Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

giovedì 11 settembre 2014

Letteratura italiana III

La cultura e la letteratura medioevali
1. L’età della scolastica (1000-1200) – I fatti più importanti di questo periodo che abbraccia due secoli, di cui uno è preparazione dell’altro, sono i seguenti:
·         La lotta delle investiture, fra Chiesa e Impero, terminata nel 1122 col concordato di Worms;
·         Il sorgere e lo svilupparsi dei Comuni (dalla seconda metà del secolo XI);
·         Le Crociate che portano come conseguenza diretta nuovi rapporti fra l’Occidente e l’Oriente anche nel campo della cultura;
·         La diffusione del sistema feudale aveva fatto sorgere gradualmente nuovi bisogni culturali [[16]] in ceti sociali, come i ca­valieri e la piccola nobiltà, che si espandevano per il frazionamento dei feudi maggiori;
·         Le Università o Studi Generali che diventano, accanto ai conventi, depositarie della cultura e, particolarmente, della cultura specializzata; laica, anche se non in opposizione, bensì sotto gli auspici della Chiesa;
·         Le nuove correnti filosofiche come la Scolastica, i contatti con la cultura araba e il contrastato trionfo dell’aristotelismo.
·         La rinascita dell’arte occidentale

2. I luoghi della cultura - Dominatore della cultura, sebbene l’elemento laico si fac­cia più vivo e presente, è sempre il clero, quello soprattutto dei conventi e delle scuole episcopali e monacali, dove il pro­gramma di studio si va man mano allargando, né solo nella teologia o nelle arti del trivio, ma anche in quelle del quadrivio, nella filosofia e nel rinato amore dei classici antichi, di cui, particolarmente nel secolo XII, le copie si moltiplicano, arricchite di glosse e di commenti talora d’importanza assai notevole.
a) Le corti feudaliSviluppatesi in Francia dall’XI secolo le corti furono l’espressione della società feudale e della cavalleria. Nelle corti nacquero anche i primi esempi di letteratura in volgare e laica, infatti, fino a quel momento la cultura era stata appannaggio della Chiesa e si era espressa in latino. I cavalieri erano guerrieri armati, cadetti,  i cui valori erano rappresentati dalla fedeltà al proprio signore e  alla donna amata e dalla difesa della fede cristiana.
Il tema amoroso rivestì un’importanza particolare e comporta una rivalutazione della figura femminile rispetto all’alto Medioevo, dove la donna era spesso l’incarnazione del male. La donna, nella nuova visione, era la domina e il suo amante il vassallo, le cui doti erano il coraggio, la lealtà e la fedeltà.
I principali generi letterari della cultura cortese furono: il poema epico-cavalleresco (argomento religioso) e il romanzo d’amore e d’avventura entrambi in lingua d’oïl e la poesia amorosa in lingua d’oc.
Il termine cortese deriva da corte, spazio fisico e ideale in cui il signore-mecenate favoriva la cultura cortese  destinata in prevalenza all’ascolto e al pubblico  feudale. Il termine, tuttavia, non indicò solo uno spazio fisico ma anche uno spazio ideale, in cui si esplicavano le buone maniere e la nobiltà d’animo (significato figurato).
L’origine francese si spiega con la vitalità della società feudale in questa nazione; non fu così in Italia, dove lo sviluppo culturale ebbe soprattutto un carattere urbano.
I poemi epici sono chiamati canzoni di gesta (venivano interpretati da un cantore con accompagnamento musicale) e sono organizzati in cicli. Il più famoso è quello Carolingio, in cui sono celebrate le imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini contro i Saraceni. Ne fa parte la Chanson de Roland del 1080.
Il romanzo cavalleresco è il genere più diffuso, è in versi. Il protagonista è spesso impegnato in una ricerca (quete) volta a raggiungere l’oggetto del desiderio (Santo Graal, donna). La materia più trattata è quella bretone, ossia i racconti legati a re Artù e ai cavalieri della tavola rotonda. Celebri le storie d’amore di Tristano e Isotta; Lancillotto e Ginevra. Di quest’ultima la versione più nota è quella di Chretien de Troyes.
In Provenza si sviluppa la poesia amorosa o provenzale o trobadorica (poeti=trovatori) (XI-XIII sec.); espressione anch’essa delle corti feudali, i poeti possono essere grandi feudatari o provengono dalla piccola nobiltà o sono dipendenti non nobili di un signore. Trasmesse per via orale, le poesie erano accompagnate dalla musica,  (canzoni).
b) Le Università – Il risveglio delle città dopo il Mille portò al potenziamento delle scuole collegate ai vescovadi alle quali si af­fiancarono scuole laiche. In tutte si im­partiva l’insegnamento elementare della grammatica latina, svolto su testi per lo più di carattere religioso.
Studi di livello su­periore erano possibili nelle città in cui si trovavano abbazie di antica tradizione, in particolare Parigi (abbazia di S. Vittore) e Bologna (abbazia di S. Felice).
Le discipli­ne che s’insegnavano erano quelle eredi­tate dalle scuole di Roma antica: gramma­tica, retorica dialettica (chiamate il trivio, «incrocio delle tre strade»), aritmetica, geo­metrìa, astronomia, musica (quadrivio); al­tri insegnamenti come la medicina e il dirit­to cominciarono poi ad essere oggetto di studio, mentre la teologia continuava ad essere la disciplina considerata al di sopra di tutte le altre.
Quando queste scuole per il numero degli studenti, in genere legato alla fama degli insegnanti, divenivano centri di studio famosi, ricevevano dal­l’autorità ecclesiastica o politica il ricono­scimento di studium generale (come av­venne per Bologna e Parigi, e per Salerno, centro degli studi di medicina).
La deno­minazione di universitas indicò inizialmente la corporazione degli studenti (a Bologna) o degli insegnanti (a Parigi), vale a dire l’organizzazione che pagava i mae­stri, gestiva la copiatura dei testi e tutto quanto era legato ai bisogni dell’univer­sità.
La Chiesa, dopo un’iniziale diffiden­za verso fonti d’insegnamento che pote­vano contrapporsi alle scuole ecclesiasti-che, cercò di assumerne il controllo e a po­co a poco impose la sua giurisdizione sul­le università facendo accettare il principio che solo la Chiesa poteva dare alla fine de­gli studi la licentia docendi (abilitazione all’insegnamento) valida per tutti i paesi della cristianità.
Come centri di attività culturale, accanto ai conventi famo­si, sorgono le Università: in Italia la medicina si continua a col­tivare nel famosissimo centro di Salerno, già noto nel se­colo IX che fu certamente il primo a sorgere in Europa ed è in questo periodo illustrato da Costantino Africano (m. 1087) maestro di grande fama e traduttore di molte opere mediche dal greco e dall’arabo; a Bologna fioriscono gli studi giuridici fino dal secolo XI, ed Irnerio (1100-1130) ne aumenterà la fama nel secolo seguente che vede pure la protezione data allo Studio da Federico Barbarossa. E fiorenti scuole di diritto civile sorgono altresì, prima della fine del secolo XII, a Reggio Emilia, a Modena e a Ravenna.
Fuori d’Italia, a Parigi predomina lo studio della logica e particolarmente della dialettica; a Montpellier nel secolo XII quello della medicina e del diritto; ad Orléans si studiano gli auctores, cioè i classici latini, il cui culto sempre più si diffonde, suscitando innumerevoli imitatori; mentre in Inghilterra Oxford si modella su Parigi e può contare alla fine del secolo XII ben tremila studenti.
Siamo quindi di fronte ad una grandiosa esplosione cul­turale e letteraria che culmina nel secolo XII ed è più vasta e più universale della stessa cosiddetta rinascenza carolingia. Veramente, com’è stato detto, il XII secolo è stato una iuventus Mundi, o meglio la giovinezza della civiltà umana dell’Europa occidentale. La produzione è abbondantissima. Inutile ricordare che in questi secoli, specialmente nel XII, la letteratura latina coesiste con le varie letterature nazionali, soprattutto in Francia. Però per il momento è ancora la cultura latina quella predominante.

3. Intellettuali e pubblico nel Medioevo – Nel corso dei secoli le mansioni che hanno svolto gli intellettuali e il pubblico sono state quelle di maggiore rilevanza, in quanto sono proprio coloro che hanno dato vera importanza alla letteratura o più generalmente all'arte. Il loro ruoli sono, però, dei ruoli dinamici e non statici, cioè che subiscono un'evoluzione, un cambiamento a seconda dei periodi.
Nel Medioevo si definiva intellettuale colui che aveva il compito di produrre e di diffondere la cultura. Questa figura si identifica con il chierico, il quale era un uomo che abitava in un monastero, molto istruito, ma egli era semplicemente un propagatore del sapere. Quello del chierico era ancora un ruolo che non dava importanza all'originalità del testo: infatti ciò che interessava era una certa costanza nel tramandare.
Il chierico, quindi, era una figura molto tradizionalista, quasi impersonale e che non aveva quello spirito di soggettività da intellettuale.
Per quanto riguarda, invece, il pubblico del Medioevo, al quale i chierici si rivolgevano era decisamente elitario. La cultura, infatti, era riservata a una cerchia strettissima di gente. Il lavoro dell'intellettuale era rivolto a degli individui di alto rango o, logicamente, ad altri chierici. Un grandissimo fattore limitante per la diffusione negli altri ceti era il linguaggio usato negli scritti, cioè il latino. Nelle massa popolari la lingua che più si parlava era una sorta di mediolatino.
In età comunale la situazione cambiò. Mentre i chierici continuavano a svolgere un ruolo importante, parallelamente si affermava un altro tipo di intellettuale: l'intellettuale-cittadino. Quest'ultimo partecipava attivamente alla vita politica della sua città, quindi prendeva parte anche ai suoi conflitti e percepiva le varie tensioni che si venivano a creare. L'intellettuale-cittadino operava nelle corti non facendo, come i chierici, della scrittura il loro lavoro, ma le affiancavano alle varie professioni che avevano. Questo, dunque, era il momento d'affermazione dell'intellettuale laico.
Il primo gruppo di colti "atipici" sono stati i cosiddetti "poeti siciliani", i quali erano alla corte di Federico II. Questa è, però, la fase in cui si forma un pubblico di lettori più vasto. Ciò era dovuto all'alfabetizzazione e alla diffusione delle scuole. Gran parte dei lettori era formata dagli appartenenti al ceto mercantile, i quali potevano permettersi l'acquisto dei libri e la frequentazione degli edifici scolastici. La lettura era, in quell'ambito, accessibile addirittura anche alle donne. Ciò accadde, più o meno, fino al ‘400.

I caratteri della cultura medievale
a) La civiltà comunale all’origine del risveglio culturale La civiltà comunale costituisce il momento più originale, ed uno tra i più vivi, di tutta la nostra storia. È un periodo di gran­de slancio economico: l’aumento della produzione artigianale, dei commerci e, con i com­merci marinari, delle costruzioni navali, determina un aumento di ricchezza dei ceti citta­dini, ne innalza il tenore di vita e favorisce il lusso. Effetto, e quasi simbolo, di questo svi­luppo nel campo economico, è la nascita di una nuova attività, quella bancaria. A questo rigoglio economico si accompagna un’eccezionale ripresa nel campo intellettua­le.
È il momento in cui, tanto nell’architettura che nella scultura e nella pittura, si assiste al nascere di forme originali, libere dall’imitazione dell’arte bizantina. Sorgono nuove città, e le antiche rinnovano completamente il loro volto, arricchendosi non solo di cattedrali ma anche di edifici civili quali i palazzi comunali sedi dei consigli, dei consoli e delle altre magistrature; di palazzi, residenze delle più potenti famiglie, dominati da torri difensive, mentre nelle mura di cinta si aprono porte in pietra decorate di sculture; si lastricano le strade; si costruiscono canali per portare le acque nei fossati delle mura. Lo stile che caratterizza il periodo più splendido dell’età comunale (XII – XIII secolo) è quello romanico, cui si sostituirà quello gotico dalla seconda metà del secolo XIII.
In letteratura, a questo fermento di creazione originale, corrisponde l’affermarsi del volgare, che ben pre­sto si esprime nelle più grandi figure della nostra cultura: San Francesco, Jacopone, Cavalcanti, Dante, Petrarca, Boccaccio.
Sul piano intellettuale espressione delle nuove strutture politiche e sociali sono le Università che liquidano il prestigio delle scuole monastiche, rimaste isolate dalla nuova evoluzione sociale e legate alle vecchie strutture feudali.
b) L’unità culturale nel Medio Evo - La cultura del Medioevo, almeno fin verso i secoli X e XI, non aveva avuto carattere nazionale, ma si era manife­stata unitaria in tutti quei Paesi d’Europa che avevano fatto parte dell’Impero romano ed erano stati segnati dalla sua civiltà; su di loro, successivamente, aveva esercitato la sua influenza, orientandone gli interessi e gli ideali, l’altra grande struttura universale: la Chiesa cattolica.
Espressione di tale unità culturale era la lingua in essi usata, il latino, che, diffuso dai Romani conquistatori, aveva avuto ulteriore incremento ed avallo dal fatto di essere stato assunto dalla Chiesa come lingua ufficiale propria.
Certo, quello medioevale non era più il latino di Cicerone o di Livio; era un latino che nel­la sintassi, nel lessico, si era andato progressivamente allontanando dai modelli classici e che si era anche adeguato all’esigenza di esprimere modi nuovi di pensare e di sentire, mantenen­dosi in tal modo strumento di comunicazione attuale e vitale.
Ma anche quando le varie comunità etniche cominciarono a definirsi ed a differenziarsi, ol­tre che politicamente, anche linguisticamente, ed, accanto al persistente latino, andarono affermandosi in ambito letterario le varie lingue romanze, nei paesi dell’ex impero romano non venne tuttavia meno il senso dell’appartenenza a una cultura comune. Perciò nelle università che erano venute sorgendo dal XII secolo nei vari Paesi d’Europa affluivano maestri e discepoli a raggio europeo. L’università teologica di Parigi, quella giuridica di Bologna, quella medica di Salerno, costituivano veri e propri punti d’incontro culturali dell’Europa romanza.
Analogamente, in quegli importanti centri cul­turali che furono i conventi, spesso forniti di ricchissime biblioteche, convenivano, sotto la stessa «regola», monaci di differente origine etnica.
Quanto all’Italia e alla sua letteratura, è proprio in conseguenza dell’unità culturale che lega fra loro i Paesi romanzi che, ad esempio, le imprese di Carlo Magno celebrate in lingua d’oïl nelle Canzoni del Ciclo carolingio (sec. XI) trovano ascolto da noi, e vengono riprese in componimenti epici (i poemi franco-veneti) scritti in un dialetto Veneto ricco di elementi francesi. Allo stesso modo i poemi d’amore e d’armi del Ciclo bretone intorno alle gesta di re Artù, anch’essi composti in lingua d’ oïl, vengono da noi tradotti e rielaborati, e costituiscono la raffinata lettura delle nostre corti feudali. Così pure i componimenti amorosi composti in lingua d’oc dai trovatori provenzali offrono temi e tecniche alla prima poesia d’arte italiana, quella della «scuola siciliana».
Il rapporto culturale unitario che lega l’Europa romanza è così stretto che la barriera delle Alpi non sempre costituisce un confine linguistico. Alcuni trovatori italiani poetano in lingua provenzale, che non sentono per nulla come straniera. Ed il fiorentino Brunetto Latini «maestro – a detta di un cronista contemporaneo, il Villani – in digrossare i fiorentini e farli scorti in bene parlare», (che cioè sviluppò e affinò quella cultura fiorentina di cui doveva alimentarsi il genio di Dante), compone in lingua d’ oïl il Trésor, enciclopedia del sapere del tempo. E Marco Polo (1254-1324) detta in lingua d’oil il suo Milione.
c) La visione teocentrica del mondo Non meno unificante della tradizione romana fu, co­me si è accennato, l’influenza esercitata sui Paesi europei dalla Chiesa, che vi diffuse una comune interpretazione cristiana del mondo e del destino umano.
Secondo la concezione di cui la Chiesa era portatrice, l’universo è retto da Dio, che, im­mobile nella sua perfezione, governa provvidenzialmente la realtà inanimata e animata (cose, animali, uomini), dotandola di una tensione che l’attira a sé ed alla quale solo l’uomo può sottrarsi perché dotato di ragione e di libero arbitrio; in tal caso dannandosi, giacché in Dio sta l’unica salvezza.
Di conseguenza la vita terrena, i beni della terra, perdono il valore assoluto che aveva loro attribuito la civiltà pagana; e l’esistenza in questo mondo diventa un momento di passaggio, un banco di prova nel quale, col suo agire, l’uomo conquista o perde la vita vera, cioè la vita eterna.
L’eroe di quest’epoca non è più, come già nel mondo classico e più tardi in quello rinascimentale, colui che sa affermarsi nella conquista del potere, della gloria, ecc., ma il santo, cioè l’uomo che, con totale e coerente rinuncia, subordina la vita terrena a quella ultraterrena.
Certo, si tratta di posizioni teoriche che, come spesso avviene, non hanno impedito che, nella vita concreta, si verificassero atteggiamenti con esse discordanti o addirittura ad esse antitetici. E, infatti, il Medioevo, se fu età di grandi ascetismi, fu anche età «di sangue e di crucci», in cui si scatenarono violenti appetiti terreni e passioni feroci. Ma gli uni e le altre furono giudicati, nella riflessione morale del tempo, e anche nella comune opinione, come forme devianti dalla retta strada segnata all’uomo da Dio.
Se teocentrica è la concezione del mondo, cristocentrica è quella della storia. La storia ve­ra, cioè, comincia con l’avvento del Cristo; e le vicende che lo hanno preceduto sono state ad esso funzionali. Così, per esempio, l’impero romano è stato voluto da Dio perché, unificando territori e popoli, avrebbe spianato la via alla diffusione del Cristianesimo.
Su tali premesse poggia anche una diffusa concezione teocratica della politica, secondo la quale il papa, perché esponente di Dio sulla terra, è anche il legittimo detentore di ogni autorità, ivi compresa quella politica, che può esercitare direttamente o dele­gandola all’autorità politica vera e propria, cioè all’imperatore; che quindi rimane a lui subordinato. Teoria questa che non fu però accettata da tutti pacificamente, e a cui se ne contrappose una antitetica che subordinava il potere religioso a quello politico, e un’altra (che sarà anche quella di Dante) che sosteneva la reciproca autonomia dei due poteri.
d) Teocentrismo e cultura La concezione teocentrica del mondo ebbe per tutto il Medioe­vo coerenti applicazioni in campo culturale.
La teologia, la scienza delle cose divine che poggia sulla «rivelazione» contenuta nei testi sacri e che alla luce di essi interpreta la realtà, è considerata la scienza per eccellenza, la scienza regina e ad essa sono subordinate le altre scienze quasi sue ancelle: ancillae theologiae, come si diceva.
Di conseguenza la speculazione filosofica deve cedere il passo alla teologia, là dove l’indagine razionale si scontra con le verità rivelate che devono essere accettate per fede; le scienze naturali, anziché indagare autonomamente i fenomeni del reale, partono dalle affermazioni contenute nei Libri sacri come da premesse indiscutibili; funzione della politica è di guidare gli uomini verso la giustizia terrena, che è premessa al raggiungimento dell’eterna beatitudine; e già abbiamo visto come sia religioso anche il metro di valutazione della storia.
e) La funzione pedagogica dell’arte Quanto all’arte, essa si giustifica solo se indirizzata alla glorificazione di Dio o all’educazione morale e religiosa degli uomini.
Perciò le arti figurative si muoveranno per tutto il Medioevo per gran parte nell’ambito del sacro: dal secolo XI fiorirà in Europa la severa armonia delle cattedrali romaniche o la tensione verticale di quelle gotiche; la pittura ritrarrà vicende e immagini religiose; la scultura ornerà con figurazioni sacre le facciate, i portali, i capitelli, le nicchie delle chiese.
Quanto alla letteratura e alla poesia, esse sono considerate strumenti inutili, quan­do non fuorvianti e di perdizione, se non guidino gli uomini verso il bene e la verità, cioè verso la verità religiosa di cui abbiamo parlato. Nasce da questa esigenza pedago­gica della letteratura l’uso della allegoria, una specie di simbolico sovrasenso attribuito alle cose e vicende concrete rappresentate, e che, proponendo nascosti significati etico-religiosi, si sovrappone al significato letterale del testo e lo trascende. Così ad esempio il viaggio nell’Oltremondo descritto da Dante nella Divina Commedia rappresenta allegoricamente l’itinerario dell’anima che, smarritasi nel peccato, cerca e raggiunge la salvezza in Dio (Paradiso) riflettendo sulle conseguenze eterne (Inferno) e temporanee (Purgatorio) del peccato stesso. Ma all’interno di questa fondamentale allegoria, nella Commedia ne sono proposte molte altre particolari, su cui torneremo più avanti.
f) La persistenza nel Medioevo della tradizione classica – Se nel Medioevo la concezione cristiana della vita si contrappone antiteticamente a quella pagana dell’età classica, tuttavia la cultura classica non viene del tutto meno.
Respinta in un primo tempo dalla Chiesa che la considerava fonte di errore, viene poi progressivamente dalla Chiesa stessa cautamente recuperata, e assimilata almeno nella misura e nelle forme in cui non contrasta e può conciliarsi con lo spirito del Cristianesimo. Così la «retorica» medioevale, le norme cioè del bello scrivere, ricalca quella classica; nelle scuole medioevali è mantenuto il corso di studi che era stato in vigore nelle scuole ellenistico-romane, e che consisteva nelle discipline del Trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del Quadrivio (aritmetica, musica, geometria, astronomia); il diritto romano continua a far testo nelle controversie private e pubbliche; San Tommaso si propone nelle sue opere di integrare il pensiero del filosofo greco Aristotele con quello cristiano.

