Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

mercoledì 4 gennaio 2017

Classe II - Grammantologia - Modulo III unità 13

XIII UNITÀ
Educazione letteraria. La metrica accentuativa – Dopo l’anno mille il volgare, da dialetto parlato dai ceti popolari, è innalzato a dignità di lingua letteraria, accompagnando lo sviluppo di nuove forme di poesia e nuove metriche.
In Italia nel periodo di Dante e del Dolce Stil Novo, la poesia si afferma come mezzo di intrattenimento letterario e assume forma prevalentemente scritta: questo porta i poeti italiani a comporre opere più strettamente aderenti ai canoni grammaticali e stilistici del genere, e a prestare maggiore attenzione alle qualità visive della parola scritta, come la rima e l’alternarsi dei versi. Intorno alla fine del 1200 si diffuse anche la poesia burlesca.
Nel XIX secolo, con la nascita del concetto dell’arte per l’arte, la poesia si libera progressivamente dai vecchi moduli e compaiono sempre più frequentemente componimenti in versi sciolti, cioè che non seguono nessuno schema particolare, e spesso non hanno né una struttura né una rima.
Via via che la poesia si evolve, si libera dai suoi schemi sempre più opprimenti per poi diventare forma pura d’espressione.
L’Ermetismo si può definire la forma più rarefatta di poesia, atta a trasmettere i sentimenti allo stato puro. Ma anche l’Ermetismo si può definire superato.
Il concetto di poesia oggi è molto diverso da quello dei modelli letterari; molta della poesia italiana contemporanea non rientra nelle forme e nella metrica tradizionali ed il consumo letterario è molto più orientato al romanzo e in generale alla prosa, spostando la poesia verso una posizione di nicchia.

Riflessione sulla lingua. L’accento - In ogni parola c’è una sillaba, pronunziata con maggiore forza delle altre perché la voce si ferma su di essa più che sulle altre. L’insistenza della voce sulla vocale della sillaba si chiama accento tonico o semplicemente accento.
Le altre sillabe si dicono atone.
Secondo l’accento le parole si dividono in:
·         Tronche o ossìtone, quando l’accento cade sull’ultima sillaba. Es. bontà, città;
·         Piane o parossìtone, quando l’accento cade sulla penultima sillaba: pàne, civìle;
·         sdrucciole o proparossìtone, quando l’accento cade sulla terzultima sillaba: classìfica, tàvolo;
·         Bisdrucciole, quando l’accento cade sulla quartultima sillaba: màndaglielo, scrìvimelo;
·         Trisdrucciole, quando l’accento cade sulla quintultima sillaba: òrdinaglielo.
In italiano la maggior parte delle parole sono piane, seguite a lunga distanza dalle sdrucciole e dalle tronche[1].
È obbligatorio segnare l’accento grafico:
·         Sulle parole tronche di due o più sillabe: città, caffè, virtù, mezzodì;
·         Sui monosillabi che terminano con un dittongo ascendente: può, più;
·         Sui seguenti monosillabi: ciò, già, giù, scià;
·         Sui monosillabi che, scritti senza accento, si confonderebbero con altri monosillabi identici per forma ma diversi per significato:
(verbo)
da (preposizione)
(sostantivo)
di (preposizione)
è (verbo)
e (congiunzione)
(avverbio)
la (articolo)
(avverbio)
li (pronome)
(congiunzione)
ne (particella pronominale e avverbio)
(avverbio)
si (pronome personale)
(pronome)
se (congiunzione o pronome personale atono)

L’accento grafico, infine, va segnato
·         sui composti di tre, di re, di su e di blu (ventitré, viceré, lassù rossoblù),
·         sui composti della congiunzione che (benché, giacché, allorché, altroché ecc.)
·         nelle parole composte il cui secondo membro sia monosillabo (autogrù, lungopò).
Di norma l’accento grafico non si segna quando cade nel corpo delle parole[2].

Educazione letteraria. Il livello fonico della poesia - La poesia è l’arte di usare tanto il significato semantico delle parole quanto il suono ed il ritmo che queste imprimono alle frasi; la poesia ha quindi in sé alcune qualità della musica e riesce a trasmettere emozioni e stati d’animo in maniera più evocativa e potente di quanto faccia la prosa.
In una poesia il significato è solo una parte della comunicazione che avviene quando si legge o si ascolta una poesia; l’altra parte non è verbale, ma emotiva.
Queste strette commistioni fra significato e suono rendono estremamente difficile tradurre una poesia in lingue diverse dall’originale, perché il suono e il ritmo originali vanno irrimediabilmente persi e devono essere sostituiti da un adattamento nella nuova lingua, che in genere è solo un’approssimazione dell’originale. Per tali motivi nello studio di un testo poetico è fondamentale lo studio della metrica[3].

Educazione letteraria. La metrica - La poesia, come quasi ogni genere letterario, nasce come voce e, solo successivamente, diventa voce scritta. Ogni poesia, anche la più intimista, va immaginata come espressa a voce; la critica letteraria, poi, analizzando una parte significativa della produzione poetica di una certa cultura stabilisce dei canoni, delle categorie ricorrenti e significative, che classificano la composizione dei versi e delle strofe.
La forma di una poesia ossia la metrica ne determina il ritmo: lo specifico della poesia, infatti, diversamente dalla prosa, è, infatti, collegato al ritmo che non è un semplice accompagnamento musicale del contenuto, ma ne è parte integrante.
In greco ed in latino, la metrica era fondata sulla quantità (brevità o lunghezza) delle sillabe (metrica quantitativa); nelle lingue moderne si basa su rima accenti e numero delle sillabe (metrica accentuativa).
La metrica di una poesia si decide da:
·         Metro è lo schema metrico e la struttura caratteristica di un certo tipo di componimento.
·         Rima è l’omofonia completa fra le ultime parole di due o più versi a partire dall’ultima sillaba tonica.
·         Strofa o strofe è un gruppo di versi, di numero e di tipo fisso o variabile, organizzati secondo uno schema, in genere ritmico, seguito da una pausa.
Il ritmo è dunque la cadenza musicale da cui deriva l’armonia poetica che caratterizza il verso, in base al numero delle sillabe ed agli accenti ritmici, disposti secondo particolari schemi in ogni tipo di verso.
Nella metrica, per accento si intende il maggior rilievo che alcuni suoni hanno rispetto ad altri nell’ambito di un brano o di una frase, per questo si hanno:
·         Suoni più accentati (accento forte),
·         Suoni meno accentati (accento debole)
·         Suoni non accentati.
Gli accenti ritmici sono quindi gli accenti fondamentali, che cadono sulle sillabe toniche dove la voce si appoggia di più. Anche i versi più liberi hanno il loro ritmo e non esiste poesia senza ritmo, che talvolta supera perfino le intenzioni stesse del poeta, che vorrebbe reprimerlo per esaltare la singola parola, come accade in alcune poesie ermetiche.
Il ritmo è quindi il susseguirsi di una serie di accenti con una periodica regolarità. Esso è basato sulla suddivisione del tempo in forme e misure variabili, talvolta regolari e simmetriche, altre volte irregolari e asimmetriche. Il ritmo è dunque un movimento che si ripete regolarmente. Qualsiasi movimento che non si ripeta regolarmente può essere detto come aritmico.
In generale il ritmo del verso si fa più incalzante quanto più sono numerosi e ravvicinati e gli accenti tra loro; l’abile uso degli accenti di un verso è parte fondamentale della sensibilità artistica di un autore.
L’accentuazione dei suoni di un brano può anche avere altre funzioni ed i ritmi sono così distinti in diverse tipologie:
·         Ritmo lento e monotono.
·         Ritmo veloce e martellante.
·         Ritmo calmo alternato a ritmo veloce ed ossessivo.
·         Ritmo incalzante.
·         Ritmo cantilenante
·         Ritmo calmo, meditativo.
·         Ritmo solenne
·         Ritmo epico.
·         Ritmo musicale
·         Ritmo spezzato.

Educazione letteraria. Il verso - Il verso, la riga di una poesia, è un’unità metrico-ritmica di una composizione poetica, costituita da un certo numero di piedi o di metri nella poesia quantitativa (quella greca e latina) il cui adattamento alla metrica italiana fu definito da Carducci metrica barbara[4], nella poesia accentuativa, invece è costituita da un certo numero di sillabe o di accenti.
Si dicono versi sciolti, quelli non legati da rima e non raggruppati da schemi strofici tradizionali.
Si dicono versi liberi quelli che non seguono nessuna norma metrica e ritmica tradizionale.

