Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

giovedì 11 settembre 2014

Storia IV

L’età dell’assolutismo: decadenza economica, sviluppo scientifico e trionfo del barocco
L’assolutismo - Durante i centocinquant’anni che vanno dalla pace di Cateau-Cambrésis (1559) agli inizi del Settecento, le grandi monarchie erano riuscite, con una dura lotta, ad indebolire in quasi tutti i paesi europei il potere della nobiltà feudale, fino ad allora capace di condizionare lo stesso potere del re. A poco a poco infatti i nobili avevano dovuto rinunciare a molti privilegi e rassegnarsi al ruolo di cortigiani, limitandosi a fare da cornice all’autorità incontrastata del sovrano. Anche i ministri e i funzionari, spesso d’origine borghese, che circondavano il re, erano soltanto i suoi consiglieri: ogni decisione spettava al sovrano, il quale esercitava così un potere assoluto, cioè illimitato.
Per questo, tale periodo viene indicato come l’età della monarchia assoluta, o età dell’assolutismo[1].
L’affermazione progressiva della sovranità e dell’impersonalità coincide con l’affermazione (tra il XVI secolo e la Rivoluzione francese del 1789) della monarchia assoluta. In questo lungo periodo la spersonalizzazione degli uffici non escludeva il potere personale del re. La sua volontà poteva sovvertire le proce­dure ordinarie e sovrapporsi alle decisioni di qualsiasi ufficio. Quando era suo interesse fare un’eccezione nell’applicazione della legge, a favore o contro que­sto o quel suo suddito, il re poteva sovvertire l’ordinaria attività degli uffici.
Coesistevano, insomma, aspetti diversi: lo Stato, spersonalizzato ai livelli inferio­ri, aveva al vertice il potere personale del re.
La sua importanza è capitale poiché tutte le forme di Stato oggi esistenti derivano da quella. In teoria, il re disponeva di un potere assoluto, cioè senza limiti (anche se doveva usarlo non per sé, ma nell’interesse dello Stato). Secondo la teoria della monarchia assoluta, infatti, il potere del re derivava dalla volontà (dalla grazia) di Dio. I sudditi, perciò, erano totalmente sog­getti alla volontà del sovrano, come alla volontà divina. Tuttavia, contrariamente a quello che la formula «monarchia assoluta» potrebbe far pensare, la pratica della monarchia assoluta era diversa.
Malgrado gli sforzi per imporre la propria autorità assoluta, il re aveva di fronte a sé un regno composto di tanti poteri sociali e locali (la nobiltà, il clero, le professioni, le città, ecc.), refrattari all’ubbidienza assoluta. Questi, anzi, per tutto il periodo dell’assolutismo, lottarono tra di loro e con­tro il re per strappargli privilegi e migliorare così le proprie posizioni. Nei perio­di di maggior forza, il re riusciva a imporre il proprio potere personale e ridurre all’ubbidienza il suo regno. Nei periodi di maggior debolezza, il re era costretto a venire a patti col suo regno e a cedere pezzi consistenti del suo potere.
Ciò che appare assoluto non è quindi il potere personale del re, il quale a seconda dei casi era più o meno condizionato. Assoluto è invece il potere della organizzazione politica centrale che, oltre al re, comprendeva gli alti dignitari e il Parlamento, che rappresentava le tante divisioni e i tanti interessi del regno.
Nella concentrazione della politica consiste principalmente la novità delle monarchie assolute rispetto al sistema feudale.
Tra i due sistemi c’è una certa continuità, poiché non furono abolite del tutto le cariche feudali, né gli ordini o ceti sociali, che continuavano ad avere uno status giuridico privilegiato. Essi furono invece costretti, come in una costellazione, a ruotare intorno ad un unico centro di potere, di cui il re era l’elemento principale. L’assolutismo era dunque un sistema composto da elementi nuovi e tradizionali: il potere del re coesisteva infatti con quello dei diversi corpi sociali che deriva­vano dal feudalesimo. Si potrebbe dire che era un regime monarchico non pie­namente realizzato.
Jean Bodin - Giurista e teorico politico francese, espone il suo pensiero in un’opera che si intitola I sei libri della repubblica (1576); in essa l’autore definisce il concetto di sovranità assoluta (priva di limitazioni) e indivisibile. Ciò significa che chiunque eserciti il potere, sia esso una persona (re) o un organismo politico, la fonte legittima dell’autorità (sovranità) rimane tutta intera nelle sue mani, anche se alcuni poteri possono essere delegati a magistrati o funzionari. Bodin individua nella monarchia la forma di organizzazione statale nella quale meglio si incarna il principio della sovranità; perciò fu uno dei massimi teorici della monarchia assoluta.
Thomas Hobbes (1588-1679) è considerato il teorizzatore dell’assolutismo. Egli affronta il problema del potere politico in particolare nel saggio Leviathan (1651), che prende il titolo dal nome del mostro biblico dotato di una forza smisurata e incontenibile: Hobbes ne fa il simbolo del potere assoluto dello Stato monarchico. Egli fonda queste sue idee sulla constatazione che l’uomo, portato ad agire sotto la spinta delle passioni, dell’istinto di conservazione e di possesso, si comporta come un lupo nei confronti di tutti gli altri uomini (homo homini lupus). In questa visione lo Stato nasce sì da un contratto sociale, che però, nel momento stesso in cui viene fissato, determina la definitiva assunzione, da parte di chi si vede riconosciuto il potere, di un’autorità assoluta e illimitata, la sola che può assicurare una convivenza civile.
Questo periodo, e particolarmente il Seicento, può giustamente essere considerato come un crinale della storia europea. In alcuni Paesi si posero le premesse di trasformazioni economiche e sociali destinate a creare differenze sempre più ampie tra essi e gli altri Stati europei. Fu allora che a zone caratterizzate da una forte dinamica progressiva se ne contrapposero altre di lenta crescita economica e di lenta trasformazione sociale ed altre ancora di decisa stagnazione. Alla prima zona appartennero l’Inghilterra e l’Olanda; alla seconda la Francia, la Germania e parte dell’Europa Centrale; alla terza la Spagna, il Portogallo, la Polonia, l’Impero turco e l’Italia.

1. Gli Stati europei dal 1559 al 1701 - Questo periodo, che per l’Italia può essere considerato unitariamente, per la storia d’Europa deve essere suddiviso in due periodi: il primo, dal 1559 al 1648, è caratterizzato dalla preponderanza degli Asburgo d’Austria e dalle guerre di religione; il secondo (1648-1701) dall’egemonia francese.
a) Le guerre di religione - Le guerre di religione, conseguenza della rottura dell’unità religiosa dell’Europa trovarono il loro teatro principale nelle Fiandre e in Francia. Nelle Fiandre Filippo II di Spagna subì uno smacco da parte delle forze protestanti, con l’insurrezione del paese e la conseguente nascita di un nuovo stato, l’Olanda; la Francia fu sconvolta dalle lotte fra cattolici e ugonotti[2] fra il 1562 ed il 1594, cui si intrecciò la contesa per la successione fra tre pretendenti al trono.
I due campioni europei delle opposte fedi furono il cattolico Filippo II, re di Spagna (1556-98), e la protestante Elisabetta, regina d’Inghilterra (1558-1603). Una grande vittoria di quest’ultima che segnò l’inizio della decadenza della Spagna e diede avvio alla ascesa dell’Inghilterra a grande potenza, fu la distruzione, ad opera dell’agile flotta inglese, della possente, ma lenta flotta spagnola, l’Invincibile Armada (1588).
Successivamente le guerre di religione ebbero il loro teatro in Germania, con lo scoppio della guerra dei Trent’anni[3]. Essa, iniziata come una semplice rivolta interna della Boemia nei confronti degli Asburgo, si estese presto alla Danimarca e successivamente alla Svezia e alla Francia, coinvolgendo anche l’Olanda e alcuni sovrani italiani, fra cui Vittorio Amedeo I di Savoia.
La guerra segnò lo scontro tra l’impero cattolico degli Asburgo e i principi protestanti, che volevano la rimozione di alcune limitazioni alla libertà religiosa che erano state stabilite dalla pace di Augusta[4] del 1555; inoltre rappresentò lo sforzo dei principi tedeschi per acquisire autonomia nei confronti dell’imperatore; infine, offrì l’occasione ad alcune potenze europee di abbattere l’egemonia degli Asburgo. La pace di Westfalia[5] del 1648, con i due trattati, di Munster (tra gli Asburgo e le potenze cattoliche), e di Osnabruck (fra gli Asburgo e le potenze protestanti), riconosceva in Germania la libertà individuale di coscienza e di culto, e segnava il crollo della potenza accentratrice degli Asburgo, riducendo ad un puro nome l’autorità imperiale.
b) L’egemonia francese - In Francia, al termine dei conflitti interni di religione che l’avevano lasciata stremata, la monarchia riuscì, in un lungo processo (dal 1598, editto di Nantes, al 1661, uscita di minorità e assunzione del potere da parte di Luigi XIV), ad abbattere le resistenze della nobiltà feudale e quelle della dissidenza religiosa (ugonotti), e a creare la forma più esemplare di governo assoluto.
Le tappe di tale processo furono le seguenti: Enrico IV[6] (1594-1610) risollevò la nazione dalla rovina delle guerre civili; il cardinale Richelieu[7] (1624-42), ministro di Luigi XIII, contrastò con successo la potenza dei nobili feudali e restrinse le libertà degli ugonotti; il cardinale Mazzarino (1642-61) portò avanti il processo di accentramento dei poteri nella persona del re, battendo le ultime resistenze della nobiltà feudale o fronda[8]; Luigi XIV[9] realizzò pienamente l’assolutismo monarchico.
In concomitanza con questo processo di riorganizzazione e rafforzamento del potere monarchico, la Francia riassunse l’iniziativa politica all’estero, partecipando alla guerra dei Trent’anni. Alla conseguente pace di Westfalia riuscì ad ottenere l’Alsazia e a giungere così per la prima volta al Reno che considerò da allora la sua frontiera naturale, da conquistare integralmente. L’ampliamento del territorio verso la frontiera renana continuò con la successiva guerra di Spagna, conclusasi con la pace dei Pirenei del 1659. E fu la direttiva della politica estera di Luigi XIV: egli mirò a completare l’acquisizione dei territori renani e a conseguire il primato in Europa lottando con la Spagna già in decadenza, con l’Olanda all’apice della sua potenza e con l’Inghilterra in ascesa. E questo il senso delle guerre di devoluzione (1667-68), di Olanda (1672-78) e della lega di Augusta (1688-97).
c) L’ascesa dell’Inghilterra - L’Inghilterra, che durante il regno di Enrico VIII (1509-1547) si era rafforzata all’interno, sotto il lungo regno di Elisabetta[10] (1558-1603) vide la trasformazione della sua economia da agricola in commerciale. La ricchezza che ne venne incrementò la sua potenza marittima che fu sanzionata dalla vittoria sulla Spagna (sconfitta dell’Invincibile Armada nel 1588) e più tardi, prima sotto l’impulso e poi sotto la dittatura (1635-58) di Oliviero Cromwell[11], nella guerra vittoriosa contro l’Olanda (1652-4), e nella successiva guerra contro la Spagna (1654-59).
L’evoluzione interna dell’Inghilterra in questo tempo conobbe il passaggio dall’assolutismo dei Tudor e degli Stuart (con la parentesi della dittatura cromwelliana) alla prima forma di monarchia di tipo costituzionale che trovava le sue radici nella Magna Charta[12]. Deposto l’ultimo Stuart, Giacomo II (la rivoluzione senza sangue del 1688), il Parlamento invitava ad assumere la corona Guglielmo d’Orange che, salendo al trono, giurava di osservare la Dichiarazione dei diritti[13], cioè una carta costituzionale che limitava il potere del sovrano.

2. L’emarginazione dell’Italia - Per quanto riguarda la storia d’Italia il periodo di tempo compreso tra il Congresso di Bologna (1530) e il Trattato di Aquisgrana (1748), può essere considerato in modo unitario. Anche se è giusto distinguere il periodo del predominio spagnolo nella penisola (fino al Trattato di Rastadt, 1714) da quello del predominio austriaco, molto meno funesto; tuttavia, questi 220 anni sono accomunati dal perdurare di almeno due condizioni le cui conseguenze furono determinanti per la vita della penisola.
La prima fu la mancanza di autonomia politica degli Stati italiani, divenuti o province di una potenza straniera o suoi satelliti; la seconda fu l’emarginazione economica e culturale dell’Italia in seguito alla perdita dell’indipendenza politica.
Perduta la posizione di primato che aveva conquistato nei secoli precedenti, l’Italia si trovò esclusa dai processi di rapido sviluppo economico e di profonde trasformazioni politiche e sociali, da cui furono investite alcune grandi potenze (in particolare l’Inghilterra, l’Olanda e, in misura minore, la Francia) e fu relegata in una posizione marginale, dalla quale solo nel XIX secolo, faticosamente e parzialmente, riuscirà ad emergere.
a) Assetto italiano alla pace di Cateau-Cambrésis - La pace di Cateau-Cambrésis ribadì, aggravandola, la dominazione spagnola in Italia. La Spagna, infatti, oltre che nel regno di Napoli, dominava direttamente nel ducato di Milano, di fatto trasformato in una provincia dipendente da Madrid; e nello Stato dei Presidi (alcune terre della Toscana). Con l’erezione a ducato delle città di Parma e Piacenza sorse un nuovo stato, feudo della Chiesa. Ma anche gli Stati che conservavano la loro autonomia - repubblica di Venezia, Stato della Chiesa, ducato di Toscana, repubblica di Genova, ducato di Savoia, ducato di Mantova, ducato di Ferrara, ducato di Modena e repubblica di Lucca - di fatto dipesero dalla politica spagnola.
b) Il malgoverno spagnolo - L’assetto dato all’Italia dalla pace di Cateau-Cambrésis durò dal 1559 al 1701 (inizio della guerra di successione spagnola).
Gli Stati italiani dominati in questo periodo direttamente dalla Spagna presentano uno dei quadri più tristi della loro storia. Lo caratterizzarono la rapina e il fiscalismo della burocrazia straniera, l’altezzosità della nobiltà dominatrice, il servilismo dilagante della popolazione, l’arretramento delle condizioni economiche generali, la miseria e l’ignoranza delle plebi; il tutto in un clima di soprusi e di anarchia. Un’efficace rappresentazione della situazione del Milanese ci è stata data dal Manzoni nei Promessi Sposi.
Nel ducato di Milano, il più civile e il più ricco dei domini spagnoli, la compressione della borghesia a vantaggio della nobiltà terriera, favorita dal governo, che ne ricercava l’appoggio, portò, unitamente ad altri fattori di cui si farà cenno più avanti, al decadimento delle città e delle connesse attività industriali e mercantili.
Questa decadenza, frutto del cattivo governo spagnolo, fu meno evidente nel Meridione e nelle isole, ma solo perché si innestava su una situazione già deteriorata dal precedente malgoverno straniero, quello degli Aragonesi. Di fatto le condizioni del Sud erano peggiori di quelle del ducato di Milano, a causa anche del persistere delle istituzioni feudali che, diversamente che al Nord, non erano state spazzate via dal sorgere dei Comuni.
Questa situazione generò gravi malcontenti, che sfociarono in insurrezioni destinate fin dalla nascita al fallimento. A Napoli Masaniello fece insorgere la plebe chiedendo l’abolizione delle gabelle (1647), e finì ucciso dalla stessa plebe abilmente eccitatagli contro dal viceré spagnolo; Gennaro Annese che cercò di portare avanti l’insurrezione, con un disegno politico più chiaro, fu battuto dall’intervento delle armi spagnole. Anche a Palermo la rivolta, guidata nello stesso anno da Giuseppe D’Alessio per rimuovere le gabelle, ebbe una misera conclusione: il D’Alessio finì col trovare contro di sé la stessa folla che egli aveva sollevato. Più complessa fu, nel 1674, la rivolta che, per l’insofferenza dei gravami fiscali, scoppiò a Messina; essa si sostenne per quattro anni appoggiandosi alla Francia; ma anche in questo caso la Spagna riuscì alla fine a prevalere sui rivoltosi e sui loro alleati.
c) Gli Stati italiani indipendenti - A Firenze, dopo i successi di Carlo V in Italia e il Congresso di Bologna, rientrarono i Medici con il duca Alessandro. Cosimo I (1537-74), successo al duca Alessandro e insignito dal papa del titolo di granduca (1569), diede un saggio ordinamento allo stato, restaurando l’economia. Questa politica fu continuata da Ferdinando I (1587-1609), che diede incremento al porto di Livorno. La politica estera medicea si mosse comunque nell’orbita della politica spagnola fino ai tempi di Ferdinando I, che cercò di controbilanciare l’influenza della Spagna con quella della Francia, alla quale si avvicinò.
Nello Stato della Chiesa, in questo periodo, l’azione dei pontefici presentò un notevole mutamento nei confronti di quella dei papi del Rinascimento. In armonia con la Controriforma essi si impegnarono soprattutto nel campo spirituale, premurosi degli interessi generali del cattolicesimo più che non di quelli del loro Stato. Proprio per questo non si preoccuparono di esercitare una politica indipendente dalla Spagna.
La Repubblica Veneta agì invece in modo autonomo nei confronti della Spagna. Del resto essa aveva limitato la sua azione politica in terraferma per preoccuparsi soprattutto della difesa delle sue posizioni in Levante, dove dovette far fronte all’avanzata turca. Nonostante la vittoria nella battaglia di Lepanto (1571), quando i maggiori stati cristiani affiancarono Venezia per sconfiggere i Turchi, dovette però arretrare abbandonando le isole di Cipro e Candia, perdita non certo compensata dall’effimera occupazione del Peloponneso (1699). Dopo la perdita di Candia, la repubblica di Venezia si chiuse nell’Adriatico, dove si limitò a sopravvivere ancora per un secolo, fino alla venuta di Bonaparte in Italia.
Il Ducato di Savoia fu lo Stato che dimostrò il maggior dinamismo. La volontà di attuare una politica espansionistica lo sottrasse, in alcune occasioni, alla acquiescenza alla Spagna. Con Emanuele Filiberto i duchi di Savoia incominciarono a volgere la loro attenzione all’Italia, e precisamente al Piemonte. Sintomatico al riguardo fu il trasferimento, sotto Emanuele Filiberto, della capitale da Chambery a Torino; la conquista del marchesato di Saluzzo da parte di Carlo Emanuele I (1601) rappresentò il primo grosso ampliamento dei possedimenti italiani.
d) La decadenza del Mediterraneo - La situazione di depressione, che, sia pure in misura diversa nei diversi Stati, caratterizzò tutta la penisola, ebbe altre cause oltre a quelle di cui ci siamo occupati finora: tra queste la più importante fu la perdita d’importanza del Mediterraneo, in seguito alle scoperte dell’America e della nuova via marittima per le Indie. Il declino del Mediterraneo non fu improvviso: i porti di Genova e di Venezia mantennero la loro importanza ancora per tutto il Cinquecento; ma fu un declino inarrestabile.
A partire dal Seicento, i traffici portuali genovesi e veneziani assunsero la caratterizzazione regionale che neppure l’apertura del Canale di Suez nel secolo XIX riuscì a modificare. Grandi porti internazionali divennero le città che si affacciavano sull’Atlantico, prima quelle della penisola iberica (Lisbona, Siviglia e Cadice), centri dei traffici con le Americhe, e poi, e più durevolmente, le città olandesi e inglesi (Anversa, Londra, e soprattutto Amsterdam).
Lo spostamento dell’asse dei traffici dal Mediterraneo all’Atlantico non fu dovuto solo a ragioni geografiche. Dipese soprattutto dalla capacità di nazioni, come l’Inghilterra e l’Olanda (e parzialmente la Francia), di mettere in atto una politica mercantile e industriale adeguata alle esigenze di un mercato nuovo più esteso e meno elitario.
La Spagna e il Portogallo non seppero attuare queste trasformazioni. Legate alla vecchia concezione delle colonie come terre da razziare e da spogliare - soprattutto di metalli preziosi - furono incapaci di compiere il passaggio alla nuova forma di colonialismo attuata dagli Inglesi e dagli Olandesi, che seppero considerare le colonie come fonti di materie prime e come vasti mercati di smercio per le industrie nazionali.
e) L’involuzione dell’economia italiana - L’emarginazione economica dell’Italia fu dovuta a più fattori, connessi tanto all’economia quanto alla modificazione della situazione sociale e politica. All’economia cittadina chiusa in forme sclerotizzate da una fortunata e consolidata tradizione e dagli statuti vincolanti di potenti corporazioni, mancò l’elasticità necessaria per passare dalla produzione e dal commercio di beni scarsi e costosi (spezie, seta, panni fini di lana) alla produzione e al commercio di beni meno pregiati e di più largo consumo (canna da zucchero, cotone, panni meno raffinati). Non essendo in grado di ridurre i propri costi di produzione, inoltre, l’economia cittadina perse competitività non solo sui mercati esteri, ma anche su quelli italiani.
Contemporaneamente, in connessione col minor reddito del commercio e della manifattura, si assistette ad una fuga di capitali verso la terra che divenne di nuovo la base predominante della ricchezza e del potere. Il ritorno alla terra - con la parallela riduzione dell’importanza delle città, nelle quali si verificò una diminuzione della popolazione - fu tanto un atteggiamento di riflusso, quanto un’operazione di investimento che consentì alti guadagni, grazie anche alla libertà di sfruttare i contadini.
La triste situazione di sudditanza politica, infine, subordinò l’economia degli Stati italiani alle esigenze della potenza egemone (soprattutto alla Spagna), privandola dei necessari incentivi a superare le difficoltà della concorrenza, fattasi sempre più agguerrita. Le distruzioni e i danni operati dalle guerre che trovarono così spesso nella penisola (soprattutto al Nord) il loro campo di battaglia, costituirono altri gravi fattori di freno allo sviluppo economico degli Stati italiani.
f) La semplificazione della società italiana - Il ritorno alla terra fu solo uno degli aspetti di un complesso fenomeno, che è stato indicato dagli storici con il nome di rifeudalizzazione[14]. Con questo termine si vuole indicare il venir meno delle iniziative economiche e del dinamismo sociale che avevano caratterizzato i secoli precedenti a partire proprio dall’Italia, dove, per la prima volta, le forze della borghesia emergente avevano spezzato e ridotto il potere della feudalità dominante. Nel Seicento si ha una netta inversione di tendenza:
·         nel Sud essa sboccò in una regressione permanente, che rafforzò l’antica nobiltà feudale;
·         nel Nord e nel Centro, dove più vivace era stata la vita comunale e più rilevante la presenza della classe mercantile, quest’ultima, grazie all’acquisto della terra, andò ad ingrossare le fila della nobiltà feudale, assimilandosi ad essa.
Il risultato di questo processo fu una semplificazione e un irrigidimento della struttura sociale: tutto il potere economico si accentrò nelle mani della nobiltà, dalle cui fila soltanto uscivano i membri della classe dirigente. Al di fuori della nobiltà non restarono che sparute forze produttive; quasi a nulla furono ridotte le possibilità di ascesa delle altre classi sociali.