La filosofia – La dissoluzione dell’Impero romano aveva portato con sé la crisi del sistema scolastico. Nell’Alto Medioevo, l’istruzione era legata per lo più alle scuole cattedrali e alle scuole dei monasteri, dove il clero e i monaci venivano educati alla lettura della Bibbia, dei testi liturgici e dei Padri della Chiesa. Soltanto con Carlo Magno e Alcuino, e con la scuola palatina da loro organizzata, lo stato riprende l’iniziativa formulando un progetto educativo coerente: attraverso la formazione di maestri poi inviati nei vari centri episcopali e monastici, la scrittura - da parte di Alcuino  – di  veri  e  propri ‘manuali’  per  gli studenti dedicati all’ortografia, alla grammatica,  alla retorica, la codificazione dell’esegesi biblica.
È però soltanto a partire dalla fine dell’XI secolo che iniziano a formarsi quelle scuole cittadine che prenderanno il nome di Università. Si tratta di scuole specialistiche consacrate allo studio e al perfezionamento di discipline come la giurisprudenza, la medicina, la  teologia.
E si tratta di scuole in cui, per la prima volta,  la  componente laica è importante tanto quanto quella ecclesiastica: per esempio, molti degli insegnanti di diritto bolognesi sono laici che, costituitisi in libere associazioni, decidono la natura e il calendario dei corsi. I nuovi modi di organizzazione e trasmissione del sapere influenzano anche la  tecnica della ricerca scientifica. Nasce un nuovo metodo scolastico articolato in due fasi: il maestro propone la quaestio, cioè un interrogativo  che viene  esaminato in ogni suo  aspetto  attraverso l’analisi degli  argomenti favorevoli o contrari ad una data soluzione. E gli allievi si esercitano nelle disputationes, cercando di affermare il proprio punto di vista nella discussione di un problema proposto dal maestro.
b) La Scolastica – All’interno di questo nuovo sistema del sapere, le università, vissero e operarono i maggiori intellettuali del periodo qui considerato: il nome di scolastica deriva appunto dallo stretto legame che unisce la produzione scientifica del tempo alla scuola. Se prima gli uomini di pensiero, i maestri, scrivevano per esortare e persuadere rivolgendosi ai confratelli, o al pubblico incolto dei fedeli, ora essi hanno di fronte –proprio come i docenti odierni – degli allievi che debbono essere istruiti. Ne deriva una forte sistematizzazione del sapere: cioè la scrittura di summae, commenti, raccolte di sentenze (celebri quelle di Pietro Lombardo,  una  sorta  di enciclopedia teologica) che forniscono allo studente tutte le informazioni necessarie circa lo stato di una determinata questione attinente la teologia, il diritto, la medicina, la retorica e le altre discipline professate all’università.
c) La traduzione e il commento delle opere di Aristotele – Due sono i problemi cruciali per i filosofi medievali:  quello  del  rapporto  col  pensiero  pagano e quello  del rapporto  tra ragione  e fede.
Quanto  al  primo, nel corso dell’XI e del XII secolo si avvia in Europa la traduzione delle opere di Aristotele in latino e il loro commento da parte degli intellettuali cristiani: inizia così, con quello che viene definito il philosophus per eccellenza, un dialogo che influirà profondamente sia sul metodo sia sulla sostanza del pensiero tardo-medievale. Tale dialogo venne ostacolato dal fatto che Aristotele giunge all’Occidente non per via diretta bensì filtrato dalle traduzioni e dall’esegesi dei filosofi arabi: Avicenna (980-1037) e Averroè (1126-1198), i quali valorizzano la componente razionalistica  del sistema  aristotelico, svalutando  invece  quella meditazione sulla metafisica  e su Dio che poteva accordarsi con le verità cristiane. Nella sua interpretazione di Aristotele, Averroè nega l’immortalità dell’anima individuale e afferma l’eternità del mondo, cioè esclude la creazione: due tesi inaccettabili per un cristiano. La storia della ricezione di Aristotele nei secoli XIII e XIV è perciò una storia molto accidentata, fatta di ammirazione e devozione, e tentativi di inquadrare la sua  filosofia  pagana  nell’ambito  della  fede,  ma  anche  di  divieti  e  censure:  più  volte,  l’autorità ecclesiastica proibì lo studio di alcuni o di  tutti  gli scritti  aristotelici  nelle  università  in  quanto contrari alla dottrina cristiana.
d) La traduzione e il commento delle opere di Platone – Più vicina alla metafisica cristiana è la dottrina delle idee di Platone, il filosofo che con Aristotele ha più influito sullo svolgimento del pensiero occidentale. Di fatto, elementi platonici sono ben presenti  nelle  opere  del maggiore  dei padri  della  Chiesa,  Agostino,  nel  cui  solco  procederà  tutta  la  speculazione  cristiana  fino  alla Scolastica. Durante il secolo XII, mentre cresce il numero delle traduzioni (particolare importanza riveste il Timeo, il testo-chiave della metafisica platonica, che viene accostato al libro biblico della Genesi), lo studio  di Platone si  affianca  a  quello  di Aristotele. Particolarmente  vivace, in  questo senso, è la scuola  di  Chartres,  nella  quale  viene  elaborata, soprattutto da parte di Guglielmo di Conches e Gilberto Porrettano, la nuova metafisica platonico-cristiana.
e) Il problema del rapporto tra filosofia e fede: Anselmo d’Aosta – Il secondo problema, quello dell’equilibrio tra ragione e fede, è parte, naturalmente, di quello appena toccato: avvicinarsi ai filosofi classici significa allontanarsi dalla fede, perché essi non conobbero il vero Dio; tuttavia il cristiano  non  è  costretto  al sacrificio  dell’intelletto:  ciò  che  occorre  è  invece  definire  i rispettivi domini e ruoli, e proprio in quest’opera s’impegnano gli scolastici. La figura più importante del sec. XI è quella di Anselmo d’Aosta. In una lunga serie di opere, egli si propone di indagare razionalmente il problema dell’esistenza di Dio.
f) Pietro Abelardo – Nel secolo successivo, l’importanza di Pietro Abelardo risiede nell’elaborazione del ‘metodo scolastico’: il Sic et non offre infatti al lettore gli strumenti per l’esegesi di qualsiasi testo attraverso l’uso accorto della filologia (comprensione letterale del testo) e della logica (esame incrociato degli argomenti favorevoli o contrari ad una determinata tesi: a ciò fa riferimento il titolo del Sic et non: dove si mettono a confronto le opinioni dei padri della Chiesa su una serie di questioni teologiche con ciò che dice la Bibbia). Oltre a un’imponente opera teorica sui tre grandi domini in cui si divide la filosofia medievale (la teologia, la logica e l’etica), Abelardo ci ha lasciato anche una delle prime autobiografie della tradizione occidentale, l’Historia calamitatum (‘Storia delle mie disgrazie’)[1].
g) La Scolastica nel Duecento: Alberto Magno – Il Duecento è il secolo di maggiore splendore per la filosofia scolastica. Si completa, in questo periodo, la traduzione delle opere aristoteliche, si perfeziona il sistema universitario, la vita culturale si arricchisce grazie all’apporto degli ordini mendicanti, che prestano all’università i loro migliori maestri: di fatto, i più insigni filosofi del secolo sono domenicani e francescani. Quasi tutti insegnano per un periodo della loro vita a Parigi, che rimane il centro più importante per gli studi teologici. Il problema dell’assorbimento di Aristotele nel pensiero cristiano, è affrontato dal tedesco Alberto Magno (1193-1280).
Egli  può  distinguere  rigidamente  la  filosofia  dalla  fede  perché, seguendo la lezione di sant’Agostino, ha prima distinto i domini dell’una  e dell’altra  attribuendo alla prima la ratio inferior e alla seconda la ratio superior, cioè la parte superiore dell’anima che si occupa dell’essenza delle cose e non dei semplici fenomeni. Ma, quanto a questi, le speculazioni di Aristotele debbono essere meditate anche dagli intellettuali cristiani, e il ruolo di Alberto Magno fu proprio quello di tradurre, attraverso i suoi commenti all’Etica, alla Fisica e alla Politica, il sistema filosofico e scientifico aristotelico - la sua interpretazione del mondo terreno, della natura, non dell’oltremondo - in un linguaggio che potesse essere accetto all’ortodossia cattolica.
h) Tommaso d’Aquino – Ad ascoltare Alberto Magno a Colonia c’era tra gli altri, negli anni 1248-1252, Tommaso  d’Aquino (1221-74), certamente il maggiore filosofo del secolo e, con Agostino, il più importante di ogni tempo per la codificazione della dottrina cristiana. 
Come Alberto, anch’egli insegnò a Parigi e – secondo la consuetudine propria dei frati mendicanti di non soggiornare mai a lungo in una stessa città – nelle principali università europee: Colonia, Bologna, Napoli. E come in Alberto, anche nella concezione di Tommaso la fede non soppianta la filosofia bensì la completa, illuminando tutto ciò che i filosofi pagani avevano dovuto ignorare.
Da questa contaminazione nasce la nuova ‘sistemazione’ della metafisica cristiana che Tommaso offre nella Summa theologica, un’opera immensa nella quale, in forma di quaestiones, vengono vagliati tutti i problemi che possono sorgere nell’interpretazione della dottrina cattolica.
Nonostante la resistenza da parte della Chiesa di Roma a recepire alcune delle tesi tomiste – sentite come troppo vicine ad Aristotele e ai suoi seguaci averroisti, molto attivi a Parigi alla metà del Duecento -, la Summa sarà, nei tre secoli successivi, il  punto  di riferimento fondamentale  per tutto il  pensiero  cristiano.
i) I francescani: Bonaventura – Se Alberto e Tommaso sono i massimi filosofi domenicani del Duecento, Bonaventura  da Bagnoregio fu il più insigne tra i francescani, ed ebbe un ruolo di grande rilievo nella vita dell’Ordine: scrisse quella che sarebbe diventata la biografia ufficiale di san
Francesco, fu generale dell’Ordine e ne redasse le costituzioni; inoltre, nonostante gli impegni legati
all’insegnamento, svolse per tutta la vita una assidua attività di predicatore, che fece di lui l’oratore più apprezzato del suo tempo. La sua opera maggiore  è  un  caposaldo  della mistica medievale: l’Itinerarium mentis in Deum del 1259, che illustra i sei gradi dell’ascesa al divino attraverso l’amore di Dio e la preghiera e, insieme, attraverso la rinuncia agli strumenti della ragione: una via che  lo  allontana,  per  esempio,  dal  rigoroso intellettualismo di Tommaso.
l) Il crepuscolo della Scolastica nel Trecento: Occam – Dopo l’età dei grandi sistemi filosofici elaborati dagli scolastici, la filosofia cristiana vive, nel corso del Trecento, una crisi profonda. Nelle
università si acuisce il conflitto tra la gerarchia cattolica che sorveglia sull’ortodossia e il pensiero dei maestri più liberi e spregiudicati, che hanno ormai assorbito completamente la lezione di Aristotele e degli altri filosofi antichi. La vita del maggiore pensatore del secolo, il francescano inglese  Guglielmo  di  Occam,  è,  sotto  questo  profilo,  emblematica.  Perché,  colpevole  di  aver difeso tesi ritenute  eretiche, venne scomunicato  e  dovette rifugiarsi  a Monaco e mettersi sotto la protezione dell’imperatore Ludovico il Bavaro, cui prestò la propria opera di polemista nella sua lotta antiecclesiastica e antiteocratica. La filosofia di Occam porta alle estreme conseguenze, e con ciò dissolve, il razionalismo che era stato caratteristico dei filosofi scolastici. Ragione e fede – egli sostiene  – debbono  essere  distinte  perché  le  verità  di  fede  non  possono  essere  conquistate,  e tantomeno spiegate, per via razionale. Se ciò da un lato garantisce alla teologia una sfera autonoma, fondata sulla Rivelazione e indipendente dalle speculazioni dei filosofi antichi e moderni, dall’altro libera  la  ragione  dai  vincoli  della  fede. Di qui l’abbandono dei concetti fondamentali della metafisica e della logica tradizionali a vantaggio di un approccio più empirico e – se non suonasse anacronistico  – ‘laico’ ai problemi della conoscenza: l’interesse per l’individuo e non per gli universali, per il sapere sperimentale piuttosto che per la speculazione astratta, per la fisica piuttosto che per la metafisica. Questo nuovo orientamento logico-scientifico avrà grande influenza nei secoli successivi: e mentre esso confina ai margini del discorso filosofico le istanze ‘umanistiche’ legate alla metafisica e all’etica (ciò che provocherà la protesta di un intellettuale come Petrarca contro i logici e gli scienziati imperversanti nelle università), prelude a quel rigore e a quella concretezza di metodo che saranno propri della scienza di Galileo.

Le arti - Il Mille-Millecento è un periodo di rinascita economica e urbana che coincide con l’inizio della fine del feudalesimo, fenomeno che tuttavia perdurerà per tutto il Quattrocento. Nello stesso periodo si affermano da una parte le università degli studi meno soggette al potere della Chiesa e si avvia la riscoperta dei classici greci, dall’altra si manifesta una religiosità meno istituzionalizzata, più intensa se non oltranzista.
Inizia il periodo del culto delle reliquie, dei pellegrinaggi, delle crociate, degli ordini religiosi radicali, la Chiesa diviene accentrata e pretende di porre sotto il suo controllo il potere politico. La gerarchia ecclesiastica diviene anche più insofferente, e inizia la sua azione di contrasto alla magia, alle eresie, agli Ebrei, è il periodo di San Bernardo di Chiaravalle con il suo fideismo, ma la cultura continua comunque il suo corso sostenuta da una crescita economica potente e dal minore isolamento delle comunità umane.
Nel campo architettonico i cambiamenti stilistici sono maggiori, le chiese sono più slanciate, caratteristica che rende maggiormente il senso del trascendente, le facciate molto più ricche e con rivestimenti marmorei, all’interno si fa ricorso alle volte a botte (o alle volte a crociera) che conferisce un’immagine più leggera e celestiale all’opera. Tutta l’attività edilizia si amplia notevolmente. I grandi centri culturali sono la Sicilia e la Toscana, ma nel campo dell’architettura avanza il resto dell’Europa, la Francia soprattutto, ma anche la Germania e l’Inghilterra, la civiltà non è più solo latina ma europea.
La crescita artistica della pittura prosegue nel Duecento con opere sempre più espressive che si arricchiscono di particolari, mentre progressivamente si passa dalla rappresentazione piatta o bidimensionale a quella dotata di profondità, un tipo di pittura convenzionalmente definita gotica. Il risultato sono opere con una enorme carica di umanità ed emotività che pur costituendo sempre una forma d’arte idealizzata, rompono con la freddezza e la durezza dell’arte precedente. Gli artisti non sono più anonimi e caratterizzano maggiormente le loro opere con la loro personalità.
a) Le nuove creazioni dell’architettura: la cattedrale e il palazzo pubblico – Nel lungo arco di tempo compreso tra l’anno Mille e l’inizio dell’Umanesimo, alla fine del XIV secolo, il paesaggio artistico italiano muta in maniera radicale. Lo sviluppo delle città porta infatti con sé la ealizzazione di due nuove grandi strutture architettoniche, l’una religiosa, l’altra civile.
Si tratta della chiesa cattedrale, sede del vescovo, e del palazzo in cui ha sede il governo cittadino.
A questi due generi di costruzioni, simbolo dell’unità e dell’identità popolare, non lavora un solo architetto ma un’ampia schiera di ingegneri, artigiani e operai; e vi è coinvolta anzi l’intera città, e non per lo spazio  di  pochi  anni, ma per  generazioni: sicché questi monumenti non rispecchiano un unico momento dell’arte, ma documentano, nella loro composita fisionomia, l’evoluzione secolare delle tecniche e degli stili.
La mappa dei più significativi edifici religiosi e laici corrisponde in sostanza a quella delle città che tra l’XI e il XIV secolo furono al centro della storia politica italiana: le più grandi, le più importanti dal punto di vista strategico, le più vivaci nel commercio, dunque quelle che avevano più risorse da impiegare nella realizzazione di opere così dispendiose – Milano (Sant’Ambrogio, secc. IX-XII; il celeberrimo Duomo, massimo esempio italiano del cosiddetto gotico internazionale, iniziato alla fine del Trecento); Modena (la cattedrale, edificata all’inizio del sec. XII da Lanfranco); Venezia (San Marco, iniziata  nel  1063; il Palazzo Ducale, terminato  nel 1400);  Firenze  (il  battistero  di  San  Giovanni,  sec.  XI;  San  Miniato  al  Monte,  secc.  XI -XII; il Duomo; il Palazzo della Signoria, sec. XIV), e poi Pisa, Siena, e molti altri comuni soprattutto centro-italiani.
b) Romanico  e  gotico – Legate  strettamente  alla  cattedrale  e  al  palazzo  pubblico – quindi raramente autonome – sono le arti plastiche e visive: la scultura è per lo più decorazione, nei portali
e nelle facciate delle chiese, o negli elementi architettonici interni (pulpiti, fonti  battesimali); la pittura illustra o racconta, negli affreschi a parete, soggetti sacri, a beneficio del pubblico dei fedeli.
Questa sinergia delle arti resta costante nei due periodi nei quali si è soliti suddividere l’epoca qui considerata: il romanico, in cui gli edifici sono caratterizzati da forme semplici e compatte, povere di decorazioni, che si svolgono in orizzontale piuttosto che in verticale (secoli XI-XII); e il gotico, in  cui  gli  edifici,  anche  grazie  al  perfezionamento  delle  tecniche  costruttive,  tendono  invece  a sviluppi verticali, con altissimi piloni e archi a sesto acuto, fittissime decorazioni e guglie (secoli XIII-XIV).
c) Scultura e pittura – Gran parte delle sculture e delle pitture medievali ci è giunta anonima: non si trattava del resto di opere autonome bensì, generalmente, di parti dell’apparato decorativo del palazzo o della chiesa. Tra gli scultori di cui resta traccia nella documentazione meritano di essere ricordati Wiligelmo, che fu attivo a Modena all’inizio del secolo XII, e può essere considerato il caposcuola della scultura romanica emiliana (rilievi con le Storie della Genesi e dei Profeti sulla facciata del Duomo di Modena), e soprattutto Nicola Pisano e il figlio Giovanni.
Nicola (attivo tra il 1248 e il 1284), probabilmente di origini pugliesi, è l’artista che introduce il nuovo gusto gotico nel centro Italia: opera soprattutto a Pisa, dove scolpisce i pulpiti del Battistero e del Duomo, e a Perugia  (Fontana  maggiore).
Giovanni (circa  1245-1314)  collabora  prima  col  padre  a  Pisa  e Perugia, poi realizza in proprio il pulpito di Sant’Andrea a Pistoia, quindi lavora come capomastro alla fabbrica del Duomo di Siena, una delle grandi imprese scultoree  architettoniche del secondo Duecento.
Per quanto riguarda la pittura, l’età pre-giottesca vede all’opera, in Toscana, due grandi maestri. Il primo è Cimabue (attivo  nella  seconda  metà  del  sec.  XIII),  che  opera  tra  Firenze (Maestà oggi al Louvre, Crocifisso di Santa Croce), Roma (dove esegue varie opere – tutte perdute – su commissione di papa Niccolò III), Assisi (decorazione con scene tratte dalla storia sacra della Basilica superiore) e Pisa (mosaico di San Giovanni Evangelista in Duomo). Il secondo è il senese Duccio  di  Buoninsegna, che collabora col maestro Cimabue a Firenze (Maestà Rucellai) e ad Assisi, ma opera soprattutto nella città natale (Maestà per l’altare maggiore del Duomo).
d) Artisti polivalenti. Giotto e gli inizi della pittura laica – I maggiori artisti riuniscono insieme, per altro, competenze diverse: di costruttori, scultori, pittori. È il caso di Bonanno (tra l’XI e il XII sec.),  che  progetta  la  torre  di  Pisa  e  lavora  ai  portali  bronzei  della  cattedrale;  di  Benedetto Antelami (tra  il  XII  e  il  XIII sec.),  architetto  e scultore  nel  duomo  di Fidenza,  nella  chiesa  di Sant’Andrea a Vercelli e soprattutto in uno dei capolavori del gotico italiano, il battistero di Parma; di Arnolfo di Cambio (morto nel 1302), cui si attribuiscono i progetti di Santa Croce e Santa Maria del  Fiore a Firenze (1295-96) e a cui si debbono alcuni tra i primi e più alti esempi di scultura profana: la statua di Carlo d’Angiò ora in Campidoglio e quella di Bonifacio VIII per il Duomo fiorentino; e infine e soprattutto di Giotto (1266-1337), il quale, oltre a progettare e avviare i lavori per il campanile di Santa Maria del Fiore, rivoluzionò la pittura italiana ed europea con il grande ciclo di affreschi per la Basilica di San Francesco ad Assisi e con quello altrettanto grandioso per la cappella degli Scrovegni a Padova (1303-5).
Con Giotto e i suoi successori, la pittura passa da uno stadio primitivo, influenzato dai modelli bizantini (le tavole di questo periodo sono i cosiddetti fondi oro, perché le figure sacre, fortemente stilizzate, galleggiano su una superficie dorata che non dà alcuna impressione di realismo), ad una fase più matura: le vicende e i personaggi che troviamo negli affreschi assisiati e padovani ci appaiono reali, sentimentalmente veri, colti nella loro qualità individuali e non rappresi in tipi, così come accadeva nella tradizione precedente. Questo sforzo di realismo avrà tra i suoi effetti quello di aprire la strada ad un’arte non più legata soltanto ai temi biblici  o  all’agiografia ma  aperta  alla  cronaca ‘laica’.
Simone Martini (Siena  1284  – Avignone 1344), allievo di Duccio, affianca alle pitture di soggetto tradizionalmente religioso (affresco della Maestà nel Palazzo Pubblico di Siena, 1315), opere su soggetto ‘civile’ (San Ludovico da Tolosa incorona Roberto d’Angiò re di Napoli, 1317; il ritratto equestre di Guidoriccio da Fogliano, 1328).
E alla fine degli anni Trenta del Trecento, Ambrogio Lorenzetti ci offre, nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena, il primo grande esempio di pittura politica della tradizione italiana: gli affreschi con le Allegorie del buono e del cattivo governo.

La lirica – Il panorama della lirica in Italia si presenta assai diversificato e ricco di esperienze.
a) La poesia religiosa – Entro confini più ristretti e con un’influenza decisamen­te minore sui futuri sviluppi della lirica, rimane la poesia reli­giosa, anche se il sentimento religioso nel Medioevo è all’origine di una vasta produzione letteraria che ebbe i suoi centri nell’Italia settentrionale, specie in Lombardia, e ancor più nell’Italia centrale, in Umbria. Dal XII secolo, col risvegliarsi di un’aspettativa di rifondazione della Chiesa, si sentì l’esigenza di accompagnare il culto non più col canto in la­tino, ma in volgare, a testimonianza di una fede che si contrapponeva a quella espressa dalla liturgia ufficiale. All’area umbra appartengono numerose «laudi» o lodi, cioè componi­menti in onore di Dio, della Vergine e dei Santi; e sempre umbri sono i maggiori esponenti del­la poesia religiosa medioevale, come San Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi. Una prova del tutto eccezionale di poesia religiosa scritta per la preghiera è il Cantico delle creature che San Francesco d’Assisi [[19]] (1181-1226) compose in volgare umbro. Il canto religioso andò progressivamente prendendo la forma della lau­da, un termine legato alle laudes (lodi) che si cantavano du­rante le funzioni religiose. Questi componimenti venivano eseguiti da confraternite di laici (laudantes) che accompagnarono la nascita di movimenti religiosi che, a partire dal seco­lo XIII, furono espressione di una grande ondata di fervore religioso soprattutto nelle zone dell’Italia centrale. Solo ver­so la fine del Duecento le laudi cominciarono ad essere rac­colte e trascritte a cura delle varie confraternite, dando così inizio ad una tradizione che continuò e s’ingrandì nei secoli XIV e XV, assumendo sempre più i caratteri della rappresen­tazione teatrale (laudi teatrali, sacre rappresentazioni). Comune a tutti i laudari è l’anonimato degli autori; unica eccezione il laudario di Jacopone da Todi [20], una personalità poetica di no­tevole rilievo per il quale la lauda è anche uno strumento di intervento nel dibattito ideologico e religioso.
b) La poesia provenzale – In primo piano c’è tuttavia una lirica di argomento amoroso. Nelle corti feudali della Provenza, nel Sud della Francia, tra l’XI e il XII secolo, nacque una produzione poetica molto omogenea, sia per i caratteri for­mali (tipi di versi e di strofe, uso della ri­ma, ecc.) sia per i temi. È poesia scritta in lingua d’oc e profondamente legata all’ambiente della corte dove trova il pubblico, gli argomenti e le ragioni della sua origine. Questa poesia cortese, appunto da corte, è espressione di una nuova domanda di letteratura che deve intrattenere ed insieme dare prestigio ai membri e allo stile di vita della corte. L’abbandono della lingua latina e la scelta di temi laici, in particolare di quello amoroso, sono no­vità che segnalano l’affiorare dell’i­dea che la letteratura può avere un va­lore in sé, slegato dalle finalità religiose e morali e che l’attività poetica può semplicemente ricercare la bellezza e il piacere di chi l’ascolta. La figura del trovatore, il poeta (da tobàr che in provenzale significa poetare), è parte integrante della corte: molti sono aristocratici e feudatari come Guglielmo IX d’Aquitania, altri sono di umili origini, ma la loro attività poeti­ca li eleva socialmente e spesso procura rico­noscimenti o incarichi che danno loro dignità e ricchezza.
La maggior parte dei testi dei trovatori esprime un’originale concezione dell’amore che va sotto il nome di amor cortese: questo termine riassume un ideale di vi­ta esclusivo dell’ambiente della corte. I protagonisti di questo particolare rapporto amoroso possono essere soltan­to la dama di corte (madonna) e il poeta (amante) che è tenuto ad un atteggiamento di cortesia rivolto alla dama che è di totale ubbidienza, vassallaggio, desiderio ed omaggio. L’amor cortese fu teorizzato ed esaminato in un trattato assai famoso a quel tempo, il De amore(Sull’amore) di Andrea Cappellano, che dettò le regole di comportamento e definì anche le situazioni sentimentali degne di un vero cavaliere:
·                     la gioia per il favore accordato da madonna;
·                     l’affinamento dei valori della cortesia per rendersi degni dell’amore;
·                     la tensione del de­siderio amoroso.
Tutto questo costituiva un vero e proprio codice di comportamento (probabilmente poco rispettato nelle concrete esperienze di vita) che valeva per la poesia. Possiamo dire che la lirica cortese compì una mediazione tra il sentimento d’amore e la sua trasfigurazione intellettuale at­traverso un linguaggio letterario assai raffinato e seleziona­to, basato su alcune parole-chiave e sull’esclusione dei termini non eleganti; la lingua dei trovatori si presenta come un codice lirico, una lingua con regole assai rigide e distante da quella parlata.
In Italia fra XIII e XIV secolo giunge a un altissimo grado di elaborazione, dando vita al nucleo iniziale della tradizione letteraria europea e italiana.
La poesia dei trovatori, nata nelle corti della Francia meridionale, fu largamente conosciuta in Italia dove, nelle corti del Nord, continuarono a poetare in lingua d’oc una quarantina di trovatori che erano sfuggiti alla crociata contro gli Albigesi nel 1208.
c) La Scuola siciliana – La poesia provenzale trovò imitatori soprattutto in Sicilia, a Palermo, sede della corte di Federico II di Svevia, dove nacque la prima scuola poetica della letteratura italiana. La corte di Federico era una corte raffinata, intellettualmente assai evoluta ed aperta alle più diverse esperienze culturali. Qui fiorì, sulla scia della poesia provenzale e riflettendone i temi e le tecniche, la «Scuola siciliana» cui appartennero poeti non solo siciliani, ma anche di altre parti d’Italia.
La poesia sici­liana si sviluppò in un arco di tempo piuttosto breve: nacque tra il 1220 e il 1230 con i compo­nimenti di Jacopo da Lentini (cui è attribuita l’invenzione del sonetto) ed ebbe fine col crollo della potenza sveva in Italia (1266, battaglia di Benevento).
I protagonisti della Scuola erano prima di tutto funzionari che svolgevano incarichi importanti: intellettuali che avevano dignità e prestigio sociale, per i quali il poetare fu un modo di partecipare alla rinasci­ta culturale promossa da Federico. Fra loro, oltre allo stesso imperatore Federico II ed ai figli Manfredi e Enzo, si ricordano Pier delle Vigne, Jacopo da Lentini, Guido delle Colonne, Rinaldo d’Aquino, Odo del­le Colonne, Giacomino Pugliese.
La poesia della Scuola siciliana in linea di massima ripete temi, situazioni, immagini della poesia provenzale cui guarda come modello; e, come la poesia provenzale, è impe­gnata in difficili ricerche tecniche, soprattutto metriche secon­do un repertorio fisso di situazioni e di immagini. Canta soprattutto l’amore e, in particolare, l’amore cortese.
La lingua usata dai poeti della Scuola siciliana è il dialetto siciliano affinato e depurato delle sue forme più gergali e più locali, e arricchito di elementi latini e provenzali: Dante lo definì «volgare illustre», per dire che questi poeti adottarono una base costituita dal volgare siciliano parlato che poi nelle loro mani divenne uno strumento al­to, elaborato, arricchito dall’uso della conversazione dotta e regolarizzato nelle forme grammaticali.
d) La scuola toscana – Attraverso la me­diazione dei poeti siciliani, ma anche per diretta conoscenza dei testi francesi, la lirica cortese fece da modello alle esperienze che maturarono in Toscana (poesia toscana) la cui novità, rispetto alla tradizione siciliana, è costituita dalla presenza delle tematiche politiche, in relazione con le lotte dei comuni.
La per­sonalità di maggior rilievo fu Guittone d’Arezzo (1230 ca.-1294) che s’impose come poeta, ma fu anche intellettuale e uo­mo pubblico di parte guelfa. Accanto a Guittone vanno ri­cordati Chiaro Davanzati e Bonagiunta Orbicciani.
La poesia toscana fu un pun­to di riferimento per le decisive innovazioni dei poeti che, in­sieme con Dante, rappresentano il cosiddetto stil novo.
e) Il «dolce stil novo» – La più importante corren­te poetica della seconda metà del Duecento fu la scuola del «dolce stil novo». Di tale scuola viene considerato iniziatore il bolognese Guido Guinizelli [[21]], ma essa si svi­luppa soprattutto in Firenze ad opera di un gruppo di giovani poeti, come Guido Caval­canti [22], lo stesso Dante, Lapo Gianni, Gianni Alfani, cui va aggiunto Cino da Pistoia, che erano fra loro legati da analogie di gusto e da comuni esperienze culturali.
Nella loro poesia ricorrono alcuni temi:
·                     la donna vi è celebrata come una specie di creatura angelica che perfeziona colui che l’ama e lo guida a Dio e riflette la viva religiosità dell’ambiente comunale;
·                     l’amore è considera­to retaggio dei soli spiriti nobili, dove però nobiltà è intesa non come nobiltà di nasci­ta, ma come nobiltà interiore, conquista della moralità e dell’intelligenza dei singoli; la nuova concezione di nobiltà è da mettere in relazione con la vita politico-sociale del Comune, che era sorto sulle rovine della nobiltà feudale;
·                     la capacità che essi dimostrano nel cogliere ed analizzare le emozioni, anche le più sottili, dell’animo umano;
·                     un linguaggio raffinato, duttile, capace di esprimere tali sottili sfumature dello spirito.