Il gran consiglio di guerra a. D. 535
Da L’Italia liberata dei Goti[5] di Gian Giorgio Trìssino[6]
·         Gian Giorgio Trìssino (1478-1550) lavorò a questo poema epico per tutta la vita. Sebbene la critica letteraria abbia definito quest’opera “il poema più noioso della letteratura italiana”, non lo si può liquidare come opera “noiosa”. Si tratta invece di un poema molto complesso, interessante anche soltanto per l’argomento, perché descrive la guerra voluta dall’imperatore Giustiniano (527-565) contro i Goti ariani.
·         Trìssino iniziò a lavorare al poema nel 1527 e lo completò nel 1547. L’Italia liberata dai Goti è un complesso poema in ventisette libri sulla guerra tra Bizantini e Ostrogoti, in cui la materia storica s’intreccia con gli elementi del “meraviglioso” per catturare l’interesse del lettore Il poema ha come fonte principale il libro La Guerra Gotica dello storico bizantino Procopio di Cesarea. ed è dedicato all’imperatore Carlo V, generoso protettore di poeti e letterati, come l’Aretino e lo stesso Trìssino.
·         Trìssino abbandonò l’ottava, armoniosa e melodica, il metro poetico utilizzato dai poeti Boiardo e Ariosto per comporre i loro poemi e adottò l’endecasillabo sciolto, già usato per la tragedia, ritenendo che tale modello di verso, privo di rima, potesse adattarsi assai meglio al poema epico, in quanto avrebbe dato all’opera un ritmo narrativo più discorsivo e più vicino allo stile dei poemi omerici di cui egli era appassionato ammiratore.

1.      Dapoi[7] mandate fuor l'altre persone
che non doveano stare entr'al consiglio,
fu comandato che ciascun tacesse,
ma come in mar che da rabbiosi venti
gonfiato freme, poi che restan queti
rimane un mormorar per entro l'onde;
o qual campana che a disteso suoni,
poi ch'è restata di sonar si sente
per alcun spazio rimbombar d'intorno;
così dopo 'l tacer di tante lingue,
restava un mormorio dentr'a la sala:
né si chetò, se non quando levossi
il sommo imperador co 'l scettro in mano.
Questo[8] era mezzo d'un avorio bianco
e mezzo d'un verzin[9] che parea sangue,
e quattro cerchi d'oro avea d'intorno
e tere[10] d'argento, e in cima eran lavori
tanto eccellenti, e sì perfette gemme,
che non fu visto mai cosa sì bella:
questo l'eterno Dio mandò dal cielo
al suo gran Costantino, e morto lui
stette nascoso poi molti e molt'anni,
e d'indi al buon Todosio ancor pervenne;
e dietro a quello il Re dell'universo
al gran Giustinïan volse[11] donarlo,
con cui reggeva i popoli del mondo;
a questo egli appoggiato, in tai parole
sciolse la dolce e risonante voce:
«Cari fedeli, e venerandi amici
nel cui consiglio e nel cui gran valore
s'appoggia e si riposa il nostro impero,
dapoi che 'l Re delle sustanze eterne
mi pose in questa glorïosa sede
ho sempre avuto un desiderio immenso
di far cose condegne[12] a tant'altezza.
Ma qual si porìa[13] far cosa più degna
che racquistarle le perdute membra?
Per questo solo in Africa mandai,
e racquistai tutto quel gran paese
ch'esser si crede il terzo de la terra;
ma quello è nulla, infin che non s'acquista
il nostro vero seggio[14] e 'l nostro capo:
Questo è l'Italia e l'onorata Roma,
ch'infelice si truova[15] in man de' Goti[16].
Questo mi par che Dio sempre dimandi[17],
e questo è dove ho volto ogni pensiero;
però vorrei mandar la nostra gente
che qui d'intorno ragunata avemo[18]
a porre in libertà l'Italia afflitta,
e racquistar la mia perduta sede.
Ben ho speranza de vittoria certa,
poi che 'l gran Belisario[19] tolse a loro
sì agevolmente la Sicilia, quando
vittorïoso d'Africa tornava;
ma voi, che per prudenza conoscette[20]
e le presenti e le future cose,
dite il vostro parer senza rispetto[21],
e soccorrete a l'alto mio bisogno.»
2.      Come ebbe detto questo, alzò le ciglia
e volse gli occhi al viso di ciascuno,
poi risedeo[22] ne l'onorato seggio
attendendo il parlar di quei signori;
ma ciascun d'essi tacito si stava,
ed aspettava che parlasse prima
il consule[23] roman, com'era usanza.
Trovossi allora consule Giovanni
figliuol d'Antinodoro e di Erifila,
che da tutti Salidio era chiamato;
costui di Cappadocia[24] fu nativo,
e venne in corte a sì[25] sublime onore,
che fu fatto prefetto del Palazzo.
Questo era astuto ed arrogante molto,
ed atto[26] a persuader ciò che volea[27];
e tanto invidïoso[28] de la gloria
di Belisario e del suo gran valore,
che non volgeva mai la mente ad altro;
onde[29] volendo disturbar l'impresa
rispose astutamente in tal maniera:
«O sacro imperador, che per sustegno[30]
v'elesse Dio de le sue caste leggi,
la grande umanità ch'alberga in voi
mi fa sicuro a dir ciò che m'occorre
senza timore alcun di farvi offesa;
perché voi non credete essere amato
da quel che afferma ciò che dir vi sente,
ma da colui che a l'onor vostro ha cura;
né avete a sdegno che vi parli contra
quel che a l'util di voi volge il pensiero:
certo il principio d'ogni buon consiglio è
è quando 'l vero volentier s'ascolta.
Io non dirò che 'l far la guerra a i Goti
non è cosa cortese[31], e manco è giusta,
ma che fia[32] piena d'infiniti mali;
e se ben la vittoria adombra tanto
che fa scordarci ogni passato affanno
pur, s'el fin d'ogn'impresa il ciel nasconde,
buon è pensar che questa guerra ancora
potrebbe uscir contraria a la speranza;
e l'uom dee co 'l consiglio antivenire[33]
ogni negozio[34] uman, perché il pentirse
dopo l'effetto[35] è da non saldo ingegno.
Ah, se questo avenisse, in qual periglio
saria[36] la gloria vostra e 'l vostro impero!
Dunque fia[37] meglio a star sicuro e queto
che viver con perigli e con fatiche.
Già son molt'anni che Zenone Isauro[38]
imperador de le mondane genti,
visto che 'l re de gli Eruli Odoacro[39],
Augustulo[40] deposto e morto Oreste,
avea l'Italia ingiustamente oppressa,
commise al buon figliuol di Teodemiro,
che fu nomato Teodorico[41] il grande,
giovane audace e di leggiadro ingegno,
ch'andasse a liberar l'Italia afflitta.
Questi v'andò con tutti quanti e' Goti
che si trovava aver sott'il suo regno,
e con molta fatica e molti affanni
la tolse a quel superbo empio[42] tiranno;
d'indi la possedeo molt'anni e molti
osservando di lei l'antiche leggi,
e mentre visse ci fu sempre amico;
e tal fu Amalasunta[43] sua figliuola,
né di Teodato[44] ancor possiam dolerci,
che la Sicilia tacito ci lascia;
qual causa dunque abbiam di farli guerra?
Mai non si loda chi s'appiglia al torto.
Essi hanno ancor sì bellicosa[45] gente,
e in tanta quantità, che metter ponno[46]
dugento millia in arme a la campagna;
tal che un palmo di terra non torremo[47]
che non ci costi assai tesoro[48] e sangue.
Questa dunque mi par non giusta impresa,
e di fatica e di periglio[49] estremo;
però saria[50] prudenza abbandonarla:
né già ci mancheran molt'altre parti
d'acquistar terra e glorïosa fama.
Ecci[51] la Spagna, coi fallaci Mauri[52]
che uccisero in Numidia[53] il forte Algano
e 'l giusto Salamone e 'l buon Ruffino[54]
e molta nostra valorosa gente,
tutta con tradimenti e con inganni;
e meglio fia[55] punir che ci è nimico
che muover guerra a che ci serve ed ama.
Questo è il consiglio, imperador supremo,
che 'l mio debole ingegno mi dimostra;
e s'ei non è molto feroce[56] in vista[57],
al meno è pien d'amore e pien di fede.»
3.      Al parlar di Salidio assai signori
s'eran commossi, o per le sue parole
o pur che fossen[58] da viltade[59] offesi:
ma sopra tutti il re de' Saraceni,
che si nomava Areto, e fu figliuolo
de la bella Zenobia e di Gaballo;
questi per la paura d'Alamandro
aria[60] voluto tutte quelle forze
passar ne l'Asia, e non verso 'l Ponente[61];
però, levato in piè, con bel sembiante
fé riverenza al correttor del mondo[62],
poi disse accortamente este parole:
«O re di tutti e' re che sono in terra,
l'immenso amor ch'io porto a questo impero
e i benefici che la vostra altezza
m'ha conferiti con sì larga mano,
fan ch'io non schifo mai di sottopormi
ad ogni grave e periglioso incarco
che vi diletti o che v'apporti onore,
perch'io vorrei per voi spender la vita.
Pur meco rivolgendo entr'al pensiero
tutto 'l parlar che 'l consule v'ha fatto
con bel discorso ed ottime ragioni,
creder mi fa che saria forse il meglio
lasciare i Goti star ne la sua pace,
e volger queste forze a l'orïente:
ove Corrode[63] ed Alamandro il fiero
non pensan altro mai che farvi danno;
poi non so quanto sia sicura impresa
far guerra in occidente, avendo dietro[64]
un sì possente e perfido nimico,
che vi disturbarà ciascun disegno.
Mai non fu buon lasciar dopo le spalle[65]
cosa che possa dar troppo disturbo;
ma se co i Persi piglierete guerra,
i Goti staran queti, e forse ancora
ci potrebbon[66] donare alcuno aiuto.
Vinta che fia[67] la Persica possanza[68],
non arete[69] nel mondo altro contrasto,
né mai così dirò, sarete cheto[70],
fin che l'imperio lor non si ruini[71].
Questo non dico per fuggir fatica,
che seguir voglio le romane insegne
ovunque il voler vostro o 'l ciel le volga[72]
4.      Fornito[73] il suo parlar, chinò la testa
verso l'imperador con gesto umìle
e ne la sedia sua si risedette.
Il ragionar di Areto avea piaciuto
a molti di quei re de l'orïente,
ed a qualcun che non volea travaglio[74];
e già s'apparecchiava[75] a confirmarlo[76]
Zamardo re d'Iberia[77] e 'l re de i Laci;
di che s'avvide Belisario il grande,
e disse verso il callido[78] Narsete[79]:
«Surgi, non pensar più figliuol d'Araspo[80];
snoda la dotta ed eloquente[81] lingua,
ch'io veggio a i detti lor volta[82] la gente;
onde dubito assai che sarén[83] tardi[84]
a satisfar[85] la voglia del signore[86].
Narsete nacque già ne i Persarmeni[87],
e fu figliuol d'Araspo e di Calena[88],
che di quel gran paese avea 'l governo,
questi poi venne a la famosa corte
de l'onorato figlio di Giustino[89]
con Arato ed Isarco suoi fratelli,
e per lo suo meraviglioso ingegno
posto al governo fu d'ogni tesoro[90],
ed era un uom d'un'eloquenzia rara.
Costui, levato in piè, guardò la terra,
poi volse gli occhi gravemente intorno
e cominciò parlare in questo modo:
«Quando meco[91] ripenso quel che ha detto
l'imperadore, e le risposte fatte[92],
resto molto confuso entr'a la mente:
Ei brama liberar l'Esperia[93] afflitta
e racquistar la sua perduta sede[94];
e l'un consiglia di mandare in Spagna,
e l'altro contra i Persi in Oriente:
parendoli più agevol quelle strade
che non ponno[95] espedirsi[96] in qualche mese
che questa, che si fa quasi in un giorno.
Ah, come è duro mantener con arte
quella ragion che non risponde al vero!
Ma perché molto il buon Salidio afferma
la guerra contra ' Goti essere ingiusta,
e di fatiche e di perigli piena,
fia buon considerar queste due parti.
Né vo' negar ch'ogni famosa impresa
non sia d'affanni e di sudori involta[97]:
perché il bene è figliuol de la fatica,
e guerra non fu mai senza perigli.
Ma se 'l gir[98] contra ' Goti ha tanto peso,
che son qui presso[99], e fra le nostre genti
che braman di por giù sì duro giogo[100];
quanto saria[101] più grave andare in Spagna,
che tanto è lunge, e fra una gente fiera
che suol quasi adorare i suoi Signori[102]!
Certo non ponerem[103] sì tosto il piede
ne gl'italici liti, che 'l paese
tutto ribellerà da quei tiranni.
Quindi arem gente e vittüarie[104] molte,
e terre e mura ancor da repararsi[105]:
che gran ristauro[106] è di ciascun passaggio
l'amica volontà de gli abitanti;
la qual non vi saria, chi andasse in Spagna,
e manco in Persia o in più lontana parte.
Ben che[107] non si devria[108] parlar de' Persi,
avendo seco una infinita pace,
ché scelerata cosa è il romper fede.
Poi, se 'l fin de le guerre è sempre incerto,
pensiam come si può mandar soccorso
tanto lontano e consolar gli afflitti;
ma ne l'Italia in manco di dui giorni
si può mandare, e d'indi aver novelle[109];
né mi spaventa il dir che metter ponno[110]
dugento millia in arme a la campagna,
ché la colluvïon[111] de le persone
non suol dar la vittoria de le guerre,
ma i pochi e buoni, con consiglio ed arte,
più volte han vinto innumerabil gente.
Poi se colui che ha più soldati in campo
vincesse sempre, il nostro alto signore
porria[112] mandar migliaia di migliaia:
ma basterà che ve ne vadan tanti,
che reccar[113] possan la vittoria seco;
sì come ancora in Africa si fece,
il cui vittorïoso almo[114] trionfo
nominato sarà mill'anni e mille.
Dunque a me par l'impresa contra ' Goti
di più facilità che l'altre guerre;
e parmi parimente onesta e santa,
sì perché sono barbari arrïani,
nimici espressi[115] de la nostra fede,
come perché ci han tolto la migliore
e la più antica e la più bella parte
che mai signoreggiasse il nostro impero.
È manifesto che Zenone Isauro
imperador de le mondane genti
non mandò ne l'Italia Teodorico
perché s'avesse a far di lei tiranno,
ma perché la togliesse ad Odoacro,
e tosto, come a lui l'avesse tolta,
la ritornasse[116] ne l'imperio antico:
ma quello ingrato poi, com'ebbe vinto
l'acerbo re de gli Eruli, si tenne
in dura servitù quel bel paese,
e fece andarlo d'un tiranno in altro.
Sì che l'antica Esperia a noi s'aspetta,
né senza nostro carco[117] è in man d'altrui.
Che onore esser ci può far sempre guerra
ed acquistare or questa parte or quella
con sudore e con sangue, e poi lasciare
il giardin de l'imperio[118] in man de' cani?
Dunque non fu già mai più giusta impresa;
e poi quest'è 'l voler del nostro sire,
e forse quel de le superne rote[119].
Però ciascun di voi di grado in grado
s'accinga al glorïoso e bel passaggio.»
5.      Così parlò Narsete, e fece a molti
cangiar[120] la volontà del contradire,
ed infiammò più valorosi spirti.
Allora surse[121] Belisario il grande,
al cui levarsi ognuno alzò la fronte,
aspettando d'udir le sue parole
come una voce che dal ciel venisse.

