nell’amministrazione dello stato, affidate alla Consulta e poi alla Congregazione del buon governo, che tuttavia non poterono vincere la rete dei particolarismi che, complice il nepotismo e i favori della corte, bloccarono nei secoli XVII-XVIII lo sviluppo economico e sociale dello Stato pontificio in una rete di gerarchie parassitarie. Sopravvissuto fino a Napoleone, con la costituzione del Regno d’Italia esso venne privato delle regioni più sviluppate: perdita di Emilia-Romagna con la pace di Tolentino (1797) e annessione delle Marche nel 1809. La sua esistenza, salvata dal cardinale Consalvi al congresso di Vienna (1815) ed emendata da Pio IX con la concessione dello Statuto (1848), fu dichiarata finita dalla Repubblica romana (1849) e poi cancellata dalle truppe piemontesi che conquistarono i territori dello stato (1859-1860) e poi la capitale (1870).
[26] Teodolinda - Di stirpe bavara, nel 589 sposò il re Autari e nel 591, alla sua morte, trasmise il titolo regio al nuovo marito, Agilulfo, duca di Torino. Fu protagonista dell’avvicinamento tra il regno e il papato, con la conversione del popolo longobardo al cattolicesimo. Morto Agilulfo (616), resse il governo a nome del figlio minorenne Adaloaldo.
[27] Donazione di Sutri - Cessione formale a papa Gregorio II dei castelli di Sutri, Bomarzo, Orte e Amelia da parte del re longobardo Liutprando. Contestuale alla formulazione dell’apocrifa Donazione di Costantino, è convenzionalmente ritenuta l’origine dello Stato della chiesa e del potere temporale dei papi.
[28] preghiere che, nella liturgia delle ore, sono recitate subito prima dell’alba.
[29] tetragono: poligono con quattro angoli ovvero solido a quattro spigoli.
[30] s’innervavano: si protendevano, si diramavano, come nervi o muscoli che, tendendosi, emergono dal corpo.
[31] quadrato… nel cielo: il quadrato è simbolo dell’umano e della fisicità terrena, mentre il triangolo è simbolo di Dio, di spiritualità.
[32] torrione eptagonale: una grande torre a sette lati. L’intero Edificio è costruito secondo il simbolismo medievale, che attribuisce a ciascun numero un significato particolare.
[33] Castel Ursino o Castel dal Monte: il primo si trova a Catania, il secondo vicino ad Andria, in Puglia; entrambi sono opera di Federico II.
[34] custodia della parola divina: l’Edificio ospita infatti un’immensa biblioteca, la più grande dell’epoca, contenente i libri sacri (la parola divina) e l’intero sapere umano, che, nella visione religiosa medievale, deriva anch’esso da Dio e a Dio deve essere ricondotto (cfr. ad esempio la concezione del sapere di Dante).
[35] famigli: addetti ai lavori agricoli del monastero.
[36] urbanità: comportamento civile e cortese.
[37] cellario: monaco addetto alla dispensa.
[38] strame: erbe secche che servono come foraggio e lettiera per il bestiame.
[39] bruttando: imbrattando, macchiando.
[40] . ut sit… rotunditas: “che il capo sia minuto e magro, quasi con la pelle attaccata alle ossa, le orecchie corte e a punta, grandi gli occhi, le narici aperte, il collo dritto, fitta la criniera e la coda, regolare [l’andatura] per la durezza degli zoccoli”. Isidoro di Siviglia (560-636) è autore di un’opera vastissima ed enciclopedica, le Etymologiae, che raccoglie in qualche modo il sapere dell’antichità classica e della tarda romanità
[41] inferito: dedotto, desunto
[42] auctoritates: con questa notazione, a prima vista secondaria, in realtà Guglielmo introduce uno dei temi portanti del romanzo; per l’uomo medievale le auctoritates, ovvero gli auctores (gli scrittori autorevoli) e le loro opere, si sovrappongono, fino quasi a sostituirsi, alla diretta esperienza del reale.
[43] Antiquarii: amanuensi addetti alla copiatura dei testi più antichi, greci e latini.
[44] 2. librarii: i copisti. Dal latino librarius, il servo che era adibito a ricopiare i testi per il padrone.
[45] 3. rubricatori. Copisti addetti alla rubrica, che comprendeva i titoli e il riassunto dell’opera.
[46] 4. Terza, sesta e nona … vespro: l’autore ci dà un’informazione ben precisa sulla divisione canonica della giornata che si attuava nel monastero benedettino. Il tempo era infati scandito dalla preghiera e dal lavoro, secondo la regola ora et labora di Benedetto da Norcia, in mattutino (corrispondente all’alba), prima (ore 6), terza (ore 9), sesta (ore 12), nona (ore 15), vespri (tramonto), compieta (prima di andare a dormire).
[47] alluminatori: erano i miniatori veri e propri, addetti cioè a dare ai codici “allume”, cioè luce, mediante la colorazione delle grandi lettere e delle figure. Questa operazione avveniva utilizzando, come fissante, l’allume di rocca mescolato ad altre sostanze vegetali.
La descrizione del bibliotecario Malachia: i dettagli fisici e i risvolti psicologici di un personaggio enigmatico e per certi versi inquietante.
[48] Lo scriptorium è un luogo per così dire “internazionale”, in cui la cultura unisce esperti, studiosi e copisti di provenienza diversa: la cultura araba, importante per la diffusione del sapere scientifico (algebra, medicina), dialoga e si confronta con quella occidentale, rappresentata dal filosofo Aristotele e dalla retorica, una disciplina che faceva parte delle sette arti liberali.
[49] ipotiposi. Una figura retorica della descrizione e dell’elenco, fatta però con vivacità e ricchezza di particolari da renderla vicina alla realtà.
[50] Ruggero Bacone. Frate francescano e inglese come Guglielmo da Baskerville, fu uno dei maggiori filosofi del XIII secolo. Studiò a Oxford, dove poi insegnò. È considerato il fondatore dell’empirismo e per la sua fama venne soprannominato con l’appellativo di “doctor mirabilis”. scoperto e fabbricato quello strumento.
[51] La Regola Benedettina - Nel monastero di Montecassino Benedetto compose la sua Regola. Prendendo spunto da regole precedenti, in particolare quelle di san Giovanni Cassiano e san Basilio egli combinò l'insistenza sulla buona disciplina con il rispetto per la personalità umana e le capacità individuali, nell'intenzione di fondare una scuola del servizio del Signore, in cui speriamo di non ordinare nulla di duro e di rigoroso.
La Regola benedettina, in latino denominata Regula monachorum o Sancta Regula, dettata da San Benedetto da Norcia nel 534, consta di un Prologo e di settantatre capitoli. È una dettagliata regolamentazione dei diversi aspetti della vita monastica, che viene organizzata intorno a quattro assi portanti, volti a permettere di fare fronte alle tentazioni impegnando continuamente ed in modo vario il monaco: la preghiera comune, la preghiera personale, lo studio e il lavoro.
La Regola, dotta e misteriosa sintesi del Vangelo, nella quale si organizza nei minimi particolari la vita dei monaci, diede nuova ed autorevole sistemazione alla complessa, ma spesso vaga e imprecisa, precettistica monastica precedente. I due cardini della vita comunitaria sono il concetto di stabilitas loci e la figura dell'abate, padre amoroso, mai chiamato superiore, e cardine di una famiglia ben ordinata che scandisce il tempo nelle varie occupazioni della giornata durante la quale la preghiera e il lavoro si alternano nel segno del motto ora et labora
I monasteri che seguono la Regola di san Benedetto sono detti benedettini. Anche se ogni monastero è autonomo sotto l'autorità di un abate, si organizzano normalmente in confederazioni monastiche, delle quali le più importanti sono la congregazione cassinense e la congregazione sublacense, originatesi rispettivamente attorno all'autorità dei monasteri benedettini di Montecassino e di Subiaco.
[52] Giubba corta, senza maniche.
[53] Spada corta e larga.
[54] Spada corta e larga.
[55] Membro ordinato del clero cattolico di grado inferiore al Sacerdote.
[56] Aachen, in Germania
[57] Carolingi - I Carolingi regnarono in Europa dal 750 fino al X secolo. I Carolingi devono il loro nome a Carlo Martello, maggiordomo di palazzo dell'Austrasia, del quale la vittoria a Poitiers interrompe la progressione degli Arabi verso nord, e gli dona un’immensa fama nell'occidente cattolico.
La dinastia dei Carolingi ha le sue origini nella famiglia dei Pipinidi, che ebbero la carica di maggiordomi di palazzo sotto il regno dei sovrani merovingi d'Austrasia. Man mano che il potere della dinastia merovingia andava diminuendo i maggiordomi di Palazzo Pipinidi accrebbero il loro potere: già Pipino di Herstal dirigeva in modo quasi autonomo la politica del regno; così, nominavano i duchi, i conti, negoziavano gli accordi con i paesi vicini, dirigevano l'esercito, estendevano il territorio del regno e arrivavano perfino a scegliere i re merovingi.
