Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

giovedì 11 settembre 2014

La Divina Commedia - passi scelti a cura di Massimo Capuozzo

Il viandante nella nebbia
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant' è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

Io non so ben ridir com' i' v'intrai,
tant' era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m'avea di paura il cor compunto,

guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de' raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.

Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m'era durata
la notte ch'i' passai con tanta pieta.

E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l'acqua perigliosa e guata,

così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.

Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.

Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.

Temp' era dal principio del mattino,
e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino

mosse di prima quelle cose belle;
sì ch'a bene sperar m'era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle

l'ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone.

Questi parea che contra me venisse
con la test' alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l'aere ne tremesse.

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch'uscia di sua vista,
ch'io perdei la speranza de l'altezza.

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne 'l tempo che perder lo face,
che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;

tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove 'l sol tace.

Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.

Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d'Anchise che venne di Troia,
poi che 'l superbo Ilïón fu combusto.

Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch'è principio e cagion di tutta gioia?».

«Or se' tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos' io lui con vergognosa fronte.

«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo tuo volume.

Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.

Vedi la bestia per cu' io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».

«A te convien tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo' campar d'esto loco selvaggio;

ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;

e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha più fame che pria.

Molti son li animali a cui s'ammoglia,
e più saranno ancora, infin che 'l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.

Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.

Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno,
là onde ‘nvidia prima dipartilla.

Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;

ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch'a la seconda morte ciascun grida;

e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.

A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;

ché quello imperador che là sù regna,
perch' i' fu' ribellante a la sua legge,
non vuol che 'n sua città per me si vegna.

In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l'alto seggio:
oh felice colui cu' ivi elegge!».

E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
a ciò ch'io fugga questo male e peggio,

che tu mi meni là dov' or dicesti,
sì ch'io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».

Allor si mosse, e io li tenni dietro.

La prima ragione del viaggio
Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno

m'apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.

O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch'io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.

Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s'ell' è possente,
prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.

Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.

Però, se l'avversario d'ogne male
cortese i fu, pensando l'alto effetto
ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale

non pare indegno ad omo d'intelletto;
ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero
ne l'empireo ciel per padre eletto:

la quale e 'l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u' siede il successor del maggior Piero.

Per quest' andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.

Andovvi poi lo Vas d'elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch'è principio a la via di salvazione.

Ma io, perché venirvi? o chi 'l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri 'l crede.

Per che, se del venire io m'abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono».

E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,

tal mi fec' ïo 'n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la 'mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.

«S'i' ho ben la parola tua intesa»,
rispuose del magnanimo quell' ombra,
«l'anima tua è da viltade offesa;

la qual molte fïate l'omo ingombra
sì che d'onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand' ombra.

Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.

Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.

Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:

"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto 'l mondo lontana,

l'amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt' è per paura;

e temo che non sia già sì smarrito,
ch'io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.

Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c'ha mestieri al suo campare,
l'aiuta sì ch'i' ne sia consolata.

I' son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.

Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui".

La porta dell’Inferno
'Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.

Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e 'l primo amore.

Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'.

Queste parole di colore oscuro
vid' ïo scritte al sommo d'una porta;
per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro».

Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.

Noi siam venuti al loco ov' i' t'ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto».

E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond' io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.

Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l'aere sanza stelle,
per ch'io al cominciar ne lagrimai.

Virgilio spiega a Dante che si trovano nell'Antinferno dove sono gli Ignavi.
I due poeti giungono poi sulla riva del fiume Acheronte, dalla quale Caronte, traghettatore delle ani­me infernali, tenta di allontanare D. Un improvviso ter­remoto fa cadere Dante svenuto.
Al risveglio Dante si trova oltre l'Acheronte, Virgilio gli spiega che in questa prima regione infernale, il Lim­bo, sono le anime dei non battezzati, puniti solo della privazione della vista di Dio, e accenna alla discesa di Cristo.
Insieme raggiungono un luogo illuminato, do­ve Virgilio è accolto da Omero, Ovidio, Orazio e Lucano. I sei poeti entrano in un ‘nobile castello’.
Qui sono mo­strati a Dante gli ‘spiriti magni’, coloro che conseguirono fama tra gli uomini.
Dante e Virgilio lasciano il Limbo e ripren­dono il viaggio.
Scendono nel secondo cerchio e trovano al­l’ingresso Minosse, il giudice infernale, che tenta invano di trattenere Dante.
Qui una vorticosa bufera trascina sen­za sosta le anime dannate dei lussuriosi, due di esse si avvicinano a Dante: sono Paolo Malatesta e Francesca da Rimini.

Paolo e Francesca
I’ cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ‘nsieme vanno[1],
e paion sì al vento esser leggieri».

Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor[2] che i mena, ed ei verranno».

Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega[3]!».

Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere, dal voler portate;

cotali uscir[4] de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido[5].

«O animal grazioso[6] e benigno
che visitando vai per l’aere perso[7]
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.

Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ‘l vento, come fa, ci tace[8].

Siede la terra dove nata fui
su la marina[9] dove ‘l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende[10]
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo[11] ancor m’offende.

Amor[12], ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer[13] sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte[14]:
Caina[15] attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.

Quand’io intesi quell’anime offense[16],
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ‘l poeta mi disse: «Che pense?».

Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso[17],
quanti dolci pensier, quanto disio[18]
menò costoro al doloroso passo!».

Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio[19].

Ma dimmi: al tempo de’ dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri[20]?».

E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa[21] ‘l tuo dottore.

Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto[22],
dirò come colui che piange e dice.

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto[23] come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fiate[24] li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».

Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.

E caddi come corpo morto cade.

Dante è miracolosamente trasportato nel terzo cerchio, dove sono i golosi flagellati da una pioggia gre­ve e incessante. Cerbero, custode del cerchio, tenta d'opporsi al passaggio, ma è placato da Virgilio. Dante si trattiene con l'anima del fiorentino Ciacco, che interroga sul futuro di Firenze, venendo a sapere della rovina dei guelfi di parte bianca. Chiede poi dove siano alcuni grandi fio­rentini come Farinata degli Uberti, Tegghiaio Aldobrandi e Jacopo Rusticucci.
All'ingresso del quarto cerchio Dante e Virgilio tro­vano Pluto.
Ancora una volta Virgilio interviene per evitare che un demone infernale ostacoli il loro cammino. Quin­di mostra a Dante i dannati, avari e prodighi, costretti a spin­gere in opposte schiere enormi pesi.
Interrogato da Dante egli spiega che la Fortuna è un ministro del volere di­vino, cui è stata affidata la distribuzione dei beni mon­dani.
I due poeti scendono nel quinto cerchio occupato dalla palude Stigia, dove sono immersi gli iracondi e sommersi nel fango gli accidiosi.
Sulla barca di Flegiàs Dante e Virgilio attraversano la palude Stigia.
Filippo Argenti, un fiorentino di parte Nera, si scaglia contro Dante, Virgilio lo respinge.
Scesi dalla bar­ca i due poeti vedono le mura della città di Dite protet­te da diavoli minacciosi che sbarrano le porte.
Dall'alto d'una torre le Erinni, Megera, Alet­to e Tisifone invocano Medusa perché impedisca a Dante il viaggio. Interviene un messo del cielo che apre la por­ta, rimprovera i demoni e permette a Dante e Virgilio di prose­guire.
Entrati, essi si trovano in una campagna coperta di sepolcri infuocati, nei quali sono le anime degli eresiarchi.
Da un sepolcro l'anima di Farinata degli Uber­ti riconosce Dante.

Farinata degli Uberti
«O Tosco[25] che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
 
La tua loquela[26] ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
a la qual forse fui troppo molesto».
 
Subitamente[27] questo suono uscìo
d'una de l'arche; però[28] m'accostai,
temendo, un poco più al duca mio.
 
Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s'è dritto:
da la cintola in sù tutto 'l vedrai».
 
Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s'ergea col petto e con la fronte
com'avesse l'inferno a gran dispitto[29].
 
E l'animose[30] man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte[31]».
 
Com'io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor[32] li maggior tui?».
 
Io ch'era d'ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel'apersi;
ond'ei levò le ciglia un poco in suso[33];
 
poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte[34],
sì che per due fiate li dispersi».
 
«S'ei[35] fur cacciati, ei tornar d'ogne parte»,
rispuos'io lui, «l'una e l'altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell'arte».
 
Allor surse a la vista scoperchiata[36]
un'ombra[37], lungo questa, infino al mento:
credo che s'era in ginocchie levata.
 
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s'altri era meco;
e poi che 'l sospecciar[38] fu tutto spento,
 
piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d'ingegno[39],
mio figlio ov'è? e perché non è teco?».
 
E io a lui: «Da me stesso non vegno[40]:
colui[41] ch'attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».
 
Le sue parole e 'l modo de la pena
m'avean di costui già letto[42] il nome;
però fu la risposta così piena[43].
 
Di subito drizzato gridò: «Come?
dicesti "elli ebbe"? non viv'elli ancora?
non fiere[44] li occhi suoi lo dolce lume?».
 
Quando s'accorse d'alcuna dimora[45]
ch'io facea dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
 
Ma quell'altro magnanimo, a cui posta[46]
restato m'era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa[47]:
 
e sé continuando al primo detto,
«S'elli han quell'arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto[48].
 
Ma non cinquanta[49] volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell'arte pesa.
 
E se tu mai nel dolce mondo regge[50],
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr'a' miei in ciascuna sua legge?».
 
Ond'io a lui: «Lo strazio e 'l grande scempio
che fece l'Arbia[51] colorata in rosso,
tal orazion[52] fa far nel nostro tempio».
 
Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò[53] non fu' io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
 
Ma fu' io solo, là[54] dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto».