Le espressioni popolaresche – Ai margini restano le esperienze, pur interessanti, della poesia comico-realistica e della poesia giullaresca.
a) La poesia realistica – è un tipo di poesia diffusa in Toscana fra Due e Trecento; essa si caratterizza soprattutto per le scelte tematiche: l’aspirazione alla ricchezza, il desiderio sessuale, l’imprecazione contro la povertà e la mala sorte, la maledizione contro le donne brutte o contro gli avversari politici, il vituperio. Gli strumenti espressivi di questa poesia appartengono al re­gistro che la cultura medievale definiva comico e contrapponeva a quello tragico e sublime un registro che si associa al linguaggio mediocre e basso. Questi caratteri non devono tuttavia far pensare a una poesia rozza; al con­trario, il procedimento della parodia, del rovesciamento di modelli alti, l’iperbole e la caricatura dimostrano una note­vole perizia tecnica. Anche poeti come Dante, Cavalcanti e Guinizzelli scrissero poesie di questo tipo. Tra gli autori che si dedicarono soprattutto alla poesia comico-realistica ricor­diamo Cecco Angiolieri, Rustico di Filippo e Folgore da S. Gimignano.
b) La poesia giullaresca fu una produzione di livello mo­desto, rivolta a un pubblico popolare, spesso anonima, che ebbe una trasmissione in parte orale e in parte scrit­ta. Solitamente sono testi legati a situazioni di festa, d’intrattenimento, di spettacolo, che comportano una fruizione facile, rapida e piacevole. Essa fiorì in quasi tutte le regioni d’Italia a opera di giullari che potevano essere artisti di piazza, canta­storie, ma anche uomini in contatto con l’ambiente di corte e detentori di una buona preparazione culturale.

La lirica nel Trecento – Nel Trecento ha inizio la tradizione della poesia per musica. L’opera poetica di Dante e più ancora quella di Petrarca do­minano il Trecento la straordinaria altezza delle loro opere fa sì che non vi siano poeti capaci di creare qualche cosa che ol­trepassi l’imitazione di questi due grandi.

Dante Alighieri – L’esistenza di Dante Alighieri è strettamente legata agli avvenimenti della vita politica fiorentina. Alla sua nascita, Firenze era in procinto di diventare la città più potente dell’Italia centrale. A partire dal 1250, un governo comunale composto da borghesi ed artigiani aveva messo fine alla supremazia della nobiltà e due anni più tardi furono coniati i primi fiorini d’oro. Il conflitto tra guelfi, fedeli all’autorità temporale dei papi, e ghibellini, difensori del primato politico degli imperatori, divenne sempre più una guerra tra nobili e borghesi simile alle guerre di supremazia tra città vicine o rivali. Alla nascita di Dante, dopo la cacciata dei guelfi, la città era ormai da più di cinque anni nelle mani dei ghibellini. Nel 1266, Firenze ritornò nelle mani dei guelfi e i ghibellini vennero espulsi a loro volta.

La vita - Dante nacque a Firenze nel 1265 dalla famiglia degli Alighieri, una famiglia di parte guelfa di modeste condizioni economiche, ma di antica nobiltà. Fra i suoi antenati egli ricorda orgogliosamente nel Paradiso il trisavolo Cacciaguida che, fatto ca­valiere dall’imperatore Corrado III, morì in Terrasanta, combattendo contro gli infedeli nella seconda Crociata (1147-1149).
Ebbe l’educazione tipica, in quegli anni, dei giovani delle buone famiglie fiorentine: studiò le discipline del Trivio(grammatica, dialettica, retorica) e del Quadrivio (aritme­tica, geometria, musica, astronomia); ma ebbe anche, se pur saltuariamente, la guida ed il consiglio di quell’uomo di eccezionale cultura enciclopedica che fu Brunetto Latini, la cui figura di maestro egli eternerà nella Commedia (Inferno, XV). Frequentò anche pittori e musicisti, quali il miniatore Oderisi da Gubbio ed il cantore Casella, che pure saranno presenti nel poema (Purgatorio XI Purgatorio II). Cominciò presto a scri­vere versi e fece parte di quel colto e raffinato gruppo di giovani poeti che diedero vi­ta alla scuola del «dolce stil novo». Secondo le tecniche e gli ideali di questa scuola compose le liriche della Vita nova, ispirate al suo amore per una giovane donna fioren­tina, Beatrice, e alcune delle Rime. Ma contemporaneamente e successivamente tentò anche sperimentazioni poetiche diverse per temi e per toni, aprendosi così la via alla complessa orchestrazione della Commedia.
Nel frattempo, e specie dopo la morte di Beatrice (1290), che aveva determinato in lui bisogno di meditazione e di chiarificazione interiore, si dedicò allo studio della filoso­fia. Dava intanto stabilità alla sua vita costruendosi una famiglia: sposò, non sappiamo bene in che anno, Gemma Donati, dalla quale ebbe tre figli, Jacopo, Pietro e An­tonia, che, fattasi poi monaca col nome di Beatrice, visse in un convento di Ravenna e fu così vicina al padre negli ultimi suoi anni.
Impegnato non solo culturalmente, ma anche politicamente, Dante partecipò presto alla vita pubblica del suo Comune in cui, cacciati fin dal 1266 i Ghibellini, dominava ormai incontrastata la fazione dei Guelfi. Nel 1289 fu tra i cavalieri che combatterono nella battaglia di Campaldino in cui Firenze e la lega guelfa sconfissero i ghibellini di Tosca­na, e nello stesso anno fu presente alla resa del Castello di Caprona, strappato dai Fiorentini ai Pisani. Ma la sua attività più propriamente politica ebbe inizio nel 1295, do­po che potè iscriversi a una delle Arti, o corporazioni dei lavoratori, condizione necessa­ria, dopo gli ordinamenti democratici di Giano della Bella del 1293, perché un nobile potesse fare politica militante. Poiché allora la medicina era considerata assai vicina alla filosofia, Dante, come cultore di studi filosofici, si iscrisse all’Arte dei medici e degli speziali. La vita politica fiorentina era in quegli anni tumultuosa e lacerata da odi interni. I Guel­fi erano divisi in due fazioni, quella dei Neri, alla quale appartenevano la maggior par­te dei nobili e la parte più numerosa della borghesia mercantile, e quella dei Bianchi, cui appartenevano invece poche famiglie aristocratiche, alcuni esponenti meno influenti della borghesia ed il popolo minuto. La parte Nera era capeggiata dalla famiglia dei Do­nati, la Bianca da quella dei Cerchi. Diverse per composizione sociale e per interessi, le due fazioni erano in contrasto anche per la politica estera: mentre i Neri si appoggiava­no al Papa e agli Angioini, signori dell’Italia meridionale e legati alla monarchia fran­cese, i Bianchi erano gelosi difensori dell’autonomia del Comune sia nei confronti della Francia sia del Papa, il quale vantava e voleva far valere su Firenze antichi diritti feu­dali.
Dante aderì alla parte Bianca, che allora aveva in città la prevalenza, ed ebbe nel Comune molte cariche pubbliche fino alla più alta, il Priorato: fu uno dei priori del trimestre giugno-agosto 1300. Nell’esercizio del governo si comportò con moderazione ed imparzialità ed esercitò una funzione equilibratrice fra le fazioni, di cui tentò di frena­re le contese non di rado cruente. In politica estera difese con intransigenza l’autono­mia del Comune contro il papa d’allora, Bonifacio VIII, che gli divenne perciò acerri­mo nemico, e che il Poeta bollerà nella Commedia come traditore del messaggio di Cri­sto.
Fu proprio l’appoggio del Papa e della Francia a consentire, in Firenze, il colpo di Sta­to che improvvisamente trasferì il potere dalle mani dei Bianchi a quelle dei Neri nel 1301. Il rovesciamento politico si attuò con violenze, uccisioni, saccheggi, cui seguiro­no, contro i Bianchi vinti, processi illegali e sommari, accuse e condanne infamanti e spesso ingiustificate. Dante in quei giorni non era a Firenze; era stato mandato a Roma come ambasciatore dal governo Bianco per cercare di dissuadere Bonifacio VIII dall’intervenire nelle faccende fiorentine. Accusato di baratteria, cioè di uso privato di denaro pubblico, fu condannato in contumacia a pagare un’ammenda, a due anni d’esilio, e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici; e gli fu intimato di presentarsi ai giudici per giustificare il suo operato nel gennaio del 1302. Dante, sdegnosamente, non pagò l’ammenda e non si presentò; seguì allora una seconda sentenza, il 10 marzo, che lo condan­nava al rogo se fosse stato preso nel territorio del Comune.
La sentenza apriva per Dante il periodo dell’esilio, un’esperienza da cui fu segnata la sua vita e la sua opera. Nel Convivio, parlando della sua esistenza di esule, egli si rappresenta come una nave allo sbando, senza vela e senza governo (= timone), spinta dal vento freddo della povertà. E nel Paradiso dichiara di aver provato
come sa di sale
lo pane altrui, e com’è duro calle
lo scendere e il salir per l’altrui scale.
Benché la sua cultura e la sua fama gli aprissero le porte di molte corti italiane, egli sentiva come dolorosa umiliazione il fatto stesso di dover chiedere ed accettare ospitalità: al che si aggiungeva la nostalgia per la patria e le persone care perdute ed il risenti­mento amaro per l’ingiustizia sofferta. Unici conforti erano per lui la consapevolezza della propria innocenza, l’orgoglioso senso della propria superiorità nei confronti di coloro che lo avevano bandito, e la passione culturale e letteraria da cui nacquero le sue opere che, ad eccezione della Vita nova e di alcune Rime, furono tutte composte durante l’esilio.
Numerose furono le sue peregrinazioni per l’Italia, «per le parti tutte – come egli dice – alle quali questa lingua[l’italiano] si stende». Fra le tappe più importanti ricordiamo il soggiorno a Verona presso gli Scaligeri, in Lunigiana presso i Malaspina, e quello finale a Ravenna presso i Polentani.
Le sue ricorrenti speranze di ritorno in patria andarono sempre frustrate. Subito dopo l’esilio aveva creduto, con gli altri Bianchi esuli, di poter tornare in Firenze con le armi; ma l’inettitudine dei suoi compagni e le loro interne discordie trasformarono il tentativo in una sconfitta sanguinosa. Di nuovo le sue speranze si riaccesero alla venuta in Italia dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo nel 1311, che Dante sperava avrebbe messo fine alle interne lotte dei Comuni e quindi anche di Firenze, aprendogli la strada del ritorno. Ma fu speranza che svanì con la morte improvvisa di Arrigo nel 1313. Né egli volle accettare dai Fiorentini amnistie e condoni che implicassero ammissioni di colpevolezza e quindi fossero lesive della sua dignità. «Non è questa la via per ritornare in patria – scriveva nel 1315 a un amico di Firenze che gli aveva rese note le condizioni umilianti di un decreto che gli avrebbe consentito il ritorno – ma se ne sarà trovata un’altra, da voi o, poi, da altri, che non offenda la fama e l’onore di Dante, per quella mi metterò con passi non lenti; ma se non si può entrare in Firenze per una strada siffatta, io non c’entrerò mai».
Si illuse invece fino all’ultimo, con ostinata speranza, che i Fiorentini potessero richiamarlo onorevolmente in città in virtù della sua grandezza di studioso e di poeta. Era una speranza che, verso la fine della composizione delParadiso, quando ormai la mor­te non era lontana, affidava alla sua Commedia, il «poema sacro», rivivendo il dram­ma della sua innocenza calunniata dagli avversari, quasi di agnello perseguitato dai lu­pi:
Se mai continga che ‘1 poema sacro
al quale ha posto mano e ciclo e terra,
sì che m’ha fatto per più anni macro
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’io dormì agnello,
nemico ai lupi che li danno guerra.
(Paradiso XXV).
Morì in esilio, a Ravenna, nel 1321.

Le opere – La sua attività di studioso e di poeta si concretò nella vastissima produzione che ebbe il momento culminante e conclusivo nella grandiosa costruzione della Commedia, alla quale fecero da preparazione e da supporto le meditazioni e le speri­mentazioni precedenti, documentate dalle cosiddette opere minori. Nella giovinezza ed all’incirca fra il 1283 e il 1292 compose numerose liriche di tipo stilnovista in onore di una donna amata, una Beatrice, forse figlia di Folco Portinari, che andò sposa a Simone dei Bardi e morì nel 1290 in giovanissima età.
a) La Vita nova – Raccolte insie­me e intervallate da prose che ne illustravano l’origine e il significato, queste liriche co­stituirono il libretto La vita nova, storia di un amore adolescenziale, coi suoi turbamenti e tremori, ma anche analisi attenta e sottile dei moti suscitati nell’animo dall’amore.
Nell’operetta, secondo i moduli dello Stilnovo, la figura di Beatrice si tra­duce in quella ideale della donna-angelo che guida l’uomo verso il bene e la cui perdi­ta è fonte di ottenebramento e di offuscamento morale. Dante racconta il suo primo incontro con Beatrice all’età di nove anni. Il secondo incontro avvenne nove anni dopo e Dante se ne innamora perdutamente. Dante, per non far intendere il suo amore nei confronti di Beatrice, finge di essere innamorato di altre due donne e per questo motivo Beatrice gli toglie il saluto. Dante soffre per questi mancati saluti di Beatrice. In seguito Dante prende coraggio e esterna il suo sentimento verso Beatrice, ma fu deriso da Beatrice e da altre donne. Il passaggio importante dell’opera è la morte del padre di Beatrice.
Nella stessa notte gli apparve in sogno una visione che si avvererà con la morte di Beatrice. L’opera finisce che Dante spiega che egli non scriverà più su Beatrice finché non le dirà tutti i suoi sentimenti che ha provato per lei.
b) le Rime – Parte scritte a Firenze e parte in esilio, le Rime coprono quasi l’intero arco della vita di Dante.
Esse testimoniano le successive e varie sperimentazioni tecni­che del poeta che, tentando argomenti diversi, andava progressivamente costruendosi un linguag­gio articolato e polimorfo, dal delicato e tenue, al violentemente passionale, al plebeo, al rigorosamente logico, preparandosi alla polifonia tematica e tonale della Commedia
Nelle Rime, a delicati componimenti di tipo stilnovistico, si affiancano, infatti, le canzoni di selvaggia e terrena passionalità per una certa Petra (Ri­me petrose), una tenzone (o scambio di componimenti a botta e risposta) plebea con l’amico Forese Donati, liriche di argomento etico e filosofico, come la famosa canzone Tre donne intorno al cor. 
c) Il Convivio – Fra il 1304 e il 1307, già in esilio, Dante componeva il Convivio, specie di enciclopedia del sapere contemporaneo, costituita da canzoni e da trattati in prosa illustrativi e ri­masto incompiuto.
L’opera è scritta in volgare perché al convito, o banchetto di cultu­ra, potessero partecipare anche coloro che non conoscevano il latino. L’opera è composta da un prologo e da tre trattati.
Il prologo racconta il piano dell’opera e la motivazione della sua formazione.
Il primo trattato parla del volgare e dell’importanza che potrà avere nel futuro della letteratura.
Il secondo trattato espone i quattro sensi della scrittura: quello letterale, che comprendere il testo in senso letterale, quello allegorico, ossia una verità superiore a quella letterale, quello morale è la conseguenza di quello allegorico, quello anagogico il sovrasenso spirituale.
Il terzo trattato è una lode alla filosofia e alla natura dell’uomo. Il quarto trattato racconta della vera nobiltà come virtù morale.
d) Il De vulgari eloquentia – Sempre degli anni fra il 1304 e il 1307 è il De vulgari eloquentia, anch’esso rimasto incompiuto, in cui Dante affronta il problema della lingua italiana e cerca di delineare le caratteristiche di un volgare che superi le differenze dei dialetti regionali e possa diven­tare la lingua colta comune a tutti gli scrittori e poeti della penisola.
e) Il De Monarchia – Legata alla venuta di Arrigo VII in Italia ed alle speranze suscitate in Dante da tale av­venimento è la Monarchia, un trattato politico in latino in cui il poeta delinea i caratteri e le funzioni dell’Impero, e, con modernità di vedute, il rapporto che deve intercorrere fra potere spirituale e temporale.
L’opera è divisa in tre libri: il primo libro racconta che soltanto attraverso una monarchia universale l’uomo potrà arrivare alla sua massima capacità intellettuale; il secondo libro racconta che i romani sono arrivati alla massima estensione non attraverso le armi, ma attraverso la provvidenza; il terzo libro racconta che Dante divide in due poteri l’Impero e il Papato, dicendo che entrambi i poteri sono stati donati da Dio e quindi non devono essere la stessa persona. Ma l’Impero deve stare sempre al dì sotto del Papato, cioè di Dio.
f) Le Epistole – Altre opere del periodo dell’esilio sono le Epistole, in latino, fra le quali si ricordano quelle composte in occasione della discesa in Italia di Arrigo VII per affiancare con l’esortazione e col consiglio la missione dell’imperatore; e quella all’amico fiorentino a proposito dell’umiliante decreto di amnistia.
g) Le Egloghe – Nelle Egloghe, in latino, Dante difende l’uso del volgare nella Commedia. Una importante egloga è quella in cui Giovanni del Virgilio diceva a Dante di abbandonare la trascrizione dell’Inferno e del Purgatorio e doveva scrivere un’opera in latino per arrivare alla corona di alloro a Bologna. Dante rispose che egli avrebbe terminato l’Inferno, il Purgatorio e avrebbe scritto anche il Paradiso e solo in fine sarebbe andato alla conquista della corona di alloro.
h) La Quaestio de aqua et terra – La Quaestio de aqua et terra è un trattatello scientifico in cui Dante trascrive una questione cosmologica discussa da Dante a Verona il 20 gennaio 1320 nella Chiesa di Sant'Elena se la terra emersa sia più alta o no della superficie dell'acqua. Era luogo comune seguito anche da Dante che il globo terracqueo fosse al centro dell'universo e che il centro della sfera celeste coincidesse con il centro del medesimo. Dante ritiene che la terra emersa è dovunque più alta della superficie del mare ed emerge da essa nell'emisfero boreale con una gibbosità a forma di semilunio che dovrebbe coincidere con le terre allora conosciute.
Il trattato si struttura come una vera e propria quaestio disputata universitaria nella quale dapprima si accolgono le tesi concorrenti, poi si oppone la propria, quindi si discute il problema nella sua essenza e infine si risponde punto per punto alle argomentazioni degli antagonisti.