Il territorio particolarmente apprezzato dai Pipinidi, fu la regione di Liegi, Aquisgrana e Colonia.
Pipino il Breve mette fine alla dinastia merovingia nel 751: stanco di dover dipendere da re inutili e fastidiosi, fece rinchiudere Childerico III, e si proclamò re al suo posto, diventando così il primo re dei Franchi carolingi.
Carlo Magno, figlio di Pipino il Breve, è senza alcun dubbio il sovrano che segna maggiormente l'epoca carolingia, per la longevità del suo regno, ma anche grazie al suo carisma, alle sue conquiste militari e alle sue riforme.
Dopo la morte del figlio di Carlo Magno, Ludovico il Pio, divise il regno tra i suoi figli; il territorio è diviso da est ad ovest in tre regni:
·         Lotario I ereditò il titolo imperiale e la parte centrale del regno il suo regno comprende inoltre le capitali politiche (Aquisgrana) e religiose (Roma) dell'impero. Il titolo imperiale perse però la sua importanza: dopo il trattato di Verdun, Lotario conserva la dignità imperiale, che non corrispondeva più a nessun potere superiore a quello degli altri re.
·         Ludovico II il Germanico ricevette la parte orientale dovei fondò una dinastia che regnò sulla Germania fino al 911.
·         Carlo il Calvo ottenne la parte occidentale dell'impero dove rimarrà la dinastia carolingia fino all'arrivo dei Capetingi nel 987.
Alla fine del IX secolo, delle vere e proprie armate vichinghe portano devastazione fino al cuore del regno occidentale. I re carolingi sembrano impotenti: Carlo il Calvo cerca di costruire delle fortificazioni aggiuntive. Chiede ai capi dell'aristocrazia di difendere le regioni minacciate.
·         Roberto il Forte è messo dal re alla testa di una marca occidentale; muore combattendo contro i Vichinghi nel 866.
·         Il conte Oddone difende Parigi contro un attacco venuto dalla Senna nel 885.
Questi nobili acquistano un immenso prestigio che partecipa all'indebolimento del potere reale. Le vittorie militari sono ormai attribuiti ai marchesi e ai conti.
L'incapacità dei Carolingi di risolvere il problema scandinavo è manifesta: nel 911, Carlo il Semplice cede la Bassa Senna al capo vichingo Rollone, e si rimette a lui per difendere l'estuario e il fiume, in aiuto di Parigi. Questo clima d'insicurezza ha accelerato la disgregazione del potere carolingio.
Ad Est si profila una nuova minaccia con l'arrivo dei Magiari un popolo delle steppe che occupa la Pannonia. Fanno le loro prime incursioni ai margini dell'impero, in Moravia nel 894, in Italia nel 899. Nel 907, il regno slavo della Grande Moravia cede a causa dei nuovi invasori.
Dalla fine del IX secolo, i re carolingi regnano troppo poco tempo per essere efficaci:
·         Luigi II il Balbo resta re dei Franchi per soli due anni (877-879);
·         Carlo III il Grosso è re per 3 anni (879-882);
·         Luigi V muore in un incidente di caccia dopo solo un anno di regno (986-987).
Quindi, gli ultimi re carolingi non riescono dunque ad imporre una politica a lungo termine.
Dalla fine del IX secolo, alcuni aristocratici che non facevano parte della famiglia dei Carolingi accedono al potere: nel 888, dopo la morte di Carlo il Grosso, Berengario I gli succede sul trono d'Italia.
Nel X secolo, le dinastie che si imposero dappertutto nel territorio carolingio non discendono più da quella carolingia.
Alla fine del X secolo, l'autorità centrale carolingia sparì, a vantaggio degli aristocratici, in particolare dei principi territoriali; è la fine della dinastia carolingia e il trionfo delle stirpi aristocratiche.
La rinascita europea promossa dai Carolingi influenzò anche la sfera artistica, determinando il recupero del linguaggio classico. Nelle grandi chiese abbaziali, si affermò una nuova tipologia basilicale a tre navate con abside, cripta e facciata tra torri, mentre nella Cappella Palatina ad Aquisgrana prevalse la pianta centrale di derivazione bizantina.
[58] Carlo Magno - (742 - Aquisgrana 814). Re di Neustria (758-814), re di Borgogna (768-814), re dei franchi (771-814), imperatore del Sacro romano impero (800-814). Figlio di Pipino il Breve, re dei franchi, e di Berta, figlia di Cariberto, conte di Laon. Alla morte del fratello Carlomanno (771) incorporò anche i suoi domini, costrinse alla fuga i suoi figli e si fece acclamare unico re dei franchi. Nello stesso anno ripudiò la moglie Ermengarda, figlia del re dei longobardi Desiderio, e sposò la nobile sveva Ildegarda. Nel 773, su sollecitazione di papa Adriano I, scese in Italia contro i longobardi e assediò, prima a Pavia e poi a Verona, il re Desiderio e suo figlio Adelchi. Nel giugno del 774, sempre con il sostegno della chiesa, fece prigioniero Desiderio e annetté alla corona anche il regno longobardo. Nel 776 sconfisse il duca del Friuli; nel 780 intervenne, di nuovo su richiesta del papa, contro Arechi, duca di Benevento e genero di Desiderio, che godeva dell’appoggio bizantino, e lo sconfisse definitivamente nel 787. Contemporaneamente agli interventi nell’Italia longobarda condusse numerose campagne diplomatiche e militari. Attuò sanguinose campagne militari contro i sassoni che nell’804 vennero forzatamente cristianizzati. Fra il 787 e il 793 combatté contro i bavari fino alla sconfitta del loro re Tassilone III. Gli avari investiti dagli eserciti franchi fra 791 e 796, furono in parte dispersi e in parte sottomessi e convertiti al cristianesimo. Minor successo ebbero le spedizioni verso nord, contro danesi e normanni, e verso sud, contro gli arabi di Spagna. Qui, dopo alcuni successi iniziali (778), Carlo fu sconfitto a Saragozza e a Roncisvalle e solo nell’801 il figlio Ludovico, re d’Aquitania, poté concludere una pace con l’emirato di Cordoba e provvedere alla creazione di una marca ispanica. Il grande impero costruito da Carlo fu consacrato alla fine del secolo, quando papa Leone III, minacciato da una congiura nobiliare, gli chiese protezione, lo accolse a Roma con i più alti onori e nella notte di Natale dell’anno 800 lo incoronò imperatore. L’opera di rafforzamento e di consolidamento dell’impero continuò negli anni successivi. In particolare, la ricostruzione di un impero d’occidente rese problematici i rapporti con l’impero bizantino sfociati in una guerra che si concluse soltanto nell’812 con un accordo di pace. Ma le preoccupazioni maggiori di Carlo Magno si rivolsero all’organizzazione delle strutture del potere, all’amministrazione e gestione dell’impero e all’omogeneizzazione dei diversi territori. Egli provvide alle esigenze di questa politica spostandosi continuamente, con tutta la sua corte, dall’una all’altra zona dell’impero. In ambito economico cercò, anche attraverso una riforma monetaria che incentivò la circolazione della moneta d’argento, di rivitalizzare il commercio. Sul piano politico e su quello del controllo sociale fece leva sulla potente aristocrazia terriera laica ed ecclesiastica e sul rapporto vassallatico-beneficiario che stabiliva una complessa rete di legami personali. Si trattava di un sistema destinato a realizzare una sorta di compenetrazione tra ordinamento pubblico e strutture vassallatico-beneficiarie, per cui divenne abituale la concezione che la carica pubblica fosse essa stessa un beneficio, anziché un servizio da compensare con un beneficio, cioè con la concessione di beni. Particolarmente attivo fu nella promozione delle arti e della cultura letteraria, filosofica e scientifica, al punto che si è parlato, per gli anni del suo regno, di una vera e propria rinascita carolingia. Essa si appoggiò non tanto ai centri urbani, quanto a istituzioni ecclesiastiche, soprattutto monasteri (spesso sedi di celebri scriptoria e luoghi di istruzione per i figli dei nobili). Parteciparono a quest’opera di diffusione della cultura intellettuali provenienti da diverse parti dell’impero, che furono spesso anche consiglieri del sovrano, considerati più tardi membri di una cosiddetta schola palatina (fra gli altri il diacono sassone Alcuino, Paolo Diacono, il poeta visigoto Teodulfo, il teologo di origine italiana Paolino, il franco Eginardo). Destinato a restare per secoli simbolo dell’unità dei cristiani e dell’Europa e simbolo della lotta contro gli infedeli, Carlo Magno poté trasmettere il suo potere al figlio Ludovico I il Pio che gli succedette come unico imperatore nell’814.
Carlo Magno divide il suo impero in contee; nelle zone meno pacifiche crea i ducati, e fa controllare le zone di frontiera da degli uomini di sua confidenza, che più tardi diventeranno i marchesi.
