Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

giovedì 5 gennaio 2017

Italiano - Classe I - Grammantologia - Unità V-X

V UNITÀ
Comunicazione. La scrittura documentata – Per scrittura documentata si intende una scrittura basata su altri scritti, testi o fonti da cui attingere, per elaborare un nuovo documento.
La scrittura documentata muove dunque da una base documentaria che può essere acquisita:
·         attraverso una ricerca bibliografica
·         ricavata da un singolo testo
·         raccolta attraverso una ricerca sul campo.
Forme di scrittura documentata sono l’articolo, la relazione ed il saggio breve.
La scelta di un modello di scrittura, tra quelli previsti dall’esame di stato, presuppone, da parte di chi scrive, la conoscenza dei requisiti specifici che differenziano un modello di scrittura da un altro, soprattutto in base
·         alle differenti funzioni comunicative
·         alle diverse norme di trasmissione del messaggio
·         al contesto
·         allo scopo
·         al punto di vista dell’emittente
·         all’attenzione
·         al destinatario

Riflessioni sulla lingua. Apposizione – L’apposizione è un nome che si colloca accanto ad un altro nome, per meglio descriverlo e determinarlo.
Es.: Il poeta (apposizione del soggetto) G. Leopardi (soggetto) scrisse (predicato verbale) le Ricordanze (complemento oggetto).

Riflessioni sulla lingua. Complemento di vocazione – Il complemento di vocazione indica la persona o la cosa personificata[1] che si chiama o si invoca. Spesso è preceduto dall’interiezione - o.
Es.: O Signore, aiutami!

Riflessioni sulla lingua. Avverbio - L’avverbio è una parte invariabile del discorso che serve a modificare il significato di quelle parole (verbi, aggettivi, altri avverbi o intere proposizioni) a cui si affianca.
Sono considerati avverbi anche le locuzioni avverbiali, ovvero espressioni formate da più parole, che hanno il significato di un avverbio (di corsa, alla carlona, di certo, in su, in un batter d’occhio, da quando, etc.).

Avverbi relativi - Gli avverbi dove e ove (= nel qual luogo), donde (= dal qual luogo) si dicono relativi perché oltre a indicare luogo, servono a congiungere due proposizioni, come i pronomi relativi.
Così pure dovunque e ovunque (= in qualsiasi luogo nel quale) e comunque (= in qualsiasi modo nel quale), hanno significato relativo (come gli indefiniti qualunque, chiunque) ossia congiungono una proposizione dipendente relativa alla reggente, senza bisogno di altro relativo.
Es: Mi trovo bene dovunque vada
Comunque faccia sbaglio. (Invece di dovunque s’usa dappertutto, se non c’è la relativa: Mi trovo bene dappertutto).
Quanto singolare si riferisce solo a cosa e significa “ciò che, tutto ciò che, tutto quello che” I plurali, quanti, quante, si riferiscono a persone e cose e significano “tutti quelli che, tutte quelle che”.
Es: Gli do quanto (ciò che) gli spetta.
Quanti (tutti quelli che) verranno saranno i benvenuti.
Chiunque, chicchessia, pronomi, e l’aggettivo qualunque oltre al valore indefinito di tutti, ogni, hanno pure valore relativo di tutti quelli che:
Es: Chiunque (tutti quelli che) tace acconsente
Ti comprerò qualunque (tutti quelli che) giocattolo tu desideri.

Riflessioni sulla lingua. Le proposizioni relative - Le proposizioni subordinate relative sono proposizioni che completano il senso del periodo, determinando o espandendo un nome della reggente cui sono collegate mediante un pronome o un avverbio relativo. Esse svolgono nella frase la stessa funzione che nella proposizione hanno l’attributo e l’apposizione.
Quando svolgono questa funzione, le relative sono dette anche attributive o appositive e sono considerate relative proprie. Quando invece svolgono, nel periodo, la funzione che nella proposizione hanno i complementi indiretti, sono considerate relative improprie o circostanziali.

Riflessioni sulla lingua. La proposizione relativa propria La proposizione subordinata relativa propria precisa un nome della reggente cui è collegata mediante un pronome o un avverbio relativi:
Es: Ho letto il libro che mi hai regalato.
La proposizione relativa è introdotta:
·         da un pronome relativo[2], come che, cui, il quale, o misto, come chi, chiunque:
Es: Voglio conoscere il ragazzo con cui esci;
Chi ha detto una cosa simile è un incompetente
·         da un avverbio relativo, come dove, da dove, o relativo indefinito, come ovunque, dovunque:
Es: La città dove vivo è Bologna.
Paolo si trova bene ovunque vada.
Nella forma esplicita, la relativa ha il verbo:
·          all’indicativo, quando esprime un fatto presentandolo come certo e reale:
Es: Ho conosciuto una persona che parla perfettamente il russo.
·         al congiuntivo o al condizionale, quando indica un fatto come incerto, possibile, desiderato, temuto, ipotizzato e simili:
Es: Ho bisogno di una persona che parli perfettamente il russo.
Mi è stata presentata una persona che potrebbe aiutarci.
Nella forma implicita, la relativa ha il verbo:
·         al participio, presente o passato, che di fatto può sempre essere risolto in forma di relativa esplicita:
Es: Antonio, pur avendo studiato ingegneria, ora fa un lavoro non rispondente alle sue aspirazioni (= che non risponde alle sue aspirazioni).
Non mi è ancora arrivato il pacco spedito da Milano sette giorni fa (= che è stato spedito da Milano sette giorni fa).
·         all’infinito, introdotto da un pronome relativo in funzione di complemento indiretto:
Es: Cerco una bella stoffa con cui foderare il divano.
Avete trovato una baby sitter (a) cui affidare i bambini?
·         all’infinito, preceduto dalla preposizione da o senza alcuna preposizione. Anche in questo caso, la relativa implicita è risolvibile in una relativa esplicita:
Es: Questo è l’abito da portare in tintoria (= che deve essere portato in tintoria).
Ho sentito il gatto miagolare (= che miagolava).

Educazione letteraria. Il ruolo dei personaggi - I principali ruoli che i personaggi possono ricoprire sono:
·         Personaggio principale: è il personaggio intorno al quale ruota la storia e che dà l’impulso all’azione narrativa. Possono essere principali anche più personaggi;
·         personaggi secondari: sono i personaggi che agiscono sullo sfondo della vicenda narrata; tuttavia essi sono utilissimi a determinare il contesto, il luogo e a dare informazioni, a creare atmosfere, insomma a rendere completo il quadro.
I personaggi di un testo narrativo vanno esaminati anche in relazione ai compiti che sono loro stati assegnati e che si trovano a svolgere.
Le principali funzioni sono:
·         Protagonista: è il personaggio principale che è al centro del racconto, anche quando non compare direttamente in scena è il centro dei discorsi e delle azioni;
·         Antagonista: è il personaggio che si oppone al protagonista, che cerca di contrastarlo, ostacolarlo sul piano delle azioni o che gli si oppone anche soltanto sul piano psicologico. La ragione dello scontro col protagonista è in genere la conquista dell’oggetto di attrazione; Spesso proprio l’antagonista determina la rottura dell’equilibrio che dà inizio alla vicenda, ma può anche entrare in scena quando ormai l’equilibrio iniziale è decisamente già rotto. In ogni caso, con il suo comportamento è sempre il motore dello sviluppo dell’azione.
·         Oggetto: è il personaggio che costituisce lo scopo dell’impegno o del desiderio del protagonista, contrastato in ciò dall’antagonista. La sua funzione, in una narrazione, è fondamentale perché spesso è, senza alcuna colpa, la causa scatenante della vicenda.
·         Aiutante: è quel personaggio secondario che aiuta il protagonista nella sua azione. Gli aiutanti che dovrebbero aiutarlo a volte, per i motivi diversi, possono danneggiarlo.
·         Oppositore: è quel personaggio secondario che ostacola il protagonista nella sua azione. Di solito l’oppositore è al servizio dell’antagonista di cui quindi è l’aiutante, ma può anche agire di sua iniziativa. Anche gli oppositori possono essere più di uno e possono trasformarsi in falsi aiutanti, cambiando campo e passando dalla parte del protagonista.

T 6 La resa dei conti
Questa volta gli occhi non lacrimavano, la luce non  dava fastidio, ci vedeva bene. Aveva un conto da regolare,  mentre lì, al proprio posto nella falange, aspettava l’ordine di attacco. Un conto da regolare prima di tutto  con se stesso. E, poi,  con Leonida,  il suo re caduto sul campo.  Andò con il pensiero alle Termopili, rivide l’amico Eurito, quasi cieco, incamminarsi verso la  morte, ripensò a quei  tre giorni di combattimenti continui, al sangue e alle grida di feriti e moribondi. E al disprezzo  con il quale era stato accolto, al ritorno,  nella sua città, Sparta. Ma il  Fato gli offriva ancora un’occasione: quella. La sua ultima occasione.  Aristodemo impugnò con forza  la lancia.
Sì, era di nuovo alle Termopili.
La reputazione di Serse era andata a fondo con le sue navi a Salamina, ma il carattere non era cambiato. Mentre era ancora al Falero con i resti della flotta, ricevette ambasciatori spartani: esigevano un risarcimento per l’assassinio di Leonida e per la profanazione del suo cadavere. Serse li ascoltò come se fossero marziani. Quando  gli ambasciatori finirono di parlare, indicò, non senza ironia, Mardonio e disse loro: “Chiedetelo a lui, il risarcimento”.
Mardonio, come sappiamo, sarebbe rimasto in Grecia alla testa, secondo Erodoto, di trecentomila uomini. Per ottenere la vittoria, si era dato tre priorità: attaccare, attaccare, attaccare.
Non tutti, però, la vedevano così. I Tebani, ad esempio erano per l’attesa. E per fare circolare bustarelle. Compra qualcuno – ripetevano a Mardonio – e avrai partita vinta. I Greci si sfalderanno, l’alleanza non reggerà, gli antichi dissapori riaffioreranno. Lavorali ai fianchi, riempili di soldi  e torneranno tutti alle loro case, ai loro campi, ai loro affari; attaccali e fornirai loro un pretesto per restare uniti.
Parole sagge. E molto vicine al vero. Ma c’era gloria nell’attesa? C’era gloria nel vincere con gli “sproni e col gesso”?  E allora, via verso l’Attica con l’imprendibile cavalleria. E poiché le vittorie sono tali solo quando sono accompagnate da un’eco mediatica (anche nell’Antichità, che cosa credete),  ecco pronto un imponente apparato: fuochi di segnalazione, stazioni di posta, cambio di cavalli. Perché Serse sapesse, perché tutti sapessero.
Sulle prime, tuttavia, Mardonio dà retta ai Tebani. Manda il re di Macedonia Alessandro figlio di Aminta dagli Ateniesi con una proposta allettante: abbandonate la Lega e avrete il perdono di Serse, l’intera Attica e molto altro ancora, a vostra discrezione.
Quando lo vengono a sapere, gli Spartani drizzano le antenne: gli Ateniesi hanno perso due raccolti, sono alla fame: vuoi vedere che accettano e ci piantano in asso? Urge intervenire. Si precipitano a Salamina (gli Ateniesi si erano di nuovo rifugiati sull’isola) e promettono mari  e monti: opliti, viveri, asilo per le donne  e i bambini.
Se Mardonio nutre qualche speranza di concludere l’affare, resta presto deluso. Di fronte ad Alessandro e agli Spartani, convocati contemporaneamente, gli ateniesi parlano chiaro. Al primo rispondono: niente da fare, noi siamo Greci, ci sentiamo parte di un mondo e di una cultura comuni, non possiamo tradire. E, soprattutto, non possiamo far passare sotto silenzio il sacrilegio dei nostri templi violati. Ai secondi dicono: lasciate perdere le nostre donne  e i nostri bambini, sanno cavarsela da soli. Mandateci soldati, piuttosto: quelli ci servono. E ci servono come e forse più del pane.
Gli Spartani tirano un grosso sospiro di sollievo, abbondano in promesse e se ne tornano in Laconia.
Dal canto suo, Mardonio non aspetta un minuto di più e lancia i suoi contro Atene. Per la seconda volta la città deserta viene data alle fiamme. Completata l’opera, Mardonio se ne torna in Beozia dove, accampato presso il fiume Asopo, l’aspetta il grosso dell’esercito.
Mentre Atene brucia, a Sparta non si muove foglia. Gli Ateniesi si allarmano: questi si sentono protetti dal muro eretto lungo l’Istmo, si sentono garantiti dalla nostra fedeltà e non ci hanno neanche in nota. Del resto non è la prima volta. A Maratona non si fecero vedere perché impegnati – dissero – in cerimonie sacre: se sperano di ripetere di nuovo il giochetto, si sbagliano di grosso.
Inviano un’ambasceria a Sparta e minacciano  di accettare le proposte dei Persiani.  Gli Spartani, capita l’antifona, mettono in marcia cinquemila opliti, ciascuno con sette iloti al seguito. E il mattino dopo, altri cinquemila – perieci questa volta – li seguono, in compagnia degli ambasciatori ateniesi.
Dunque, si sarebbe combattuto. E si sarebbe combattuto in Beozia: niente muri, sentimenti filo-persiani dappertutto, terreno adatto alla cavalleria. Per Mardonio sarebbe stato un po’ come giocare in casa.
Mentre l’esercito alleato si riunisce a Eleusi sotto il comando dello spartano Pausania, reggente pro tempore in attesa della maggiore età del figlio di Leonida, Plistarco, in Beozia Persiani e compagnia se la prendono comoda. Si esercitano con le armi, d’accordo, ma banchettano con pari energia, ostentando ottimismo, sicurezza e robusti appetiti.
Ma può mancare il menagramo di turno? Una sera a tavola, mentre tutt’intorno risuonano risa e sghignazzi, un persiano confida, fra le lacrime, al proprio ospite tebano: un dio mi ha visitato in sogno e mi ha fatto rivelazioni da brivido. Per fartela breve: vedi tutta questa gente? Fra poco non ci sarà più nessuno, moriranno tutti in battaglia. Avvisare Mardonio? E perché mai: è tempo perso. Possiamo noi andare contro la volontà degli dei?
Ignari della volontà divina, ma consapevoli della forza della cavalleria persiana, Pausania e soci arrivano nelle vicinanze dell’Asopo, si appoggiano ai contrafforti del monte Citerone e occupano una posizione leggermente elevata: se i cavalieri di Mardonio si fossero fatti sotto, avrebbero perso slancio per via della salita e, soprattutto,  rischiato l’osso del collo e i garretti dei cavalli a causa delle rocce affilatissime sparse ovunque.
Eppure Mardonio attacca. E con la cavalleria, per giunta. Perché lo fa? Per saggiare le forze del nemico? Per sloggiarlo da dove si trova? Per provocarlo e attirarlo in una trappola? Per chiudere la partita alla svelta? Perché così gli dei hanno deciso? Difficile saperlo. Di certo c’è questo: uno dei suoi migliori ufficiali, Masistio, cade sul campo, l’attacco viene respinto e gli Ateniesi si guadagnano la fama di leoni indomabili. Vanno volontariamente in aiuto dei Megaresi sotto pressione quando nessun altro vuole farlo; oppongono le proprie lance ai cavalieri persiani e li ricacciano al punto di partenza. Erodoto va in brodo di giuggiole quando ce lo racconta. Farebbe meglio, però, a curare la cronaca cercando la chiarezza, perché, da questo punto in poi, non ci si capisce niente. O quasi. Dunque, respinto l’attacco di Masistio, Pausania abbandona la posizione occupata in precedenza e scende nella pianura. In cerca d’acqua? Probabile, visto che si accampa presso una sorgente detta Gargafia. Per portare i propri opliti su un terreno favorevole al dispiegamento della falange? Possibile. Ma allora perché, giunto in pianura, se ne sta con le mani in mano e completamente fermo per una decina di giorni? Perché non forza la situazione? Lo fa perché non è ancora pronto o perché gli indovini gli sfornano un responso negativo dietro l’altro? Perché gli ripetono un giorno sì e l’altro pure che la vittoria toccherà a chi saprà mantenersi sulla difensiva? Anche dall’altra parte si fa un ampio uso di indovini e anche dall’altra parte le conclusioni sono le medesime: non è il momento di attaccare, mantenersi sulla difensiva. Insomma, un raro caso di indovini bipartisan. Risultato: per giorni e giorni, fra un vaticinio e l’altro, non si muove una paglia.
Mardonio non ne può più. Chiama Artabazo – un tipo con la testa sulle spalle – e gli chiede consiglio. Che faccio? Attacco? Aspetto? Artabazo ci va giù spiano: “Aspetta e compra qualcuno”.
Toh, questa l’ho già sentita, pensa Mardonio, ma  come non l’ho seguita una volta, non la seguirò adesso. Indovini o non indovini, difensiva o non difensiva, adesso è ora di fare sul serio.
Alessandro di Macedonia lo viene a sapere e, nottetempo, si reca nel campo alleato. Parla con l’ateniese Aristide e gli dice più o meno questo: “Mardonio attaccherà domani. Ricordatevi di chi vi ha passato l’informazione.” E se ne va.
Come si può vedere, gli odierni  “responsabili” vantano illustri antenati.
Avuta l’informazione dal regale “responsabile”, Pausania ha tutto il tempo per prepararsi. Mette all’ala destra i suoi, all’ala sinistra gli Ateniesi e al centro gli altri. E, a questo punto, nel racconto di Erodoto,  la luce diventa ancora più fioca.
I Greci, infatti, manovrano e contromanovrano, i contingenti si spostano da un’ala all’altra apparentemente senza senso alcuno. Prima gli Ateniesi si spostano all’ala destra, dritti in faccia ai Persiani; gli Spartani vanno all’ala sinistra, di fronte ai Tebani e agli altri Greci felloni; poi ritornano di nuovo sulle posizioni originarie e lo stesso fanno gli Ateniesi. C’è un senso in tutto questo manovrare? Gli storici militari lo trovano nella necessità di Pausania di ricompattare un esercito sfilacciato; Erodoto va giù più spiano e avanza – sacrilegio! – il sospetto che gli Spartani abbiano un po’ di tremarella. Non ci credete? Sentite qui: Pausania agli strateghi ateniesi: “Voi conoscete i Persiani: vedetevela voi con loro.” E gli Ateniesi di rimando: “Volevamo chiederlo, ma non osavamo. Adesso ce lo chiedete voi e ubbidiamo volentieri”.
Traduzione: “ Noi non siamo fifoni”.
Sia come sia, si manovra ma non si combatte. Sembra di essere su una piazza d’armi. Mardonio, allora, gioca la carta della provocazione. Manda nel campo greco un paio di araldi senza peli sulla lingua a avanzare sospetti sul coraggio degli invincibili Spartani e a proporre una sfida a singolar tenzone: Spartani contro Persiani e chi vince si prende tutto. I delegati spartani non capiscono se quei  tizi stiano parlando sul serio, se abbiano bevuto o se siano vittime di un colpo di sole. Si guardano l’un l’altro e  non rispondono. Vedendoli muti, gli araldi persiani se ne vanno. Con una convinzione: questi hanno una fifa maledetta.
Mardonio la vede più o meno allo stesso modo. E ci dà dentro. Muove di nuovo la cavalleria, tempesta di giavellotti e di frecce la falange greca, avvelena i pozzi, blocca il passo di Driocefale, la “via sacra” dalla quale transitano viveri e rinforzi. Brutto affare per Pausania: niente acqua, pochi viveri, una pioggia di proiettili. Meglio cambiare aria.
Ci avete capito poco? Aspettate di sentire il resto. A questo punto, secondo Erodoto, Pausania divide l’esercito in due tronconi: il primo lo indirizza verso una non meglio identificata “isola” fra due torrenti (o fra due rami di uno stesso torrente); l’altro, meno numeroso, lo spedisce verso Driocefale: obiettivo: liberare il passo per dare via libera ai rifornimenti. Succede però questo: forti contingenti del primo troncone  non arrivano affatto all’“isola” (ammesso che sia mai esistita) e finiscono col prendere posizione – va a capire perché –  davanti al tempio di Era a Platea.
E non è finita. Quando arriva il loro turno di muoversi, infatti,  gli Spartani si mettono a litigare di brutto. Un loro ufficiale – un certo Amonfàreto – spartiate tutto d’un pezzo, non ne vuole sapere di abbandonare le posizioni. Per lui quella manovra  puzza troppo di ritirata. Non sia mai!
Armato della pazienza di un santo,  Pausania cerca di persuadere quella testa dura, ma invano. Alle prime luci dell’alba, i due discutono ancora. Gli Ateniesi, forzatamente fermi, chiedono lumi: che facciamo? Aspettiamo fino alle calende o ci muoviamo? Pausania allora molla Amonfàreto al proprio destino, ordina agli Ateniesi di seguirlo verso Platea e si mette in cammino. Senza tirarsi il collo, per altro. E proteggendosi con i contrafforti del Citerone. Gli Ateniesi, invece, la protezione se la sognano: marciano in aperta pianura esposti a tutti i venti e a tutti gli attacchi. Il duro e puro Amonfàreto per un po’ cincischia, poi si adegua: tutto sommato quella non è una ritirata, deve essersi detto, ma un cammino verso posizioni migliori. E si affretta a raggiungere Pausania.
Mardonio viene informato e conclude: quelli se ne vanno perché non sono ”coesi” e hanno paura. E così ci dà dentro di nuovo a tutta manetta. E con lui i suoi alleati. Mentre l’esercito persiano punta sugli Spartani, Tebani e soci danno addosso agli Ateniesi. Pausania è sui carboni ardenti: il nemico avanza, urge fare qualcosa. Ma quei maledetti indovini sono sempre lì a menare gramo e a cavare un responso negativo dietro l’altro. Pausania forza allora la situazione: si rivolge direttamente a Era – onorata da un tempio in quella zona – e ottiene il miracolo: si può, anzi si deve, attaccare.
A questo punto, stando a Erodoto, quarantamila opliti formano la falange e i Persiani  finiscono nel tritacarne. Tengono duro per un po’, poi quando Mardonio cade colpito da una pietra , si sbandano, ognuno per sé e dio per  tutti. Quella vecchia volpe di Artabazo, vista la mala parata, si guarda bene dall’impegnare i suoi quarantamila uomini in combattimento e se la svigna, destinazione Bisanzio.
Dal canto loro, i Tebani si battono come leoni, ma nulla possono: devono cedere il campo agli Ateniesi e, dieci giorni dopo , aprire le porte  della città  ai vincitori.
Quanti erano i soldati di Mardonio? Trecentomila. E quanti sopravvivono al massacro? Tremila. Più i quarantamila di Artabazo. In tutto quarantatremila. Serse avrebbe ricevuto pessime notizie a Sardi e Erodoto un mucchio di informazioni da esagerare e da scombinare a proprio piacimento.
Dopo la carneficina, viene il momento di tirare il fiato. Rimasto padrone del campo, Pausania si fa preparare un pranzo in puro stile persiano, pieno di leccornie, di condimenti, di piatti elaborati. Poi si fa preparare un “ brodo nero”, la ributtante sbobba a base di sangue di maiale tanto apprezzata dagli Spartani . Alla fine commenta: “Valli a capire i barbari: hanno un tenore di vita straordinario e vengono fin qui per cercare di portarci via il nostro, tanto inferiore al loro.”
Già, valli a capire.
Arrivò l’urto con il nemico.  La falange spartana  premette  e le prime linee persiane  si scompaginarono. Allora lui, Aristodemo, l’unico ancora in vita degli eroi delle Termopili, uscì dallo schieramento  e andò in cerca dei nemici. Abbatté  chi gli si fece incontro, uno due, dieci e poi fu circondato. Fuori dalla falange, un oplita era perduto. Aristodemo lo sapeva, ma continuava a combattere.  Finché anch’egli non cadde trafitto.  Aveva raggiunto Eurito, aveva raggiunto Leonida, aveva raggiunto Dienece e tutti gli altri.
Aveva pagato il suo debito.