La battaglia dei giganti a. D. 552
Da La guerra Gotica di Procopio di Cesarea
·         Procopio chiamò lo scontro definitivo tra Goti e Bizantini la battaglia dei giganti, per la durata e la violenza dello scontro. Per due giorni consecutivi i due eserciti avversari si affrontarono, tanto da farne una delle battaglie più violente combattute durante l'alto medioevo in Europa. Ancora oggi, a distanza di tanti secoli, emergono luce reperti di quella battaglia, come ossa e frammenti di armature e armi, tanto da poter identificare con certezza il luogo in cui avvenne la battaglia.
·         Narsete passando il Sarno sulla sua riva sinistra, all'inseguimento dei nemici, pose il suo campo lungo la strada tra Stabia e Nocera a sud ovest di Angri, dove si trovava un terreno pianeggiante. Il generale bizantino non volle attaccare il nemico arroccato sul monte Lattaro, malgrado la sua superiorità numerica, si limitò invece ad assediarli in attesa che commettesse qualche errore.
·         Teia dopo aver sistemato il campo in una posizione facilmente difendibile sul Lattaro, si accorse dell'impossibilità di approvvigionare l'esercito. Completamente circondato dai monti su tre lati, i Goti subito si accorsero di trovarsi nella condizione di assediati e, per la mancanza di viveri, in una situazione disperata, senza via d'uscita. A questo punto Teia e i suoi uomini avevano solo due alternative se non volevano morire di fame lentamente, arrendersi incondizionatamente al nemico o attaccare. I germani scelsero quest'ultima alternativa anche se questo significava la morte in combattimento" meglio perire in battaglia, pensarono, che perdere la vita a causa della fame"
·         Si era nel Marzo del 553, per l'epoca il primo mese dell'anno, probabilmente la situazione di assedio non dovette durare più di un giorno, dal momento che Narsete pose il suo campo presso Angri e la decisione dei Goti di andare all'assalto del nemico. Teia aveva deciso di prendere il nemico di sorpresa con un'azione di fanteria. Così, la mattina di quel marzo fatale, prima che sorgesse il sole, le forze ostrogote discesero dalle loro posizioni sul monte, dirigendosi a nord-est verso Angri. Il campo bizantino si trovava nel punto più stretto del pianoro limitato dal lato meridionale dai monti e da quello settentrionale dal fiumicello La Marna e dalle paludi. Qui, al sorgere del sole, le truppe bizantine vennero colte di sorpresa dai Goti. I soldati imperiali reagirono prontamente alla minaccia, senza ordini, senza essere guidati da alcun comandante e senza badare al reparto d'appartenenza, si fecero incontro a casaccio contro i nemici con decisione. I Bizantini lasciarono alle proprie spalle i loro cavalli. Lo spazio disponibile, per un uso efficace della cavalleria, era limitato dai monti a sud e dal fiume e le paludi a nord. La tremenda battaglia fu quindi uno scontro essenzialmente tra fanterie.
·         La battaglia si accese subito violentissima, continuando ininterrottamente per tutta la giornata. A differenza della battaglia di Tagina però lo scontro tra le due fanterie non avvenne con la tecnica della falange ma in formazioni più aperte, in modo da permettere un ricambio continuo tra le prime file che combattevano e i soldati più riposati delle retrovie. Questa formazione più aperta permetteva ai contendenti l'uso di tutte le armi da getto e dava spazio ai guerrieri delle prime file di utilizzare l'umbone dello scudo come arma offensiva, un modo di combattere in uso in quel periodo.
·         Il re germanico non si risparmiò fin dall'inizio della battaglia, a differenza dell'anziano Narsete che cercò di condurre le operazioni dalle retrovie, Teia continuò a combattere valorosamente nelle prime file incoraggiando e dando l'esempio ai suoi uomini. Nel racconto di Procopio, nonostante sia uno storico di parte, si ritrova tutta l'ammirazione per questo giovane guerriero, riportiamo il racconto stesso.