Dante e Virgilio riprendono il cammino.
Giunti sul ciglio d'una ripa scoscesa, sento­no esalare dalla valle sottostante un orribile puzzo. I due poeti indugiano e Virgilio espone a Dante l'ordinamento mora­le dell'Inferno.
Procedono poi verso il luogo della di­scesa.
Discesi nel primo girone del settimo cerchio, dopo aver superato il Minotauro, che custodiva l'in­gresso, per un declivio giungono al Flegetonte, fiume di sangue bollente, dove sono immersi i violenti contro il prossimo.
Lungo le rive del fiume corrono i Centauri.
In groppa al Centauro Nesso, che indica alcune ani­me dannate, Dante e Virgilio attraversano il Flegetonte.
Nel secondo girone del settimo cerchio s'ad­dentrano in una selva di alberi spogli e nodosi, tra i qua­li svolazzano le Arpie. Sono le anime dei suicidi tra­mutate in piante.
Da uno di questi arbusti, cui Dante ha spezzato un ramo, gli parla Pier della Vigna, segretario di Federico II, accusato di tradimento e per questo sui­cida.
Dante assiste poi alla pena degli scialacquatori inse­guiti e sbranati da fameliche cagne.
Il terzo girone è una landa sabbiosa battu­ta da una pioggia di fuoco che fiacca i violenti contro Dio, la natura e l'arte. Virgilio riconosce Capaneo.
Spiega poi a Dante l'origine dei fiumi infernali. Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito sono in realtà nomi diversi d'uno stes­so fiume formato dalle lacrime che sgorgano dalla sta­tua d'un vecchio, simbolo del genere umano, collocata in una grotta del monde Ida, e che precipitano attraver­so la roccia nell'Inferno.
Lungo gli argini del Flegetonte Dante riconosce tra i sodomiti Brunetto Latini. Con lui parla dei corrot­ti costumi di Firenze e da lui riceve una seconda predi­zione dell'esilio. Salutando Dante Brunetto gli raccoman­da il suo Trésor.
Tre fiorentini si fanno incontro a Dante: lacopo Rusticucci, Tegghiaio Aldobrandi e Guido Guerra. Con Jacopo parla della triste condizione di Firenze do­ve non esistono più "cortesia e valer".
Dante e Virgilio, giunti nel punto in cui il Flegetonte precipita in basso, vedono sa­lire dal fondo, nuotando per l'aria una figura mostruo­sa. È Gerione simbolo della frode.
Virgilio invita Dante a visitare gli usurai, che si tro­vano sull'orlo del terzo girone. Flagellati anch'essi dal­la pioggia infuocata portano al collo un sacchetto con lo stemma della famiglia. Dante ne riconosce alcune.
Poi con Virgilio, sulle spalle di Gerione, discende nell'abisso in­fernale.
L'ottavo cerchio di pietra livida è Malebolge.
Nella I bolgia sferzati da demoni sono i sedut­tori e i ruffiani. Virgilio gli indica Giasone.
Dal ponte della II bolgia vede immersi nello sterco gli adulatori tra i quali riconosce Alessio Interminelli e Taide.
Nella III bolgia confitti a testa in giù stan­no i simoniaci. Hanno le gambe fuori e le piante dei pie­di bruciate da una fiamma. Dante parla con papa Niccolo III e poi prorompe in un'aspra invettiva contro la cor­ruzione ecclesiastica.
Nella IV bolgia vede la schiera degli indo­vini col capo stravolto all'indietro. Virgilio gli mostra i più famosi ed espone le origini della città di Mantova.
Dal ponte Dante e Virgilio vedono la V bolgia ri­colma di pece bollente dove sono immersi i barattieri cu­stoditi da demoni. Il loro capo Malacoda parlamenta con Virgilio e sceglie dieci dei suoi, comandati da Barbariccia, perché scortino Dante e Virgilio alla VI bolgia.
Scortati dai diavoli, Dante e Virgilio proseguono lun­go il margine della fossa dei barattieri. Uno di essi si ri­volge a Dante. È Ciampolo di Navarra, che gli indica altri dannati. Sfugge ai diavoli che cercano di afferrarlo, due dei quali cadono nella pece bollente.
Dante e Virgilio, che si vedono inseguiti dai diavoli, si precipitano nella VI bolgia e si pongono in salvo. Vi trovano gli ipocriti coperti di pesanti cappe di piombo. Parlano con Loderingo e Catalano, bolognesi frati gau­denti. Dante ne guarda stupito uno crocifisso a terra e Ca­talano gli spiega che si tratta di Caifa, uno dei giudici di Cristo.
Virgilio chiede come sia possibile riprendere la se­rie dei ponti per uscire dalla bolgia e Catalano lo avverte che quello verso il quale sono diretti è rovinato. Virgilio s'accorge così dell'inganno tesogli da Malacoda.
Dante e Virgilio salgono a fatica le macerie del pon­te e raggiungono la VII bolgia.
Qui si trovano i ladri che corrono atterriti in mezzo a una moltitudine di ser­penti.
Un dannato morso da un serpente incenerisce e poi riprende forma di uomo. È il pistoiese Vanni Fucci, che riconosciuto da Dante, si turba d'essere stato visto dal poeta nella condizione di dannato. Irato, gli predi­ce la futura sconfitta dei guelfi bianchi. Vanni Fucci bestemmia Dio con un gesto osceno e il centauro Caco corre a punirlo.
Dall'argine Dante e Virgilio assistono poi alle metamorfosi di dannati ladri fiorentini in serpenti.
Dopo una severa apostrofe a Firenze, al­la quale predice grandi sventure, Dante scende nella VIII bolgia, dove sono i consiglieri fraudolenti vestiti di fiamma. Una delle fiamme è biforcuta e Virgilio spiega che in essa sono puniti Diomede e Ulisse.

Il viaggio di Ulisse
Lo maggior corno[55] della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando

mi diparti' da Circe[56], che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta[57],
prima che sì Enea la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pieta[58]
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dovea Penelopè[59] far lieta,

vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore[60];

ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna[61]
picciola da la qual non fui diserto[62].
L'un lito[63] e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola de' Sardi,
e l'altre che quel mare intorno bagna.

Io e ' compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov'Ercule segnò li suoi riguardi[64],

acciò che l'uom più oltre non si metta:
dalla man destra mi lasciai Sibilia[65],
dall'altra già m'avea lasciato Setta[66].

«O frati», dissi «che per cento milia
perigli[67] siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia[68]

de' nostri sensi ch'è del rimanente,
non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol[69], del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza[70]:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza».

Li miei compagni fec'io sì aguti[71],
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino[72],
dei remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino[73].

Tutte le stelle[74] giù dell'altro polo
vedea la notte e 'l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.

Cinque volte[75] racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,

quando n'apparve una montagna[76],
bruna per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto[77].

Tre volte il fe' girar con tutte l'acque;
la quarta levar[78] la poppa in suso
la prora ire in giù, com'altrui piacque[79],

infin che 'l mar fu sopra noi rinchiuso».

Un'altra fiamma si ferma a parlare. È l'a­nima di Guido da Montefeltro, cui Dante espone le con­dizioni della Romagna. Guido narra di come fosse sta­to indotto nuovamente al peccato da un inganno di Bonifacio VIII, che gli concesse l'assoluzione prima che egli desse il consiglio di frode richiesto.
Dante guarda lo spettacolo della IX bolgia, dove, mutilati dalla spada di un demonio, stanno i se­minatori di discordia. Gli passano davanti Maometto, Pier da Medicina, Mosca dei Lamberti e Bertram dal Bornio.
Dante indugia impietosito al pensiero che nel­la bolgia si trovi lo zio Geri del Bello. Virgilio lo rimprove­ra esortandolo a proseguire.
Giungono al ponte che so­vrasta la X bolgia, dove colpiti da malattie che li deformano stanno i falsari. Parlano con due alchimisti (falsatori di metalli): Griffolino d'Arezzo e Capocchio da Siena.
Irrompono due falsari della persona, rab­biosi, Gianni Schicchi che si finse Buoso dei Donati e Mirra che innamorata del padre si finse un'altra donna.
Dante parla poi con Maestro Adamo, un falsario di mone­ta, che ha il ventre gonfio per l'idropisia. Egli indica a Dante due anime tormentate da una febbre altissima; sono la moglie di Putifarre, accusatrice di Giuseppe, e Sinone. Sinone e Adamo s'azzuffano rinfacciandosi le col­pe e le pene.
Dante e Virgilio passano in silenzio dallo VIII al IX cerchio.
Dante scorge i Giganti, che sporgono con il bu­sto dal pozzo infernale. Vede Nembrot, Fialte, Antèo.
Virgilio prega Antèo di porli nel fondo del pozzo.
II IX cerchio è costituito dalla superfi­cie ghiacciata del lago di Cocito.
Nella prima zona, Caina, si trovano i traditori dei congiunti immersi nel ghiac­cio. Dante parla con Camicione de' Pazzi, che gli mostra i conti di Mangona e profetizza la venuta del congiunto Carlino.
Nella seconda zona, Antenora, Dante trova con Bocca degli Abati molti traditori della patria e vede un dannato che rode il cranio di un altro. 
È il conte Ugolino della Gherardesca, che narra a Dante i particolari della prigionia e della morte sua e dei suoi figli per volontà dell'arcivescovo Ruggeri.

Il conte Ugolino
La bocca sollevò dal fiero pasto       
quel peccator, forbendola[80] a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.

Poi cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli[81]
disperato dolor che 'l cor mi preme
già pur pensando[82], pria ch'io ne favelli.

Ma se le mie parole esser dien[83] seme
che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,
parlar e lagrimar[84] vedrai insieme.

Io non so chi tu se' né per che modo
venuto se' qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand'io t'odo.

Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino[85],
e questi[86] è l'arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal[87] vicino.

Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri[88];

però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s'e' m'ha offeso[89].

Breve pertugio dentro da la Muda[90]
la qual per me[91] ha 'l titol de la fame,
e che conviene[92] ancor ch'altrui si chiuda,

m'avea mostrato per lo suo forame
più lune[93] già, quand'io feci 'l mal sonno
che del futuro mi squarciò 'l velame.

Questi[94] pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ' lupicini al monte[95]
per che i Pisan veder Lucca non ponno.

Con cagne magre, studiose e conte[96]
Gualandi[97] con Sismondi e con Lanfranchi
s'avea messi dinanzi da la fronte[98].

In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ' figli, e con l'agute scane[99]
mi parea lor veder fender li fianchi.

Quando fui desto innanzi la dimane[100],
pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli[101]
ch'eran con meco, e dimandar del pane.

Ben se' crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava[102];
e se non piangi, di che pianger suoli?

Già eran desti, e l'ora s'appressava
che 'l cibo ne solea essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava[103];

e io senti' chiavar[104] l'uscio di sotto
a l'orribile torre; ond'io guardai
nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.