VI UNITÀ
Comunicazione. La relazione - Una relazione è un qualsiasi rapporto che descrive un fatto. Si può avere l’esigenza di scrivere una relazione in molti contesti, non solo per lavoro. Per esempio, si può fare una relazione per contestare una bolletta oppure per una ricerca universitaria o scientifica. In effetti, le relazioni sono documenti usati in svariati contesti.
Scrivere una relazione significa essere il più possibile oggettivi. Questo tipo di documento è l’analisi di un fatto e non un racconto creativo. Perciò, occorre che le tue fonti siano affidabili e oggettive. Le devi citare nel testo della relazione: su di esse si dovrà basare la veridicità dei fatti che si espongono.
Per scrivere una relazione efficace bisogna scegliere e rispettare una certa struttura. Si deve quindi cominciare il testo con una breve introduzione e proseguire con la parte dedicata all’analisi dei fatti. Poi, si deve passare alla sintesi, cioè alla fase in cui si interpreta ciò che è successo e se ne ricavano le indicazioni per il futuro. Infine, si deve terminare il testo del documento con delle conclusioni in cui si tirano le somme di tutto il lavoro.
Per scrivere una relazione si può usare questa struttura standard (che per esempio si riferisce a una relazione di lavoro):
Introduzione della relazione
·         presentazione dell’argomento
·         motivazioni della scelta
·         scopo del lavoro
·         fasi e tempi di lavoro
·         persone coinvolte nel lavoro e loro ruolo
Testo della relazione
·         Esposizione degli aspetti esaminati nel lavoro
·         Metodo seguito
·         Strumenti usati
Conclusione della relazione
·         Valutazione del lavoro
·         Eventuali difficoltà incontrate
·         Riflessioni
·         Proposte per il futuro
Le tre regole auree sono semplicità, chiarezza, concretezza
Verso il lettore si ha l’obbligo di essere estremamente chiaro.

Riflessioni sulla lingua. Complementi indiretti – Si definiscono complementi indiretti tutti i complementi che per essere introdotti si servono di nessi complementari che di solito sono preposizioni[3] semplici[4] o preposizioni articolate[5]. I complementi indiretti possono essere costituiti anche da pronomi personali[6].
Riflessioni sulla lingua. Complemento di specificazione - È così detto perché specifica il significato di un nome. Risponde alle do­mande: di chi? di che cosa?
Es.: Il cane di Mario è peloso.

Riflessioni sulla lingua. Complemento di termine - Indica la persona o la cosa in cui ha termine l’azione espressa dal predica­to verbale. Risponde alle domande: a chi? a che cosa?
Es.: Il postino mi conse­gnò la lettera. La maestra parlò ai bambini.

T 7 L’avventura di Alessandro Magno spezzata da una morte misteriosa
·         Travolti i Persiani, il condottiero macedone sognava l’impero universale.
·         E si comportava sempre più da monarca assoluto.
·         Forse fu avvelenato
di Eva Cantarella
A Nord Est della penisola ellenica si estendeva la Macedonia, una regione montagnosa abitata da una popolazione in parte di stirpe greca, governata da un re dai poteri molto diversi da quelli dispotici e assoluti dei sovrani orientali. Attorno al re stava un’aristocrazia guerriera, dalle cui file il monarca proveniva, che grazie al continuo contatto con i Greci ne aveva assunto usi e costumi. Nel V secolo a.C. la capitale del regno, Pella, era una città culturalmente importante, frequentata da molti intellettuali greci. Ma la grande svolta nella storia della Macedonia ebbe luogo nel corso del IV secolo: mentre le poleis greche si logoravano in interminabili guerre, il re Filippo II, che coltivava da tempo un progetto di espansione territoriale, approfittò di una lite tra le rissose città e, affermando strategicamente il carattere greco del proprio regno, scese con le sue truppe nel territorio, presentandosi come alleato e pacificatore.
Comprensibilmente, questo destò non poche preoccupazioni ad Atene, dove si fronteggiavano due tendenze: da un canto i pacifisti filomacedoni (tra cui l’oratore Eschine), dall’altro i radicali guidati da Demostene, che aveva lucidamente intuito che una vittoria di Filippo avrebbe rappresentato, oltre alla fine di Atene, anche quella della civiltà della polis. Ma nonostante l’alleanza con Tebe nel 338, l’esercito greco fu sconfitto nella battaglia di Cheronea. Filippo, padrone della Grecia, annunziò un grande spedizione contro la Persia, ma nel 336 venne assassinato, e il titolo regale passò a suo figlio Alessandro, allora ventenne.
Dotato di forte carattere, di grande intelligenza e di un indiscutibile carisma, Alessandro si era formato alla scuola di Aristotele, che il padre aveva voluto a Pella come suo precettore. Le premesse perché si dimostrasse all’altezza della situazione non mancavano, ma Alessandro superò ogni aspettativa. Quando nel 334 partì per l’Oriente, non intendeva solo conquistare la Persia: voleva costruire un impero da realizzare grazie alla fusione di conquistatori e vinti. Non a caso, dunque, il suo esercito era accompagnato da scienziati, cartografi, medici, storici, filosofi e uomini di cultura, che dovevano testimoniare l’attuazione di un progetto politico e culturale che pareva irrealizzabile, e che egli invece realizzò. Superando frontiere sconosciute, sottomettendo popoli, distruggendo città e fondandone altre, nel 331, presso Gaugamela (vicino alle rovine dove un tempo sorgeva Ninive, la capitale degli Assiri) sconfisse definitivamente le truppe di Dario III. L’impero persiano era finito.
Alessandro, dando prova di quella che le fonti chiamano la sua megalopsychia (grandezza d’animo), per prima cosa istruì alla lingua e alla cultura greca trentamila giovani persiani, destinati a essere il nucleo del nuovo popolo. Per incoraggiare i matrimoni misti sposò Statira, figlia di Dario III e Parisatide, e diede in moglie le migliori ragazze persiane ai suoi amici (fra cui il suo giovane, amatissimo amante Efestione). Ma l’impresa era ben lontana dall’essere compiuta. Innanzi a lui si aprivano territori immensi, sino ai confini dell’India e oltre: il sogno di un grande impero universale sembrava vicino, e Alessandro intendeva realizzarlo. Ma l’esercito era stremato, non capiva, non condivideva più i suoi progetti.
Circondato da adulazione perenne, Alessandro aveva preso atteggiamenti da sovrano assoluto: dai suoi generali, ad esempio, pretendeva la proskynesis, l’atto di prostrarsi al suolo che i Persiani compivano dinanzi al loro re: per i Greci era semplicemente inconcepibile. Cominciarono le congiure, duramente represse, anche la morte (ivi compresa quella del suo generale Parmenione). E in un giorno del 323 Alessandro morì a Babilonia, dopo una brevissima malattia, il cui decorso è narrato nel diario di corte riferito da Plutarco. Al momento nessuno parlò di avvelenamento, ma poi le voci presero a circolare, e vi fu persino chi disse che a suggerire l’azione e a procurare il veleno sarebbe stato Aristotele.
Così, con questa morte il cui mistero non è mai stato risolto, ha inizio il periodo noto (con nome dovuto allo storico tedesco dell’Ottocento Johann Gustav Droysen) come ellenismo, vale a dire «grecizzazione». A governare gli sterminati territori dell’impero fondato da Alessandro aspiravano tutti coloro che avevano collaborato alla sua costruzione, che si scontrarono per oltre vent’anni, al termine dei quali l’impero si frantumò in una serie di regni autonomi (la Macedonia, la Siria, il regno di Pergamo, quello d’Egitto). Attorno al 300 a.C. il processo di formazione delle cosiddette monarchie ellenistiche si può dire terminato, e ciascuna di esse sviluppò una storia propria, che durò circa 300 anni (l’Egitto, che durò più a lungo, cessò di esistere nel 30 a.C.). Quello che maggiormente caratterizzò questi Stati dal punto di vista sociale e politico fu il loro rapporto con coloro che vi appartenevano: non più cittadini, ormai tutti e solamente sudditi.

T 8 Alèxandros
Da Poemi conviviali di G. Pascoli
I
- Giungemmo: è il Fine[7]. O sacro Araldo, squilla!
Non altra terra se non là, nell'aria,
quella[8] che in mezzo del brocchier[9] vi brilla,

o Pezetèri[10]: errante e solitaria[11]
terra, inaccessa[12]. Dall'ultima sponda[13]
vedete là, mistofori[14] di Caria[15],

l'ultimo fiume Oceano senz'onda[16].
O venuti dall'Haemo e dal Carmelo[17],
ecco, la terra sfuma e si profonda
dentro la notte fulgida[18] del cielo.

II
Fiumane[19] che passai! voi la foresta
immota[20] nella chiara acqua portate[21],
portate[22] il cupo mormorìo, che resta[23].

Montagne che varcai! dopo varcate[24],
sì grande spazio di su voi non pare[25],
che maggior prima non lo invidïate[26].

Azzurri, come il cielo, come il mare,
o monti! o fiumi! era miglior pensiero
ristare[27], non guardare oltre, sognare:

il sogno è l'infinita ombra del Vero.

III
Oh! più felice, quanto più cammino
m'era d'innanzi; quanto più cimenti[28],
quanto più dubbi, quanto più destino[29]!

Ad Isso[30], quando divampava[31] ai vènti
notturno il campo[32], con le mille schiere,
e i carri oscuri e gl'infiniti armenti.

A Pella[33]! quando nelle lunghe sere
inseguivamo, o mio Capo di toro[34],
il sole; il sole che tra selve nere[35],

sempre più lungi, ardea come un tesoro.

IV
Figlio[36] d'Amynta! io non sapea di meta
allor che mossi. Un nomo[37] di tra le are
intonava Timotheo[38], l'auleta:

soffio possente d'un fatale[39] andare,
oltre la morte; e[40] m'è nel cuor, presente
come in conchiglia murmure di mare.

O squillo acuto, o spirito possente,
che passi[41] in alto[42] e gridi, che[43] ti segua!
ma questo è il Fine, è l'Oceano, il Niente...

e il canto passa ed oltre noi dilegua[44]. –
V
E così, piange, poi che giunse anelo[45]:
piange dall'occhio nero come morte;
piange dall'occhio azzurro come cielo[46].

Ché[47] si fa sempre (tale è la sua sorte)
nell'occhio nero lo sperar, più vano;
nell'occhio azzurro il desiar, più forte.

Egli ode belve fremere lontano,
egli ode forze incognite, incessanti,
passargli a fronte nell'immenso piano,

come trotto di mandre d'elefanti.

VI
In tanto nell'Epiro aspra e montana
filano le sue vergini sorelle
pel dolce Assente la milesia lana.

A tarda notte, tra le industri[48] ancelle,
torcono[49] il fuso con le ceree[50] dita;
e il vento passa e passano le stelle.

Olympiàs[51] in un sogno smarrita
ascolta il lungo favellìo d'un fonte,
ascolta nella cava ombra infinita

le grandi querce bisbigliar sul monte.


VII UNITÀ
Comunicazione. L’articolo. – L’articolo[52] è uno scritto pubblicato su un giornale e può riguardare vari argomenti: informazione, opinione, scientifico, letterario, sportivo ed altro.
Il giornale raccoglie testi di varia natura e dotati di caratteristiche specifiche: in ogni giornale si può individuare una varia tipologia di articoli prodotta da vari fattori
·         modo di raccolta dei contenuti
·         natura dell’argomento
·         tecniche di stesura
·         scopi del testo.
Fondamentalmente ci sono due tipi di articolo:
1.      l’articolo informativo che riferisce fatti, avvenimenti, dichiarazioni, nel quale le unità informative possono essere separate da quelle di valutazione e di commento;
2.      l’articolo problematico che prende spunto da un fatto per far emergere un problema, discuterlo, commentarlo nel quale le unità informative implicano anche una valutazione perché il giornalista ha utilizzato delle parole connotate.
Tuttavia i due aspetti, dell’informare e del discutere o del commentare, possono essere presenti nello stesso articolo che potrà essere definito informativo-problematico, in parti distinguibili o no.
“I fatti separati dalle opinioni” è una delle regole auree del giornalismo, in base alla quale l’articolista dovrebbe sempre separare il resoconto dei fatti dalle sue personali riflessioni e dal suo commento[53]. Non è sempre facile presentare i fatti separati dalle opinioni, ma quando ciò avviene le riflessioni indotte dagli eventi riferiti sono inserite in uno spazio programmaticamente assegnato al commento.
Quanto alla struttura compositiva dell’articolo di cronaca, si distinguono le seguenti norme:
1.              esposizione secondo l’ordine cronologico, quando i fatti sono narrati nell’ordine in cui sono accaduti;
2.              disposizione delle notizie in ordine di piramide rovesciata, quando si comunica prima la
notizia più importante, poi le altre in ordine di interesse decrescente[54].
3.              Riflessioni conclusive

Riflessioni sulla lingua. Complemento di mezzo – Il complemento di mezzo indica il mezzo o lo strumento con cui si compie un’azione.
Risponde alla domanda: con che cosa? Per mezzo di chi?
Es.: Ritornai con l’aereo.

Riflessioni sulla lingua. Le proposizioni circostanziali – Le proposizioni subordinate circostanziali (o complementari indirette o avverbiali) sono proposizioni dipendenti che arricchiscono la proposizione da cui dipendono con precisazioni circostanziali (relative al fine, alla causa, all’occasione e simili di ciò che è detto nella proposizione stessa). Esse, dunque, svolgono nel periodo la stessa funzione che nella frase svolgono i complementi indiretti e i complementi avverbiali.
A seconda della funzione logica che assolvono, sono chiamate, in perfetto parallelismo con i complementi indiretti ai quali corrispondono, proposizioni finali, causali, temporali ecc.

Riflessioni sulla lingua. Proposizioni strumentali - Sono proposizioni che indicano il mezzo con cui si compie l’azione espres­sa nella reggente.
Hanno sempre forma implicita, ed usano il verbo al gerundio o all’infinito introdotto dalle preposizioni con, in.
Es.: Viaggiando si scoprono nuove civiltà. (Proposizione subordinata strumentale).
Es.: Con lo studiare si im­parano molte cose. (Proposizione subordinata strumentale).

Riflessioni sulla lingua. Avverbi di modo - Gli avverbi di modo (o qualificativi) indicano, appunto, il modo in cui l’azione è compiuta. Sono avverbi di questo tipo:
·         quelli formati aggiungendo il suffisso -mente alla forma femminile di un aggettivo (es.: velocemente, morbidamente)
·         quelli formati aggiungendo il suffisso -oni alla radice di un sostantivo o di un verbo (es.: bocconi, ciondoloni)
·         quelli che hanno la stessa forma di alcuni aggettivi qualificativi al maschile singolare (es.: giusto, forte, alto)
·         bene, male, quasi, volentieri, come, così, cioè, soltanto, purtroppo, ed altro.

Riflessioni sulla lingua. Complemento di modo o maniera – Il complemento di modo o maniera indica il modo o la maniera con cui qualcosa si fa o appare.
Risponde domande come? in che modo?
Es.: Parlavo da solo.
Anche il verbo serve ad indicare una modalità, per questo esistono i modi verbali[55]

Riflessioni sulla lingua. Proposizioni modali - Sono proposizioni che indicano il modo in cui avviene l’azione espressa dal verbo della reggente. Nella forma esplicita sono introdotte da come, secondo che, comunque, senza che, ecc. ed hanno il verbo all’indicativo o al congiuntivo.
Es.: Comunque intervenga, io sono contento. (Proposizione subordinata modale esplicita).
Nella forma implicita hanno il gerundio presente o il participio preceduto da come.
Es.: La mamma parlava con il figlio sorridendo. (Proposizione subordi­nata modale implicita).
Es.: Scappò via, come sollevato dal vento. (Proposizione su­bordinata modale, implicita).