La Commedia – Nel 1307 Dante aveva iniziato la composizione della Commedia che era appena stata portata a termine nel 1321, anno della sua morte. La Divina Commedia consta, di tre cantiche, 1’Inferno, il Purgatorio, ilParadiso. Ognuna di esse è costituita da 33 canti, più un canto iniziale che fa da introduzione generale al poe­ma, così che esso raggiunge il numero complessivo di 100 canti.
Il metro è la terzina di en­decasillabi (rima ABA - BCB ecc).
Vi ricorrono visibilmente alcuni numeri che per i me­dioevali avevano un particolare significato: il 3 simbolo della Trinità, il 10 simbolo della perfezione, e i loro multipli.
Il titolo di Commedia sta ad indicare che la vicenda in essa rappresentata si conclude con un lieto finale; ma deriva anche dal fatto che Dante la volle scritta nello stile che egli definiva comico, cioè uno stile mediano che consentiva una ricca varietà di toni, dall’umile e dal venatamente rozzo, al nobile e all’elevato, attraverso tutte le gamme in­termedie. L’epiteto di divina fu attribuito all’opera dantesca dal Boccaccio e divenne poi parte integrante del titolo.
a) La struttura dell’universo e la collocazione dell’Oltremondo dantesco - La struttura del mondo secondo Dante, che si adegua in ciò alle diffuse convinzioni medioevali, è la seguente. Al centro dell’universo, sospesa nell’aria, sta la terra, una sfera immobile che l’equatore divide in due emisferi, quello boreale abitato dagli uomini, quello australe interamente coperto dalle acque. La terra è contornata dalla sfera dell’aria e dalla sfera del fuoco, e poi da nove cicli concentrici e trasparenti che le ruotano attorno. In questa struttura cosmologica Dante ha collocato concretamente il suo Aldilà: Infer­no, Purgatorio, Paradiso.
L’Inferno è una grande voragine che si apre a forma di imbuto proprio accanto a Gerusalemme, e si estende, restringendosi progressivamente, fino al centro della terra. Essa si è spalancata quando Lucifero è stato cacciato dal Paradiso e la terra su cui è precipitato si è aperta per orrore del suo contatto. In fondo all’Inferno, nel centro della terra, Luci­fero è rimasto conficcato. L’Inferno è diviso in cerchi dove sono collocati i dannati, tanto più in basso quanto maggiore è la gravita della loro colpa. Preceduti dagli ignavi, cioè da coloro che nel mondo non hanno fatto né bene né male e che occupano l’Antinferno, essi sono distin­ti in tre categorie, e cioè, dall’alto al basso, gli incontinenti, cioè coloro che non hanno saputo controllare i propri istinti con la ragione, i violenti, fraudolenti. A queste tre categorie, presenti in San Tommaso, che a sua volta le aveva derivate da Aristotele, si aggiungono coloro che, non per loro colpa, non hanno conosciuto Dio, e che stanno nel Limbo, e gli eretici, che coscientemente hanno rifiutato Dio. Il limbo costituisce il primo cerchio, gli eretici sono collocati nel sesto cerchio, che precede la sede infernale dei violenti e dei fraudolenti.
Il Purgatorio è una montagna che, altissima in mezzo alla sterminata distesa delle acque, si erge al centro dell’emisfero boreale, agli antipodi dell’apertura dell’Inferno. La montagna del Purgatorio è a sua volta divisa in tre parti: le sue pendici più basse costi­tuiscono l’Antipurgatorio, dove aspettano di iniziare l’espiazione le anime di coloro che si pentirono solo in punto di morte; segue il Purgatorio vero e proprio diviso in sette balze corrispondenti ai sette peccati capitali; sulla cima del monte è collocato il Paradi­so terrestre.
Il Paradiso ha la sua sede nell’Empireo, che sta al di là dei nove cieli rotanti. In esso stanno Dio, la Vergine, gli angeli e i beati. Ma Dante immagina che, durante il suo viaggio, le anime dei beati prendano temporaneamente dimora nei nove cieli perché egli, dalla loro maggiore o minore vicinanza all’Empireo, possa rendersi conto del loro maggiore o minore grado di beatitudine.
b) Il viaggio dantesco: significato letterale e significato allegorico - Il poeta immagina di essersi smarrito, nella notte tra il giovedì e il venerdì Santo del 1300, anno del Giubileo indetto da papa Bonifacio VIII, in una selva oscura. Preso da terrore, cerca di uscirne, e crede di potersi salvare salendo su di un monte che ad un tratto gli appare, e che è illuminato dalla luce del sole. Ma tre fiere, una lonza, un leone e una lupa, gli impedi­scono il cammino, ed egli riprecipita a valle, nell’oscurità della selva. Quando ormai si crede perduto, è soccorso dal poeta latino Virgilio, a lui mandato da Beatrice, che dal Paradiso, dove ormai si trova, vuole soccorrerlo. Virgilio lo ammonisce che, per uscire dalla selva, dovrà compiere un cammino ben più lungo e arduo che non l’ascesa al monte: dovrà cioè discendere nell’Inferno, salire le balze del Purgatorio; e solo allora potrà giungere alla salvezza, cioè a Dio.
Come si vede, il significato letterale si intreccia strettamente fin dall’inizio col significa­to allegorico. La selva oscura rappresenta la dispersione spirituale, cui si abbandonò Dante dopo la morte di Beatrice; le tre fiere rappresentano i vizi (lussuria, superbia, avarizia) da cui non è facile all’uomo liberarsi; il viaggio per l’Inferno e per il Purgato­rio rappresenta la riflessione sulle conseguenze del peccato, riflessione che, con l’aiuto della grazia, può consentire all’uomo di salvarsi.
Il poeta Virgilio e Beatrice fanno da guida a Dante nel suo viaggio ultraterreno. Virgilio rappresenta la ragione umana, grazie alla quale l’uomo si rende conto delle conseguen­ze del suo cattivo operare; ma rappresenta anche, in quanto celebratore nell’Eneide dell’impero romano, il potere imperiale. Beatrice, la donna angelicata della Vita nova, qui rappresenta la grazia divina e la teologia depositaria della rivelazione, che subentra alla ragione là dove questa non può arrivare; ma rappresenta anche la Chiesa, l’istitu­zione cioè che, insieme all’Impero, può portare alla salvezza l’umanità, se l’una e l’altro, concordemente e autonomamente, agiranno nell’ambito che loro spetta. Il valore simbolico che le due guide assumono nella Commedia non toglie loro ricchez­za d’umanità. Nel difficile percorso attraverso l’Inferno e il Purgatorio, Virgilio è per Dante l’amico, il padre, il maestro severo e affettuoso; e Beatrice, che sostituisce Virgi­lio nel guidare Dante attraverso il Paradiso, è animata da caldo affetto e da trepidazione femminile.
Il viaggio dantesco nell’Oltremondo dura sette giorni, dalla notte fra il 7 e l’8 aprile al pomeriggio del 14 aprile del 1300. Guidato da Virgilio il poeta scende, percorrendo i cerchi infernali, fino al centro della Terra. Di qui, per un passaggio interno all’emisfe­ro australe, perviene alla montagna del Purgatorio, sulla cui cima, nel Paradiso terre­stre, lo aspetta Beatrice. Guardando negli occhi di lei, in virtù della bellezza e della forza morale e conoscitiva che da essi promanano, il poeta, salendo di cielo in cielo, giunge infine all’Empireo, sede di Dio.
c) Caratteri delle tre Cantiche - Pur caratterizzata da salda compattezza unitaria, da organicità strutturale, la Commedia presenta caratteri diversi nelle tre cantiche.
L’Inferno è il regno dove dominano le individualità potenti, che si ergono con eccezio­nale rilievo davanti al poeta che le interroga. Esse sono ancora psicologicamente legate alla terra, che è il luogo della loro felicità perduta, e sono ancora dominate dalle pas­sioni che sulla terra le segnarono in modo particolare: Francesca da Rimini dall’amore, Farinata dall’ardore politico, Brunetto Latini dalla solidarietà col discepolo e dalla sol­lecitudine per la propria opera di studioso, Pier delle Vigne dalla sua lealtà verso l’imperatore, Ugolino dall’odio contro il nemico che ha sterminata la sua famiglia, Ulisse dall’ansia di conoscenza, ecc.
Bloccate nelle loro passioni, esse appaiono anche isolate dalle altre anime; rari sono i loro rapporti con i compagni di pena; e, se rapporto vi è, è per lo più di disprezzo e di odio.
Questi grandi personaggi, che sembrano a volte persino insensibili alla pena cui sono condannati, sono più numerosi nella parte più alta dell’Inferno; nel fondo del baratro infernale, pur con alcune eccezioni, prevale invece una brulicante moltitudine di esseri che, come nulla ebbero di magnanimo in vita, così nulla hanno dopo morte che dia lo­ro qualche grandezza anche nel male.
Nel Purgatorio le personalità sono più sfumate; nelle anime i sentimenti e gli affetti terreni non levano più alta la loro voce, e si traducono piuttosto in ricordo nostalgico, quasi mai doloroso, poiché esse sono consolate dal pensiero della beatitudine eterna che le attende. Legate fra loro dalla comune confortante aspettativa e permeate di comunecaritas cristiana, si muovono coralmente, a gruppi. E corali sono i canti di preghiera che esse levano a Dio e nei quali amorevolmente in­cludono anche il ricordo dei viventi, ancora soggetti all’errore.
Nel Paradiso, infine, le anime sono tutte accomunate nella beatitudine del possesso di Dio. Scompare anche fisicamente la loro fisionomia terrena: se si eccettuano le anime del primo Cielo in cui, se pur sfuocati, sono visibili i lineamenti dei loro volti, negli al­tri Cicli esse si presentano come luci; e la diversa intensità del fulgore che le avvolge e le nasconde è indice del loro diverso grado di beatitudine.
Tuttavia la terra, che Dante sente così lontana colle sue laceranti passioni, «l’aiola che ne fa tanto feroci», penetra anche in questo regno: come valutazione che orienti mo­ralmente la vita terrena, come giudizio che ristabilisca la giustizia violata sulla terra. Sono particolarmente significativi in questo senso la invettiva di San Pietro contro la corruzione degli ecclesiastici, e i tre canti centrali del Paradiso, il XV, XVI, XVII, in cui Dante rivive con intensità emotiva e grande espressività poetica l’amara vicenda del suo esilio.
d) Il «paesaggio» nei tre regni - Come diversa è, nei tre regni, la natura delle anime, così è diverso lo sfondo su cui sono collocate.
Oscura e cupa è l’atmosfera infernale, dove non penetra mai la luce del sole, «lo dolce lome»; nei vari gironi, di volta in volta, cade spietatamente una pioggia sudicia e geli­da, o sibila una violenta bufera, o il ghiaccio chiude i dannati nella sua morsa, o l’oscurità è sinistramente illuminata dai bagliori del fuoco punitore. Gli aspetti della natura vi si manifestano in forma abnorme: un fiume di sangue, un bosco in cui le piante sono anime, e quando viene reciso un ramoscello ne esce non linfa vitale ma sangue. E le voci che percorrono questo regno sono lamenti o invettive. Custodi dell’Inferno sono, accanto ai diavoli della tradizione cristiana, i demoni della tradizione classica (Caronte e Cerbero); o figure della mitologia classica qui assunte in funzione demoniaca, come Minosse, i Centauri, i Giganti.
Nel Purgatorio trionfa invece la natura in tutto il suo fascino. È un paesaggio di acque (il tremolar della marina) e di montagna, illuminato dalla luce solare, e dove le notti sono confortate dallo splendore delle costellazioni. Sulla cima del monte, nel Paradiso terrestre, il paesaggio si fa poi verde e irriguo; vi si stende una fìtta foresta, «la divina foresta spessa e viva», costellata di fiori e percorsa da due fiumi. Custodi di questo regno, che risuona dei canti dei penitenti, sono gli angeli, vestiti ora di verde ora di bianco.
Il Paradiso poi è tutto musica e fulgore di luce. Luminosi sono i nove cieli della concezione tolemaica, sui quali le anime, luce esse stesse, appaiono come gemme incastonate in preziosi monili; musicale è il movimento dei cieli rotanti. E tutto splendore di luce è l’Empireo, sede di Dio e della Corte beata.
e) La legge del «contrappasso» - Nell’Inferno e nel Purgatorio le pene delle anime sono stabilite secondo la legge del contrappasso, per cui il tipo della pena corrisponde a quello della colpa. Il contrappasso può realizzarsi per somiglianza per contrasto. Il primo caso, ad esempio, si verifica per la pena dei lussuriosi che, travolti in vita dalla bufera della passione, sono qui sbattuti dalla «bufera infernal che mai non resta». Esempio del secondo caso è la pena dei golosi che, amanti in vita dei cibi raffinati, so­no qui costretti ad ingozzare una sudicia broda di acqua e di fango.
f) Dante, vero protagonista della «Commedia» - Numerosissimi sono i personaggi che Dante incontra nel suo viaggio, che interroga e dai quali ottiene risposte. È una galleria articolata di figure che popolano i tre regni; e certo ognuna di esse ha una vita e una fisionomia sua ed autonoma. Ma, anche, attraverso tali personaggi, Dante esprime molti aspetti della propria personalità; anzi egli, nella sua opera, è sempre presente con i suoi sentimenti, con i suoi dubbi, con le sue speranze, le sue delusioni e i suoi ideali. Per questo è stato giustamente detto che il vero protagonista della Commedia è Dante nella sua complessa e mossa personalità.

Significato e valore della cultura dantesca - Risulta evidente dalla biografia di Dante la vastità della sua cultura, che spazia nelle più svariate discipline e trova alimento nel­le diverse epoche storiche, da quella classica e pagana, almeno nei modi e nella misura in cui questa poteva essere recepita e accolta nel Medio Evo, a quella cristiana e ro­manza: da Aristotele a San Tommaso, da Virgilio, Orazio, Lucano ai trovatori proven­zali e ai poeti italiani più vicini.
Ma l’importanza della cultura dantesca non sta tanto nel suo carattere vastamente enciclopedico, carattere del resto comune al mondo medioevale, ma nel fatto che essa non è mai passivo apprendimento, ma è diretta alla soluzione di problemi, siano essi religiosi, morali, politici o letterari.
Diventa in tal modo attiva passione culturale; e proprio per questa ragione può fare da supporto, specie nella Commedia, alla poesia dantesca, che dalla cultura riceve stimoli e di essa si arricchisce come di nutrimento vitale.

Il pensiero politico di Dante - Dante era convinto che l’Impero fosse la sola struttu­ra politica capace di portare e mantenere la pace nel mondo. Essendo esso, come già l’Impero romano, un potere universale, e come tale in grado di controllare le varie strutture politiche particolari (Stati e Comuni) affermatesi al suo interno, l’Impero, nel pensiero dantesco, aveva la possibilità di porre fine alle contese e alle guerre che laceravano le sue province.
Era questa, in realtà, una visione generosa, ma utopistica, e anche anacronistica, perché ormai l’autorità imperiale era al declino, ed era accettata solo formalmente da coloro che in teoria avrebbero dovuto considerarsi suoi sudditi: ne è un esempio il fallimento dell’impresa di Arrigo VII che si vede coalizzati contro di sé i Comuni italiani. L’Impero vagheggiato da Dante, qualunque fosse il Paese di origine dell’imperatore, doveva considerarsi romano in quanto erede dell’Impero romano, e avere in Roma il suo centro e la sua vera capitale.
Se il sogno di un forte impero universale era il frutto dell’anelito dantesco all’instaurazione di un pacifico ordine nel mondo, il Comune, Firenze, era stato per Dante il cam­po del suo concreto operare e delle sue impetuose passioni politiche, rimaste ben vive anche dopo l’esilio e tradotte poeticamente nella Commedia in figure ed episodi: nella predizione di Ciacco sul futuro destino di Firenze, nella generosa figura di Farinata de­gli liberti, nella condanna che Brunetto Latini pronuncia contro i molti fiorentini rozzi e corrotti che opprimono una minoranza onesta e scelta, nelle invettive contro le nuove classi arricchite che hanno alterato l’antico equilibrio sociale. E, in contrasto con la Fi­renze dei suoi tempi, Dante rievoca, nel nostalgico canto XV del Paradiso, la Firenze di tre generazioni precedenti, la Firenze «dentro della cerchia antica», in cui la vita comunale si svolgeva misurata e serena, senza ambizioni smodate e senza lotte di fazioni; e non vi erano proscrizioni né esili, così che ognuno sapeva dove sarebbe stato sepol­to.
Quanto all’Italia, Dante la riconosce ripetutamente come entità unitaria territoriale e linguistica (il «bel paese là dove il sì suona»), ma non le attribuisce autonoma consistenza politica. L’Italia è per lui una provincia dell’Impero, certo la più bella delle sue province, «il giardin dell’imperio», e anche la più nobile, in quanto in essa si trova Roma.
Dante attribuisce la corruzione del mondo all’incapa­cità dell’imperatore a reggerlo con autorità ed equità. Ma a sua volta, causa della de­bolezza dell’Impero è l’arbitraria ingerenza della Chiesa nell’ambito politico. Assumen­do funzioni che sono di spettanza del potere imperiale, i papi «politici», che dimenti­cano l’insegnamento evangelico «Date a Cesare quel che è di Cesare», accumulano in sé i due poteri, quello temporale simboleggiato dalla spada, e quello spirituale simbo­leggiato dal pastorale; di conseguenza i due poteri, così uniti, non possono più esercita­re l’uno sull’altro un reciproco salutare controllo. Da tale situazione deriva evidente danno all’Impero, che rimane esautorato di ogni potere; ma danno non meno grave ne viene alla Chiesa, che si mondanizza e, perseguendo ambizioni terrene di potere, di­mentica la funzione spirituale che Dio le ha assegnato.
La salvezza delle due grandi istituzioni universali, Impero e Chiesa, e soprattutto la salvezza del mondo, poggia, nel pensiero dantesco, sulla autonomia reciproca del potere spirituale e del potere temporale: spetta all’Imperatore guidare gli uomini alla instaurazione della giustizia e della pace terrena; spetta al Papa guidarli alla salvezza spirituale. Queste conclusioni, esposte sistematicamente nella Monarchia, sono proposte con calda passione, e si traducono in poesia, in molti passi della Commedia. Ad esse si collega­no, nel poema, le violente invettive contro Bonifacio VIII, il papa politico per eccellen­za, invettive che culminano nel Paradiso con la condanna scagliata da San Pietro con­tro i prelati avidi di potere, lontani dal vero insegnamento di Cristo.

Il latino «lingua regina» e il volgare «sole nuovo» -Vissuto in un periodo in cui il latino continuava ad essere la lingua della cultura e degli studi ufficiali, mentre il vol­gare, la lingua emergente, si andava costruendo nell’uso quotidiano e nelle sperimenta­zioni poetiche, Dante è uno dei primi ad affrontare il problema della lingua italiana nella sua genesi e nelle sue implicazioni.
La lingua regina, egli dice con immagine tipica del suo tempo, è il latino, in quanto è lingua stabile, fissa, codificata nella grammatica e nella sintassi. Ma, con spirito proiet­tato verso il futuro, egli si rende conto che la nuova società, lontana ormai nel tempo e nello spirito da quella latina, con nuovi interessi, nuova sensibilità, nuovi problemi, esige, per esprimere se stessa, una nuova lingua che da lei e in lei si generi e si evolva: e questa non può essere che il volgare, definito nel Convivio «sole nuovo», destinato a prevalere sull’altro sole, il latino, che tramonterà.
Secondo Dante il volgare non deve essere solo la lingua degli affetti privati, la lingua - come dice nel Convivio - in cui suo padre e sua madre si sono conosciuti e parlati, e che perciò ha in qualche modo presieduto alla sua nascita; ma deve diventare l’aristocratico strumento espressivo, il «volgare illustre», comune a tutti i poeti italiani; e può essere anche la lingua della cultura e della scienza, quando cultura e scienza cessi­no di essere strumento elitario, di pochi, e diventino un bene diffuso ai molti. Per que­sta ragione, staccandosi dall’uso del suo tempo, egli scrive in volgare la sua «summa» di sapere, il Convivio.

Francesco Petrarca – Poeta di raffinata sapienza formale, con il suo Canzoniere tocca i vertici della lirica europea ed eserciterà una profonda influenza sulla poesia in Italia e in Europa. Il petrarchismo si affermerà come modello imitativo e come scuola fino a tutto il Settecento, e il rapporto con Petrarca resterà sempre un passaggio obbligato per chi intende il linguaggio poetico come strumento di scavo interiore. La sua concezione della cultura, in cui ha un posto decisivo il rapporto con i classici latini, e il suo atteggiamento intellettuale, così pieno di curiosità e inquietudine, ne fanno un grande precursore dell'umanesimo.
La vita – Petrarca nacque ad Arezzo nel 1304 da famiglia fiorentina di parte Bian­ca, che era stata costretta all’esilio dopo il trionfo dei Neri nella città. Il padre, ser Petracco, nel 1312 lasciò l’Italia per Avignone, in Provenza, dal 1308 sede del papato, e che di conseguenza era diventata un centro ricco di attività e di traffici che offriva buone possibilità di lavoro; ser Petracco, infatti, divenne notaio presso la Corte papa­le.
Francesco, insieme col fratello Gherardo, dopo aver appreso i primi rudimenti di grammatica e di retorica con Convenevole da Prato a Carpentras, vicino ad Avignone, dove la famiglia si era stabilita, fu avviato allo studio del diritto a Montpellier, frequentando la facoltà delle arti che era un inizio di formazione per gli studenti di qualunque ambito; passò poi, nel 1320, all’Università di Bologna, università giuridica per eccellenza, dove convenivano discepoli da tutta Europa. Ma gli studi di diritto non erano congeniali a Petrarca, che ad essi preferiva quelli di letteratura e di poesia.
Petrarca fu allievo di Convenevole da Prato maestro di Niccolò da Prato, cardinale che aveva cercato di mettere pace tra guelfi bianchi e neri a Firenze; e in seguito compì gli studi universitari a Monpellier in Provenza.
Dal 1320 insieme a Gherardo, fu inviato a Bologna per studiare diritto civile: qui venne per la prima volta in contatto con la tradizione poetica italiana.
Tornato ad Avignone dopo la morte del padre (1326), vi trascorse alcuni anni di vita brillante e mondana.
Fu in questo periodo, nel 1327, che conobbe la donna che sarebbe stata l’amore tenace e irrealizzabile di tutta la sua vita e che avrebbe avuto tanta parte nella sua opera: una giovane signora avignonese che gli studiosi hanno creduto di poter identificare con una Laura de Noves, maritata a Ugo de Sade.
Intorno al 1330, consumato il modesto patrimonio paterno, Petrarca aveva intanto assunto gli ordini minori ecclesiastici, non per fervore religioso, ma, come spesso avveniva allo­ra, per ottenere una dignitosa sistemazione economica. Entrò al servizio del cardinale Giovanni Colonna che gli fu – come dice lo stesso Petrarca – quasi fratello e padre più che padrone, e si valse di lui per incari­chi congeniali alle sue attitudini e alla sua cultura.
Fra il 1333 e il 1337 compì, per studio e per diletto, una serie dì viaggi per l’Europa: nella Francia settentrionale, nelle Fiandre, in Germania e infine in Italia, dove Roma lo colpì col fascino delle sue tradizioni pagane e cristiane.
Ritornato in Provenza nel 1337, si ritirò a vivere in una casetta di campagna presso Avignone, in Valchiusa, una località appartata ed amena, proprio alle fonti del Sorga, il fiume dalle «chiare, fresche e dolci acque», che gli offriva, dopo le dispersioni mondane e dei viaggi, un soggiorno tranquillo, dove raccogliersi nei suoi amati studi.
Petrarca trascorse il periodo avignonese negli studi, senza peraltro trascurare i piaceri mondani; proprio da due relazioni avute nel 1337 e nel 1343 nacquero i figli Giovanni e Francesca, che legittimò solo in seguito, curandone la sistemazione economica e l'educazione.
Pensava di trascorrere in Valchiusa tutta la vita. Ma in realtà, irrequieto per temperamento, se ne allontanò più volte fra il 1341 e il 1353, anni in cui soggiornò alternativa­mente in Provenza e in Italia: appoggiato dalla illustre e potente famiglia romana dei Colonna (fu amico anche di Stefano e Giovanni Colonna), compì in quegli anni numerosi viaggi in Europa, spinto dall'irrequieto e risorgente desiderio di conoscenza umana e culturale che contrassegna l'intera sua agitata biografia: fu a Parigi, a Gand, a Liegi (dove scoprì due orazioni di Cicerone), ad Aquisgrana, a Colonia, a Lione.
Parallelamente alla formazione culturale classica e patristica, cresceva il suo prestigio in campo politico: nel 1335 ebbe inizio il suo carteggio con il Papa, inteso non solo a sedare alcune rivolte nella penisola, ma anche a ottenere il ritorno della sede pontificia da Avignone a Roma, affinché si mettesse fine alla cosiddetta cattività avignonese.
All'anno successivo risale il progetto delle opere umanisticamente più impegnate, la cui parziale stesura, dell'Africa in particolare, gli procurò tale notorietà che contemporaneamente (il 1º settembre 1340) gli giunse da Parigi e da Roma il desiderato invito dell'incoronazione poetica.
Petrarca scelse Roma, Petrarca scese in Italia a Napoli, presso la corte di Roberto d'Angiò: questi aveva ereditato nel 1309 il trono di Napoli dal padre Carlo II e subito, contrastando la venuta dell'imperatore Enrico VII, era diventato il leader del guelfismo italiano; colto e mecenate, aveva ospitato a corte Giovanni Boccaccio nei primi passi della sua carriera letteraria.
Petrarca lo conobbe all'inizio del 1341, quando dimorò circa un mese a Napoli per essere esaminato prima dell'incoronazione poetica; probabilmente l'incontro era stato organizzato da Dionigi da Borgo Sansepolcro. Sotto il patrocinio del re Roberto D'Angiò, lesse alcuni episodi del poema e discusse, in tre giornate, di poesia, dell'arte poetica e della laurea: l'8 aprile del 1341 veniva incoronato in Campidoglio a Roma: questo altissimo riconoscimento lo confortò a proseguire la stesura dell'Africa.
I ricordi delle conversazioni avute con il re prima dell'esame vero e proprio disegnano il prototipo del perfetto sovrano, saggio e virtuoso oltre che esperto politico, e tale è la raffigurazione di lui che ritorna costantemente nelle opere petrarchesche; dietro sua richiesta, inoltre, Petrarca gli dedicò l'Africa. Fece però in tempo a indirizzargli solo tre lettere, dato che Roberto morì poco dopo, all'inizio del 1343; in seguito alla sua scomparsa il regno precipitò in una profonda crisi, come Petrarca potè constatare quello stesso anno nel suo secondo e ultimo soggiorno napoletano e come raccontò allegoricamente nell'egloga II del Bucolicon carmen. In memoria del defunto compose anche un epitaffio laudativo.
Dopo l’incoronazione Petrarca fu  ospite di Azzo da Correggio a Parma fino al 1342.
Dall'autunno del 1344 al 1347 risiedette a Valchiusa, donde lo distolse l'entusiastica adesione alla rivolta di Cola di Rienzo: l’impresa di Cola, che sembrava riuscisse a restaurare in Roma l’antica grandezza repubblica­na. Petrarca si propose di appoggiare l’impresa con la sua autorità ed il suo consiglio, ma il viaggio verso Roma fu interrotto dalla notizia del fallimento del tentativo di Co­la.
Rinunciò al viaggio romano e si arrestò a Parma, dove lo raggiunse la notizia (19 maggio 1348) della morte di Laura, colpita dalla peste.
Lasciata Parma, Petrarca riprese a vagabondare per l'Italia: a Firenze rinnovò i legami di amicizia con Giovanni Boccaccio ed altri letterati toscani, e a Roma, fino al 1351, quando, rifiutata ogni altra offerta, rientrò (anche su pressione papale) in Provenza, dove scrisse le prime Epistole a Carlo IV di Boemia perché scendesse in Italia a sedare le rivolte cittadine.
Nel giugno del 1353, in seguito alle aspre e pungenti polemiche ingaggiate con l'ambiente ecclesiastico e culturale di Avignone, Petrarca lasciò definitivamente la Provenza ed accolse l'ospitale offerta di Giovanni Visconti, arcivescovo e signore della città, di risiedere a Milano alla corte viscontea.
Malgrado le critiche di amici e nemici, che gli rimproveravano la scelta di mettersi al servizio di un signore che avrebbe presumibilmente limitato la sua libertà, collaborò con missioni ed ambascerie (incontrò l'imperatore a Mantova e a Praga) all'intraprendente politica viscontea, cercando di indirizzarla verso la distensione e la pace.
Nel giugno del 1359 per sfuggire alla peste abbandonò Milano per Padova presso i Da Carrara.
Nel 1362 Petrarca si trasferì a Venezia, dove la Repubblica Veneta gli donò una casa in cambio della promessa di donazione, alla morte, della sua biblioteca, che era allora certamente la più grande biblioteca privata d'Europa, alla città lagunare. Si tratta della prima testimonianza di un progetto di "bibliotheca publica". Il tranquillo soggiorno veneziano, trascorso fra libri e amici, fu turbato nel 1367 dall'attacco maldestro e violento mosso alla cultura, all'opera e alla figura sua da quattro filosofi averroisti: amareggiato per l'indifferenza dei veneziani, andò via da Venezia.
Petrarca, dopo alcuni brevi viaggi, accolse l'invito di Francesco da Carrara e si stabilì a Padova.
Nel 1370, si trasferì con i suoi libri ad Arquà, un tranquillo paese sui colli Euganei, una località campestre che gli ricordava la rac­colta solitudine di Valchiusa, nel quale si era occupato – come sua abitudine – di far adattare e restaurare una modesta casa, generoso dono del signore padovano.
Trascorse gli ultimi anni ad Arquà e qui morì nel 1374.