Io non piangea, sì dentro impetrai[105]:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".

Perciò non lacrimai né rispuos'io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l'altro sol nel mondo uscìo.

Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per[106] quattro visi il mio aspetto stesso,

ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch'io 'l fessi[107] per voglia
di manicar, di subito levorsi[108]

e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia".

Queta'mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l'altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t'apristi?

Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
dicendo: ``Padre mio, ché non mi aiuti?''.

Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid'io cascar li tre ad uno ad uno
tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond'io mi diedi,

già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che[109] fur morti.
Poscia, più che 'l dolor[110], poté 'l digiuno».

Quand'ebbe detto ciò, con li occhi torti[111]
riprese 'l teschio misero co'denti,
che furo a l'osso, come d'un can, forti.

Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove 'l sì suona[112],
poi che i vicini[113] a te punir son lenti,

muovasi la Capraia e la Gorgona[114],
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch'elli annieghi in te ogne persona!

Ché se 'l conte Ugolino aveva voce
d'aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.

Innocenti facea l'età novella,
novella Tebe[115], Uguiccione e 'l Brigata
e li altri due che 'l canto suso appella.

Dante passa poi nella Tolomea dove sono i traditori degli ospi­ti e degli amici.
Alberigo Manfredi racconta di sé, di Branca d'Oria e di come in questa zona infernale l'a­nima scenda quando si è ancora vivi mentre un demo­nio s'impossessa del corpo.
Nella Giudecca interamente immersi nel ghiaccio stanno i traditori dei benefattori.
Dante scorge da lontano Lucifero, orribile a vedersi con tre facce e smi­surate ali da pipistrello. Nelle bocche dilania Giuda, Bruto e Cassio. Per un oscuro cammino sotterraneo Dante e Virgilio escono a riveder le stelle.


Il Purgatorio
Per correr miglior acque alza le vele           
omai la navicella[116] del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;

e canterò di quel secondo regno
dove l’umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.

Ma qui la morta poesì[117] resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Caliopè[118] alquanto surga,

seguitando[119] il mio canto con quel suono
di cui le Piche[120] misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.

Dolce color d’oriental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo[121], puro infino al primo giro,

a li occhi miei ricominciò diletto,
tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
che m’avea contristati li occhi e ‘l petto.

Lo bel pianeto[122] che d’amar conforta
faceva tutto rider l’oriente,
velando i Pesci ch’erano in sua scorta.

I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
a l’altro polo[123], e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch’a la prima[124] gente.

Goder pareva ‘l ciel di lor fiammelle:
oh settentrional vedovo sito[125],
poi che privato se’ di mirar quelle!

Com’io[126] da loro sguardo fui partito,
un poco me volgendo a l’altro polo,
là onde il Carro già era sparito,

vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista[127],
che più non dee a padre alcun figliuolo.

Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a’ suoi capelli simigliante,
de’ quai cadeva al petto doppia lista.

Li raggi[128] de le quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch’i’ ‘l vedea come ‘l sol fosse davante.

«Chi siete voi che contro al cieco fiume[129]
fuggita avete la pregione etterna?»,
diss’el, movendo quelle oneste piume[130].

«Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna,
uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna?

Son le leggi d’abisso così rotte?
o è mutato[131] in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte[132]?».

Lo duca mio allor mi diè di piglio,
e con parole e con mani e con cenni
reverenti mi fé[133] le gambe e ‘l ciglio.

Poscia rispuose lui: «Da me non venni:
donna[134] scese del ciel, per li cui prieghi
de la mia compagnia costui sovvenni.

Ma da ch’è tuo voler che più si spieghi
di nostra condizion com’ell’è vera[135],
esser non puote il mio[136] che a te si nieghi.

Questi non vide mai l’ultima sera[137];
ma per la sua follia le fu sì presso,
che molto poco tempo a volger era[138].

Sì com’io dissi, fui mandato ad esso
per lui campare[139]; e non lì era altra via
che questa per la quale i’ mi son messo.

Mostrata ho lui tutta la gente ria;
e ora intendo mostrar quelli spirti
che purgan sé sotto la tua balia

Com’io l’ho tratto, saria lungo a dirti;
de l’alto scende virtù che m’aiuta
conducerlo a vederti e a udirti.

Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertà[140] va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.

Tu[141] ‘l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta[142] ch’al gran dì sarà sì chiara.

Non son li editti etterni per noi guasti,
 ché questi vive, e Minòs me non lega;
ma son del cerchio[143] ove son li occhi casti

di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega.

Lasciane andar per li tuoi sette regni[144];
grazie riporterò di te a lei,
se d’esser mentovato là giù degni[145]».

«Marzia piacque tanto a li occhi miei
mentre ch’i’ fu’ di là[146]», diss’elli allora,
«che quante grazie volse[147] da me, fei.

Or che di là dal mal fiume[148] dimora,
più muover non mi può, per quella legge[149]
che fatta fu quando me n’usci’ fora.

Ma se donna del ciel ti muove e regge,
come tu di’, non c’è mestier lusinghe[150]:
bastisi[151] ben che per lei mi richegge.

Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
d’un giunco[152] schietto e che li lavi ‘l viso,
sì ch’ogne sucidume quindi stinghe;

ché non si converria, l’occhio sorpriso[153]
d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo
ministro, ch’è di quei[154] di paradiso.

Questa isoletta intorno ad imo ad imo[155],
là giù colà dove la batte l’onda,
porta di giunchi sovra ‘l molle limo;

null’altra pianta che facesse fronda
o indurasse[156], vi puote aver vita,
però ch’a le percosse non seconda[157].

Poscia non sia di qua vostra reddita[158];
lo sol vi mosterrà[159], che surge omai,
prendere il monte a più lieve salita[160]».

Così sparì; e io su mi levai
sanza parlare, e tutto mi ritrassi
 al duca mio, e li occhi a lui drizzai.

El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi:
volgianci in dietro, ché di qua dichina
questa pianura a’ suoi termini bassi[161]».

L’alba[162] vinceva l’ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.

Noi andavam per lo solingo piano
com’om che torna a la perduta strada,
che ‘nfino ad essa li pare ire in vano.

Quando noi fummo là ‘ve la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza[163], poco si dirada,

ambo le mani in su l’erbetta sparte
soavemente ‘l mio maestro pose:
ond’io, che fui accorto di sua arte,

porsi ver’ lui le guance lagrimose:
quel color[164] che l’inferno mi nascose.

Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo[165], che di tornar sia poscia esperto.

Quivi mi cinse sì com’altrui piacque:
oh maraviglia! ché qual elli scelse
l’umile pianta, cotal si rinacque

subitamente là onde l’avelse.

Sorge il sole e appare in lontananza la navi­cella dell’angelo nocchiero che trasporta le anime pe­nitenti dopo averle raccolte alla foce del Tevere. Le ani­me si affollano stupite intorno a Dante vivo. Tra queste Dante riconosce Casella, l’amico musico, che gli canta Amar che ne la mente mi ragiona. Tutti sono rapiti dalla dol­cezza del canto. Catone li sollecita a correre al monte per purificarsi.
Dante e Virgilio giungono ai piedi del ripido pendio del monte e scorgono le anime degli scomunicati co­strette a trascorrere nell’Antipurgatorio trenta volte il tempo della scomunica. Dante parla allora con il re Manfredi.

Manfredi
E un di loro incominciò: «Chiunque
tu se’, così andando, volgi ‘l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque[166]».
 
Io mi volsi ver lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un[167] de’ cigli un colpo avea diviso.
 
Quand’io mi fui[168] umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto.
 
Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi[169],
nepote di Costanza[170] imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,
 
vadi a mia bella figlia[171], genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice.
 
Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte[172] mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.
 
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.
 
Se ‘l pastor di Cosenza[173], che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio[174] ben letta questa faccia,
 
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
 
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno[175], quasi lungo ‘l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
 
 Per lor maladizion[176] sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.
 
Vero è che[177] quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,
 
per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzion, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.
 
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto;
 
ché qui[178] per quei di là molto s’avanza».
 
Faticosamente Dante e Virgilio salgono al primo bal­zo. Virgilio spiega a Dante il corso del sole nell’emisfero australe. Poco dopo Dante incontra Belacqua, tra le anime dei ne­gligenti, che in terra tardarono a pentirsi e per questo de­vono attendere nell’Antipurgatorio tanto, quanto il tem­po della loro vita.
Un’altra schiera di anime s’affolla intorno ai due poeti: sono i morti di morte violenta. Qualcuna pre­ga Dante, poiché egli è vivo, di portarne notizia sulla ter­ra. Dante si dichiara pronto a fare ciò. Ha poi un colloquio con Jacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e Pia de’ Tolomei, che narrano la loro triste sorte.
 
Buonconte da Montefeltro e Pia dei Tolomei
Poi disse un altro[179]: «Deh, se quel disio
si compia che ti tragge a l’alto monte,
con buona pietate aiuta il mio!
 
Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna[180] o altri non ha di me cura;
per ch’io vo tra costor con bassa fronte».
 
E io a lui: «Qual forza o qual ventura
ti traviò[181] sì fuor di Campaldino,
 che non si seppe mai tua sepultura?».
 
«Oh!», rispuos’elli, «a piè del Casentino[182]
traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino
 
Là ‘ve ‘l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
 
Quivi perdei la vista e la parola
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
 
Io dirò vero e tu ‘l ridì tra ‘ vivi:
l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno[183]
gridava: "O tu del ciel, perché mi privi?
 
Tu te ne porti di costui l’etterno[184]
per una lagrimetta che ‘l mi toglie;
ma io farò de l’altro[185] altro governo!".
 
Ben sai[186] come ne l’aere si raccoglie
quell’umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove ‘l freddo il coglie.
 
 Giunse[187] quel mal voler che pur mal chiede
con lo ‘ntelletto, e mosse il fummo e ‘l vento
per la virtù che sua natura diede.
 
Indi la valle, come ‘l dì fu spento,
da Pratomagno[188] al gran giogo coperse
di nebbia; e ‘l ciel di sopra fece intento[189],
 
sì che ‘l pregno aere in acqua si converse;
pioggia cadde e a’ fossati venne
di lei ciò che la terra[190] non sofferse;
 
come ai rivi grandi si convenne,
ver’ lo fiume real[191] tanto veloce
si ruinò, che nulla la ritenne.
 