Riflessioni sulla lingua. Complemento di causa – Il complemento di causa indica la causa, il motivo di un’azione, di uno stato di cosa.
Risponde alle domande: perché? Per qual cosa?
Es.: Piangeva di gioia.
Non era molto accetta­to per il suo carattere.

Riflessioni sulla lingua. Proposizioni causali - Sono proposizioni che indicano la causa di ciò che si dice nella reggente. Possono avere la forma esplicita, con il verbo al modo indicativo o al congiun­tivo o al condizionale, se introdotte dalle congiunzioni poiché, perché, siccome.
Es.: Non studio perché sono stanca. (Proposizione subordinata causale esplicita).
Con la forma implicita sono introdotte o dal gerundio o dalle preposizioni per o da ed hanno il verbo all’infinito.
Es.: Quell’alunno fu lodato per aver studiato. (Proposizione subordina­ta causale implicita).

Riflessioni sulla lingua. Complemento di compagnia - Il complemento di compagnia indica la persona con la quale ci si trova o si compie un’azione.
Risponde alla domanda: con chi?
Es.: Vado con un’amica.

Riflessioni sulla lingua. Complemento di unione - Il complemento di unione indica la cosa con la quale si compie o si subisce l’azione.
Risponde alla domanda: con che cosa?
Es.: Partii con tre valigie.

Educazione letteraria. Personaggi statici e dinamici - Un ultimo modo di classificare i personaggi è quello di distinguerli tra personaggi statici e dinamici.
I personaggi statici sono quelli che nel corso della storia non subiscono mutamenti di alcun tipo, né fisici, né psicologici, né di condizione sociale.
I personaggi dinamici sono quelli che si modificano o dal punto di vista fisico o dal punto di vista psicologico o ancora passano da uno stato sociale a un altro.

T 9 Annibale e la sua audace impresa
Di Maria Elena Aureli
Un vento secco e logorante spira dal Sud, come l’ultimo soffio vitale di un uomo, solleva l’arida sabbia e riporta in luce arcani dolori. Immersa tra polvere e oblio, riaffiora una solida stele, inafferrabile, indistruttibile, estremo baluardo di una gloria passata. Il suo nome è lassù inciso e le sue imprese rimarranno per sempre vive e fervide nell’animo degli esseri umani.
E nella più totale desolazione, nella più eterna rovina, cadrà la sua patria, cadranno le genti che lo hanno prima amato e poi odiato e di lui non resterà altro che una misera tavola di pietra, unica nel deserto ma ancora viva. Viva come la sua gloria. Il suo nome è Annibale e proprio come il suo stesso nome anche le sue gesta sono leggenda.
Ed io parlerò riguardo alla sua vita e la sua audace impresa poiché io lo conobbi in prima persona. Io fui testimone del suo ingegno e della sua straordinaria abilità, io che ebbi la vana possibilità di sottrarlo al suo fatale destino e non lo feci. Ma non avevo ancora appreso in realtà quale fosse il suo vero genio. Egli visse con me per sette anni, protetto all’interno del mio palazzo reale in Bitinia[56], e si mostrò per colui che era veramente, raccontandomi la sua storia e rivelandomi la visione di un mondo nuovo… Annibale fu e sarà e con lui non è sparita solo una civiltà, ma è terminata un’era intera. Io posso dire, dunque, di aver conosciuto uno dei più illustri e geniali uomini di tutti i tempi. Annibale. La sua vita fu piena di tribolazioni e di avversità, ma egli visse allo stesso modo pienamente, dedicando la sua intera esistenza al raggiungimento di un unico sogno: la libertà. Molti scriveranno su di lui, molti lo celebreranno, molti lo invidieranno e invidiandolo lo odieranno, poiché egli fu l’unico, il solo a perseguire, pur ostacolato, gli ideali di tutti gli uomini. E ciò che è accaduto, ciò che le sorti umane hanno attraversato in quegli anni, è dovuto tutto alla forza e all’audacia di un solo essere umano: lui.
Raccontò di essere nato a Cartagine, all’incirca intorno al 247 a.C., figlio di un uomo ambizioso ed estremamente eroico, che aveva infuso nel giovane Annibale, fin dall’infanzia, il profondo astio verso una civiltà in crescente espansione e che era convinto del fatto che non bastasse la sua sola vita a compiere l’ardito progetto.
Credo di aver appreso molte storie su Annibale, ascoltando saggi e oratori, ma mai così realistiche e profonde come quelle che io udii da lui stesso. Si dice che il suo nome derivi dall’espressione fenicia Haniba’al, “grazia del dio Baal”, e persino il soprannome, di cui si fregiò la sua famiglia, Barca (da baruk), significherebbe “il lampo” o “la folgore”.
È nota la grande influenza che la sua famiglia esercitava e quanto fosse potente a Cartagine, la fenicia Quart Adasht, luogo di miti e misteri radicati nelle profonde viscere della terra, in cui si racconta che i Barcidi[57] fossero giunti al seguito di Elissa[58]. Annibale stesso mi narrò che quando era al nono anno di età, la notte prima della partenza con il padre per la Spagna, lo stesso Amilcare
gli fece giurare odio eterno verso i Romani. E questo giuramento sarebbe alla base dunque di tutta la storia futura di Annibale e della furia con cui si precipitò su Roma. Fin dall’età di dodici anni, assistendo alle campagne militari di suo padre in Spagna, fu affidato ad un precettore spartano, Sosilo, e venne allevato da tutti coloro che avevano già tentato invano di contrastare il dispotico predominio romano. 
Mosso dal ricordo di suo padre combattente, figura per lui fondamentale, non si tirò mai indietro e diede tutto se stesso nella lotta contro Roma. Dopo aver oltrepassato il Rodano, ultimo ostacolo delle Alpi, nel Settembre del 218 a.C. Annibale giunse al passo del Monginevro[59] e, nonostante le gravose perdite subite nel corso del percorso, egli era fermamente deciso ad andare avanti. Per evitare lo scontro diretto con i Romani, ormai coscienti del suo piano e pronti ad intercettarlo, proseguì sempre seguendo il corso del Rodano.
Ebbe così inizio la sua leggendaria traversata delle Alpi.
Appena giunto in Italia, si preoccupò di far riposare i suoi soldati presso il territorio dei Taurini[60] per poi recarsi verso il Po.
Nel frattempo si preparavano a fronteggiare l’imminente avanzata dell’armata Annibalica i Consoli Publio Cornelio Scipione e Tiberio Sempronio Longo. La mossa di Annibale servì quindi ad impedire ai Romani di condurre la guerra a modo loro.
Dopo il primo scontro, vittorioso grazie alla formidabile cavalleria Annibalica, avvenuto sulle rive del Ticino nella pianura Padana, alla fine del dicembre del 218 ebbe luogo la prima grave sconfitta per i Romani presso il fiume Trebbia. Solo 10.000 dei 40.000 legionari Romani riuscirono a fuggire a Piacenza, mentre un numero sempre maggiore di popolazioni galliche si alleava ad Annibale.
Trascorso un breve periodo di riposo durante i momenti peggiori dell’inverno, l’eroe Cartaginese
si diresse verso l’Etruria, scegliendo la via più diretta ma anche quella più pericolosa tanto che egli stesso mi riferì di essere stato colpito da un’infiammazione all’occhio nell’attraversare i terreni paludosi.
Utilizzando sempre l’arma della sorpresa e rivelando non solo genialità strategica, ma anche grandi qualità politiche, si diresse sempre più a Sud, procedendo con il suo progetto di attraversare l’intera penisola Italiana solo per sconfiggere la potenza Romana. Infine sferrò un nuovo attacco improvviso contro i Romani presso la riva settentrionale del lago Trasimeno, tanto da provocare la stessa morte del nuovo console Romano Caio Flaminio.
I Romani si resero conto della pesante sconfitta subita e stabilirono di nominare un dittatore: Quinto Fabio Massimo, detto in seguito “Cunctator”, ovvero il temporeggiatore, così definito per esseri limitato ad osservare le mosse di Annibale, senza intervenire per contrastare definitivamente la sua progressiva avanzata. Annibale stesso, che fin dall’inizio aveva confidato nell’appoggio delle popolazioni italiche e galliche, dopo il primo successo ottenuto con Insubri[61] e Boi[62],cominciò a ricevere le prime delusioni, accorgendosi dell’ostilità adoperata nei suoi confronti da città come Assisi e Perugia che si rifiutarono di aiutarlo. E l’avventura Annibalica, iniziata come una sorta di epopea cavalleresca, segnata da vittorie e allo stesso tempo da un incredibile numero di perdite, perde i connotati dell’impresa eroica, mostrando i primi segni di cedimento. Così molte città del Centro Italia rimasero fedeli a Roma, nonostante l’esito delle recenti battaglie, e si opposero vivamente. E mentre a Roma, in seguito alla trappola sul fiume Trebbia e sul lago Trasimeno tesa da Annibale e alle pesanti sconfitte, si cominciava a temere un’invasione simile a quella di Brenno, tra i soldati Cartaginesi si diffondeva il malcontento e l’ipotesi di un fallimento del piano Annibalico. Egli distrusse molte città che gli si rivelarono nemiche, compiendo stragi e brutali torture, assetato di gloria e di vendetta. Passò persino in Abruzzo, alla ricerca di nuovi consensi e di nuove alleanze, tanto che la stessa città di Sulmona subì la sua onda devastatrice, dato che l’oppidum non aveva alcuna intenzione di tradire Roma. Tuttavia, molto probabilmente si pensa che la distruzione di Sulmona non sia dovuta alla sua furia bensì ad un drammatico terremoto che rase la citta al suolo (216 a.C.). Egli mi raccontò che per curare i suoi cavalli dalla scabbia e per ristorare i suoi soldati, stremati dall’immane cammino, si servì del vino Preturziano (cioè dell’attuale Teramo), di cui facevano largo uso i Marsi e i Sanniti.
Annibale decise comunque di cambiare direzione, scendendo ancora più a sud e abbandonando momentaneamente l’idea di dirigersi a Roma.
Tuttavia l’allontanamento dalla meta cruciale suscitò le prime rivolte e i primi dissidi all’interno dell’esercito Cartaginese. Una volta ingannato l’esercito di Fabio Massimo, contro il quale Annibale riferì di aver scagliato fuoco ed una mandria di buoi, si diresse in Puglia dove il 2 Agosto del 216 a.C. si sarebbero scontrati fatalmente i due eserciti, le due potenze egemoni del Mediterraneo, Roma e Cartagine, in uno degli eventi bellici più disastrosi dell’antichità: la battaglia di Cannae.
I Romani, con otto legioni composte da 90.000 uomini, e Annibale con il suo esercito di appena 40.000 uomini, per di più senza l’aiuto degli elefanti, morti tutti durante la traversata delle Alpi, si affrontarono nella pianura posta in prossimità delle rive del fiume Anfido[63].
Schierando i suoi uomini con un’originale struttura ad arco, con la sua famosa manovra “a tenaglia” riuscì a fare infilare la fanteria romana in una sorta d’imbuto, circondandola con l’appoggio della cavalleria pesante, comandata dal fratello Asdrubale, delle fanterie Cartaginesi e libiche e della cavalleria leggera numida, comandata da Maarbale.
Annibale ottenne una grande vittoria ma disastrosa fu la carneficina dell’intero scontro, nel quale perirono oltre 70.000 romani. In un momento così terribile Roma, sull’orlo della catastrofe, resisté e sotto la guida di Quinto Fabio Massimo cercò di lavorare per ottenere la sua rivincita. E mentre la vittoria cartaginese favorì alcune importanti defezioni, tanto che molte città aprirono le porte ad Annibale, all’interno dell’esercito cartaginese la situazione si faceva sempre più precaria: in seguito al sanguinoso esito della battaglia di Cannae, i soldati distrutti dal combattimento, sofferenti e privi di un qualsiasi aiuto, rinfacciarono al loro comandante la decisione di non essersi diretti subito a Roma, accusandolo di non sapere approfittare delle opportunità.
Annibale vagò in Italia per 17 anni, costretto dopo la battaglia di Cannae a rimanere entro Capua, città consegnatasi ai Cartaginesi, subendo i gravi disagi della tattica di logoramento operata dai Romani, volta ad isolare Annibale fino alla resa. Egli tentò persino una azzardata manovra per risalire verso Roma, del tutto vana dato l’indebolimento dell’esercito. Ma la svolta decisiva avvenne quando fu nominato nel 210 a.C. il venticinquenne Publio Cornelio Scipione che, dopo aver sconfitto il fratello di Annibale in Spagna, decise di attaccare direttamente il cuore della civiltà Punica, colpendo Cartagine nel 204. Isolato nel Sud dell’Italia, privo di rifornimenti e di aiuti dalla patria, una patria sempre più corrotta ed invidiosa della sua crescente gloria, Annibale si rese conto che la partita da lui iniziata era stata ormai persa.
Essendo stato richiamato in patria per fronteggiare l’inatteso nemico, fu sconfitto nei pressi della città Naraggara da Scipione, in quella che sarà la sua ultima battaglia, la battaglia di Zama avvenuta nel 202.
Roma con l’aiuto di Massinissa, re della Numidia, il quale fornì un ulteriore numero di contingenti, sbaragliò l’esercito punico, totalmente incapace di chiudere la sua “tenaglia”.
Una volta terminate le ostilità e conclusa la pace con Roma, il Cartaginese si ritirò a vita privata. Era l’anno 200 a.C.
Nominato nel 196 suffeta (cioè alto magistrato), quest’uomo non solo riuscì a risanare le dilapidanti spese di guerra della sua patria, oppressa da durissime condizioni di resa, ma fu anche un’abile politico nel tentativo di fare alcune riforme per porre fine alla dilagante corruzione dell’oligarchia punica, ulteriormente irata per i continui successi di Annibale.
L’odio contro il grande cartaginese, la grande invidia e l’allarmante ingiustizia ebbero alla fine il sopravvento. Egli fu esiliato e costretto a vagare per più di dieci anni dalla Siria alla Bitinia, fin quando giunse presso la mia corte. Tentò di convincermi del fatto che fosse necessaria una potente lega mediterranea per contrastare la supremazia romana, esortandomi con straordinaria eloquenza a fornire il mio appoggio. Ed io lo vidi istruire i miei soldati, mostrare la sua passione ed il suo incredibile valore. Tuttavia non riuscii a salvarlo. I Romani mi costrinsero a consegnarlo. Ma lui fu ben più abile nel togliersi di mezzo, uccidendosi con del veleno per non cadere nelle mani del nemico nel 183 a.C..
Così terminò l’esistenza di essere umano incomparabile, genialmente incompreso e sempre mortale. Io sono stato il suo traditore. Io, Re Prusia. Ma un giorno sarà fatta giustizia; io avrei meritato la sua fine… e lui riceverà gli onori che gli sono dovuti… Un giorno… Affinché il suo sogno e la sua forza vivano negli animi di tutti gli esseri umani. Per sempre. Sotto il grido: “Hannibal ad portas!”…

VIII UNITÀ
Riflessioni sulla lingua. Complemento di agente e di causa efficiente - Il complemento d’agente indica la persona o l’animale da cui è compiuta l’azione espressa dal verbo passivo[64]; il complemento di causa efficiente, indica la cosa da cui è compiuta l’azione espressa dal verbo passivo. Rispondono alle do­mande: da chi? (complemento d’agente) da che cosa? (complemento di causa efficiente).
Es.: Il bambino è castigato dalla mamma.
Es.: La riva è accarezzata dalle onde.

T Mario visto da Plutarco
(da Plutarco, Vita di Mario, trad. C. Carena, Einaudi, Torino 1958)
[3] Prestò servizio militare la prima volta nella campagna contro i Celtiberi, quando Scipione Africano [Minore,] assediò Numanzia, e il generale non mancò di osservare come egli superasse gli altri giovani di bravura e accettasse docilmente la riforma disciplinare che Scipione stesso introdusse nell’esercito, corrotto dalle mollezze e dal lusso. Si racconta che affrontò e abbatté anche un nemico davanti agli occhi del generale, e perciò Scipione lo innalzò a molti onori. Ad esempio un giorno, dopo pranzo, il discorso cadde sui grandi generali, e uno dei presenti, o perché fosse veramente in dubbio, o per compiacerlo, chiese a Scipione quale generale e condottiero grande come lui il popolo romano avrebbe avuto dopo la sua morte. Scipione, battendo lievemente con la mano la spalla di Mario, ch’era sdraiato al suo fianco, disse: «Costui, forse». Tali erano le doti che avevano ricevuto entrambi dalla natura, che l’uno si dimostrò grande fin da giovane, l’altro vide dal principio quale sarebbe stata la fine.
[...]
[9] Ma non fu neppure questo atto[65] che rese più odioso Mario, bensì i discorsi audaci, altezzosi e insolenti con cui punse i nobili, proclamando che il suo consolato era una spoglia che aveva strappato alla mollezza degli aristocratici e dei ricchi, e che egli si vantava davanti al popolo di ferite che aveva ricevuto sul suo corpo, non di monumenti funebri né di immagini altrui. Spesso citava anche i generali scornati in Libia, come Bestia e Albino, uomini che appartenevano ad illustri casate, ma erano caduti miseramente, sconfitti perché inetti e inesperti; chiedeva ai presenti se non pensavano che gli antenati di costoro non avrebbero desiderato di lasciare piuttosto un discendente simile a lui: neppure essi erano divenuti famosi per nobiltà di nascita, ma per virtù e belle imprese. Non diceva però queste cose a vuoto o per vanto, né voleva rendersi odioso ai potenti inutilmente; ma perché il popolo, lieto che il Senato fosse vilipeso, e misurando sempre la grandezza di un animo dalla spavalderia dei discorsi, lo incoraggiava e lo incitava a non risparmiare le persone rispettabili, pur di piacere alla moltitudine.

T Ritratto di Silla
Di Sallustio Crispo
Compiute tutte queste cose, il questore L. Silla venne all'accampamento con una grande cavalleria. Ma poiché il fatto ci ricordò un così grande uomo, sembrò opportuno trattare con poche parole sulla natura e sul suo costume. Noi infatti non abbiamo intenzione di parlare delle imprese di Silla in un altro luogo e Lucio Sisenna, nel modo migliore e più diligente di tutti, quelli che parlarono di quei fatti, perseguitato, mi sembra che abbia parlato poco liberamente.
Silla dunque fu di gente patrizia e nobile, ma di famiglia quasi decaduta per la viltà degli antenati, erudito espertissimo nella letteratura greca e in ugual modo in quella latina, d'animo grande, desideroso di piacere ma ancor più di gloria eloquente, furbo e facile all'amicizia, dall'incredibile ingegno dell'impenetrabilità nel trattare gli affari, prodigio di molte cose ma soprattutto di denaro. Ma giammai lui ebbe soprattutto più fortuna che abilità prima della guerra civile e molti furono incerti se egli fosse più valoroso e più fortunato. Infatti dopo quelle cose che avrebbe fatto, sono incerto se a parlare ci si vergogni e maggiormente si provi disgusto.