La contea è la più importante di queste circoscrizioni: alla sua testa, Carlo Magno mette un funzionario reale, scelto generalmente tra le più potenti famiglie di proprietari terrieri franchi; questo funzionario esercita il potere militare e giudiziario (potestas), normalmente per delega, e riscuote le tasse per conto del sovrano. È aiutato nel suo compito da dei visconti. Solitamente è anche destituibile dall'imperatore.
Parallelamente Carlo Magno si appoggia sulla Chiesa, che riorganizza privilegiando l'autorità dei vescovi metropoliti (gli arcivescovi); per quello che concerne il monachesimo, dà alle principali abbazie delle terre da coltivare e pone gli abati sotto la sua diretta autorità.
Un'altra misura va nella stessa direzione: a degli uomini laici di confidenza ne aggiunse un altro, generalmente un chierico, attraverso una nuova istituzione: i missi dominici. Questi inviati erano incaricati di risolvere i conflitti tra i nobili e di portare gli ordini del re presso i detentori delle cariche, ma anche di raccogliere il giuramento di fedeltà dei suoi sudditi. Non si sa la reale portata delle loro azioni, ma questo sembra indicare che il re ha delle difficoltà a far rispettare la propria autorità.
Sotto l'influenza dei numerosi cristiani letterati della sua corte, il re è anche legislatore: egli faceva già applicare la legge attraverso il bando germanico, e la riallacciò anche con la concezione romana del diritto e rinnovò l'importanza degli atti scritti nel regno. Dopo le assemblee che riunirono i nobili del regno furono emesse dalla cancelleria del Palazzo delle ordinanze, divise in capitoli: Queste sono delle importanti e precise fonti per lo studio di quel periodo storico.
A un altro livello si deve ai letterati cristiani la nascita di una nuova concezione dello Stato. Si tratta di una restaurazione dell'impero romano, sebbene essa in realtà poggi su fondamenti molto differenti per legittimare la monarchia: è una concezione profondamente cristiana, e fa del re dei Franchi addirittura un nuovo Davide. L'idea dell'unità del regno sembra prevalere con la rinascita dell'Impero d'Occidente, nel Natale dell'800
Dal punto di vista culturale, l'epoca di Carlo Magno, di suo figlio Ludovico il Pio e dei suoi nipoti è conosciuta con il nome di rinascimento carolingio. L'insegnamento classico, particolarmente quello del latino, è rivalorizzato, dopo essere stato snaturato e trascurato alla fine del regno dei Merovingi. Tuttavia, la lingua latina è ormai quasi esclusivamente la lingua del clero, mentre negli ambienti militari è preferito il francone: questa evoluzione inevitabile fa del latino una lingua morta e fa nascere gli antenati delle lingue nazionali odierne: il romanico e il teutonico, rispettivamente del francese e del tedesco.
[59] S.R.I. – sebbene si consideri il 962 come anno di fondazione del Sacro Romano Impero da parte di Ottone I, è preferibile legare l'inizio del Sacro Romano Impero alla incoronazione di Carlo Magno come Imperatore dei Romani nell'800.
La maggioranza degli storici considera che l'instaurazione dell'Impero sia stato un processo avviato dalla spartizione del Regno Franco attuata dal Trattato di Verdun nell'843 proseguendo la dinastia Carolingia in modo indipendente nelle tre sezioni.
Il duca di Sassonia, incoronato Imperatore col nome di Ottone I il Grande nel 962 ebbe la benedizione del Papa. Ottone aveva guadagnato molto del suo potere, quando nel 955 aveva sbaragliato i Magiari nella Battaglia di Lechfeld.
La sua incoronazione è indicata come una translatio imperii, trasferimento dell'Impero, sottintendendo che c'era e ci sarebbe stato sempre un solo Impero, iniziato con Alessandro Magno, passato ai Romani, poi ai Franchi, e finalmente al Sacro Romano Impero.
Gli imperatori tedeschi si consideravano quindi i diretti successori dell'Impero Romano; e per questo motivo inizialmente si davano il titolo di Augusto. Inizialmente essi non si chiamarono ancora Imperatori Romani, probabilmente per non entrare in conflitto con l'Imperatore Romano che ancora esisteva a Costantinopoli. Il termine Imperator Romanorum divenne comune solo successivamente all'epoca di Corrado II il Salico.
A quel tempo, il regno di Germania fu non tanto tedesco, quanto una confederazione delle vecchie tribù germaniche dei Bavaresi, Alemanni, Franchi e Sassoni. L'Impero come unione politica sopravvisse solo per la forte personalità di Ottone: anche se formalmente eletto dai capi delle tribù germaniche, nella realtà riuscì a designare il loro successori.
Questo cambiò dopo Enrico II, morto nel 1024 senza figli, quando Corrado II, primo della dinastia Salica, fu eletto Re nello stesso anno solo dopo qualche controversia. Il re era scelto con una complicata combinazione di influenza personale, lotte tribali, eredità ed acclamazione da parte dei capi chiamati a formare l'assemblea dei Grandi Elettori.
Già a quel tempo il dualismo fra i territori, quelli delle vecchie tribù radicate nelle terre dei Franchi, ed il Re/Imperatore, divenne solo apparente. Ciascun Re preferiva passare la maggior parte del tempo nei suoi territori. Questa pratica cambiò solo al tempo di Ottone III Re nel 983, imperatore dal 996 al 1002, che cominciò ad utilizzare le sedi vescovili sparse nell'Impero come sedi temporanee del governo. Anche i suoi successori Enrico II, Corrado II ed Enrico III, apparentemente riuscirono a legare i Duchi al territorio. Non è, quindi, una coincidenza se all'epoca la terminologia cambia e si trovano le prime occorrenze del termine Regnum Teutonicum.
La gloria dell'impero si estinse quasi nella Lotta per le investiture, durante la quale Papa Gregorio VII scomunicò Enrico IV (Imperatore dal 1084 al 1106). Sebbene fosse stata tolta dopo il viaggio a Canossa del 1077, la scomunica ebbe vaste conseguenze. Nel frattempo i duchi tedeschi avevano eletto Re Rodolfo di Svevia, che Enrico IV sconfisse solo dopo una guerra di tre anni nel 1080. Le radici mitiche dell'Impero erano danneggiate per sempre; il Re tedesco era stato umiliato. Più importante ancora, la Chiesa diveniva un giocatore indipendente sulla scacchiera dell'Impero.
[60] Trattato di Verdun - Stipulato dai tre figli di Ludovico il Pio, fu l’esito della sconfitta di Lotario a Fontenoy nell’841.
L’accordo istituzionalizzò lo smembramento dell’impero carolingio: Lotario ebbe il titolo imperiale e una fascia verticale di territori dal Reno al Rodano e all’Italia, ma fu stretto a occidente da Carlo il Calvo e a oriente da Ludovico il Germanico.
[61] Feudalesimo - Sistema politico-sociale fondato sul feudo e sul rapporto di vassallaggio, che caratterizzò l’Europa occidentale medievale.
Il termine fu introdotto, in un’accezione negativa, dagli illuministi e dai rivoluzionari francesi alla fine del XVIII secolo e fu poi usato da K. Marx per designare una precisa fase della storia dei rapporti di produzione, intermedia fra lo schiavismo e il capitalismo borghese.
Formatosi in epoca carolingia (IX secolo), in seguito al diffondersi della prassi da parte della corona di affidare lotti di terreno a cavalieri in cambio della garanzia di un loro appoggio al principe in caso di necessità, ebbe un ampio sviluppo in seguito al dissolversi del potere politico centrale, quando i vari signori poterono considerarsi i possessori a tutti gli effetti dei territori avuti in distribuzione e cominciarono a esercitare in vece del principe dei diritti sulla popolazione contadina che li abitava (formazione del dominatus loci). Si realizzò così una netta separazione della società nelle due classi dei guerrieri, che detenevano il monopolio dell’uso delle armi, e dei contadini, addetti alla lavorazione dei campi e sottoposti alla interessata protezione dei primi. Con il diffondersi dell’investitura a vescovi e abati (chierici), anche la chiesa contribuì in maniera determinante all’affermazione del feudalesimo, al quale tentò di dare una giustificazione morale con l’elaborazione dell’ideologia cavalleresca, in cui si poneva l’accento sul significato umanitario della protezione del cavaliere sulla popolazione sottoposta. Il dibattito sul diritto della chiesa alla designazione di feudi portò inoltre a un duro scontro con il potere imperiale (lotta per le investiture), fomentato anche dai numerosi movimenti religiosi che a partire dall’XI secolo si diffusero in tutta Europa, predicando la necessità di riforma morale della chiesa.