In Campania c’è un monte, il Vesuvio, che ho ricordato nei libri precedenti, per il fatto ch’emette sovente un boato simile a un mugghio. Quando succede così, erutta anche una gran quantità di cenere bollente. Questo l’ho detto, a quel punto della mia storia. Ora, questa montagna, come l’Etna in Sicilia, ha l’interno naturalmente vuoto dall’estremità inferiore alla vetta, ed è proprio là dentro che il fuoco arde in continuazione. Questo vuoto giunge a tale profondità, che, se uno sta sulla cima e ha il co­raggio di sporgersi, non riesce facilmente a vedere la fiam­ma. Ogni volta che la montagna erutta, come ho detto, la cenere, la vampa stacca anche pietre dalle viscere del Vesuvio e le lancia in aria al di sopra della vetta, talune piccole, altre assai grandi, e di lì le sparpaglia dove capita. E c’è anche un rivolo di fuoco che si diparte dalla sommità e si spinge fino alle pendici del monte e anche oltre: tutti fenomeni che si verificano anche nell’Etna. Il rivolo di fuoco forma alti argini di qua e di là, scavandosi il letto con un taglio profondo. Da prima la fiamma che corre su quel rivolo somiglia a un flusso ardente d’acqua; ma ap­pena si spegne, il corso del rivolo si blocca subito e la corrente non procede oltre, mentre il sedimento di quel fuoco è una fanghiglia simile a cenere.
Alle falde di questo Vesuvio ci sono sorgenti d’acqua potabile. E ne scaturisce un fiume detto Dracone, che poi passa molto vicino alla città di Nocera. I due eserciti s’ac­camparono da una parte e dall’altra di questo fiume. Il corso del Dracone è un filo, ma il fiume non è accessibile né a cavalieri né a fanti, perché scorre in una strettoia e si scava un letto molto profondo, rendendo le rive come sospese e incombenti da entrambi i lati. Se la ragione di ciò vada cercata nella natura del suolo o in quella dell’acqua non saprei dire. I Goti s’impadronirono del ponte sul fiume, accampati com’erano nelle immediate vicinanze. Vi collo­carono torri di legno e, fra altre macchine, vi costruirono le così dette baliste, per essere in grado di bersagliare dal­l’alto i nemici che venissero a dar fastidio. Era dunque impossibile un corpo a corpo, perché c’era di mezzo il fiume: entrambi gli eserciti, avvicinandosi il più possibile alle rive del fiume, facevano soprattutto assegnameli lo su­gli archi. S’ebbero anche alcuni duelli, quando un Goto, per esempio, era provocato a passare il ponte. I due eserciti passarono così due mesi. Finchè i Goti ebbero il dominio del mare in quel punto poterono reggere, portando i rifornimenti con le navi (erano accampati a breve distanza dal mare).
Ma poi i Romani riuscirono a prendere le navi nemiche, grazie al tradimento d’un Goto che sovrintendeva a tutta la flotta; inoltre a loro cominciarono ad arrivare innumerevoli navi dalla Sicilia e dal resto dell’Impero. In pari tempo Narsete collocò anche lui sulla riva del fiume torri di legno e riuscì così a mortificare completamente la baldanza degli avversari.
I Goti di tutto ciò s’impaurirono molto e, pressati dalla penuria di viveri, si rifugiarono su un monte ch’è lì vicino e che i Romani chiamano, in latino Monte del Latte (Mons Lactarius). Là i Romani non potevano certo raggiungerli, per le difficoltà del terreno. Ma i barbari si pentirono su­bito d’essere saliti lassù, perché la scarsità di viveri si faceva ancora maggiore, non avendo essi alcun mezzo per procurarne per sé e per i cavalli. Perciò ritennero che farla finita in uno scontro fosse preferibile che morire di fame, e inaspettatamente avanzarono in massa contro i nemici, piombando loro addosso fulmineamente. I Romani si di­sposero a difesa come consentivano le circostanze, schie­randosi senza distinzioni di comandanti, di compagnie o di reparti, e senza differenziarsi in altra guisa gli uni dagli altri. Né avrebbero potuto udire ordini durante lo scontro: erano solo pronti a fronteggiare il nemico con tutto il vi­gore possibile, dovunque si trovassero. I Goti furono i pri­mi ad abbandonare i cavalli e a formare a piedi, fronte al nemico, una profonda falange. I Romani, a quella vista, la­sciarono i cavalli anche loro e si schierarono tutti allo stesso modo.
Io sto qui per descrivere una battaglia memorabile e il valore d’un uomo, non inferiore, credo, a quello degli eroi: il valore di cui Teia fece sfoggio in quell’occasione. I Goti erano spinti all’ardimento dalla disperazione; d’altra parte i Romani, pur vedendoli fuori di sé, tennero loro fronte con tutte le forze, arrossendo di cedere di fronte ad avversari inferiori di numero. Gli uni e gli altri, poi, andavano contro i nemici con molta rabbia, gli uni cer­cando la morte, gli altri l’eroismo. La battaglia cominciò all’alba. Teia, facilmente riconoscibile, riparandosi con lo scudo e protendendo la lancia, si mise in testa alla fa­lange, con pochi altri. I Romani, vedendolo, pensarono che, se fosse caduto lui, la battaglia sarebbe finita immediata­mente; sicché su di lui si concentrarono tutti i prodi (ed erano molti), chi spingendo e chi vibrando la lancia contro di lui. Il quale, coperto dallo scudo, riceveva su quello tutte le lance, e con repentini assalti aggrediva i nemici, uccidendone molti. Ogni volta che vedeva lo scudo pieno di lance conficcate, lo consegnava a uno degli scudieri e ne brandiva un altro. Così combattendo arrivò a un terzo della giornata: a quel punto, sullo scudo c’erano, confic­cate, dodici lance, sicché non ce la faceva neppure più a muoverlo come voleva e a respingere gli assalti. Chiamò allora in fretta uno degli scudieri, senza però lasciare il suo posto e senza muoversi d’un dito, né per retrocedere né per attirare i nemici in avanti, senza voltarsi, senza ri­pararsi le spalle con lo scudo, senza neppure mettersi di fianco: stava lì ritto col suo scudo, che pareva radicato al suolo, uccidendo con la destra, rintuzzando i colpi con la sinistra, e chiamando lo scudiero per nome. Quello era già lì con lo scudo, e lui si liberava in fretta dell’altro, appesantito dalle lance. Fu proprio in quell’attimo (un tem­po infinitesimale) che il petto gli restò scoperto, e il caso volle che fosse colpito proprio allora da un giavellotto, per cui immediatamente morì. Alcuni Romani misero la sua testa in cima a un palo e andarono in giro mostrandola a entrambi gli eserciti, ai Romani perché prendessero ancor più coraggio, ai Goti perché, disperati, ponessero fine alla guerra.
Ma neppure allora i Goti cessarono di combattere. Lot­tarono fino a notte, pur sapendo che il loro re era morto. Quando si fece buio, si separarono e gli uni e gli altri bivaccarono in tenuta di guerra. Il giorno dopo s’alzarono presto, schierandosi di nuovo allo stesso modo, e combat­terono fino a notte. Non cedevano, non fuggivano, non ripiegavano benché da una parte e dall’altra un gran nu­mero d’uomini fosse ucciso: lottavano come in preda a una furia selvaggia per l’odio reciproco, i Goti ben con­sapevoli che quella era per loro l’ultima battaglia, i Ro­mani rifiutando di farsi vincere. Alla fine Ì barbari manda­rono alcuni dei loro notabili a Narsete, dicendo d’aver ca­pito che l’avversario con cui combattevano era Dio; si rendevano conto della potenza che' s’erano trovati di fronte e, arrendendosi all’evidenza dei fatti, erano decisi a di­chiararsi vinti e ad abbandonare la lotta, non però per di­venire soggetti all'imperatore, bensì per vivere autonomi insieme con altri barbari. Chiedevano che i Romani con­cedessero loro una ritirata pacifica, senza rifiutare un trat­tamento ragionevole, e anzi donando loro come viatico quelle ricchezze che ciascuno aveva in precedenza deposi­tate nelle fortezze italiane. Narsete mise in discussione queste proposte. E Giovanni nipote di Vitaliano l’esortava ad accogliere la richiesta, a non spingere oltre la lotta con­tro uomini morituri, a non fare la prova d’un coraggio ori­ginato dalla disperazione — atteggiamento psicologico assai rischioso per chi lo segue e per chi lo fronteggia. « Basta a chi è saggio vincere — disse; — le brame smodate pos­sono risolversi in fallimenti ».
Narsete seguì il consiglio, e si fece un accordo in questi termini: che i barbari superstiti si prendessero le ricchezze personali e se ne andassero subito da tutta l’Italia, per non fare più guerra in nessun modo ai Romani. Nel frattempo mille Goti partirono dal campo per recarsi alla città di Ticino e ai paesi dell’oltre Po. Li guidava, fra gli altri, Indùlf, di cui ho fatto menzione in precedenza . Tutti gli altri prestarono giuramento a convalida degli accordi. Così i Romani presero Cuma e tutto il resto. Si chiudeva il di­ciottesimo anno, e con esso la guerra gotica, di cui Procopio ha scritto la storia.