3. La Controriforma - A ribadire la situazione di emarginazione della vita italiana nel suo complesso concorse la Controriforma che in Italia (e dovunque essa si trovò ad operare con l’appoggio della monarchia spagnola) fece sentire pesantemente la sua azione repressiva. Ne risultò una progressiva contrazione della vivacità creativa nel campo della letteratura, della filosofia, della scienza e delle arti, campo nel quale l’Italia si era conquistata, nei secoli precedenti, un indiscusso primato europeo.
a) Il concilio di Trento - La Controriforma fu motivata dalla volontà di porre riparo al distacco di buona parte dell’Europa dalla Chiesa di Roma e di arginare le eresie che andavano diffondendosi nei paesi latini e in particolare in Francia. A questo fine il papato si preoccupò di una precisa definizione dogmatica e di una decisa riforma dei costumi ecclesiastici. L’iniziativa pontificia si concretò nel Concilio di Trento che, scartando la tesi che ricercava la conciliazione con i dissidenti, preferì quella della contrapposizione recisa alla Riforma. Così, al principio del libero esame si contrappose quello dell’autorità della Sacra Scrittura secondo l’interpretazione della Chiesa; alla tesi luterana secondo cui ogni uomo può porsi in rapporto diretto con Dio, si contrappose l’affermazione che la salvezza è solo nella Chiesa attraverso i sacramenti; infine si affermò l’assoluta superiorità del pontefice cui solo spetta di convocare i concili. Le verità di fede furono compendiate dal Concilio nella Professione di fede tridentina, un estratto della quale è il catechismo romano, testo di insegnamento religioso in tutte le scuole parrocchiali.
Per moralizzare il clero si fissarono rigorose norme disciplinari, riconfermando l’obbligo del celibato e, per prepararlo alle sue funzioni, si istituirono i Seminari.
b) I nuovi ordini religiosi - L’opera del Concilio di Trento sarebbe stata inutile se non fosse stata sostenuta dal sorgere di ordini religiosi che, operando tra i fedeli, ravvivarono gli ideali di vita cristiana.  Tra gli ordini ricordiamo i Barnabiti, i Somaschi, gli Scolopi che si preoccuparono tutti di aprire collegi per la gioventù; mentre i Teatini furono istituiti per coadiuvare i parroci nel loro ministero, i Fatebenefratelli, le Suore di carità e i Lazzaristi per assistere gli infermi; i Cappuccini (un ordine francescano riformato) per la predicazione fra il popolo; gli Oratoriani per la cura dei giovani delle classi umili.
c) I Gesuiti - Il più importante fra tutti gli ordini religiosi sorti in questo periodo fu senz’altro l’ordine dei Gesuiti, fondato da Sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) che si propose queste finalità:
·         difesa della fede cattolica,
·         sua diffusione,
·         formazione di sacerdoti in grado di essere al passo con l’evoluzione culturale dei tempi,
·         creazione di scuole aperte a tutti, ma mirate alla formazione cattolica delle classi dirigenti.
Sant’Ignazio creò una gerarchia di tipo militare, fondata sull’assoluta obbedienza ai superiori; inoltre legò con un giuramento di fedeltà al papa tutti i gesuiti.
In pochi anni questi divennero un pilastro della Chiesa cattolica; fondarono missioni in tutti i continenti, favorendo l’avvicinamento al cattolicesimo con una graduale integrazione della nuova fede nelle culture e nei costumi dei vari popoli. Nei Paesi cattolici seppero conquistare posizioni influenti come confessori e consiglieri di re e principi, attuando politiche di mediazione e di prudenza.
I Gesuiti scelsero come loro campo preferito di attività l’organizzazione di scuole ad orientamento umanistico, destinate alla classe dirigente: dalle elementari all’università, essi organizzarono percorsi didattici moderni ed efficaci, per dare una preparazione culturale seria, senza mai perdere di vista l’obiettivo principale, la formazione del buon cristiano.
I gesuiti che dimostravano propensione per una disciplina erano destinati a coltivarla ai massimi livelli, perciò molti ebbero un ruolo di rilievo nello sviluppo della scienza, della letteratura, dell’arte.
Il Collegio romano, l’università dei gesuiti, fu un centro di ricerca scientifica di cui riconoscevano il prestigio anche gli studiosi non cattolici.
I gesuiti erano totalmente indipendenti dalla gerarchia ecclesiastica e rispondevano della loro azione esclusivamente al papa; per questo, all’interno della Chiesa, si formò un partito antigesuita che li accusava di allargare il proprio potere tramite l’appoggio dei potenti e i molti compromessi nel campo del comportamento e della morale.
d) Il controllo del pensiero - Per combattere poi lo spirito critico da cui era nata la Riforma e per avere il controllo sui testi scritti la Chiesa affiancò all’Inquisizione un istituto di repressione, la congregazione dell’Indice dei libri proibiti, voluta dal papa Paolo IV Carafa nel 1559. Si trattava di una commissione con l’incarico di redigere e tenere aggiornata la lista di opere e autori che i cattolici non potevano leggere, possedere e divulgare, perché veicoli di idee contrarie alla morale e alla dottrina. L’Indice era diviso in tre parti: la prima degli autori messi totalmente al bando, la seconda di singole opere, la terza di scritti anonimi.
Il fine dell’Indice era di impedire la stampa dei testi proibiti e di bruciarne le copie eventualmente sequestrate. L’efficacia dell’Indice era limitata, perché impossibile il controllo capillare, ma serie furono le conseguenze indotte:
·         spinta all’autocensura degli autori che, per evitare noie con la Chiesa, eliminavano dai loro libri ogni idea o riferimento che potesse essere contestato; è una delle cause del conformismo controriformista che si manifesta nel Seicento nei Paesi cattolici in cui più potente è la Chiesa, come Spagna e Italia;
·         diffusione di testi classici «purgati», con soppressione di parti, soprattutto a uso scolastico; si diffondeva così un’idea distorta della letteratura, moralistica e staccata dai comuni sentimenti;
·         sviluppo delle stamperie clandestine e del contrabbando dei libri; gli autori che temevano di non ottenere il permesso del vescovo facevano stampare i loro testi nei Paesi protestanti, da dove poi rientravano di nascosto.
In molti casi però si ricorreva al trucco di indicare nel volume come luogo di stampa una città straniera.
Infine si rafforzò la Congregazione del Sant’Uffizio come tribunale supremo dell’Inquisizione che, già vigorosa nel secolo XIII, era poi decaduta.
La preoccupazione della Chiesa di controllare il pensiero attraverso la censura preventiva della stampa (non si poteva pubblicare un libro senza l’autorizzazione ecclesiastica) limitò lo sviluppo della filosofia, della scienza e delle arti. Ne seguirono spesso situazioni di lacerazione interna e un clima di paura, che la condanna di alcuni filosofi (Bruno, Campanella) e scienziati (Galileo) rafforzò.

Illuminismo, riforme e rivoluzione; la parabola napoleonica
1. La politica di equilibrio in Europa e le guerre di successione - Le tre guerre di successione di Spagna, di Polonia, d’Austria che caratterizzarono la storia europea dal 1701 al 1748, furono in sostanza guerre che miravano ad impedire l’instaurarsi del predominio di un’unica nazione. La loro conclusione fu l’adozione di una politica di equilibrio tra le grandi potenze.
Caratteristica costante delle guerre di successione fu che, pur nel mutare delle alleanze, si trovarono sempre di fronte Francia e Austria (la prima sostenuta dal ramo Borbone di Spagna in grave decadenza, la seconda dall’Inghilterra), con la conseguenza che il territorio italiano fu trasformato in permanente campo di battaglia.
Durante questi conflitti vennero alla ribalta come grandi potenze due nuovi stati, la Russia e il regno di Prussia.
1.      Pietro il Grande (1696-1725) fu lo zar che «portò» la Russia in Occidente: il grande impero che si era formato attorno al principato di Mosca era rimasto per religione (quella ortodossa), costumi, struttura feudale una realtà estranea all’Europa; salito al trono nel 1689, dopo essersi sbarazzato della sorella, Pietro I aveva compiuto alcuni viaggi in incognito in Europa; ne tornò consapevole dell’enorme ritardo del suo Paese, sia sul piano economico, che su quello militare e sociale. Sfruttando il potere che gli derivava dall’essere zar, quindi sovrano assoluto, introdusse profonde modifiche nel modo di vivere dei russi (per esempio fu il primo zar a tagliarsi la barba e impose questo ai suoi funzionari e soldati). Sostenne guerre vittoriose contro la Svezia e conquistò al suo impero la riva orientale del Baltico, dove fondò San Pietroburgo che divenne la capitale. La sua opera di modernizzazione e di riforme rimase comunque nell’ambito di una concezione del potere «orientale» e tirannica, fondata sull’uso della forza.
2.      Federico II di Prussia (1712-1786), educato dal padre con rigore militare, dedicò la giovinezza agli studi, interessandosi di teoria politica (scrisse anche un trattato, l’Antimachiavelli). Salito al trono nel 1740, si impossessò della Slesia, togliendola all’Austria e seppe mantenerla anche quando la Prussia fu attaccata e invasa dagli eserciti di Russia, Austria e Francia (guerra dei Sette anni), perché la fortuna volle che divenisse zar Pietro III che lo ammirava tanto da indurre anche gli alleati alla pace. In realtà Federico si guadagnò l’appellativo il Grande perché incarnò agli occhi dei contemporanei il tipo ideale di despota illuminato: rafforzò l’amministrazione che fece funzionare con efficienza e puntualità maniacali e rese l’esercito prussiano la macchina da guerra più forte del tempo. Amico di Voltaire, che ospitò anche quando era in guerra con la Francia, mise in atto alcune idee degli illuministi, come l’istruzione elementare obbligatoria, la fondazione e il potenziamento delle accademie scientifiche e dell’università, la riforma dei codici penale e civile.

2. Il predominio austriaco in Italia - Il predominio spagnolo, instaurato in Italia dal 1530 e confermato dalla pace di Cateau-Cambrésis (1559), continuò inalterato fino alla prima delle tre guerre di successione, quella di successione spagnola, conclusasi con le paci di Utrecht (1713) e Rastadt (1714), quando esso fu sostituito dal predominio austriaco.
La guerra della Quadruplice, col trattato dell’Aia (1720), e le due ulteriori guerre di successione, polacca (trattato di Vienna 1738) ed austriaca (trattato di Aquisgrana, 1748), confermando il predominio austriaco, diedero all’Italia un assetto tale da favorirne la ripresa.
E per più ragioni:
·         il predominio austriaco era meno esteso e condizionante di quello spagnolo, perché i domini dell’Austria si limitavano al ducato di Milano e a quello di Mantova, anche se l’Austria poteva contare sull’appoggio del granducato di Toscana, assegnato ai Lorena imparentati con la dinastia austriaca;
·         con l’acquisizione da parte dei duchi di Savoia di tutto il territorio piemontese, dell’isola di Sardegna e del titolo regio, si era costituito un forte stato in grado di contrastare il predominio austriaco;
·         si era costituito un nuovo vasto regno (Napoli e Sicilia più lo stato dei Presidi) assegnato ai Borbone di Francia, che lo avviarono ad una ripresa dal lungo stato di degradazione in cui si trovava dal tempo del dominio aragonese. Ad un ramo collaterale dei Borbone era stato assegnato anche il ducato di Parma e Piacenza;
·         la diversa natura della dominazione austriaca, caratterizzata da un’amministrazione onesta, impegnata nello sviluppo economico del paese ed aperta alle riforme;
·         le dinastie straniere dei Borbone e dei Lorena si assimilarono alla vita del paese, divenendo ben presto italiane.
Queste condizioni daranno i loro frutti quando, dopo il trattato di Aquisgrana (1748), si aprirà per la penisola un periodo di pace.
a)      Quarantotto anni di pace - Per poco meno di 250 anni, dal 1494, quando Carlo VIII di Francia aveva iniziato la sua impresa italiana, alla pace di Aquisgrana del 1748, l’Italia era stata un perenne campo di battaglia tra le maggiori potenze straniere, in lotta per la conquista del predominio in Europa. Dopo Aquisgrana ha inizio, invece, un lungo periodo di pace finchè, nel 1796, sulle Alpi comparve l’armata rivoluzionaria comandata dal generale Napoleone Bonaparte. La politica europea con Aquisgrana aveva avviato un nuovo corso: esaurito l’antagonismo Francia-Austria che aveva prima portato le due nazioni a scontrarsi nella nostra penisola, e, attuato il rovesciamento delle alleanze che vedeva alleate le due ex nemiche, le contese delle grandi potenze si erano spostate verso il Nord d’Europa e nelle colonie d’America e d’Asia, mentre l’Italia diventava un elemento marginale nei rapporti fra i grandi Stati europei.
b)      La ripresa dell’agricoltura in Italia - Questa situazione politica favorevole fu un elemento fondamentale per la ripresa dell’economia italiana, ma non fu il solo. Vi concorsero altre condizioni, prima fra tutte, la fine del dominio spagnolo, sostituito, già nel secondo decennio del secolo XVIII, da quello austriaco che creò le condizioni favorevoli per una ripresa. Anche le nuove dinastie insediatesi in Italia (i Borbone a Napoli, in Sicilia e a Parma-Piacenza; i Lorena in Toscana), godendo ora di maggior autonomia, si dimostrarono più aperte agli influssi provenienti dall’estero, e ruppero l’isolamento dell’Italia nei confronti delle tendenze generali dell’economia europea in netta ripresa. Domina nell’azione dei principi una chiara coscienza della coincidenza dell’interesse dinastico col progresso dell’economia che continua ad identificarsi con l’agricoltura. La ripresa lenta, ma costante, di alcune regioni italiane (in particolare Lombardia, Toscana e parzialmente Piemonte) non significa infatti una trasformazione della loro economia. Il ritorno alla terra, che aveva caratterizzato il secolo precedente, non conosce inversione di tendenza. Anche lo sviluppo, sia pur limitato, di nuove manifatture si disloca frequentemente nella campagna, con esiti comunque positivi per un più equilibrato rapporto di questa con la città. Ma il fattore forse più incisivo di questa ripresa fu il ravvivato interesse europeo per l’agricoltura a seguito del trionfo delle idee fisiocratiche[15], il cui nocciolo era costituito dalla valorizzazione della terra. Non è senza significato il fatto che nuove accademie eclissino le vecchie accademie letterarie; che si discutano studi e ricerche sulle tecniche agricole, e che spesso i protagonisti siano uomini di un patriziato che incomincia ad interessarsi, in modo attivo, della terra, in cui gli avi avevano investito i capitali accumulati con il commercio e con le manifatture. Si comincia inoltre ad interessarsi, con spirito filantropico, dei contadini, delle loro condizioni di vita, della loro istruzione.

3. L’illuminismo - Il Settecento chiamò se stesso l’età dei lumi, intendendo significare che in questo secolo l’umanità, nella sua evoluzione storica, era pervenuta all’età della ragione. Con i lumi della ragione l’umanità avrebbe dissipato le tenebre dell’ignoranza che nel passato avevano consentito il prevalere dell’arbitrio, delle ingiuste posizioni di privilegio, della superstizione e dell’intolleranza.
L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dalla minorità. «Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza. Questo è il metodo dell’Illuminismo». Così scriveva nel 1784 Kant, il grande filosofo tedesco che, pur affrontando una tematica diversa da quella dell’Illuminismo e con metodi e risultati di tutt’altra natura, considerava l’Illuminismo come una conquista irrinunciabile dello spirito umano nel suo sviluppo.
a)      Origine e diffusione - L’Illuminismo permeò di sé tutta la cultura del XVIII secolo ed ebbe il suo centro di diffusione nella Francia. Ma gli stessi filosofi illuministi, Voltaire e gli enciclopedisti per primi, indicavano nell’Inghilterra la patria delle idee che lo caratterizzavano. Locke[16], il filosofo empirista che sosteneva essere l’esperienza l’unica fonte di ogni nostra conoscenza, e Newton, che fondava la fisica sull’esperienza e sulla matematica, erano indicati a modello per il loro metodo scientifico. Le istituzioni politiche e i costumi civili degli inglesi erano messi a confronto con quelli francesi per mostrarne la superiorità dovuta ai principi di libertà e di tolleranza ai quali essi si ispiravano. Gli scritti brillanti, anticonformisti, spregiudicati, dal linguaggio immediato ed efficace, diffusero rapidamente la nuova filosofia ben al di là della ristretta cerchia degli studiosi e degli eruditi, raggiungendo i ceti della borghesia in ascesa, creando un’opinione pubblica. I temi trattati erano tutti quelli che riguardavano la vita associata e che avevano un carattere di attualità, non esclusi quelli della politica e della religione. La spregiudicatezza procurò ai loro autori gravi noie e li portò, in alcuni casi, a risponderne in tribunale ed a subire condanne al carcere. Grazie a questa pubblicistica[17] le idee dell’illuminismo travalicarono le frontiere e si diffusero in tutta Europa e anche nelle colonie d’America. Ne favorì la diffusione il carattere di lingua internazionale che il francese aveva nel XVIII secolo, grazie alla posizione di prestigio di cui la Francia da tempo godeva.
b)      L’Enciclopedia - Lo strumento che maggiormente concorse alla diffusione della mentalità illuministica fu un’impresa culturale di eccezionale impegno, la pubblicazione tra il 1751 e il 1772 dell’Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze delle arti e dei mestieri ad opera di una società di uomini di lettere in 24 volumi. Ideatore del progetto fu Diderot che ne fu anche direttore, per un certo tempo, assieme a D’Alembert. L’opera offriva una sistemazione generale del sapere umano nei suoi diversi settori, lontano da ogni accademismo e facilmente accessibile ad un vasto pubblico. A fianco delle ultime acquisizioni delle scienze, venivano illustrate anche quelle della tecnica, accompagnandole con la descrizione dei procedimenti e degli utensili dei diversi mestieri. Era un accostamento del tutto nuovo, che rispecchiava la posizione acquisita dalle nuove tecniche di lavoro, le cosiddette arti meccaniche che soltanto un secolo prima erano considerate con disprezzo. Le autorità, in particolare quella ecclesiastica, ostacolarono la pubblicazione dell’opera, che fu sospesa per un certo tempo e che, per essere completata, dovette essere stampata fuori dalla Francia e subire negli ultimi volumi tagli non indifferenti. Il gruppo di letterati e tecnici che lavorò all’Enciclopedia era abbastanza numeroso e comprendeva nel suo momento più felice personalità di primissimo piano, come Voltaire, Rousseau, Quesnay, Turgot, Necker, D’Holbach, e tanti altri.

4. I caratteri fondamentali dell’Illuminismo - Parlando dell’Illuminismo, occorre ricordare subito la varietà di posizioni che si riscontrano tra quelli che ne vengono considerati i rappresentanti; varietà che a volte giunge a profonde divaricazioni anche su temi centrali, di politica e di religione. Al di là di ogni diversità esiste, però, un atteggiamento mentale comune e la comune accettazione di alcuni principi fondamentali.
a)      La società come tema privilegiato - Mentre finora la filosofia aveva avuto come oggetto principale Dio o la natura e i rapporti uomo-Dio, uomo-natura, gli illuministi si propongono come tema principale la società e le sue istituzioni e il rapporto tra gli uomini. L’uomo deve essere liberato, in nome della ragione, da tutti gli impacci e i legami della tradizione. La critica alla tradizione è il procedimento tipico dell’Illuminismo.
b)      La fiducia nella ragione come metodo - La ragione è esaltata come la luce che disperderà l’oscurantismo del passato e indicherà le soluzioni da prendere per realizzare una società dalla quale sia bandito, assieme all’ignoranza e alla superstizione, anche il vizio, e nella quale sia assicurata la felicità. È chiaro che la ragione a cui ci si riferisce non è la ragione astratta dei filosofi, ma è uno strumento di ricerca. Per questo sarebbe più preciso parlare di fiducia nella scienza, o nel suo metodo, che si vuol applicare oltre che allo studio della natura anche all’esame della società e dei suoi problemi.
c)      L’uguaglianza degli uomini e la libertà - una delle prime verità che la ragione proclama è che gli uomini sono per natura uguali. Le uniche differenze, ragionevolmente accettabili, sono quelle dovute ai meriti personali; tutte le altre sono da respingere, a cominciare dai privilegi connessi alla nascita. Come per natura gli uomini sono uguali, così sono liberi, e nessuno può essere privato di questo diritto fondamentale, che consiste nel poter disporre della propria persona e dei propri beni, nel modo che si ritiene più conveniente alla propria felicità. Se un sovrano pretende di disporre a suo arbitrio della vita e dei beni dei sudditi, questi hanno il diritto di ribellarsi, perché, comportandosi così, il sovrano va contro alla finalità dello Stato che consiste nella difesa degli inalienabili diritti naturali.
d)     La tolleranza - una delle espressioni fondamentali della libertà è la libertà di pensiero e, in particolare, la libertà di religione. Unico limite a questa libertà è il rispetto delle leggi, che garantiscono il diritto degli altri e una ordinata convivenza. Lo Stato, per tanto, non può imporre una religione, né perseguitare i dissidenti, ma deve tollerare qualsiasi confessione. L’intolleranza e il fanatismo religioso sono sempre stati causa di atroci delitti e di sanguinose guerre: la tolleranza, invece, ha sempre favorito la convivenza civile e il fiorire delle arti, delle scienze e delle attività economiche.
e)      L’universalismo - affermare che tutti gli uomini sono uguali davanti alla ragione significa considerare le differenze storiche e nazionali come non essenziali. Per questo nelle Dichiarazioni dei diritti, come quella americana e quella francese si pretende che esse siano valide «per tutti gli uomini, per tutti i tempi, per tutti i Paesi». E l’uomo che ha assimilato la nuova filosofia si considera, come scriveva Baretti, «cittadino del mondo» (cosmopolitismo).
f)       Funzione sociale della cultura: se ogni epoca espresse un suo proprio ideale d’uomo, quello del Settecento fu il filosofo, inteso come l’intellettuale che, libero da pregiudizi e da timori reverenziali, affronta e dibatte i problemi della realtà sociale alla luce della ragione. E il suo fine non è puramente teoretico: con la sua ricerca egli si sente impegnato in una grande opera a favore dell’umanità e del progresso. La cultura è per lui uno strumento al servizio della «felicità degli uomini», perché la lotta contro l’ignoranza è lotta contro il vizio e contro le miserie materiali e morali. Una fiducia illimitata nel sapere gli fa guardare con ottimismo all’avvenire che, grazie al trionfo dei lumi al quale egli ha portato il suo contributo, non può che essere migliore del passato.