Il sistema feudale raggiunse la sua piena affermazione tra il XII e il XIII secolo, quando cominciò ad allentarsi il legame tra principe e vassalli; di conseguenza questi ultimi acquisirono una sempre maggiore autonomia. Esso ebbe tuttavia modalità di sviluppo assai differenti tra le varie regioni d’Europa. Se infatti nell’Italia settentrionale e in alcune zone della Francia furono proprio le forme feudali a sancire la completa dissoluzione del potere centrale monarchico, altrove esse furono un mezzo per la costituzione di solide monarchie. Ciò avvenne in Catalogna, nelle Fiandre e in Normandia, dove il potere centrale riuscì a mantenere il controllo dei signori insigniti dei feudi e a farne anzi un indispensabile tramite per il controllo di tutte le regioni del regno. Tale sistema caratterizzò in particolare i regni normanni, sia in Francia che in Inghilterra e nell’Italia meridionale. Tentativi analoghi in Germania e nell’Italia settentrionale da parte di Federico Barbarossa tra il 1158 e il 1183 si scontrarono rispettivamente con la presenza di principati ormai da tempo consolidati e autonomi e con la società dei comuni, che minò alle basi l’intero sistema, svuotando di significato il concetto stesso di un potere e di una gerarchia fondati sul diritto di nascita o sull’investitura da parte di un principe.
[62] Beneficio - Nel diritto romano originariamente ogni concessione da parte dell’autorità pubblica a persone private o a enti di una condizione di particolare vantaggio e favore. Si definirono così nei secoli III-IV anche le assegnazioni imperiali di terre ai veterani o ai barbari nelle regioni di frontiera, oppure quelle ai propri commendati da parte dei grandi proprietari fondiari. Tutte queste concessioni erano temporanee (precaria) e revocabili. Costituivano formalmente un dono elargito liberamente in ricompensa di un servizio reso, che andava restituito in caso di rottura del rapporto personale che l’aveva causato, per la morte o il venire meno della lealtà e fedeltà del beneficiario. Nella Francia carolingia dell’VIII secolo il beneficio andò sempre più accompagnandosi di fatto al rapporto di vassallaggio. La fedeltà e l’aiuto militare portati dal vassallo al signore diventavano il servizio e il legame personale in cambio del quale veniva elargito il beneficio, consistente per lo più in terre e possedimenti immobiliari. Nella costruzione e nell’evoluzione dello stato carolingio, carattere beneficiario assunse anche l’incarico dell’ufficio pubblico esercitato per delega del sovrano da conti e vassalli. Insieme alle terre, anche l’ufficio venne trasformandosi in beneficio personale e non revocabile, salvo che per grave colpa (fellonia).
Nel IX e X secolo divenne trasmissibile agli eredi, e intorno a terre e uffici si strutturarono famiglie nobiliari dinastiche. Dall’XI secolo, il termine, ormai indissolubilmente unito al legame vassallatico, lasciò il posto a quello di feudo. Anche il beneficio ecclesiastico, tuttora presente nel diritto canonico, si sviluppò come istituto nell’alto Medioevo. Esso designa un insieme di beni di proprietà della Chiesa, costituitosi nel tempo grazie a legati e donazioni pubbliche e private, che si assegnava al titolare di un ufficio ecclesiastico (vescovo, canonico, parroco) per il suo sostentamento. Quando il donatore del complesso patrimoniale che costituiva il beneficio era anche il fondatore dell’ufficio (chiesa privata, altare privato, monastero), questi per lo più conservava a sé e ai suoi eredi il diritto di scelta del beneficiario.
[63] Immunità - Diritto, in età medievale, di sottrarre le proprie terre alla giurisdizione degli ufficiali pubblici. Questa istituzione, già abbozzata in periodo romano, fu sviluppata e riorganizzata dai re merovingi e carolingi, che concedettero diplomi di immunità a chiese e monasteri, più raramente a laici. I diplomi vietavano agli ufficiali pubblici l’ingresso nelle terre degli immunisti, cui veniva ceduto il diritto di esazione di alcune imposte pubbliche. Gli immunisti assunsero così, nei confronti degli abitanti delle aree immuni, le funzioni tipiche degli ufficiali pubblici, e in particolare l’amministrazione della giustizia. L’immunità offrì lo spunto per la costruzione di solidi ambiti di potere autonomo
[64] Vassallaggio - In epoca feudale forma di rapporto personale costituito dalla sottomissione di un uomo libero a un signore, a cui venivano assicurati fedeltà e appoggio militare in cambio di protezione e di un feudo o beneficio, consistente in una rendita, spesso fondiaria. Nacque in Gallia tra il VII e l’VIII secolo; riprese alcuni aspetti della commendatio romana, arricchendola delle caratteristiche militari tipiche dei vincoli personali stretti tra i capi germanici e integrandola con la concessione del beneficio, già diffusa tra i franchi di età merovingia. Sotto i Carolingi la formazione di ampie clientele rappresentò un importante strumento di lotta politica. Tra l’XI e il XII secolo si affermarono da un lato la possibilità di giurare fedeltà a diversi seniores, dall’altro il pieno controllo del vassallo sul beneficio, che divenne il vero elemento costitutivo del rapporto. Si indebolì così il rapporto vassallatico, che proprio in questa debolezza trovò una nuova funzione politica nel definire giuridicamente i processi di ricomposizione territoriale; i poteri minori poterono infatti riconoscere le forze maggiori giurando fedeltà vassallatica senza per questo veder seriamente ridotta la propria autonomia.
[65] Vassallo – Nel mondo medievale, come vassallo (dal latino medievale vassallum, «servo», derivato da vassus, di origine germanica, che significa «giovane»), si intende colui che riceve dal sovrano l'affidamento di incarichi amministrativi e contemporaneamente la gestione di territori, ottenendo in cambio un giuramento di obbedienza e fedeltà, oltre allo svolgimento delle funzioni amministrative delegate dal sovrano. Formavano la casta dei vassalli i conti, i marchesi, i margravi, e le cariche ecclesiastiche di vescovo e abate. Una delle premesse della nascita del feudalesimo, e quindi del rapporto di vassallaggio sta nella crisi dell'Impero Romano, che sollecita la formazione e l'allargamento di clientele attorno ad un capo. Il senso di insicurezza che invase il mondo antico dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente accrebbe il peso di forme sociali diverse da quelle fiorite nel mondo antico, il feudalesimo fu una di queste. La società, all'inizio del medioevo, vedeva riemergere forze elementari di solidarietà tra uomini, irrobustite dalle invasioni dei barbari per i quali l'associazione parentale ed etnica erano essenziali nella società. Il peso della coesione familiare e parentale caratterizzò lo stesso vincolo che genererà il rapporto vassallatico: senior e junior, vecchio e giovane, indicavano il signore ed il suo vassallo.
[66] Capitolare di Quiersy - Documento con cui Carlo il Calvo dispose che durante l’assenza del re, impegnato in una spedizione militare, alla morte di un conte le sue funzioni fossero provvisoriamente assunte dal figlio; conservò però al re il potere di nominare in seguito un diverso successore. Fu il primo passo verso l’ereditarietà dei feudi. Come spiegare questa ascesa dell'aristocrazia e il disgregamento del potere reale?
Ecco le principali fasi dell'ascesa dell'aristocrazia:
I regna esistevano già ai tempi dei Merovingi e si prolungarono fino sotto i Carolingi. Si trattava di territori dove l'unità poggiava in una forte identità etnica e culturale. Un regnum poteva essere affidato ad un figlio di un re, senza per questo diventare indipendente: questo fu il caso, in epoche diverse, dell'Aquitania, la Provenza, la Borgogna, la Sassonia, la Turingia e la Baviera.
·         I conti: questa parola deriva dal latino comes, che significa compagno (del re); i conti esistevano già nell'epoca merovingia: i re dava loro alcune terre, dei regali o una carica per ricompensarli dei loro servizi; ma i conti assumono la loro massima importanza sotto i Carolingi; funzionari, sono designati e revocati dal re che li recluta nell'aristocrazia; garantiscono l'ordine pubblico presiedendo il tribunale, riscuotono le tasse ed organizzano le truppe in un pagus, circoscrizione territoriale, la quale è sotto la loro responsabilità. Nel corso del IX secolo, i conti diventano sempre più autonomi nei confronti del re.
·         I duchi: la parola ha un'etimologia latina che significa "conduttore dell'esercito". Il duca è una sorta di conte che raccogli più pagi per lottare contro le invasioni scandinave. I Robertingi ottengono nel X secolo il titolo di "duca dei Franchi" (dux Francorum). Questi personaggi saranno i più potenti tra i "principi territoriali" come i duchi di Aquitania, di Borgogna e di Normandia.
·         Il marchese, in latino marchio, è un conte che custodisce una regione di confine chiamata marca e la difende in caso d'attacco.