T Supermarius
Prologo.
Attorniato dalle proprie guardie del corpo, un uomo, un re[66], cavalca in silenzio lungo la strada deserta. Si ferma, guarda una prima volta verso la città dalla quale è stato allontanato, riprende il cammino, si ferma una seconda volta. Osserva a lungo, sempre in silenzio e da lontano, le vie, i fori, i palazzi, i templi, le case, quasi volesse cercare in quell’ordito di muri e di storia un particolare nuovo, l’illuminazione  in grado di metterlo di colpo in mezzo a una verità diversa. Ma niente smuove la sua convinzione. No, in quella città tutto – potere compreso –  si compra e si vende.
“Città venale, se troverai un compratore non durerai a lungo” esclama a un tratto a voce alta. Tocca coi talloni i  fianchi del cavallo e riprende il cammino senza più voltarsi e senza più parlare.
Quella città è Roma, quell’uomo è Giugurta, re di Numidia.
Un tipo pericoloso.
Giugurta nasce figlio di un principe  e di una concubina. Crescendo, disprezza l’ozio e le mollezze, ama cavalcare, andare a caccia ed esercitarsi con le armi. Quando rimane orfano di padre, il re Micipsa[67], suo zio, lo adotta, per pentirsi quasi subito: quel giovanotto è troppo ambizioso, troppo intelligente, troppo irruento, troppo popolare, può creare disordini. Lo manda allora a combattere  a fianco dei Romani nella guerra contro Numanzia[68] con la segreta speranza di non vederlo più tornare. Giugurta, invece,  torna, sano, salvo, ricco di nuove conoscenze militari e di importanti amicizie, carico di onori. Il leggendario conquistatore di Cartagine, il console Publio Scipione Emiliano[69] in persona, ne tesse l’elogio. Tutto da rifare, dunque, per Micipsa. Che ora cerca di ammorbidire il focoso nipote con le buone, conferendogli responsabilità e  nominandolo suo erede al pari dei figli Jempsale e Aderbale.
Non l’avesse mai fatto. Alla morte del re,  Giugurta dissimula, sembra stare al gioco, ma aspira a ben altro. Comincia col chiedere l’abolizione di tutte le leggi emanate da Micipsa negli ultimi cinque anni, perché, secondo lui,  si tratta di leggi emanate da un re semirimbambito. È un clamoroso autogol. Fra quelle leggi ce n’è anche una “ad personam”, quella con la quale il re lo inserisce fra i suoi eredi. Messo alle strette, Giugurta getta la maschera: fa assassinare a tradimento Jempsale (Livio fornirà una versione diversa) e sconfigge Aderbale in battaglia, costringendolo ad abbandonare la Numidia e a cercare rifugio a Roma.
Auri  sacra fames.
La reazione di Roma è in sintonia con l’andazzo di quei tempi: all’inizio è indignata, poi, a mano a mano che l’oro di Giugurta dalla Numidia prende la via dell’Urbe e finisce nelle tasche giuste, si fa meno accesa. I senatori, “lavorati” a puntino da chi è stato beneficiato da tutto quel ben di dio, convocano in Senato Aderbale e gli ambasciatori di Numidia per ascoltarne le rispettive ragioni.
Aderbale parla con il cuore in mano: mio padre è morto, mio fratello è stato assassinato, i miei amici sono stati crocifissi  o gettati in carcere, non ho più alleati. Forse neppure dignità. Tutti mi voltano le spalle. Lo farà anche Roma? Quella Roma alla quale fin dai tempi di mio nonno Massinissa[70] noi Numidi abbiamo giurato fedeltà,  a fianco della quale abbiamo combattuto il comune nemico cartaginese e alla quale siamo ancora fedeli.
Balle, replicano gli ambasciatori di Giugurta: Jempsale è stato ucciso dai Numidi a causa della sua crudeltà e Aderbale è un aggressore, gli è andata male ed è stato cacciato per questo. La fedeltà a Roma? Dimenticate che il nostro re si è distinto in combattimento a fianco dei legionari romani? Potrebbe mai tradire?
Viene il tempo di decidere e i senatori, complice anche l’oro del re, non la vedono tutti allo stesso modo: c’è chi è a favore di Aderbale e chi, invece sostiene le ragioni di Giugurta. Alla fine i Padri Coscritti[71] anziché allestire un esercito, formano una delegazione e la spediscono (116 a. C.) in Numidia per sistemare le cose. E che cosa fa Giugurta? Fa valere le proprie entrature presso famiglie romane potenti, ma soprattutto, conoscendo i suoi polli, fa girare sostanziose bustarelle, compra i membri della delegazione e, nella spartizione del regno seguita agli accordi di pace, si fa assegnare i territori migliori. Aderbale ingoia il rospo: ha ottenuto poco, molto poco,  ma anche il poco è pur sempre meglio di niente. E così preferisce tacere e adeguarsi.
Tutto sistemato? Neanche per idea. Un paio d’anni dopo, Giugurta ci riprova. Incalzato da vicino, Aderbale si rifugia nella propria capitale, Cirta[72], questa volta deciso a resistere. Da Roma, per la seconda volta, invece di un esercito, arriva una delegazione. Di incorruttibili? Sì, aspetta e spera.
Con le tasche belle gonfie di monete sonanti, i delegati romani in Numidia chiudono più di un occhio. Giugurta ne approfitta, espugna Cirta e uccide Aderbale. Ma – errore fatale – fa passare a fil di spada  anche  molti Italici e qualche cittadino romano. A questo punto il Senato prima ci pensa un po’ su (tanto per non smentirsi), poi rompe gli indugi e dichiara guerra all’empio fedifrago (113 a.C.).
Suk mundi?
Il console incaricato di mettere le cose a posto si chiama Lucio Calpurnio Bestia. È bravo, esperto, coraggioso, intelligente, ma anche aeger avaritiae,  avido di denaro e di ricchezze. Scrive Sallustio: un concentrato di ottime qualità rese inutili da quel vizio esecrando. Da militare esperto, Bestia capisce subito una cosa: il suo esercito, così com’è messo, non può competere con l’imprendibile cavalleria di Giugurta, favorita dal terreno e dalla conoscenza dei luoghi; da uomo schiavo dell’avaritia, Bestia non sa resistere al richiamo dell’auri sacra fames, dell’esecranda fame di denaro. Uno dei suoi luogotenenti, Emilio Scauro, non è da meno. Però è più furbo (o più cauto, fate voi): ha un mucchio di ambizioni, ma sa mascherarle molto bene. Stando così le cose,  i due, invece di combattere, preferiscono trattare. E intascare bustarelle. Risultato: viene stipulata la pace,  Giugurta se la cava anche in questo frangente e a Roma, per la seconda volta, monta l’indignazione.
Lucio Memmio, tribuno della plebe, cavalca il malcontento. A Roma come al fronte, la Repubblica è stata messa in vendita, tuona (domi militiaeque  res publica venalis fuit[73]). E incalza: Giugurta venga qui, protetto da un salvacondotto, e vuoti il sacco. Bestia e Scauro tremano; la nobiltà, temendo un pericoloso precedente in grado di mettere a rischio i propri privilegi, fa quadrato intorno ai due. Tutto inutile: Memmio la spunta  e il pretore Lucio Cassio viene spedito in Numidia con l’incarico di condurre il re a Roma. Giugurta sa di avere la coscienza sporca, non si fida, teme tranelli. Cassio insiste, ricorre alla solite menate[74] (Roma sa esercitare tanto la forza quanto la clemenza, ti do la mia parola, ecc. ecc.) e lo convince.
Ma intanto, in Numidia, la corruzione non si ferma. C’è chi rivende a Giugurta gli elefanti da guerra requisiti a seguito degli accordi di pace, chi gli riconsegna dietro compenso i disertori, chi compie scorrerie nei paesi vicini, chi si macchia di chissà quali altre nefandezze. Eventi eccezionali? Mica tanto. Almeno secondo Memmio. Che una volta, in Senato,  aveva amaramente constatato: il peculato[75]? l’estorsione nei confronti degli alleati? Cose gravi, gravissime, ma ormai di nessuna importanza tanto sono comuni (tamen consuetudine iam pro nihilo habentur. E se fossimo al giorno d’oggi, caro Memmio, verrebbero tranquillamente depenalizzati. O no?).
Poi aveva portato l’affondo. Guardatevi intorno, aveva continuato. Non vedete forse, dovunque andiate, nobili imbelli, avidi, arricchitisi in modo illecito e dimentichi delle antiche virtù ostentare cariche prestigiose, esercitare il consolato, celebrare immeritati trionfi? Non vi rendete conto, o Quiriti, di essere stati privati della vostra autorità e del vostro prestigio? Che abbia ragione Giugurta quando pensa che Roma assomigli a un suk[76] più che al centro del mondo?
Quello che accade dopo sembra dargli ragione. Il popolo rumoreggia quando il re si presenta in Senato, la veste ordinaria, l’atteggiamento dimesso. Mossa studiata, per non urtare la suscettibilità di chi lo dovrà ascoltare. Del popolino vociante Giugurta se ne infischia alla grande. Sa di avere le spalle coperte. E non solo dal salvacondotto del Senato. Per via dei suoi trascorsi militari, a Roma conta amicizie altolocate e soprattutto a Roma non è arrivato a mani vuote. E appena messo piede nell’Urbe, ha cominciato a distribuire regali a destra e a manca, guadagnando alla sua causa un pezzo da novanta, il collega di Memmio, il tribuno Gaio Bebio. E così, quando viene invitato a vuotare il sacco, Giugurta, su consiglio di Bebio, si avvale della facoltà di non rispondere.
La mossa spiazza tutti; Bestia e Scauro tirano un grosso sospiro di sollievo, la nobiltà si rianima e il re diventa ancora più impudente e sfrontato. Tanto impudente e sfrontato da fare assassinare un suo possibile rivale da tempo in esilio volontario a Roma, Massiva[77], al quale, pescando nel torbido, il console Spurio Albino, destinato in  Numidia, aveva consigliato di reclamare per sé il trono. Quando la notizia dell’assassinio di Massiva diventa di dominio pubblico, come diremmo oggi, Giugurta viene invitato a lasciare Roma. In tempo per consegnare alla storia, tramite Sallustio,  la profezia della città in attesa di un compratore.
La guerra riprende fra alti e bassi, fra operazioni militari e giochi di potere. Quella, infatti,  non è una guerra come le altre. Sui campi di battaglia di Numidia si allungano le ombre delle contraddizioni politiche e sociali della Roma di quei tempi. Tempi in cui la lotta fra i nobili e la plebe, dopo la tragica fine dei Gracchi si era fatta più acuta. Scrive Sallustio: in tempi antichi, i problemi erano comuni e il timore dei nemici favoriva la concordia; con la scomparsa dei nemici, con l’aumentare della ricchezza e dell’estensione della Repubblica, chi aveva meno (la plebe) voleva avere di più e chi aveva di più (la nobilitas) non voleva avere di meno. Di qui i contrasti, le lotte, i momentanei periodi di calma apparente, le rivendicazioni, i tumulti, gli abusi, l’ascesa degli “uomini nuovi[78]”, optimates vs populares[79] e viceversa.
Con questa instabilità sullo sfondo, il console Spurio Albino parte alla volta della Numidia deciso a fare un solo boccone di Giugurta, ma una volta in Africa sembra più desideroso di accumulare vantaggi personali che di salvaguardare gli interessi della Repubblica. Più che alla Numidia, insomma, guarda a Roma; più che al potere del Senato, guarda al proprio. E, appena può, ritorna nell’Urbe per presiedere i Comizi elettorali. Quell’inetto presuntuoso (la definizione è di Sallustio) di suo fratello Aulo Albino rimasto in Numidia come propretore[80], spinto dalla fretta, dall’ambizione o dalla voglia di impadronirsi del tesoro di Giugurta, si caccia in un brutto pasticcio e a Suthul[81] subisce una sconfitta clamorosa. Come al tempo delle guerre sannitiche, i legionari romani devono passare sotto il giogo.
Apriti cielo! A Roma, l’indignazione, soprattutto fra la plebe,  monta. Com’è questa storia? Non siamo neppure capaci di avere ragione di un piccolo re di un piccolo regno? E che cosa ci sta a fare il Senato se passiamo da una sconfitta all’altra? E, poi,  perché i comandanti ritornano dall’Africa sconfitti, ma ricchi sfondati? Viene istituita allora una commissione con l’incarico di esaminare le posizioni dei presunti corrotti. E  chi ne viene chiamato a far parte? Emilio Scauro. Sì, proprio lui, il luogotenente di Bestia in odore di bustarelle.
È  una brutta situazione, urge rimediare. Il Senato questa volta va sul sicuro e affida (109 a.C.) al console Quinto Cecilio Metello l’incarico di togliere le castagne dal fuoco. Metello, uomo tutto d’un pezzo, onesto, incorruttibile, gradito a tutti, è un ottimo generale. Trova l’esercito in condizioni pietose e lo riorganizza; cerca di combattere Giugurta con le sue stesse armi, facendo girare soldi e promesse nel tentativo di guadagnare alla propria causa i dignitari numidi; coglie qualche sporadico successo (a Methul, ad esempio), subito trasformato a Roma in una vittoria decisiva; arriva più volte a un passo dalla vittoria, senza mai essere capace, tuttavia, complice la guerra di guerriglia in cui Giugurta è maestro, di portare il colpo definitivo. E, in più, deve tenere a bada  un  soldato esperto, coraggioso e determinato: il suo luogotenente Gaio Mario.
Mario è un homo novus con ambizioni neppure troppo segrete. Ha esercitato diverse magistrature,  aspira al consolato e, sulla carta, ne ha tutti i titoli: fa della virtus – un misto di valore militare e di eccellenza  individuale – il proprio credo; aspira alla gloria; è onesto, si è fatto le ossa in più di una battaglia, è frugale, è insensibile ai vizi del tempo. Gli manca il requisito principale: il sangue blu. Ma dalla sua ha la profezia di un indovino, consultato a Utica: niente ti è precluso, gli dei ti sono favorevoli, ce la farai. E allora, perché non provarci?
Metello non la pensa così: il consolato? Non è roba per te. Quella è una magistratura per chi  può vantare antenati illustri e se vai a Roma ti sarà negata. Come è giusto che sia. Quindi rassegnati: io non ti darò il permesso di partire. Perché quel rifiuto? Perché quell’atteggiamento così intransigente? C’è forse ruggine fra i due? Può darsi, ma l’atteggiamento di Metello è in un qualche modo specchio dei tempi. In quell’atteggiamento è contenuto, infatti, un  confronto più vasto: status quo contro cambiamento, vecchio contro nuovo. Resta da capire come sarà il nuovo.
Mario è un tipo tosto e non molla. Alla fine Metello cede e lo autorizza a partire. Tornato a Roma Mario cavalca la tigre dell’antipolitica[82] (e ti pareva...) e ne ha per tutti: per la nobilitas corrotta e pusillanime, avida di privilegi e di prebende, indegna dei suoi antenati; per lo stesso Metello, accusato di  tirare in lungo la guerra contro Giugurta per ricavarne vantaggi personali. Musica pura agli orecchi della plebe e non solo. Mario stravince e Metello se non cade in depressione poco ci manca. Di sicuro deve cedere il comando delle operazioni e se anche in patria viene accolto come un vincitore e viene gratificato dell’appellativo di Numidicus, non può non  masticare amaro.
Prima di partire per l’Africa per decisione del popolo (e anche questa è una bella novità), Mario mette le cose in chiaro con il Senato: mi serve un altro esercito, un esercito diverso. Basta coi cittadini-soldato: è ora di mettere al servizio della Repubblica soldati professionisti, non importa se nullatenenti, disoccupati o sottoproletari. Non vi va bene? Toglietemi l’incarico e mettete al mio posto uno di quei nobili discendenti da antiche famiglie,  sempre pronti a riempirsi la bocca delle glorie degli antenati, ma incapaci di combinare  alcunché. Io, per parte mia,  non ho gesta di antenati da far valere, ma posso mostrarvi le cicatrici delle mie ferite ricevute in battaglia. Come dire: è il valore personale il vero discrimine, non il sangue.
Valore personale Mario può vantarne  in abbondanza, ma Giugurta è un osso duro, maestro del mordi e fuggi, conoscitore dei luoghi e delle tecniche di combattimento romane. E per di più, adesso ha un alleato: Bocco[83], re di Mauritania.  Come già Metello, Mario deve sudare non poco per cogliere una vittoria qui, uno striminzito successo là. Poi un legionario ligure in cerca di lumache gli apre, casualmente, le porte della stanza del tesoro del re e il suo questore Lucio Cornelio Silla (lui sì di antica famiglia) tira dalla parte di Roma il re Bocco. Senza più soldi per pagare le proprie truppe, senza più alleati, Giugurta si batte con la forza della disperazione, ma ha il destino segnato. Sarà consegnato da Bocco a Silla e morirà (104 a.C.)  nella città che, forse, si era illuso di comprare. Sul trono di Mauritania sale un suo fratellastro, Gauda, debole di mente.
Epilogo
Quella guerra in apparenza minore fu decisiva per il destino della Repubblica. Come andò a finire? Male, inutile dirlo. Mario ebbe il suo trionfo, Silla si sentì defraudato; il conflitto fra i due si inasprì; il confronto fra optimates e populares, cioè fra sostenitori dell’autorità del Senato da una parte e del diritto sovrano del popolo di prendere decisioni dall’altra, diventò guerra aperta e  la Repubblica conobbe le liste di proscrizione, le sollevazioni interne, gli attacchi esterni, la guerra civile,  un bagno di sangue senza precedenti.
Le fu risparmiato il tracollo del sesterzio, questo sì, ma non  l’uomo della provvidenza.
Meditate gente, meditate.


IX UNITÀ
Riflessioni sulla lingua. Avverbi di tempo – Gli avverbi di tempo determinano il tempo di svolgimento di un’azione: ancora, ora, mai, sempre, prima, dopo, ieri, oggi, domani, subito, presto, frequentemente, spesso, etc.

Riflessioni sulla lingua. Complementi di tempo – Il complemento di tempo indica il tempo in cui accade, è accaduto o accadrà un fatto oppure il periodo durante il quale è durata o durerà un’azione.
Il complementi di tempo si distingue, quindi, in complemento di tempo determinato e complemento di tempo continuato.
Riflessioni sulla lingua. Tempo determinato – Il complemento di tempo determinato indica il tempo in modo preciso in cui avviene o è avvenuto o avverrà un fatto. Esso risponde alla domanda: quando?
Es.: Il convegno avverrà il 16 settembre.
Riflessioni sulla lingua. Tempo continuato – Il complemento di tempo continuato indica il tempo in cui dura, è durato o durerà un fatto. Risponde alle do­mande: per quanto tempo?, fino a quando?
Es.: Il governo rimase in carica per dieci mesi.

Riflessioni sulla lingua. Complemento di età - Il complemento di età indica l’età di una persona, l’età in cui una persona ha fatto qualcosa e risponde alle domande di quanti anni? a quanti anni?  
Es.: Mario ha dieci anni;
Antonio, all’età di dieci anni, vinse la sua prima gara di nuoto.

Riflessioni sulla lingua. Proposizioni temporali – La proposizione temporale è una proposizione subordinata circostanziale che indica una circostanza di tempo in cui può avve­rarsi quanto è detto nella reggente.
Le proposizioni temporali di forma esplicita sono introdotte da prima che, dopo che, quando, allorquando, allorché, ecc. e voglio­no il verbo al modo indicativo se si tratta di un fatto reale.
Vogliono, invece, il verbo al modo congiuntivo se si tratta di un’azione possibile o futura.
Es.: Arrivai alla sta­zione dopo che il treno era partito. (Proposizione subordinata temporale).
Es.: Sarò alla stazione prima che arrivi il treno. (Proposizione subordinata temporale).
Le proposizioni temporali di forma implicita hanno il verbo all’infinito retto da: su, ci, in, con, prima di, o al gerundio, o ai participio passato.
Es.: Prima di arrivare, ti telefonerò.
Entrando al cinema, ti ho riconosciuta.
Arrivato al mare, feci il bagno. (Proposizioni subordinate temporali).

Educazione letteraria. Le categorie del tempo e dello spazio – Due elementi importanti del discorso narrativo sono le categorie del tempo e dello spazio.