5. Cultura e politica: il dispotismo illuminato - L’influsso esercitato sull’economia dalla dottrina fisiocratica è una manifestazione del più generale influsso esercitato dalle idee sulla pratica, che costituì un aspetto peculiare del Settecento. La convinzione che l’uomo di cultura, l’intellettuale deve operare in vista del miglioramento della realtà sociale, la fiducia nell’efficacia pratica delle idee costituiscono un aspetto saliente dell’Illuminismo. Portare la filosofia sul trono, l’antico ideale platonico del filosofo-re, costituì per gli illuministi una meta realistica. E, in vario modo, la realizzarono: o diventando consiglieri di sovrani (Voltaire di Federico II di Prussia, Diderot di Caterina di Russia), o partecipando di persona al governo del re (Turgot, ministro di Luigi XVI). L’influenza della filosofia sulla politica fu notevole: oltre a creare nei sovrani e nei sudditi una tendenza favorevole all’innovazione nei vari campi (dal diritto all’economia), portò alla diffusa accettazione della concezione paternalistica del governo («il sovrano è per i sudditi come un padre per i figli, e deve aver cura della loro felicità»), concezione che, pur con tutti i suoi limiti, costituì un indubbio progresso nei confronti della concezione assolutistica. Da questo spirito - la ricerca della felicità dei sudditi  unita all’interesse del sovrano - nacquero le riforme[18].
L’Illuminismo dà forma a un’idea di società fondata su progresso, razionalità, tolleranza, modernità, libertà di pensiero e di azione; ciò non è in conflitto col potere dei sovrani e da molti di questi è accolto come un sostegno all’opera di accentramento dello Stato.
Gli anni di massima collaborazione sono tra il 1750 e il 1780: gli intellettuali europei dànno il loro appoggio alle riforme promosse dai sovrani che agiscono con la forza del loro potere assoluto, ma con intenti «filosofici» partecipano alla diffusione dei Lumi; sono despoti illuminati Maria Teresa e Giuseppe II d’Austria, Federico II di Prussia, Caterina II di Russia sono i protagonisti di questa stagione.
Le maggiori riforme riguardano:
·         il giurisdizionalismo: cioè limitazione dei poteri della Chiesa, eliminazione di antichi privilegi (tribunali riservati agli ecclesiastici, l’asilo, cioè l’impunità per chi si rifugiava nei conventi e nelle chiese, ecc.), e controllo da parte dei sovrani sulle Chiese nazionali. Molti ordini religiosi e leggi che impedivano la vendita dei beni ecclesiastici furono aboliti. Il giurisdizionalismo riguardò i Paesi cattolici e provocò l’espulsione dei gesuiti da molti Stati, fino a quando il papa soppresse la Compagnia di Gesù (1773);
·         i diritti civili: furono estesi e fu riconosciuta la libertà di culto a ogni religione; in alcuni Paesi fu introdotta la libertà di stampa;
·         l’istruzione: i provvedimenti ebbero due scopi, l’estensione dell’istruzione elementare (la Prussia introdusse per prima l’obbligo nel 1763) e creazione di nuove scuole superiori, e la rottura del monopolio ecclesiastico sull’istruzione;
·         l’ordinamento giuridico: si adottarono nuovi codici; in Austria Giuseppe II abolì la tortura e limitò i casi di pena di morte
·         l’amministrazione: razionalizzazione della raccolta delle imposte, anche attraverso la costituzione di catasti dei beni immobili (campi, case, ecc.).

L’Illuminismo italiano e le riforme in Italia - La situazione creatasi in Italia dopo Aquisgrana creò le condizioni favorevoli alla introduzione di riforme, sull’esempio di quelle che erano state attuate dai sovrani illuminati di alcuni grandi Stati europei: da Federico II in Prussia, da Caterina in Russia, da Maria Teresa e Giuseppe II in Austria.

Milano, Napoli e Firenze centri illuministici - In Italia, infatti, già dopo la pace di Vienna (1738) si erano insediate due nuove dinastie - i Lorena in Toscana e i Borbone a Napoli - che, pur essendo straniere, godevano di notevole indipendenza; al retrivo e chiuso dominio spagnolo in Lombardia si era sostituito quello austriaco, più aperto alle nuove idee e caratterizzato da un’amministrazione onesta ed efficiente, decisa a migliorare le condizioni della regione. La maggior vivacità di scambi favorì, già prima della metà del secolo, il diffondersi nella penisola delle nuove idee provenienti dall’Inghilterra e ancor più dalla Francia. Ben presto si costituirono a Milano, a Napoli e a Firenze piccoli ma attivi gruppi di intellettuali conquistati dalle nuove idee. La coscienza della propria arretratezza culturale, e delle funeste conseguenze che ne derivavano sul piano economico-sociale, creò in essi una decisa volontà di mettersi al passo col pensiero europeo e li portò a ricercare i propri modelli a Londra e a Parigi, stabilendo, in più casi, diretti contatti personali con i massimi rappresentanti dell’Illuminismo francese e inglese. Si trattava, pertanto, di un rinnovamento che partiva dal basso, strettamente connesso con la rinascita della borghesia, che si risvegliava dal suo letargo secentesco.
Era una borghesia che, a diversità di quella comunale, non trovava la base della sua ricchezza nella mercatura o nelle manifatture, ma nella terra; e la sua rinascita fu una delle conseguenze della ripresa dell’agricoltura.
A Milano le figure più eminenti di questi intellettuali riformatori furono i due fratelli Verri, Pietro ed Alessandro, e Cesare Beccaria. I Verri furono al centro del gruppo che fondò la « Società dei Pugni» da cui nacque la rivista Il caffè, che nei suoi due anni di vita battagliera (1764-1766) svolse una efficace azione di critica agli aspetti negativi della società lombarda (nella legislazione, nell’economia, nell’educazione, nelle lettere e nel costume in genere), proponendo riforme ispirate alle innovazioni che venivano d’oltralpe. Molti dei collaboratori, tra cui Pietro Verri, furono chiamati, dal governo di Maria Teresa, a partecipare direttamente al rinnovamento amministrativo della Lombardia. Cesare Beccaria, anch’egli collaboratore de Il caffè e insegnante di economia politica a Milano, conseguì fama internazionale con l’opera Dei Delitti e delle pene (1764), nella quale egli propugnava l’abolizione della tortura e della pena di morte.
A Napoli le condizioni ambientali furono meno favorevoli allo sviluppo della cultura illuministica, perché non esisteva una borghesia che la promuovesse e sostenesse. Ciò spiega le incertezze, i ripensamenti e le contraddizioni che caratterizzano pensatori pur acuti e preparati quali Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani, Gaetano Filangeri e Gaetano Palmieri.
L’oggetto privilegiato dei loro studi fu l’economia ove accettarono, non senza limitazioni, le idee fisiocratiche: al Genovesi, autore delle Lezioni sul commercio ossia d’economia civile (1765) fu affidata la prima cattedra di economia politica istituita a Napoli da Carlo III; il Galiani scrisse un Dialogo sul commercio dei grani (1770) in francese, e un trattato Della moneta. Essi approfondirono però anche il tema della legislazione statale, vista soprattutto nei rapporti tra Stato e Chiesa, (sostenevano l’indipendenza del primo nei confronti della seconda sulla quale esso aveva diritto di esercitare un controllo) e il tema dell’istruzione: famosi furono il Piano delle scuole (1740) del Genovesi e il Della pubblica e privata educazione (1771) del Filangeri.
Sfortunatamente, l’azione culturale di questi autori non trovò l’appoggio concreto della borghesia, praticamente inesistente e non in grado di premere sul sovrano, per ottenere delle riforme.
In Toscana l’indirizzo empiristico, antimetafisico, proprio della cultura toscana dai tempi del Galilei e della sua scuola, costituì un terreno favorevole alla diffusione dell’Illuminismo, come dimostra anche il fatto che l’Enciclopedia vi ebbe ben due ristampe (a Lucca e a Livorno). Il centro culturale più attivo fu l’Università di Pisa, nella quale si formarono quasi tutti gli intellettuali che, con i loro scritti, stimolarono il granduca Pietro Leopoldo ad intraprendere le riforme e che furono suoi collaboratori nel realizzarle. Tra questi i più influenti furono gli economisti Pompeo Neri e Francesco Gianni e il giurista Giulio Rucellai.
Strumento efficace per lo sviluppo e la razionalizzazione dell’agricoltura fu poi l’Accademia dei Georgofili, il cui indirizzo prevalente fu il rafforzamento della mezzadria, considerata un’istituzione favorevole alla conservazione della pace sociale.
Le riforme - Fu in questo clima di risveglio culturale e di fervore sociale che maturarono le riforme. Non a caso la Lombardia, il Regno di Napoli e la Toscana furono gli Stati in cui esse ebbero una realizzazione più vasta e consapevole, perché in essi coincidevano gli interessi del sovrano con quelli della borghesia, rappresentata dagli intellettuali illuminati. La soppressione di vincoli feudali, infatti, e l’abolizione di privilegi, se corrispondeva alla duplice esigenza della borghesia di un più libero sviluppo economico e di una parificazione dei pesi fiscali, erano ben visti anche dal principe, perché rendevano più piena la sua autorità, liberandola dalle limitazioni che tali vincoli gli ponevano.
In particolare, lo sviluppo dell’economia dello Stato, se andava a vantaggio dei sudditi, e in particolare dei grandi proprietari terrieri, tornava a vantaggio anche del principe, che accresceva il suo potere in relazione all’aumentata ricchezza del Paese, da cui poteva attingere maggiori mezzi per la sua politica.
I principi illuminati che attuarono le riforme furono l’imperatrice d’Austria Maria Teresa e l’imperatore Giuseppe II per la Lombardia, il granduca Pietro Leopoldo per la Toscana, Carlo III di Borbone e suo figlio Ferdinando IV a Napoli.
Le riforme interessarono tutti i piani della vita sociale e politica e, pur nella diversità di attuazione nei diversi Stati, furono accomunate da iniziative e disposizioni di legge molto simili: si soppressero le corporazioni d’arti e mestieri che, con i loro statuti superati, costituivano un impaccio per la manifattura e il commercio; applicando le idee fisiocratiche e i consigli delle diverse accademie scientifiche, si curò la razionalizzazione dell’agricoltura; si abolirono le limitazioni dei prezzi dei prodotti agricoli; si costruirono importanti opere pubbliche quali canali, bonifiche, strade. Per ottenere una più giusta distribuzione dei pesi fiscali e, nel contempo, per incrementare le entrate, si abolirono le esenzioni e i privilegi del clero e dei nobili; si ricorse ad un censimento generale delle proprietà (il catasto); si abolirono gli appalti delle imposte. Per rispondere alle diffuse esigenze umanitarie, si migliorò la legislazione penale, giungendo perfino ad abolire la tortura e la pena di morte (in Toscana). Per rafforzare l’indipendenza dello Stato dalla Chiesa e ridurre l’ingerenza di quest’ultima, si limitarono o si abolirono alcuni privilegi, quali il foro ecclesiastico e il diritto d’asilo dei luoghi sacri; si abolì l’inquisizione e la censura ecclesiastica sui libri da stampare; si limitò il numero e l’entità degli ordini religiosi che dipendevano direttamente da Roma e non dai vescovi locali; si allontanarono i Gesuiti dall’insegnamento e poi li si espulsero dagli Stati.
La differenza più rilevante nell’attuazione delle riforme si incontrò tra il regno di Napoli e gli altri due Stati italiani. A differenza della Lombardia e della Toscana, a Napoli mancava una borghesia politicamente attiva: quella esistente era costituita da professionisti, che miravano ad inserirsi, direttamente o indirettamente, nell’apparato statale. Per questo motivo le riforme, che miravano ad una trasformazione economico sociale contro il potere dei baroni, non riuscirono ad acquistare incisività, non mutarono sostanzialmente la situazione e arrivarono ben presto ad un punto morto, mentre ebbero successo quelle contro il potere ecclesiastico, perché, in questo caso, gli interessi e le richieste del sovrano, dei nobili e degli uomini di cultura, coincidevano.
Il Piemonte, lo Stato Pontificio e Venezia restarono al di fuori del moto di rinnovamento che, comunque, entrò in crisi, e finì col bloccarsi del tutto, quando gli eventi rivoluzionari di Francia mostrarono che le mete della borghesia non potevano più conciliarsi con gli interessi del principe.

La rivoluzione industriale - L’impulso innovatore delle idee degli illuministi provocò in tutta Europa un grande interesse per i problemi connessi con la vita civile e in diversi paesi mise addirittura in movimento processi di profonda trasformazione delle condizioni economiche e sociali. Alle attività tradizionali dell’agricoltura e dell’artigianato andarono a poco a poco affiancandosi, prima in Inghilterra, poi nelle zone più ricche del continente, forme, via via più complesse, di produzione industriale basata sull’impiego delle macchine e sull’organizzazione sistematica del lavoro.
Questa profonda trasformazione dei metodi produttivi è stata chiamata rivoluzione industriale e non a torto, se si considera che l’avvento dell’industria ebbe conseguenze importantissime sulla società e sul modo di vivere degli uomini e influenzò profondamente anche il pensiero filosofico e la letteratura, creando nuovi problemi e stimolando nuove idee.
Nasceva così in modo ancora rudimentale una nuova civiltà, destinata a svilupparsi nell’Ottocento e ad affermarsi pienamente, con sorprendenti conquiste, nel nostro secolo.
-          Dall’artigianato all’industria - Agli inizi del Settecento l’artigianato era ancora ciò che era stato per tanti secoli: un’attività esclusivamente manuale, svolta con l’aiuto di una tecnica poco progredita e sulla base di un’organizzazione del lavoro che affidava al maestro-proprietario la direzione del laboratorio e a un numero limitato di apprendisti e di operai le varie fasi dell’esecuzione dell’opera. La qualità dei prodotti (tessuti, armi, attrezzi metallici, gioielli, vasellame, vetri) era spesso assai buona, ma la produzione era scarsissima e i manufatti, ottenuti con tante ore di lavoro, finivano per avere un costo così elevato che soltanto pochi potevano permettersi di acquistarli.
Per diminuire i prezzi e conquistare quindi strati sempre più larghi di compratori, bisognava aumentare la produzione sottraendo lavoratori all’agricoltura che ne aveva in abbondanza. I primi tentativi in questo senso furono fatti nel campo della lavorazione tessile: gli imprenditori cominciarono ad affidare lavori di tessitura, anche al di fuori della filanda, ai contadini, i quali vennero ad avere una seconda occupazione più redditizia che associavano alla coltivazione dei campi.
C’era però una grave difficoltà: non tutte le fasi della lavorazione potevano infatti essere svolte in questi laboratori domestici dove si poteva filare e anche tessere, ma non pettinare o tingere i tessuti, operazioni per le quali erano necessarie attrezzature più complicate e particolare competenza nei lavoratori. Si sentì quindi l’esigenza di concentrare i lavoratori in ambienti attrezzati per una data produzione, così da organizzare più efficacemente le varie fasi del lavoro.
-          Le prime fabbriche - Nacquero così, intorno alla metà del Settecento, le prime fabbriche attrezzate via via con macchine sempre più perfezionate che agevolavano il lavoro umano e consentivano una produzione in serie e di qualità garantita, in tempi molto più brevi. L’avvento delle fabbriche modificò anche profondamente la condizione del lavoratore: si impose il principio della specializzazione e della divisione del lavoro, per cui ciascuna fase del lavoro venne affidata a un determinato operaio.
I lavoratori, reclutati nelle campagne, poterono disporre di un salario regolare, ma le loro condizioni restarono spesso miserevoli e sorse tra la classe operaia e quella degli imprenditori che controllavano la produzione, un conflitto sociale destinato ad aggravarsi nel secolo successivo.
-          Le grandi invenzioni e lo sviluppo della tecnica - I problemi tecnici che si incontravano nell’organizzazione industriale del lavoro portarono all’invenzione di nuove macchine che consentirono un più intenso sfruttamento delle risorse naturali, oppure incrementarono la produzione dei manufatti.
L’industria tessile ebbe una spinta decisiva quando si introdussero nelle fabbriche la macchina filatrice e il telaio meccanico ideato dall’inglese Arkwright: la produzione aumentò e si poterono abbassare sensibilmente i prezzi dei manufatti di cotone.
Nell’industria la produzione di ferro ebbe, in Inghilterra, un fortissimo incremento quando nella fusione di questo metallo, del quale il paese era ricco, si impiegò non più il carbone di legna, ma quello fossile di cui si erano scoperti nell’isola ricchissimi giacimenti.
L’invenzione più importante fu però quella della macchina a vapore, ideata da James Watt: dapprima essa fu usata soltanto per azionare le pompe che estraevano acqua dai pozzi carboniferi, ma successivamente ebbe tutta una vasta serie di applicazioni. Grazie a queste invenzioni e alle sue applicazioni l’Inghilterra, nella seconda metà del Settecento, divenne il primo paese industriale del mondo.
Sempre al XVIII secolo risale la scoperta di un’altra fonte di energia naturale che doveva in seguito rivelarsi importantissima: l’elettricità, studiata dal francese Coulomb e da Alessandro Volta che inventò la pila.
Lo stimolo della mentalità illuministica, tuttavia, non si sentì soltanto nel campo della tecnica. In questo periodo nasce anche la chimica moderna soprattutto per merito del francese Lavoisier che per primo distinse sul piano teorico gli elementi dai composti e studiò la dilatazione termica e i fenomeni connessi con la combustione.
Il progresso della chimica ebbe ripercussioni favorevoli anche nella medicina. Pian piano si debellarono i grandi mali che periodicamente decimavano con terribili epidemie, favorite dalla mancanza di igiene e di rimedi adeguati, la popolazione europea. L’inglese Jenner scoprì il vaccino antivaioloso, aprendo così la ricerca medica a prospettive del tutto nuove.
-          Le città industriali - La più importante conseguenza dell’affermazione dell’industria e dei progressi scientifici e tecnici, fu che masse crescenti di popolazione abbandonarono le campagne dove si guadagnava pochissimo e si trasferirono nelle città. Tutt’attorno agli antichi centri cittadini sorsero sterminati e squallidi quartieri operai, mentre nelle zone minerarie nacquero addirittura nuove città, popolate esclusivamente da lavoratori dell’industria.
Per dare un’idea concreta della misura in cui si concentrava la popolazione nelle zone industriali dando vita a città sempre più grandi, basteranno queste cifre che si riferiscono alla città inglese di Manchester: tra il 1685-1760 la città passò da 6000 a 45.000 abitanti; nel 1800 ne aveva 72.000, nel 1850 303.000.
Lo stesso paesaggio iniziò una profonda trasformazione e l’Inghilterra ne subì per prima le conseguenze: sulla verde pianura, ricca di grano e di pascoli, si levarono sempre più numerose le ciminiere e sui declivi delle colline boscose si spalancarono i pozzi delle miniere.

La Rivoluzione americana (1765-1783) - Nella seconda metà del secolo si verificò un evento storico determinante: la ribellione alla madrepatria delle colonie inglesi d’America e la costituzione, al di là dell’Atlantico, di uno Stato indipendente, gli Stati Uniti d’America. La ribellione fu favorita dalla diffusione, tra i coloni, dei principi dell’Illuminismo e dalla fine della pressione che la Francia esercitava sulle colonie prima di essere sconfitta dall’Inghilterra nella guerra dei sette anni.
Quando, per rinsanguare l’erario esaurito dalle spese di questa lunga guerra, il parlamento inglese e il governo di Giorgio III pretesero di imporre nuove imposte alle colonie, senza aver avuto l’approvazione delle assemblee locali, queste si rifiutarono di pagarle. Dapprima (1764-1767) si tentò una soluzione di compromesso, poi, vista l’intransigenza dell’Inghilterra, si passò alla lotta armata (1767-1783). Le colonie riunitesi il 4 luglio 1776 dichiarano la loro indipendenza nel Congresso di Filadelfia, confermata dalla vittorie militari ottenute da Giorgio Washington a Saratoga (dicembre 1777) e a Yorktown (1781). Alle colonie americane si erano affiancate nella guerra all’Inghilterra la Francia, la Spagna e l’Olanda.
Fra gli atti approvati dai rappresentanti delle colonie ancor prima della dichiarazione d’indipendenza, vi fu la famosa Dichiarazione dei diritti (1774), nota come la «grande dichiarazione», che, rifacendosi alle idee di libertà e di democrazia elaborate in Europa dai filosofi del Settecento, affermava l’uguaglianza di tutti gli uomini e il loro diritto naturale alla vita, alla libertà, alla felicità, e proclamava il diritto dei cittadini a ribellarsi al sovrano che tali diritti non rispettasse.