Le opere - Numerose sono le opere di Petrarca, scritte parte in latino e parte in volgare. Le opere in latino si possono distinguere in opere di ispirazione classica e opere di ispirazione cristiana.
1. Fra quelle del primo gruppo la più importante è l’Africa, poema epico in 9 libri, in esametri, che ha per argomento la seconda guerra punica. Petrarca attinge la materia soprattutto dalle Storie di Livio e si propone come modello poetico l’Eneide di Virgilio. L’opera si incentra sulle gesta di Scipione l’Africano nella seconda guerra punica a Zama. I primi due libri raccontano i personaggi illustri della storia romana. Il terzo libro racconta del re di Numidia, alleato dei Romani. Il quarto libro è l’elogio di Scipione. Il quinto libro racconta del suicidio della moglie del re di Numidia. Il sesto libro racconta della morte di Magne, fratello di Annibale, dovuta alle tante ferite ricevute in battaglia. Il settimo e l’ottavo libro raccontano la battaglia di Zama. Il nono libro racconta il ritorno di Scipione in patria. L’Africa è un’opera di grande ambizione, dalla quale Petrarca si aspettava successo e gloria letteraria, ma che in realtà appare modesta di risultati. Manca al poeta la capacità di oggettivazione e di strutturazione richieste dal genere epico. E di tutta l’opera sono poeticamente vivi solo pochi passi di timbro lirico in cui, attraverso gli stati d’animo di alcuni personaggi, il poeta esprime la sua dolorosa coscienza della caducità dei valori terreni.
2. Fra le opere del secondo gruppo, quelle cioè di riflessione etico-religiosa, di gran lunga la più alta ed intensa è il Secretum, in tre libri. È un dialogo che il poeta immagina si svolga, per la durata di tre giorni e alla presenza della Verità, fra lui e Sant’Agostino, e che si risolve in un severo esame di coscienza del Poeta, in un sottile ed implacabile scandaglio che egli compie nella propria anima. Il primo libro racconta dell’incontro di Sant’Agostino con Francesco. Sant’Agostino racconta che Francesco è privo di forza di volontà. Il secondo libro Sant’Agostino racconta che Francesco è colpevole di tutti i peccati capitali, escludendo l’invidia e metà dell’avarizia. Il terzo libro racconta che Francesco a causa della mancanza di volontà non riesce ad abbandonare le cose terrene.
3. Parte a sé fra gli scritti latini di Petrarca occupa il suo vastissimo Epistolario,costituito dalle lettere che egli scrisse nel corso della vita, e che, per la massima parte, rielaborò, ordinò e pubblicò personalmente. Esse, pur attraverso il diaframma della riela­borazione letteraria, ci consentono di conoscere momenti e situazioni della vita del poe­ta, e soprattutto di penetrare nella sua inquieta e complessa psicologia. Alcune di que­ste lettere sono scritte in versi esametri (Epistolae metricae);
4. È scritto invece in volgare il capolavoro di Petrarca, il Canzoniere, raccolta di 366 componimenti poetici composti e rielaborati in un lungo arco di anni; vi prevalgono i sonetti (317), ma vi sono anche numerose canzoni, e poi sestine, ballate, madrigali. Per la massima parte sono componimenti dedicati a Laura, e costituiscono una specie di poetico romanzo amoroso, ma anche uno studio acuto dell’anima di Petrarca, vista nei turbamenti, nei dolori, nelle gioie della passione amorosa. Sono state divise dal poeta stesso in due gruppi: liriche scritte per Laura viva e liriche scritte dopo la morte di lei, che avvenne nella peste del 1348 (Rime in vita Rime in morte di Madonna Lau­ra). Accanto alle liriche per Laura ve ne sono poche altre di diverso argomento: le due canzoni di argomento politico Italia mia Spirto gentili alcune liriche religiose culminanti nella Canzone alla Vergine; e un gruppo di sonetti contro la corruzione della Curia avignonese;
5. Agli anni tardi appartiene l’altra opera in volgare, I Trionfi, poema allegorico sulla vanità e sulla caducità dei valori terreni, che raggiunge rari momenti di poesia solo là dove riaffiora il ricordo della bellezza di Laura e della sua morte serena. I trionfi sono sei visioni in terzina dantesca. Il trionfo dell’amore racconta l’amore per Laura. Il trionfo della pudicizia racconta che Laura, libera i prigionieri e torna in patria da eroina. Il trionfo della morte racconta che Laura, durante un viaggio, incontra la morte dove gli toglie un capello e muore. Il trionfo della fama racconta che Laura è seguita da tre cortei: quello dei cavalieri, dei filosofi, letterati. Il trionfo del tempo racconta che il tempo cancella le glorie del tempo. Il trionfo dell’eternità racconta che le glorie rimarranno solo a Dio.

Fra Medioevo e imminente Rinascimento: l’inquieta psicologia di Petrarca - Quando Dante moriva, Petrarca aveva diciassette anni. I due poeti vivono quindi in periodi sto­rici cronologicamente assai vicini; eppure essi esprimono due momenti di civiltà che vanno ormai diversificandosi, e in gran parte si sono già diversificati. Dante accetta senza incertezze la gerarchia medioevale dei valori che mette Dio e la vita eterna al vertice delle aspirazioni umane. Petrarca dà voce, spesso dolente, alla crisi di passaggio fra il Medioevo e il Rinascimento, età quest’ulti­ma che pone in primo piano i valori terreni e mondani. Egli infatti è medievalmente convinto che la vita che conta è quella eterna, che Dio è la meta cui l’uomo deve ten­dere; e invidia coloro – come suo fratello che si è fatto monaco – che sanno comportarsi coerentemente con questi principi. Ma egli sente in modo altrettanto intenso l’attrazione per i valori mondani, la fama, il successo e soprattutto l’amore: al loro richia­mo non sa sottrarsi, e nello stesso tempo li giudica fuorvianti, e ne prova rimorso e senso di colpa. L’oscillazione fra terra e cielo, poli dell’inquieto spirito petrarchesco, costituisce un motivo ricorrente nella sua vita e nella sua opera.
In una delle più belle fra le Epistole, in cui descrive la scalata sua e del fratello su un monte della Provenza, il Ventoso, con acutezza egli si definisce uomo dall’anima ambi­valente (uterque homo). Nel diverso modo con cui i due giovani affrontano la salita, egli simbolicamente traduce il loro diverso modo di affrontare la vita e di muovere ver­so il suo fine, che è Dio e la virtù: Gherardo punta diritto alla cima e vi giunge rapida­mente e con sicurezza, Francesco si disperde nelle vallette laterali (cioè simbolicamente si lascia attrarre dalle seduzioni mondane), nella vana speranza di trovare una strada meno ripida per salire; così che quando alla fine anch’egli giunge in vetta, vi giunge ben più stanco e in ritardo.
Analogamente, in quel capolavoro di penetrazione psicolo­gica che è il Secretum, egli individua come male essenziale della sua anima la indecisa perplessità fra il richiamo del mondo e quello di Dio. Dopo aver ostinatamente resistito alle accuse mossegli da Sant’Agostino (cioè dalla sua coscienza), circa la sua debolezza di volontà, e circa l’ansia e l’attrazione per i valori terreni, alla fine, lasciatosi faticosa­mente convincere, promette che cambierà vita. Si rende conto che dovrebbe farlo subi­to, ma troppo forte è il richiamo delle passioni mondane, delle «faccende profane», perché ciò sia possibile. Così cambierà, ma più tardi: «Accoglierò, risponde al Santo, gli sparsi frammenti dell’anima mia e diligentemente vigilerò su di me. Ma ora, mentre parliamo, mi attendono molte e grandi faccende, per quanto profane»; e ricade così, come conclude Agostino, «nell’antica contesa».

Dalla Beatrice dantesca alla Laura petrarchesca – Questa ambivalenza psicologica diventa poesia nelCanzoniere. Se Beatrice, in Dante, era figura fisicamente evanescente, angelo in terra, guida dell’uomo a Dio, tanto che senza frizione poteva nella Divina Commedia tradursi in simbolo della teologia e della Grazia, Laura è invece una creatu­ra terrena. L’altezza del suo spirito, l’onestà, la pudicizia che regolano la sua vita e che le impediscono di corrispondere all’amore del poeta, si accompagnano in lei a una splendente bellezza fisica per la quale, oltre che per le sue virtù, il poeta la desidera e l’ama. Tutto il Canzoniere è illuminato da questa bellezza: «i capei d’oro» la «bella mano», il «bel fianco». Una bellezza cui fa da sfondo la natura della Provenza, medi­terranea, solare, fra prati e acque.
Ma la felicità dell’amore è contrastata nell’intimo del poeta da un incancellabile e ricorrente senso di colpa, dalla coscienza che questa passione terrena lo allontana da Dio. È uno stato d’animo doloroso, da cui nascono alcuni dei componimenti più inten­si della raccolta.

Cultura cristiana e cultura classica di Petrarca – La bivalenza psicologica di Petrarca si riflette nelle sue scelte culturali. Egli è buon conoscitore dei Testi sacri, specie di quelli dei Padri della Chiesa.
Lo scrittore della sua vita, il punto di riferimento etico nelle sue incertezze e nei suoi turbamenti, non è però lo «scolastico» San Tommaso, il santo dalle grandi certezze caro a Dante e a tutto il Medioevo, ma Sant’Agostino, il Padre della Chiesa che è giunto a Dio salvandosi dalle passioni terrene, e che ha saputo risolvere in sé, attraverso la sofferenza, quel contrasto fra Terra e Cielo che rimane la fondamentale irrisolta contraddizione del Poeta.
Ma Petrarca ama allo stesso modo gli scrittori classici: Cicerone, Virgilio, Livio, Orazio, di cui apprezza tanto il valore artistico che la saggezza morale. Nei suoi viaggi per l’Europa cerca ostinatamente testi di autori classici andati perduti durante il Medioevo; confronta fra loro, precorrendo un lavoro che sarà tipico degli Umanisti, i vari mano­scritti di una stessa opera per rimediare alle mutilazioni e agli errori che ne hanno alte­rata la lezione.
Ma ciò che caratterizza in senso preumanistico il rapporto di Petrarca coi classici e che lo stacca dal Medioevo, è il fatto che egli non subordina il loro mes­saggio alla visione cristiana del mondo, ma vuole invece recuperarlo nella sua autenti­cità e integrità.

Il pensiero politico di Petrarca – Petrarca vive in un periodo in cui al declino delle vecchie istituzioni (Chiesa e Impero) si andava aggiungendo la crisi della prima società borghese: il Comune, che stava per essere sostituito dalle Signorie, in cui il potere era detenuto da singole famiglie o da oligarchie. Petrarca accetta la fine dell'istituzione comunale e lo sviluppo delle Signorie, ma in questo senso: egli vorrebbe che le Signorie, liberatesi dall'ingerenza dell'Impero e della Chiesa, si alleassero tra loro per restaurare la Repubblica della Roma antica, vista non come culladell'Impero e della Chiesa, ma in sé e per sé, cioè come civiltà ricca di virtù, di eroismo, di forza morale – una civiltà alternativa a quella medievale.
a) Dall’Impero e dal Comune all’Italia – Nonostante la breve differenza di anni che lo separa da Dante, gli ideali politici di Petrarca sono assai diversi da quelli danteschi. Egli non vede più alcuno strumento di salvezza nell’Impero, che del resto si andava sempre più esautorando; né ha interesse per il Comune, nella cui struttura non è mai vissuto; e comunque i Comuni in Italia venivano via via scomparendo per lasciar posto alle Signorie.
L’interesse politico di Petrarca si polarizza invece sull’Italia, che non considera più, come Dante, provincia dell’Impero, e neppure ancora come nazione, ma come entità politica che può raggiungere autonomia ed unità mediante l’accordo fra le varie Signo­rie che in essa si sono costituite e che tendono a dar vita a stati regionali. È questa la speranza che anima la Canzone all’Italia, una delle due liriche politiche del Canzoniere, in cui il poeta esorta, in nome dell’Italia madre comune, i Signori italiani a deporre gli odi e a cessare le lotte fratricide, così che possa fra loro stabilirsi un legame di solidarietà che porti la pace nella penisola.
b) «Virtù contro furore» – L’unità italiana ha il suo cemento, oltre che nell’interesse comune dei Signori italiani, nella comune tradizione romana. L’ammirazione di Petrarca peraltro non va più, come quella dantesca, all’antica Roma imperiale, ma alla Roma repubblicana degli Scipioni e dei Bruti, quella che Cola Di Renzo aveva tentato di far risorgere.
La tradizione romana si identifica con la civiltà e il poeta la contrappone orgogliosamente al germanesimo, che è barbarie. Questa opposizione è uno dei temi fondamentali della Canzone all’Italia sopra ricordata. La capacità militare romana vi è definita virtù, cioè valore disciplinato e consapevole, quella germanica è furia selvaggia, furore. Le terre germaniche sono deserti strani, quelle italiane dolci campi.
Di qui l’accusa rivolta ai Signori d’Italia di avvalersi per le loro guerre di milizie mercenarie, che, arruolate prevalentemente in Germania, non solo consentono il permanere di uno stato di guer­ra, e della guerra fanno un mestiere, ma portano la barbarie germanica nel nostro Paese, e sono come un diluvio che devasta le nostre terre feconde.

Storia della novella: il Medioevo – La novella, come genere autonomo si affermò nel Medioevo dapprima con i fabliaux, novelle in versi a carattere satirico e popolaresco fiorite in Francia alla fine del XII secolo.
Successivamente si diffuse l’exemplumbrevissimo racconto usato dai predicatori a fine didascalico per spiegare i principi morali alla gente e per guidare, attraverso il diletto della storia narrata, verso una verità religiosa e un comportamento morale.
L’exemplum presenta una vicenda che deve servire da modello e da ammonimento per tutti ed è espressione di valori considerati immobili, assoluti e quindi eternamente va­lidi. C’erano poi i racconti riguardanti le vite dei santi e i loro miracoli.
Si diffusero infine i racconti orientaliprovenienti dalla favolosa Persia, dall’Egitto e dall’India, come il Libro dei sette savi, un’opera indiana tradotta durante il Medioevo prima in francese e poi in italiano.
Di queste opere l’esempio più famoso è la raccolta di novelle Le mille e una notte, una raccolta di origi­ne araba risalente al IX-X secolo. In essa si ritrovano perso­naggi storici come il potente Califfo di Baghdad, Hamn-al-Rashid, leggendari, come Sindbad il marinaio o come il giovane Aladino con la sua lampada magica. Storie di magia e d’avventura, di furbizia e di coraggio, inserite in una storia principale, la storia-cornice della principessa Sheherazade, l’affascinante narratrice di storie esotiche e favolose.
La novella appare nella letteratura italiana intorno al XIII secolo. Alle spalle di questo nuovo modello letterario c’erano la grande tradizione antica (si pensi, ad esempio, a scrittori come Petronio o Apuleio) e le varie forme della narrativa medievale, sia occidentale sia orien­tale, una narrativa nata essenzialmente come tradizione orale e poi gradualmente affidata alla scrittura.
Alla fine del Duecento, fu compilato il Novellinola prima raccolta orga­nica di racconti della letteratura italiana. In questa raccolta il ter­mine novella, pur continuando ad indicare essenzialmente una narrazione orale, comincia ad acquisire anche un significa­to e uno spessore letterario. Come suggerisce il nome stesso, la raccolta punta al nuovo, all’insolito, al sorprendente, a ciò che è irripetibile e relativo, piuttosto che esemplare e as­soluto. Essa non si prefigge dunque scopi morali, ma vuole divertire e distrarre il lettore, celebra valori umani e terreni, colloca fatti e personaggi in una concreta dimensione spazio-temporale.

Giovanni Boccaccio – La novella raggiunse la forma più perfetta con il Decameron di Boccaccio.
Il Decameron è una raccolta di cento novelle sono racchiuse in una cornice [[23]] che le giustifica e le ordina, organizzandole intorno a un filo conduttore.
Il Decameron costituì per molto tempo, a partire dai Racconti di Canterbury di Chaucer, il modello della narrazione breve con caratteristiche diverse da tutte le altre forme narrative medievali.

La vita – Boccaccio nacque fuori dal matrimonio a Certaldo, vicino a Firenze, nel 1313.
Si ipotizza che sua madre fosse una donna di bassa estrazione sociale mentre suo padre Boccaccio di Chellino era un mercante prima agente e poi socio della potente compagnia bancaria dei Bardi.
Nel 1327, subito dopo i primi studi, il padre avviò il figlio alla mercatura e lo portò con sé a far pratica a Napoli, presso una Casa di commercio: la compagnia fiorentina dei Bardi, insieme ai Peruzzi e agli Acciaiuoli, deteneva il monopolio delle imprese finanziarie del Regno di Roberto d'Angiò. Qui Giovanni collabora all'attività paterna e impara a conoscere direttamente i vari strati sociali, ma l’attività mercantile non gli era congeniale. Fu allora indirizzato dal padre, deciso com’era a trovargli comunque una professione lucrosa, verso l’università dove seguì per due anni le lezioni di Cino da Pistoia (1330-31) ma nemmeno gli studi di diritto canonico gli piacquero li seguì di malavoglia e non li portò a termine.
Iniziò così a dedicarsi alla lettura e alla conoscenza della tradizione lirica volgare.
Nel fastoso e colto ambiente napoletano, che aveva il suo centro nella ricca e raffinata corte di re Roberto d’Angiò, Boccaccio visse l’esistenza brillante e mondana della società aristocratica e altoborghese che aveva preso a frequentare, fra feste e ritrovi che si svolgevano in città e negli ameni dintorni.
La sua formazione intellettuale e umana si compì dunque nel più importante centro culturale italiano: lo Studio  napoletano – la prestigiosa Università fondata da Federico II – la ricchissima biblioteca reale e la stessa raffinata corte angioina si configurano come punto d'incontro tra la cultura italo-francese e quella arabo-bizantina, attirando da ogni parte poeti, letterati, eruditi, scienziati e anche artisti come Giotto, che in quegli anni stava lavorando agli affreschi del Castel Nuovo.
La Napoli di Roberto d'Angiò (1278 – 1343) era una città in piena espansione. Dalla morte dell'austero Carlo II (1308), il processo di rivitalizzazione della città e del Regno si era consolidato.
Con l'ascesa al trono di Roberto il saggio, alla fioritura urbanistica si affiancò la vivacità commerciale – con la presenza di fiorentini, francesi, catalani – e politica, accreditandosi Roberto come il capo di fatto del guelfismo italiano. Sul piano culturale, lo Studio e la corte erano prestigiosi punti di riferimento per intellettuali di rilievo anche se forse di taglio ancora medievale, come Paolo da Perugia, bibliotecario di corte, o Andalò dal Negro, astrologo e geografo, entrambi mentori del giovane Boccaccio. A Napoli il re accolse Petrarca, venuto per l'incoronazione: il valore che assumeva la nuova cultura incarnata nel giovane, ma già autorevole Petrarca, gli era ben chiaro, ed egli fu felice di acconsentire ai suggerimenti del padre Dionigi da Borgo Sansepolcro, chiamato a Napoli dal re Roberto d'Angiò presso la sua corte nel 1338, quando questi gli propose di presiedere alla cerimonia. Petrarca si sentì onorato dell'amicizia di Roberto e ripose in lui, finché visse, molte delle sue speranze politiche, contribuendo a creare l'immagine del «buon re cicilian che ‘n alto intese», con cui il sovrano angioino è passato alla storia.
In questa Napoli in cui Boccaccio aveva avuto la possibilità di formarsi un’ampia seppur disordinata cultura nelle arti liberali e in cui aveva conosciuto Cino da Pistoia, il grande epigono dello stilnovismo, professore di diritto nello Studio napoletano dal 1330 al 1331, Sennuccio del Bene, ma soprattutto l'amico di Petrarca, padre Dionigi da Borgo San Sepolcro, col quale strinse amicizia. Quest’ultimo divenne per il giovane Boccaccio una sorta di guida intellettuale e da lui imparò ad amare e a stimare Petrarca che tanto prometteva con le sue opere latine.Dionigi da Borgo San Sepolcro e il notaio regio Barbato da Sulmona influenzarono la sua vita indirizzando verso l'Umanesimo i suoi studi, già condotti nella conoscenza del greco col monaco calabrese Barlaam e poi approfonditi, dopo il ritorno a Firenze, sotto la guida dell'altro calabrese Leonzio Pilato, lettore in quello Studio e primo traduttore di Omero in latino.
Nel contempo, Boccaccio chiariva a se stesso la sua autentica vocazione, che era quella letteraria e poetica e che si rivelò presto prepotente ed esclusiva. In un’opera della tarda maturità così egli scrive di sé: «Ma di qua­lunque attitudine abbia dotato gli altri la natura, me fin dall’alvo materno, per quel che mi attesta l’esperienza, ha disposto alle poetiche meditazioni, e, a mio giudizio, so­no nato per questo».
Si formò in questi anni, con iniziativa di intelligente autodidatta, una vasta cultura che spaziava dalla letteratura classica a quelle romanze, italiana e francese e di esse andava alimentando, già da questi anni, la sua opera in versi e in prosa.
Napoli con il suo vivace mondo culturale, con l'aristocratica, elegante e gaia società della sua corte, con gli svaghi, i diletti di questi anni spensierati e felici fu anche il luogo di una sua importante esperienza amorosa: qui conobbe e amò Fiammetta, nome sotto il quale si celava probabilmente quello di una dama della corte, da alcuni studiosi identificata con una Maria dei conti d’Aquino, figlia illegittima del re Roberto d'Angiò. Fu un amore infelice per l’incostanza e l’infedeltà della donna, ma che lasciò traccia nella vita e nell’opera di Boccaccio: dal nome di lei prende il titolo uno dei suoi scritti romanze­schi in prosa, la Fiammetta, e Fiammetta sarà da lui chiamata una delle giovani narratrici del Decameron.
I dodici anni napoletani rappresentarono per Boccaccio il periodo più fertile e vivo della sua esistenza e ad esso, per il resto della vita, andò costantemente il suo ricordo e la sua nostalgia: sono questi gli anni delle Rime, della Caccia di Diana, del Filostrato, del Filocolo, del Teseida (terminato poi a Firenze).
A seguito del fallimento della banca dei Bardi, che diede un grave colpo agli interessi del padre, nel 1340 Boccaccio dovette lasciare Napoli.
Tornò così a Firenze. Dopo gli splendori napoletani, la casa paterna e la vita chiusa della città apparvero al giovane intollerabilmente squallide e tristi.
Nell’Ameto, un poema scritto dopo il suo ritorno, egli contrappone la vita di Napoli, caratterizzata da «beltà, gentilezza, valore, leggiadri motti», allietata da «delizie mondane», all’uggiosa serietà della sua casa fiorentina:
«Lì non si ride mai, se non di rado;
la casa oscura e muta e molto trista
me ritiene e riceve, mal mio grado.»
Per alcuni anni cercò in ogni modo di evadere dalla città: trascorse un periodo a Ra­venna presso i Polentani, un altro a Forlì presso gli Ordelaffi.
Era invece a Firenze nel 1348, quando vi scoppiò la terribile peste che devastò buona parte dell’Europa e che avrebbe offerto lo spunto alla sua opera maggiore, il Decameron.
Negli anni successivi, stimato per la fama e l’ingegno dai suoi concittadini, ebbe dal Comune incarichi pub­blici che lo portarono come ambasciatore presso diverse corti italiane ed europee.
Nel 1350 e si legò a Petrarca di un’amicizia fatta di affet­to e di devozione, oltre che alimentata da comunanza di interessi culturali, amicizia che durò fino alla morte di Petrarca. Già negli anni ’40, Boccaccio aveva composto un De vita et moribus Francisci Petracchi, elogio della laurea poetica di Petrarca, cui aveva assistito nei suoi ultimi mesi di permanenza a Napoli: Boccaccio, intuendo la novità della proposta culturale di Petrarca, cominciò a raccogliere le sue opere, talché già negli anni Quaranta possedeva già una cospicua antologia petrarchesca. Questo rapporto di amicizia, oltre ad arricchirlo spiritualmente proponendogli nuovi interessi etici e culturali, lo aiutò a superare la grave crisi religiosa che lo colse nel ‘62, a seguito della visita di un frate che gli preannunciava prossima la morte e gli minac­ciava la dannazione eterna se non avesse abbandonato gli studi profani.
L’intervento equilibrato ed equilibratore di Petrarca lo dissuase dal bruciare le sue opere «mondane», ivi compreso il Decameron, che era la più libera e spregiudicata, e perciò moralmente la più condannata dalla sensibilità del tempo.
Peraltro, già prima della crisi del ‘62, Boccaccio si era dato a studi eruditi, che costituirono l’occupazione degli ultimi vent’anni della sua esistenza.
Nel 1362, e poi ancora nel 1370, si recò a Napoli nella speranza di trovarvi una decorosa sistemazione, ma entrambe le volte tornò a Certaldo deluso e amareggiato.
Nel 1373 ricevette l'incarico da parte del Comune di Firenze di commentare pubblicamente la Commedia di Dante nella chiesa di Santo Stefano di Badia, ma dopo pochi mesi, essendo sofferente di idropisia, fu costretto a rinunciare alle sue pubbliche letture, interrompendole al canto XVII dell'Inferno
Morì a Certaldo, dove si era ritirato, nel 1375.