Educazione letteraria. Il tempo – La dimensione temporale è pensata con attenzione dall’autore ed una sua analisi consente di comprendere meglio il testo: le vicende narrate sono, infatti, collocate in un’epoca e hanno una determinata durata.
Se il testo narrativo narra fatti reali o verosimili, il tempo è quasi sempre determinato con chiarezza e la durata degli avvenimenti è spesso ricavabile da alcuni indicatori o elementi temporali presenti nel testo.
Lo studio del tempo nell’opera letteraria avviene attraverso cinque fondamentali operazioni:
1.      Individuazione dell’epoca storica in cui si svolgono i fatti (se non vi sono indicazioni dell’epoca per quale motivo) individuando se il tempo è:
·         Indeterminato,
·         Chiaramente espresso,
·         Individuabile tramite elementi interni al testo.
2.      Individuazione degli indicatori temporali precisi, le unità di tempo (giorni, mesi, ecc.):
·         Datazioni esplicite,
·         Riferimenti a personaggi realmente esistiti,
·         Descrizione di abitudini e modi di vivere propri di una certa epoca;
3.      Individuazione dell’ordine del tempo ossia come si susseguono le unità di tempo e per quale motivo vi sono delle variazioni rispetto all’ordine lineare:
·         Ordine cronologico
·         Retrospettive, dette analessi o flashback o retrospezione e consistono nell’evocazione più o meno ampia di un evento anteriore al punto della storia in cui ci si trova. Quando l’autore vuole spiegare qualcosa avvenuto in tempo passato rispetto a quello narrativo nel brano, sceglie di interrompere la narrazione nel tempo presente e di retrocedere nel passato, narrando così eventi passati come se stesse narrando eventi al presente. Il flashback è di grande effetto nei romanzi.
·         Anticipazioni o prolessi o evocazione più o meno ampia di un evento successivo al tempo della storia in cui ci si trova, ed è detta anche flash-forward.
4.      Individuazione del rapporto tra tempo della storia (durata reale) e lo sviluppo del racconto (durata narrativa). Il racconto può allungare, abbreviare, fermare lo sviluppo degli eventi della storia mediante le seguenti tecniche (con TR si indica Tempo Racconto, con TS il Tempo Storia):
·         Pausa: TR=8 TS=0 (si ferma il tempo della storia per digressioni, commenti, ecc, quando il tempo del racconto è fermo, perchè il narratore indugia in riflessioni o descrizioni quindi il tempo del racconto è maggiore del tempo della storia.
·         Scena: TR=TS quando il tempo del racconto è uguale a quello della storia: questa perfetta coincidenza dei tempi, si riscontra in dialoghi, azioni brevi, ecc.).
·         Narrazione rallentata: TR>TS (descrizione minuziose, al rallentatore).
·         Sommario: TR<TS (poche righe per una storia lunga) quando il tempo del racconto è minore del tempo della storia: il narratore riassume gli avvenimenti.
·         Ellissi: TR=0, quando c’è un’omissione di una parte della storia e di una maggiore velocità del tempo del discorso, quindi il tempo del racconto è minore del tempo della storia addirittura si annulla perchè il narratore omette gli avvenimenti verificatisi in periodi di tempo più o meno lunghi. Si ha, quando alcuni elementi della storia non sono raccontati.
·         Digressione quando il narratore devia dall’argomento principale di un discorso, di una narrazione;
5.      Individuazione della distanza narrativa ossia della distanza del tempo nel testo narrativo tra epoca dei fatti narrati ed epoca della narrazione.

Dal Giulio Cesare di William Shakespeare
Dopo le commedie romantiche e i grandi drammi storici, il Giulio Cesare (composto tra il 1599 e il 1600) inaugura nella produzione teatrale shakespeariana il periodo più cupo e austero dell’ispirazione del grande drammaturgo inglese: le tragedie in particolare mettono in scena contraddizioni e contrasti, assumendo i toni della disperazione, della solitudine, della violenza. Nel Giulio Cesare, ispirato alla Vita di Cesare scritta da Plutarco, Shakespeare propone una visione problematica degli avvenimenti, esplorando la complessità morale dell’individuo che agisce nella storia esemplificata nella figura di Bruto, l’organizzatore della congiura contro Cesare: nonostante la giustezza delle sue motivazioni, la storia si ritorcerà contro di lui facendo di un tirannicida l’inconsapevole artefice del trionfo della tirannia. Nella famosissima scena qui riprodotta il popolo romano è convenuto nel foro per ascoltare i congiurati: Bruto spiega le sue ragioni, giustificando l’assassinio di Cesare con il nobile intento di agire per il bene di Roma; Marco Antonio pronuncia l’orazione funebre che ribalterà il giudizio del popolo sugli assassini.

Roma. Il Fòro.
Entrano BRUTO e CASSIO, ed una folla di Cittadini.
I Citt. Vogliamo avere soddisfazione; che ci venga data soddisfazione.
Bru. Allora seguitemi, e datemi ascolto, amici. Cassio, voi andate nell’altra strada; dividiamo la folla. Coloro che vogliono udire me parlare, restino qui; coloro che vogliono sentire Cassio, vadano con lui, e sarà resa pubblica ragione della morte di Cesare.
1° Citt. Io voglio sentire parlare Bruto.
2° Citt. Io voglio udire Cassio, poi paragoneremo le ragioni che ci rendono ascoltandole ora separatamente.
Esce Cassio con alcuni dei Cittadini. Bruto sale al rostro.
3° Citt. Il nobile Bruto è salito. Silenzio!
Bru. Siate pazienti sino alla fine. Romani, compatriotti, e amici! uditemi per la mia causa; e fate silenzio per poter udire: credetemi per il mio onore; ed abbiate rispetto pel mio onore affinché possiate credere: giudicatemi nella vostra saggezza, ed acuite il vostro ingegno affinché meglio possiate giudicare. Se vi è alcuno qui in questa assemblea, alcun caro amico di Cesare, a lui io dico che l’amore di Bruto per Cesare non era minore al suo. Se poi quell’amico domandi perché Bruto si sollevò contro Cesare, questa è la mia risposta: non che io amavo Cesare meno, ma che amavo Roma di più. Preferireste che Cesare fosse vivo, e morire tutti da schiavi, o che Cesare sia morto per vivere tutti da uomini liberi? In quanto Cesare mi amò, io piango per lui; in quanto la fortuna gli arrise, io ne godo; in quanto egli fu coraggioso, io l’onoro; ma in quanto egli fu ambizioso, io l’ho ucciso: vi sono lacrime per il suo amore, gioia per la sua fortuna, onore per il suo coraggio, e morte per la sua ambizione. Chi v’è qui sì abietto che sarebbe pronto ad essere schiavo? Se vi è, che parli; perché lui io ho offeso. Chi vi è qui sì barbaro che non vorrebbe essere romano? Se vi è, che parli; perché lui ho offeso. Chi vi è qui sì vile che non ami la sua patria? Se vi è, che parli; perché lui ho offeso. Aspetto una risposta.
I Citt. Nessuno, Bruto, nessuno.
Bru. Allora nessuno io ho offeso. Non ho fatto di più a Cesare di quello che voi farete a Bruto. Il giudizio della sua morte è registrato in Campidoglio; la sua gloria non è attenuata per ciò in cui fu degno, né i suoi torti esagerati per i quali soffrì la morte.
Entrano ANTONIO ed altri, col corpo di Cesare.
Ecco che giunge il suo corpo, pianto da Marc’Antonio, il quale, benché nessuna parte abbia avuto nella sua morte, ne riceverà il benefizio, un posto nella repubblica; e chi di voi non riceverà altrettanto? Con questo io parto; ché, come io uccisi il mio miglior amico per il bene di Roma, ho lo stesso pugnale per me stesso, quando piacerà alla mia patria di aver bisogno della mia morte. 
Tutti. Vivi, Bruto! vivi, vivi!
1° Citt. Portatelo in trionfo alla sua casa.
2° Citt. Dategli una statua con i suoi antenati.
3° Citt. Sia egli Cesare.
4° Citt. Le migliori qualità di Cesare saranno coronate in Bruto.
1° Citt. L’accompagneremo alla sua casa con grida e con clamori.
Bru. Compatriotti...
2° Citt. Pace! Silenzio: Bruto parla.
1° Citt. Pace, oh!
Bru. Buoni compatriotti, lasciatemi partire solo, e, per amore mio, restate qui con Antonio. Rendete gli onori alla salma di Cesare, ed onorate il suo discorso che mira a glorificare Cesare, e che a Marc’Antonio con nostra licenza è concesso di fare. Vi supplico, non un solo uomo parta eccetto me, finché Antonio non abbia parlato.
Esce. 
1° Citt. Fermi, oh! Udiamo Marc’Antonio.
3° Citt. Che salga sulla pubblica cattedra; l’udremo. Nobile Antonio, sali.
Ant. Per l’amore di Bruto, sono obbligato a voi.
4° Citt. Che dice egli di Bruto?
3° Citt. Egli dice che per amore di Bruto si sente obbligato a noi tutti. 
4° Citt. Sarà bene che egli non sparli di Bruto qui. 
1° Citt. Questo Cesare era un tiranno. 
3° Citt. Davvero, questo è certo: siamo fortunati che Roma ne sia libera.
2° Citt. Silenzio! Udiamo ciò che Antonio può dire. 
Ant. O voi gentili Romani... 
I Citt. Silenzio, oh! Udiamolo.
Ant. Amici, Romani, compatriotti, prestatemi orecchio; io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo.
Il male che gli uomini fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto con le loro ossa; e così sia di Cesare. Il nobile Bruto v’ha detto che Cesare era ambizioso: se così era, fu un ben grave difetto: e gravemente Cesare ne ha pagato il fio. Qui, col permesso di Bruto e degli altri – ché Bruto è uomo d’onore; così sono tutti, tutti uomini d’onore – io vengo a parlare al funerale di Cesare. Egli fu mio amico, fedele e giusto verso di me: ma Bruto dice che fu ambizioso; e Bruto è uomo d’onore. Molti prigionieri egli ha riportato a Roma, il prezzo del cui riscatto ha riempito il pubblico tesoro: sembrò questo atto ambizioso in Cesare? Quando i poveri hanno pianto, Cesare ha lacrimato: l’ambizione dovrebbe essere fatta di più rude stoffa; eppure Bruto dice ch’egli fu ambizioso; e Bruto è uomo d’onore. Tutti vedeste come al Lupercale tre volte gli presentai una corona di re ch’egli tre volte rifiutò: fu questo atto di ambizione? Eppure Bruto dice ch’egli fu ambizioso; e, invero, Bruto è uomo d’onore. Non parlo, no, per smentire ciò che Bruto disse, ma qui io sono per dire ciò che io so. Tutti lo amaste una volta, né senza ragione: qual ragione vi trattiene dunque dal piangerlo? O senno, tu sei fuggito tra gli animali bruti e gli uomini hanno perduto la ragione. Scusatemi; il mio cuore giace là nella bara con Cesare e debbo tacere sinché non ritorni a me.
1° Citt. Mi pare che vi sia molta ragione nelle sue parole.
2° Citt. Se tu consideri bene la cosa, a Cesare è stato fatto gran torto.
3° Citt. Vi sembra, signori? Temo che uno peggiore di lui verrà al suo posto.
4° Citt. Avete notato le sue parole? Non volle accettare la corona: è quindi certo che non era ambizioso.
1° Citt. Se si troverà che è così qualcuno la pagherà ben cara.
2° Citt. Pover uomo! I suoi occhi sono rossi come il fuoco dal piangere.
3° Citt. Non v’è uomo a Roma più nobile di Antonio.
4° Citt. Ora, osservatelo, ricomincia a parlare.
Ant. Pur ieri la parola di Cesare avrebbe potuto opporsi al mondo intero: ora egli giace là, e non v’è alcuno, per quanto basso, che gli renda onore. O signori, se io fossi disposto ad eccitarvi il cuore e la mente alla ribellione ed al furore, farei un torto a Bruto e un torto a Cassio, i quali, lo sapete tutti, sono uomini d’onore: e non voglio far loro torto: preferisco piuttosto far torto al defunto, far torto a me stesso e a voi, che far torto a sì onorata gente. Ma qui è una pergamena col sigillo di Cesare – l’ho trovata nel suo studio – è il suo testamento: che i popolani odano soltanto questo testamento, che, perdonatemi, io non intendo di leggere, e andrebbero a baciar le ferite del morto Cesare, ed immergerebbero i loro lini nel sacro sangue di lui; anzi, chiederebbero un capello per ricordo, e morendo, ne farebbero menzione nel loro testamento, lasciandolo, ricco legato, alla prole.
1° Citt. Vogliamo udire il testamento: leggetelo, Marc’Antonio.
I Citt. Il testamento, il testamento! Vogliamo udire il testamento di Cesare.
Ant. Pazienza, gentili amici, non debbo leggerlo; non è bene che voi sappiate quanto Cesare vi amò.
Non siete di legno, non siete di pietra, ma uomini, e essendo uomini, e udendo il testamento di Cesare, esso v’infiammerebbe, vi farebbe impazzire: è bene non sappiate che siete i suoi eredi; ché, se lo sapeste, oh, che ne seguirebbe! 
4° Citt. Leggete il testamento; vogliamo udirlo, Antonio; dovete leggerci il testamento, il testamento di Cesare.
Ant. Volete pazientare? Volete attendere un poco? Ho sorpassato il segno nel parlarvene. Temo di far torto agli uomini d’onore i cui pugnali hanno trafitto Cesare; invero, lo temo.
4° Citt. Erano traditori: che uomini d’onore!
I Citt. Il testamento! Il testamento! 
2° Citt. Erano canaglie, assassini: il testamento! Leggete il testamento! 
Ant. M’obbligate dunque a leggere il testamento? E allora fate cerchio attorno al corpo di Cesare e lasciate che io vi mostri colui che fece il testamento. Debbo scendere? E me lo permettete?
I Citt. Venite giù!
2° Citt. Scendete.
3° Citt. Avrete il permesso.
Antonio scende.
4° Citt. In cerchio; state intorno. 
1° Citt. Lontani dalla bara; lontani dal corpo. 
2° Citt. Fate posto ad Antonio, al nobilissimo Antonio. 
Ant. No, non vi affollate intorno a me; state lontani. 
I Citt. State indietro! Posto! Andate indietro! 
Ant. Se avete lacrime, preparatevi a spargerle adesso. Tutti conoscete questo mantello: io ricordo la prima volta che Cesare lo indossò; era una serata estiva, nella sua tenda, il giorno in cui sconfisse i Nervii: guardate, qui il pugnale di Cassio l’ha trapassato: mirate lo strappo che Casca nel suo odio vi ha fatto: attraverso questo il ben amato Bruto l’ha trafitto; e quando tirò fuori il maledetto acciaio, guardate come il sangue di Cesare lo seguì, quasi si precipitasse fuori di casa per assicurarsi se fosse o no Bruto che così rudemente bussava; perché Bruto, come sapete, era l’angelo di Cesare: giudicate, o dèi, quanto caramente Cesare lo amava! Questo fu il più crudele colpo di tutti, perché quando il nobile Cesare lo vide che feriva, l’ingratitudine, più forte delle braccia dei traditori, completamente lo sopraffece: allora si spezzò il suo gran cuore; e, nascondendo il volto nel mantello, proprio alla base della statua di Pompeo, che tutto il tempo s’irrorava di sangue, il gran Cesare cadde. Oh, qual caduta fu quella, miei compatriotti! Allora io e voi, e tutti noi cademmo, mentre il sanguinoso tradimento trionfava sopra di noi. Oh, ora voi piangete; e, m’accorgo, voi sentite il morso della pietà: queste son generose gocce. Anime gentili, come? piangete quando non vedete ferita che la veste di Cesare? Guardate qui, eccolo lui stesso, straziato, come vedete, dai traditori.
1° Citt. O pietoso spettacolo!
2° Citt. O nobile Cesare!
3° Citt. O infausto giorno! 
4° Citt. O traditori! Canaglie!
1° Citt. O vista cruenta! 
2° Citt. Vogliamo essere vendicati.
I Citt. Vendetta! Attorno! Cercate! Bruciate! Incendiate! Uccidete! Trucidate! Non lasciate vivo un solo traditore!
Ant. Fermi, compatriotti!
1° Citt. Silenzio, là! Udite il nobile Antonio.
2° Citt. L’udremo, lo seguiremo, morremo con lui!
Ant. Buoni amici, dolci amici, che io non vi sproni a così subitanea ondata di ribellione. Coloro che han commesso questa azione sono uomini d’onore; quali private cause di rancore essi abbiano, ahimè, io ignoro, che li hanno indotti a commetterla; essi sono saggi ed uomini d’onore, e, senza dubbio, con ragioni vi risponderanno. Non vengo, amici, a rapirvi il cuore. Non sono un oratore com’è Bruto; bensì, quale tutti mi conoscete, un uomo semplice e franco, che ama il suo amico; e ciò ben sanno coloro che mi han dato il permesso di parlare in pubblico di lui: perché io non ho né l’ingegno, ne la facondia, né l’abilità, né il gesto, né l’accento, né la potenza di parola per scaldare il sangue degli uomini: io non parlo che alla buona; vi dico ciò che voi stessi sapete; vi mostro le ferite del dolce Cesare, povere, povere bocche mute, e chiedo loro di parlare per me: ma se io fossi Bruto, e Bruto Antonio, allora vi sarebbe un Antonio che sommoverebbe gli animi vostri e porrebbe una lingua in ogni ferita di Cesare, così da spingere le pietre di Roma a insorgere e ribellarsi.
I Citt. Ci ribelleremo.
1° Citt. Bruceremo la casa di Bruto! 
2° Citt. Via dunque! Venite, si cerchino i cospiratori!
Ant. Ascoltatemi ancora, compatriotti; ancora uditemi parlare. 
I Citt. Silenzio, oh! Udite Antonio, il nobilissimo Antonio.
Ant. Amici, voi andate a fare non sapete che cosa. In che ha Cesare meritato il vostro amore? Ahimè, non sapete: debbo dirvelo allora: avete dimenticato il testamento di cui vi parlavo.
I Citt. Verissimo, il testamento: restiamo ad udire il testamento.
Ant. Ecco il testamento, e col sigillo di Cesare: ad ogni cittadino romano egli dà, ad ognuno individualmente, settantacinque dramme.
2° Citt. Nobilissimo Cesare! Vendicheremo la sua morte.
3° Citt. O regale Cesare!
Ant. Ascoltatemi con pazienza.
I Citt. Zitti, oh!
Ant. Inoltre, egli vi ha lasciato tutti i suoi passeggi, le sue private pergole e gli orti nuovamente piantati, al di qua del Tevere; egli li ha lasciati a voi ed ai vostri eredi per sempre: pubblici luoghi di piacere, per passeggiare e per divertirvi. Questo era un Cesare! Quando ne verrà un altro simile?
1° Citt. Giammai, giammai! Venite, via, via! Bruceremo il suo corpo nel luogo santo, e con i tizzoni incendieremo le case dei traditori. Raccogliete il corpo.
2° Citt. Andate a prendere il fuoco.
3° Citt. Abbattete le panche. 
4° Citt. Abbattete i sedili, le finestre, ogni cosa. 
Escono i Cittadini col corpo.
Ant. Ed ora, che la cosa vada avanti da sé. Malanno, tu sei scatenato, prendi il corso che vuoi.
Entra un Servo.
Ebbene, giovane!
Serv. Signore, Ottavio è già arrivato a Roma.
Ant. Dov’è?
Serv. Egli e Lepido sono in casa di Cesare.
Ant. Ed ivi subito andrò a visitarlo: mi giunge a proposito. La fortuna è lieta e in questo umore ci concederà qualunque cosa.
Serv. Ho udito dire che Bruto e Cassio han traversato cavalcando come pazzi le porte di Roma.
Ant. Forse hanno avuto qualche notizia del popolo, come io l’avevo commosso. Conducimi da Ottavio.


X UNITÀ
Riflessioni sulla lingua. Avverbi di luogo – Gli avverbi di luogo specificano una determinazione di luogo lì, , qui, qua, giù, su, laggiù, davanti, dietro, sopra, sotto, dentro, fuori, altrove, intorno, ci, vi, etc.