Lo corpo mio gelato in su la foce
trovò l’Archian rubesto[192]; e quel sospinse
ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce[193]
 
ch’i’ fe’ di me quando ‘l dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse».
 
«Deh, quando tu sarai tornato al mondo,
e riposato de la lunga via»,
seguitò ‘l terzo spirito al secondo,
 
«ricorditi di me, che son la Pia[194]:
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi[195] colui che ‘nnanellata pria
 
disposando m’avea con la sua gemma».
 
Le anime continuano a far ressa intorno a Dante e a chiedere suffragi. Dante promette e Virgilio spiega l’effica­cia della preghiera. 
Un’anima è in disparte, si tratta del poeta mantovano Sordello.
 
Sordello e l’invettiva all’Italia
Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!
 
Ella non ci dicea alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.
 
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,
 
ma di nostro paese e de la vita
ci ‘nchiese; e ‘l dolce duca incominciava
«Mantua...», e l’ombra, tutta in sé romita[196],
 
surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello[197]
de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.
 
Ahi serva Italia, di dolore ostello[198],
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna[199] di province, ma bordello!
 
Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin[200] suo quivi festa;
 
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei[201] ch’un muro e una fossa serra.
 
Cerca, misera, intorno da le prode[202]
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.
 
Che val[203] perché ti racconciasse il freno
Iustiniano, se la sella è vota?
Sanz’esso fora la vergogna meno.
 
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare[204] in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
 
guarda come esta fiera[205] è fatta fella[206]
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella[207].
 
O Alberto tedesco[208] ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
 
giusto giudicio[209] da le stelle caggia
sovra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia!
 
Ch’avete[210] tu e ‘l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto.
 
Dopo aver saputo da Virgilio le ragioni del viag­gio, Sordello guida i due poeti in una valletta fiorita che ospita i principi negligenti. Indica Rodolfo d’Asburgo, Ottocaro II di Boemia, Filippo II di Francia, Enrico I di Navarra, Pietro III d’Aragona, Carlo I d’Angiò, Enrico III d’Inghilterra, Guglielmo VII marchese di Monferrato.
Al tramonto le anime pregano e attendono l’arrivo di due angeli custodi contro la tentazione. 
Con Sordello Dante e Virgilio scendono nella valletta e Dante riconosce l’amico Nino Visconti, giudice in Sardegna. S’avvici­na Corrado Malaspina. Dante tesse un elogio della famiglia Malaspina e Corrado gli profetizza che presto avrà prova della veridicità di tale opinione. 

Nella valletta dei principi
Era già l’ora[211] che volge il disio                         
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio;
 
e che lo novo peregrin[212] d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia[213] il giorno pianger che si more;
 
quand’io incominciai a render vano[214]
l’udire e a mirare una de l’alme
surta, che l’ascoltar chiedea con mano.
 
Ella giunse e levò ambo le palme,
ficcando li occhi verso l’oriente,
come dicesse a Dio: "D’altro non calme[215]".
 
"Te lucis ante[216]" sì devotamente
le uscìo di bocca e con sì dolci note,
che fece me a me uscir di mente;
 
e l’altre poi dolcemente e devote
seguitar lei per tutto l’inno intero,
avendo li occhi a le superne rote[217].

[…]

E Sordello anco: «Or avvalliamo[218] omai
tra le grandi ombre, e parleremo ad esse;
grazioso fia lor vedervi assai».
 
Solo tre passi[219] credo ch’i’ scendesse,
e fui di sotto, e vidi un che mirava
pur me[220], come conoscer mi volesse.
 
Temp’era già che l’aere s’annerava,
ma non sì che tra li occhi suoi e ‘ miei
non dichiarisse[221] ciò che pria serrava.
 
Ver’ me si fece, e io ver’ lui mi fei:
giudice Nin[222] gentil, quanto mi piacque
quando ti vidi non esser tra ‘ rei!
 
Nullo bel salutar tra noi si tacque;
poi dimandò: «Quant’è che tu venisti
a piè del monte per le lontane acque?».
 
«Oh!», diss’io lui, «per entro i luoghi tristi[223]
venni stamane, e sono in prima vita[224],
ancor che l’altra, sì andando, acquisti».
 
E come fu la mia risposta udita,
Sordello ed elli in dietro si raccolse
come gente di sùbito smarrita.
 
L’uno a Virgilio e l’altro a un si volse
che sedea lì, gridando:«Sù, Currado[225]!
vieni a veder che Dio[226] per grazia volse».
 
Poi, vòlto a me: «Per quel singular grado[227]
che tu dei a colui che sì nasconde
lo suo primo perché[228], che non lì è guado,
 
quando sarai di là[229] da le larghe onde,
dì a Giovanna[230] mia che per me chiami
là dove a li ‘nnocenti si risponde.
 
Non credo che la sua madre[231] più m’ami,
poscia che trasmutò le bianche bende,
le quai convien che, misera!, ancor brami.
 
Per lei assai di lieve si comprende
quanto in femmina foco d’amor dura,
se l’occhio o ‘l tatto spesso non l’accende.
 
Non le farà sì bella sepultura
la vipera[232] che Melanesi accampa,
com’avria fatto il gallo di Gallura».
 
Così dicea, segnato de la stampa,
nel suo aspetto, di quel dritto zelo[233]
che misuratamente in core avvampa.

[…]
 
L’ombra[234] che s’era al giudice raccolta
quando chiamò, per tutto quello assalto
punto non fu[235] da me guardare sciolta.
 
«Se la lucerna[236] che ti mena in alto
truovi nel tuo arbitrio tanta cera
quant’è mestiere infino al sommo smalto»,
 
cominciò ella, «se novella vera
di Val di Magra o di parte vicina
sai, dillo a me, che già grande là era.
 
Fui chiamato Currado Malaspina;
non son l’antico, ma di lui discesi;
a’ miei portai l’amor che qui raffina».
 
«Oh!», diss’io lui, «per li vostri paesi
già mai non fui; ma dove si dimora
per tutta Europa ch’ei non sien palesi?
 
La fama che la vostra casa onora,
grida i segnori e grida la contrada,
sì che ne sa chi non vi fu ancora;
 
e io vi giuro, s’io di sopra vada,
che vostra gente onrata non si sfregia[237]
del pregio de la borsa e de la spada.
 
Uso e natura sì la privilegia,
che, perché[238] il capo reo il mondo torca,
sola va dritta e ‘l mal cammin dispregia».
 
Ed elli: «Or va[239]; che ‘l sol non si ricorca
sette volte nel letto che ‘l Montone
con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,
 
che cotesta cortese oppinione
ti fia chiavata in mezzo de la testa
con maggior chiovi che d’altrui sermone,
 
se corso di giudicio non s’arresta».

Dante, Virgilio, Sordello, Nino e Corrado, si addor­mentano.
All’alba Dante sogna di essere rapito da un’aquila sino alla sfera del fuoco.
Al risveglio non è più nella val­letta e gli è accanto solo Virgilio, che spiega il significato del sogno: santa Lucia ha condotto Dante fino alla porta del Purgatorio, qui l’angelo portiere incide sulla fronte di Dante sette P, che egli laverà risalendo la montagna.
Dante e Virgilio salgono nella prima cornice, dove espiano il peccato le anime dei superbi. Curvi sotto pe­santissimi macigni guardano scolpiti a terra esempi di umiltà: l’Annunciazione alla Vergine, la traslazione del­l’Arca Santa, l’imperatore Traiano che ascolta il pian­to d’una vedova.
I superbi intonano il Pater Noster. Si avvici­nano Omberto Aldobrandeschi, il miniatore Oderisi da Gubbio e Provenzan Salvani. Con i loro racconti invi­tano Dante a riflettere sulla vanità della gloria umana.

O vana gloria delle umane posse
Oh vana gloria de l’umane posse!
com’poco verde in su la cima dura,
se non è giunta[240] da l’etati grosse!
 
Credette Cimabue[241] ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura:
 
così ha tolto l’uno a l’altro Guido[242]
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.
 
Non è il mondan romore[243] altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.
 
Che voce[244] avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il "pappo" e ‘l "dindi"[245],
 
pria che passin mill’anni? ch’è più corto
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto.
 
Colui che del cammin sì poco piglia[246]
dinanzi a me, Toscana sonò tutta[247];
e ora a pena in Siena[248] sen pispiglia,
 
ond’era sire quando fu distrutta[249]
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com’ora è putta.
 
La vostra nominanza è color d’erba,
che viene e va, e quei[250] la discolora
per cui ella esce de la terra acerba».
 
Lasciata la schiera di anime, Dante osserva sul pavimento e sulla parete i bassorilievi con gli esempi di superbia: Lucifero, Briareo, i Giganti, Nembrot, Niobe, Saul, Aracne, Roboamo, Erifile, Sennacherib, Ciro, Oloferne e la città di Troia. L’angelo dell’umiltà cancella una P dalla fronte di Dante e i due poeti salgono per una ri­pida scala.
Nella seconda cornice sono le anime degli invidiosi, che vestiti d’un saio e con gli occhi cuciti dal fil di ferro ascoltano voci aeree che narrano esempi di carità e invidia punita. Dante incontra la senese Sapia, a tal punto rosa dell’invidia d’aver desiderato la sconfitta dei suoi concittadini.
Un’altra anima, Guido del Duca, si rivolge a Dante e gli presenta Rinieri da Calboli. Guido e Dante de­plorano la corruzione morale degli abitanti delle loro ter­re, la Val d’Arno e la Romagna, dove sono scomparsi i valori d’un tempo.
Dante e Virgilio sono illuminati dalla luce dell’ange­lo della misericordia che li invita a salire e cancella dal­la fronte del poeta un’altra P. 
Mentre salgono alla terza cornice a Dante appaiono visioni di mansuetudine.
Nella terza cornice, dove sono gli iracon­di, i due poeti procedono attraverso un fitto fumo che punge gli occhi. Tra le anime espianti che intonano l’Agnus Dei, una dichiara di essere Marco Lombardo. Spie­ga la teoria del libero arbitrio e a Dante, che è tormentato dal desiderio di conoscere la causa della corruzione del mondo, risponde che questa va ricercata nella cattiva con­dotta di papi e imperatori.