[1] Accento acuto ed accento grave In italiano gli accenti grafici, cioè i segni con cui si marca la vocale tonica della parola, sono di due tipi:
·         L’accento acuto: é;
·         L’accento grave: à.
Si segna l’accento grave sulle vocali a, i, u, quando è necessario: libertà, più, capì. Invece sulle vocali e ed o si segna l’accento acuto quando hanno un suono chiuso, come nelle parole: pésca (= l’azione del pescare), vólto (= il viso), perché, ; si segna l’accento grave quando hanno un suono aperto, come nelle parole: pèsca (il frutto), vòlto (participio passato di volgere) è, cioè.
[2] Uso dell’accento nel corpo della parola - Tuttavia è consigliabile segnarlo nei seguenti casi:
·         Quando solo l’accento distingue due o più parole omografe, cioè due o più parole che hanno identica grafia ma pronuncia e significato diversi, come:
·         Lèggere e leggère
·         Nocciolo e nocciolo
·         Gito, agito e agitò;
·         Nelle forme plurali delle parole in -orio quando possono essere confuse con le forme plurali delle parole in -ore: direttòri (plurale di direttorio) / direttóri (plurale di direttore);
·         Nelle forme plurali delle parole in -io quando possono essere confuse con i plurali di altre parole simili: princìpi (plurale di principio) / prìncipi (plurale di principe);
·         Nelle voci del verbo dare che possono essere confuse con i loro omografi: danno, dato, dagli;
Tutte le volte che si vuole indicare l’esatta pronuncia di una parola rara e difficile: ecchìmosi, prosèliti, streptomicìna.
[3] Metrica - La metrica è la struttura letteraria di un componimento poetico, che ne determina il ritmo e l’andamento generale. Con il termine metrica si indica quella particolare branca della filologia che si occupa dello studio di queste strutture.
[4] Metrica barbara - L’imitazione dei metri greco-latini ha trovato nella letteratura italiana importanza. Questa sperimentazione, definita poesia metrica, da Carducci in poi assunse la definizione di poesia barbara, perché tale sarebbe sembrata «al giudizio dei greci e dei romani».
Questo tipo di tecnica consiste nell’applicare la metrica quantitativa dell’antichità classica, basata sulla lunghezza delle sillabe, alla poesia italiana. La lingua italiana, al contrario del greco e del latino, non fa distinzione tra sillabe lunghe e sillabe brevi: per la struttura delle singole parole e per l’intonazione della frase, ha invece valore decisivo la netta differenza tra sillabe atone e sillabe toniche, aspetto che nel verso antico aveva un’importanza secondaria. Inoltre per il verso italiano è fondamentale il numero delle sillabe, che nella poesia greca e latina era oltremodo variabile, data la possibilità di sostituzione della sillaba lunga con due brevi.
Carducci studiò a lungo e pubblicò i risultati dei precedenti tentativi firmati Leon Battista Alberti, Leonardo Dati, Claudio Tolomei, Annibal Caro e Gabriello Chiabrera, Foscolo e Leopardi, noti al mondo letterario, eppure la pubblicazione delle Odi barbare nel 1877 attirò numerose polemiche.
La novità di Carducci era il risultato raggiunto nella sperimentazione attuata sull’esametro e sul distico elegiaco che, per la loro particolare struttura metrica, avevano sempre rappresentato un ostacolo nella poesia metrica. Per raggiungere il suo scopo, ossia riprodurre nel miglior modo possibile il ritmo antico, trovò l’espediente di applicare al verso la lettura accentativa italiana o, in alternativa, di comporre versi in cui le sillabe lunghe fossero sostituite con arsi. Carducci lavorò anche ad altre forme metriche, dedicandosi in particolare all’imitazione delle strofe saffiche e alcaiche. Possiamo paragonare la sua attività di sperimentazione a quella svolta dai ricercatori nei laboratori: operazioni delicate, curate nei minimi dettagli, non solo dal punto di vista formale ma anche lessicale. Infatti, nell’esprimere la quotidianità, il poeta non impiega un linguaggio comune, ma propende sempre verso vocaboli di netta impronta classica, scelta che, come afferma il Salinari, potrebbe a sua volta essere considerata un limite: «il suo linguaggio che ha grande forza espressiva nelle rappresentazioni epiche o comunque di sentimenti dai contorni ben precisi, è troppo poco allusivo, sfumato, musicale per rappresentare situazioni sfuggenti, indefinite, contraddittorie, che riflettono i conflitti intimi delle zone più oscure e incerte della coscienza.»
[5] L’Italia Liberata dai Goti –  Reduce dal grande successo della tragedia Sofonisba, Trìssino cercò la fama anche come poeta epico e, affascinato dal mondo greco, vide nell’Impero bizantino di Giustiniano la suprema sintesi tra l’ideale imperiale romano e la nuova fede cristiana.
Tra le numerose guerre che l’Impero giustinianeo combatté contro i suoi numerosi nemici (Persiani, 531 532, Vandali, 533-534, Visigoti, 551), Trìssino scelse la guerra contro gli Ostrogoti, che avevano invaso l’Italia nel 489, sottraendola all’erulo Odoacre.
Trìssino voleva creare un grande “poema eroico” completamente diverso dal poema cavalleresco come lo avevano concepito Boiardo e Ariosto abbandonando le tematiche carolingie delle guerre dei paladini di Francia contro i Mori.
Secondo l’intenzione del Trìssino, il poema segue come criterio principale l’unità dell’azione, che ruota tutta intorno al personaggio di Giustiniano. Ma siccome la Guerra Greco-Gotica durò diciotto anni, svolgendosi attraverso varie fasi (dal 535 al 553), anche il poema risente di questo lungo periodo, per questo motivo la tanto decantata unità si rivela in molti punti assai difettosa.
La vicenda inizia con il sogno di Giustiniano, il quale è esortato da un angelo, inviatogli da Dio, a liberare l’Italia dal feroce dominio dei Goti ariani. L’imperatore convoca i suoi cortigiani e i suoi collaboratori ed espone loro la necessità di intraprendere una spedizione militare per sottrarre, il “Giardino dell’Impero” alla nefanda tirannide dei Goti eretici. E il discorso fatto da Narsete, eunuco spietato che è anche la mente della politica estera bizantina, per giustificare l’ennesima guerra voluta dal suo basilèus, è interessante.
L’imperatore fa preparare una grande armata e una grande flotta e ne affida il comando al generale Belisario, già vincitore di Persiani e Vandali.
Questi salpa alla volta dell’Italia, sbarca in Puglia e conquista Brindisi, sconfiggendo Faulo, il gigante goto che domina la città. Poi, le armate greche occupano la Puglia e la Campania e si spingono fino a Roma.
Ma un soldato bizantino profana un altare della Beata Vergine Maria, la quale, indignata, inizia a proteggere i Goti. Mentre Belisario assedia Roma, da Aquileia giunge un esercito goto guidato dal gigante Torrismondo: le truppe bizantine e gote si scontrano e queste ultime vincono la battaglia.
Ma da Bisanzio giunge un altro esercito, guidato dall’eunuco Narsete, che affronta i Goti e li sconfigge. Allora i Goti nominano re il prode Vitige, che si batte contro i bizantini di Narsete, venendo però sconfitto ad Osimo.
Alla fine della lunga guerra, Narsete e Vitige si accordano per una disfida: dodici cavalieri greci contro dodici cavalieri goti, che si affrontano davanti alle mura di Roma. I campioni goti sono sconfitti, Narsete fa catturare Vitige e lo conduce prigioniero a Bisanzio (il tutto, ovviamente, falsando la realtà storica, perché la Guerra Greco-Gotica non finì così).
È difficile realizzare in un poema una vicenda storica complessa, anche se ampio: Trìssino per arricchire la narrazione, infarcisce la storia di interventi soprannaturali (angeli e demoni che si schierano i primi in favore dei Bizantini e i secondi dei Goti),  di duelli terribili tra giganti goti e guerrieri greci, di interventi di maghe dotate di anelli fatati, nonché di storie d’amore disperate e tormentate.
Il poema non eccelle: la vera poesia emerge soltanto a tratti e solo in taluni episodi, il meraviglioso abbonda, ma la prolissità eccessiva fa sentire il suo peso. D’altronde Trìssino si rese conto che un poema solo epico-eroico avrebbe stimolato poco l’interesse dei lettori, per questo vi inserì molti episodi amorosi, magici o addirittura fantastici, attinti direttamente dall’epica cavalleresca e dai poemi boiardeschi e ariosteschi che egli, teoricamente, non voleva avere come modelli imitativi.
Sostanzialmente, quindi, il poema del Trìssino oscilla tra epica e romanzo.
In ogni caso, l’idea di scrivere un poema epico in endecasillabi sciolti, scevri dalla cantilena e dalla rigida armoniosità della rima, era davvero buona, così come la scelta dell’argomento, essendo state le guerre bizantine sempre trascurate dai nostri poeti epici e cavallereschi. Peccato che a tentare di realizzarla sia stato un poeta mediocre come Gian Giorgio Trìssino e non un vero e grande poeta come fu Torquato Tasso.