Riflessioni sulla lingua. Complementi di luogo - I complementi di luogo indicano la località dove si compie un’azione e si distinguono in complementi di stato e complementi di moto, a seconda dei verbi che li introducono.
Riflessioni sulla lingua. Stato in luogo – Il complemento di stato in luogo indica il luogo in cui si trova una persona o avviene un’azione.
Risponde alla domanda: dove?, in quale luogo?
Es.: Vivo a Roma;
Io abito al quinto piano.
Riflessioni sulla lingua. Moto a luogo - Il complemento di moto a luogo indica il luogo nel quale si va o la persona cui ci si avvicina.
Risponde al­le domande: verso dove?, a quale luogo?
Es.: Vado in Sardegna.
Riflessioni sulla lingua. Moto da luogo - Il complemento di moto da luogo indica il luogo da cui si parte o si proviene.
Risponde alla domanda: da quale luogo?, per dove?
Es.: Il viaggio cominciò da Roma.
Riflessioni sulla lingua. Modo per luogo - Il complemento di moto da luogo il luogo che si attraversa per arrivare a destinazione.
Risponde alle domande: per dove?, attraverso quale luogo?
Es.: Passai per un cavalcavia.
Riflessioni sulla lingua. Complemento di origine o provenienza – Il complemento di origine o provenienza indica la nascita, la provenienza, l’origine di una persona o di una cosa.
Risponde alle domande: donde?, da dove?, da chi?
Es.: Il Tevere nasce dal M. Fumaiolo;
Paolo è di modesta famiglia.
Riflessioni sulla lingua. Complemento di distanza - Il complemento di distanza indica la distanza fra due luoghi
Risponde alla domanda: quanto? A quale distanza?
Benevento dista da Napoli 70 Km.
Riflessioni sulla lingua. Complemento di estensione - Il complemento di estensione indica la lunghezza, la larghezza, l’altezza e la profondità di una cosa.
Risponde alla domanda: quanto esteso, lungo, alto, profondo? A quale distanza?
Il ponte era lungo 300 metri.
La torre era alta 30 metri.

Riflessioni sulla lingua. Proposizione locativa - La proposizione subordinata locativa indica la posizione nello spazio in cui si compie l’azione avvenuta nella reggente.
Esiste solo in forma esplicita, introdotta da un avverbio o da una locuzione avverbiale di luogo come dove, da dove, nel punto in cui, dal luogo in cui, ed usa il verbo all’indicativo.
Es.: Dove lo zio viveva da ragazzo, hanno costruito un ipermercato con quattro parcheggi.
Es.: Da dove abito, vedo il mare.

Educazione letteraria. Lo spazio - La dimensione spaziale, ossia lo spazio in cui si svolge la storia, è pensata con attenzione dall’autore ed una sua analisi consente di comprendere meglio il testo: le vicende narrate sono, infatti, collocate in uno spazio in cui si svolge la storia spesso, è scelta con cura dall’autore che la usa con funzioni diverse.
Se il testo narrativo narra fatti reali o verosimili, il tempo è quasi sempre determinato con chiarezza e la durata degli avvenimenti è spesso ricavabile da alcuni indicatori o elementi temporali presenti nel testo.
Lo studio dello spazio nell’opera letteraria avviene attraverso tre fondamentali operazioni:
1.      Individuazione dello spazio geografico in cui è ambientata la vicenda (e se questo non è indicato per quale motivo)
2.      Individuazione della descrizione dei luoghi se essi sono:
·         Luoghi reali o immaginari
·         Chiusi o aperti
·         Limitati o illimitati
·         Ristretti o ampi
·         Quali oggetti si trovano
·         Trovare eventuali collegamenti tra situazioni (di tensione, gioia, aspettativa) e spazi.
·         Relazioni tra luoghi e personaggi (come i personaggi vivono il luogo, vi sono analogie o discordanze tra i tipi di personaggio e il luogo in cui si trovano)
·         Relazioni tra i luoghi (ad esempio opposizione tra spazi vicino/lontano, aperto/chiuso, ecc.)
3.      Individuazione della funzione rivestita nella descrizione degli spazi:
·         ambientazione quando fornisce uno sfondo generale per la storia (ad esempio, il romanzo I Malavoglia di Giovanni Verga è ambientato ad Aci Trezza, un piccolo paese della Sicilia, negli ultimi anni del XIX secolo). Più specificamente, il termine “ambientazione” può anche indicare il momento e il luogo in cui si svolge una singola scena di una lunga storia.
·         Narrativa come oggettivazione del carattere del personaggio, rappresentazione di una situazione sociale o morale, come proiezione soggettiva dello stato d’animo del personaggio
·         Simbolica quando è filtrato attraverso la coscienza dei personaggi che istituiscono una corrispondenza tra la propria condizione esistenziale e il paesaggio in sintonia o in contrasto con il loro mondo interiore. (ad esempio il palazzo di Atlante nell’Orlando furioso diventa il simbolo della prigione delle passioni)

Educazione letteraria. Le macrosequenze e i nuclei narrativi - I diversi tipi di sequenze di solito si aggregano tra loro, per lo più intorno a una o più sequenze di tipo narrativo, a costituire un’unità narrativa di un certo respiro, detta parte del racconto.
Queste parti sono per lo più facilmente individuabili nel testo: in linea di massima, infatti, si ha una nuova parte di racconto quando:
·         si verifica un mutamento di luogo o un salto temporale
·         entra in sce­na un nuovo personaggio.
·         si verifica un mutamento nello stato d’animo del protagonista
·         si compiersi di un’esperienza psicologica.
L’insieme di più parti riunite a costituire un insieme narrativo organico formano delle macrosequenze che rappresentano i nuclei narrativi del raccon­to, cioè i momenti fondamentali in cui si articola il racconto dal punto di vista del contenuto.

Le origini di Roma
Dopo aver detto queste cose, Anchise condusse il figlio insieme alla Sibilla in mezzo a un'adunanza e a una rumorosa folla di anime e raggiunge un'altura donde potesse passare in rassegna tutti coloro che in lungo ordine gli stavano di fronte e riconoscere il volto delle anime che venivano.
- Ecco, ora ti spiegherò[84] con le parole quale gloria raggiungerà in futuro la prole di Dardano, quali discendenti rimarranno della gente italica, anime illustri destinate a portare il nostro nome e ti ammaestrerò sui tuoi destini. Vedi quel giovane[85] che si appoggia a una semplice asta[86], occupa per sorte i luoghi più vicini alla luce, per primo sorgerà all'aria eterea misto di Italo sangue, Silvio, nome Albano, tua postuma prole che nato tardi a te ormai vecchio la sposa Lavinia alleverà nelle selve come re e padre di re da cui la nostra stirpe dominerà Alba Longa. Quello vicino a lui è Proca[87], gloria del popolo Troiano, e Capi[88] e Numitore[89] e Silvio Enea[90] che porterà il tuo stesso nome, parimenti egregio nella pietà e nelle armi se mai avrà ottenuto di regnare su Alba. Che giovani! Guarda che grande forza dimostrano! E portano le tempie ombreggiate di quercia civile[91]. Questi ti costruiranno Nomento[92] e Gabii[93]  e la città di Fidene[94], questi altri sui monti le rocche Collatine[95], Pomezia[96], la Fortezza di Inuo[97], Bola[98] e Cora[99]. Questi saranno allora i nomi, mentre ora sono terre senza nome.
I re romani, la Repubblica, Bruto Decii - Drusi - Torquato – Camillo
vv. 808-825
E chi è laggiù che porta gli arredi sacri riconoscibile per i rami d'olivo? Conosce i capelli e il mento canuto del re romano[100] che fonderà con le leggi la nuova città, chiamato dalla piccola Curi[101] e da una povera terra a un grande potere. A lui succederà poi Tullo Ostilio[102] che infrangerà la quiete della patria e spingerà alle armi gli uomini tranquilli e le schiere già disavvezze ai trionfi. Lo segue da vicino il troppo presuntuoso Anco[103] che anche ora qui si compiace del favore popolare. Vuoi vedere i re Tarquini[104] e l'anima superba del vendicatore Bruto[105] e i fasci[106] recuperati? Questi per primo riceverà il potere di console e le crudeli scuri e, padre, chiamerà al supplizio[107] i figli in difesa della bella libertà, sventurato, comunque i posteri giudicheranno quei fatti: vincerà l'amor di patria e l'immensa brama di gloria. Guarda inoltre laggiù i Decii[108] e i Drusi[109] e Torquato[110] inesorabile con la scure[111] e Camillo che riportò le insegne.
Gli uomini illustri della Repubblica
vv. 826-853
E quelle anime che vedi rifulgere in armi, concordi ora finché saranno oppresse dalle tenebre, che terribili guerre combatteranno fra loro, se attingeranno la luce della vita, che grandi schiere e stragi susciteranno, il suocero[112] discendendo dai contrafforti alpini e dalla rocca di Monaco[113] e il genero[114] schierato cogli avversi Eoi[115] . O fanciulli, non rendete consuete agli animi così gravi guerre e non rivolgete le vostre forze potenti contro le viscere della patria: e tu[116] per primo, tu che trai la tua origine dall'Olimpo, perdona; getta lontano dalle tue mani le armi, o sangue mio! Quello, debellata Corinto[117], guiderà vittorioso il cocchio verso l'alto Campidoglio, e si distingue dagli altri per aver sconfitto i Greci. Quello[118] abbatterà Argo e Micene città di Agamennone e sconfiggerà lo stesso Eacide[119], discendente d'Achille potente nelle armi, vendicando gli avi di Troia e il profanato tempio di Minerva[120]. Chi potrebbe lasciare sotto silenzio te, o grande Catone[121], o te, o Cosso? (Chi potrebbe lasciare sotto silenzio) la stirpe di Gracco[122] o i due Scipioni[123], due fulmini di guerra, flagello della Libia, e il potente Fabrizio[124] o te, o Serrano[125] che semini nei solchi? Dove mi trascinate già stanco, o Fabii[126]? E tu sei quel Massimo che da solo temporeggiando ci hai restituito lo Stato? Altri foggeranno più elegantemente statue di bronzo che sembrano vive (lo credo davvero) scolpiranno nel marmo volti che sembrano vivi, patrocineranno meglio le cause e descriveranno col compasso le vie del cielo e prediranno il corso degli astri: tu, o Romano, ricordati di governare col tuo imperio i popoli (queste saranno le tue arti) e di dettare le condizioni di pace, risparmiare chi si sottomette e debellare i superbi.
Marcello vv. 854-866
Queste parole dice il padre Anchise e aggiunge questo ai due che meravigliati lo ascoltano:
- Guarda come Marcello[127] avanza distinguendosi per le ricche spoglie e vittorioso sovrasta tutti gli altri guerrieri. Questi come cavaliere[128]  sosterrà lo stato Romano mentre è perturbato da una grave lotta, abbatterà il Cartaginese e il Gallo ribelle e per terzo[129] appenderà nel tempio al padre Quirino[130]  le spoglie catturate al nemico.
E qui Enea (e infatti vedeva andare straordinario per bellezza e per le armi splendenti, ma la fronte non lieta e gli occhi nel volto abbassato a terra):
        - Chi è, padre, quello che così accompagna l'eroe che cammina? È forse il figlio o qualcuno della grande discendenza dei nipoti? Che strepito di compagni lo circonda! Che nobile aspetto in lui! Ma l'oscura notte gli avvolge il capo con funesta ombra.
vv.867-892
Marcello il Giovane
Allora il padre Anchise, con lacrime che spuntavano dai suoi occhi, cominciò:
- O figlio! Non chiedere di sapere questo immenso lutto dei tuoi. I Fati lo mostreranno appena e non permetteranno che viva di più. Troppo potente, o dèi, vi sarebbe sembrata la stirpe Romana, se questi doni fossero stati duraturi. Che dolorosi pianti di uomini valorosi si innalzeranno dal quel campo Marzio[131] verso la grande città di Marte! E che funerali vedrai, o Tevere[132], quando scorrerai vicino al sepolcro recente! Né alcun fanciullo della gente Iliaca solleverà a tanta speranza gli avi latini né un giorno la terra di Romolo si vanterà tanto di qualche suo figlio. O pietà, o fede antica, o destra invitta in guerra! Nessuno impunemente sarebbe andato armato contro di lui sia che come fante sarebbe andato a piedi contro il nemico sia che pungesse con gli speroni i fianchi d'un destriero schiumante. Ahimé, fanciullo degno di compianto, tu sarai Marcello, anche se in qualche modo potrai spezzare i tuoi destini crudeli. Spargete gigli a piene mani, che io sparga fiori purpurei e possa colmare almeno con questi doni l'anima del nipote e compia quest'inutile onore.
        Così qua e là vagano per tutta quella regione nei vasti campi dell'aria e osservano ogni cosa. Dopo che Anchise condusse il figlio in ogni singolo luogo e incendiò il suo animo coll'amore della gloria ventura, ricorda quindi all'eroe le guerre che in seguito dovrà sostenere e lo informa sui popoli di Laurento e sulla città di Latino e in che modo possa sia evitare che sopportare ogni difficoltà.
vv.893-901
L'uscita
Sono due le porte del Sonno [133]; di esse una si dice sia fatta di corno[134], attraverso la quale è dato alle ombre vere un facile passaggio[135] ; l'altra è rilucente e fatta di candido avorio, ma gli dèi Mani inviano al cielo attraverso di essa sogni fallaci. Allora Anchise accompagna il figlio insieme alla Sibilla a queste porte e li fa uscire dalla porta d'avorio[136] . Quello percorre la via verso le navi e rivede i compagni. Poi si reca navigando al porto di Gaeta, lungo il lido diritto. Si getta l'ancora dalla prua; stanno immobili sulla spiaggia le navi.



[1] Note di retorica: la prosopopea, o personificazione – È una figura retorica e si ha quando si attribuiscono qualità o azioni umane ad animali, oggetti, o concetti astratti. Spesso questi parlano come se fossero persone. È una prosopopea anche il discorso di un defunto.
Un esempio di prosopopea si ha nelle Catilinarie di Cicerone in cui egli immagina che la Patria sdegnata rimproveri Catilina, reo di aver organizzato una congiura contro di essa.
[2] I pronomi relativi - I pronomi relativi sostituiscono un componente della frase, mettendo in relazione proposizioni diverse. I pronomi relativi possono costituire, a seconda dell’uso, il soggetto, il complemento oggetto o un complemento indiretto della proposizione che introducono. Il pronome relativo serve in genere ad evitare la ripetizione di un componente della frase, detto antecedente.
Es: Non capisco la donna che sta parlando (che serve a sostituire la donna).
Questo componente, nella frase principale, gioca il ruolo di complemento oggetto (non capisco la donna), e costituisce l’antecedente che non si vuole ripetere, e che è dunque sostituito dal pronome relativo che.
I principali pronomi relativi sono i seguenti:
·         Che: questo pronome assume solo il ruolo sintattico di soggetto e complemento oggetto.
Es: La donna che vende la verdura è una mia amica
La donna che vedi è una amica,
che, nella frase subordinata ha nella prima frase il ruolo di soggetto (‘la donna vende’), nel secondo invece il ruolo di complemento oggetto (‘vedi la donna’).
Es: il gioco che ho comprato costa molto.
il libro che leggo è molto interessante
la gonna che ho comprato è nuova 
il ragazzo che sta parlando è un mio amico.
l’amico che mi ha prestato il libro mi ha telefonato per riaverlo.
Questo pronome, nella lingua italiana, non fa dunque distinzioni per il caso come avverrebbe invece in francese (qui per il soggetto oppure que per il complemento), né si tiene conto di aspetti semantici come la distinzione tra cose e persone (in inglese, per esempio, si distinguerebbe tra which e who oppure whom).
·         Il quale (variabile secondo genere e numero: la quale, i quali, le quali) Può sostituire che nel ruolo di soggetto:
Es Non capisco la donna la quale sta parlando.
Il vantaggio di questo pronome sta nel fatto di indicare esplicitamente genere e numero evitando quindi casi ambigui.
Il quale può inoltre indicare complementi indiretti se accompagnato da una preposizione:
Es: Non capisco la donna alla quale avete regalato i libri. (alla quale indica il complemento di termine).
·         Cui (indeclinabile) Questo pronome indica complementi indiretti, combinato da una preposizione.
Es: Non capisco la donna a cui avete regalato i libri
Questi pronomi differiscono per il ruolo sintattico che possono svolgere nella proposizione subordinata: soggetto, complemento oggetto, soggetto, complementi indiretti.
·         I pronomi relativi doppi sono quei pronomi che assumono significati riconducibili ai precedenti:
o    Chi ( = colui che, qualcuno che)
o    Quanto (=ciò che, tutto ciò che, tutto quello che)
o    Chiunque (=tutti quelli che)
Questi pronomi non prevedono specificazione dell’antecedente, dato che lo contengono.
[3] La preposizione. È la parte invariabile del discorso che collega mettendoli tra loro gli elementi di una proposizione o le proposizioni di un periodo. In base alla forma le preposizioni si distinguono in:
·         preposizioni proprie: sono così chiamate perché nella frase esse possono svolgere solo funzione di preposizione.
·         preposizioni improprie
·         locuzioni prepositive
[4] Le preposizioni semplici - Le preposizioni semplici sono: di, a, da, in, con, su, per, tra, fra.
[5] Le preposizioni articolate - Le preposizioni articolate si formano dall’unione delle preposizioni semplici più gli articoli determinativi
·         Il lo la  (singolare)
·         I gli le (plurale)
Di
Di + il = del
Di + lo = dello
Di + la = della
Di + i = dei
Di + gli = degli
Di + le = delle
A
A + il = al
A + lo = allo
A + la = alla
A + i = ai
A + gli = agli
A + le = alle
Da
Da + il = dal
Da + lo = dallo
Da + la = dalla
Da + i = dai
Da + gli = dagli
Da + le = dalle
In
In + il = nel
In + lo = nello
In + la = nella
In + i = nei
In + gli = negli
In + le = nella
Con
Con + il = con il
Con + lo = con lo
Con + la = con la
Con + i = con i
Con + gli = con gli
Con + le = con le
Su
Su + il = sul
Su + lo = sullo
Su + la = sulla
Su + i = sui
Su + gli = sugli
Su + le = sulle
Per
Per + il = per il
Per + lo = per lo
Per + la = per la
Per + i = per i
Per + gli = per gli
Per + le = per le
Tra
Tra + il = tra il
Tra + lo = tra lo
Tra + la = tra la
Tra + i = tra i
Tra + gli = tra gli
Tra + le =tra le
Fra
Fra + il = fra il
Fra + lo = fra lo
Fra + la = fra la
Fra + i = fra i
Fra + gli = fra gli
Fra + le = fra le