La Rivoluzione francese (1789-1799) - Verso la metà del Settecento, la Francia si presentava come la maggiore potenza politica e militare del continente europeo.
Il modello di vita proposto dalla corte di Versailles, simbolo della Francia in uno dei momenti più gloriosi della sua storia, trionfava nei salotti di tutta Europa, mentre i princìpi progressisti e umanitari propugnati dagli illuministi non solo ricevevano entusiastica accoglienza presso gli uomini di cultura, ma trovavano realizzazione pratica nelle riforme attuate dai sovrani illuminati. Tuttavia dietro lo splendore della corte, dietro la floridezza economica e il prestigio culturale, la Francia nascondeva un’altra realtà. Nonostante i tentativi fatti da valenti ministri per dare un ordinamento razionale alla struttura amministrativa dello Stato, questa restava per molti versi arcaica e inefficiente, mentre profondi contrasti dilaniavano la società francese, ancora fondata sul privilegio aristocratico e sulla proprietà terriera.
Avvenne così che proprio la Francia che aveva proposto agli altri sovrani d’Europa il modello di un Re Sole che traeva il suo potere direttamente da Dio e che appariva il più sicuro baluardo della monarchia assoluta, divenne, a partire dal 1789, teatro di una grandiosa rivoluzione, destinata a mutare la storia non soltanto di quel paese, ma di tutta l’umanità.
a)      La società francese prerivoluzionaria - Le radici storiche della Rivoluzione francese, al di là delle circostanze particolari che ne favorirono il verificarsi alla fine del secolo XVIII, si trovano nella ormai insostenibile contraddizione tra la struttura sociale aristocratica della Francia - con il predominio degli ordini privilegiati (nobiltà e clero) - e la potenza economica che il Terzo Stato (o meglio la parte più elevata di esso, la borghesia) aveva conseguita nel corso degli ultimi secoli. La monarchia, realizzato con l’appoggio del Terzo Stato l’accentramento del potere nelle proprie mani, nel Settecento aveva ripreso una politica di protezione delle classi privilegiate, in particolare della nobiltà, riconfermandole tutti i privilegi sociali, quasi a compensarla del potere politico che le aveva tolto, e attribuendole onorari elevati, pensioni e stipendi militari e per le cariche di corte. La nobiltà finiva così con l’assorbire circa la quarta parte del bilancio dello Stato. Ciò avveniva mentre la borghesia registrava un momento di grande espansione e, nel contempo, acquisiva coscienza di essere l’effettiva forza della nazione. Era naturale che chiedesse di avere un corrispondente peso politico.
b)      L’influenza delle idee illuministiche - Questa consapevolezza fu chiarita e confermata dall’opera degli illuministi. I letterati scrivevano per il gran pubblico, ne chiarivano e sostenevano le rivendicazioni: la libertà, l’uguaglianza, la sovranità popolare. Le venerabili istituzioni del passato, a cominciare da quelle religiose, che erano il più saldo sostegno dell’antico regime, cadevano sotto la critica spregiudicata dei filosofi, critica che gli stessi nobili, inconsapevoli di preparare così la loro fine, condividevano e aiutavano a diffondere. Era qui, nel mondo delle idee, che la rivoluzione era incominciata. Una rivoluzione che pertanto non venne dal basso, dalle classi popolari, ma dall’alto, così come dall’alto sarà guidata: dalla borghesia.
c)      La borghesia - Il Terzo Stato, che stava al di sotto degli ordini privilegiati e rappresentava la stragrande maggioranza della popolazione, era estremamente composito. Ne facevano parte i contadini, gli artigiani, gli operai, ma anche la borghesia, formata da intellettuali, professionisti, banchieri, commercianti, imprenditori di opifici e manifatture, proprietari terrieri. Era questa la forza che si contrapponeva alla vecchia classe feudale. Nonostante le pastoie delle vecchie istituzioni, il commercio (interno ed estero, con l’Europa e con le colonie) e l’industria si erano sviluppati, le banche si erano moltiplicate, erano nate Società per azioni che operavano nel campo del commercio, delle assicurazioni, dell’industria. La terra era passata e continuava a passare dalle mani dei nobili indebitati a quelle dei borghesi, che si erano arricchiti. Al di sotto dell’alta borghesia, che abbelliva con i suoi palazzi le vie di Parigi e delle altre città di Francia, si era formata una piccola borghesia, il cui livello di vita si veniva elevando. In altre parole, mentre la nobiltà, rovinata dalla dispendiosa vita di corte, veniva costantemente perdendo di peso, la borghesia ne acquistava ogni giorno di più. Questo squilibrio di classi fu una delle cause della rivoluzione: la borghesia volle abolire l’ordine sociale esistente per sostituirlo con uno nuovo, in cui essa avesse il riconoscimento al quale riteneva d’avere diritto. La rivoluzione pertanto non nacque in una Francia immiserita, ma in una nazione fiorente, e fu la borghesia, che di questa floridezza godeva i frutti, ad assumerne la direzione, per orientarla secondo i suoi interessi.
d)     I contadini - La quasi totalità del terzo Stato era costituita da contadini, perché la Francia, nonostante lo sviluppo del commercio e delle manifatture, continuava ad essere una nazione prevalentemente rurale. E i contadini erano anche il ceto più sfruttato e più oberato di carichi di ogni genere. Su di loro pesavano gli antichi obblighi feudali (corvées, decime, censi, imposte regie, proibizione di caccia, servizio militare), ai quali si erano sovrapposte le richieste dei nuovi padroni borghesi, talvolta più esosi degli antichi. La soppressione dei pascoli comuni e dei diritti di spigolatura e di legnatico aveva privato i più poveri anche delle più piccole risorse. E’ comprensibile che i contadini, in queste condizioni di sfruttamento e di miseria, fossero pronti per la rivolta. La situazione delle classi inferiori era migliore nelle città, ove gli artigiani, nonostante i vincoli delle corporazioni, avevano maggiori possibilità di avanzamento. Gli operai occupati nelle manifatture spesso erano anche contadini per i quali il salario industriale era un’integrazione del reddito agricolo. Comunque, mancando di ogni coscienza di classe, nel momento rivoluzionario non ebbero difficoltà ad identificarsi con i borghesi. Contadini e popolani costituiranno la massa che fu la protagonista delle grandi azioni rivoluzionarie e diede al Terzo Stato il peso necessario per far valere le proprie richieste e portare avanti con successo le proprie rivendicazioni.
a)      L’Assemblea Nazionale Costituente - Le difficoltà finanziarie in cui, nonostante la floridezza dell’economia nazionale, si dibatteva la monarchia, incapace di risanare il disavanzo del bilancio statale, furono la circostanza che fece scoppiare la rivoluzione. Il Parlamento di Parigi non aveva approvato le proposte della monarchia per risanare il deficit e il re si vide costretto a convocare gli Stati Generali[19], che da semplice assemblea consultiva, per un atto rivoluzionario del Terzo Stato, si trasformarono in Assemblea Nazionale Costituente[20] (9 luglio 1789) con l’impegno di non sciogliersi sino a che non avesse dato una nuova Costituzione alla Francia. Questo primo passo rivoluzionario fu rinsaldato dall’insurrezione popolare (presa della Bastiglia, 14 luglio) e dalla costituzione della Guardia Nazionale, che assicurarono al Terzo Stato, all’interno dell’Assemblea e nel Paese, la forza per fronteggiare i tentativi dei nobili e della monarchia di fermare la rivoluzione. La rivolta dei contadini estese la rivoluzione in tutta la Francia. L’abolizione dei diritti feudali (decretata dall’Assemblea la notte del 4 agosto) e la Dichiarazione dei diritti furono due tappe fondamentali per l’instaurazione di un nuovo ordine, che trovò la sua codificazione nella Costituzione del 1791, una costituzione monarchica moderata, in cui il re e i suoi ministri erano affiancati da un’Assemblea legislativa che venne eletta quando l’Assemblea Costiuente si sciolse.
b)      L’Assemblea Legislativa - La borghesia poteva dire d’aver raggiunto il suo scopo, ma presto si vide che la monarchia non era disposta ad accettare le limitazioni impostele dalla costituzione. Così, sotto la spinta di più circostanze (dichiarazione di guerra dell’Austria e della Prussia, tentativo di fuga del re, prime sconfitte militari, tradimento di alcuni generali, timori di complotti antirivoluzionari all’interno) la rivoluzione si radicalizzò: i moderati, che numericamente prevalevano nell’Assemblea Legislativa, furono travolti dalla sinistra, rappresentata da Girondini[21] e Giacobini[22], e dalle pressioni della piazza, che concordemente volevano la fine della monarchia e l’instaurazione di una repubblica. L’Assemblea Legislativa si sciolse dopo aver indetto le elezioni per una nuova assemblea costituente che, in omaggio alla dottrina della sovranità popolare del Rousseau si chiamò Convenzione.
c)      La Convenzione e la Repubblica - La Convenzione proclamò la repubblica, processò Luigi XVI e lo condannò alla ghigliottina e s’impegno a dare una nuova Costituzione alla Francia. Fu un’opera turbata da lotte feroci tra i diversi gruppi politici. I Girondini, rappresentanti dell’alta borghesia provinciale e dei moderati, furono travolti dai Giacobini e la politica della Convenzione si spostò sempre più a sinistra. Fu votata una costituzione ultra democratica (costituzione dell’anno I), che però venne subito sospesa e non fu mai applicata. Si crearono organismi speciali con poteri dittatoriali: il Comitato di salute pubblica[23], il Comitato per la sicurezza nazionale e il Triumvirato (Robespierre, Saint-Just, Couthon). Dal giugno 1793, si aprì il periodo del Terrore[24], che fu dominato dalla figura di Robespierre[25], e la repubblica, anche per le pressioni dei popolani (i Sanculotti[26]), assunse atteggiamenti socialisteggianti, con viva attenzione per i problemi sociali. Nonostante i suoi eccessi, il Terrore, grazie all’opera inflessibile di Robespierre, ebbe il merito di soffocare i tentativi controrivoluzionari interni, di fermare l’invasione straniera e portare le armate francesi al di là delle proprie frontiere.
d)     Il colpo di stato di Termidoro e la reazione borghese - Quando la rivoluzione ebbe superati i gravi pericoli che la minacciavano, Robespierre (che aveva combattuto su due fronti: contro l’opposizione moderata di Danton[27] e contro quella estremista di Hebert) si trovò isolato, e la borghesia, contraria alle tendenze sociali che avevano caratterizzato il Terrore, riprese in mano la situazione con un colpo di stato effettuato il 9 Termidoro[28] (27 luglio ‘94). Robespierre e i suoi sostenitori furono ghigliottinati, fu emanata una nuova costituzione (la Costituzione dell’anno III, 1795), che diede vita ad una repubblica moderata, basata sul censo, il cui organo esecutivo era il Direttorio, un collegio di cinque membri. Il Direttorio ebbe vita difficile, insidiato da destra dai monarchici e da sinistra dagli estremisti democratici, e fu presto abbattuto con un nuovo colpo di stato da Napoleone (18 brumaio ‘99), che getterà così le basi per la sua dittatura personale. Comunque, nonostante queste evoluzioni, la borghesia col colpo di stato di Termidoro aveva raggiunto il suo scopo, perché d’ora in avanti, pur nelle diverse forme che successivamente assumerà, lo Stato francese riserverà alla borghesia, in particolare ai suoi strati più elevati, effettive possibilità di governo. La Rivoluzione si era conclusa con la nascita dello Stato borghese.

Il periodo napoleonico - Il periodo che va dal 1798 al 1815 è dominato dalla figura di Napoleone che, da oscuro generale che comanda l’Armata d’Italia, diventa prima console (1799), poi imperatore dei Francesi (1804) e crea un impero che abbraccia mezza Europa. Le tappe fondamentali della sua carriera splendida e drammatica sono indicate nella cronologia. Quello che qui ci interessa spiegare è il significato europeo e italiano della sua vicenda, le ragioni del suo fulmineo successo e dell’altrettanto rapido crollo.
a)      Il significato della vicenda napoleonica - Napoleone, da un certo punto di vista, chiude la Rivoluzione francese, in quanto, instaurando una dittatura personale, ne nega i princìpi fondamentali, quelli della partecipazione dei cittadini al governo e delle libertà politiche. Anche sul piano internazionale la creazione a suo arbitrio di nuovi Stati, che egli poi assegna ai suoi familiari, contrasta con il principio rivoluzionario del diritto dei popoli a scegliersi il proprio governo. D’altra parte, le sue campagne, che portano le armate francesi in tutta Europa, dalla Spagna alla lontana Russia, vi diffondono le idee rivoluzionarie, gettando i semi da cui fioriranno le rivoluzioni nazionali dell’Ottocento. Proprio questa bivalenza dell’opera di Napoleone spiega l’atteggiamento, a un tempo di ammirazione e di ostilità, dei suoi contemporanei; atteggiamento così evidente ad esempio, nel nostro Foscolo.
b)      Le cause dei successi napoleonici - Le armate francesi, guidate prima dai generali del Direttorio e poi da Napoleone, vinsero le potenze nemiche e sconvolsero l’assetto europeo precedente. Che cosa rese possibili successi di tanta portata? Vi ebbero certo gran parte le capacità militari di alcuni di questi generali e di Napoleone, l’entusiasmo delle truppe, che, pur malamente equipaggiate, combattevano per idealità da loro condivise. Ma la spiegazione va cercata soprattutto nel fatto che, alle spalle dell’esercito, era stata creata, prima dalla Convenzione e poi, e in misura ben maggiore, da Napoleone, un’organizzazione politico-amministrativa che aveva fatto della Francia uno stato moderno. Napoleone infatti, portando avanti l’opera di Luigi XIV e quella del giacobino Comitato di Salute Pubblica, aveva costruito un organismo fortemente centralizzato, in grado di disporre rapidamente di tutte le energie del Paese. Un Paese che egli aveva curato in modo che rifiorisse nella sua economia e nei cui confronti si era presentato come il pacificatore tra le opposte fazioni, e tra la Chiesa e la rivoluzione, assicurandosene il consenso. Infine, la diffusione dei princìpi rivoluzionari precorse le armate francesi, creò all’interno degli stessi Stati nemici gruppi filofrancesi, pronti a favorire il loro successo e ad accogliere come liberatori quei soldati che prima si erano battuti contro il pericolo dell’invasione della Francia da parte delle potenze che volevano soffocare la rivoluzione, e poi erano passati al contrattacco per muovere «guerra ai tiranni», e portare giustizia e libertà ai Popoli. Sotto il loro urto cadevano le vecchie impalcature statali, sociali e giuridiche offrendo possibilità di affermazione alle nuove forze nutrite dal pensiero illuministico. A differenza delle precedenti guerre, che avevano a base gli interessi delle dinastie, ora si trattava della lotta tra due opposte concezioni del mondo: l’una basata sull’autorità e il privilegio, l’altra sulla libertà e la ragione.
c)      L’impero napoleonico - Prima della spedizione in Russia (1812) Napoleone dominava l’Europa:
-          Francia: erano annessi allo Stato francese come territori gli Stati tedeschi sulla riva orientale del Reno, Belgio, Olanda, Savoia, Piemonte, Liguria, Toscana, ducato di Parma, Stato della Chiesa (tranne le Marche), Carinzia (regione austriaca), Trieste, Istria e Dalmazia;
-          Spagna: cacciati i Borbone, divenne re Giuseppe, fratello di Napoleone (1808);
-          regno di Napoli: dato a Giuseppe, poi dal 1808 a Gioacchino Murat, cognato di Napoleone;
-          regno d’Italia: Lombardia, Trentino, Veneto, Friuli, Modena, Bologna, Romagna e Marche costituirono (1804) il regno di cui era re lo stesso Napoleone;
-          Germania: alcuni Stati del Nord furono riuniti nel regno di Westfalia dato al fra tello Gerolamo; restava indipendente la Prussia, ma costretta al ruolo di alleato di Napoleone;
-          Polonia: spartita fra Prussia e Russia non esisteva come Stato; Napoleone creò il Granducato di Varsavia;
-          Svezia: possedeva anche la Norvegia; alleato della Francia, il re Carlo XIII nominò successore il generale francese Bernadotte, che governò dal 1810 e fondò la dinastia che regna tuttora;
-          Austria e Ungheria: sciolto l’impero, gli Asburgo divennero imperatori d’Austria; sconfitti, si allearono con Napoleone che sposò Maria Luigia, figlia dell’imperatore.
-          Russia: tra il 1808 e il 1812 anche lo zar Alessandro I fu alleato di Napoleone.
L’unica potenza nemica e indipendente era l’Inghilterra che con la flotta proteggeva l’indipendenza del Portogallo, del regno di Sardegna (la sola isola) dei Savoia, e il regno di Sicilia dove si erano ritirati i Borbone cacciati da Napoli.
d)     Le ragioni del rapido sfacelo - Ma, contrariamente alle comuni aspettative e alle speranze, queste guerre non tardarono a rivelare un’altra faccia: dimostrarono di essere lo strumento dell’ambizione dinastica di Napoleone e degli interessi della borghesia francese. E allora i popoli, ai quali le armate napoleoniche avevano portato il principio dell’autodeterminazione, offesi nei loro sentimenti nazionali, si ribellarono. Napoleone sarà impotente di fronte alle guerre nazionali scatenategli contro in Spagna, Russia e Germania, e sarà trascinato al crollo. Tanto più che i vecchi sovrani, ai quali, per spirito nazionalistico, si erano avvicinati i popoli, avevano appreso la lezione impartita loro da Napoleone, non solo sul piano militare, ma anche su quello dell’organizzazione dello Stato, e si erano affrettati a fare concessioni di tipo moderatamente liberale, che poi, passata la bufera, ritirarono.
e)      L’eredità napoleonica - Quando Waterloo porrà fine alla parabola napoleonica, resterà di lui, oltre al suo mito, che avrà presa ancora sulle generazioni future, una grande impronta nella società europea. Essa non sarà più la società prerivoluzionaria; sarà ormai diventata una società moderna, fondata su una maggiore uguaglianza giuridica dei cittadini, ad ognuno dei quali viene offerta la possibilità di ascesa sociale in base ai propri meriti. Il Codice napoleonico, acquisito da quasi tutti gli Stati, assicurava, oltre alla libertà civile e alla tutela giudiziaria, i diritti della proprietà privata, instaurava il matrimonio civile e consentiva il divorzio. L’impegno di Napoleone per tutto quanto poteva favorire lo sviluppo delle attività economiche e per la costruzione di grandi opere pubbliche, diventerà dopo di lui funzione riconosciuta come doverosa dagli Stati moderni. Tra le istituzioni che questi adotteranno per il controllo delle finanze vi sarà sempre quella di una Banca nazionale sul tipo della Banca di Francia, creata da Napoleone per porre riparo al disordine finanziario determinato dalla Rivoluzione. La laicizzazione dello Stato, e conseguentemente della società, che Napoleone aveva conseguito attraverso il Concordato col Pontefice, diverrà anch’essa un’altra caratteristica di quasi tutti gli Stati europei nell’Ottocento. È però nel campo amministrativo e in quello dell’istruzione che il modello creato da Napoleone avrà il maggior successo. Egli centralizzò l’amministrazione creando l’istituto dei prefetti, che reggevano il dipartimento in dipendenza dal potere esecutivo centrale; tutta quanta l’amministrazione statale era in mano a una burocrazia specializzata, costituita da funzionari di carriera; la giustizia era affidata a giudici di nomina statale. Anche l’ordinamento dell’istruzione diventerà un modello comunemente seguito: le scuole vennero divise da Napoleone in elementari, medie, superiori, ed erano controllate e regolamentate dallo Stato.

L’assetto dell’Italia nell’età napoleonica
a) Dopo la prima campagna - La prima campagna militare che Napoleone condusse in Italia quale generale del Direttorio (1796-1797) scardinò, con una serie di brillanti vittorie che portarono alla pace di Campoformio (1797), l’assetto che la penisola aveva avuto ad Aquisgrana, con il trattato di pace che nel 1748 pose fine alle cosiddette guerre di successione. Furono creati nuovi Stati: la Repubblica Cispadana e la Repubblica Traspadana, che daranno origine con la loro fusione alla Repubblica Cisalpina con capitale Milano; la Repubblica Ligure, vassalla della Francia, in luogo della vecchia repubblica oligarchica; e una Repubblica Romana creata dai Francesi dopo avere allontanato il Pontefice. Breve vita ebbe una Repubblica Veneziana promossa dai Giacobini, perché Venezia, col trattato di Campoformio, fu ceduta da Napoleone all’Austria.
Successivamente, durante la campagna di Napoleone in Egitto, si costituì a Napoli, cacciati i Borboni che si rifugiarono in Sicilia, una Repubblica Partenopea. Così, agli inizi del 1799, tutta la penisola si trovava sotto il controllo diretto o indiretto della Francia.
Il rapido successo delle armate francesi in Italia fu dovuto tra l’altro all’atteggiamento favorevole di una minoranza di intellettuali che, conquistati dalle idee rivoluzionarie, collaborarono con gli occupanti. La costituzione di più repubbliche fu considerata da costoro solo un momento transitorio, che avrebbe dovuto portare alla formazione di una federazione o di una grande repubblica unitaria.
La inconsistenza di questi Stati si mostrò chiaramente quando le truppe francesi, battute dalle potenze avversarie alleate nella seconda Coalizione dovettero abbandonare la penisola: essi crollarono tutti. L’episodio più drammatico fu la fine della Repubblica Partenopea (1799) e l’esecuzione dei patrioti che ne erano stati l’anima.
b) Dopo la seconda campagna - La vittoria a Marengo (1800) di Napoleone, ormai primo console, e la successiva pace di Lunéville (1801), portarono alla ricostituzione della Repubblica Ligure e di una più ampia Repubblica Cisalpina che, nel 1802, fu trasformata in Repubblica Italiana, con grande delusione degli Italiani che vedevano eleggere presidente di essa lo stesso Bonaparte, il che testimoniava concretamente la mancanza di autonomia del nuovo Stato. Quando Napoleone si fece nominare imperatore di Francia (1804), la Repubblica Italiana fu trasformata in Regno d’Italia, di cui era re lo stesso Napoleone e il cui governo fu affidato al viceré Eugenio di Beauharnais, figliastro di Napoleone (1805).
La condizione di satelliti degli Stati italiani fu ribadita quando (dal 1805) i territori della Repubblica Ligure, del Ducato di Toscana e del Lazio furono annessi direttamente alla Francia, e il Regno di Napoli fu assegnato prima a un fratello di Napoleone, Giuseppe, poi al cognato Gioacchino Murat. In Sicilia e in Sardegna si erano rifugiati rispettivamente il sovrano borbonico e il Savoia.
c) I patrioti italiani di fronte a Napoleone - Quando Bonaparte si affacciò per la prima volta alle Alpi, nel 1796, si accelerò il formarsi di una sinistra italiana singolarmente avanzata, che diede vita a discussioni e polemiche sulla futura sistemazione dell’Italia. Si trattava di controbattere le affermazioni di taluni circoli e giornali parigini che sostenevano l’immaturità dell’Italia ad una politica autonoma. Il centro di queste discussioni e polemiche fu Milano. A dimostrare la sensibilità sociale di questi patrioti italiani sta il fatto che, nonostante la diversità delle loro opinioni, tutti furono concordi nel riconoscere la necessità di porre riparo alla miseria e all’arretratezza delle classi più povere.
La politica di Napoleone che puntò alla formazione di tanti Stati vassalli, generò una grande delusione; tanto più quando Napoleone, avendo già affermato la sua dittatura personale come imperatore, trasformò la Repubblica Italiana nel Regno d’Italia, di cui cinse egli stesso la corona.
Ai patrioti italiani si prospettò allora la scelta tra questo nuovo dispotismo e l’antico; ma essi seppero riconoscere la differenza fra i due. Il dispotismo napoleonico portava con sé, anche se spesso traditi sul piano concreto, i princìpi della Rivoluzione; risvegliava anche, suo malgrado, il sentimento nazionale; educava, attraverso il servizio prestato nell’esercito, all’uso delle armi; apriva, tramite l’amministrazione, possibilità di partecipazione attiva alla vita dello Stato ad elementi sino ad allora esclusi.
E si trattò di un’amministrazione quanto mai operosa, che portò a termine la trasformazione dello Stato e della società solo timidamente avviata dai prìncipi riformatori del Settecento. Furono soppressi i vincoli feudali ed economici, i privilegi dei monasteri, dei tribunali particolari a cominciare da quelli ecclesiastici, fu affermata l’uguaglianza civile, furono promosse l’istruzione pubblica, l’agricoltura, i commerci e l’industria che si avvantaggiarono della caduta delle barriere doganali e dei pedaggi, dell’ampliamento della rete stradale, dell’unificazione dei pesi e delle misure.
Proprio per questo, quando, sconfitto Napoleone, le grandi potenze vollero restaurare nel Congresso di Vienna l’antico regime, erano già pronte anche in Italia le forze che, tramite le congiure e le rivoluzioni, si sarebbero impegnate ad abbattere il nuovo assetto: erano forze che avevano fatto il loro apprendistato nelle armate e nell’amministrazione napoleonica.