Le opere - La vasta produzione di Boccaccio si può dividere secondo tre periodi:
le opere giovanili o della sua formazione;
il capolavoro della maturità, il Decameron
le opere erudite dell’ultimo ventennio.
Delle opere del primo gruppo, alcune furono composte nel periodo napoletano, altre dopo il ritorno di Boccaccio a Firenze; esse sono di ispirazione più o meno direttamente autobiografica, e comprendono poemetti in versi e romanzi in prosa, per i cui temi lo scrittore attinge ora al mondo classico, ora alla narrativa romanza, ora alle tradizioni popolari. Tema comune a tutte, e in tutte emergente, è l’amore.
·         La prima opera fu La caccia di Diana: l’opera racconta che le ninfe andarono a caccia con Diana e al loro ritorno tradirono la dea, donando tutta la selvaggina a Venere.
·         La prima opera in prosa di Boccaccio fu il Filocolo: l’opera racconta che Florio, un principe di origine pagana incontra Biancofiore, una fanciulla di origine cristiana e se ne innamora; il padre di Florio scopre questo amore tra i due e vende la ragazza. Florio raggiunge Biancofiore, ma i due sono scoperti e condannati al rogo. Il romanzo termina con il matrimonio dei due amanti e con la conversione di Florio al Cristianesimo.
·         Un’altra opera è il Filostrato in cui racconta l’amore di Troilo figlio di Priamo, per Criseide; Criseide, una volta riscattata, lascia Troilo, che, disperato, cerca la morte in guerra, affrontando Achille.
·         Il Teseida racconta di due amici Arcita e Palemone che si innamorano di Emilia; i due decidono di sfidarsi a duello ed il vincitore sposerà Emilia. Arcita vince il duello ma, caduto da cavallo, muore; prima di morire, però, dice ad Emilia di sposare il suo amico.
·         Un’opera di cinque capitoli in terza rima è l’Amorosa Visione. L’opera racconta che il poeta immagina Cupido che gli invia una donna per intraprendere una vita di virtù.
·         Fra queste opere, due si staccano da una mediocre piattezza: il romanzo la Fiammetta Elegia di madonna Fiammetta,significativo per l’acuta analisi degli effetti prodotti sull’anima dalla passione amorosa. Quest’opera è un passaggio molto importante della produzione letteratura di Boccaccio perché il personaggio principale diventa donna. L’opera racconta di Fiammetta che si innamora di un ragazzo fiorentino che è richiamato dal padre a Firenze. Boccaccio spiega tutta la sua delusione nei confronti di questo ragazzo a causa del suo fidanzamento con un’altra ragazza.
·         L’altra opera di rilievo è il Ninfale fiesolano, poemetto in ottave, nel quale una leggenda mitologica sull’origine di Firenze si trasforma in una calda e realistica storia d’amore. L’opera racconta che il pastore Africo s’innamora della ninfa Mensola. I due amanti vengono scoperti da Diana e Africo viene trasformato in un fiume. In seguito alla trasformazione di Africo, Mensola partorisce un bimbo e ciò per Diana è un oltraggio; anche Mensola viene trasformata in un fiume. Questi due fiumi si trovano a Firenze.
·         Il Ninfale d’Ameto racconta di un pastore, Ameto che si innamora della ninfa Lia. Il pastore per incontrare Venere è purificato dalle ninfe, questa purificazione porta l’uomo dall’animalità bruta all’affetto e all’amore. Tutte le opere di questo periodo, a prescindere dal loro valore artistico, sono interessanti in quanto consentono di seguire la formazione e la maturazione di Boccaccio che, attraverso di esse, saggia argomenti e tecniche letterarie diverse, preparandosi alla ricchezza tematica e tonale del Decameron.
·         Al Decameron, Boccaccio lavora a Firenze soprattutto negli anni 1349-51. 
Il Decameron è una raccolta di 100 no­velle narrate nell’arco di dieci giornate (il titolo significa appunto, dal greco, [il libro] «dei dieci giorni»). Esse non si susseguono l’una all’altra, giustapposte senza collegamento, ma sono collocate, secondo il gusto medioevale, in una struttura che fa loro da cornice.
L’opera prende l’avvio dalla descrizione della terribile peste scoppiata in Firenze, come in tanta parte d’Europa, nel 1348. La rappresentazione della città, devastata dal morbo, occupa le prime pagine dell’opera. Con animo commosso e turbato Boccaccio descrive la gravità della malattia, i pericoli del conta­gio, le morti. E, passando dall’analisi esterna a quella delle condizioni psicologiche in quel terribile frangente, si sofferma sulle conseguenze devastanti di ordine affettivo e morale. Per timore del contagio vengono meno i tradizionali legami di amicizia e di affetto: gli amici sfuggono gli amici ammalati e li abbandonano al loro destino; persino padri, madri, figli, sposi, nella malattia, rifiutano di aiutarsi fra loro; «l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile) i padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano».
Boccaccio immagina che un mat­tino, durante l’imperversare del contagio, in S. Maria Novella si incontri una brigata di sette giovani donne «savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forme e di leggiadra onestà» e di tre giovani uomini, «assai piacevole e costumato ciascuno», innamorati di tre di loro e parenti delle altre, i quali, per sfuggire a tanta dissoluzione e disperazione, decidono di abbandonare insieme la città appestata e di recarsi nel vicino contado.
Lontano da Firenze e dalla desolazione della pestilenza, i gio­vani trascorrono le giornate in una bella villa, sulle colline intorno a Firenze; nella serenità della quiete campestre, la gentile brigata ricrea quel vivere nobile e cortese, quell’ordine civile e pieno di decoro, che il flagello della peste ha distrutto nella vicina città, vivendo all’insegna della gioia, della serenità e della cortesia. Nel pomeriggio, mentre la nobile compagnia sta seduta in un bellissimo prato, a turno ciascuno narra una novella; all’imbrunire i giovani danzano e cantano una ballata.
Nei quindici giorni vengono narra­te cento novelle, dieci al giorno, poiché il venerdì e il sabato, giornate dedicate alla preghiera e alle pra­tiche religiose, viene sospesa la narrazione. Ogni giorno viene eletto fra i giovani un «re» o una «regina» che (ad eccezione del primo e del decimo giorno) stabilisca il tema generale della giornata: la fortuna, l’amore, l’inge­gno, ecc.; tema al quale, con libera inventiva, dovranno adeguarsi i narratori. Uno dei giovani, Dioneo, il più divertente e spregiudicato, a cui viene concesso il «privilegio» di raccontare sempre per ultimo e di scegliere a suo piacimento il tema della novella. In tal modo Boccaccio evita il rischio di un meccanismo trop­po rigido e fa sì che anche le giornate nelle quali è stato fissato un tema triste (per esempio, storie di amori infelici) si concludano con una novella a lie­to fine.
La cornice come legame fra le varie parti di un’opera è una strategia stilistica già in uso nelle opere del passato: Boccaccio conosceva Le Mille e una notte.
Nel Decameron la cornice non è semplice accostamento delle novelle, è una struttura architettonica che conferisce unità all’opera. Alle Mille e una notte il Decameron si ricollega anche per la circostanza della narrazio­ne in una situazione di pericolo: in entrambi i casi, infatti, il racconto è usato, sia pure in modo diverso, per esorcizzare la morte.
A differenza delle precedenti raccolte in cui l’elemento unificatore era completamente fantastico, la cornice del Decameron fa riferimento a un avvenimento tragi­co e reale della storia contemporanea, la peste, che coinvolge sia i narratori, e quindi il piano della fin­zione letteraria, sia i lettori. Essa inoltre non ha so­lo la funzione di giustificare la narrazione e di con­ferire ordine alle novelle, ma si arricchisce di un suo significato autonomo. Racchiude e sintetizza, infatti, due poli, quello della morte, simboleggiata dalla peste e dalle sue conseguenze morali e socia­li, e quello della vita, rappresentata dai giovani del­la lieta brigata e dalla loro esistenza vissuta all’in­segna dell’equilibrio, della cortesia, della misura, del benessere fisico e psicologico.
La cornice è l’immagine del disegno coerente ed equilibrato della vita, in cui ogni evento fuggevole e momentaneo si inserisce e trova un senso e una valida giustificazione. In questa struttura nar­rativa messa a punto da Boccaccio è possibile all’autore conciliare varietà e unità: la varietà delle novelle e il loro costituirsi in gruppi unitari. Quell’unità formale, esterna, che si affianca a quella interna, più profonda, costituita dalla comune visione della vita e del mondo che governa tutta l’opera, si raggiunge attraverso una struttura com­plessa che prevede infatti un narratore di primo grado, Boccaccio stesso, che racconta la storia-cor­nice, entro la quale dieci narratori di secondo grado raccontano le cento novelle del Decameron.
Sul piano tematico sono presenti nell’opera due nuclei essenziali di ispirazione: da una parte un mondo cavalleresco ormai al tramonto, dall’altra una società borghese e cittadina. Boccaccio guar­da con un atteggiamento di nostalgia e di rimpian­to al mondo aristocratico e cavalleresco del passa­to, tanto che le novelle che ne celebrano gli ideali sono poste a conclusione della raccolta e sembra­no costituire una sorta di Paradiso laico che si contrappone all’Inferno della prima giornata nella quale sono raffigurati i vizi della società del tempo: l’avarizia e la viltà dei grandi signori, la corruzione del clero, la spregiudicatezza morale dei borghesi.
1)      La «Commedia umana» di Boccaccio — Il Decameron è stato definito «commedia umana» in contrapposizione a quella «divina» dantesca, perché in esso si muove, in­contrastato protagonista, l’uomo terreno. Non solo è ormai venuta meno la tensione verso Dio che aveva caratterizzato il mondo di Dante, ma neppure vi è più traccia di quel doloroso dualismo fra aspirazioni religiose e passioni umane che dominava l’opera di Petrarca. Nelle novelle del Decameron pullula la vita di questo mondo, libera da limitazioni e condizionamenti morali e religiosi; di qui il gioioso vitalismo che la percor­re. Tutta la realtà, in quanto esiste, è per Boccaccio degna di interesse e dell’attenzio­ne dell’artista. Se mai esiste una scala di valori, essa vede ai primi posti non i valori che portano a una salvezza eterna, ormai estranea all’interesse dei personaggi, ma quel­li che consentono all’uomo di affermarsi su questa terra.
      2) I temi fondamentali del Decameron: la fortuna l’amore e l’intelligenza — Fra i molti aspetti della vita rappresentati nel Decameron quelli fondamentali sono la fortuna, l’amore e l’intelligenza.
La Fortuna – intesa come intervento casuale della sorte – si manifesta sia come forza della natura, sia come azione umana, sia come intervento della collettività. Si tratta, comunque, di intrusioni che ora ostacolano, ora favoriscono le azioni dei protagonisti. L’uomo rivela la sua intelligenza quanto più sa pie­gare la Fortuna ai suoi scopi, in qualunque modo essa si presenti, ostile (oggi diremmo sfortuna) o amica.
L’amore, che Boccaccio considera una delle maggiori forze che muovono l’esistenza, è rappresentato nella vasta gamma delle sue manifestazioni: l’amore sensuale, a volte grossolano, ma mai morboso, l’amore disinteressato e cavalleresco, l’amore fedele e virtuoso, l’amore come fonte di eroismo materiale e spirituale, o come forza esclusiva e sconvolgente che può anche portare alla follia.
L’intelligenza è lo strumento per cui l’uomo si afferma sulla terra, e comporta accorgi­mento, abilità, scaltrezza, spregiudicatezza. Dante collocava nell’Inferno coloro che avevano usato l’intelligenza, dono divino, a scopi moralmente iniqui. Boccaccio guarda con interesse divertito e con sostanziale ammirazione chi riesce, con l’uso anche spregiudicato e cinico dell’intelligenza, a risolvere situazioni difficili, a togliersi d’impaccio. Caso tipico in questo senso è Ser Ciappelletto della novella omonima, che in punto di morte non esita a fare una abilissima e blasfema confessione, quasi a sfida giocosa al Cielo, per salvare una situazione pratica. E ricor­diamo il giudeo che con la sua acuta risposta si sottrae alle insidie del Saladino (Novella delle tre anelta); e Chichibio cuoco che con un’inaspettata e azzeccata battuta smonta l’ira del padrone. Spesso l’intelligenza prende luce, per contrasto, dal suo contrario, la stoltezza: e intelligenza e stoltezza sono messe a confronto in molte felicissime novelle di beffa, co­me quella diCalandrino e l’elitropia.
3) Molteplicità di situazioni e di personaggi — La rappresentazione boccacciana della vita si concreta in innumerevoli situazioni e in una ricca serie di personaggi. Sono introdotti nelle novelle uomini di paesi diversi, dall’Oriente all’Occidente, e di tutte le classi so­ciali: aristocratici e plebei, uomini di cultura e uomini di Chiesa. Ma soprattutto vi campeggiano i rappresentanti di quella borghesia mercantile italiana, operosa e avventurosa, ricca di esperienze e di denaro, che era la classe ascendente e il nerbo della so­cietà al tempo del Boccaccio, e che Boccaccio, figlio di mercanti e per qualche tempo mercante egli stesso, conosceva e ammirava.
La psicologia dei personaggi rappresentati è sempre ricca e articolata, esente da unilateralità e da schematismo; la loro caratteristica preminente non soffoca gli altri aspetti del loro carattere. Perfino le figure dalla natura più elementare, gli stolti, sono articolatamente ritratti: la stoltezza, che è limite intellettuale, coinvolge carenze morali e psicologiche e se ne alimenta. Nella stoltezza di Calandrino, ad esempio, concorrono l’avarizia, l’egoismo, la ghiottoneria, la prepotenza manesca con chi è più debole; e non gli manca neppure una certa dose di disonestà.
4)   Il concreto realismo degli ambienti — I personaggi del Decameron si muovono sullo sfondo di ambienti che non hanno mai nulla di vago e di gratuito, ma sono realisticamente definiti e concreti. Particolarmente ricchi di evidenza sono quelli personalmente noti a Boccaccio: le vie, le chiese, le piazze, la periferia e il contado di Firenze; e le in­quadrature napoletane, che spaziano dal ricco mercato della città, frequentato da mer­canti provenienti da tutta Italia, ma anche da imbroglioni, manigoldi, prostitute, alle vie strette e pericolose della Napoli malfamata, alla splendida opulenza della sua catte­drale.
Accanto agli ambienti esterni sono numerosi anche gli spaccati di interni: la casa patri­zia, fastosamente apparecchiata per il banchetto, di Currado Gianfigliazzi, e la cucina fragrante di odore di arrosto (novella di Chichibio); l’appartamento dal fasto equivoco della «bella Ciciliana» (novella di Andreuccio da Perugia); la povera casa dì Calandri­no con dentro la moglie battuta e in pianto, e il gran mucchio di pietre (novella di Ca­landrino e l’elitropia).
5) La borghesia vera protagonista del Decameron – La vera protagonista dell’opera è la borghe­sia rappresentata nei suoi diversi livelli e nei suoi aspetti positivi e negativi. La realtà umana e natu­rale descritta nel Decameron appare come il cam­po di tensione e di scontro di due forze antagonistiche: la fortuna e l’ingegno. La prima si identifi­ca con il caso capriccioso e imprevedibile, che pre­dispone circostanze favorevoli e sfavorevoli con le quali l’uomo deve misurarsi armato solo della sua intelligenza, saggezza calcolatrice, capacità di pre­visione. L’ingegno si manifesta non solo nell’azio­ne avveduta e sagace, ma anche nella battuta pron­ta, nel motto arguto e raffinato che mortifica gli sciocchi e i tracotanti, e viene apprezzato dall’an­tagonista intelligente, capace di gustare l’invenzio­ne verbale ben congegnata. È proprio in virtù del­la parola che talora possono essere annullate le di­stanze sociali. Il fornaio Cisti può permettersi il lusso di un motto mordace con il banchiere Geri Spina e Chichibìo può rivolgere una pronta e sol­lazzevole risposta a un gran signore come Currado Gianfigliazzi perché lo scatto dell’ingegno per un attimo rende complici un artigiano e un banchie­re, un cuoco e un signore. Dopo però ciascuno tor­nerà al suo posto, consapevole del proprio ruolo e della propria posizione sociale.
6) Le forme narrative – Sul piano delle forme narrative Boccaccio ha sperimentato un ampio ventaglio di possibilità, utiliz­zando e trasformando generi preesistenti. Certo sarebbe assurdo voler ricondurre le cento novelle a schemi precisi e rigorosi; si possono però indivi­duare alcune tipologie ricorrenti che naturalmen­te vanno applicate con una certa elasticità:
1) la novella-azione, costituita da una pura successione di fatti in cui non contano tanto i personaggi quanto gli avvenimenti nei quali essi sono coinvolti e il loro susseguirsi secondo un ritmo che è insieme di sorpresa e di casualità;
2)  la novella-romanzo, fondata non più sull’azio­ne, ma sulla realtà interna dell’uomo, sulle passioni, i sentimenti, gli impulsi che ne provocano le avventure;
3) la novella-motto, che ha la misura del racconto breve in cui la semplicità della trama serve a mettere in luce una risposta pronta e arguta;
4) la novella-beffa, incentrata su inganni, beffe coniugali, situazioni e spunti burleschi in cui ciò che conta è il tranello teso con abilità e studiato esattamente per dare scacco all’antagonista;
5) la novella esemplare nella quale il personaggio, trovandosi ad affrontare una prova difficile, manifesta capacità e virtù che ne fanno un esempio, un modello di valori laici senza alcun riferimento alla realtà ultraterrena.
Lo stile - Con il Decameron Boccaccio non ha soltanto condotto a perfezione il genere novellistico, ma ha anche elaborato una lingua letteraria ricca e mobile, nella quale si intrecciano differenti registri, da quello alto e solenne a quello più basso e popola­re, di volta in volta adeguati alla varietà delle si­tuazioni e dei personaggi. Nelle parti narrative prevale un periodare ampio, sinuoso, nel quale si incastonano numerose subordinate sia esplicite sia implicite; nelle parti dialogate la lingua diventa più agile, intessuta di frasi brevi che riproducono il parlare quotidiano. La prosa di Boccaccio presenta una grande varietà di modi, di toni e di registri, sempre pienamente correlati alla materia narrata.
Versatile e mutevole, la scrittura boccaccesca sa essere aristocratica, umile e popolaresca, commossa. Assume tonalità ora poetiche, ora grottesche, ora tragiche, ora comiche; altre volte mantiene un tono medio in cui si neutralizzano i contrasti della vita. Grazie alle sue variegate articolazioni, alla perfezione della struttura sintattica che riecheggia il perio­dare classico, alla molteplicità dei ritmi e del fraseggio, la prosa boccaccesca sarà per secoli il modello a cui guarderanno con ammirazione i narratori d’Italia e d’Europa dei secoli successivi.
· Il Decameron segna il culmine e la conclusione della sua stagione artistica, giacché ad essa nulla aggiungerà il successivo Corbaccio, violenta satira antifemminista, che trae spunto da un’esperienza personale dello scrittore. L’opera racconta che l’autore si trova in un labirinto d’amore ed incontra una vedova dalla quale è respinto. In sogno gli viene il marito e gli dice come conquistare sua moglie, ma in cambio gli chiede di scrivere un’opera su sua moglie.
· Quanto alle opere erudite dell’ultimo periodo, se testimoniano la passione culturale dello scrittore, sono però di tipo convenzionale e tradizionale. Fanno eccezione, per il ca­lore che li pervade e per gli elementi che hanno offerto ai futuri interpreti e commenta­tori della Commedia, gli scritti che egli dedicò a Dante: il Trattatello in laude di Dante e il Commento ai primi diciassette canti dell’Inferno, frutto delle letture sul testo dan­tesco da lui tenute pubblicamente, per incarico del Comune, nella chiesa fiorentina di Santo Stefano in Badia.

Il Rinascimento e la sua periodizzazione – L’espansione economica e politica degli Stati ita­liani aveva creato una condizione di benessere e, presso le classi dominanti, una larghezza di mezzi finanziari e un tenore di vita prima sconosciuti. Queste condizioni, esaltate da quarant’anni senza guerre intercorrenti tra la pace di Lodi del 1454 e la calata di Carlo VIII nel 1494, portarono al Rinascimento.
Esso è un movimento vasto e complesso che si estende dagli ultimi decenni del Trecento alla metà circa del Cinquecento, e che propone una nuova concezione della vita e nuovi orientamen­ti nel pensiero e nell’arte.
La prima fase del Rinascimento, compresa fra la fine del Trecento e la fine del Quat­trocento, è designata col nome di Umanesimo. In esso ha le radici il Rinascimento vero e proprio, la cui originale e splendida fioritura si manifestò nella prima metà del Cinquecento: a quest’epoca appartengono poeti come Ariosto, pensatori come Machiavelli, artisti come Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano.


Il Rinascimento
L’Umanesimo e la rinascita del mondo classico - Il nome di Umanesimo deriva dal fatto che in questo periodo l’interesse appassionato degli uomini di cultura si volge alle opere dei classici, chiamate humanae litterae perché giudicate apportataci di humanitas, cioè di civiltà e di raffinatezza spirituale.
A differenza di quanto avveniva nel Medioevo, quando gli autori classici erano accetta­ti e usufruiti solo nella misura in cui non contraddicevano all’imperante concezione cri­stiana dell’esistenza, gli umanisti vogliono invece recuperare in­tegro il messaggio dei classici, senza diaframmi interpretativi e senza stravolgimenti. In verità quest’esigenza era già presente in Petrarca che in questo senso può essere considerato un preumanista; con la differenza però che Petrarca era un caso pressoché isolato nel suo tempo, mentre nell’Umanesimo questo nuovo modo di accostarsi alla classicità si diffonde ad ampio raggio e da luogo a un vasto movimento culturale.
Gli umanisti non limitano il loro interesse allo studio dei testi classici già conosciuti e in circolazione, ma s’impegnano nel­la ricerca di quei testi che durante le invasioni barbariche e le devastazioni dell’Alto Medioevo erano andati perduti. Intraprendono a questo scopo viaggi per l’Europa, fa­cendo ricerche soprattutto nelle biblioteche dei conventi, dove si presumeva che molti li­bri avessero potuto salvarsi dalle distruzioni e dai saccheggi. Erano ricerche faticose, dispendiose, ma a volte anche fruttuose.
Non sempre i testi classici in circolazione, o dei quali si scopriva l’esistenza, erano per­venuti indenni dalle tumultuose vicende dell’Alto Medioevo o dall’impegno moralizzatore di chi pure voleva che fossero usufruiti. In tal caso gli umanisti si dedicano ad un’operazione che potremmo definire di restauro interno: confrontando pazientemen­te codici diversi di una stessa opera eliminano le modifiche in essi variamente introdot­te, recuperano passi soppressi, così da riportare i testi il più possibile alla loro lezione ori­ginaria.
L’interesse degli umanisti si volge in un primo tempo ai classici latini; ma successiva­mente anche a quelli greci, specie dopo che, caduta Costantinopoli in mano ai Turchi nel 1453, molti dotti greci emigrano in Italia diffondendovi l’insegnamento della loro lin­gua e la conoscenza dei loro autori.