Ed è giunta la spada col pasturale
Soleva Roma, che ‘l buon mondo feo,
due soli[251] aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
 
L’un l’altro ha spento; ed è giunta[252] la spada
col pasturale, e l’un con l’altro insieme
per viva forza mal convien che vada;
 
però che, giunti, l’un l’altro non teme:
se non mi credi, pon mente a la spiga[253],
ch’ogn’erba si conosce per lo seme.
 
In sul paese[254] ch’Adice e Po riga,
solea valore e cortesia trovarsi,
prima che Federigo[255] avesse briga;
 
or può[256] sicuramente indi passarsi
per qualunque lasciasse, per vergogna
di ragionar coi buoni o d’appressarsi.
[…]
Dì oggimai che la Chiesa di Roma,
per confondere in sé due reggimenti,
cade nel fango e sé brutta e la soma[257]».

Usciti dal fumo Dante e Virgilio vedono esempi d’ira punita. L’angelo della mansuetudine cancella un’al­tra P.
Mentre salgono alla quarta cornice Virgilio spiega l’or­dinamento morale del Purgatorio. 
Nella quarta cornice sono gli accidiosi, co­stretti a correre. Due di essi gridano esempi di solleci­tudine, mentre l’abate di San Zeno indica la via verso la quinta cornice.
Uditi esempi di accidia punita Dante si addormenta e sogna. Sogna una donna brutta e deforme che al suo sguardo diventa una bellissima sirena. Virgilio le strap­pa le vesti e dal ventre emana un fetido odore che sve­glia Dante.
L’angelo della sollecitudine cancella la quarta P.
Mentre salgono, Virgilio spiega che la sirena del sogno sim­boleggia la cupidigia dei beni materiali che si espia nel­le tre cornici rimanenti (avarizia, gola, lussuria).
Nella quinta cornice sono le anime degli avari e prodighi, boc­coni per terra con piedi e mani legati.
Dante parla con pa­pa Adriano V.
Un’anima grida esempi di povertà e libera­lità. È Ugo Capeto, che nel colloquio con Dante biasima gli ultimi discendenti dei Capetingi, da Carlo di Valois a Fi­lippo il Bello, che peccheranno per brama di ricchezze.
Un terremoto scuote la montagna.
Le anime intonano il Gloria.
Uno spirito spiega che il terremoto avvie­ne ogni qual volta un’anima si sente monda e pronta a salire al Paradiso. Così egli si sente per aver scontata la colpa. Dichiara di essere il poeta Stazio vissuto, a Ro­ma sotto l’imperatore Tito, e si rammarica di non esse­re vissuto al tempo di Virgilio, che considera un maestro.
Dante, al quale l’angelo della giustizia cancella un’altra P, segue Virgilio e Stazio, che spiega di essere rima­sto nella V cornice a causa del peccato di prodigalità. Dice inoltre che la lettura della IV Egloga di Virgilio lo ha avvicinato al Cristianesimo. Chiede poi a Virgilio notizie di grandi poeti latini e viene a sapere che si trovano nel Limbo.
I poeti giungono alla VI cornice. Da uno stra­no albero risuonano esempi di temperanza.
Sotto l’albero carico di frutti e vicino a una sorgente d’acqua si affollano i golosi, magri, affamati e assetati. Tra loro Dante riconosce l’amico Forese Dona­ti, che esalta la moglie Nella e biasima la corruzione del­le donne fiorentine.

Il dolce stil novo
Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
"Donne ch’avete[258] intelletto d’amore"».
 
E io a lui: «I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto[259], e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando[260]».
 
«O frate, issa[261] vegg’io», diss’elli, «il nodo[262]
che ‘l Notaro[263] e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!
 
Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator[264] sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne;
 
e qual[265] più a gradire oltre si mette,
non vede più da l’uno a l’altro stilo»;
e, quasi contentato, si tacette.
 
Gli spiriti penitenti sono divisi in due schiere opposte, sodomiti e lussuriosi, che, quando s’in­contrano, s’abbracciano e baciano gridando esempi di lussuria punita. Tra i sodomiti Dante incontra Guido Guinizelli, al quale manifesta affetto. Guinizelli gli indi­ca Arnaldo Daniello, definendolo il miglior poeta in lin­gua romanza. Arnaldo si avvicina a Dante e in provenzale gli chiede di pregare per lui.
L’angelo della castità invita i poeti a pe­netrare nel fuoco e cancella l’ultima P. 
I poeti giungo­no così alla scala. È sera, si fermano e si addormenta­no. 
All’alba Dante sogna una donna giovane e bella che rac­coglie fiori e dice di essere Lia. 
Al risveglio Virgilio gli dice che egli è ormai pronto a salire. 
Giunti alla sommità della scala Virgilio comunica a Dante che il suo compito è finito. Dante è ormai padrone di se stesso e deve attendere l’arrivo di Beatrice.
Dante si addentra nella divina foresta del­l’Eden. Giunge presso il Lete e qui scorge una bella don­na che coglie fiori, Matelda. 
Ella spiega a Dante la presenza del vento e dell’acqua. Il vento è dovuto al movimento dei cieli, l’acqua scaturisce per volere divino da una sor­gente perenne e forma il Lete, che cancella il ricordo del peccato, e l’Eunoé, che fa ricordare il bene compiuto.
Procedono lungo il Lete e dopo un’im­provvisa luce appare una mistica processione. Sette can­delabri d’oro lasciano dietro di sé scie luminose. Que­ste avvolgono ventiquattro seniori vestiti di bianco. Se­guono quattro animali simili a quelli visti dal profeta Ezechiele e tra questi un carro trionfale trainato da un grifone. Accanto alla ruota destra avanzano tre donne, accanto alla sinistra quattro. Sette personaggi seguono il carro. La processione si arresta davanti a Dante.
Mentre i seniori cantano Veni sponsa de Li­bano, appare Beatrice e scompare Virgilio. Dante piange e Bea­trice lo rimprovera aspramente. Gli angeli manifestano compassione per lui.
Beatrice invita Dante a confessare la ragione del traviamento ed egli ammette di aver seguito dopo la morte di lei falsi allettamenti. Guardandola, così bella e luminosa, Dante si pente e per l’emozione sviene. 
Matelda lo immerge nel Lete, lo costringe a bere poi lo condu­ce davanti a Beatrice.
La processione torna verso oriente. 
Dante, Matelda e Stazio la seguono, finché tutti si fermano presso l’albero spoglio di Adamo al quale il grifone le­ga il carro. Immediatamente l’albero rinverdisce, men­tre tutti intonano un inno. 
Dante cade addormentato. 
Al ri­sveglio vede Beatrice seduta presso l’albero circonda­ta da sette donne con i sette candelabri. Il grifone e il resto della processione salgono al cielo. Un’aquila piomba sul carro e una volpe si avventa sul fondo di es­so. Beatrice la scaccia. 
La terra si apre sotto le ruote del carro e ne esce un drago che toglie una parte del fondo del carro, che si ricopre delle penne dell’aquila. Il car­ro si trasforma in un mostro con sette teste e dieci cor­na. Su di esso un gigante flagella una meretrice, scioglie il carro e lo trascina nella selva.
Beatrice profetizza a Dante l’arrivo di un personaggio che ucciderà la meretrice e il gigante e esorta Dante a riferire ciò che ha visto agli uomini. Poi invita il poeta a bere l’acqua dell’Eunoé.
Ora egli è puro e di­sposto a salire a le stelle.
Dante Paradiso
Canto I
La gloria di colui che tutto move[266]                             
per l'universo penetra, e risplende
n una parte più e meno altrove.
 
Nel ciel[267] che più de la sua luce prende                       
fu' io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
 
perché appressando sé al suo disire[268],                                                        
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
 
Veramente quant'io del regno santo[269]                                        
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.
 
O buono Appollo, a l'ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,                                 
come dimandi[270] a dar l'amato alloro.                                          
 
Infino a qui l'un giogo[271] di Parnaso                                            
assai mi fu; ma or con amendue
m'è uopo intrar ne l'aringo rimaso.
 
Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsia[272] traesti                                                  
de la vagina de le membra sue.
 
O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l'ombra[273] del beato regno                                            
segnata nel mio capo io manifesti,
 
vedra'mi al piè del tuo diletto legno[274]                         
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.
 
Sì rade volte, padre, se ne coglie
per triunfare[275] o cesare o poeta,                                   
colpa e vergogna de l'umane voglie,
 
che parturir letizia in su la lieta
delfica[276] deità dovria la fronda
peneia[277], quando alcun di sé asseta.
 
Poca favilla[278] gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra[279] risponda.
 
Surge ai mortali per diverse foci[280]
la lucerna del mondo[281]; ma da quella
che quattro cerchi[282] giugne con tre croci,
 
con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella[283].
 
Fatto avea di là[284] mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
quello emisperio, e l'altra parte nera,
 
quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aquila[285] sì non li s'affisse unquanco.
 
E sì come secondo raggio[286] suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole,
 
così de l'atto suo, per li occhi infuso
ne l'imagine mia, il mio[287] si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr'uso.
 
Molto è licito là, che qui non lece[288]
a le nostre virtù, mercé del loco[289]
fatto per proprio de l'umana spece.
 
Io nol soffersi molto, né sì poco,
ch'io nol vedessi sfavillar dintorno,
com'ferro che bogliente[290] esce del foco;
 
e di sùbito parve giorno a giorno[291]
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d'un altro sole addorno.
 
Beatrice tutta ne l'etterne rote[292]
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote[293].
 
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco[294] nel gustar de l'erba
che 'l fé consorto in mar de li altri dèi.
 
Trasumanar[295] significar *per verba*
non si poria; però l'essemplo basti
a cui[296] esperienza grazia serba.
 
S'i' era sol di me quel che creasti[297]
novellamente, amor che 'l ciel governi,
tu 'l sai, che col tuo lume mi levasti.
 
Quando la rota[298] che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso[299]
con l'armonia che temperi e discerni,
 
parvemi tanto allor del cielo[300] acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
 
La novità del suono e 'l grande lume
di lor cagion m'accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume.
 