6. Restaurazione, Romanticismo e Risorgimento
Il congresso di Vienna: il mercato dei popoli - La sconfitta di Napoleone era avvenuta nel segno del nascente sentimento nazionale: la Rivoluzione francese lo aveva suscitato affermando il principio dell’autodecisione dei popoli, Napoleone lo aveva calpestato nella costruzione del suo impero personale e familiare.
Il congresso di Vienna, riunitosi in seguito alla sconfitta napoleonica a Lipsia, era stato cieco di fronte a questa realtà e l’ordine europeo fu da esso concepito in funzione dell’interesse delle grandi potenze e i popoli furono considerati merce di scambio. Il congresso ebbe il compito di stabilire un equilibrio nell’Europa devastata dagli eserciti napoleonici e vi presero parte decine di delegazioni, ma lo dominarono Metternich, rappresentante dell’impero d’Austria, lo zar Alessandro I, Castlereagh, ministro inglese, e Tayllerand, il plenipotenziario francese che riuscì a far passare l’idea che la Francia e Luigi XVIII erano «vittime» di Napoleone.
a)      La Restaurazione - Il congresso di Vienna volle dare l’idea di agire in nome dei popoli e delle nazioni, fissando princìpi ideali ai quali ispirarsi, come quello di legittimità: quanto fatto dalla rivoluzione e da Napoleone erano infatti violazioni dei diritti dei sovrani e dei popoli, e occorreva perciò ripristinare quei diritti; su questa base furono rimesse sul trono le vecchie dinastie. Lo zar Alessandro, pervaso da un atteggiamento mistico, propose una Santa alleanza che impegnasse tutte le potenze a sorvegliare sui popoli e imporre una pace fondata sui princìpi cristiani; l’Inghilterra rifiutò di farne parte e Metternich trasformò il progetto in impegno di reciproca assistenza militare fra Austria, Prussia e Russia per soffocare eventuali nuove rivoluzioni. Col congresso di Vienna la carta d’Europa non fu sconvolta, caso mai fu riportata alla situazione precedente le grandi campagne napoleoniche e si chiuse con la convinzione dei partecipanti di aver dato un assetto durevole al vecchio continente. Nonostante i suoi limiti il congresso di Vienna rimane tuttavia un fatto importante nella storia: inaugurò infatti la stagione delle grandi «conferenze» fra potenze che dura ancora oggi; l’obiettivo è sempre lo stesso e, forse, potremmo dire, identica l’illusione che, se le grandi potenze che dominano il mondo si mettono d’accordo, possano creare un «ordine internazionale garantito dalla loro forza» che instauri una situazione di pace.
b)      Debolezza interna della Restaurazione - La restaurazione progettata dal congresso di Vienna si rivelò un «ordine» destinato a non durare. In primo luogo c’era una diversità fra le potenze europee: la Russia viveva la contraddizione fra modernità e concezione autocratica (divina e assoluta) del potere dello zar; l’impero d’Austria spendeva le sue forze per mantenere un posto di rilievo in Germania e il dominio su molte nazioni (slavi, ungheresi, italiani, croati, polacchi, ecc.); la Prussia seguiva una strada efficace di modernizzazione e di egemonia sul mondo tedesco basata sulla forza militare. Con queste potenze poco avevano da spartire l’Inghilterra, già avviata da tempo a rafforzare il regime parlamentare e liberale, e la Francia, che non poteva eliminare con un colpo di spugna le abitudini di vita civile e politica assunti dalla rivoluzione in poi: la spaccatura in Francia si rese infatti subito evidente con la rivoluzione di luglio del 1830, quando il popolo e le classi borghesi si ribellarono al tentativo di Carlo X di imporre una monarchia assoluta: al suo posto fu instaurata la monarchia costituzionale di Luigi Filippo; il fronte delle potenze vincitrici di Napoleone era di fatto rotto: da una parte le monarchie assolute, dall’altra Francia e Inghilterra. In secondo luogo, accanto a queste grosse diversità fra le varie potenze il dispregio delle aspirazioni nazionali suscitò agitazioni, insurrezioni e rivoluzioni che avrebbero portato al crollo dell’assetto stabilito a Vienna e al sorgere di nuovi stati nazionali: la Grecia, il Belgio, l’Italia, la Germania; mentre la Polonia, l’Ungheria e gli Stati baltici dovranno attendere la prima guerra mondiale per raggiungere l’indipendenza. L’assetto dato all’Europa dal congresso di Vienna non teneva conto delle aspirazioni dei popoli all’unità nazionale e all’indipendenza, e fu ben presto scosso da moti rivoluzionari che esplosero in varie parti del continente. Tuttavia, grazie agli sforzi della Santa Alleanza, esso poté essere faticosamente mantenuto fino quasi alla metà del secolo, e costituì il quadro entro il quale le maggiori potenze (soprattutto l’Inghilterra e la Francia) si avviarono a un rapido sviluppo economico e industriale. Assai più lento e contrastato fu il cammino dei paesi come la Germania e l’Italia, frazionate in molti staterelli e sottoposte all’egemonia diretta o indiretta dell’Austria. Qui la via del progresso economico e civile passava necessariamente per l’unificazione nazionale e poteva essere imboccata solo dopo lunghe e difficili lotte.
c)      I primi moti per la libertà - Nonostante la rivoluzione americana e quella francese avessero affermato i diritti dell’uomo alla libertà e all’uguaglianza di fronte alla legge, i sovrani rimessi sul trono dal congresso di Vienna nel 1815 ripresero a governare in generale come sovrani assoluti e restaurarono i privilegi della nobiltà. Contro questi sovrani, nei diversi Stati europei, gli uomini più aperti e animati da idee innovatrici si batterono con accanimento per strappare loro non solo l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e le libertà di parola, di stampa, di associazione, ma anche la partecipazione alla formazione delle leggi dello Stato, mediante l’elezione di propri rappresentanti alle assemblee legislative (parlamenti). In una parola, chiedevano la costituzione o carta o statuto: un documento scritto, che doveva valere come legge suprema dello Stato, con il quale il sovrano concedeva questi diritti e si impegnava a rispettarli. Coloro che si batterono in favore delle libertà individuali e della costituzione, furono detti liberali. Si trattava in genere di borghesi, cioè di intellettuali, commercianti, professionisti, oppure degli elementi più avanzati e aperti dell’aristocrazia; le masse popolari, condizionate dalla propaganda reazionaria e dall’ignoranza, erano ancora assai arretrate e non potevano ancora manifestare esigenze di progresso sociale e politico. Sul modo di partecipare al potere politico i liberali non erano però tutti d’accordo. Alcuni, i moderati, volevano una costituzione sul tipo di quella inglese, con un parlamento eletto dalla parte più ricca della popolazione. Altri, i cosiddetti democratici, volevano una vera e propria democrazia sul tipo di quella espressa dalla rivoluzione francese, con un parlamento eletto, senza distinzioni, da tutti i cittadini. Nei paesi soggetti a un sovrano straniero, la lotta dei liberali divenne anche lotta per l’indipendenza nazionale. In Italia i liberali si mossero in diverse direzioni; da un lato svolsero attività cospirativa per tentare, con l’insurrezione armata, di costringere i sovrani a concedere la costituzione; dall’altra presero iniziative culturali, fondando giornali e riviste per diffondere le loro idee, e iniziative pratiche, adoperandosi, soprattutto nell’Italia settentrionale, per apportare le più urgenti riforme in ogni campo, per migliorare l’agricoltura e l’industria e fondare nuove scuole.
d)     Il 1848: una grande rivoluzione europea - Il 1848 segna una svolta nella storia d’Europa; in quell’anno un’unica grande rivoluzione, di carattere nettamente liberale, scuote tutta l’Europa; i popoli insorgono contro i sovrani o per riscattare una condizione di miseria e di oppressione sociale (così in Francia), o per realizzare le proprie aspirazioni alla libertà, all’indipendenza e all’unità nazionale (così in Germania e nei Paesi dell’impero asburgico, tra cui l’Italia). Si trattò, quindi, di una rivoluzione europea, che nasceva da esigenze comuni. Per comprendere la vastità e la rapidità del grande incendio rivoluzionario che avvolse l’Europa nel 1848-49 occorre tener presente innanzi tutto che lo sviluppo economico e sociale, realizzato in Europa nei decenni precedenti, aveva reso la sistemazione politica fissata dal congresso di Vienna sempre più insoddisfacente e inadeguata alle nuove esigenze dei popoli. Inoltre, proprio negli anni immediatamente precedenti il 1848 c’era stata una grande carestia per lo scarso raccolto di frumento e di patate (in Irlanda oltre mezzo milione di persone erano morte di fame), e nel 1847 si era avuta una crisi nel settore dell’industria che aveva prodotto fallimenti, disoccupazione e miseria. Se comuni all’intera Europa erano le condizioni di crisi e di disagio economico, diversi, almeno in parte, erano nei singoli paesi i problemi da risolvere. Nei paesi industrialmente più progrediti dell’Europa occidentale (come la Francia e le regioni renane in Germania), le rivendicazioni liberali si intrecciavano con le richieste del proletariato. Le condizioni di sfruttamento cui erano sottoposti e il diffondersi delle idee socialiste, spingevano infatti i proletari all’azione politica. Nel centro-sud del continente europeo, invece, gli obiettivi della rivoluzione furono essenzialmente di tipo nazionale e liberale; e le principali forze che la mossero furono la borghesia evoluta e il ceto intellettuale. In Italia, in Germania, in Ungheria si lottò per conseguire l’unificazione politica e l’indipendenza da un governo straniero, oltre che per ottenere quelle riforme costituzionali che garantissero le libertà fondamentali e i diritti dei cittadini. L’ondata rivoluzionaria investì nel febbraio del 1848 la Francia, dove al governo sempre più reazionario di Luigi Filippo, repubblicani e democratici risposero cacciando il re e costituendo un governo provvisorio, presieduto dal poeta Lamartine, al quale parteciparono anche i socialisti, tra cui Louis Blanc. L’Assemblea eletta a suffragio universale per dare alla Francia una costituzione repubblicana risultò tuttavia composta in maggioranza di moderati e conservatori; il proletariato, deluso nelle sue speranze, reagì con l’insurrezione che tuttavia venne soffocata nel sangue dalle truppe regolari del generale Cavaignac. In dicembre Luigi Napoleone Bonaparte fu eletto presidente della repubblica. Nell’impero asburgico le rivendicazioni ebbero carattere liberale e nazionale: oltre alle riforme e alla costituzione si chiedeva da parte dei popoli soggetti una maggiore autonomia dal governo austriaco. In marzo scoppiarono tumulti a Vienna e Metternich fu costretto ad abbandonare l’incarico. Contemporaneamente a Praga e a Budapest si costituirono governi provvisori. Nonostante le pro messe iniziali della monarchia austriaca, le insurrezioni di Vienna e di Praga furono rapidamente domate e anche in Ungheria, malgrado l’eroica resistenza dei patrioti, venne ristabilito l’ordine con l’aiuto dello zar di Russia (agosto 1849). Nella Confederazione germanica[29], dove in quegli anni si era andata affermando la potenza della Prussia, scoppiarono nel marzo del ‘48 in vari Stati numerose insurrezioni che costrinsero i principi a concedere riforme e a indire un’assemblea di rappresentanti di tutti gli Stati per elaborare una nuova costituzione. L’Assemblea si riunì a Francoforte e decise di dar vita a una nuova Confederazione germanica, di cui fu offerta la corona al re di Prussia. Ma questi, temendo l’ostilità dell’Austria, esclusa dalla Confederazione, rifiutò l’offerta e fece sciogliere l’Assemblea. A poco più di un anno dall’inizio dei moti rivoluzionari, la vittoria delle forze conservatrici appariva completa. Nel 1849 Austria, Prussia e Russia riuscirono a soffocare le rivoluzioni, ma l’Europa del congresso di Vienna era ormai morta: in realtà, gli avvenimenti del 1848 avevano recato un grave colpo al prestigio delle monarchie europee, costringendole a scendere a patti con le borghesie nazionali e in un caso almeno, quello francese, a capitolare. Il processo di rafforzamento della Prussia da un lato, e di disgregazione dell’impero asburgico dall’altro, sebbene momentaneamente fermato, era destinato a continuare e ad aggravarsi. Per la prima volta nella storia, masse di uomini ispirate da un programma e da una fede socialista avevano combattuto per le strade a fianco dei liberali e dei repubblicani. «Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo»; con queste parole si apriva il Manifesto del Partito Comunista[30] pubblicato da Marx e Engels al principio del 1848. Se dalle prove del 1848 queste nuove forze uscivano indubbiamente sconfitte, grandi paassi avanti erano stati fatti nell’elaborazione di quella dottrina socialista che nei decenni successivi era destinata ad avere un peso sempre maggiore nella storia europea.

Fasi del Risorgimento italiano[31] - Il processo di formazione dello Stato nazionale italiano (1815-61) va sotto il nome di Risorgimento, inteso non come riconquista di una unità politica, mai esistita nel nostro Paese, ma come rinascita dell’Italia alla libertà, all’indipendenza, alla dignità di nazione, così da colmare il distacco che la separava dai maggiori Stati europei.
Nel Risorgimento possiamo distinguere le seguenti fasi:
a)      I moti carbonari - I primi tentativi di mutare la situazione determinata in Italia dal congresso di Vienna furono opera delle società segrete e in particolare della Carboneria, che fu l’artefice dei moti del 1820-1821 nel Napoletano e nel Piemonte. L’obiettivo dei patrioti era di ottenere dai prìncipi una moderata costituzione. Dopo un iniziale successo, i moti fallirono per l’intervento dell’Austria. Nel Lombardo Veneto non si arrivò neppure all’azione perché le congiure furono preventivamente scoperte e i patrioti incarcerati (tra questi Pellico). Nel 1831, sull’onda del felice esito della Rivoluzione francese del 1830, scoppiò a Modena un moto, che si allargò a parte dell’Emilia e fu soffocato militarmente, anche questa volta dall’Austria.
b)      La «Giovine Italia» e i moti mazziniani - I Carbonari fallirono nel loro intento per tre motivi fondamentali: perché avevano confidato nella solidarietà dei sovrani, che invece li tradirono (Ferdinando I a Napoli, Carlo Alberto in Piemonte, Francesco IV a Modena); perché si erano proposti finalità solo locali, senza coordinare i vari moti; perché, per segretezza, mancavano di comunicazione col popolo. Sono queste le critiche che Giuseppe Mazzini[32], carbonaro egli stesso, mosse alla Carboneria. Di conseguenza egli fondò una nuova società, la Giovine Italia[33], che, facendo leva sulle forze di tutto il popolo, mirava a costituire uno Stato unitario, libero, indipendente, repubblicano. La Giovine Italia organizzò una serie di moti, caratterizzati tanto dalla generosa disponibilità al sacrifico dei loro protagonisti, quanto da una mancanza di realismo destinò al fallimento: è del 1834 il tentativo di far sollevare il Regno di Sardegna con l’invasione della Savoia e la contemporanea sollevazione di Genova; è del 1844 lo sbarco in Calabria dei fratelli Bandiera per far insorgere le popolazioni del Napoletano. Tutti falliti.
c)      Le proposte moderate - L’insuccesso dei moti mazziniani e il radicalismo della Giovine Italia, che turbava particolarmente la coscienza dei liberali cattolici, favorì il tramonto del mazzinianesimo e il rafforzarsi di una corrente moderata che si attestò sostanzialmente su tre posizioni:
-          il neoguelfismo di Gioberti[34] (autore del Primato morale e civile degli Italiani, 1843), per il quale la soluzione del problema italiano stava in una federazione di principi sotto la presidenza del Pontefice e nella concessione di limitate riforme liberali;
-          la soluzione filosabauda di Cesare Balbo[35] (autore di Le speranze d’Italia, 1844), che proponeva anch’egli una federazione italiana sotto la presidenza del re di Sardegna, dalla quale però doveva essere esclusa l’Austria, compensata con territori nei Balcani;
-          la proposta filosabauda di Massimo D’Azeglio[36] (Ultimi casi di Romagna, 1846), che sottolineava la necessità di cacciare l’Austria anche con le armi, fidando nell’esercito piemontese.
-          Un posto a sé occupò il gruppo federalista repubblicano, nel quale primeggiava Carlo Cattaneo[37]. Poiché avversava le posizioni neoguelfe, questa corrente fu chiamata neo-ghibellina.
d)     Le riforme e la concessione delle Costituzioni - Le teorie del Gioberti ebbero larga diffusione fra gli spiriti moderati, che desideravano una soluzione non traumatica del problema politico italiano. L’elezione al pontificato di Pio IX Mastai Ferretti, le riforme concesse prima da lui e poi dagli altri principi, il progetto di un’unione doganale tra il Papa, il re di Sardegna e il granduca di Toscana, fecero credere che la federazione auspicata da Gioberti stesse per realizzarsi. Il processo riformistico, avviatosi con un’intesa fra prìncipi e popolazioni, si concluse con la concessione di Costituzioni in tutti gli Stati: concessione che fu però subìta dai prìncipi con riluttanza e sotto la pressione del popolo.
e)      La rivoluzione del ‘48 in Italia e la prima guerra d’indipendenza - Come conseguenza dell’insurrezione parigina, scoppiarono disordini a Berlino, Vienna e in altre città. Su questi moti si innestò la prima guerra di indipendenza contro l’Austria, capeggiata, pur dopo molte sue incertezze, da Carlo Alberto. La partecipazione di truppe provenienti dalla Toscana, da Napoli, dallo Stato Pontificio smbrò trasformare la guerra regia in una guerra nazionale per l’indipendenza della penisola. Sembrava avverarsi la tesi sostenuta da D’Azeglio: Carlo Alberto, con l’aiuto degli altri prìncipi, avrebbe cacciato l’Austria, dando vita a una federazione di Stati con costituzioni liberali.
f)       Il 1849 e la ripresa del mazzinianesimo - La sconfitta finale di Carlo Alberto a Novara nel 1849, rimasto solo dopo il ritiro dalla guerra degli altri prìncipi italiani, segnò la momentanea eclissi del programma moderato. Per contraccolpo si affermarono governi radicali di ispirazione mazziniana: in Toscana con Guerrazzi; a Roma, dopo la fuga del Papa, fu proclamata una repubblica al cui governo partecipò lo stesso Mazzini e la cui difesa fu demandata al mazziniano Garibaldi; a Venezia, fu proclamata la Repubblica democratica di San Marco. La difesa di Roma e di Venezia (che caddero dopo strenua resistenza), nel loro disperato eroismo e nel lucido olocausto di giovani patrioti, fu la più alta testimonianza del valore morale, religioso, che la causa italiana aveva assunto grazie anche alla predicazione di Mazzini.
g)      Il Piemonte si prepara a diventare lo Stato-guida (1849-1858) - Mentre la reazione imperversava negli Stati italiani, il Piemonte, il cui re, Vittorio Emanuele II, aveva mantenuto la Costituzione emanata da Carlo Alberto, e che era diventato rifugio di esuli e perseguitati, richiamò su di sé le speranze dei liberali italiani. Tanto più che, per l’opera soprattutto di Cavour diventato primo ministro (1852), il Piemonte si avviava ad assumere in campo politico, economico e sociale, la fisionomia di uno Stato moderno. Cavour riuscì, con la partecipazione alla guerra di Crimea e il successivo congresso di Parigi, a fare del problema italiano un problema europeo e a trovare consensi e alleanze militari per la sua azione contro l’Austria. La reviviscenza del mazzinianesimo che si manifestò in attentati e moti ed ebbe la sua espressione più rilevante nella spedizione di Sapri, fornì a Cavour motivi per sollecitare la soluzione del problema italiano.
h)      Il 1859 e la seconda guerra di indipendenza - La politica italiana è ormai nelle mani di Cavour, che nel 1859 tira le fila della trama precedentemente ordita: stretta un’alleanza con Napoleone III, desideroso di sostituire in Italia il predominio francese a quello austriaco, Cavour affronta l’Austria (seconda guerra di indipendenza) e ottiene, se non tutto il LombardoVeneto, almeno la Lombardia. Il dilagare dei moti filosabaudi nell’Italia centrale e la conseguente cacciata dei prìncipi, consente di annettere al Piemonte anche la Toscana e l’Emilia-Romagna.
i)        La spedizione garibaldina - Nell’impresa dei Mille che portò a una rapida occupazione della Sicilia e del Napoletano, si manifestò in modo quasi emblematico l’opposizione fra le due anime del Risorgimento: quella mazziniano-popolare e quella sabaudo-piemontese. La spedizione dei Mille, nonostante i proclami di lealtà di Garibaldi a Vittorio Emanuele, fu di chiara ispirazione mazziniana, sia per gli uomini che la costituirono, sia per il suo porsi al di fuori della politica diplomatica del Cavour. E del resto Mazzini aveva raggiunto Garibaldi a Palermo. Se l’impresa avesse potuto raggiungere indisturbata le mete che si prefiggeva, avrebbe dovuto concludersi con la convocazione di un’Assemblea Costituente, cui sarebbe spettato di decidere l’assetto da dare al nuovo Stato nazionale; Garibaldi inoltre non si sarebbe fermato a Napoli, ma avrebbe proseguito sino alla liberazione di Roma. Timoroso di questi sviluppi istituzionali e delle complicazioni interne ed estere che essi potevano portare (la rottura con la Francia), Cavour fece intervenire l’esercito regio e raccolse politicamente i frutti dell’impresa garibaldina. La Sicilia, il Napoletano, e le Marche (già appartenenti allo Stato Pontificio) furono così annesse al Piemonte mediante il solito plebiscito. Roma e il Lazio rimasero al Pontefice.
j)        1861: la proclamazione del Regno - Si era costituito un nuovo Stato: a Torino il primo Parlamento italiano, cui partecipavano rappresentanti di tutte le regioni annesse, ne prendeva atto, proclamando Vittorio Emanuele II «per grazia di Dio e volontà della Nazione, Re d’Italia»
In un tempo brevissimo - dall’aprile del ‘59 all’ottobre del ‘60 - si era realizzata l’unità politica della penisola, spezzata dai tempi dell’invasione longobarda (VI secolo). Vi concorsero più fattori: la preparazione spirituale di una generazione che Mazzini aveva formata al culto del sacrificio per la causa nazionale; l’iniziativa popolare di stampo mazziniano prevalente nella spedizione dei Mille; la maturazione dell’idea unitaria grazie all’influsso dei pensatori moderati che avevano reso il problema italiano oggetto di pubblico dibattito; l’azione politico-militare del Regno di Sardegna e in particolare di Cavour, che seppe cogliere un complesso di circostanze favorevoli presenti nella politica internazionale. La soluzione cui si pervenne - la costituzione di un nuovo Stato, che nasceva per annessione al Piemonte dei territori degli Stati preesistenti, tramite plebisciti - privilegiava il momento sabaudo.
La proclamazione del nuovo sovrano «per grazia di Dio e per volontà della Nazione» accentuava questo aspetto, dando la preminenza al diritto divino sulla designazione popolare; il titolo di «secondo» che Vittorio Emanuele volle mantenere, mirava a far prevalere il carattere di continuità col precedente regno sabaudo. Erano fatti che sottolineavano la piemontizzazione dell’Italia, dando ragione a Mazzini che, al metodo delle annessioni per plebiscito, aveva sempre contrapposto quello della convocazione di una Assemblea Costituente che definisse l’assetto istituzionale del nuovo Stato nazionale. Si sarebbe, così, evitata l’impressione (e il fatto) di una aggregazione dall’esterno, quasi di una conquista, in luogo di una creazione popolare. E questo fatto avrebbe avuto le sue conseguenze.