[6] Pronomi personali complemento - I pronomi personali complemento si usano quando nella frase il pronome svolge una funzione diversa da quella di soggetto e I pronomi personali usati come complemento hanno due forma:
·         forma forte o tonica;
·         Forma debole o atona.
cioè:
Persona
Funzione complemento
forma tonica
forma atona
1° singolare
Me
Mi
2° singolare
Te
Ti
3° singolare
maschile
lui, esso, sé
Lo, gli, ne, si
femminile
lei, essa, sé
La, le, ne, si
1° plurale
Noi
ci, ce
2° plurale
voi
vi, ve
3° plurale
maschile
essi, loro, sé
li, ne, si
femminile
esse, loro, sé
le, ne, si
·         complemento oggetto: Ti ascolterò;
·         complemento di termine: Le regalerò delle rose;
·         complemento indiretto: Vieni con me a mangiare un gelato?
I pronomi personali complemento si distinguono in due forme differenziate:
1) le forme toniche o forti (me, te, lui, sé, noi, voi, essi, loro ...), dette così perché hanno un accento proprio e, quindi, assumono particolare rilievo nella frase; possono essere usate per parecchi complementi e sono collocate generalmente dopo il verbo:
Es.: Penso a te;
Es.: Cerco loro;
2) le forma atone o deboli (mi, ti, lo, gli, si, la, ci, loro ...), dette così perché non hanno un accento proprio e per la pronuncia si appoggiano sempre al verbo che le precede (enclitiche) o che le segue (proclitiche):
Es.: Verrà a trovarci (enclitica):
Es.: Ti (proclitica) dico di sì;
Le forme atone, chiamate anche particelle pronominali, sono adoperate esclusivamente per il complemento oggetto (Verrò a trovarti = Verrò a trovare te) o per il complemento di termine (Ti consiglio = consiglio a te).
[7] Fine: confine
[8] Quella: la luna
[9] Brocchiere: scudo rotondo curvo all’interno
[10] Pezeteri: Titolo onorifico dato da Filippo di Macedoniaai fanti della famosa falange. Armatura tipica dei pezeteri era la sarissa, lunghissima lancia.
[11] Che vaga solitaria nel cielo
[12] Inaccessa: mai raggiunta (prima da nessuno)
[13] Sponda: riva
[14] letter. raro. – Soldato mercenario della Grecia antica: 
[15] La Caria era una regione nell'ovest dell'Anatolia, che si estendeva a sud della Ionia. I greci ne colonizzarono la regione costiera e si fusero con la popolazione locale. 
[16] immobile
[17] dal monte Emo e dal monte Carmelo
[18] Fulgida: splendente per le stelle
[19] Fiumane: fiumi in piena
[20] Immota: immobile
[21] Portate: qui nel significato di riflettete
[22] Portate: qui nel significato di trasportate
[23] che non s'arresta mai
[24] Sottinteso avervi
[25] Pare: appare
[26] Invidiate sta per nascondete
[27] fermarsi
[28] Cimenti: difficoltà, prove
[29] Futuro
[30] Isso: antica città dell'Asia Minore nei cui pressi, nel 333 a. C., sulle rive del fiume Pinaro, l'esercito di Dario III fu accerchiato e sconfitto dai Macedoni di Alessandro Magno, che si impadronì così di tutta la parte occidentale dell'impero persiano.
[31] Bruciava
[32] notturno il campo: l’accampamento notturno
[33] Sottintendi ero più felice.
Pella sostituì Ege come capitale del regno da re Archelao (400 a. C.). Nel sec. IV a. C. era una grande e prospera città; vi si svolsero i negoziati di pace tra Atene e Filippo nel 346. Vi nacque Alessandro Magno. Gli scavi archeologici hanno consentito l'individuazione dell'area della città, la cui organizzazione urbanistica è nota soprattutto per quanto riguarda la zona centrale, dove si sono scoperti sontuosi edifici a più piani, circondati da lunghe strade. Le scoperte più interessanti sono costituite da alcuni mosaici pavimentali (scena di caccia al leone; Dioniso su una pantera) importanti sia per la loro datazione alta (sec. IV-III a. C.), sia per la tecnica usata: sono formati infatti con ciottoli naturali a pochi colori e le figure sono contornate con sottili strisce di piombo o terracotta.
[34] Bucefalo
[35] Nere: ombrose
[36] Si rivolge al padre Filippo II di Macedonia, figlio di Aminta
Filippo II re di Macedonia nacque 382 a. C. discendente della dinastia degli Argeadi, figlio di Aminta III, regnò dapprima come reggente del nipote Aminta IV. Assicuratosi con una rapida campagna contro gli Illiri la tranquillità delle frontiere settentrionali, iniziò già dal 357 a. C. una politica di espansione in Tracia ai danni dei possedimenti ateniesi in quella regione. Conquistò Anfipoli e si assicurò il possesso dei giacimenti auriferi del Pangeo e avanzò minaccioso verso l'Ellesponto. Negli anni successivi Filippo II, occupato con gli Illiri, non dimenticò la Grecia alimentando le forze avverse ad Atene e Sparta in Eubea e nel Peloponneso.
La ripresa dell'avanzata macedone nel Chersoneso e la minaccia diretta posta contro Bisanzio, importante centro di rifornimento per i granai ateniesi, indussero gli Ateniesi a un nuovo intervento. Demostene concepì e attuò nel 340-339 a. C., la cosiddetta “lega delle leghe” che riuniva contro Filippo II leghe di poleis in un tentativo di superamento del particolarismo greco. Nel 339 a. C., trovato nella cosiddetta IV guerra Sacra un pretesto per intervenire, Filippo II si presentò in armi alle Termopili e l'anno successivo vinse, in una grande battaglia campale nella piana di Cheronea, l'esercito confederato attorno ad Atene. La vittoria lo rese arbitro della Grecia, i cui principali Stati, nel 337 a. C., riunì nella Lega di Corinto da lui presieduta. Ma il grande disegno di conquista non era ancora compiuto; mirava concretamente alla guerra contro la Persia, quando una congiura di palazzo pose fine alla sua intensa esistenza.
Quando Filippo salì al trono a 22 anni la Macedonia era un regno marginale e arretrato. In 20 anni di guerre e azioni diplomatiche Filippo assunse il controllo dell’intera penisola greca e pose le basi per la spedizione in Oriente contro l’impero persiano condotta poi dal figlio Alessandro.
Si dedicò fin dai primi anni al consolidamento dell’organizzazione dell’esercito, facendone una macchina bellica insuperata fino all’arrivo dei romani: aumentò il numero dei soldati, tramite continui allenamenti rese i piccoli proprietari terrieri dei professionisti della guerra, la falange oplitica fu resa più leggera e manovrabile e dotata di una nuova arma di attacco, la sarissa. Diede grande importanza alla cavalleria, composta dai compagni del re, i nobili a lui più fedeli
[37] Nomo: inno sacro
[38] Timoteo l’auleta - nel IV sec. a.C., Timoteo fu un celebre auleta: Beota, ebbe la sua prima affermazione importante nel 360-357 a.C. ad Atene, accompagnando il coro nell'Aiace furente di Timoteo di Mileto; partecipò poi agli agoni musicali indetti da Filippo II di Macedonia durante l'assedio di Metone nel 354 a.C., concorrendo contro i più anziani Antigenida e Crisogono; Alessandro lo volle per le cerimonie d'avvio della spedizione antipersiana; concorse al grande agone musicale per le nozze d'Alessandro a Susa nel 324 a.C.. Timoteo l'auleta, dunque, fu figura importante della musica innovatrice di IV sec. a.C., una star internazionale in stretti rapporti con la corte macedone (del resto, Alessandro usa musicisti di spicco per promuovere la propria politica culturale), dotato di tanto prestigio da potersi permettere anche una certa indipendenza verso Alessandro.
[39] Fatale: voluto dal destino
[40] Questo inno è il soggetto sottinteso
[41] Sali
[42] Cielo
[43] Perché
[44] Si perde
[45]  fig. Bramoso, desideroso
[46]  Alessandro era affetto da eterocromia, aveva cioè gli occhi di colore diverso (uno azzurro e l'altro marrone, o forse nero).
[47] Sottintendi: Alessandro piange
[48] Industri: operose, industriose
[49] Torcono: girano
[50] Ceree: cerulee, bianche, come la cera
[51] Olimpiade, la madre di Alessandro
Olimpìade, figlia di Neottolemo, re di Epiro, dal tutore Aribba fu data in sposa a Filippo II di Macedonia nel 358, a cui diede due figli, Alessandro e Cleopatra. Quando Filippo sposò Cleopatra, figlia di Attalo, si ritirò in Epiro, presso il fratello Alessandro il Molosso. Dopo l'assassinio di Filippo nel 336 si vendicò della rivale. Se il rapporto con il marito Filippo non fu mai positivo, sia per la poligamia[1] da questi tenuta, sia dai riti dionisiaci, cui Olimpiade era devota, quello con il figlio primogenito fu estremamente profondo: quest'ultimo, infatti, mutuò da lei la spiritualità intrisa di passionalità, la tensione mistica, l'ansia sempre inappagata di spingersi 'oltre'.
Nel 331 Olimpiade venne in urto con Antipatro, e tornò in Epiro, dove si mantenne estranea alle lotte dei diadochi, fino al 317, quando si alleò con Poliperconte e, vincitrice, uccise Filippo Arrideo ed Euridice. Assediata poi a Pidna, fu catturata da Cassandro e giustiziata nel 316.
[52] Gli argomenti di carattere sociale, culturale, scientifici individuano per l’articolo una posizione che oscilla tra l’editoriale (articolo di apertura di un giornale, con funzione di riflessione su un argomento di particolare rilievo nell’attualità), l’articolo di commento, l’articolo di terza pagina (è la pagina culturale e letteraria), in ogni caso posizioni riservate a eventi di larga incidenza storica o contemporanea.
[53] La regola delle 5 w - Per rendere praticabile questa formula i giornalisti anglosassoni hanno quindi elaborato il cosiddetto “principio delle 5 W” cui possiamo aggiungere 1 H che derivano dalle domande, in inglese:
  1. who?      = chi?
  2. where?   = dove?
  3. when?    = quando?
  4. what?    = che cosa?
  5. why?      = perché?
  6. how        = come?
Rispondere a queste domande garantisce generalmente, che l’informazione comunicata al lettore-ascoltatore, sia un’informazione più essenziale e al tempo stesso più completa e che egli abbia cosi tutti gli elementi per formulare un proprio giudizio sui fatti e confrontarlo con quello dei vari opinionisti.
[54] La piramide rovesciata - Attualmente il secondo modo è il più diffuso. Esso offre, tra gli altri vantaggi, quello di far capire subito al lettore se l’articolo gli interessa e di cogliere rapidamente gli aspetti più rilevanti del fatto. L’insieme dei fatti nell’ordine in cui sono narrati dal giornalista che si avvale di vari artifici, quali ad esempio anticipazioni ed effetti di suspence, costituisce l’intreccio, mentre la fabula è la ricostruzione dei fatti nella loro successione effettiva.
[55] Il modo verbale - Il modo del verbo indica la maniera in cui l’azione del verbo avviene. Ogni modo comunica un aspetto diverso della modalità del verbo.
In italiano, ci sono sette modi divisi in:
1.       I modi definiti ossia i modi che definiscono l’azione del verbo secondo la persona e il numero. I modi definiti sono quattro:
  • L’indicativo è il modo della realtà e della certezza e si usa per una descrizione neutrale o per raccontare cose vere, sicure, reali.
Es. Marco va in ufficio tutti i giorni alle 8.00.
Il modo indicativo ha otto tempi: presente, passato prossimo, imperfetto, trapassato prossimo, passato remoto, trapassato remoto, futuro semplice, futuro anteriore
  • Il congiuntivo è il modo dell’opinione e dell’incertezza e si usa normalmente per manifestare la propria opinione personale e indica incertezza. Si usa per esprimere sentimenti, opinioni, dubbi o per raccontare cose non sicure, non confermate.
Es: Penso che Marco ora sia a Roma, ma non ne sono sicuro.
Il congiuntivo ha quattro tempi diversi: presente, passato, imperfetto, trapassato.
Es. Io dico che Marco è simpatico.
Questa frase esprime un’affermazione sicura.
Es. Io penso che Marco sia simpatico.
Questa frase esprime un’opinione non sicura.
  • Il condizionale è il modo della possibilità e del desiderio e si usa per esprimere desideri, richieste gentili, inviti o per raccontare cose possibili o irreali.
Es. Vorrei una bella tazza di cioccolata.
Il condizionale ha due tempi: presente e passato.
  • L’imperativo è il modo del comando e si usa per esprimere ordini, consigli o inviti molto forti.
Es. Esci subito dalla stanza!
Il modo imperativo ha solo il presente
2.       I modi indefiniti sono quei modi che non definiscono l’azione del verbo secondo la persona e il numero e cioè sono indeterminati. I modi indefiniti sono tre:
  • L’infinito esprime l’azione al grado zero ed il modo base del verbo.
es. Essere o non essere: questo è il problema!
Il modo infinito ha due tempi: presente e passato.
N.B. Questo modo si chiama implicito perché la forma del verbo non esprime il soggetto.
  • Il participio esprime una relazione con la frase principale e ha spesso funzione di aggettivo o sostantivo.
Es. Questa è la macchina comprata da Marco.
Il participio ha due tempi: presente e passato.
N.B. Nel presente ha generalmente un valore attivo. Nel passato può dare valore attivo o passivo all’azione secondo il verbo: se il verbo è transitivo il participio passato ha valore passivo se il verbo è intransitivo ha valore attivo.
N.B. Il participio passato si usa per costruire le forme composte del verbo.
Es: Marco ha fatto un viaggio.
N.B. Questo modo si chiama implicito perché la forma del verbo non esprime il soggetto.
  • Il gerundio esprime una relazione con il contenuto della frase principale. Ha valore causale, temporale, ipotetico, strumentale, modale.
Es. Vedendo il film si è divertita moltissimo.
Il gerundio ha due tempi: presente e passato.
N.B. Questo modo si chiama implicito perché la forma del verbo non esprime il soggetto.
[56] Bitinia - Antica regione dell’Asia Minore affacciata sul Mar Nero e sul Mar di Marmara. Occupata dai Traci verso il 700 a.C., fu colonizzata dai Greci nelle sue coste settentrionali. Dal VI secolo nell’orbita persiana, accentuò la propria autonomia nelle lotte seguite alla morte di Alessandro Magno. La politica dei suoi sovrani, tra i quali Zipete, Nicomede I e Nicomede II, Prusia I e Prusia II, fu abile ed energica; essi accrebbero la prosperità del già ricco reame fondando nuove città e favorendo la cultura greca. Le relazioni con i Romani, dapprima assai tese per la presenza di Annibale alla corte di Prusia I, divennero poi amichevoli e la Bitinia si trasformò in un regno vassallo di Roma, sino a che Nicomede IV nel 74 a.C. lasciò morendo il regno ai Romani, che ne fecero una provincia, unendola poco dopo nel 66 al Ponto.
[57] Bàrcidi. - Famiglia cartaginese di Amilcare (v., n. 4), al quale fu dato l'epiteto di Barca (cfr. ebr. bārāq "lampo"). Con Amilcare, i personaggi più noti furono i suoi figli Annibale e Asdrubale.
[58] Elissa, più nota come Didone, è una figura mitologica, regina fenicia figlia primogenita di Belo, re di Tiro, e sposa di Sicharbas. Alla morte del padre la successione al trono fu contrastata dal fratello Pigmalione, che ne uccise segretamente il marito e assunse il potere con lo scopo di rubarne i suoi tesori.
Elissa lasciò Tiro con un largo seguito e cominciò una lunga peregrinazione, le cui tappe principali furono Cipro e Malta.
Secondo la leggenda una dea le aveva promesso una nuova terra in cui fondare una propria città e gliel’aveva indicata come la terra in cui scavando sulla spiaggia avrebbe trovato un teschio di cavallo.
Approdata infine sulle coste libiche, Didone ottenne dal re Iarba il permesso di stabilirvisi, prendendo tanto terreno “quanto ne poteva contenere una pelle di bue” infatti, l’antico soprannome di Cartagine era “Birsa”, che in greco significa “pelle di bue” e in fenicio “rocca”.
Didone scelse una penisola, tagliò astutamente la pelle di toro in tante striscioline e le mise in fila, in modo da delimitare quello che sarebbe stato il futuro territorio della città di Cartagine e riuscì a occupare un territorio di circa ventidue stadi (uno stadio equivaleva a circa 185,27 mq.)
Durante la vedovanza Didone fu insistentemente richiesta in moglie dal re Iarba e dai principi numidi, popolazione locale; secondo le narrazioni più antiche dopo aver finto di accettare le nozze, Didone si uccise con una spada invocando il nome del marito Sicharbas.
Didone fu divinizzata dal proprio popolo con il nome di Tanit, la dea che deteneva il posto più importante a Cartagine e quale ipostasi della grande dea Astarte.
La tradizione romana vedeva un collegamento tra la famiglia cartaginese dei Barca e la regina leggendaria. Il mito di Didone è stato ripreso da Virgilio nell’Eneide.
Nella versione virgiliana, Didone s’innamora di Enea giunto naufrago a Cartagine. È a lei che l’eroe troiano racconta le vicende vissute a partire dalla fine di Troia. Giove, tramite Mercurio, impone la nuova partenza all’eroe troiano, che lascia Didone dopo un ultimo terribile incontro, in cui lei lo maledice e prevede eterna inimicizia tra i due popoli. Poi, con delle scuse, svia Anna e la nutrice Barce e disperata si uccide con la stessa spada che Enea le aveva donato, gettandosi poi nel fuoco di una pira sacrificale.
[59] Il Colle del Monginevro è un valico alpino tra Italia e Francia, situato nelle Alpi Cozie. Secondo alcuni potrebbe essere stato utilizzato anche dall'esercito cartaginese di Annibale nel 218 a.C. per raggiungere l'Italia e attaccare i Romani.
[60] I Taurini furono un piccolo popolo che occupò, tra il VII e il III secolo a.C. circa, la valle del Po, al centro dell'attuale Piemonte.
[61] Riguardo l'origine etnica degli Insubri vi sono due tesi principali: la prima li vuole popolazione celtica, derivante dall'ipotetica migrazione, nei secoli VII e VI a.C., di tribù Celto-Galliche nell'Italia nord-occidentale, la seconda, supportata dai ritrovamenti archeologici e dalla loro analisi, li vuole facenti parte dei popoli Liguri.
[62] I Boi (sing. Boio) furono una popolazione celtica dell'Età del ferro originaria dell'Antica Gallia, dove erano stanziati fin dal sesto secolo a.C., o dell'Europa centrale, forse delle stesse regioni che ancor oggi portano il loro nome: Boemia e Baviera.
[63] oggi Ofanto
[64] La forma passiva - Il verbo, secondo la relazione che stabilisce con il soggetto, può essere attivo o passivo.
Nella forma attiva il soggetto del verbo è colui che compie l’azione, cioè l’agente della frase.
Es: I turisti ammirano il paesaggio.
Tutti i verbi, transitivi e intransitivi, hanno la forma attiva.
Nella forma passiva, invece, il vero agente della frase, l’elemento che compie l’azione, non è il soggetto, ma il complemento, che si chiama infatti complemento d’agente.
Esempio:
la polizia insegue i ladri (sogg.) (forma v. attiva) (c. oggetto)
i ladri sono inseguiti dalla polizia
(sogg.) (forma v. passiva) (c. d’agente)
In italiano, la voce passiva è caratterizzata dall’ausiliare essere, seguito dal participio passato del verbo. Quest’ultimo deve essere necessariamente transitivo: infatti possono trasformarsi in passivi solo i verbi transitivi con il complemento oggetto espresso, perché è proprio questo che, nella forma passiva, diventa soggetto. Il soggetto della frase attiva diventa invece nella frase passiva un complemento introdotto dalla preposizione da: il complemento d’agente, quando l’agente è inanimato, prende il nome di causa efficiente. Si può avere la forma passiva anche senza che il complemento d’agente (o di causa efficiente) sia specificato: l’orologio è stato riparato; i tuoi consigli non sono stati seguiti; il vincitore sarà premiato.
N.B: il significato di una frase di forma attiva è sostanzialmente identico a quello della corrispondente frase di forma passiva.
Es.: Le due frasi la polizia insegue i ladri e i ladri sono inseguiti dalla polizia vogliono dire la stessa cosa: in entrambe le situazioni descritte c’è sempre un solo inseguitore (la polizia) e un solo inseguito (i ladri); non cambiano i ruoli svolti dai protagonisti dell’azione, ma solo i rapporti grammaticali con cui sono espressi.