[6] Gian Giorgio Trìssino – Gian Giorgio Trìssino (Vicenza, 1478 -­ Roma, 1550) era un famoso e ricco nobile dei conti Trìssino: studiò greco a Milano sotto la guida di Demetrio Calcondila e filosofia a Ferrara sotto quella di Niccolò Leoniceno. Da questi maestri apprese l’amore per i classici e per il greco, che ampiamente si respira nelle sue opere. La sua produzione letteraria, infatti, insieme alla riflessione teorica sul volgare, rivela un indirizzo classicistico ellenizzante.

Al filellenismo letterario corrispose sul piano politico, la sua posizione favorevole all’Impero piuttosto che alla Repubblica di Venezia, che lo costrinse per qualche tempo all’esilio. Durante quel periodo soggiornò a Ferrara, a Firenze e infine si stabilì a Roma presso la corte papale, svolgendo missioni diplomatiche in Italia e all’estero per conto dei pontefici Leone X, Clemente VII e Paolo III.

Dovunque Trìssino si recasse riceveva con grandi onori.

Dopo aver soggiornato a Padova dal 1538 al 1540 si ritirò nell’isola di Murano, luogo più solitario, fino al 1545. Morì a Roma l’8 dicembre 1550 e fu sepolto nella Chiesa di Sant’Agata alla Suburra.

Nelle sue opere Gian Giorgio Trìssino fu fautore di un classicismo integrale conforme ai principi aristotelici, che espose nelle sei parti della sua Poetica del 1562, ambiziosa sistemazione di tutti i generi letterari, ognuno ricondotto a precise regole di struttura, stile e metrica. Poeta e tragediografo, le sue opere sono coerenti con questa concezione di letteratura.

La tragedia Sofonisba, composta nel 1515, pubblicata a Roma nel 1562 e rappresentata a Vicenza nel 1562 per iniziativa dell’Accademia Olimpica, può essere considerata la prima tragedia di impianto classico del secolo: pur ispirandosi a Tito Livio, guarda alla Grecia classica, modellandosi in particolare sull’Alcesti di Euripide; inoltre, si attiene scrupolosamente alle unità aristoteliche (tempo, luogo, azione) e ripropone il coro delle tragedie antiche.

Sul piano teorico Trìssino si espresse riguardo la dibattuta questione della lingua letteraria: la sua tesi “cortigiana ­italianista” sosteneva l’idea di una lingua formata dagli elementi comuni a tutte le parlate dei letterati della Penisola. I suoi scritti linguistici (Epistola, Il Castellano, I dubbi grammaticali, La grammatichetta) costituiscono quindi la principale voce di dissenso rispetto alla corrente di impostazione classicista di Pietro Bembo.

Gian Giorgio Trìssino non fu soltanto amante della poesia e della letteratura, ma si interessò anche di architettura. Architetto lui stesso, concepì un trattato Dell’Architettura e protesse Andrea di Pietro della Gondola, di cui fu amico e mentore e gli cambiò il nome in “Palladio”, come l’angelo liberatore e vittorioso presente nel suo poema L’Italia liberata dai Goti.  Trìssino condusse Palladio a Roma e avviò il futuro genio dell’architettura verso le vette più ardite di un’innovazione a livello mondiale.