Alla fine del IX secolo, come conseguenza del capitolare di Quierzy (877) queste cariche di conte, duca e marchese diventano ereditarie: i re carolingi non possono più destituirli, quindi il suo controllo s'indebolisce. Si assiste allora alla costituzione di dinastie locali di conti, duchi e vassalli del re. Il vassallaggio, che era stato ben controllato sotto Carlo Magno e serviva per i suoi interessi politici, si ritorce contro l'autorità dei suoi successori. L'aristocrazia laica ed ecclesiastica è quindi in posizione predominante a metà del Medioevo, in Francia e in Germania.
I conti sono fisicamente più vicini al popolo dei Carolingi. L'autorità del re sembra lontana ai contadini. La maggior parte degli uomini liberi del regno vive in contatto diretto del conte e del suo delegato. Essi li potevano sentire, per esempio, durante le sedute del tribunale. La loro autorità è più immediata di quella del re. Si instaura quindi un rapporto stretto e personale: i contadini si mettono sotto la protezione dei nobili ed entrano sotto le loro dipendenze.
Nel X secolo, i segni dell'autonomia dei principi si moltiplicano: i conti e i duchi si sono presi le funzioni pubbliche e i diritti fino ad allora riservati al re: costruiscono delle torri e dei forti, e veri e propri castelli in pietra che dominano un territorio che è caduto nelle mani di un signore che conia proprie monete con la loro effige e il loro nome che prende sotto la loro protezione il clero e controlla le investiture episcopali.
[67] Constitutio de feudis - Editto emanato dall’imperatore Corrado II il Salico col quale si riconobbe l’ereditarietà dei feudi minori a un secolo e mezzo di distanza dal capitolare di Quierzy (877). Promulgato in occasione della discesa di Corrado II in Italia, dove valvassori e mercanti si erano ribellati contro il vescovo di Milano Ariberto, alleato dei grandi feudatari laici ed ecclesiastici, rappresentò il tentativo di sgretolare il fronte feudale e di coalizzare al fianco dell’imperatore le forze della nobiltà minore. Confermando un orientamento diffuso, l’editto ebbe applicazione anche fuori d’Italia e accelerò il processo di disgregazione del sistema feudale, specie nelle zone in cui più vivace era il processo di rinascita delle città.
[68] Curtis - La corte è quell'insieme di villae e di edifici dove il signore soggiornava ed espletava le sue funzioni di controllo sul territorio.
Già alla fine del II secolo i grandi possidenti terrieri nell'area dell'Impero Romano, tendevano ad organizzarsi economicamente, creando latifondi più o meno estesi. Causa la notevole pressione fiscale esercitata dalla tributaria, molti piccoli e medi coltivatori diretti, preferivano mettersi alle dipendenze di questi signori proprio per sfuggire agli oneri di natura economica contratti verso lo stato. Gli stessi grandi imprenditori, accettavano ben volentieri di assumere questi ultimi - vista la scarsa reperibilità di schiavi - in qualità di colono, dando loro in usufrutto singoli lotti di terreno su cui usufruivano di una certa percentuale della rendita dei campi. La grande proprietà diventò inevitabilmente un polo di attrazione non soltanto per i contadini, ma anche per gli artigiani, commercianti nonché per piccoli borghi che si venivano a trovare all'interno del fondo. I grandi esponenti di questa classe dirigente riuscirono anche ad ottenere delle agevolazioni da parte imperiale, ad esempio quella dell'immunitas ovvero: il diritto a non pagare certe tasse e di respingere dal proprio territorio qualsiasi agente - compreso quello del fisco - di nomina statale. Il signore quindi, diventava il vero e proprio arbitro della situazione, esercitando direttamente sul suo possedimento un certo controllo in ambito fiscale, giuridico, militare e politico. Le cosiddette ville rustiche tesero sempre di più ad attuare un'economia di sussistenza e ad organizzarsi non più verso il senso dell'estetica quanto verso la funzionalità e la difesa. Queste cellule ormai autonome presero ad essere sorvegliate da delle milizie personali pagate dal signore, i cosiddetti buccellari, che divennero un piccolo esercito privato.
Dopo le grandi invasioni barbariche e il conseguente spopolamento delle città, i latifondi divennero un polo di attrazione per la popolazione urbana: la città non essendo più in grado di esercitare nessun controllo politico e direttivo per il territorio circostante, venne sempre di più lasciata a se stessa. I Germani, si trovano di fronte al problema di come controllare i territori conquistati. Visto lo stato pessimo delle grandi vie di comunicazione e la contrazione dei centri urbani, delegarono la nobiltà delle prerogative di controllo, che altrimenti sarebbero state appannaggio dello stato. Ai nobili fu concesso in usufrutto un feudo: ovvero, una parte del territorio sotto la sovranità del signore, con il quale il nobile poteva finanziarsi e qualificare l'attività che era tenuto a svolgere per conto del sovrano. La vecchia aristocrazia di stampo latino e senatoriale fu completamente spazzata via dopo la calata dei Longobardi di re Alboino, nel 568. I vecchi possedimenti passarono quindi di padrone: dai Latini ai Germani.
La corte dell'Alto e quella del Basso Medioevo si distinguevano fortemente: la prima altro non era che l'erede della villa romana, dominata da un signore o da un cavaliere che esercitavano un potere delegato dal concessore del beneficium e che tendevano a rimanere piuttosto isolati dai vicini; la seconda sviluppatasi nell'età feudale propriamente detta era caratterizzata da un maniero centrale sorto durante l'età dell'incastellamento ed era retta da un signore dotato d'autorità di banno e legittimato a lasciare in eredità il beneficium ai figli. La corte di questo periodo possedeva l'aspetto di un piccolo stato dotato di un proprio esercito, di un tribunale e di un sovrano (il feudatario).
La curtis riproponeva le stesse caratteristiche e costanti edilizie nelle diverse zone dell'Italia centro-settentrionale, nella valle del Rodano in Francia ed in Germania. La corte era il centro del feudo, ed era composta dagli edifici dove il signore risiedeva ed esercitava il controllo del territorio. L'interno era composto dal maniero del grande proprietario del fondo, dalle stalle e i granai, dalle casupole dei servi e spesso vi era installato anche un mulino. Non mancava anche una piccola cappella privata dove si svolgevano i battesimi e le messe. Solitamente, di fianco al maniero era costruita l'abitazione del fattore o balivo. Costui non era solo la persona delegata alla ripartizione e allo stoccaggio nei magazzini delle derrate alimentari, ma era anche colui che esercitava la giustizia per conto del signore, all'interno del feudo.
Esistevano varie tipologie di corti nel bacino del Mediterraneo e nell'Europa centro-settentrionale ed orientale. Le tenute organizzate in curtis si distinguevano dal numero di mansi cui erano sottoposte: nell'Italia del nord, in Germania e in Francia, vi erano corti vastissime a più mansi ed altre meno estese che potevano a stento approvvigionare i padroni e la servitù. Spesso i mansi erano situati anche molto distanti gli uni dagli altri, trovandosi in territori retti da diversi feudatari o vassalli.
I cittadini dei borghi sub-urbani facevano riferimento prevalentemente alle città più grandi presenti sul territorio ove risiedevano i grandi margravi o adibite a sedi vescovili. I locatari dei piccoli e medi fondi che si trovavano prevalentemente nelle zone rurali, avevano come referente la villa signorile ed in seguito il castello. All'interno di questi latifondi i borghi situati nella parte tributaria erano difesi solo da uno steccato o completamente privi di sistemi difensivi, mentre il centro indominicato, si incastellava ed era circondato da poderose mura difensive.
Dall’XI secolo, il sistema economico-sociale del feudalesimo entrò in crisi e già con il Capitolare di Quierzy si riconobbe l'ereditarietà dei fondi ai vassalli maggiori. Con la Constitutio de feudis poi abbiamo la quasi definitiva frantumazione di questo sistema. Con queste nuove normative, si riconosceva l'ereditarietà dei feudi anche ai vassalli minori. Nonostante le nuove innovazioni in campo agricolo (aratro pesante, rotazione triennale delle colture etc.) i piccoli fondi non riuscivano a produrre quanto richiesto e i grandi signori preferirono inurbarsi ed investire sul commercio e sui prestiti a interesse. Ma il colpo definitivo alla grande proprietà lo diedero le crociate. I cavalieri, per finanziarsi le spedizioni in Terrasanta, dovettero vendere parte dei loro feudi a delle nuove classi dirigenti che aspiravano al monopolio attraverso l'utilizzo della moneta. Piccoli centri quindi, che in principio erano stati appendice dei latifondi, si trasformarono in cittadine di 30.000 abitanti o anche più.
[69] Economia curtense - L'economia curtense, era, generalmente, di sussistenza, si tendeva cioè a produrre il più possibile all'interno del feudo in un'ottica di autoconsumo. Anche i prodotti di natura non agricola, come le manifatture e gli attrezzi da lavoro, erano fabbricati all'interno del fondo utilizzando i materiali a disposizione. Si cercava inoltre di sopperire alla mancanza di alcuni beni producendone di simili, ma di qualità più bassa.