[1] APPROFONDIMENTO: DIRITTO
Le fasi dell’assolutismo - L’assolutismo è una forma di regime monarchico nella quale il potere è esercitato da un sovrano che si ritiene libero da controlli e condizionamenti da parte di istanze politiche e rappresentative superiori o inferiori.
La monarchia assoluta è passata attraverso varie fasi.
a)       Lo Stato personale è quello della prima fase, quando Luigi XIV di Francia, il «Re Sole», poteva dire: «Lo Stato sono io». La persona del re si considerava cosa pubblica (ogni avvenimento che la riguardava, la nascita, la morte, il matrimo­nio, la procreazione, ecc. era un avvenimento di Stato) e si identificava piena­mente con lo Stato. La volontà personale del re era volontà dello Stato.
b)       Lo Stato patrimoniale fu la tappa successiva. Lo Stato, a cominciare dal terri­torio statale, era proprietà (o patrimonio) del re. I regni (territori e abitanti) potevano essere portati in dote nel matrimonio dei re e dei principi e gli Stati si accrescevano o si riducevano attraverso la politica matrimoniale. C’erano però le premesse di un’evoluzione: il re non era (più) lo Stato, secondo la formula di Luigi XIV. Si poteva fare un passo avanti e dire che lo Stato era del re, ma occorreva distinguere quel che serviva ai suoi interessi personali e quel che serviva all’interesse dello Stato . In effetti, il re non poteva disporre di tutto ciò che v’era nel suo regno, poiché la gran parte delle terre e dei beni si considerava patrimonio utile al regno, non al re. Era la premessa per la distinzione tra le risorse private del re e le risorse pubbliche. e) Con l’espressione Stato di polizia si intende il tipo di Stato che si trova in Francia, Spagna, Austria, Prussia, Toscana, Piemonte nel corso del XVIII secolo. L’espressione «Stato di polizia» non indica solo quello Stato che mantiene l’ordi­ne pubblico (secondo la concezione attuale della «polizia») ma lo Stato che si occupa del «buon governo» (in greco, «politeia») e quindi ha come suo scopo la felicità dei sudditi.
c)       Lo Stato di polizia, per la felicità dei sudditi, allargò la sua attività, controllando nuovi settori in precedenza totalmente liberi, oppure controllati autonomamente dalle città o dalle corporazioni: la religione, l’attività della Chiesa e la moralità della gente; la sanità, l’alimentazione, la sicurezza e la tranquillità pubblicarla viabilità e i lavori pubblici, le scienze e le arti, il commercio e le manifatture pri­vate (aprendone di pubbliche), i dazi doganali, le condizioni dei lavoratori, l’as­sistenza ai malati poveri e ai vagabondi, i catasti, ecc. Quali fossero i bisogni dei sudditi, erano però sempre il re e i suoi ministri a sta­bilirlo. Si trattava perciò di «dispotismi illuminati» o «regimi paternalistici» (che trattavano i sudditi come figli incapaci, di fronte al padre, il re), che sono all’ori­gine dello «Stato del benessere» del nostro tempo.
[2] Lotte fra cattolici e ugonotti - Prolungato conflitto civile tra cattolici e calvinisti francesi per motivi politici, economici e religiosi.
Gli scontri furono scatenati dai cattolici, insoddisfatti della politica oscillante della reggente Caterina de’ Medici verso gli ugonotti, protestanti francesi di tendenza calvinista guidati dal principe di Condé e successivamente da de Coligny.
Nonostante le misure repressive poste in atto nella prima metà del Cinquecento, si diffusero in diverse province, a partire dalle città universitarie e dai centri commerciali, come La Rochelle e Lione. Erano gruppi di operai, mercanti e piccoli proprietari, spesso sostenuti dalle autorità cittadine. Alla Chiesa di Parigi (creata nel 1555) e a quelle fondate in seguito aderirono anche membri dell’alta borghesia e dell’aristocrazia.
Con la morte di Enrico II (1559) e l’ascesa dei cattolici Guisa, nelle vicende degli ugonotti, guidati dai Borbone, si intrecciarono la lotta politico-dinastica e contrasti religiosi.
Dopo una prima fase, il conflitto riprese nel 1567 e la regina si decise a trattare: con la pace di Saint-Germain (1570) gli ugonotti ottennero la libertà di culto e alcune città (places de sûreté) completamente autonome sotto il loro controllo quattro piazzeforti e de Coligny entrò nel consiglio della corona. Fu poi però la stessa Caterina, contraria alla sua politica antispagnola, a ispirare l’omicidio di de Coligny e il massacro degli ugonotti nella notte di San Bartolomeo (1572), un massacro di 2300 ugonotti a Parigi e di altri 12.000 in provincia nei giorni successivi. L’eccidio fu deciso da Carlo IX su istigazione della regina madre Caterina de’ Medici, che voleva impedire che il re, su consiglio dell’influente capo ugonotto Gaspard de Coligny, appoggiasse la ribellione dei Paesi bassi, ostacolando così la sua politica filospagnola.
La strage dei capi ugonotti della notte di san Bartolomeo ne accelerò poi la trasformazione in partito politico e diede impulso alle dottrine della monarcomachia, una teoria politico-religiosa del XVI-XVII secolo che giustifica come legittima la resistenza contro un sovrano ritenuto ingiusto e nemico della fede. Tale dottrina fu elaborata e sostenuta soprattutto in Francia, nel contesto delle guerre di religione, da alcuni scrittori ugonotti. Più che un appello generico alla ribellione popolare, era l’idea che la resistenza al tiranno debba essere condotta dai magistrati e dalle istituzioni rappresentative del regno.
In conseguenza di ciò la guerra civile riesplose con maggiore violenza. Nasceva intanto la lega cattolica capeggiata dal duca Enrico di Guisa che limitò fortemente l’autonomia del nuovo re Enrico III (1574), giudicato troppo arrendevole.
Nel 1585 ci fu un’ultima recrudescenza degli scontri. Il re eliminò a tradimento i Guisa e cercò l’appoggio ugonotto, designando Enrico di Borbone suo successore. Questi, salito al trono con il nome di Enrico IV, nel 1593 abiurò il protestantesimo e, con l’editto di Nantes (1598), regolò la convivenza delle due confessioni per pacificare i rapporti fra cattolici e ugonotti, garantiva a questi ultimi la libertà di culto ovunque tranne Parigi e le residenze reali e dava loro in pegno un centinaio di piazzeforti, fra cui La Rochelle.
Ma la situazione peggiorò con la reggenza di Maria de’ Medici e con Luigi XIII. Nel 1628-1629 Richelieu, con l’assedio di La Rochelle e l’inglobamento di tutte le places de sûreté, segnò la fine della loro potenza politica. Il distacco della grande nobiltà, le repressioni e le conseguenti emigrazioni li indebolirono, fino alla revoca dell’editto di Nantes (1685). Luigi XIV, teso a riaffermare il gallicanesimo, colpì gli ugonotti con una serie di gravi misure, ricorrendo anche alle dragonnades (obbligo di alloggiare i dragoni) e alle conversioni forzate. Ne seguì un vero esodo, soprattutto verso l’Olanda e l’Inghilterra, che arricchì questi paesi di artigiani e professionisti di valore e fece tornare la Francia un paese esclusivamente cattolico.
L’editto del 1787 garantì ai protestanti residui l’esercizio dei diritti civili che la Rivoluzione estese paritariamente a tutte le confessioni religiose.
[3] Guerra dei trent’anni - (1618-1648). Conflitto che coinvolse l’Europa centrale. Combattuta soprattutto sul suolo tedesco e boemo, con eserciti ai quali era permesso il saccheggio, ebbe conseguenze fortemente negative per l’economia degli stati tedeschi provocando, tra l’altro, una forte caduta demografica. Le cause furono di ordine religioso, politico ed economico. La pace di Augusta del 1555 aveva lasciato insoluti molti problemi: la Controriforma stava creando gravi attriti. A ciò si aggiungeva la vecchia rivalità politica ed economica tra gli Asburgo e vari stati dell’impero. La monarchia francese inoltre, dopo un periodo di forti conflitti interni, aspirava a contrastare il ruolo egemonico degli Asburgo, mentre la Svezia era interessata a rafforzarsi sul Baltico. La guerra iniziò con la defenestrazione di Praga (23 maggio 1618), quando i rappresentanti del governo asburgico furono gettati dagli hussiti fuori dal palazzo dell’università. La successiva elezione a re di Boemia del protestante Federico V del Palatinato fece schierare gli stati europei in due campi: quelli favorevoli agli Asburgo (Spagna, Baviera, Sassonia, Polonia) e quelli che appoggiavano Federico (la maggior parte degli stati protestanti germanici, l’Inghilterra e l’Olanda). L’esercito asburgico sconfisse duramente i boemi nella battaglia della Montagna bianca (1620) e penetrò anche nel Palatinato. Cominciò così una dura repressione contro i protestanti, mentre la corona boema venne dichiarata eredità degli Asburgo. Frattanto la Spagna iniziò le ostilità contro le Province unite, e il re Cristiano IV di Danimarca, il re Gustavo Adolfo di Svezia e più tardi la Francia scendevano in campo contro l’Austria. La fine del conflitto (solo Francia e Spagna continuarono le ostilità tra di loro) fu sancita dalla pace di Vestfalia, firmata nelle due località di Münster e Osnabrück (1648).
[4] Pace di Augusta - Legge imperiale (Reichsabschied) promulgata dalla dieta imperiale di Augusta, che sancì la libertà confessionale dei principi tedeschi per garantire la pace interna e la concordia religiosa dopo l’indebolimento dell’autorità imperiale in seguito alla guerra dei principi. Il compromesso raggiunto tra il re di Boemia Ferdinando e i ceti imperiali riconobbe la confessione di Augusta. Secondo il successivo principio cuius regio, eius religio, soltanto i ceti imperiali laici ottennero la libertà religiosa, mentre i loro sudditi di altre religioni avevano solo il diritto di emigrazione. La pace proteggeva infine i diritti delle minoranze religiose, che erano soprattutto cattoliche, nelle città imperiali. La pace di Augusta escluse l’imperatore dagli affari religiosi dell’impero e rafforzò i ceti imperiali, che acquistarono l’autorità religiosa sui propri territori.
[5] Pace di Westfalia - Il trattato aveva il valore di una costituzione del Sacro romano impero germanico, garantita dal diritto pubblico europeo. Essa bloccò ogni tentativo di governo monarchico dell’impero e attribuì ai ceti imperiali il diritto di alleanza e la quasi sovranità interna (Landeshoheit). Dal punto di vista religioso furono riconosciute le paci di Passau (1552) e Augusta (1555), estese ai calvinisti, con la conferma del principio cuius regio eius religio. La distribuzione delle proprietà ecclesiastiche e delle confessioni fu congelata nella situazione del 1624.
[6] Enrico IV - Re di Navarra (1572-1610) e re di Francia (1589-1610). Figlio di Antonio di Borbone, fu educato dalla madre Giovanna d’Albret alla fede calvinista e nel 1569 divenne capo indiscusso del partito ugonotto in lotta contro il potente partito cattolico dei Guisa. Alla morte della madre (1572), ereditò il trono di Navarra e contemporaneamente sposò la sorella del re Carlo IX, Margherita di Valois. Dopo la morte di Carlo IX (1574) e di suo fratello Francesco (1584), divenne presunto erede al trono di Francia, ma, per ottenerlo, dovette combattere contro Enrico Guisa ed Enrico III la guerra dei tre Enrichi e tenere a bada la Spagna di Filippo II venuta in aiuto alla Lega cattolica. Enrico III, dopo essere stato colpito a morte in un agguato, lo riconobbe suo successore, così che, sconfitta la Lega cattolica a Ivry (1590), il 25 luglio 1593 poté entrare trionfante nella capitale dopo essersi convertito pubblicamente al cattolicesimo. Nel 1598 firmò la pace di Vervins con la Spagna e promulgò l’editto di Nantes con cui proclamava il cattolicesimo religione ufficiale ma assicurava la libertà di culto ai protestanti. Aiutato dal duca di Sully, riordinò le finanze dello stato, rafforzò il potere regio e assicurò alla Francia un relativo periodo di pace. Morì assassinato da un fanatico cattolico.
[7] Cardinale Richelieu - Cardinale e politico francese. Il padre, Francesco, era stato al seguito dei re Enrico III prima e Enrico IV poi, guadagnando prestigio e favori, ma la sua morte precoce (1590) lasciò la vedova e i cinque figli in una situazione difficile. Armand, terzo maschio, studiò nel collegio aristocratico di Navarra e fu poi avviato alla carriera militare, ma dovette intraprendere la carriera ecclesiastica per subentrare al fratello secondogenito Alphonse, infermo, cui sarebbe toccato il vescovado di Luçon, beneficio di famiglia. Col favore di Enrico IV e la dispensa papale per la sua giovane età, fu eletto vescovo nel 1606 e consacrato nel 1607. Riorganizzò quindi le finanze del vescovado lottando contro la corruzione e l’indisciplina del clero e contro gli ugonotti. Agli Stati generali del 1614 Richelieu, rappresentante del clero di Poitou, si mise in luce con la regina madre, Maria de’ Medici, che lo nominò prima elemosiniere, poi segretario di stato alla Guerra e agli Affari esteri. Nel 1622 fu nominato cardinale e nel 1624 entrò a far parte del consiglio del re Luigi XIII, divenendone ben presto l’elemento più influente. Richelieu si prefisse principalmente il compito di restaurare l’autorità monarchica e di migliorare la situazione finanziaria del paese. Primo obiettivo furono gli ugonotti che con i privilegi ottenuti con l’editto di Nantes rischiavano di diventare un corpo separato all’interno dello stato. Nel 1628 espugnò il loro forte della Rochelle e nel 1629 tolse loro le garanzie militari e i diritti amministrativi. Anche gli aristocratici furono colpiti da numerose condanne a morte per delitti contro lo stato. Le rivolte contadine furono duramente represse. Riorganizzò l’amministrazione statale, aumentando i poteri degli intendenti, e dette impulso alla marina, alle compagnie mercantili e alle manifatture. In politica estera cercò di ripristinare il ruolo della Francia in funzione antiasburgica, appoggiando all’estero quei protestanti che aveva invece duramente colpito in Francia. Nel 1635 entrò direttamente nella guerra dei Trent’anni, la cui gestione lasciò, morendo nel 1642, al suo successore Mazarino.
[8] Fronda (1648-1653). - Movimento di opposizione antiassolutista in Francia.
Si svolse in due fasi durante la minore età di Luigi XIV e la reggenza di Anna d’Austria, coadiuvata dal cardinale Mazzarino. Fu causata, oltre che dal malcontento popolare per la guerra con la Spagna, dal dissesto economico e dall’inasprimento fiscale, dalle resistenze dei corpi privilegiati alla politica di accentramento del potere perseguita dalla monarchia. All’origine della prima fase (fronda parlamentare) vi fu il rifiuto del parlamento di Parigi di registrare l’editto di sospensione degli emolumenti alle corti sovrane (1648) e la sua rivendicazione dell’antico diritto di controllo sulle decisioni regie in materia fiscale e della soppressione degli intendenti. In seguito agli arresti disposti da Mazzarino, il parlamento istigò la folla alla rivolta, che dalla capitale si diffuse nelle province ma fu sedata dall’esercito guidato dal principe di Condé. Il momento, favorevole alla grande nobiltà, indusse il Condé a capeggiare un movimento antigovernativo che nel 1650 sfociò nella seconda fase (fronda dei principi), costringendo la corte e Mazzarino a fuggire. Gli atteggiamenti assunti dal principe vittorioso gli alienarono l’appoggio della borghesia e l’intervento delle truppe regie ripristinò l’ordine nella capitale e nelle province.
[9] Luigi XIV - (Saint-Germain-en-Laye 1638 - Versailles 1715). Re di Francia (1643-1715). Figlio e successore di Luigi XIII, salito al trono sotto la reggenza della madre Anna d’Austria, fu dichiarato maggiorenne nel 1651. Fino al 1661 il governo effettivo dello stato fu tenuto da G. Mazzarino, alla morte del quale egli assunse personalmente il potere. Nei primi anni del suo regno, anche se insidiati dalle fronde, la Francia trionfò nella guerra dei Trent’anni e, con la pace dei Pirenei (1659), sulla Spagna.
Con lui l’ assolutismo divenne un sistema di governo imitato da molti sovrani europei: egli riunì in sé la coscienza della dignità del suo ufficio con una grande ambizione e con una forte capacità di lavoro. Anche se la celebre espressione attribuitagli, L’Etat c’est moi (lo stato sono io), probabilmente non fu mai pronunciata, tuttavia esprime bene la concezione e la pratica di governo del re. La sua figura fu esaltata anche dai modelli di comportamento affermatisi alla corte di Versailles, la cui reggia fu trasformata, per suo ordine, in una splendida residenza nella quale il sovrano attirò la grande nobiltà del regno, completandone la trasformazione in nobiltà di corte, legata al monarca da pensioni, cariche e titoli. Tutti i poteri erano concentrati nelle mani del re che li esercitava con l’assistenza di un consiglio segreto e di ministri, spesso di origine non nobile. Tra i più validi collaboratori vi furono J.B. Colbert e F.M. Louvois. Il controllo capillare sul territorio, raggiunto grazie all’impiego degli intendenti, e lo smantellamento delle dogane interne, propugnato da Colbert, definirono un grande spazio politico ed economico sul cui governo avevano scarsa presa gli organi rappresentativi locali e le aristocrazie.
Anche la politica religiosa di Luigi XIV non si discostò dalle direttive che erano applicate in altri campi. Con gli articoli gallicani (1682), il clero francese affermò, per le questioni non dottrinali, la propria indipendenza da Roma; nel 1685 la revoca dell’editto di Nantes pose fuori legge la confessione ugonotta. L’uniformità religiosa e la nascita di una chiesa di stato sanzionarono il carattere sacrale della monarchia: Luigi XIV era diventato il re Sole.
Tra il 1667 e il 1714 promosse una serie di guerre tese a imporre l’egemonia della Francia sull’Europa e a ingrandire lo stato: la guerra di devoluzione, la guerra d’Olanda, la guerra della lega d’Augusta e quella di successione di Spagna. Con questi conflitti solo in parte furono conseguiti gli obiettivi sperati. La Francia ascese al rango di grande potenza, ma a costo di immensi sacrifici e di tensioni che né la vita di corte né la splendida fioritura delle arti riuscivano a nascondere.
[10] Elisabetta I Tudor - (1533-1603). Regina d’Inghilterra (1558-1603). Figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, fu dichiarata illegittima nel 1536, quando la madre fu decapitata sotto l’accusa di adulterio. Durante il regno della sorellastra, Maria Tudor, fu tenuta prigioniera nella torre di Londra, perché sospettata di complottare con gli oppositori della politica religiosa della regina (1554). Salì al trono il 17 novembre 1558 inaugurando una politica prudente ed equilibrata, esente da colpi di scena e da imposizioni violente, ma non per questo meno oculata ed efficace. In campo religioso Elisabetta promulgò, nel 1559, l’Atto di uniformità con cui rimetteva in vigore il Book of common prayer, il libro di preghiere ufficiale della Chiesa anglicana, e, quattro anni dopo, l’Atto di supremazia, con cui ristabiliva l’autorità della corona sulla chiesa. Rifuggì tutta la vita il matrimonio, evitando alleanze che potessero rivelarsi sbagliate. In politica interna Elisabetta dovette affrontare i problemi connessi alla presenza sul trono scozzese della cattolica Maria Stuart. Dopo una rivolta protestante quest’ultima fu costretta a rifugiarsi in Inghilterra (1568) dove diventò il principale punto di riferimento delle trame ordite ai danni di Elisabetta. La scoperta del complotto di Throckmorton (1584) e di quello di Babington (1586) fece ricadere su Maria Stuart l’accusa di alto tradimento ed Elisabetta colse l’occasione per condannarla a morte (1587). Sul piano internazionale Elisabetta assunse posizioni via via più nettamente anticattoliche e antispagnole. La lotta contro la Spagna prese dapprima soprattutto la forma degli attacchi corsari e del contrabbando ai danni di navi e colonie spagnole, ma l’esplosione del conflitto divenne inevitabile nel 1588 quando la flotta spagnola (Invencible armada) salpò alla volta di Calais, dove avrebbe dovuto congiungersi con le truppe di Alessandro Farnese: nelle acque della Manica venne attaccata e vinta dalla più piccola ma più efficiente e meglio organizzata flotta inglese. Iniziava così il definitivo declino della potenza spagnola e l’ascesa dell’Inghilterra come potenza militare, mercantile e marinara. Elisabetta regnò ancora per quindici anni e morì il 24 marzo 1603. Le sarebbe succeduto il figlio di Maria Stuart, Giacomo I, a cui era stata però impartita un’educazione protestante.
[11] Oliviero Cromwell (1599 - 1658). Politico inglese. Figlio di un nobile di campagna, nel 1628 divenne deputato al parlamento nel quale propugnò apertamente le sue convinzioni calviniste. Con lo scoppio della guerra civile (1642) assunse un ruolo di primo piano: organizzò un corpo di cavalleria (gli Ironsides) e, nel 1645, un esercito regolare (la New Model Army). Riuscì così a sconfiggere le truppe regie a Marston Moor (luglio 1644) e a Naseby (giugno 1645), costringendo Carlo I ad arrendersi.
L’unità del parlamento, intanto, era messa in pericolo dalle divisioni interne: i conservatori presero il sopravvento e proposero di sciogliere la New Model Army. L’esercito allora si rivoltò, espulse dal suo interno i conservatori e catturò il re. Cromwell, schieratosi a fianco dei soldati, marciò su Londra, assumendo il pieno controllo della situazione. Epurò il parlamento dalla maggioranza presbiteriana (conservatrice), soffocando al tempo stesso le spinte estremistiche presenti nell’esercito. Subito dopo Carlo I fu processato, condannato a morte e giustiziato il 9 febbraio 1649. Abolita la Camera dei lord e proclamata la repubblica, Cromwell dovette domare una rivolta in Irlanda (1649) e fronteggiare un tentativo realista in Scozia (1650); represse spietatamente le due sommosse e annetté i territori conquistati all’Inghilterra. La sua politica portò alla promulgazione dell’Atto di navigazione (1651) che mirava a colpire l’Olanda e il suo dominio commerciale sui mari, e fu all’origine della prima guerra anglo-olandese (1652-1654).
Nella primavera del 1653, davanti a nuovi dissidi sorti all’interno del troncone di parlamento rimasto (il Rump Parliament), Cromwell lo sciolse con la forza. Nel dicembre di quello stesso anno si proclamò Lord protettore di Inghilterra, Scozia e Irlanda, titolo che mantenne fino alla morte, nel settembre 1658. La sua azione tuttavia non riuscì a sanare i conflitti costituzionali e le divisioni all’interno del parlamento.
Assai più efficace fu invece il suo contributo all’espansione commerciale e al potenziamento della flotta. La sua politica economica, ispirata ai dettami del più ortodosso mercantilismo, diede un forte impulso allo sviluppo economico e commerciale del paese.
[12] Magna charta libertatum - Carta fondamentale delle libertà inglesi, concessa a Runnymedes nel 1215 dal re Giovanni Senzaterra ai baroni del regno e al parlamento della città di Londra. La monarchia, che si era rafforzata nei decenni precedenti, era indebolita dalle sconfitte patite da Giovanni in Normandia e dalla lotta contro il papato e i baroni. Questo documento accoglieva innanzitutto le richieste dei baroni, cui fu riconosciuto un insieme di libertà e di immunità; ma concedeva anche una tutela dei diritti di tutti gli uomini liberi. Contiene alcuni principi di grande importanza, soprattutto in campo giudiziario (Habeas corpus). Più volte riformata negli anni seguenti, è ancora in vigore ed è tuttora il primo testo delle collezioni di leggi vigenti in Inghilterra.
[13] Dichiarazione dei diritti - Con la Dichiarazione dei diritti (Bill of Rights, 1689) Guglielmo riconobbe i diritti del parlamento e la libertà di parola. Repressa nel sangue la resistenza giacobita dei cattolici irlandesi (1690), si instaurò un regime di tacita separazione dei poteri tra re (esecutivo) e parlamento (legislativo con controllo sui ministri). L’unione personale tra Paesi bassi e Inghilterra, da un secolo rivali sui mari, favorì la creazione di una potenza navale insuperabile.
[14] Rifeudalizzazione - Ricomparsa o rafforzamento di elementi di carattere feudale nella vita sociale, politica, economica italiana a partire dalla fine del Cinquecento sino a buona parte del Settecento. I residui feudali furono di varia natura: dalla ricomparsa di titoli nobiliari (marchese, conte ecc.), alla riaffermazione della nobiltà nelle gerarchie sociali e nelle cariche politiche, alla ripresa di forme di oppressione dei lavoratori nelle campagne. Rifeudalizzazione è, dunque, sinonimo d’involuzione sociale, politica ed economica e di crisi. Qualcosa di analogo sembra essere avvenuto anche in Francia (réaction seigneuriale).
[15] Fisiocrazia - Dottrina economica che si affermò in Francia verso il 1750 e si diffuse ben presto in Europa.
Il termine, che deriva dal greco phsis (natura) e kratêin (dominare), fu usato da P. S. Dupont de Nemours nel 1767, in una raccolta di scritti di François Quesnay (La Physiocratie).
La premessa fondamentale era che esiste un ordine naturale della società analogo a quello che si ritrova nella natura fisica. Ma questo ordine naturale esiste solo se gli uomini non ne ostacolano la realizzazione. Interessati soprattutto all’analisi economica, i fisiocratici si opponevano al mercantilismo, che individuava nel commercio internazionale la fonte della ricchezza dello stato. Per loro, invece, la fonte era la terra, dal momento che essa era l’unico fattore di produzione in grado di generare valori aggiunti. Solo la terra era capace di fornire un prodotto netto, un surplus rispetto agli investimenti apportati. L’agricoltura, perciò, era in grado di produrre, mentre l’artigianato e la manifattura trasformavano soltanto.
La classe agricola degli imprenditori e degli affittuari era quindi, per i fisiocratici, produttiva, mentre artigiani, commercianti, manifattori e liberi professionisti costituivano la classe sterile; i proprietari fondiari, il clero, i funzionari pubblici e il sovrano, infine, si identificavano con la classe oziosa. Costoro ricevevano sotto forma di rendite, decime o imposte il prodotto netto, che poi, attraverso i loro consumi, ridistribuivano alla classe sterile e a quella produttiva.
I fisiocratici erano quindi favorevoli al libero commercio dei prodotti agricoli e particolarmente interessati allo sviluppo dell’agricoltura. Poiché lo stato si doveva impegnare a garantire la libertà, la proprietà e la sicurezza, si giustificava il prelievo fiscale, che doveva essere però attuato sul prodotto netto attraverso un’imposta diretta e reale sulla terra, che gravava quindi unicamente sui proprietari fondiari.
[16] John Locke - Filosofo e scrittore politico inglese. Dal 1667 segretario e medico personale di lord Shaftesbury, lo seguì nel 1683 in Olanda quando, per la sua opposizione a Carlo II, questi fuggì dall’Inghilterra. In Olanda pubblicò la Lettera sulla tolleranza, nella quale combatteva il principio della chiesa di stato e difendeva la libertà di coscienza, sostenendo che la tolleranza andava negata alle confessioni intolleranti, come il cattolicesimo, e agli atei, per il carattere antisociale delle loro dottrine. Nel 1689 tornò in patria al seguito di Maria Stuart e Guglielmo d’Orange e pubblicò, nel 1690, i Due trattati sul governo civile. Il primo confutava la legittimazione biblica e patriarcale dell’assolutismo data da Robert Filmer; il secondo teorizzava lo stato come garante dei diritti naturali (in particolare la libertà e la proprietà) e delineava i caratteri di una monarchia parlamentare fondata sul principio della divisione dei poteri. Nello stesso anno apparve anche la sua opera più importante, il Saggio sull’intelletto umano. Dal 1696 al 1700 fece parte del Consiglio per il commercio e le colonie.
[17] costituita da opere agili, da romanzi, da saggi divulgativi, da lavori teatrali, da dizionari tascabili, da opuscoli.