Ond'ella, che vedea me sì com'io[301],
a quietarmi l'animo commosso,
pria ch'io a dimandar, la bocca aprio,
 
e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso[302]
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l'avessi scosso[303].
 
Tu non se' in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
non corse come tu ch'ad esso riedi[304]».
 
S'io fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
dentro ad un nuovo più fu' inretito,
 
e dissi: «Già contento *requievi[305]*
di grande ammirazion; ma ora ammiro[306]
com'io trascenda questi corpi levi[307]».
 
Ond'ella, appresso d'un pio sospiro,
li occhi drizzò ver' me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro[308],
 
e cominciò: «Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma[309]
che l'universo a Dio fa simigliante.
 
Qui[310] veggion l'alte creature l'orma
de l'etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
 
Ne l'ordine ch'io dico sono accline[311]
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
 
onde si muovono a diversi porti[312]
per lo gran mar de l'essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.
 
Questi[313] ne porta il foco inver' la luna;
questi ne' cor mortali è permotore[314];
questi la terra in sé stringe e aduna[315];
 
né pur[316] le creature che son fore
d'intelligenza quest'arco saetta
ma quelle c'hanno intelletto e amore.
 
La provedenza, che cotanto assetta[317],
del suo lume fa 'l ciel[318] sempre quieto
nel qual si volge quel c'ha maggior fretta;
 
e ora lì[319], come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda[320]
che ciò che scocca drizza in segno lieto.
 
Vero è che, come forma non s'accorda
molte fiate a l'intenzion de l'arte,
perch'a risponder la materia è sorda,
 
così da questo corso[321] si diparte
talor la creatura, c'ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte;
 
e sì come veder si può cadere
foco di nube[322], sì l'impeto primo
l'atterra torto da falso piacere.
 
Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d'un rivo
se d'alto monte[323] scende giuso ad imo.
 
Maraviglia sarebbe in te se, privo
d'impedimento, giù ti fossi assiso,
com'a terra[324] quiete in foco vivo».
 
Quinci rivolse inver' lo cielo il viso.
 
Canto III
Quel sol[325] che pria d'amor mi scaldò 'l petto,
di bella verità m'avea scoverto,
provando e riprovando[326], il dolce aspetto;
 
e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva' il capo a proferer[327] più erto;
 
ma visione apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.
 
Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi[328],
 
tornan d'i nostri visi le postille[329]
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte[330] a le nostre pupille;
 
tali vid'io più facce a parlar pronte;
per ch'io dentro a l'error contrario[331] corsi
a quel ch'accese amor tra l'omo e 'l fonte.
 
Sùbito sì com'io di lor m'accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;
 
e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.
 
«Non ti maravigliar perch'io sorrida»,
mi disse, «appresso il tuo pueril coto[332],
poi[333] sopra 'l vero ancor lo piè non fida,
 
ma te rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi,
qui rilegate per manco di voto[334].
 
Però parla con esse e odi e credi;
ché la verace luce che li appaga
da sé non lascia lor torcer li piedi».
 
E io a l'ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza'mi, e cominciai,
quasi com'uom cui troppa voglia smaga[335]:
 
«O ben creato spirito, che a' rai
di vita etterna la dolcezza senti
che, non gustata, non s'intende mai,
 
grazioso[336] mi fia se mi contenti
del nome tuo e de la vostra sorte».
Ond'ella, pronta e con occhi ridenti:
 
«La nostra carità non serra porte[337]
a giusta voglia, se non[338] come quella
che vuol simile a sé tutta sua corte.
 
I' fui nel mondo vergine sorella[339];
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l'esser più bella[340],
 
ma riconoscerai ch'i' son Piccarda[341],
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda[342].
 
Li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer[343] de lo Spirito Santo,
letizian[344] del suo ordine formati.
 
E questa sorte che par giù cotanto[345],
però n'è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti[346] in alcun canto».
 
Ond'io a lei: «Ne' mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da' primi concetti[347]:
 
però non fui a rimembrar festino[348];
ma or m'aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m'è più latino[349].
 
Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere[350] e per più farvi amici?».
 
Con quelle altr'ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch'arder parea[351] d'amor nel primo foco:
 
«Frate, la nostra volontà quieta
virtù di carità[352], che fa volerne
sol quel ch'avemo, e d'altro non ci asseta.
 
Se disiassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne[353];
 
che vedrai non capere[354] in questi giri,
s'essere in carità è qui *necesse*,
e se la sua natura ben rimiri.
 
Anzi è formale[355] ad esto beato *esse*
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch'una fansi nostre voglie stesse;
 
sì che, come noi sem di soglia in soglia[356]
per questo regno, a tutto il regno piace
com'a lo re che 'n suo voler ne 'nvoglia[357].
 
E 'n la sua volontade è nostra pace:
ell'è quel mare al qual tutto si move
ciò ch'ella cria[358] o che natura face».
 
Chiaro mi fu allor come ogne dove[359]
in cielo è paradiso, *etsi* la grazia
del sommo ben d'un modo non vi piove.
 
Ma sì com'elli avvien, s'un cibo sazia
e d'un altro rimane ancor la gola,
che quel si chere[360] e di quel si ringrazia,
 
così fec'io con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela[361]
onde non trasse infino a co la spuola.
 
«Perfetta vita e alto merto inciela[362]
donna[363] più su», mi disse, «a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
 
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo[364] ch'ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.
 
Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggi'mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta[365].
 
Uomini[366] poi, a mal più ch'a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi[367].

Canto XI vv 28-75.
La provedenza, che governa il mondo
con quel consiglio[368] nel quale ogne aspetto
creato è vinto pria che vada al fondo,

però[369] che andasse ver’ lo suo diletto
la sposa di colui ch’ad alte grida[370]
disposò lei col sangue benedetto,

in sé sicura e anche a lui più fida,
due principi[371] ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida.

L’un[372] fu tutto serafico in ardore;
l’altro[373] per sapienza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.

De l’un dirò, però che d’amendue
si dice l’un pregiando, qual ch’om prende,
perch’ad un fine fur l’opere sue[374].

Intra Tupino[375] e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende,

onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.

Di questa costa, là dov’ella frange[376]
più sua rattezza, nacque al mondo un sole[377],
come fa questo tal volta di Gange[378].

Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi[379], ché direbbe corto,
ma Oriente, se proprio dir vuole.

Non era ancor molto lontan da l’orto[380],
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto;

ché per tal donna[381], giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra;

e dinanzi a la sua spirital corte[382]
et coram patre[383] le si fece unito;
poscia di dì in dì l’amò più forte.

Questa, privata del primo marito[384],
millecent’anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito[385];

né valse udir che la trovò sicura
con Amiclate, al suon de la sua voce,
colui[386] ch’a tutto ’l mondo fé paura;

né valse esser costante né feroce[387],
sì che, dove[388] Maria rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce.

Ma perch’io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi[389] oramai nel mio parlar diffuso.

Canto XVII
«La contingenza[390], che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno:
 
necessità[391] però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende.
 
Da indi[392], sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti s'apparecchia.
 
Qual si partio Ipolito[393] d'Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.
 
Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo[394] tutto dì si merca.
 
La colpa seguirà[395] la parte offensa
in grido, come suol; ma la vendetta
fia testimonio al ver che la dispensa[396].
 
Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l'arco de lo essilio pria saetta.
 
Tu proverai[397] sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.
 
E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia[398] malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle;
 
che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr'a te; ma, poco appresso,
ella, non tu, n'avrà rossa la tempia[399].
 
Di sua bestialitate il suo processo[400]
farà la prova; sì ch'a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.
 
Lo primo tuo refugio e 'l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo[401]
che 'n su la scala porta il santo uccello;
 
ch'in te avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che[402] tra li altri è più tardo.
 
Con lui vedrai colui[403] che 'mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l'opere sue.
 
Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni[404]
son queste rote intorno di lui torte;
 
ma pria[405] che 'l Guasco l'alto Arrigo inganni,
parran[406] faville de la sua virtute
in non curar d'argento né d'affanni.
 
Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ' suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute.
 
A lui t'aspetta[407] e a' suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;
 
e portera'ne scritto ne la mente
di lui, e nol dirai»; e disse cose
incredibili a quei[408] che fier presente.
 
Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose[409]
di quel che ti fu detto; ecco le 'nsidie
che dietro a pochi giri[410] son nascose.
 
Non vo' però ch'a' tuoi vicini[411] invidie,
poscia che s'infutura la tua vita
vie più là[412] che 'l punir di lor perfidie».
 
Poi che, tacendo, si mostrò spedita[413]
l'anima santa di metter la trama
in quella tela ch'io le porsi ordita,
 
io cominciai, come colui che brama,
dubitando, consiglio da persona
che vede e vuol dirittamente e ama:
 
«Ben veggio, padre mio, sì come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, ch'è più grave a chi più s'abbandona;
 
per che di provedenza è buon ch'io m'armi,
sì che, se loco m'è tolto più caro,
io non perdessi[414] li altri per miei carmi.
 
Giù per lo mondo sanza fine amaro,
e per lo monte del cui bel cacume[415]
li occhi de la mia donna mi levaro,
 
e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s'io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume[416];
 
e s'io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro[417]
che questo tempo chiameranno antico».
 
La luce in che rideva il mio tesoro
ch'io trovai lì, si fé prima corusca[418],
quale a raggio di sole specchio d'oro;
 
indi rispuose: «Coscienza fusca[419]
o de la propria o de l'altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.
 
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua vision fa manifesta;
e lascia[420] pur grattar dov'è la rogna.
 
Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
 
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò[421] non fa d'onor poco argomento.
 
Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur[422] l'anime che son di fama note,
 
che l'animo di quel ch'ode, non posa[423]
né ferma fede per essempro ch'aia
la sua radice incognita e ascosa,
 
né per altro argomento che non paia».