Spessissimo, perfino tra gli storici, si è considerata questa economia come completamente chiusa, priva di sbocchi verso l'esterno. Questo è errato, poiché alcune manifatture più rifinite ed altri approvvigionamenti dovettero essere necessariamente acquistati in altre zone. Ad esempio i nobili, potevano permettersi di comprare il vino da altri signori, così come in periodi di carestia, quando i servi della gleba pativano la fame, dovettero procedere all'acquisizione di derrate alimentari all'esterno. Non bisogna dimenticare, poi, che le città, sebbene ridotte di dimensioni, rimasero comunque dipendenti dalle campagne e dovettero sempre importare da esse i prodotti agricoli.
Un fattore importante per la notevole estensione di questo genere economico, fu la penuria di denaro liquido e lo stato delle grandi vie di comunicazione. Il più delle volte, gli scambi avvenivano tra beni in natura, tramite il baratto, ma non è del tutto vero che la moneta scomparve completamente. Ad esempio, il bisante d'oro continuò a circolare e quando si attuavano questi scambi, e i contadini dovevano vendere i loro prodotti, ci si rifaceva sempre ad un ipotetico valore monetario. La moneta corrente d'argento, poi, il soldo, continuò a circolare e la sua continua svalutazione fa comprendere che si dovette adattare alle crisi dell'economia.
Molte volte poi, le proprietà organizzate in curtis, si trovavano a contatto con altri fondi di natura ecclesiastica o regia e persino con residui di appezzamenti di terreno allodiali coltivati direttamente da alcuni contadini liberi. Ciò si verificava, poiché i feudi, almeno nell'Alto Medioevo, non costituivano piccoli staterelli dai confini ben definiti, ma, nella maggior parte dei casi, piuttosto come un insieme di proprietà diffuse sul territorio, tanto da far sì che alcuni villaggi fossero addirittura divisi tra diversi feudatari. Come si vede quindi, le possibilità di scambio furono necessariamente prese in considerazione.
Grazie alla sua natura autarchica che faceva nascere lunghissimi periodi di relativa pace, ed a una più razionale organizzazione agricola, si andarono a formare delle eccedenze nella produzione che dovevano trovare sbocco - sia pure a livello modesto e intermittente- in un mercato regionale. Il fatto è confermato dagli ultimi ritrovamenti di magazzini, sopratutto nei grandi monasteri i quali, essendo ancora in possesso delle antiche tecniche di agronomia di natura classica/romana producevano in abbondanza e potevano permettersi di vendere i loro surplus.
Una piccola rivoluzione si verificò, quando, con l'aumento del costo degli equipaggiamenti guerreschi, i feudatari furono costretti a pretendere dai contadini tributi in denaro. Ciò fece sì che i piccoli coltivatori fossero costretti ad affiancare alle attività agricole anche quelle mercantili e di piccolo artigianato. La moneta, così, cominciò a circolare con più diffusione e gli orizzonti mercantili, prima più ristretti (sebbene, a differenza di quanto creduto dalla vecchia storiografia, non assenti), ad allargarsi.
[70] Servi della gleba – Il termine indica i contadini dipendenti dalla terra, sia medievali che moderni.
Distinti dagli schiavi romani in virtù di un legame con la terra più forte di quello con un padrone onnipotente, si sarebbero sviluppati in simbiosi con il passaggio dal sistema sociale e di produzione antico a quello feudo-signorile fondato sul controllo delle risorse economiche e politiche connesse alla terra.
Il termine è parzialmente erroneo se applicato al Medioevo, perché mette troppo l’accento sui legami tra contadino e territorio, lasciando da parte sia il complesso sviluppo di una stratificazione giuridica e sociale inerente agli strati dominanti della società, sia il passaggio della dipendenza contadina da un ambito reale (la terra) a un ambito personale (il signore).
Dal IX secolo le trasformazioni della più importante struttura produttiva rurale, la villa, in Italia curtis, da azienda fondata su una riserva centralizzata il cui sfruttamento era devoluto a schiavi ad azienda basata sull’utilizzo di manodopera estranea alla riserva e radicata sul massaricio (manso), portarono a uno spostamento di manodopera che ebbe importanti conseguenze giuridico-sociali. Certo lo schiavo del massaricio tendeva così ad assimilarsi agli altri massari liberi, ma al contempo lo sviluppo di legami con una categoria priva di qualsiasi diritto giuridico e sociale contribuì a trasformare buona parte dei liberi contadini, in servi alla mercé del loro signore fondiario e territoriale.
Dopo il X secolo, con lo sviluppo della signoria rurale come base dell’attività sociale ed economica, la stragrande maggioranza delle vittime del banno signorile si trovò costretta a subire oneri reali e personali (taglia, testatico, corvée) che ne proclamavano lo status servile.
Alla fine dell’antico regime il termine aveva assunto una dirompente forza simbolica, tale da far coincidere, nella Rivoluzione francese, l’abolizione della servitù della gleba con la fine del regime feudale in Europa.
[71] Corvées - Prestazione d’opera obbligatoria consistente in alcune giornate di lavoro che il colono residente nella pars massaricia doveva prestare gratuitamente sulla pars dominica della villa. Dal diritto feudale la corvée passò al diritto pubblico regio in relazione a lavori di manutenzione e di difesa. Abolita in Francia con la Rivoluzione, sopravvisse in Europa orientale fino agli inizi del XIX secolo.
[72] Istituto del maggiorasco – Il diritto di maggiorasco (in latino majoratus) era, nell'antico sistema successorio, il diritto del primogenito di ereditare tutto il patrimonio familiare.
Connesso solitamente al diritto di primogenitura, il maggiorasco era un istituto proprio del diritto successorio feudale in base al quale un patrimonio veniva trasmesso integralmente al parente di grado più prossimo all'ultimo possessore e, in caso di pari grado, a quello più anziano. Comunque, il maggiorasco aveva una sua logica:
·         la maggiore ricchezza era la terra la quale, se troppo frammentata, non produce più ricchezza.
·         il figlio maggiore era anche quello che prima degli altri era in grado di difendere il feudo e la proprietà.
Il diritto di maggiorasco dunque mirava a perpetuare in qualche modo il potere e il patrimonio familiare.
Gli altri figli, se maschi, potevano combinare buoni matrimoni, darsi alla Cavalleria o al clero, se non preferivano il brigantaggio o la prostituzione.
[73] Cavalleria medievale - La cavalleria medievale seguì l'evoluzione che la società, l'economia e la tecnica bellica ebbero nel medioevo.
Fu una evoluzione lenta ma costante, ma sempre coerente con i cambiamenti del contesto socioeconomico che ne era il supporto.
Un cavaliere non si improvvisava, veniva addestrato fin dalla fanciullezza e, quindi, armato con un equipaggiamento il cui costo poteva superare quello di 20 buoi, in pratica una piccola proprietà terriera.
Si formò spontaneamente un gruppo elitario, separato e autoreferente che si autocelebrava anche attraverso il racconto delle proprie imprese ed attraverso una vera e propria liturgia dell'iniziazione e dell'accettazione o cooptazione in un circolo sempre più chiuso. La letteratura epica si incaricherà di idealizzarne e celebrarne gli aspetti eroici, il più delle volte usurpati.
Lentamente si consolidò una fraternitas, la cavalleria medievale, con regole sempre più rigorose che subiranno continue eccezioni.
La separazione dal mondo dei rustici aumentò sempre di più ed il solco iniziale divenne una voragine. Da una parte pochi eletti, dall'altra la massa disprezzata e sfortunata degli inermi o pauperes che avevano una sola possibilità di riscatto: mettere la propria vita in gioco nei campi di battaglia al servizio di qualche Senior.
Era un mito quello che il cavaliere medievale coltivava, esaltandolo in quelle fraternitas che daranno luogo ad una vera e propria classe sociomilitare particolarmente rigida ed impermeabile alla cui base c'era lo spirito di gruppo e di corpo.
La storia concorrerà all'affermazione di questa nuova classe di guerrieri, separandola sempre di più dal resto della società, gli inermes, subordinati e sottoposti a quei bellatores equestri che costituivano la base del potere.
Certo il servizio militare, oltre ai rischi, offriva notevoli vantaggi a quei soggetti che ne sapevano approfittare. Le opportunità di arricchimento a seguito delle azioni belliche erano grandi, sia attraverso i bottini rapinati sia attraverso il riscatto dei prigionieri. Ciò costituiva un valido compenso per il rischio di perdere la vita.