[7] Sta per dappoi: poi , dopo
[8] Lo scettro.
[9] pianta dal cui legno si ricava una materia colorante rossa
[10] ali
[11] volle
[12] degno, meritevole Etimologia: ← dal lat. condĭgnu(m), comp. di m, con valore rafforzativo, e gnus ‘degno’.
[13] Potrebbe
[14] Sede o trono
[15] trova
[16] Sono gli Ostrogoti
[17] domandi
[18] Teniamo radunata
[19] Belisario è stato un generale bizantino, servì sotto Giustiniano ed è considerato uno dei più grandi generali bizantini.
Nato nella città di Germania nell'Illirico, Belisario intraprese la carriera militare, entrando a far parte dapprima delle guardie del corpo addette alla persona dell'Imperatore Giustino I e poi diventando generale.
Si distinse nella guerra iberica contro i Sasanidi, per poi salvare il trono dell'imperatore Giustiniano sedando con successo la rivolta di Nika nel 532. Successivamente, Giustiniano gli affidò il comando delle sue grandi guerre di conquista in occidente: la prima, la guerra vandalica, combattuta contro il regno africano dei Vandali, la seconda, la guerra gotica, svoltasi nel regno d'Italia sotto il dominio degli Ostrogoti. Le due campagne ebbero buon esito: Belisario riuscì non solo a sottomettere tutto il Nord Africa e gran parte dell'Italia, ma anche a condurre il re vandalo Gelimero e il re goto Vitige in catene ai piedi di Giustiniano. In seguito alla vittoria africana, Giustiniano gli concesse il trionfo e l'onore del consolato nel 535. Richiamato a Costantinopoli, fu inviato in Oriente contro i Persiani.
Dopo due anni di guerra contro i Sasanidi, Belisario venne inviato per la seconda volta in Italia nel 544.
A causa della scarsità di uomini e mezzi fornitigli da Giustiniano, non riuscì però a contrastare efficacemente il nuovo re dei Goti Totila, che era riuscito a riconquistare quasi tutta la penisola. Tornato a Costantinopoli nel 548, ricoprì negli anni successivi alcuni incarichi di tipo religioso venendo inviato presso il Papa per cercare di convincerlo ad accettare la politica religiosa dell'imperatore. Nel 559 fu di nuovo utile all'Impero riuscendo, alla testa di un esercito formato per lo più da contadini, a scacciare un'orda di barbari che stava devastando la Tracia mettendo in grande pericolo Costantinopoli.
Nonostante il suo grande contributo alla difesa dell'Impero, Belisario cadde più volte in disgrazia con l'imperatore: accusato di tradimento, venne però ogni volta riabilitato. Secondo una leggenda che prese vigore nel medioevo, Giustiniano avrebbe ordinato di accecarlo riducendolo ad un mendicante e lo avrebbe condannato a chiedere l'elemosina ai viandanti presso lo stadio di Costantinopoli. Sebbene la maggioranza degli storici moderni non dia credito alla leggenda, la storia della cecità divenne un soggetto popolare per i pittori del XVIII secolo. Divenne uso comune rievocare il nome di Belisario per ricordare (e condannare) l'ingratitudine mostrata da alcuni sovrani nei confronti dei loro servitori.
[20] conoscete
[21] timore
[22] Si risedette
[23] console
[24] La Cappadocia è una regione storica dell'Anatolia, un tempo ubicata nell'area corrispondente all'attuale Turchia centrale. La regione che attualmente prende il nome di Cappadocia è molto più piccola di quello che era l'antico regno di Cappadocia di epoca ellenistica.
[25] Sì sta per così.
[26] capace
[27] voleva
[28] La dieresi rende il dittongo uno iato
[29] Per questo
[30]Sostegno arcaismo
[31] nobile
[32] sia
[33] prevenire
[34]  (lett.) attività, occupazione: Etimologia: dal lat. negotĭum ‘affare, occupazione, interesse’, comp. di nĕc ‘non’ e otĭum ‘riposo dagli affari, tempo libero, ozio’.
[35] conseguenza
[36] Sarebbe arcaismo
[37] sarebbe
[38] Zenone Isaurico  (imp. 474-491 d.C.)  era un imperatore romano d’Oriente, di nazionalità isaurica, governò alla morte di Leone I dal 474 per pochi mesi come coreggente dell’imperatore Leone III, e morto questo, come unico imperatore d’Oriente. 
Perduto per breve tempo il trono (475-476 d.C.) usurpato dal generale bizantino Basilisco, lo recuperò nello stesso anno in cui in Italia Odoacre [vedi] deponeva l’ultimo imperatore romano d’Occidente, Romolo Augustolo e riconosceva come unico imperatore Zenone, che riuniva così almeno formalmente le due parti dell’Impero.
Zenone governò con grande astuzia, lasciando che Teodorico marciasse sull’Italia contro Odoacre, pur di evitare la rivolta dei Goti e nella speranza di ristabilire il nuovo regno barbarico sotto l’alta sovranità bizantina (488 d.C.).
Alla sua morte, la moglie Ariadne impose come imperatore Anastasio I, vecchio domestico del palazzo.
[39] Odoacre (476 - 493 d.C.)  Acclamato rex gèntium dalle milizie barbare che non avevano ottenuto il donativo di terre in Italia, Odoacre depose l’imperatore Romolo Augustolo (23 agosto 476), dichiarando di voler governare l’Italia solo come suo patricius.
Si concluse in tal modo “il ciclo vitale dell’Impero d’Occidente”, ormai caduto nel potere dei barbari. 
Odoacre fu poi sconfitto da Teodorico  e costretto a rifugiarsi a Ravenna dove rimase ucciso. 
[40] Romolo Augustolo (imp. 475-476 d.C.) Ultimo imperatore romano d’Occidente, fu insediato sul trono dal padre Oreste nel 475 d.C. e deposto nel 476 da Odoacre che lo relegò a Napoli.
Con la deposizione di Romolo Augustolo si chiudevano tutte le dinastie degli imperatori d’Occidente: Odoacre, infatti, preferì governare l’Italia, col titolo di patrizio, come rappresentante dell’imperatore d’Oriente.
Il re barbaro poté così insediarsi con le forme della legalità e giustificare la deposizione di Romolo Augustolo come un ritorno al concetto dell’unità dell’impero.
Gli avvenimenti del 476 d.C. segnarono l’inizio della dominazione barbarica sull’Italia (come già era avvenuta la dominazione dei Visigoti in Spagna, dei Vandali in Africa, dei Franchi in Gallia).
Tale data segna per tradizione la fine del mondo romano e l’inizio dell’epoca medievale.
[41] Teodorico (493-526 d.C.) - Re degli Ostrogoti. Sconfitto e ucciso Odoacre nel 493 d.C. Teodorico fu delegato dall’imperatore d’Oriente Zenone a reggere l’Italia con il titolo di patrizio.
Teodorico governò in virtù di un patto (temporaneo e personale) che lo legittimò e gli garantì una posizione di primato rispetto agli altri re barbarici; ai Romani lasciò l’amministrazione dello Stato, ai Goti la sua difesa. Allo scopo di creare un ordinamento unitario ed unico, superando la concezione barbarica della “personalità del diritto”, emanò un “Editto”, derivato dal diritto imperiale romano e compilato in latino, valido sia per gli Ostrogoti che per i Romani.
L’Edictum Theodorìci fu emanato verso il 500 d.C., nel corso del regno del sovrano ostrogoto Teodorico, dal præfectus prætorio, Magno di Narbona.
Teodorico si considerava formalmente governatore della prefettura italica in nome di Zenone, imperatore d’Oriente, ed è perciò che la compilazione prende il nome di edictum e non quella di lex (riservato alle statuizioni imperiali).
L’Edictum Theodorici, destinato sia agli Ostrogoti sia alla popolazione romana, constava di 155 capitoli, essenzialmente ricavati dai tre codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano e dalle Sententiæ di Paolo. Nei confronti degli altri sovrani barbarici, il re cercò di far valere la propria superiorità, come erede dell’impero d’Occidente.
Teodorico fu la figura più significativa tra i re barbari e la sua opera politica in Italia e in Europa fu indubbiamente la più avveduta.
[42] che, chi commette azioni crudeli e spietate: Etimologia: lat. impĭu(m), comp. di ĭn- negativo e pĭus‘pio’.
[43] AmalasuntaRegina degli Ostrogoti (m. 535), figlia di Teodorico, reggente per il figlio Atalarico dal 526 al 534, svolse un'accorta politica, sviluppando buoni rapporti con l'imperatore d'Oriente; fu favorevole all'elemento romano, mostrando in definitiva di seguire gli ideali paterni.
Osteggiata per questo dai nazionalisti ostrogoti, ne subì il malcontento al punto d'esser costretta a dividere il regno col cugino Teodato. Imprigionata da questi in un'isola del lago di Bolsena, fu poi strangolata.
La sua morte diede l'avvio alla guerra greco-gotica (535-553).
[44] Teodato - Re degli Ostrogoti (m. 536). Figlio di una sorella di Teodorico, avido e ambizioso, accettò di sposare la cugina Amalasunta rinunciando all'esercizio del potere in cambio del titolo di re; poi la fece imprigionare e assassinare nel 535 per esercitare pienamente le funzioni.
Il fatto fu di pretesto a Giustiniano per inviare Belisario alla riconquista dell'Italia. La sua incertezza e la codardia davanti alle vittorie nemiche furono tali che gli Ostrogoti lo dichiararono decaduto e lo sostituirono con l'anziano Vitige. Alla notizia Teodato fuggì verso Ravenna, ma fu ucciso.