[1] che 'nsieme vanno: soli tra i peccatori trascinati dalla bufera, Paolo e Francesca sono uniti per l'eternità. Francesca da Polenta, moglie di Gianciotto Malatesta, signore di Rimini, uomo deforme e zoppo, amò il fratello di questi, Paolo. Gianciotto vendicò il suo onore, uccidendoli entrambi.
[2] per quello amor che i mena: in nome di quell'amore che li ha perduti e che li conduce ancora uniti nella violenta bufera.
[3] s'altri nol niega: se l'imperscrutabile potenza divina non lo vieta.
[4] cotali uscir: similmente uscirono dalla schiera ove è Didone.
[5] l'affettuoso grido: il vocativo " O anime affannate " del v. 80.
[6] O animal grazioso: o creatura cortese.
[7] perso: è un colore "misto di purpureo e di nero ma vince lo nero, e da lui si dinomina" (Conv. IV, XX, 2).
[8] Ci tace: Paolo e Francesca si trovano momentaneamente al di fuori della bufera infernale (cfr. v. 45 e n.).
[9] Su la marina: Francesca nacque a Ravenna, città sita presso la foce ove sbocca il Po con i suoi affluenti ("seguaci sui").
[10] Ratto s'apprende: fa rapida presa. È immagine stilnovista, cara a Guinizelli e a Dante stesso (cfr. V.N. XX)
[11] e'l modo: la morte violenta che non le permise di pentirsi.
[12] Amor: l'amore che non consente a nessuno che sia amato di non riamare.
[13] Del costui piacer: della bellezza di questi.
[14] Ad una morte: a morire insieme.
[15] Caina: è la parte del nono cerchio dell'Inferno dove sono dannati i traditori dei parenti.
[16] Offense: offese, cioè colpite prima dalla travolgente passione, poi dalla fatale tragedia.
[17] Oh lasso: espressione di doloroso rammarico: ohimé!
[18] Quanto disìo: quanto desiderio condusse costoro al tragico passaggio dalla vita alla morte eterna.
[19] Tristo e pio: mi rendono ("mi fanno") triste e pietoso, tanto da piangere ("a lagrimar").
[20] I dubbiosi disiri?: l'amore, che ancor non si era rivelato.
[21] E ciò sa: anche Virgilio è passato dal "tempo felice" all'infelicità ("miseria"); abita, infatti, il Limbo.
[22] Affetto: desiderio di conoscere il primo manifestarsi ("la prima radice"). Tutta l'espressione è d'ispirazione virgiliana (cfr. En., II, 10).
[23] Lancialotto: Lancillotto, cavaliere della Tavola Rotonda, innamorato della regina Ginevra, moglie di re Artù, è il protagonista del "Lancelot du Lac", romanzo francese del sec. XII: In esso si legge che Ginevra fu indotta a baciare il suo cavaliere dal principe Galeotto, che fungeva da mezzano. Ciò spiega il v.137.
[25] O Tosco: o toscano.
[26] Loquela: accento
[27] Subitamente: improvvisamente questa voce proruppe.
[28] però: perciò.
[29] a gran dispitto: in dispregio (cfr. c. IX, 91).
[30] l'animose: incoraggianti, soccorrevoli.
[31] conte: cognite, cioè chiare e non avventate (cfr. c. III, 76).
[32] Chi fuor...?: da quali antenati discendi?
[33] in suso: in alto. Cioè corrugò la fronte, nell'atto di ricordare.
[34] e a miei primi e a mia parte: ai miei antenati e al mio partito, si che li cacciai per due volte ("due fiate"). Manente, detto Farinata, appartenne alla famiglia fiorentina degli Uberti e fu il baluardo del partito ghibellino; contribuì alla cacciata dei Guelfi nel 1248 e nel 1260 (battaglia di Montaperti).
[35] S'ei: se essi furono cacciati, tornarono però dopo entrambe le sconfitte: e cioè nel 1251 e nel 1266. Ma i Ghibellini ("i vostri") non riuscirono a tornare più: infatti, dopo la Pasqua del 1267 persero ogni autorità politica e gli Uberti non furono più riammessi in città, neppure dopo la pacificazione del 1280.
[36] A la vista scoperchiata: all'apertura della tomba il cui coperchio era sollevato. "Vista" equivale a finestra (cfr. Purg. c. IX, 67).
[37] Un'ombra: è lo spirito di Cavalcante Cavalcanti, padre di Guido, poeta e amico di Dante.
[38] 'l sospecciar: il sospettare, nel senso etimologico di guardare dal basso in alto (cfr. lat. subspicere).
[39] per altezza d'ingegno: per meriti intellettuali.
[40] Da me stesso non vegno: non vengo per mio merito; c'è stato, infatti, l'intervento delle tre donne benedette.
[41] Colui: Virgilio rappresenta la ragione umana illuminata dalla verità rivelata. E la Rivelazione, invece, disdegnò Guido Cavalcanti che, come il padre, aveva fama di epicureo.
[42] Letto: rivelato.
[43] Piena: decisa.
[44] Fiere: ferisce, colpisce i suoi occhi la dolce luce ("dolce lume") del sole?
[45] Dimora: indugio, esitazione.
[46] A cui posta: a richiesta del quale mi ero arrestato (cfr. v. 22 e segg.).
[47] Costa: fianco.
[48] letto: giaciglio, costituito dalla tomba.
[49] Ma non cinquanta: Ma non cinquanta volte tornerà a risplendere la faccia della regina infernale...; la regina (cfr. c. IX, 44) è Proserpina, la quale si identifica con Diana, in terra, e con la Luna, in cielo. Tutta la frase vale: non passeranno cinquanta lunazioni, cioè mesi; perciò quattro anni e due mesi. E' un'allusione all'esilio di Dante, decretato nell'estate 1304, cioè dopo cinquanta mesi dall'aprile 1300, in cui inizia il viaggio oltremondano.
[50] regge: ritorni, con valore ottativo (cfr. lat. redeas).
[51] L'Arbia: fiume presso Montaperti, dove il 4 settembre 1280 avvenne la battaglia sanguinosa vinta dai Ghibellini di Farinata.
[52] Tal orazion: tali deliberazioni; per conseguenza "tempio" va inteso come città.
[53] A ciò: allo " strazio " e al " grande scempio".
[54] Là: là dove da ciascuno fu tollerato di distruggere Firenze; Farinata allude al concilio di Empoli, riunitosi dopo Montaperti,nel quale egli solo, si oppose ai colleghi ghibellini contro il progetto di distruggere Firenze.
[55] Lo maggior corno: quello che "invola" Ulisse.
[56] Circe: figlia del Sole, esercitava i suoi incantesimi sui malcapitati stranieri, trasformandoli in animali. Trattenne per oltre un anno Ulisse il quale, ripartito, non tornò, afferma Dante, contrariamente alla tradizione omerica, nella sua Itaca, ma volle vivere l'esperienza "del mondo sanza gente".
[57] Gaeta: il monte Circello, poi chiamato Gaeta dal nome della nutrice di Enea, Caieta, che vi fu sepolta.
[58] La pieta: l'amor filiale.
[59] Penelopè: Penelope, la sposa di Ulisse.
[60] Valore: virtù (cfr. lat. virtus)
[61] compagna: compagnia, ciurma.
[62] Diserto: abbandonato.
[63] L'un lito: le coste europee e quelle d'Africa ("Morrocco").
[64]Riguardi: limiti; le colonne d'Ercole, cioè Gibilterra.
[65] Sibilia: Siviglia, in Spagna.
[66] Setta: Ceuta, sulla costa d'Africa.
[67] per cento milia: attraverso centomila pericoli.
[68] Vigilia: veglia dei sensi che precede il sonno della morte.
[69] di retro al sol: seguendo l'apparente moto del sole da oriente ad occidente.
[70] Semenza: natura.
[71] Aguti: disposti favorevolmente.
[72]Nel mattino: ad oriente; perciò la nave va verso occidente.
[73] Dal lato mancino: lungo la costa dell'Africa.
[74] Tutte le stelle: la notte mostrava già tutte le stelle del polo antartico mentre il polo artico ("'l nostro") non si levava al di sopra dell'orizzonte. Cioè era stato oltrepassato l'equatore.
[75] Cinque volte: il lume della luna si era riacceso e spento ("casso") cinque volte, cioè erano passati cinque mesi da quando ci eravamo posti in viaggio.
[76] Una  montagna: è la montagna del Purgatorio.
[77] il primo canto: la prora.
[78] levar: infinito narrativo come "ire" del v. seg.
[79] altrui: ad altri, alla divina volontà.
[82] già pur pensando: al solo pensarci, prima ancor che ne parli.
[83] dien: devono essere ragione ("seme") d'infamia.
[84] parlar e lagrimar: si ricordi il c. V, 126.
[85] conte Ugolino: è Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico. L'arcivescovo è Ruggieri degli Ubaldini, nipote del cardinale Ottaviano (cfr. c. X, 120 e n.119).
[86] questi: è il cranio spolpato, il "fiero pasto".
[87] tal: simile, così fatto.
Tornato a prevalere in Pisa il partito ghibellino, dopo il 1288, Ugolino tentò un riaccostamento ai suoi antichi compagni, ma l'arcivescovo Ruggieri, acceso ghibellino, fingendo di essergli amico, dopo averlo chiamato a Pisa, gli suscitò contro l'odio popolare, sfruttando la voce del tradimento operato con la cessione dei castelli; in conseguenza di ciò, Ugolino fu arrestato e imprigionato con due figli e due nipoti finché, dopo otto mesi, nel febbraio 1289 fu lasciato morire di fame. Ugolino è punito nell'Antenora per il tradimento verso i Guelfi e l'arcivescovo per quello verso Ugolino.
[92] e che conviene: e in cui sarebbe bene rinchiudere anche altri più di me colpevoli.
[93] più lune: diversi mesi.
[94] Questi: l'arcivescovo Ruggieri, nel sogno, mi appariva come direttore ("maestro") e signore ("donno") della caccia.
[95] al monte: il monte San Giuliano, per il cui ostacolo i Pisani non possono vedere Lucca.
[96] studiose e conte: bramose e ben ammaestrate.
[97] Gualandi: con i Sismondi e i Lanfranchi era tra le più influenti famiglie ghibelline.
[102] s'annunziava: presagiva a sè stesso
[107] 'l fessi: lo facessi per desiderio di mangiare ("manicar").
[108] levorsi: si levarono.
[109] poi che: dopo che.
[110] più che 'l dolor: mentre il dolore non mi aveva ucciso, il lungo digiuno ebbe ragione delle mie forze residue. Ma l'oscuro verso non respinge una diversa chiosa esegetica: "poi, sull'angoscia, ebbe il sopravvento la fame", cioè "finii per cibarmi dei cadaveri di figli e nipoti".