Il miraggio era quello di passare dal servizio presso altri alla formazione di una propria dinastia, ed acquisire una propria signoria o conquistare un proprio regno. Fu quello che seppero fare i Normanni, signori che prima aiutavano e che poi ad essi si sostituirono approfittando della favorevole situazione politico-militare di quel residuo morente contesto bizantino. I Normanni riuscirono non solo a sostituirsi ai loro datori di lavoro, ma a fondare, oltre che un regno, una dinastia dai cui lombi discese una progenie destinata alla dignità imperiale. L'avventura dei cavalieri normanni prima nel meridione dell'Italia continentale e successivamente in Sicilia è fantastica ed affascinante. È impressionante vedere come un manipolo di uomini decisi, costretti a lasciare le loro terre di origine, riuscirono a inserirsi nelle lotte intestine di quel che restava del Ducato di Benevento e del declinante Impero Bizantino nell'Italia meridionale e a prendere il sopravvento. Vi fu anche il fortunato gioco di circostanze favorevoli che contribuirono alla loro affermazione politico-militare. I Normanni ottennero il riconoscimento del loro potere e delle loro conquiste dal papa Niccolò II prima di lanciarsi alla conquista della Sicilia: questo riconoscimento papale legittimò un puro atto di violenza
Si svilupparono nuove tecniche militari sotto la spinta delle milizie di fanti che non erano più quella massa incoerente di contadini armati di forcone contro cui la carica della cavalleria aveva avuto sempre successo. Le milizie cittadine si proposero come strutture sempre meglio organizzate e coese, gare che avevano sviluppato non solo lo spirito d'emulazione ma lo spirito civico rendendo i cittadini combattenti consapevoli, decisi e temibili. Questi uomini che svolgevano nella vita quotidiana altri compiti, che non le arti marziali, esprimevano, nel momento del combattimento, sotto il gonfalone civico, tutta la loro determinazione bellica, frutto del rancore contro l'aristocrazia militare: essi trascuravano quell'aspetto ludico che era stato una caratteristica del combattimento dei cavalieri. Questi cittadini nel combattimento erano micidiali, le loro picche e le loro quadrelle non lasciavano scampo.
Le nuove armi vincenti erano le picche, l'arco e la balestra, che costituivano per i cavalieri un ostacolo quasi sempre letale. Il cavallo che era stato un'arma vincente si trasformò in un gravissimo punto di debolezza ed impedimento. In questo nuovo modo di combattere il cavallo soccombette sotto i colpi di coltello del fante che lo sventrava, in un'azione inconcepibile per il cavaliere e per il suo codice deontologico: al cavaliere rinchiuso nella sua pesante corazza d'acciaio non rimaneva che fuggire o morire. Queste nuove battaglie si concludevano in un'orgia di sangue, in un tripudio di vendette e di rivalse da parte dei rustici contro il mondo feudale, che ormai volgeva alla fine.
Era un mondo impregnato di valori, che sopravvivrà solo nelle chansons. I cavalieri andranno lietamente a farsi scannare da rozzi bottegai e cupi artigiani che combattevano solo per affermare la loro esistenza civile, la loro capacità economica e la necessità di continuare a sviluppare liberamente quelle attività economico-commerciali dal cui successo derivavano rilevanza sociale e forza politica.
Per queste gentes novae, la guerra non era un gioco, una festa in cui mettere in mostra le proprie virtù cavalleresche magari per gloriarsene agli occhi di una dama o nel caso fortunato per appropriarsi di un bottino e di un ricco riscatto, bensì un mortale e costoso incidente che metteva a rischio le conquista economiche acquisite, oltre che la loro stessa sopravvivenza.
Laddove il cavaliere vedeva nel cavaliere nemico un confratello in campo opposto, il mercante che combatteva vedeva nel cavaliere solo un soggetto che interrompeva la sua attività facendogli perdere denaro e rischiare la vita e perciò lo doveva eliminare, cioè uccidere.
Il mercante combatteva libero da qualsiasi deontologia militare e sotto lo stimolo dell'urgenza di tornare presto ai propri affari sospesi.
Tutto ciò era vissuto come scandaloso dai cavalieri: guai al cavaliere che incontrava sul campo di battaglia qualche macellaio armato che non aveva remora alcuna a fare altrettanto prima col cavallo e poi con il cavaliere.
Il momento magico dei cavalieri medioevali fu l'avventura delle Crociate trascorso il quale iniziò la loro crisi lentamente per continuare, poi, sempre più rapidamente, crisi che culminerà nella battaglia degli Speroni d'Oro a Courtrai, 1302. In questa battaglia le truppe formate da mercanti ed artigiani delle Fiandre massacrarono i cavalieri francesi facendo mucchi dei loro speroni dorati.
Fu il tramonto della cavalleria anche se le sopravvisse quell'etica che era stata alla base della fraternitas, cui una stessa mentalità ed aspirazione di vita aveva legato i cavalieri.
Questa specie di internazionale cavalleresca perse davanti alle nuove fanterie comunali la propria funzione militare lasciando un'eredità di valori e di miti che sarebbero durati nei secoli successivi.
Era lo spirito cavalleresco con la sua carica di leggenda che sopravviveva rappresentando valori che i posteri avrebbero esaltato, per non dire creato.
Questo spirito sopravvisse anche grazie agli ordini cavallereschi che ebbero una funzione reale fintanto che svolsero un'attività politico-militare ma che successivamente o scomparvero come i Templari ad opera di Filippo IV di Francia o si trasformarono in istituzioni puramente simboliche.
[74] Privilegium Othonis - Legislazione imperiale con la quale Ottone I si propose di risolvere il problema dei rapporti fra papato e impero, tentando al contempo di legittimare il controllo imperiale sul papato. Esso stabiliva infatti che l’elezione papale dovesse avvenire soltanto con il consenso dell’imperatore e alla presenza di suoi rappresentanti.
Testo: "Nel nome del Signore Iddio onnipotente, Padre e Figliolo e Spirito Santo. Io Ottone, per grazia di Dio augusto imperatore, insieme con Ottone, glorioso re, mio figlio, per disposizione della divina provvidenza, mediante questo patto di riconferma, prometto ed offro a te, beato Pietro, principe degli Apostoli e custode del regno dei cieli, e per te al vicario tuo, il sommo pontefice e universale papa Giovanni XII, con lo stesso titolo di potere e di giurisdizione dai vostri predecessori sino ad ora esercitato, la città di Roma con il suo ducato e con il suo suburbio e con tutti i villaggi e territori montani e marittimi, spiagge e porti, assieme a tutte le città, castelli, fortezze e villaggi della Tuscia... con tutte le località e territori di pertinenza delle soprascritte città, nonché l'esarcato di Ravenna nella sua integrità, con le città, circoscrizioni, fortezze e castelli, i quali beni Pipino e Carlo, eccellentissimi imperatori di santa memoria, nostri predecessori, trasferirono da tempo al beato Pietro se ai vostri predecessori con atto di donazione. Lo stesso dicasi del territorio della Sabina, così come da Carlo, nostro predecessore, fu concesso integralmente al beato apostolo Pietro con atto di donazione; così pure per ciò che concerne i territori della Tuscia Longobarda e i territori della Campania. Inoltre, a te, beato Pietro apostolo, e al tuo vicario papa Giovanni e ai suoi successori, per la salvezza dell'anima nostra e di quelle di nostro figlio e dei nostri parenti, offriamo le dita e le fortezze appartenenti al nostro proprio regno, e cioè: Rieri, Amiterno, Forcona, Norcia, Valva e Marsica e, in altro territorio, Teramo con le sue pertinenze.
Tutte queste soprascritte province, città e distretti, fortezze e castelli, villaggi e territori, unitamente ai demani, per la salvezza della nostra anima e di quelle di nostro figlio e dei nostri parenti e dei nostri successori e per il bene di tutto il popolo dei Franchi, che Dio ha protetto e proteggerà, riconfermiamo, in modo che le detengano nel diritto, nel governo e nella giurisdizione, alla sopraddetta Chiesa tua, o beato apostolo Pietro, e per te al vicario tuo, padre nostro spirituale, Giovanni, sommo pontefice, papa universale ed ai suoi successori, sino alla fine del mondo, fatto salvo il potere nostro e di nostro figlio e dei nostri successori, come è sancito nel patto, nel constituto e nella conferma di promessa di papa Eugenio e dei suoi successori, laddove si specifica così: che tutto il clero e tutta la nobiltà del popolo romano a causa delle varie violenze e delle irragionevoli incomprensioni, che vanno eliminate, dei pontefici nei confronti del popolo a loro soggetto, con giuramento si obbligano a far in modo che la futura elezione dei pontefici, per quanto starà nella volontà d'ognuno, avvenga in forma canonica e secondo giustizia e che quegli che sarà chiamato a questo santo e apostolico reggimento non sia consacrato col consenso d'alcuno se prima non faccia, alla presenza dei nostri messi o di nostro figlio ovvero di tutta la collettività, per la soddisfazione e futura salvezza di tutti, quella stessa promessa che il signore e padre nostro spirituale Leone fece notoriamente di sua spontanea volontà.
Questo patto fu stipulato felicemente nell'anno dell'incarnazione del Signore 962, nell'indizione quinta, tredicesimo giorno del mese di febbraio, correndo l'anno XXVII dell'impero dell'invitto imperatore Ottone."