[45] combattivo, battagliero:  Etimologia: ← dal lat. bellicōsu(m), deriv. di bellĭcus ‘guerresco’.
[46] Sta per possono
[47] Sta per toglieremmo
[48] Ricchezze
[49] pericolo
[50] Sarebbe
[51] C’è
[52] Mauri - Popolazione dell'Africa occidentale stanziata in prevalenza nella Mauritania e in piccoli gruppi fino al Senegal. I Mauri derivano da ceppi berberi islamizzati e in parte (maggiormente a sud) meticciati con elementi sudanesi; in origine pastori nomadi, sono in gran parte sedentarizzati e dediti all'agricoltura. La loro società, a struttura patriarcale, è suddivisa in numerose caste: gli agricoltori, i mercanti e i sacerdoti (che collettivamente si designano con il nome di beidān, i Bianchi), di più pura origine berbera, detengono il potere socio-economico.
[53] Numidia - Antico nome della regione dell'Africa nordoccidentale, corrispondente all'Algeria orientale. Abitata dai Numidi, popoli berberi, di origine nomade. Nel 46 a. C., la Numidia fu eretta a provincia romana col nome di Africa Nova. In età imperiale la Numidia conobbe grande prosperità nell'agricoltura con i suoi vigneti, allevamenti di cavalli e greggi; il processo di urbanizzazione fu graduale e intenso con le città di Caicul,  Thamngadi, Theveste, con un fiorente centro di studi a Cirta. I contrasti di natura religiosa scoppiativi tra manichei e donatisti favorirono l'avvento dei Vandali di Genserico con conseguente declino, economico e urbano della Numidia e con lo smembramento dell'unità regionale, a Sud il limes era messo in difficoltà da infiltrazioni di berberi.
Dopo la morte di Giustiniano, che l'aveva riconquistata e riorganizzata, la Numidia entrò in un nuovo periodo di disordine finché, nei sec. VII-VIII, fu travolta, come tutta l'Africa settentrionale, dagli Arabi.
[54] il forte Algano… Ruffino: dignitari della corte di Giustiniano
[55] sarebbe
[56] fiero
[57] All’apparenza
[58] fossero
[59] Sta per viltà
[60] avrebbe
[61] Occidente ossia verso l’Italia
[62] al correttor del mondo: all’imperatore
[63] Cosroe I -  Regnò sull'Iran dal 531 al 579. Si oppose a Mazdak e al suo movimento politico-religioso. Intorno al 558 Cosroe, alleatosi con il khanato turco occidentale, distrusse il regno degli Eftaliti e ristabilì la frontiera orientale dell'Iran sul fiume Oxus. A occidente aveva stipulato nel 532 una pace con Bisanzio; ben presto però le ostilità ripresero a causa di una disputa tra gli Stati di Gassān (vassallo di Bisanzio) e Hīra (vassallo dell'Iran); dopo la distruzione di Antiochia nel 540 e varie nuove conquiste, fra cui quella dello Yemen, nel 562 stipulò una nuova pace coi Bizantini.
Le frontiere vennero assicurate da un sistema di limes nel deserto siriano, nel Caucaso e a est del Mar Caspio.
[64] Alle spalle
[65] Dopo le spalle: alle spalle
[66] potrebbero
[67] sia
[68] Potenza persiana
[69] avrete
[70] Quieto, tranquillo
[71] Non si ruini: non si distrugga
[72] Conduca.
[73] (lett.) eseguire; portare a compimento, finire. Etimologia: dal fr. fournir, che deriva dal francone *frumjan ‘eseguire’.
[74] Fatica: francesismo
[75] Si preparava
[76] sostenerlo
[77] Spagna
[78] Astuto latinismo
[79]  Narsete - Generale bizantino (478 - 568). Di origine armena, acquistò una posizione preminente alla corte di Giustiniano grazie al favore di Teodora e concorse con Belisario alla repressione della cosiddetta rivolta di Nika nel 532, cioè alla salvezza dell'imperatore.
Nella guerra contro gli Ostrogoti per la riconquista dell'Italia (535-553) operò con Belisario, ma in discordia con lui; quando poi Belisario fu richiamato a Costantinopoli nel 549, gli succedette come unico comandante supremo delle forze imperiali in Italia e riportò le vittorie decisive di Tagina sul re Totila nel 552 e dei monti Lattari sul re Teia nel 553.
Respinse in seguito le scorrerie franco-alemanne di Leutari insieme con il fratello Butilino scesi in Italia con un numeroso esercito composto da Alemanni, Franchi e Burgundi per portare aiuto ai Goti in lotta con i Bizantini. Separatosi dal fratello, attraversò la penisola, ma, costretto alla ritirata, cadde al Volturno nel 554.
Narsete continuò fino al 567 le operazioni contro i resti degli Ostrogoti sparsi per l'Italia.
Avviò col titolo di patricius il riordinamento dell'Italia tornata provincia dell'impero applicando la Prammatica Sanzione giustinianea, su richiesta del papa Vigilio, allo scopo di estendere all'Italia, ricongiunta all'Impero dopo la vittoria sugli Ostrogoti, la legislazione imperiale. Essa annulla le leggi dei re ostrogoti succeduti a Teodato e restaura le posizioni dell'aristocrazia fondiaria, revocando in particolare i provvedimenti di Totila a beneficio delle masse rurali, detta norme tributarie e relative alle monete, ai pesi e alle misure, regola rapporti di natura privata e pubblica turbati durante la guerra, attribuisce ampi poteri amministrativi ai vescovi (che tuttavia li esercitavano già di fatto). Nonostante le prescrizioni della Prammatica sanzione, la legislazione di Giustiniano e quella dei suoi successori ebbero in Italia un'applicazione assai limitata.
Esonerato dalla carica da Giustino II, Narsete si ritirò a Roma, dove morì poco dopo.
[80] Araspo: padre di Narsete
[81] che esprime chiaramente un concetto, un sentimento, un’intenzione, un dato di fatto. Etimologia: dal lat. eloquĕnte(m), part. pres. di elŏqui; cfr. elocuzione.
[82] orientata
[83] sarebbero
[84] lenti
[85] soddisfare
[86] Imperatore 
[87] La Persarmenia fu originariamente una delle 15 province della Grande Armenia situata sulla riva occidentale del Lago di Urmia.
[88] Madre di Narsete
[89] In realtà Giustiniano era nipote di Giustino, uno stimato generale che assurse alla carica imperiale e lo adottò
[90]  Acquisì grande influenza alla corte di Giustiniano I grazie al favore di Teodora. In breve tempo scalò la gerarchia dei servitori della camera da letto imperiale, raggiungendo la posizione di tesoriere e primo ufficiale (sacellarius e comes sacri cubiculi) nel 530-531.
[91] Meco = con me dal latino mecum
[92] date
[93] Esperia: ntichissimamente la parte meridionale della nostra Penisola era detta dai greci Esperia (= terra del tramonto), come per analogia l’attuale Turchia Anatolia (= terra del levante). L’Esperia era detta anche Ausonia (= terra di Ausòne o Ausonio, figlio di Ulisse e Calipso, e degli Aurunci che i greci poi chiamarono Ausòni) ed Enotria (= terra del vino). 
[94] Roma
[95] possono
[96] [dal lat. expedire, der. di pes pedis col pref. ex-; propr. «liberare i piedi»] (io espedisco, tu espedisci, ecc.), ant. – Rendere spedito, facilitare, sbarazzare, liberare: 
[97] part passato del verbo involgere Ricoperto, avvolto: fig. Implicato, coinvolto
[98] Sta per gire v. intr. [lat. ire: v. ire], ant. Il verbo gire è difettivo, adoperato in poche forme, di cui talune rimaste nell’uso di qualche regione (indic. imperf. giva, givano; pass. rem. , gimmo; fut. girò, ecc.; cong. imperf. gissi, ecc.; part. pass. gito). Lo stesso che ire, andare. 
[99] vicino
[100] Giogo: Trave in legno, sagomata per adattarsi al collo di uno o due buoi, che costituisce l'attacco del carro, dell'aratro ecc. In senso figurato il giogo è ciò che opprime, asservisce, il suo sinonimo è oppressione.
[101] sarebbe
[102] Qui Trìssino vuol mettere in evidenza gli splendidi rapporti esistenti fra Visigoti e i romani della provincia Hispanica. Con il sec. VI, e soprattutto dopo la morte dell'ostrogoto Teodorico, il loro regno divenne quasi interamente spagnolo, con capitale a Toledo. I Visigoti rispettarono le strutture politico-sociali dell'antica Hispania romana e la Chiesa cattolica. Nelle frequenti lotte fra la Chiesa ariana e la cattolica, lo Stato si mostrava però favorevole alla prima, fino alla conversione di re Recaredo, dopo la quale Stato e Chiesa collaborarono alla formazione di uno Stato sui generis nel quale il re presiedeva ai Concili toledani e le leggi ecclesiastiche avevano spesso validità civile.
[103] porremo
[104] Vettovaglie,  Provviste di viveri indispensabili al sostentamento di un esercito o di una comunità di persone.
[105] Ripararsi, rifugiarsi
[106] Ristoro
[107] Benché
[108] Dovrebbe
[109] notizie
[110] possono
[111] Flusso o ammasso di putridume.
[112] potrebbe
[113] portare
[114] almo agg. [dal lat. almus «che ristora», dal tema di alĕre «nutrire»], letter. – Che alimenta, che dà e mantiene la vita. Per estens., grande, nobile, magnifico.
[115] Dichiarati
[116] Il verbo è intransitivo ma è usato transitivamente
[117] carico
[118] L’immagine dell’Italia come “giardin de lo imperio” è una citazione dantesca del VI canto del Purgatorio.
[119] Dei cieli quindi di Dio
[120] cambiare
[121] Sorse, si alzò


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