La rinascita del latino – Conseguenza dell’interesse per il mondo classico è la revivi­scenza nell’età umanistica del latino, cui si accompagna spesso il disprezzo per la lin­gua volgare. Il latino non solo è la lingua della cultura, ma diventa anche, nella prima fase dell’Umanesimo, quella della poesia, dove pure sembrava, dopo Dante e il Petrarca, che il volgare dovesse ormai dominare incontrastato.
Solo dopo la metà del Quattrocento, quando sarà evidente che la lingua di una ci­viltà passata, per quanto splendida, non può esprimere adeguatamente la sensibilità e il pensiero di un’età nuova, quali che siano le sue analogie col passato, il volgare tornerà ad affermarsi. In volgare scriveranno esclusivamente o prevalentemente i poeti della se­conda metà del Quattrocento, dal Magnifico al Poliziano, al Pulci, al Boiardo; e il volgare sarà poi la lingua indiscussa del Cinquecento.

La visione antropocentrica del Rinascimento – Alla concezione teocentrica del mondo che aveva dominato nel Medioevo si oppone nel Rinascimento una concezione antropo­centrica, quella tramandata dal mondo classico, che colloca l’uomo (anthropos in gre­co) al centro dell’Universo. E non è l’uomo che, vivendo sulla terra, è tuttavia proteso verso la vita eterna, ma l’uomo che pone in primo piano la vita sul nostro pianeta, la considera valida di per sé, per i suoi autonomi valori, e cerca di affermarsi in essa con l’intelligenza, la capacità, il coraggio. Che è poi un modo di vita che già era presente nel Decameron del Boccaccio.

L’autonomo affermarsi delle scienze umane – La concezione antropocentrica del mon­do si riflette nel pensiero e nella cultura rinascimentali.
Viene meno la subordinazione medioevale delle varie branche del sapere alla teologia:
·         La filosofia afferma il suo dirit­to alla libera speculazione razionale, senza limiti e condizionamenti teologici.
·         Le scien­ze naturali cessano di riconoscere come scientificamente indiscutibili le affermazioni contenute nei Libri sacri, e cercano la verità sui fenomeni terreni nello studio diretto e sperimentale della natura.
·         La storia non è più considerata il campo dell’azione provvi­denziale di Dio, ma dell’azione e dell’impegno dell’uomo.
·         La politica, anziché strumen­to per condurre l’umanità a una perfezione terrena che preluda a quella celeste, diventa una scienza con leggi proprie che si pone come fine la costruzione e il mantenimento di uno stato.
·         L’arte non si propone più il fine pedagogico di educare e migliorare moralmente gli uomini, ma il fine edonistico (dal gr. hedoné = piacere) di creare bellezza che per gli uomini sia fonte di gioia.
Tutto il Rinascimento è percorso dalla convinzione della potenza dell’uomo sulla terra. Scrive un umanista, Marsilio Ficino: «L’uomo si serve degli elementi, misu­ra la terra e il cielo, scruta la profondità del Tartaro. Il cielo non gli sembra troppo al­to, né il centro della Terra troppo profondo... Nessun confine gli basta. Dovunque si sforza di comandare, di essere lodato, di essere eterno come Dio».

La terra casa dell’uomo – Poiché il momento centrale della vita umana è quello terreno, acquista nuovo valore la terra, che è la dimora dell’uomo. Ad essa il Rinasci­mento non guarda più come a un’emanazione di Dio, pervasa da anelito verso Dio co­me nel Cantico delle Creature di San Francesco, né come al luogo delle vane passioni umane, «l’aiuola che ci fa tanto feroci», che Dante vede dal Paradiso; ma come a luogo che appartiene all’uomo e alla sua iniziativa, che va indagato nella sua interna struttura e nelle leggi che vi agiscono, che va scoperto nei suoi spazi geografici ancora ignoti, che infi­ne va goduto nella sua bellezza.
Alla conoscenza della struttura e delle leggi naturali del nostro pianeta è diretto il nuovo metodo di ricerca instaurato da Leonardo da Vinci, il metodo sperimentale. Le terre ignote sono raggiunte dall’infittirsi di quelle imprese di navigatori e di scopri­tori già iniziate nei secoli precedenti. La natura con la sua variegata bellezza campeggia nelle tele dei pittori e, sotto forma di splendidi giardini, diventa elemento architettonica delle dimore signorili. E fa infine la sua irruzione nella poesia, dal Magnifico e da Poliziano al Furioso di Ariosto, sotto forma di roseti in fiore, di alberi, acque, prati attraverso i quali si esprimono gli stati d’animo dei personaggi o che diventano parti delle loro vicende.

Le corti, centri culturali del Rinascimento – Centri culturali del Rinascimento sono le corti dei vari Signori che traggono lustro dalla presenza di poeti, studiosi, artisti. I quali a loro volta vi trovano un ambiente ricco e confortevole, biblioteche ben fornite, possibilità di lavoro, occasioni di incontro con altri uomini d’arte e di cultura, sicurezza economica. Elemen­ti che concorrono non poco alla fioritura intellettuale e artistica di quest’età. Ma la vita di corte ha una contropartita negativa: limita la libertà dell’artista e del poeta condizionandola alla protezione e qualche volta alle esigenze del Signore, e inoltre favori­sce la nascita di un’arte d’elite, che ha nella corte la sua origine e la sua esclusiva destinazione.

Intellettuali e pubblico nel Rinascimento – In età umanistica, mentre nella Firenze repubblicana persisteva l'intellettuale comunale, nel resto d'Italia la figura dominante era quella dell'intellettuale cortigiano. Quest'ultimo, a differenza di quello che caratterizzava l'età comunale, non traeva sostentamento da altre professioni, ma faceva della conoscenza il proprio mestiere. Questo intellettuale era alle dipendenze di un signore, un mecenate, il quale lo proteggeva in cambio dei suoi servizi.
L'aspetto negativo di questa situazione era che l'artista perdeva ogni autonomia a causa di questa sorta di sottomissione; quello positivo era che egli poteva dedicarsi completamente alla sua attività grazie al mantenimento dato dal signore. Chi, invece, non voleva entrare a far parte di una corte, ma comunque era sua intenzione occuparsi solamente del lavoro di intellettuale, l'unica alternativa era la condizione clericale. Questa consisteva nel semplice usufrutto dei beni ecclesiastici senza, però, l'obbligo della cura delle anime. Per quanto riguarda il pubblico del primo `400 questi ritornò ad essere un gruppo elitario. Questo perché, mentre nel `200 e `300 la traduzione dei testi e la loro divulgazione si affermarono, nell'Umanesimo tornò ad essere determinate l'uso di un latino raffinato e modellato in base alle opere classiche.
Dunque la produzione umanistica era a circuito chiuso. Anche se successivamente c'era stato un ritorno al volgare, si trattava, di nuovo, di una creazione elitaria rivolta a dei colti dai modi aristocratici. Inoltre, nonostante l'invenzione della stampa da parte di Gutenberg, il libro continuava ad essere un oggetto per pochi. Gli unici testi che circolavano tra la popolazione erano gli almanacchi e qualche opera devozionale.
Nel Rinascimento, comprendendo anche il momento manierista, l'intellettuale cittadino era in netto declino. Continuava, invece, ad affermarsi con decisione il fenomeno del Mecenatismo.
L'intellettuale, quindi, si identificava maggiormente in quello cortigiano. La richiesta incessante degli artisti nelle corti era il motivo del loro spostamento continuo, poiché davano lustro al proprio signore.
Verso la fine del `400, però, le corti persero potere a causa della debolezza politica degli Stati italiani, a danno anche degli intellettuali stessi. Essi, non trovando più una determinata identità, cercarono altre forme d'aggregazione, come le accademie. Come era accaduto nell'Umanesimo, anche nel Rinascimento molti studiosi intrapresero la carriera religiosa. Gli intellettuali di questo periodo, però, sono i primi ad avere una certa ribellione nei confronti di tutti quei precetti che, invece, rendevano orgogliosi chi li seguiva. Gli appartenenti a questa sorta di opposizione facevano parte di quella corrente detta Manierismo. Comunque anche il pubblico rinascimentale,come quello che aveva caratterizzato l'Umanesimo, era formato da una cerchia ristretta di individui. Solamente le rappresentazioni teatrali erano momenti di partecipazione collettiva del popolo, caratterizzato da un altissimo tasso di analfabetismo. L'era barocca è stata una fase in cui gli intellettuali focalizzarono la loro attenzione sulla generale decadenza economica,sociale e politica in Italia,la quale era soggetta da un lato all'egemonia spagnola e dall'altro soggetta all'affermazione della Controriforma cattolica. Gli intellettuali sul piano artistico ,preferiscono l'effetto al gusto,la forma al contenuto. Il Barocco, dunque, rappresenta un grandissimo cambiamento rispetto alle precedenti correnti. Gli intellettuali tendevano a rifiutare il culto dell'autorità dei modelli classici e la loro rivendicazione di autonomia,di autorità letteraria contro la precettistica si traduceva in una ricerca continua di meraviglia e di stupore. In questo periodo agli intellettuali si poneva il problema di un pubblico nuovo,assai più ampio di quello delle corti rinascimentali(ormai in profonda decadenza);ma la letteratura che gli intellettuali offrivano era spesso evasiva,per un pubblico molto più arretrato culturalmente.

L’arte rinascimentaleIl periodo del Rinascimento (dal Quattrocento alla prima metà del Cinquecento) coincise con l'instaurazione del sistema politico assolutistico dei grandi Stati nazionali che caratterizzò l'Europa moderna. Se nella vita politica si affermò l'onnipotenza della monarchia, nella storia socio-economica assunse rilievo centrale la figura del mercante, mentre l'equilibrio tra città e campagna era attraversato da forti tensioni provenienti dal mondo agrario.
Il Rinascimento fu un fenomeno europeo, ma le sue radici furono italiane, anzi fiorentine: infatti fu l'umanesimo fiorentino (F. Petrarca, L. Bruni, M. Ficino ecc.) a promuovere inizialmente il recupero di testi latini e greci, a riassimilare per primo i modelli dell'antichità classica nei campi dell'arte e della vita intellettuale, a riscoprire il mondo, l'uomo e la natura quali luoghi primari di elaborazione del sapere. Le manifestazioni più emblematiche dell'estetica rinascimentale scaturirono dalle arti visive e dall'architettura (alle quali furono dedicati anche testi e trattati normativi sulla prospettiva e la "città ideale"), resi possibili grazie al mecenatismo sia delle corti italiane sia del papato romano.
Apertosi simbolicamente nel 1401 con il concorso tra Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti per la seconda porta del battistero di Firenze, il Rinascimento si protrasse fino alla metà del sec. XVI. Si configurò come fenomeno tipicamente italiano e stimolatore di nuove energie, anche se venne a maturazione nel clima generale di rinnovato interesse naturalistico comune a tutta l'arte europea, in particolare parallelamente e in fecondo intreccio con l'umanesimo nordico nato nelle Fiandre.
a) Il concetto di Rinascimento – Il concetto di Rinascimento come ripresa degli ideali e delle forme dell'arte classica, dopo il Medioevo, trovò la sua esposizione sistematica nell'opera letteraria di Giorgio Vasari (Vite de' più eccellenti architetti, scultori e pittori, edita a Firenze nel 1550), che individuò il germe della rinascita nella pittura di Giotto e nella scultura di Nicola Pisano.
La sintesi di Giotto fu recuperata e superata largamente a Firenze agli inizi del Quattrocento da un architetto, F. Brunelleschi, uno scultore, Donatello, e un pittore, Masaccio. Costoro attuarono una rivoluzionaria trasformazione della concezione e delle funzioni dell'attività artistica: nelle loro mani l'arte, non più attività meccanica, ma intellettuale, diventò strumento di conoscenza e di indagine della realtà, cioè disciplina basata su precisi fondamenti teorici. Tali fondamenti sono riconoscibili per la prima volta nell'invenzione della prospettiva da parte di Brunelleschi. Le possibilità fornite dal mezzo prospettico di misurare, conoscere e ricreare uno spazio a misura umana furono espresse nella nitida scansione geometrica delle architetture di Brunelleschi, nel proporzionato ambito spaziale che accoglie le figure eroiche dei rilievi di Donatello e dei dipinti di Masaccio.
Filippo Brunelleschi è universalmente considerato il pioniere del Rinascimento italiano e l'artefice di una concezione dell'architettura che avrebbe dominato la scena artistica europea, almeno fino al XIX secolo. Attraverso un appassionato studio dell'antichità, che lo portò più volte a Roma a partire dal 1402, egli reagì all'anticlassicismo dell'architettura e della cultura artistica tardogotica, rifacendosi con coerenza al linguaggio degli antichi e proponendo nuovi sistemi progettuali basati sulla modularità delle strutture. A lui è attribuita l'invenzione della prospettiva a punto unico di fuga, cioè di un metodo per rappresentare razionalmente lo spazio riportandolo a rigorose formule matematiche. La stessa architettura classica era riproposta da Brunelleschi come esempio dell'esatta misurabilità dello spazio, della possibilità concreta di sottoporre a formule matematiche tutta la corposa realtà dello spazio architettonico.
Con Brunelleschi si inaugurò una nuova figura sociale di architetto e si definì un nuovo sistema di organizzazione del cantiere e del lavorio edilizio. L'architetto non era più un sovrintendente ai lavori, dotato di pari dignità rispetto a maestranze in larga misura autonome, come accadeva in età medievale, bensì un intellettuale, colto e aggiornato, che concepiva e dettagliatamente preparava il progetto della struttura generale e dei particolari dell'edificio, progetto al quale doveva conformarsi l'attività degli operai, degli artigiani e dei decoratori impegnati nei lavori.
L'artista che per primo, e con estrema coerenza, cercò di trasporre in campo pittorico gli ideali laici, classicistici e razionali elaborati da Brunelleschi, fu Masaccio. La sua carriera artistica, per quanto brevissima, segnò uno spartiacque preciso tra fasi storiche diverse. Con Masaccio le vicende della pittura, imboccavano un nuovo corso, quella della raffigurazione dell'uomo reale, dotato di sentimenti terreni e sopratutto di un corpo solido, naturale, ben costruito sulla scorta dei prototipi antichi e dello studio dal vivo. E questa umanità era collocata in uno spazio regolato dalle leggi obiettive della visione oculare, cioè costruito secondo le regole della prospettiva brunelleschiana.
Accanto a Brunelleschi e Masaccio, Donatello fu il terzo grande innovatore del primo Rinascimento fiorentino. Anch'egli ruppe con decisione nei confronti della tradizione tardogotica, elaborando nuove forme all'interno del filone di ricerca più caratteristico della maniera moderna: la riscoperta della realtà naturale e l'assunzione delle forme antiche. La sua fu un'esperienza complessa, fatta di scarti continui verso mete artistiche sempre discusse, negate e mutate. Ma Donatello, ed è una grande novità, ebbe sopratutto una straordinaria capacità di descrivere una gamma vastissima di atteggiamenti e moti dell'animo; inoltre, nelle sue opere il sentimento personale dell'autore sembra più volte trasparire: le figure bibliche, evangeliche o mitologiche, divengono le portavoci del loro creatore.
Questo antropocentrismo, per cui l'uomo è "misura di tutte le cose", rientra nel grande programma di renovatio dell'antichità classica che gli artisti del Quattrocento si proposero di attuare. L'antico tuttavia non fu inteso, in questa prima fase, come un modello da imitare, bensì come coscienza storica del passato, fonte di ispirazione per elaborazioni autonome.
In questa linea Donatello risuscitò il nudo classico (David bronzeo del Bargello), ricreò il ritratto romano, realistico ed eroico, ripropose il tema del monumento equestre (Gattamelata a Padova), e su questa linea si mosse tutta la scultura fiorentina del secolo fino a Michelangelo.
b) Il  mecenatismo nell'Italia settentrionale – La corte signorile divenne il luogo privilegiato per lo sviluppo del Rinascimento italiano anche nelle città minori. Gli spostamenti di Donatello a Padova e di Leon Battista Alberti a Mantova avviarono le esperienze dell'umanesimo settentrionale, dalla pittura di A. Mantegna a quella lombarda di V. Foppa, e fornirono stimoli alle più originali e autonome esperienze maturate a Ferrara e Venezia.
Sotto la signoria degli Este, anzi per volontà di Ercole I d'Este, Ferrara accolse l'esperienza urbanistica più vitale del Quattrocento, l'addizione erculea progettata (a iniziare dal 1492) da Biagio Rossetti, cioè la grandiosa espansione della città verso nord basata su una rete di strade rettilinee e larghe ai cui incroci dovevano sorgere grandiosi palazzi. La contemporanea presenza in Ferrara di Piero della Francesca e del fiammingo R. van der Weyden stimolò la formazione di una corrente pittorica di straordinaria raffinatezza formale, i cui maggiori rappresentanti furono Tura, del Cossa e de' Roberti, la quale esercitò un duraturo influsso sulla cultura pittorica in Emilia.
La Repubblica di Venezia, tesa ad ampliare i suoi domini nell'entroterra e venuta quindi a contatto con Padova e Verona, accolse artisti da Firenze (Paolo Uccello, Andrea del Castagno) e diede vita a una fiorente scuola pittorica il cui indiscusso capofila fu Giovanni Bellini. Sempre a Venezia giunse a maturazione l'esperienza di Antonello da Messina, formatosi nella Napoli degli Aragonesi, aperta ad apporti spagnoli e franco-fiamminghi.
c) Il mecenatismo nell'Italia centrale – Nell'Italia centrale assurse a grande centro di cultura artistica Rimini: vi operarono Alberti (Tempio Malatestiano), Piero della Francesca, scultori, decoratori e medaglisti. A poca distanza, Federico II da Montefeltro fece di Urbino la sede di una corte raffinatissima, presso la quale operarono architetti come L. Laurana e Francesco di Giorgio Martini, pittori italiani (Piero della Francesca, Paolo Uccello) e stranieri (il fiammingo Giusto di Gand, lo spagnolo Pedro Berruguete, 1450-1506), maestranze di scultori e decoratori; in tale clima culturale maturarono le eccelse esperienze del Bramante e di Raffaello. Pietro Perugino ebbe invece un ruolo fondamentale nella diffusione della scuola umbra.
d) Il mecenatismo nell'Italia meridionale – Nella seconda metà del Quattrocento Napoli non ricoprì un ruolo culturale paragonabile a quello esercitato da Firenze, Ferrara o Urbino, tuttavia diede un apporto essenziale allo sviluppo della pittura rinascimentale con l'attività di alcuni artisti, quali Colantonio e Antonello da Messina che a Napoli appunto si formarono. Determinante a fissare quel clima culturale e artistico fu la diffusione di opere fiamminghe (Roger Van der Weyden e Jan Van Eyck) raccolte dai sovrani d'Angiò e d'Aragona.
Colantonio (Napoli ca 1420-70) ebbe un'importante collocazione nel mondo culturale napoletano, ricco di fermenti umanistici e aperto agli apporti borgognoni, iberici e soprattutto fiamminghi. Nel S. Gerolamo e il leone (1445, Napoli, Capodimonte) l'artista ripropone infatti un ambiente tipicamente fiammingo.
e) Firenze nella seconda metà del QuattrocentoNella seconda metà del Quattrocento Firenze era ancora la capitale incontrastata della cultura italiana e il mecenatismo dei Medici toccò il punto più alto alla corte di Lorenzo il Magnifico. Ma già prima della sua morte, l'asse delle esperienze artistiche italiane più vitali cominciò a spostarsi in altri centri, sia perché le novità proposte dagli artisti fiorentini del primo Quattrocento avevano fatto scuola al di fuori di Firenze, sia per la tendenza dell'arte fiorentina a chiudersi in se stessa. Le figure più rappresentative di questa seconda fase fiorentina furono Antonio Pollaiolo e Andrea Verrocchio. Emblematico fu inoltre il caso di Sandro Botticelli che, dapprima interprete delle idee neoplatoniche circolanti alla corte di Lorenzo de' Medici, alla morte di quest'ultimo e con la crisi seguita alla condanna della cultura neoplatonica da parte di Savonarola, realizzò infine opere sempre più drammatiche. Di tale crisi risentì anche Luca Signorelli, nonostante non fosse strettamente legato all'ambiente fiorentino.
f) l’arte fiamminga – Nella storia dell'arte, l'espressione 'arte fiamminga' viene applicata alle manifestazioni artistiche, specialmente pittoriche, fiorite con ben definite caratteristiche storiche e stilistiche nelle Fiandre (regioni meridionali dei Paesi Bassi e regioni settentrionali del Belgio) a partire dal sec. XV fino al XVII.
L'arte fiamminga ha le sue origini verso la metà del Trecento per il confluire di esperienze del raffinato gotico francese e di influssi senesi sul fondo del vivace naturalismo locale, ma soltanto nel secolo seguente, con Jan Van Eyck (ca 1390 - Bruges 1441, le cui opere più celebri sono i Coniugi Arnolfini (1434, Londra, National Gallery) e la Madonna del cancelliere Rolin (1433, Parigi, Louvre) oltre a numerosi ritratti, si affermò nei suoi caratteri essenziali. La grande protagonista dell'umanesimo fiammingo, che nasce parallelamente all'umanesimo italiano, è la natura, indagata con lenticolare attenzione in tutte le sue particolarità e di cui l'uomo è aspetto fondamentale ma non predominante; e il fattore unificante della visione non è la concezione razionale e geometrica dello spazio, ma la luce, principio stesso della visione, una luce reale e non astratta. Questa poetica venne arricchita dalle ricerche di Robert Campin (Tournai ca 1375 - 1444) identificato con il Maestro di Flémalle; dalle tendenze più drammatiche di Roger Van der Weyden (Tournai ca 1400 - Bruxelles 1464), che si interessò al particolare realistico e all'analisi della psicologia umana unitamente alla sensibilità luministica e produsse un'importante serie di ritratti come Il Gran Bastardo Antonio di Borgogna di Bruxelles e la Giovane donna di Berlino; dall'intimismo di Petrus Christus (Baerle, Gand ca 1410 - Bruges 1472/73); dalla severità morale e dalla luminosità di Dierik Bouts (Haarlem 145 - Lovanio 1475); dall'intenso naturalismo di Hans Memling (Mömligen ca 1435 - Bruges 1494). Un posto di rilievo trova la eterodossa, visionaria arte di Hieronymus Bosch (ca 1450-1516), creatore di un magico e demoniaco mondo di allegorie, visto con spirito critico e moraleggiante.
Intanto, nel corso del sec. XV, la pittura fiamminga aveva esteso il suo influsso a livello europeo, dalla Francia meridionale alla Spagna e al Portogallo (dove Van Eyck viaggiò nel 1428), dai paesi tedeschi alla stessa Italia dove si ricordano i viaggi di Van der Weyden a Ferrara nel 1450, dell'altro pittore Giusto di Gand (attivo tra il 1460-75) a Urbino nel 1473-75, e l'influsso esercitato da opere importate dalle Fiandre come il celebre Trittico Portinari (1476 ca) di Hugo Van der Goes (1435-1482) a Firenze.
g) Il maturo Rinascimento – Il Cinquecento fu un secolo caratterizzato da laceranti e drammatici contrasti: la scossa della riforma protestante di Lutero (1517), i successivi sviluppi della controriforma cattolica. Eventi che alterarono profondamente i termini dell'operare artistico: l'arte diventò ricerca inquieta delle ragioni dell'azione umana nella storia, dell'esperienza umana del divino. Questi contrasti si rispecchiarono in modo esemplare nelle esperienze dei più grandi artisti del momento: nell'indagine sperimentale di Leonardo; nella bruciante tensione spirituale di Michelangelo; nel misurato e luminoso classicismo compositivo di Raffaello. Venezia parve vivere più a lungo una felice stagione di classicismo, nella pittura di Giorgione e del primo periodo di Tiziano. Ma la vera erede del prestigio di Firenze fu Roma, che dopo il ritorno dei papi da Avignone aveva conosciuto, per il mecenatismo papale, un intenso rinnovamento edilizio e culturale.