[18] APPROFONDIMENTO: DIRITTO

La spersonalizzazione della posizione del re - Solo tra il XVIII e il XIX secolo, questa posizione fu superata. Anche il re divenne un funzionario statale, il cui primo e esclusivo dovere era di agire nell’interesse aggettivo dello Stato. Si teorizzò la «ragion di Stato» per esprimere questo interesse, superiore a quello di qualunque persona fisica, compresa la persona del re. La sintesi di questa visione è nella celebre frase di Federico II di Prussia, detto Federico il Grande (1740-1786), che si definiva il «primo servitore dello Stato».

Lo Stato poteva allora considerarsi un’organizzazione impersonale che non coin­cideva più con nessuna persona fisica, nemmeno con quella del re. Tutti coloro che agivano per lo Stato - dal più umile impiegato al re - ne erano divenuti funzionari.

Lo Stato, a sua volta, divenne titolare di situazioni giuridiche proprie. Esso assunse capacità giuridica attraverso la personificazione del «fisco», cioè delle risorse dello Stato, che vennero separate da quelle private del re come persona privata.

[19] Stati generali - Antica assemblea straordinaria dei rappresentanti di nobiltà, clero e Terzo stato in Francia e nelle Fiandre. Derivati dalle assemblee plenarie dei re capetingi, gli Stati generali francesi furono convocati la prima volta durante il conflitto tra papa Bonifacio VIII e Filippo IV (1301-1302). Nel 1317 Filippo V dispose che le città del regno scegliessero i propri rappresentanti all’assemblea, introducendo il principio dell’elettività dei deputati. Organo puramente consultivo, non avevano funzioni definite ed erano convocati saltuariamente per richiedere l’espresso consenso all’operato del sovrano. In alcune circostanze tentarono di accrescere le proprie prerogative assumendo iniziative politiche, ma la corona reagì evitando di convocarli. Nel secondo Cinquecento aumentò la loro importanza specie in materia fiscale e finanziaria, ma crebbe anche la conflittualità fra le tre componenti. Tali contrasti fecero fallire la riunione del 1614-1615. Dopo quella data non furono più convocati fino al 1789, quando la loro pretesa di costituirsi in Assemblea nazionale costituente segnò l’inizio della Rivoluzione francese. Nelle Fiandre gli Stati generali, delegati di quelli provinciali, furono convocati sotto la dominazione borgognona e asburgica (secoli XV-XVI) con funzioni consultive specie in ambito fiscale. Alla secessione dalla Spagna delle sette province settentrionali (1579), il nome fu trasferito al principale organo collegiale di governo, che fu abolito nel 1796, dopo l’arrivo delle truppe rivoluzionarie francesi.
[20] Assemblea nazionale costituente - Organismo formato, durante la Rivoluzione francese, dai delegati del Terzo stato agli Stati generali, proclamatisi nella Sala della pallacorda rappresentanti della nazione (17 giugno 1789) per elaborare una costituzione. Trasformatasi in Assemblea nazionale costituente dopo che vi si furono congiunti anche i membri della nobiltà e del clero (9 luglio), si sciolse il 30 settembre 1791. I suoi membri, pur non essendo organizzati in partiti, assunsero posizioni diverse, su cui si sviluppò una nuova terminologia politica. A destra del presidente sedevano i monarchici intransigenti. Successivamente in questo gruppo confluì anche il centro, costituito dai monarchici bicameralisti che, sul modello inglese, riconoscevano al re il diritto di nominare una seconda camera. Fatta eccezione per qualche estremista, a sinistra erano i fautori del parlamentarismo, prevalentemente del Terzo stato, integrati da aristocratici liberali ed esponenti del basso clero. I rappresentanti degli interessi della medio-alta borghesia desiderosa di partecipare alla vita politica, ma intenzionata a difendere l’ordine e la proprietà, riuscirono a imporre la propria linea. Furono così varate riforme fondamentali quali l’abolizione del regime feudale, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, l’incameramento dei beni ecclesiastici e degli emigrati, la Costituzione civile del clero e, infine, la Costituzione del 1791.
[21] Girondini - Gruppo politico nato durante la Rivoluzione francese. Riuniva i deputati all’Assemblea legislativa provenienti dal dipartimento della Gironda. In seno alla Assemblea i girondini assunsero un atteggiamento radicale e antimonarchico imponendo a Luigi XVI la dichiarazione di guerra all’Austria e alla Prussia (20 aprile 1792).
Contrari all’ideologia egualitaria dei sanculotti parigini, i girondini perseguivano obiettivi ideali e politici favorevoli alla borghesia, soprattutto alle sue componenti provinciali e mercantili. Il loro prestigio e il loro potere furono progressivamente ridotti dall’emergere dei giacobini e dai moti di piazza del 10 agosto 1792 diretti da questi ultimi.
La sconfitta divenne definitiva il 2 giugno 1793 quando i girondini furono costretti a cedere il potere sotto la spinta dei sanculotti parigini. L’arresto e la condanna a morte di molti di loro costituì il momento iniziale del terrore. Solamente dopo il 9 termidoro la frangia superstite del gruppo poté ritornare a sedere tra i banchi della Convenzione.
[22] Giacobini - Membri di un club creato durante la Rivoluzione francese, a Versailles, nel maggio 1789, da alcuni parlamentari bretoni capeggiati da J.R. Chevalier, e che si trasferì in ottobre a Parigi, insieme con l’Assemblea.
Sotto il nome di Società degli amici della costituzione i giacobini si insediarono nel refettorio dell’ex convento dei domenicani. Ben presto, sotto la guida di un triumvirato composto da A. Du Port, A. Barnave e A. De Lameth, riuscirono a costituire una fitta rete di società affiliate in tutto il paese, divenendo centro propulsore e cassa si risonanza nazionale della politica rivoluzionaria. Il club, in questa prima fase aderente a una linea monarchico-costituzionale, escludeva i ceti popolari a causa dell’elevata quota d’iscrizione che rendeva loro proibitiva l’adesione. Il suo principale obiettivo era la promozione di progetti di legge da sottoporre all’Assemblea e l’attività di propaganda delle leggi già rese esecutive. Ma la crisi di regime aperta dalla fuga di Varennes (giugno 1791) e aggravata dall’eccidio di Campo di Marte (luglio 1791), creò nel club parigino una profonda spaccatura, determinando la fuoriuscita della maggioranza, riunita intorno a Barnave e La Fayette, che andò a costituire il gruppo dei  foglianti.
Moderata fino ad allora, la politica giacobina assunse, da quel momento, un indirizzo più democratico, ma soprattutto più intransigente. Da luogo di discussione il club si trasformò in laboratorio di idee e forze rivoluzionarie volte alla conquista del potere. Mutato il suo nome dal settembre 1792 in quello di Club dei giacobini, la società eliminò dal suo interno le residue frange moderate e, nel maggio 1793, riuscì a esautorare il governo dei girondini. Divenne così il gruppo più organizzato ed egemone nella Convenzione ed ebbe in Robespierre il capo indiscusso. L’alleanza con i sanculotti parigini, pur non priva di momenti di tensione che si fecero particolarmente acuti nella primavera del 1794, spinse i giacobini a radicalizzare la lotta contro aristocratici e monarchici e ad appoggiare misure che limitavano la libertà economica. Durante il terrore i giacobini sostennero il Comitato di salute pubblica.
Il colpo di stato del termidoro e la conseguente svolta moderata determinarono la chiusura del club, nel novembre 1794.
[23] Comitato di salute pubblica  (1793-1795). - Organo di sorveglianza e poi di governo della Francia rivoluzionaria. Istituito il 6 aprile 1793 dalla Convenzione, in sostituzione del Comitato di difesa generale, e costituito da nove deputati, ebbe il potere esecutivo. Dopo la sconfitta della Gironda e la presa del potere da parte della Montagna (2 giugno), fu riorganizzato e diviso in sei sezioni, diventando il principale organo del governo rivoluzionario. Modificato anche nella struttura, il nuovo organismo, composto da dodici e poi da quattordici membri, fu, dopo l’esclusione di Danton, dominato dalla figura di Robespierre.
Intervenendo in tutti i problemi sia di politica interna sia estera, il Comitato bandì la leva di massa generalizzata, prese provvedimenti di carattere economico quali l’istituzione di un calmiere dei prezzi, realizzò la centralizzazione amministrativa e iniziò l’opera di scristianizzazione attraverso l’adozione di un nuovo calendario e l’istituzione del culto della Ragione.
Nel settembre 1793 ebbero luogo i primi grandi processi politici, mentre la Francia ottenne vari successi nella campagna di guerra allontanando la minaccia di una invasione del territorio nazionale e cogliendo alcune importanti vittorie. Il rinnovarsi di conflitti interni fra il Comitato di salute pubblica e il Comitato di sicurezza generale e il contrasto, in seno al primo, fra Robespierre e Lazare-Nicolas Carnot portarono alla reazione dei moderati e al colpo di stato del 9 termidoro (27 luglio 1794). Pur rimanendo in vita ancora per un anno il Comitato di salute pubblica fu epurato degli elementi più vicini a Robespierre e perse il suo ruolo centrale, venendo affiancato da altri comitati e quindi sciolto definitivamente alla caduta della Convenzione (26 ottobre 1795).
[24] Terrore - (1792-1794). Periodo della Rivoluzione francese in cui prevalsero le forze più radicali e si adottarono misure eccezionali per fronteggiare la controrivoluzione interna e gli eserciti stranieri che premevano alle frontiere. Un primo periodo di terrore si ebbe alla caduta della monarchia (10 agosto 1792), quando giacobini e sanculotti, organizzati nella Comune di Parigi, imposero all’Assemblea legislativa l’istituzione di un tribunale straordinario per giudicare traditori e sospetti e l’adozione di provvedimenti quali la spartizione tra i contadini dei pascoli comuni, la vendita in piccoli lotti dei beni nazionalizzati, il suffragio universale. Assunto il controllo della Convenzione da parte dei giacobini (2 giugno 1792), il Terrore infuriò a partire dal settembre 1793. Giustificato dalla volontà di salvare la Rivoluzione, fu applicato in tutti i settori di competenza dello stato: amministrazione, giustizia, finanze, esercito, economia, cultura. Il Tribunale rivoluzionario liquidò con processi sommari i controrivoluzionari e gli oppositori del governo. La leva di massa permise il successo militare mentre la regolamentazione dell’economia (requisizioni, calmiere dei prezzi) consentì di sostenere lo sforzo bellico e di controllare la crisi economica e sociale. Nonostante la sconfitta dei nemici interni ed esterni, si ebbe una recrudescenza del Terrore con la legge del 22 pratile (10 giugno 1794) che accentuò l’isolamento del gruppo dirigente. Il regime fu abbattuto il 9 termidoro (27 luglio 1794) e la cruenta reazione antigiacobina che seguì prese il nome di "Terrore bianco" (1794-1795).
[25] Maximilien de Robespierre (Arras 1758 - Parigi 1794). Politico francese. Avvocato, intellettuale illuminista seguace di Rousseau e critico nei confronti dell’assolutismo regio e del sistema giudiziario, fu eletto deputato agli Stati generali del 1789. Appassionato difensore della libertà e dell’uguaglianza tra gli uomini, esercitò la sua influenza nel club dei giacobini, divenendone leader indiscusso con le campagne a favore del suffragio universale e contro la monarchia dopo la fuga di Varennes. La vita austera e l’intransigenza morale gli valsero il soprannome di Incorruttibile. Ostile alla dichiarazione di guerra all’Austria, in cui identificava un pericolo per le sorti della rivoluzione, dopo lo scoppio del conflitto (aprile 1792) e i primi rovesci militari divenne strenuo sostenitore della difesa a oltranza. Eletto membro della Comune di Parigi dopo la rivolta popolare del 10 agosto 1792, fu poi deputato alla Convenzione dove si schierò con i montagnardi contro i girondini.
Disinteressato fino ad allora ai problemi dell’approvvigionamento, appoggiò il programma dei sanculotti che chiedevano il calmiere dei prezzi delle derrate nonché l’epurazione dei sospetti e il potenziamento delle sezioni popolari. Dopo che i montagnardi ebbero conquistato il controllo della Convenzione con l’aiuto dei sanculotti (giornate del 31 maggio e del 2 giugno 1793), si adoperò per contenere le spinte radicali di questi ultimi e sostenne la necessità di un potere dittatoriale. Animatore del Comitato di salute pubblica, adottò misure straordinarie per fronteggiare le difficoltà del momento e salvare la rivoluzione dai nemici interni ed esterni, non esitando a instaurare il regime del Terrore. La sconfitta della controrivoluzione e i successi militari riportati dalla Francia sugli eserciti coalizzati resero sempre più inviso e meno giustificabile il Terrore e favorirono l’alleanza degli oppositori che il 9 termidoro posero sotto accusa Robespierre di fronte alla Convenzione. Arrestato insieme ai suoi più stretti collaboratori, fu giustiziato il giorno successivo.
[26] Sanculotti - (sans-culottes). Termine coniato durante la Rivoluzione francese per designare i popolani che portavano i pantaloni lunghi invece delle culottes, calzoni corti e aderenti preferiti dall’aristocrazia. Adoperato dapprima in senso spregiativo dalla pubblicistica ostile alla Rivoluzione, con il radicalizzarsi della lotta politica l’appellativo divenne motivo di orgoglio per i militanti delle sezioni parigine. Quanto a provenienza sociale i sanculotti erano essenzialmente produttori indipendenti, piccoli commercianti e artigiani, ai quali si aggiungeva una modesta percentuale di salariati. Erano decisamente esclusi dalle loro file sia i poveri e gli indigenti, sia la borghesia agiata dei grossi rentiers, dei mercanti e dei capitalisti. Protagonisti delle giornate rivoluzionarie e reclutati in massa nelle armate, i sanculotti si imposero sulla scena politica dall’estate 1792 fino alla primavera 1795. Sensibili alle difficoltà d’approvvigionamento, all’aumento dei prezzi e alla svalutazione degli assegnati, reclamarono la regolamentazione dell’economia e la fissazione del maximum dei prezzi. Sostenitori della democrazia diretta, tollerarono male il sistema rappresentativo e la concentrazione di potere nelle mani del governo rivoluzionario. Indifferenti alle vicende del nove termidoro, furono in momentanea ripresa dopo la caduta di Robespierre, ma si disgregarono in seguito al fallimento delle giornate insurrezionali di germinale e pratile (aprile-maggio 1795).
[27] Georges Jacques Danton (Arcis-sur-Aube 1759 - Parigi 1794). - Di modeste origini borghesi, studiò diritto e si trasferì a Parigi. Scoppiata la Rivoluzione, vi aderì prontamente e, abile oratore, si distinse nella lotta contro le correnti più moderate. Leader del club dei cordiglieri e fervente repubblicano, ebbe un ruolo determinante nelle agitazioni che provocarono l’eccidio del Campo di Marte (1791) e nell’insurrezione del 10 agosto 1792 che portò alla caduta della monarchia. Nominato ministro della Giustizia, tollerò le stragi di settembre. Eletto alla Convenzione, tentò di mediare il contrasto tra girondini e montagnardi; infine si schierò con questi ultimi ed entrò nel Comitato di salute pubblica. Di fronte alle vicende della guerra del 1792-1793 si adoperò per reclutare un grande esercito e fronteggiare la coalizione austro-prussiana; tuttavia, mentre pubblicamente spingeva i francesi alla liberazione dei popoli e al raggiungimento dei confini naturali, intavolava trattative con gli avversari. Tale atteggiamento contraddittorio, gli arricchimenti illeciti e il coinvolgimento in alcuni scandali gli alienarono molti favori. Assunta la direzione dell’opposizione moderata a Robespierre, da quest’ultimo fu usato per sconfiggere gli oppositori di sinistra, ma poi venne egli stesso eliminato. Arrestato insieme ai suoi seguaci, gli indulgenti, fu giudicato dal Tribunale rivoluzionario e condannato a morte.
[28] Colpo di stato del Termidoro - Rovesciamento del governo giacobino durante la Rivoluzione francese. Il Comitato di salute pubblica fu privato dei suoi poteri e Robespierre e i suoi seguaci, accusati di ambizione e dispotismo di fronte alla Convenzione, furono arrestati e decapitati il giorno successivo.
Al successo della congiura antigiacobina avevano contribuito le vittorie riportate sui nemici interni ed esterni della rivoluzione che avevano reso inutile il regime del Terrore. Inoltre si erano allentati i legami tra il governo rivoluzionario e i sanculotti, scontenti per il calmiere sui salari e per le esecuzioni dei seguaci di Hébert. Infine, il gruppo dirigente aveva perduto l’appoggio della Convenzione dopo l’alleanza tra i moderati della Palude e i cosiddetti terroristi, rappresentanti in missione nelle province, richiamati da Robespierre a Parigi a causa dei loro misfatti.
[29] Confederazione germanica - Associazione politica delle trentanove entità statuali tedesche. Fu fondata durante il congresso di Vienna e si sciolse dopo la guerra austro-prussiana. Sotto l’egemonia dell’Austria, i suoi poteri reali furono scarsi. La Prussia, dopo la diffusione dello Zollverein e la nomina di O. Bismarck a cancelliere (1862), ne minò la stabilità, fino a creare la Confederazione della Germania del nord.