[111] torti: biechi.
[112] 'l sì suona: il paese ove si afferma col sì è l'Italia.
[113] i vicini: i Fiorentini e i Lucchesi.
[114] la Capraia e la Gorgona: sono due isolette poste alla foce dell'Arno, fiume che attraversa Pisa.
[115] novella Tebe: nell'antichità Tebe fu famosa per le tragiche vicende della stirpe di Cadmo.
[128] Li raggi: la luce delle quattro stelle, dette “sante” perché illuminano il cammino dell'anima purgante, così come “sante” sono le Muse, invocate al v. 8, perché assistano guidate da Calliope la rinascente poesia; quelle stesse Muse che saranno, poi, più compiutamente, “sacrosante Vergini”.
[129]  cieco fiume: presumibilmente, il “ ruscelletto “ che scende al centro della Terra e le cui rive i poeti hanno percorso contro corrente (“contro”).
[130] oneste piume: la dignitosa e grande barba.
[139] campare: scampare, salvare.
[143] del cerchio: il Limbo, ove si trova anche Marzia, la casta moglie di Catone. E in nome di Marzia, Virgilio prega il custode del Purgatorio di concedergli il permesso di procedere.
[167] ma l'un: ma un colpo d'arma da taglio aveva spaccato uno dei sopraccigli.
[179] un altro: è Buonconte da Montefeltro, figlio del conte Guido. Nel 1289, fu con i ghibellini di Arezzo contro i Fiorentini e partecipò alla battaglia di Campaldino, (nella quale combatté anche Dante), perdendo la vita sul campo. II suo corpo non fu più ritrovato.
[180] Giovanna: è la moglie di Buonconte.
[181] ti traviò: ti trascinò così lontano da Campaldino.
[182] Casentino: il torrente Archiano, che scorre nel Casentino, nasce dall'Appennino sopra l'Eremo (“l'Ermo”) di Camaldoli e perde il nome (“'l vocabol suo diventa vano”), quando sfocia nell'Arno.
[183] quel d'inferno: un episodio analogo è già stato visto nell'Inferno (cfr. c. XXVII, 113).
[185] de l'altro: del corpo farò ben altro scempio.
[186] Ben sai: ben sai come si condensa nell'aria quell'umidità che si riconverte in acqua non appena sale in una zona fredda.
[187] Giunse: quella maligna volontà, che soltanto male chiede con la sua mente, unì (“giunse”) e agitò il vapore acqueo (“fummo”) e il vento.
[188] Pratomagno: tra Pratomagno (monte tra il Valdarno casentinese e il Valdarno superiore) e la Giogana (“ gran giogo “) si stende la piana di Campaldino.
[189] intento: denso di vapori.
[190] ciò che la terra: quanto la terra non assorbì.
[191] lo fiume real: erano detti reali i fiumi che sfociavano in mare. Qui si tratta dell'Arno.
[192] l'Archian rubesto: è il soggetto della frase.
[193] la croce: le braccia atteggiate in croce.
[194] la Pia: è la senese Pia de' Tolomei, moglie di Nello d'Inghirano dei Pannocchieschi, da lui uccisa in circostanze misteriose nel castello della Pietra, in Maremma. Sembra che Nello intendesse liberarsi di lei per passare a nuove nozze con Margherita Aldobrandeschi.
[195] salsi: dall'arcaico sallosi (forma sincopata): lo sa colui che prima, sposandomi, mi aveva inanellato con la sua gemma.
[196] romita: raccolta.
[197] Sordello: è Sordello da Goito (città del Mantovano), celebre poeta e trovatore alla provenzale del secolo XIII. Da giovane fu a Verona, ove cantò Cunizza da Romano, moglie del signore della città, Riccardo di San Bonifacio; visse poi in Francia, in Spagna, in Provenza, presso il conte Raimondo Berlinghieri IV e alla corte di Carlo I d'Angiò. Famosi il suo compianto in morte di ser Blacatz, cavaliere provenzale, e il poemetto Ensenhamen d'onor.
[198] ostello: albergo.
[199] non donna: non signora di province. Si allude alle leggi di Giustiniano, secondo le quali l'Italia non era “provincia, sed domina provinciarum”.
[200] cittadin: concittadino.
[202] intorno da le prode: lungo le spiagge.
[203] Che val: a che giova che Giustiniano riordinasse il Corpus delle leggi (“il freno”) se nessuno le fa rispettare (“se la sella è vota”).
[204] Cesare: si allude al detto del Vangelo “Date a Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio” (Matteo, XXII, 21).
[205] fiera: è l'immagine dell'Italia paragonata al cavallo (cfr. v. 88), che prosegue.
[206] Fella: ribelle.
[207] predella: è la briglia, nella parte vicina al morso, che serve per condurre a mano il cavallo. Il rimprovero è rivolto agli ecclesiastici (“gente che dovresti esser devota”), e in particolare al papa, Bonifacio VIII; in più Dante sembra volerli accusare di insipienza e d'incapacità, in quanto non sanno cavalcare la fiera, ma la conducono a mano con la predella.
[208] O Alberto tedesco: è Alberto I d'Austria, imperatore dal 1298, morto nel 1308.
[209] giusto giudicio: una meritata punizione ricada dal cielo sulla tua famiglia e sia inconsueta ed evidente, sì che il tuo successore ne rimanga impressionato. La sciagura profetizzata sarà la morte del primogenito Rodolfo; il successore é Arrigo VII, in cui Dante riponeva ogni speranza di veder restaurato l'impero.
[210] Ch'avete: poiché tu e tuo padre Rodolfo d'Asburgo avete tollerato, presi (“distretti”) dalla cupidigia di consolidare i domini d'oltralpe (“di costà”) che il giardino dell'Impero, cioè l'Italia, sia lasciato in rovinoso abbandono. Infatti, dalla morte di Federico II (1250) alla discesa di Arrigo VII (1310), in Italia l'Impero si può considerare vacante.
[218] avvalliamo: discendiamo nella valletta.
[219] Solo tre passi: il tre ha valore generico; si ricordi, ad ogni modo, che il punto dove Dante si trova non è molto elevato e che la valle in quel punto è poco profonda.
[220] pur me: proprio me, come se mi volesse riconoscere.
[221] non dichiarisse: non lasciasse scorgere chiaramente.
[222] giudice Nin: è Nino o Ugolino Visconti, pisano, nipote del conte Ugolino della Gherardesca; fu giudice di Gallura, in Sardegna, e capo della lega guelfa contro i ghibellini di Pisa. Morì nel 1296. “Nessun'altra, forse, delle figure del poema, ha avuto da Dante un tal fondo, dove luci ed ombre, immagini ed atteggiamenti dispongano a maggior delicatezza e intimità d'affetti il cuore di chi legge” (Del Lungo).
[254] In sul paese: la Lombardia, che nel Medioevo comprendeva quasi tutta l'Italia settentrionale, con la Marca Trevigiana e l'Emilia.
[255] prima che Federigo: prima che Federico II venisse a contesa con i papi e i Guelfi.
[256] or può: “Ora chiunque si vergognasse di ragionar coi buoni o di avvicinarli, può passare per quelle contrade, sicuro di non trovarne nessuno” (Momigliano).
[257] la soma: è il potere temporale di cui si è gravata in seguito ad usurpazione.
[259] noto: imprimo nell'animo.
[260] vo significando: esprimo.
[261] issa: ora, cfr. Inf. c. XXIII, 7).
[262] il nodo: l'impedimento
[263] 'l Notaro: Iacopo da Lentini, poeta provenzaleggiante, esponente della scuola siciliana, detto per antonomasia il Notaio, morto verso il 1250; Guittone d'Arezzo (1230 ca.-1294), rimatore fra quelli detti “di transizione”, fu esponente della scuola dottrinale in Toscana.
[264] al dittator: ad Amore (cfr. vv. 53-57).
[265] e qual: e chiunque si pone a riguardare al di là (“oltre”) di quel che abbiamo detto, non vede più la differenza tra l'uno e l'altro stile.
[362] inciela: pone nel cielo.
[368] consiglio: imperscrutabile sapienza.
[370] ad alte grida: allude al grido "Eli, eli..." di Cristo morente sulla croce, quando, cioè, fu consumato i1 matrimonio con la Chiesa (cfr. Purg. c. XXIII, 74 e n.).
[371] due principi: San Francesco e San Domenico.
[373] l'altro: San Domenico, luminare della scienza teologica ("cherubica luce", dal nome dei Cherubini).
[374] l'opere sue: le opere loro, di entrambi.
[375] Intra Tupino: tra il fiumicello Topino e il fiume Chiascio, che nasce dai colli di Gubbio, detto di Sant'Ubaldo, declina a valle una fertile costa del monte Subasio, dalla quale costa Perugia riceve venti freddi e caldi attraverso Porta Sole; e, dietro al Subasio, Nocera e Gualdo Tadino si rammaricano della poco favorevole posizione geografica.
[376] frange: interrompe e addolcisce la sua ripidezza ("rattezza"). È così individuato il luogo: Assisi.
[377] un sole: San Francesco.
[378] di Gange: il sole sorge, luminosissimo, dal Gange nel solstizio d'estate.
[379] Ascesi: antico nome di Assisi.
[381] per tal donna: per la Povertà, a cui, come alla morte, nessuno apre il cuore per amarla, incorse nell'irata riprovazione del padre, Pietro Bernardone, ricco mercante.
[383] et coram patre: latinismo. Davanti al padre, Francesco rinunciò ad ogni sostanza.
[384] primo marito: Cristo.
[385] sanza invito: senza che alcuno la cercasse.
[386] colui: Cesare. Lucano, nella "Pharsalia", narra di un certo Amiclate, poverissimo pescatore incontrato da Cesare, che usava dormire lasciando aperta la porta della sua capanna perché non temeva di essere derubato.
[387] feroce: nel senso buono di "fiera, impavida".
[388] dove: anche sul Calvario, dove Maria rimase ai piedi della Croce ("giuso") la Povertà salì con Cristo sullo strumento di tortura e pianse con lui.
[389] prendi: intendi.
[422] pur: soltanto le anime di celebri personaggi.

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