[75] I vescovi conti - Ottone I favorì il clero per creare un contrappeso alla potenza dei grandi feudatari laici, che avevano ottenuto l'ereditarietà dei feudi maggiori.
Già dall’età carolingia e nel periodo dell'anarchia feudale, i vescovi avevano assunto anche nel campo della vita civile un’importanza che crebbe rapidamente quando la disgregazione dell'impero li rese stabili elementi d'unione e di coesione sociale, anche per il fatto che risiedevano stabilmente nelle città ed erano eletti dal popolo.
Non sempre i poteri civili dei vescovi ebbero formale riconoscimento; in sostanza, tuttavia, il potere dei conti si circoscrisse nelle campagne, mentre nelle città i nuovi compiti amministrativi indussero i vescovi a giovarsi della collaborazione dell'elemento laico: primo passo verso la resurrezione della vita municipale e verso l'ascesa di nuove forze che si preparavano alla conquista di una sempre maggiore e marcata autonomia anche nei confronti dei vescovi.
[76] Il monastero di Cluny – Il monastero di Cluny fu sotto la direzione di uomini come Oddone (morto nel 943) o Odilone di Mercoeur (morto nel 1043) che la comunità monastica visse il momento di maggior splendore.
Il monachesimo nato con la riforma di Cluny diede al cristianesimo un'impronta fondamentale. La Congregazione cluniacense fu una delle più profonde riforme dell'Ordine benedettino. Sue caratteristiche furono
·         il pronunciato ritualismo,
·         la norma del silenzio ed un accentuato spiritualismo,
·         gli ideali di libertà del sistema feudale laico ed episcopale,
·         il centralismo operante attraverso l'organizzazione del priorato e il diritto di visita dell'abate maggiore nelle varie abbazie,
·         la stretta unione con Roma che garantiva l'indipendenza dei cluniacensi dal sistema feudale civile ed ecclesiastico e soprattutto la perfetta pratica delle virtù monastiche.
Da Cluny partì il rinnovamento della Chiesa. Per i monaci cluniacensi la vita di questo mondo era il vestibolo dell'eternità. Tutto doveva essere sacrificato a fini ultraterreni. La salvezza dell'anima era tutto e non si poteva raggiungere che attraverso la Chiesa, che doveva essere assolutamente pura da ingerenze temporali. Ovvio che queste concezioni si scontrassero con gli interessi imperiali e con quelli dei vescovi più collusi col potere dell'Impero. Non si trattava di aborrire l'alleanza ai fini del buongoverno tra Chiesa e Stato, ma di subordinare completamente l'uomo e la società alla Chiesa, vera, unica intermediaria tra lui e Dio in campo spirituale.
La diffusione della riforma di Cluny fu assai profonda e assai ampia, soprattutto in Francia, Germania, Italia centrale e meridionale, Spagna settentrionale e Inghilterra.
Facilitarono la diffusione della Congregazione la necessità di riforma di molte comunità benedettine, gli statuti ben definiti e l'efficiente organizzazione internazionale, ma anche i mezzi coattivi e disciplinari usati a volte, soprattutto dopo l'XI secolo, contro monasteri non riformati.
Nel periodo di maggiore splendore di Cluny si ebbero, secondo calcoli provvisori, 1629 case riformate e 1450 case annesse. L'organizzazione della Congregazione era fondata sull'autorità del prior abbas di Cluny e dei definitori; da Cluny dipendevano i cinque priorati più antichi, da cui dipendeva direttamente a sua volta un certo numero di priorati, il gruppo delle abbazie incorporate, quelle poste sotto la sorveglianza della Congregazione e infine quelle affidate temporaneamente ai cluniacensi per essere riformate; il prior abbas aveva il diritto di visita di ciascuna abbazia dipendente e convalidava l'elezione di ciascun abate.
Grande fu l'influenza, soprattutto religiosa, della riforma di Cluny; svolse un ruolo di enorme importanza nell'ambito della lotta per le Investiture (1073-1122). Minore importanza ebbe l'influenza culturale, limitata all'architettura; molto notevole fu invece l'influsso sulla liturgia per la magnificenza dei riti, l'istituzione di particolari devozioni come la commemorazione dei defunti, l'intensificazione del culto della Santa Croce e della Vergine. Da Cluny uscirono i papi Urbano II e Pasquale II; pur senza avervi appartenuto, Gregorio VII ne adottò e ne propagò lo spirito.
[77] Scisma - Atto di ribellione che porta alla separazione di una parte dei fedeli dalla comunione della propria Chiesa, sottraendosi all'obbedienza in materia di disciplina, ma non rinnegandone il credo.
Tre sono i maggiori scismi che hanno lacerato la Chiesa cattolica: il donatismo, lo scisma d'Oriente e il Grande scisma d'Occidente.
[78] La questione del Filioque - del filioque nel Credo Niceno nell'ambito della Chiesa Romana, atto definito non canonico dalla Chiesa Orientale, anche perché in violazione allo specifico comando del Concilio di Efeso (il Credo può essere cambiato solo per consenso conciliare). La controversia circa il filioque sembra essersi originata nella Spagna Visigota del sesto secolo, laddove l’eresia ariana era particolarmente diffusa: gli ariani affermavano che la prima e la seconda persona della Trinità non sono coeterne ed uguali. Per rafforzare la teologia tradizionale, il clero spagnolo introdusse il filioque nel Credo Niceno ("Credo nello Spirito Santo, [...] che procede dal Padre _e dal Figlio_ [filioque, appunto], e con il Padre ed il Figlio è adorato e glorificato"): all'Oriente teologicamente sofisticato tale inserzione parve affettare non solo il credo universale, ma anche la dottrina ufficiale della Trinità.
[79] La questione liturgica - Alcune pratiche liturgiche occidentali che l'Oriente cristiano interpretava come innovazione: un esempio ne sia l'uso del pane azzimo per l'Eucaristia. Le innovazioni orientali, come l'intinzione del pane consacrato nel vino consacrato per la Comunione, erano state condannate molte volte da Roma ma mai in occasione dello scisma.
[80] La questione dei Patriarcati - Tutti i cinque Patriarchi della Chiesa indivisa concordavano sul fatto che il Patriarca di Roma dovesse ricevere onori più elevati degli altri, ma non erano in accordo se questi avesse autorità sugli altri quattro e, se gli fosse spettata, quanto ampia potesse essere tale autorità.
[81] Giurisdizione - In latino iurisdictio da ius dicere, è la potestà di applicare la legge (interpretandone la portata e rendendola operante nel caso concreto) attribuita ai giudici allorché risolvono controversie in posizione di indipendenza rispetto alle parti e di indifferenza rispetto all'esito delle medesime.
[82] Cesaropapismo - Sistema di relazioni tra potere civile e religioso in forza del quale il primo si attribuisce il diritto di intervenire in ogni ambito della vita religiosa.
Manifestatosi già con Costantino con l'assunzione della vecchia carica imperiale di pontifex maximus da parte degli imperatori romano-cristiani, si diffuse nel mondo bizantino, dove i sovrani si definirono uguali agli apostoli. Questa teoria e prassi politica fu poi fatta propria dagli zar di Russia.
Contro il cesaropapismo combatté la Chiesa cattolica, in particolare con Gregorio VII, Innocenzo III e Bonifacio VIII, che gli contrapposero, a loro volta, soluzioni teocratiche.
[83] Enrico IV e l'umiliazione di Canossa - Il governo di Enrico fu caratterizzato dal tentativo di rafforzare l'autorità imperiale. In realtà si trattava di trovare un difficile equilibrio, dovendo assicurarsi da una parte la fedeltà dei nobili, senza perdere l'appoggio del pontefice dall'altra. Mise in pericolo tutte e due le cose quando, nel 1075, decise di assegnare la diocesi di Milano, divenuta vacante. Ciò fece scoppiare un conflitto con papa Gregorio VII, conflitto che è passato alla storia come lotta per le investiture. Il 22 febbraio 1076 il papa scomunicò Enrico e lo dichiarò decaduto. Precedentemente era stato Enrico a dichiarare decaduto il papa, perché la sua nomina sarebbe stata irregolare, avendo il Re dei Romani il diritto di intervenire nell'elezione del papa.
Per giungere alla revoca della scomunica, Enrico e sua moglie si recarono in penitenza a Canossa, per incontrare Gregorio VII. Per tre giorni, dal 25 al 27 gennaio 1077, rimase in attesa di fronte all'ingresso del castello, e il 28 gennaio il papa decise di revocare la scomunica, soprattutto grazie alla mediazione di Matilde di Canossa, signora del castello.
Gregorio revocò la scomunica a Enrico, ma non la dichiarazione di decadenza dal trono. Enrico IV nomina un antipapa ed attacca direttamente il papa in Roma, con l' assedio in Castel S.Angelo. Il papa è liberato dal normanno Roberto il Guiscardo. Si ha l'esilio del papa a Salerno.

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