[30] Manifesto del Partito Comunista - Opuscolo scritto da K. Marx con la collaborazione di F. Engels su incarico della Lega dei comunisti e pubblicato a Londra. Divenne il programma politico della prima Internazionale (1864) ed ebbe amplissima diffusione. Vi si identificava la storia come storia di lotta fra le classi, prospettando i mezzi con i quali il proletariato poteva sconfiggere la borghesia e instaurare il comunismo.
[31] APPROFONDIMENTO: Il Risorgimento italiano e l’Europa - Da questa rapida esposizione risulta chiaro che il Risorgimento italiano non fu un movimento a sé stante, ma si inserì nel più vasto movimento politico e culturale europeo e per più ragioni:
a) I moti insurrezionali e le successive guerre di indipendenza che portarono alla costituzione del Regno furono resi possibili dall’evolversi della situazione politica europea e dal conseguente venir meno della forza repressiva della Santa Alleanza; il che consentì il formarsi di un più libero gioco di potenze.
b) Gli eventi italiani rappresentarono il contraccolpo di analoghi eventi stranieri. Ad esempio, i moti italiani del ‘21 furono ispirati dalla insurrezione spagnola di Cadice (1820); quelli del ‘31 furono promossi dalla Rivoluzione francese del luglio 1830; le insurrezioni del ‘48 furono uno dei movimenti di rivolta che percorsero l’Europa a seguito della rivoluzione scoppiata in Francia nel febbraio dello stesso ‘48.
c) La politica di Cavour si inserì abilmente nel gioco europeo, sfruttando a proprio vantaggio l’ambizione di Napoleone III che mirava a porre un’ipoteca francese sul nuovo assetto che veniva delineandosi in Italia.
d) Il patrimonio di idee che costituì il supporto all’azione degli uomini del nostro Risorgimento era comune a tutta l’Europa liberale frutto di un lungo processo al quale l’Italia, rimasta appartata nei secoli XVI e XVII, si era ricongiunta a partire dalla seconda metà del secolo XVIII.
I protagonisti del Risorgimento ebbero coscienza del significato europeo della loro azione, sia i carbonari che si collegavano agli altri liberali europei, sia il Mazzini che vedeva il Risorgimento italiano come un momento del risorgimento europeo, sia il Cavour che considerava l’applicazione della concezione liberale, affermatasi in Inghilterra e Francia, come l’elemento che avrebbe portato l’Italia al livello dei grandi Stati d’Europa.
[32] Giuseppe Mazzini – Giuseppe Mazzini nacque a Genova il 22 giugno del 1805 da Giacomo, professore universitario ex giacobino e da Maria Drago.
A soli quindici anni fu ammesso all'Università, in un primo tempo venne avviato agli studi di medicina, poi a quelli di legge, ma sin dall'adolescenza si mostrò più interessato agli studi politici e letterari.
Nel 1826 scrisse il suo primo saggio letterario, Dell'amor patrio di Dante (pubblicato poi nel 1837). Nel 1827 si laureò in legge, e nello stesso periodo entrò a far parte della Carboneria, per la quale svolse incarichi vari di carattere organizzativo in Liguria e in Toscana.
Animo rivoluzionario, concepiva la rivoluzione non come rivendicazione di diritti individuali non riconosciuti, bensì come un dovere religioso da attuare in favore del popolo. Negli anni seguenti collaborò con l'Indicatore genovese, scrivendo articoli e note bibliografiche. Nel 1830 Mazzini iniziò a viaggiare in tutta Italia per trovare nuovi adepti per la carboneria. Tradito e denunciato alla polizia quale carbonaro venne arrestato e rinchiuso nella fortezza di Savona. L'anno seguente, prosciolto per mancanza di prove e quindi liberato, gli venne imposto di scegliere tra il confino, sotto la sorveglianza della polizia, o l'esilio. Scelse quest'ultimo, recandosi a Ginevra dove incontrò altri esuli.
Si laureò in giurisprudenza, ma era interessato allo studio della letteratura come impregno civile. Affiliato alla carboneria genovese svolse un’intensa attività sperando che la rivoluzione francese del 1830 aprisse prospettive rivoluzionarie anche in Italia. Fu arrestato nel 1830 e esiliato nel 1831.
In seguito, a Marsiglia, fondò la Giovine Italia, che ebbe come sottotitolo: Serie di scritti intorno alla condizione politica, morale e letteraria dell'Italia, tendenti alla sua rigenerazione, società con cui propugnò l'unità nazionale in senso repubblicano e democratico. Appena salito al trono Carlo Alberto, gli scrisse per esortarlo a prendere l'iniziativa della riscossa italiana, ma senza ottenere risultati. Allargò poi il suo impegno ideologico con la fondazione della Giovine Europa.
Giuseppe Mazzini morì a Pisa nel 1872, con la consolazione di spegnersi in patria, dopo aver vissuto quasi sempre in esilio.
[33] L'organizzazione Giovine Italia – Mazzini fondò a Marsiglia la Giovine Italia.
Nel 1832, a Marsiglia, inizia la pubblicazione della rivista "La Giovine Italia", che ha come sottotitolo "Serie di scritti intorno alla condizione politica, morale e letteraria dell'Italia, tendenti alla sua rigenerazione". Mazzini individuò nel tipo di azione politica svolta dalla carboneria e ancor prima dalla massoneria le cause del fallimento dei moti italiani. I difetti di questa organizzazione erano stati la segretezza e la mancanza di un programma ben definito. La segretezza aveva impedito ai cospiratori di avere ampia partecipazione da parte delle popolazioni che si erano trovate coinvolte in moti di cui non conoscevano né i capi né la finalità. La mancanza di chiari programmi aveva determinato anche negli stessi organizzatori incertezze e divisioni. Gli affiliati della Giovine Italia dovevano propagare le proprie idee perché l’opera di educazione era fondamentale per ottenere la rigenerazione morale e spirituale del popolo italiano.
L’opera di educazione doveva concludersi con l’impegno all’insurrezione e la partecipazione diretta alla guerra armata. Tra educazione ed insurrezione esisteva un rapporto di dipendenza. La propaganda avrebbe accresciuto il numero delle persone disposte a lottare e lo lotta avrebbe costituito un ulteriore momento di educazione. Lo sforzo di organizzazione compiuto da Mazzini da 1831 al 1843 fu enorme: la "Giovine Italia" era penetrata in tutti gli stati italiani, faceva proseliti soprattutto nei ceti borghesi, ma reclutava aderenti anche tra artigiani e proletari. Scarsa fu invece la penetrazione nelle campagne. Secondo il programma di Mazzini l’Italia doveva essere una- indipendente- sovrana. La "Giovine Italia" conobbe una rapida espansione caratterizzandosi nella sostanza come partito di quadri, composto cioè da persone preparate e pronte all'azione insurrezionale. Ma i tentativi insurrezionali compiuti si conclusero con l'insuccesso. Nel 1833 e poi nel 1834 l'organizzazione fu decimata da arresti e condanne. Mazzini, constatata l'immaturità politica italian, fondò a Berna (Svizzera) la “Giovine Europa”
Mazzini non si riconosceva in alcuna Chiesa, malgrado ciò, il rivoluzionario genovese era uno spirito profondamente religioso, convinto che dio avesse assegnato agli uomini la missione di vivere nella pace e nella giustizia. Gli individui, pertanto, dovevano concepire la propria esistenza in primo luogo come un dovere e dedicare ogni energia alla costruzione del nuovo mondo libero e giusto che Dio chiedeva loro di costruire. Dio, inoltre, secondo Mazzini, aveva assegnato all’Italia un ruolo di primaria importanza. Proprio perché la sua condizione era particolarmente difficile, essa doveva dare l’esempio a tutti gli altri popoli e indicare la via della liberazione dal dominio straniero e dall’oppressione.
L’idea di nazione, dunque, era al centro del pensiero mazziniano. A giudizio di Mazzini, tutti i popoli avevano pari dignità e pari diritti alla libertà e all’indipendenza, non a caso degli fondò nel 1834 la Giovine Europa. La scelta repubblicana si spiega con il fatto che, per Mazzini, la sovranità apparteneva solamente al popolo: questi non poteva delegare a nessuno a governare al duo posto. Un popolo che con le proprie forze fosse riuscito a conquistare la libertà sarebbe riuscito pure ad esercitare il potere, senza far ricorso ai re, che per altro erano tutti, secondo Mazzini, dei potenziali tiranni e dittatori spietati.
Il contributo del mazzinianesimo al Risorgimento è da riconoscere in questa affermazione che il popolo italiano avrebbe conquistato la sovranità e la libertà solo assumendo direttamente l’iniziativa politica. La futura Italia avrebbe dovuto essere una repubblica perché solo la forma repubblicana avrebbe permesso al popolo italiano di attuare la missione affidatagli da Dio. La Giovine Italia determinò un salto di qualità nella organizzazione della lotta politica in Italia.
[34] Vincenzo Gioberti – Il filosofo, teologo, sacerdote e uomo politico Vincenzo Gioberti, nacque a Torino il 5 aprile 1801 figlio di Giuseppe, un piccolo borghese di condizione economiche modeste, che lo lasciò orfano in giovane età. Sotto l’influenza della madre, una donna di forti sentimenti religiosi, Gioberti. intraprese un percorso d’educazione e studi ecclesiastici, presso i Padri Oratoriani, culminato con la laurea in teologia nel gennaio 1823 e l’ordinazione a sacerdote nel marzo 1825.
Nel 1826 egli fu nominato cappellano di corte ed, in seguito, entrò progressivamente nella vita sociale e politica del Piemonte dell’epoca, dapprima allacciando rapporti con la società segreta dei Cavalieri della Libertà, d’orientamento costituzionalista liberale moderato, poi collaborando, sotto lo pseudonimo di Demofilo, con la rivista di Giuseppe Mazzini dal1805 al 1872, La Giovine Italia.
Tuttavia le sue idee filosofiche panteistiche e, soprattutto, il pensiero politico d’ispirazione repubblicana mazziniana, lo misero in cattiva luce: fu, infatti, arrestato dalla polizia nel giugno 1833, e, dopo qualche mese di carcere, costretto ad andare in esilio nel settembre dello stesso anno.
Visse quindi per ben quindici anni all’estero, dapprima a Parigi, poi lungamente a Bruxelles, dove campò come insegnante e scrivendo svariati trattati filosofici e politici. La sua fama è soprattutto legata alla pubblicazione, nel 1843, del trattato “Del primato morale e civile degli Italiani”, dedicato a Silvio Pellico. Accolto in maniera molto fredda, se non ostile dal mondo ecclesiastico. In particolare, esso diede inizio ad un’annosa polemica tra Gioberti e l’ ordine dei gesuiti, che proseguì con le “Prolegomeni al Primato” del 1845,” Il Gesuita Moderno” del 1847 e “l’Apologia del Gesuita Moderno” del 1848, e che portò, qualche anno dopo, alla messa all’Indice dei suoi libri.
Sempre al periodo franco-belga risalgono alcuni suoi scritti polemici contro Antonio Rosmini “Errori filosofici di Antonio Rosmini”, del 1842,  ”Felicité de Lamennais“, del 1840) e contro il filosofo hegeliano francese Victor Cousin.
Nel 1846 il re sabaudo Carlo Alberto (1831-1849) proclamò un’amnistia, ma Gioberti., che nel frattempo si era trasferito a Parigi, non ne usufruì e fece ritorno in patria solo nel 1848, il 29 aprile, dopo un rientro a Torino, a Gioberti,. fu offerto un seggio di senatore, ma egli preferì quello di rappresentante nella Camera dei Deputati del regno di Sardegna, di cui fu eletto primo presidente.
Poco dopo Gioberti. divenne capo del governo piemontese, tuttavia lo scoppio della seconda fase della 1° guerra d’indipendenza e le polemiche con gli altri ministri sulla sua proposta di restaurare il Granduca di Toscana e il papa,scacciati dai moti popolari del 1848 dai loro rispettivi troni, misero fine alla sua carriera politica. Non piaceva, tra l’altro, la sua idea di una federazione di stati italiani sotto la presidenza del papa, che gli valse il titolo di neo-guelfo.
Dopo la sconfitta di Novara del 23 marzo 1849, il nuovo re Vittorio Emanuele II re di Sardegna: 1849-1861; re d’Italia: 1861-1878 offrì a Gioberti. un incarico diplomatico a Parigi, dove si trasferì e da dove non fece mai più ritorno in Italia. A Parigi Gioberti, compose l’altra sua opera fondamentale dopo il “Primato morale e civile”, “il Rinnovamento civile d’Italia”;  morì per un colpo apoplettico il 26 ottobre 1852.
La sua filosofia è una miscela di ontologismo panteistico, tradizionalismo e neoplatonismo. Il tutto è riassunto in un processo ciclico, che presenta una fase discendente, la mimesi il processo di derivazione del mondo da Dio, ed una fase ascendente, la metessi il processo con cui il mondo e l’uomo ritornano a Dio.
Dio si presenta al nostro intuito come l’Idea, o l’Essere reale assoluto, o Ente (Ens), che non può essere causato da altro ed esiste quindi “necessariamente”.
Tutte le creature sono invece “esistenze” e sono state create ex nihilo da Lui ; per Gioberti. la mimesi era riassunta nella frase “l’Ente crea l’esistente”, e da Lui discendono, ma non possono essere confusi con Lui. La creazione non si conclude, in ogni caso, con l’atto creativo, ma con l’anelito dell’esistente – in particolare l’uomo – a ritornare all’Ente, sintesi della metessi era la frase “l’esistente torna all’Ente”.
[35] Cesare Balbo (Torino 1789-1853) – Conte di Vinadio, uomo politico e storico italiano. Figlio di Prospero e di Enrichetta Taparelli d'Azeglio, subì in gioventù l'influenza di Alfieri, e fondò, nel 1804, con alcuni coetanei l'Accademia dei Concordi, nelle cui discussioni cominciarono a prendere forma le sue idee liberal-moderate.
Durante la dominazione francese in Italia fu al servizio di Napoleone, ricoprendo successivamente le cariche di segretario generale della giunta governativa di Toscana (1808), di segretario della consulta per i territori già pontifici (1809) e infine di uditore al Consiglio di Stato di Parigi (1811).
In seguito al moto liberale piemontese del 1821, al quale peraltro non aveva partecipato, fu esiliato nel 1822. Si concentrò da allora negli studi storici e filosofici ed oltre alle Memorie sulla rivoluzione del 1821, la Storia d'Italia sotto i barbari, cioè dal 476 al 774 (1830), i Pensieri ed esempi di morale e di politica, scritti nel 1832-1833 e pubblicati postumi nel 1854, la Vita di Dante (1839), le Meditazioni storiche (1842-1845) e il classico Sommario della storia d'Italia (1846).
Iniziato, col Primato di Gioberti, il movimento d'opinione moderato per la soluzione della questione italiana, Cesare Balbo, in sostegno, aveva pubblicato nel 1844 Le speranze d'Italia.
Dopo la concessione dello statuto albertino Balbo fu il primo presidente del consiglio del regno di Sardegna (13 marzo - 25 luglio 1848), e in seguito fu capo della Destra nel parlamento subalpino. Ma negli ultimi anni della sua vita tornò a dedicarsi agli studi, scrivendo articoli e saggi che confluirono nella raccolta postuma Della monarchia rappresentativa in Italia (1857).
[36] Massimo d'Azeglio – Massimo d'Azeglio nacque a Torino nel 1798 da nobile famiglia.
Figura politica di primo piano , durante la sua vita si dedicò anche alla pittura e alla letteratura, sia in veste di scrittore politico che di romanziere.E' stato una persona liberale moderato, arrivò a ricoprire la carica di Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna dal 1849 al 1852. Nel 1860 fu nominato governatore di Milano.Fu anche pittore, noto per i paesaggi e i quadri di battaglie. Tra i suoi opuscoli politici sono famosi "Gli ultimi casi di Romagna" (1846) in cui invitava gli italici a abbandonare la via delle cospirazioni, e "I lutti di Lombardia" (1848)
Tra le sue opere più famose ricordiamo Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta (1833), accolto da grandissimo successo, e Niccolò de' Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni (1841). Durante gli ultimi anni della sua vita, trascorsi sul Lago Maggiore, si dedicò alla scrittura delle sue memorie, pubblicate postume col titolo I miei ricordi nel 1867. Più riuscito forse il libro autobiografico "I miei ricordi" (1867), ritratto di un gentiluomo moderato, combattuto tra il vecchio e il nuovo. Domina l'intento civile, la prosa scorre limpida e piena, colorita, ritrae con preciso gusto figure e paesaggi.
D'Azeglio morì infatti a Torino nel 1866.
[37] Carlo Cattaneo – Carlo Cattaneo è stato patriota e politico italiano del XIX secolo. E' considerato uno dei padri del federalismo. Nasce a Parabiago (MI) il 15 giugno 1801.
Diplomatosi negli studi classici, intraprende la professione dell'insegnante e frequenta i circoli intellettuali nella Milano della prima metà del secolo. Nel 1848 partecipa alle cinque giornate di Milano e successivamente costretto a riparare in fuga a Lugano dove muore il 6 febbraio 1869.
Carlo Cattaneo è ricordato per il suo pensiero politico federalista. Pur avendo combattuto nelle cinque giornate di Milano, si oppone al progetto di unificazione dei Savoia preferendo al suo posto un modello di Stato confederato sulla stregua di quello svizzero.
Per non giurare fedeltà ai Savoia rifiuta di tornare in Italia, rinunciando anche al posto in Parlamento come neoeletto deputato nelle file dei repubblicani. Rispetto a Mazzini, Cattaneo è più pragmatico e più vicino alle idee illuministe. E' considerato uno dei padri del federalismo. Secondo Cattaneo i popoli possono gestire meglio la loro partecipazione alla cosa pubblica soltanto ricorrendo al federalismo ed evitando di delegare la propria libertà a popoli lontani dalle proprie esigenze. Da qui la sua contrarietà al Regno dei Savoia.
Carlo Cattaneo è anche ricordato per le sue forti convinzioni liberiste.

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