La linguistica dice che tale cambiamento investe la struttura superficiale e non quella profonda della frase. Quello che cambia moltissimo è però il punto focale, di maggior interesse, della frase. Nel primo caso l’attenzione è posta principalmente sull’azione dei poliziotti; nel secondo su quella dei ladri.
[65] S’intende l’arruolamento dei capite censi.
[66] Si tratta di Giugurta. re di Numidia (160-104 a.C.).
Dopo aver combattuto, nel 133 a. C., nell'esercito romano agli ordini di Scipione l'Emiliano, nella conquista di Numanzia in Spagna, succedette, nel 118 a. C., allo zio Micipsa nel regno di Numidia, che divise con i figli dello stesso zio, Iempsale e Aderbale. Ambizioso e violento, prima assassinò Iempsale, poi cacciò dai suoi territori Aderbale, massacrando anche molti mercanti romani che aveva fatto prigionieri nella presa di Cirta nel 112 a. C..
Varie spedizioni militari organizzate dal Senato romano contro di lui non ebbero successo, e forti furono i sospetti che egli corrompesse col danaro esponenti della nobiltà romana.
Nel 107 a. C., il console Mario intraprese una campagna contro di lui. Ridotto allo stremo, Giugurta si rifugiò in Mauritania, presso il suocero Bocco, che però lo tradì consegnandolo a Silla, allora questore di Mario. Fu strangolato nel carcere Tullianum a Roma, dopo aver ornato il trionfo di Mario.
Nel Bellum Iugurthinum, Sallustio narra che Giugurta, allontanandosi da Roma dov'era stato convocato dal Senato per scolparsi dei suoi primi atti di forza, gridasse verso la città le parole rimaste famose: “o città venale, pronta a venderti al maggior offerente”.
[67] Micipsa re di Numidia (148-118) era figlio di Massinissa, gli succedette insieme ai fratelli Gulussa e Mastanabale. Rimasto unico sovrano dopo la loro morte, adottò il nipote Giugurta che designò quale erede al trono insieme ai propri figli Iempsale e Aderbale. Fu alleato di Roma durante la III guerra punica.
[68] Antica città della Spagna centrosettentrionale, in favorevole posizione strategica sulla sinistra del fiume Duero. I Romani, dopo reiterati tentativi di conquistarla, intrapresero nel 143 a. C. una guerra sistematica per dieci anni non senza vergognosi scacchi: la città capitolò solo nel 133 a. C. dopo il lungo assedio di Scipione l'Emiliano che l'accerchiò con una cintura di fortificazioni stringendola come in una morsa.
[69] Condottiero e uomo politico romano (Roma 185 o 184-129 a. C.). Figlio secondogenito di Lucio Emilio Paolo, a fianco del quale combatté a Pidna nel 168, venne adottato, ancora adolescente, dal primogenito dell'Africano che non aveva eredi diretti. Crebbe così nell'ambiente filellenico e liberale del Circolo degli Scipioni, dove ebbe come maestri Polibio e Panezio. Iniziò la carriera militare in Spagna nel 151 combattendo contro i Celtiberi in rivolta; si distinse poi, in qualità di tribuno militare, all'inizio della terza guerra punica, nell'assedio di Cartagine, tanto che il re di Numidia Massinissa gli affidò l'incarico di sistemare la successione, nel suo regno, tra i suoi tre figli, compito che egli assolse poi felicemente. Nel 147 la stima e la simpatia di cui godeva a Roma, insieme alla convinzione diffusa che egli fosse l'unico condottiero in grado di porre fine alla terza guerra punica, lo portarono al consolato, sebbene non avesse ancora l'età legale per quella carica: l'anno successivo, dimostrando energia e abilità riuscì infatti a far capitolare e a distruggere Cartagine, sulle cui rovine, secondo la tradizione, avrebbe pianto. Si adoperò poi nell'organizzazione della nuova provincia d'Africa e fu censore nel 142; nel 134, sebbene le rielezioni fossero vietate, aggravandosi le ribellioni dei popoli iberici, fu nuovamente eletto console e distrusse nel 133 la città di Numanzia, centro della resistenza spagnola. Morì misteriosamente al tempo dei tumulti causati a Roma dal programma agrario di Tiberio Gracco (di cui era cognato avendone sposato la sorella Sempronia), da lui avversato poiché sconvolgeva la politica di equilibrio tra Roma e la confederazione italica perseguita dal Senato.
[70] Re di Numidia (238-148 a. C.), dopo aver combattuto dal 212 al 206 con i Cartaginesi in Spagna contro i Romani passò, nel 204, dalla parte degli stessi Romani, che erano sbarcati intanto in Africa, affinché potesse riconquistare il regno paterno usurpato da Siface. Massinissa vinse il rivale nel 203 e ne sposò la moglie Sofonisba che però dovette consegnare a Scipione, timoroso che essa guadagnasse il marito alla causa dei Cartaginesi. Dopo la battaglia di Zama (202), in cui la sua cavalleria contribuì decisamente al successo di Scipione, Massinissa si vide riconosciuto dai Romani il regno di tutta la Numidia, che, con abilità, tenacia e intelligenza, ingrandì gradualmente, modificandone a fondo le strutture sociali ed economiche: trasformò i pastori in agricoltori raggruppandoli in grossi borghi più facili da difendere dagli assalti dei nomadi del deserto; promosse la formazione di grandi proprietà che diede ai suoi fedeli; favorì i culti di divinità greche (Demetra e Core particolarmente) e puniche; organizzò un forte esercito, creò una flotta e sviluppò i commerci; abbellì la capitale Cirta; diede alla sua monarchia una base divina alla maniera delle grandi monarchie ellenistiche. Non era mai pago degli ingrandimenti territoriali che riusciva a ottenere, con l'appoggio romano, dai Cartaginesi. Questi, stanchi, gli dichiararono guerra malgrado il divieto contenuto nel patto concluso con Roma. Massinissa li vinse nel 150, ma i Romani ne approfittarono a loro volta per scendere in armi contro Cartagine nella III guerra punica. La distruzione della città nel 146 e la conseguente presenza di una forte colonia romana in terra d'Africa sbarrò la via a un'ulteriore espansione della Numidia, che avrebbe potuto diventare minacciosa per gli stessi Romani.
[71] Formula lat. con cui erano indicati nella Roma antica i senatori, interpretata da alcuni come «senatori iscritti (nella lista del senato)», da altri come una contrazione di patres et conscripti, cioè «patrizî e [plebei] aggiunti».
[72] l’odierna Costantina in Algeria
[73] In pace e in guerra lo Stato fu venale
[74]  lamentela, rimprovero che si ripete monotonamente; anche, evento, spettacolo, discorso ripetitivo e noioso
[75] Peculato - Nel linguaggio giuridico è il delitto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che si appropria di denaro o altra cosa mobile di cui abbia il possesso o la disponibilità in ragione del suo ufficio o servizio.
[76] La parola sūq indica il mercato organizzato in corporazioni, luogo deputato allo scambio delle merci. In italiano è tuttavia normalmente scritto con una diversa grafia: suk
[77] « Si trovava allora in Roma un Numida di nome Massiva, che era figlio di Gulussa e nipote di Massinissa. Questi nella lotta fra i re si era schierato contro Giugurta e perciò, dopo la resa di Cirta e l'uccisione di Aderbale, fuggiasco, aveva dovuto abbandonare la patria » Sallustio Bellum Iugurthinum XXXV
[78] L'homo novus pl. hòmines novi  è chi, avendo origini familiari modeste, raggiunge posizioni di prestigio. Nell’antica Roma, era il primo membro di una famiglia che otteneva il consolato o una delle magistrature curuli: (come quelle di console, senatore, pretore, edile o altre magistrature). Ciò non toglie che tale individuo potesse discendere da una gens nobile o che fosse agiato economicamente.
[79] L'appartenenza ad un'unica fazione era resa però evidente dall'alleanza di tutti i nobili "optimates" con il Senato, dal comune interesse a conservare tutti i privilegi nobiliari, nonché dalla comune avversione nei confronti dei "Populares" (l'organizzazione politica dei ceti popolari e borghesi) e dei "Tribuni della plebe”.
[80]  Nell'antica Roma repubblicana, pretore che dopo un anno di carica veniva assegnato all'amministrazione di una provincia
[81] La Battaglia di Suthul fu un episodio della guerra giugurtina. La battaglia fu combattuta nel 110 a C tra le forze romane guidate dal pretore Aulo Postumo Albino e l'esercito di Numidia, guidato dal re Giugurta. Nel 110 a C, il console Spurio Postumo Albino invase Numidia , ma la lasciò poco dopo per preparare le elezioni a Roma. Suo fratello Aulo Postumo Albino ottenne la leadership dell'esercito romano, ma fu facilmente ingannato da Giugurta, che intrappolò i romani vicino alla città di Suthul.
[82] L’antipolitica è l’atteggiamento di chi è ostile alla politica, alle sue logiche, ai partiti e agli esponenti politici, ritenendoli dediti ai propri interessi personali e lontani dal perseguire il bene comune.
[83] Bocco, re della Mauritania, combatté contro i Romani a fianco del genero Giugurta ma, sconfitto da Mario, tradì Giugurta consegnandolo a Silla e ottenendo in compenso la Numidia Occidentale (105 a. C.).
[84] Radamanto: figlio di Giove e di Europa (figlia di Fenice), fratello di Minosse re di Creta, dal quale fuggì per sottrarsi alla sua ira, rifugiandosi in Beozia, dove sposò Alcmene. Secondo Omero abita nei campi Elisi dopo la sua morte, dove Giove concede ad alcuni eroi e soprattutto a quelli appartenenti al suo sangue, di conservare il corpo anche dopo la morte
[85] quel giovane: si tratta di Silvio, nato da Enea e da Lavinia, figlia di Lavinio re dei Latini (secondo altri figlio di Ascanio e di una moglie italica)
[86] semplice asta: asta di legno con la punta che non è in ferro
[87] Proca: dodicesimo dei re di Alba Longa, a partire da Ascanio, padre di Amulio e Numitore che a sua volta è padre di rea Silvia che partorirà Romolo e Remo al dio Marte
[88] Capi: sesto dei quattordici re di Alba Longa
[89] Numitore: tredicesimo dei re di Alba, scacciato e ucciso insieme alla sua discendenza maschile da Amulio
[90] Enea Silvio: figlio minore di Enea; successe al fratello Ascanio e fu il progenitore della stirpe reale di Alba, da cui provennero Romolo e Remo che 300 anni dopo fonderanno Roma
[91]  quercia civile: la corona di quercia era data ai fondatori di città
[92] Nomento: ora Mentana, città a circa 20 KM a nord-est di Roma; la via che la congiunge a Roma si chiama via Nomentana e la porta nelle mura romane si chiamava Nomentana
[93]  Gabii: città del Lazio fra Roma e Preneste, sul lago Gabino
[94] Fidene: città posta sopra la collina Giubileo a nord-est di Roma fra il Tevere e l'Aniene. Apparteneva in origine al territorio dei Sabini, ma si alleò sempre con Veio e gli Etruschi per cui i Romani entrarono con essa spesso in conflitto fino a distruggerla nel 437 a.C
[95] rocche Collatine: Collazia, a circa 8 km a oriente di Roma sul fiume Aniene
[96]  Pomezia: città volsca nel Lazio conquistata dai Romani sotto Tarquinio il Superbo
[97] Fortezza di Inuo: forte città dei Rutuli, tra Ardea e Anzio, sul mare, sacra al dio Inuo, antica divinità italica
[98] Bola: antichissima città degli Equi, distrutta già ai tempi di Plinio in località vicino a Lugnano o Zagarolo
[99] Cora: antica città del Lazio nel territorio dei Volsci, oggi Cori
[100] re romano: Numa Pompilio, regnò dal 715 al 672, successe a Romolo: celebre per pietà, giustizia e saggezza, proveniente dalla città sabina di Curi
[101] Curi: antichissima capitale dei Sabini, patria di Tito Tazio e di Numa Pompilio, dalla quale forse i Romani presero il nome di Quiriti; oggi è Arce
[102] Tullo Ostilio: terzo re di Roma, regno dal 672 al 640 e fu un re guerriero; combattè prima contro Alba Longa: dopo la morte del re albano Cluilio il successore Mettio Fuffezio gli propose il noto duello tra gli Orazi romani e i Curiazi albani. Nella guerra contro Fidene gli Albani tentarono di tradire Roma, allora dopo la vittoria Tullo uccise Fuffezio e fece trasportare gli abitanti sul monte Celio distruggendo la città. Notevole fu anche la guerra vittoriosa contro i Sabini; si preoccupò solo di guerre e conquiste.
[103]  Anco: quarto re di Roma, forse nipote di Numa per parte di madre, regnò dal 640 al 616 e rivolse le sue cure a restaurare la religione, promuovere l'agricoltura e sviluppare il commercio
[104] Tarquinio Prisco, quinto re di Roma, e Tarquinio il Superbo, settimo e ultimo re, che verrà scacciato dai Romani per la sua violenza e per vendicare l'ultima offesa fatta contro Lucrezia moglie di Tarquinio Collatino
[105]  Bruto: vendicatore dell'onore di Lucrezia insieme a Tarquinio Collatino; entrambi verranno eletti primi consoli della neonata Repubblica nel 509
[106]  fasci: verghe d'olmo o di betulla legate con una correggia rossa, dalle quali usciva una scure, simbolo del potere supremo del re e successivamente dei consoli romani; dopo la cacciata dei re furono assegnati ai consoli 12 littori, portante ciascuno un fascio (24 erano assegnati ai dittatori, 6 ai pretori fuori di Roma e ai propretori, 5 ai legati imperiali)
[107] supplizio: in una congiura alla quale parteciparono molti nobili nel tentativo di restaurare la monarchia, Bruto come console fece processare e condannare a morte i congiurati, fra i quali il figlio
[108] Decii: i più importanti furono tre: Decio Mure che nel 340 che nella guerra contro i Latini sacrificò la vita per la vittoria romana, il figlio di questi che morì contro i Sanniti nella battaglia di Sentino dando nuova fiducia alle armi romane; il terzo morì nel 279 nella guerra contro Pirro.
[109] Drusi: allude soprattutto a Marco Livio Druso Salinatore che nel 207 vinse la battaglia del Metauro contro l'esercito di Asdrubale fratello di Annibale insieme a Tiberio Claudio Nerone; l'uso del plurale è forse da mettere in relazione col fatto che Livia, la moglie di Ottaviano Augusto, è una discendente di questa famiglia e moglie in prime nozze di un discendente di Tiberio Claudio Nerone vincitore del Metauro al quale aveva generato il futuro imperatore Tiberio e il nobile Druso
[110] Torquato: Tito Manlio Torquato, console nel 340, fece giustiziare, come Bruto, il figlio, per aver sfidato e ucciso un nemico disubbidendo ai suoi ordini
[111] scure: con la quale fu giustiziato il figlio di Tito Manlio Torquato
[112]suocero: Giulio Cesare
[113] rocca di Monaco: promontorio del mar ligure, attuale Monaco
[114]genero: Pompeo
[115]Eoi: Pompeo arruolò un esercito tra i popoli orientali: lo scontro finale tra Pompeo e Cesare avvenne a Farsalo, nei Balcani
[116]tu: Anchise si riferisce al figlio Enea
[117] Corinto: rasa al suolo nel 146 da Lucio Mummio soggiogando l'intera Grecia
[118]quello: si riferisce a L. Emilio Paolo che sconfisse Perseo nel 168 a Pidna
[119] Eacide: della razza di Eaco, discendente di Achille è Pirro che muovendo contro Roma aveva sottolineato la sua origine troiana, quasi a significare che egli era il nuovo Pirro Neottolemo destinato ad espugnare Roma, la nuova Troia; altri critici individuano nell'Eacide Perseo, re di Macedonia, figlio di Filippo V, nipote di Ftia che a sua volta era nipote di Pirro
[120] profanati templi di Minerva: Ulisse e Diomede profanarono il tempio di Minerva trafugando il Palladio; Aiace d'Oileo offendendo Cassandra
[121] Catone: il Censore, pronipote di Catone il Vecchio, uno dei più nobili ed integri personaggi della Repubblica Romana, nato nel 97 a.C., eletto tribuno nel 62 cooperò alla condanna dei complici di Catilina; tentò invano che Crasso e Pompeo fossero eletti consoli; fu eletto pretore nel 54, combattendo con zelo la corruzione e l'illegalità dominanti. famoso per la sua avversione a Cartagine; si suicidò nel 46 a.C.
[122] Gracco: Tiberio Sempronio Gracco e il fratello Gaio Gracco, figli di Cornelia moglie di Scipione.
Tiberio Gracco, tribuno della plebe nel 133, si presentò come un riformatore a favore della plebe: propose una distribuzione di terre, una legge secondo la quale le terre che non erano state adeguatamente sfruttate e coltivate dovevano ritornare allo stato senza il pagamento di nessuna imposta; dopo profondi contrasti la legge passò; venne ucciso sul Campidoglio l'anno dopo. Gaio Gracco, eletto tribuno nel 123 riprese i disegni del fratello e presentò alcune proposte facendosi molti nemici e i contrasti scoppiarono furibondi, tanto che il Senato e l'ordine equestre si raccolsero armati nel Foro e il Console occupò il Campidoglio mentre Gracco e i suoi sostenitori si rifugiarono sull'Aventino mentre fallirono tutti i tentativi di trovare un accordo. Gracco si rifugiò poi nel bosco di Furina sulla riva destra del Tevere dove venne trovato cadavere insieme al suo schiavo, che senza dubbio uccise il suo padrone prima di darsi la morte.
[123] Scipioni: l'Africano Maggiore che vinse la battaglia di Zama nel 202 contro i Cartaginesi di Annibale e Scipione il Minore che distrusse Cartagine nel 146.
[124]Fabrizio: Caio Fabrizio Luscino che assoggettò i Lucani, i Tarantini, i Sanniti e i Bruzii
[125]Serrano: soprannome di M. Attilio Regolo, il celeberrimo console che nel 256 a.C. si riconsegnò prigioniero ai Cartaginesi, tornando da Roma dopo aver dissuaso il Senato dall'accettare le condizioni di pace dei Cartaginesi di cui era latore; fu eletto console nel 257 durante la seconda guerra punica e la notizia della sua elezione gli venne portata mentre stava arando e seminando.
[126] Fabii: si riferisce principalmente a Quinto Fabio Massimo il temporeggiatore, vincitore di Annibale nella seconda guerra punica e forse allude alla strage di Cremera del 477 a.C. nella quale i Fabii si sacrificarono tutti nella guerra contro i Veienti, salvo uno che assicurò la continuazione della gens
[127]Marcello: M. Claudio Marcello che nel 222 sconfisse a Casteggio i Galli Insubri uccidendo il loro capo Viridomaro e assicurando a Roma l'obbedienza della Gallia cisalpina; sgominò anche i Cartaginesi nella seconda guerra punica espugnando Siracusa nel 212 e cadendo in combattimento contro la cavalleria cartaginese nel 208 durante il suo quinto consolato. - Dal v. 854 Virgilio comincia l'elogio di Marcello, considerato successore di Ottaviano Augusto e che morirà in giovane età, discendente del Marcello vissuto 200 anni prima
[128] cavaliere: la cavalleria, che aveva determinato la disastrosa sconfitta di Canne contro Annibale nel216, concorse a risollevare le armi romane già a partire dalla battaglia di Nola del 208; lo stesso C. Marcello morirà in uno scontro equestre
[129] terzo: Claudio Marcello è il terzo dopo Romolo e Cossa
[130] Quirino: divinità che i Romani considerarono una cosa stessa con Romolo figlio di Marte e assunto nel novero degli dèi
[131]campo: le esequie di Marcello, morto all'età di 19 anni nel 23 a.C. avvennero nel campo Marzio; il campo era una spianata nella città di Roma, destinata a pubbliche adunanze; ne esistevano otto (secondo altri 17); il più celebre era il Campus Martius, chiamato anche semplicemente Campus, pianura erbosa lungo il Tevere
[132] Tevere: Marcello fu sepolto nel Mausoleo di Augusto, che sorgeva sulle rive del Tevere, eretto nel 28 a.C.
[133]Sonno: figlio della Notte, gemello della morte, portatore di dolce riposo e quindi di momentaneo oblio delle sofferenze della vita; manifesta il suo potere sugli uomini e sugli stessi dèi; l'idea delle due porte è già presente in Omero (Odissea)
[134] porta fatta di corno: la porta delle vere ombre dei morti
[135] passaggio: le ombre dei trapassati attraverso questa porta arrecano ai propri cari sogni veritieri dopo la mezzanotte
[136]porta d'avorio: poiché Enea è ancora un vivente non può uscire dalla porta di corno perché non deve arrecare nessun sogno o visione che annuncia il futuro ai mortali

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