La lirica – Nel Quattrocento la produzione lirica è copiosissima, ma non nascono grandi poeti e opere di spicco, almeno fino agli ultimi decenni del secolo. La poesia tende a divenire una forma di letteratura slegata da finalità intellettual­mente importanti; si affievolisce cioè la funzio­ne che aveva avuto nei secoli precedenti, quando la poesia aveva trattato anche temi filosofici, morali, politici, ecc.
Anche la ricerca di forme nuove subisce una battuta d’arre­sto e i poeti preferiscono ripercorrere le orme della tradizio­ne: la lirica del Duecento, Dante e Petrarca, ma anche la poe­sia popolare e quella giullaresca, sono tutti modelli ripresi e imitati nel Quattrocento, senza che si manifesti una tenden­za dominante.
Un aspetto comune alla lirica del Quattrocento è l’affermar­si delle forme poetiche più legate al consumo; per esempio, diventa più vasta la poesia per musica e, più in generale, si sviluppa la poesia d’occasione, quella scritta in concomitan­za e per celebrare i piccoli e i grandi avvenimenti della vita di corte.
Tra i molti poeti che appartengono ad aree geografiche di­verse, ricordiamo Agnolo Poliziano, Matteo Maria Boiardo, Iacopo Sannazaro e Lorenzo de’ Medici.
Un discorso a sé merita la lirica latina che si sviluppò soprat­tutto nei centri umanistici di Siena, Firenze e Napoli e che vis­se all’interno di un ristretto gruppo di intellettuali.
Dopo la molteplicità delle esperienze quattrocentesche, nel nuovo secolo la produzione lirica sembra incanalarsi verso l’assunzione del modello petrarchesco; questa tendenza, dapprima incer­ta, trova una consacrazione definitiva nell’opera di Pietro Bembo e porta, dopo il 1530, a una vera esplosione della produzione lirica.
Bembo propone infatti il linguaggio del Canzoniere di Petrarca come modello assoluto della poesia lirica, ma anche le situazioni, le mille sfumature della contemplazione, del sogno, del pen­siero amoroso, i modi in cui l’amore si manifesta come gioia, nostalgia, ricordo. Il dissidio di fondo della poesia petrarchesca rimane estraneo a questa lettura che sicuramente ap­piattisce l’opera di Petrarca, ma nello stesso tempo la trasforma in un formidabile «serbatoio» cui attingere temi, imma­gini e anche rime, aggettivi e interi versi. Il fenomeno, chiamato petrarchismo, trionfa ben presto in Italia e in Europa e tra­valica i limiti del Cinquecento; esso fornisce un modello e delle regole così precise, funzionanti e applicabili a infinite si­tuazioni tanto che la produzione lirica diventa un fenomeno di massa, nel senso che tutti coloro che in qualche modo han­no a che fare con la letteratura scrivono poesia, magari utilizzandola come scuola di apprendimento della lingua lette­raria o come strumento da usare nei rapporti mondani.
Naturalmente ci sono anche poeti che pur nell’alveo del petrarchismo espressero una loro originalità; tra questi ricordiamo le voci di Giovanni Della Casa, Luigi Tansillo, Michelangelo Buonarroti, e fra le poetesse Gaspara Stampa e Veronica Franco.
Anche la produzione lirica risente fortemente dei mutamen­ti culturali che percorrono il Cinquecento. Dopo la metà del secolo si afferma una poesia religiosa; inoltre la grande quantità di accademie letterarie promuove la compo­sizione di tante poesie che nascono per celebrare i diversi mo­menti della vita accademica: la lirica d’occasione già diffusa nelle corti, trova quindi un ulteriore sviluppo.
Da ricordare infine che accanto alla lirica d’amore e a quella impostata su toni alti, continua a essere presente nella prima parte del secolo una produzione burlesca che ebbe in France­sco Berni l’autore più interessante.

La novella – Nei primi decenni del Cinquecento, la produzio­ne di novelle fu scarsa e non riesce ad affrancarsi dall’imitazione del modello boccaccesco. Il genere trovò una nuova vivacità nella seconda metà del Cinque­cento grazie ad autori che propongono soluzioni narrative di una certa novità: ricordiamo i nomi del piemontese Matteo Bandello, del ferrarese Giambattista Giraldi Cinzio, del toscano Anton Francesco Grazzini detto il Lasca.

Il trattato - La dimensione e la vitalità della cultura umanistica si rispecchia con evidenza nella produzione di trattati che fu assai vasta e riguardò soprattutto argomenti filosofici, letterari, linguistici e politici.
Una delle for­me di trattato più diffusa fra gli umanisti è il dialogo: l’auto­re immagina una situazione e un luogo, in genere una casa o un giardino, nel quale fa incontrare un certo numero di per­sonaggi, reali o immaginari, e fa sì che il discorso si indirizzi su un argomento. Ognuno dei personaggi espone una propria tesi, in modo che il discorso procede per verifiche successive, attraverso mediazioni o scontri di opinioni. La con­clusione non è, quindi, l’affermazione certa di una verità; è il lettore che deve ricavare dal confronto delle idee gli elemen­ti per una personale elaborazione dell’argomento.
È questa una delle strade che gli umanisti intrapresero rinnovando profondamente la tradizione medievale del trattato e dando ad esso una nuova eleganza e un’impostazione più libera dello sviluppo delle argomentazioni.
Fino agli ultimi decenni del Quattrocento la lingua principe del trattato rimane il latino, ma nella seconda metà del seco­lo si afferma anche una trattatistica in volgare impegnata nel­la riflessione teorica sulle varie «arti» e sulle tematiche civili.
Figura centrale di questa riconversione del trattato dal latino al volgare fu Leon Battista Alberti il quale indicò i due filoni tematici all’interno dei quali la trattatistica in volgare si affermò con maggior forza nella seconda metà del Quattrocen­to: la riflessione sulla dimensione familiare e civile dell’individuo e la riflessione teorica sull’arte.
Nel Quattrocento i trattati in latino e in volgare diedero voce al dibattito attraverso il quale si affermò la cultura umanistica. Il genere continua nel Cinquecento ad avere un ruolo di primo piano, trasformandosi in relazione ai mutamenti del­le tendenze culturali: da una parte continua la trattatistica in latino che circola in ambiti specialisti­ci, dall’altra compare una nuova trattatistica, l’espressione più viva e interessante del momento culturale; scritta in ita­liano, riguarda diversi settori e tende a fissare la fisionomia della nuova cultura, a scriverne le «regole».
In particolare nei primi decenni del secolo alcuni intellettuali fanno compiere un salto qualitativo di grande importanza al dibattito culturale, fissando con i loro trattati le coordinate dell’intera civiltà rinascimentale in Italia e in Europa. Il trattato si afferma così come luogo privilegiato nel quale vengono posti i fondamenti della letteratura, della politica, della lingua, del comportamento sociale.

I libri che fondarono una civiltà – La politica e l’arte del governare ebbero una nuova definizione proprio nel momento storico in cui la penisola era contesa da Francia e Spagna e avveniva la trasformazione di alcune signorie in principati, ma incontrando difficoltà nel dare un’organizzazione moderna allo Stato.
Niccolò Machiavelli con Il Principe e Francesco Guicciardini con gli scritti storici e I Ricordi pongono le basi della politica come scienza laica.
Altrettanto netto è il salto di qualità delle Prose della volgar lingua del 1525 di Pietro Bembo, il trattato che disegna il volto della lingua letteraria del Cinquecento e dei secoli successivi.
Un’altra opera fondamentale per la civiltà del Cinquecento è il Cortegiano del 1528 di Baldassar Castiglione. La discussio­ne sulla figura e sulle specifiche funzioni e caratteri dell’in­tellettuale di corte costituiva un argomento nuovo, moderno, reso urgente dai rapidi mutamenti del ruolo delle corti dall’ultima metà del Quattrocento ai primi anni del Cinquecen­to. Il Cortegiano forniva indicazioni che furono prese come modello in tutte le corti d’Europa e fecero di questo trattato un testo letto, studiato, imitato dall’Inghilterra alla Spagna. Dal libro del Castiglione si sviluppò un’ampia trattatistica sui costumi e sul comportamento del cortigiano che, sotto una veste letteraria a volte frivola, affrontò il tema, molto serio, del rap­porto fra intellettuale e potere.

Niccolò Machiavelli – Acuto testimone della storia del suo tempo e uno dei maggiori prosatori italiani, è il teorico di una politica rigorosamente razionale, come unica risposta possibile all'egoismo degli uomini.

La vita e le opere – Machiavelli nacque a Firenze nel 1469 quando la città di Lorenzo de' Medici era all'apice della potenza e del prestigio culturale, da una famiglia di nobili origini – i Machiavelli erano stati signori di Montespertoli trasferitisi a Firenze, sottomettendosi alla sua legge e dividendone le glorie – famiglia guelfa che diede alla città di Firenze ben tredici Gonfalonieri di giustizia e una cinquantina di Priori; la stirpe della madre originaria di Fucecchio era altresì di antica nobiltà e la famiglia diede a Firenze un Gonfaloniere e cinque priori.
La madre rimasta vedova con Niccolò in giovane età, si risposò con Francesco di Nello che era giureconsulto e tesoriere della Marca. Machiavelli ricevette un'educazione di tipo umanistico, inizialmente dalla madre che era anche poetessa.
La formazione di Machiavelli, come quella di tutti i giovani di buona famiglia del suo tempo, fu di tipo umanistico: studiò il latino e lesse i classici. Fin da allora, però, il suo interesse non era di natura estetico-letteraria, ma contenutistico; i classici lo interessavano non per il loro pregio artistico, ma nella misu­ra in cui trovava riflessi nelle loro opere i propri sentimenti e le proprie emozioni, e gli offrivano esperienze utili per la vita pratica. Questo spiega la sua predilezione per gli storici.
Nel 1494 fu allievo di Marcello Virgilio Adriani; la sua educazione fu caratterizzata dalla presenza del latino, ma non del greco antico. Va poi considerato che lesse opere come il De rerum natura di Lucrezio, allora quasi clandestine.
Interessato alla politica già nella giovinezza, approfittò della costituzione della Repubblica di Firenze per cercare di partecipare alla vita politica della sua città.
Nel 1498, dopo la cacciata dei Medici da Firenze e dopo il rogo di Savonarola, Niccolò Machiavelli fu eletto segretario della seconda cancelleria della repubblica fiorentina, assumendo importanti funzioni, tra cui quella di viaggiare all'estero per informare la città sui principali provvedimenti presi dai più importanti governi europei. L'entrare direttamente a contatto con le varie forme di governo, assieme alla sua passione per i classici, contribuirono alla formazione del suo pensiero.
Nel 1499 Machiavelli scrisse il Discorso fatto al magistrato de' Dieci sopra le cose di Pisa.
Dal 1500 al 1511 fu incaricato di svolgere diverse missioni diplomatiche per conto della Repubblica e del Papato. Negli anni passati al servizio della Repubblica partecipò a parecchie ambascerie: fra queste se ne ricordano due presso Cesare Borgia, due alla Corte papale, quattro presso Luigi XII re di Francia, una presso l’imperatore Massimiliano. Erano contatti che gli davano modo di osservare il comportamento, le astu­zie, le abilità di molti uomini politici e di acquisire quell’esperienza diretta della poli­tica che gli sarebbe stata preziosa poi nella composizione delle sue opere di teoria poli­tica.
Nel 1503, Machiavelli scrisse la Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini, una breve opera storica in cui sono ripercorse le vicende di Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, Paolo e Francesco Orsini, quarto duca di Gravina, che avevano partecipato ad una congiura contro Cesare Borgia, la cosiddetta congiura della Magione, nell’ottobre del1502, e credendo di rappacificarsi con lui furono da questi catturati e uccisi mentre si trovavano a Senigallia e ne stavano assediando la cittadella difesa da Andrea Doria. In quest’opera è già visibile il suo interesse per Cesare Bor­gia che nel Principe sarà poi proposto come modello ai politici italiani.
Nel 1510, Machiavelli scrisse il Ritratto delle cose di Francia in cui rileva che la corona di Francia è molto potente. Il primo luogo per l’ereditarietà della corona, le migliori terre di Francia sono in mano alla corona, in secondo luogo perché c'è un potere monarchico personalizzato: le terre appartengono alla corona ed essendo un’istituzione passano ai singoli re, che le trasmettono ai successori. In terzo luogo perché la corona francese mise fine alle autonomie e alle guerre feudali (accadevano quando il barone pensava di essere un piccolo monarca). Adesso c'è solo un re e i baroni ubbidiscono e lo difendono. In quarto luogo per il principio del maggiorascato: solo il figlio maschio maggiore eredità le proprietà di famiglia.
Nel 1512, con la caduta della Repubblica fiorentina e con il ritorno dei Medici a Firenze, le cariche tenute da Machiavelli nell’amministrazione repubblicana gli suscitarono contro i sospetti del nuovo governo e fu allontanato dal suo ufficio; in questo stesso anno scrisse il Ritratto delle cose della Magna in cui rileva il particolarismo e l'inesistenza di un potere centrale. C'erano conflitti tra Imperatore contro principi e città, fra Principi contro città. Questi conflitti, più il desiderio di indipendenza e lo spirito anti nobiliare portò la Germania a una situazione esattamente contraria da quella francese. Lo stato tedesco infatti non riesce ad emergere dalla frammentazione feudale.
Nel 1513, con il ritorno dei Medici a Firenze in seguito ad accordi presi con il re di Spagna,Machiavelli fu sospettato di aver partecipato ad una congiura antimedicea, incarcerato e sottoposto a tortura e nuovamente condannato al confino. Fu amnistiato poco dopo con l'elezione di papa Leone X dei Medici. Nello stesso anno si ritirò in completo isolamento nelle sue proprietà a San Casciano in Val di Pesa e qui, nell’ozio forzato, facendo tesoro delle esperienze acquisite e degli am­maestramenti che gli venivano dalle amate letture degli storici latini, i compose le sue maggiori opere di riflessione politica, il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.
Nel 1513, Machiavelli scrisse Il Principe, scritto di getto nel 1513, interrompendo la stesura dei Discorsi, in cui si propone di mettere al servizio di un principe che abbia la ca­pacità di creare a un vasto e forte stato in Italia, la propria esperienza politica e di illustrargli le leggi che devono guidare la sua azione. L'opera nasce come approfondimento delle riflessioni su quell’esperienza e sul suo fallimento, riflessioni che andavano trovando, nei diciotto capitoli già stesi dei Discorsi, il filo di una problematica incentrata sui principi che reggono le repubbliche e le cause per cui esse cedono e volgono a un ordinamento monarchico. L'interruzione di questo lavoro, ancora improntato dall'apparato della tradizionale etica politica, è segnato dalla necessità che spinge Machiavelli a volgersi verso le immediate esigenze della politica attuale, a sollecitarne le forze in gestazione affrontando direttamente il grande problema del suo tempo: quello del principato. Il 10 dicembre del 1513 Machiavelli dà all'amico Vettori notizia del compimento dell'opera, iniziata probabilmente nel luglio dello stesso anno. Machiavelli sembra muovere, infatti, da una classificazione puramente scientifica, distinguendo le monarchie in tre specie: quelle ereditarie, quelle nuove e quelle miste. Ma subito la trattazione si focalizza sul nucleo di problemi che si va ponendo; cioè come si formano, al di fuori di ogni tradizione di prestigio e dignità, i principati nuovi; come si conquistano, o con armi proprie o con truppe mercenarie, con la fortuna o con la virtù; come, comunque conquistati, possano essere conservati. Più che i modelli canonici degli antichi fondatori di Stati, da Mosè a Romolo, a Machiavelli interessa però chiamare in causa quei particolari protagonisti di capitali vicende politico-militari che erano stati i capitani di ventura, dal vittorioso Francesco Sforza fino al più recente Cesare Borgia, quel Valentino che gli appare meglio incarnare l'ideale figura del principe:
«... io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua; e se li ordini suoi non profittorno, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna».
Il limite permanente dell'azione individuale è, infatti, la necessità dell'ordine delle cose, ordine naturale e non più trascendente e provvidenziale: la “virtù” del principe non riveste quindi caratteri etici, ma piuttosto psicologici, e si sostanzia di abilità, potenza individuale, fiuto delle situazioni e misura delle proprie possibilità. Al principe si richiede la virtù congiunta della volpe e del leone, intelligenza delle situazioni e istintività di intuito ferino che solo può indicargli le vie della “fortuna”; la sua natura deve quindi essere duplice come quella del centauro, metà uomo e metà bestia. Esistono però alcuni principi generali nell'organizzazione degli Stati, e a questi fondamenti, “le buone leggi e le buone armi”, il principe deve anzitutto attenersi. È per averli trascurati, quindi per la loro “ignavia”, che i principi italiani, privi di eserciti cittadini fidati da contrapporre ai nemici, hanno dovuto pensare “a fuggirsi, e non a difendersi”: poiché “non può essere buone leggi dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene che sieno buone leggi”. Due anni più tardi Machiavelli indirizzò l'operetta a Lorenzo de' Medici, duca di Urbino, aggiungendo un XXVI capitolo di esortazione al Medici a farsi “principe nuovo”, a intraprendere l'opera di unificazione delle province italiane e “liberarle dai barbari”. Si sarebbe così realizzato quel disegno monarchico-unitario che Machiavelli aveva ben individuato come moderno orientamento della politica europea. Al carattere politico-militare di questo scritto corrisponde la precisa invenzione di uno stile enunciativo, sciolto dalle forme scolastiche del sillogismo, ma che procede invece per interne concatenazioni con andamento analogo a quello che sarà proprio di tutta la prosa scientifica moderna.
Negli anni di isolamento si dedica anche alla stesura di opere letterarie e filosofiche.
Il successo ottenuto in una rappresentazione della sua commedia La Mandragola, scritta nel 1518, gli consentì di smussare il clima di sospetto nei suoi confronti. La visione pessimistica del comportamento umano, che si acuì nel periodo in cui non partecipò alla vita politica e si manifestò nella Mandragola, tagliente e amara satira della corruzione dei costumi contemporanei, dove l'essere umano è rappresentato come incapace di andare oltre il meschino interesse personale. Racconta la beffa, di sapore boccaccesco, giocata dal giovane Callimaco e dal suo servo Ligurio al vecchio e balordo messer Nicia, sposo della bella Lucrezia e desideroso di avere a ogni costo da lei un figlio. Fingendosi esperto di medicina, Callimaco gli fa credere che, per vincere la sterilità della moglie, è necessaria una pozione di mandragola, i cui effetti però sono letali per chi, per primo, si congiunge con colei che l'ha bevuta: occorre pertanto trovare una persona che per una notte sostituisca il marito. L'inganno sarà effettuato grazie alla complicità di Sostrata, madre della giovane, e dell'avido e cinico fra' Timoteo, suo confessore, che mettono a tacere gli scrupoli dell'onesta Lucrezia, la quale, arrendendosi all'immoralità altrui, finirà con il diventare l'amante di Callimaco. Capolavoro del teatro italiano del Rinascimento, La Mandragola rispecchia un'umanità negata a ogni trascendenza ed esclusivamente volta a soddisfare i propri istinti, contemplata con spietata e impassibile ironia da Machiavelli, che in quell'inganno amoroso, comico risvolto degli inganni politici de Il Principe, trova la conferma della sua pessimistica massima secondo cui “nel mondo non è se non vulgo”.La protagonista femminile della commedia, Lucrezia, è ingannata al fine di essere conquistata, è vittima di intrighi, ma poi riesce a cogliere un'occasione fortunata ed a diventare artefice del proprio destino.
Fra il 1513 e il 1519, Machiavelli scrisse i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in cui, com­mentando i primi dieci libri delle Storie di Livio, trae da esse riflessioni che reputa ancora attuali e valide per i suoi tempi. L'opera, concepita come una serie di considerazioni in margine al testo liviano (la prima decade dei libri Ab urbe condita, dall'origine di Roma all'anno 293 a. C.), è ordinata senza sistematico rigore in tre libri: il primo tratta dell'origine e della costituzione interna dello Stato, il secondo della sua struttura militare e delle conquiste per l'espansione del dominio, il terzo delle cause che ne determinano la stabilità o la decadenza.
Nel 1516, Machiavelli iniziò a frequentare le riunioni nei giardini del Palazzo Rucellai – gli Orti Oricellari – dove discuteva di argomenti letterari, filosofici e politici.
Fra il 1516 e il 1520, Machiavelli scrisse Dell'arte della guerra, dove sono trattati pro­blemi di tecnica militare, ed è ribadita la superiorità delle milizie cittadine su quelle mercenarie.
Nel 1520, Machiavelli scrisse la Vita di Castruccio Castracani da Lucca è un'operetta letteraria ispirata alla vita dell'uomo d'arme lucchese Castruccio Antelminelli, condottiero ghibellino del Trecento. Machiavelli. Riprende il modello delle biografie di stampo classico e umanistico dei cosiddetti uomini Illustri, descrizione dell'aspetto fisico e del carattere, discorsi e aneddoti. Il Personaggio in sé assume rilievo di tono narrativo e drammatico ma comunque di forte stampo politico, L'autore riflette nel condottiero del '300 l'ideale del Principe virtuoso. Riacquistata la fiducia dei Medici, ebbe da loro qualche piccolo inca­rico pubblico.
Fra il 1520 e il 1525 scrisse su commissione del cardinale Giulio dei Medici le Istorie fiorentine che espongono la storia di Firenze fino alla morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492.
Nel 1521 a Carpi conosce personalmente Francesco Guicciardini con cui stringe un'amicizia testimoniata da molte lettere.
Nel 1525, Machiavelli portò in scena a Firenze la commedia grottesca Clizia. Nello stesso anno ottenne la revoca dall'interdizione agli incarichi pubblici e tornò a svolgere un'attività politico-diplomatica al servizio dei Medici nella lega anti imperiale, formata da Firenze, il Papato e la Francia.
Nel 1527, la discesa in Italia dell'esercito imperiale di Carlo V travolse la lega e la stessa città di Firenze, dove fu restaurata la repubblica democratica in seguito alla gravissima crisi sorta nei rapporti tra Papa Clemente VII de' Medici) e Carlo V, conclusasi con il Sacco di Roma. Il popolo fiorentino credette che fosse venuto il momento opportuno per cacciare i Medici e restaurare la Repubblica da esponenti savonaroliani e la famiglia dei Medici fu costretta alla fuga: la presenza di Machiavelli fu sgradita al nuovo governo repubblicano che guardava con sospetto al suo passato svolto dapprima al servizio della Repubblica fiorentina e successivamente della famiglia dei Medici e per tali motivi fu allontanato nuovamente da ogni incarico pubblico.
Tra il 1518 e il 1527 Machiavelli scrisse la novella Belfagor arcidiavolo
Fra il 1497 – 1527 scrisse un Epistolario.
Nel 1527, Niccolò Machiavelli morì improvvisamente a Firenze a cinquantotto anni in condizioni di povertà.

Il pensiero politico –  Sulla scorta del rinnovamento posto in essere dall'umanesimo, con Machiavelli e la sua visione laica della vita la politica compì la propria rivoluzione copernicana, assumendo una dimensione e una dignità autonome rispetto alle altre sfere della religione e della morale; le pagine del Principe mantengono la loro straordinaria attualità e vitalità perché dimostrano che il potere è il più macroscopico fenomeno umano di cui, anziché cercare giustificazioni o legittimazioni trascendentali e metafisiche, occorre studiare realisticamente, e demistificare, i meccanismi di esercizio e di funzionamento al di là di ogni sovrastruttura ideologica. L'“incanto” della religione veniva spezzato per sempre, e da allora, dopo la lezione di Machiavelli, il modo di intendere e spiegare tutta la fenomenologia politica è cambiato. Filosofi e pensatori politici, trattando le eterne, spinose questioni della migliore organizzazione del potere all'interno dello Stato, discorderanno sui modi per garantire e tutelare la libertà e la dignità degli individui, ma non potranno più prescindere da una metodologia interpretativa rigorosamente empirica e realistica e non si porranno più come assunto fondamentale il raggiungimento di fini oltremondani quali la salvezza dell'anima dei cittadini.
La politica tende così a convertirsi nella scienza politica.
1) La politica come scienza autonoma - È opera di Machiavelli la formulazione del principio che la politica è una scienza autonoma che mira a fini propri e obbedisce a proprie leggi. Il fine della politica è la costituzione e il mantenimento dello Stato; le sue leggi quelle che, applicate con capacità ed energia, consentono al politico (e cioè al principe, perché nel principato Machiavelli vede la forma politica adeguata ai suoi tempi) di pervenire a tale meta. In tal modo la politica, coerentemente con lo spirito rinascimentale, non è più con­cepita in funzione religioso-morale, cioè come guida al retto vivere sulla terra in prepa­razione della beatitudine nell’Aldilà; ma si prende atto che, nella concreta realtà, la politica e la morale si muovono in ambiti diversi: la politica nell’ambito dell’utile, la morale nell’ambito del buono e del giusto.
2) La «verità effettuale» - La presa di coscienza della realtà effettiva in cui si trova ad operare (di quella che Machiavelli chiama «verità effettuale»), la capacità di valutar­la con occhi snebbiati, senza illusioni, è condizione necessaria al successo del principe. Solo se si renderà conto lucidamente della situazione storico-politica in cui è immerso, se saprà prendere atto che gli uomini sono generalmente malvagi, infidi, avidi, crudeli, e al massimo grado lo sono gli uomini politici coi quali deve misurarsi; e se saprà poi agire di conseguenza, ed esse­re a suo volta malvagio, infido, avido, crudele, solo in questo caso il principe potrà ot­tenere successo. Al senso concreto e disincantato dellaverità effettuale, Machiavelli contrappone quella che egli chiama l’immaginazione della cosa, cioè l’illusione che il mondo non sia quello che è ma quello, migliore, che ci piacerebbe che fosse. Illusione nefasta per il principe, perché lo costringe a lottare coi suoi avversari ad armi impari. «Elli è tanto discosto da come si vive a come si doverebbe vivere che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua: perché uno uomo, che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni».
3) Il principe e la virtù - Solo se saprà adeguarsi intelligentemente ai suoi tempi e agli uomini con i quali deve cimentarsi, il principe sarà virtuoso. La parolavirtù va inte­sa ovviamente in una accezione che non ha più niente in comune con quella cristiana. La «virtù» di un principe è, infatti, esclusivamente di natura politica, e significa capa­cità di successo politico. Pur di raggiungere la meta che gli compete, cioè di costituire e mantenere il suo Stato, il principe può commettere tutte quelle azioni che sono conside­rate riprovevoli nei privati: può uccide­re, tradire, non mantenere la parola data, ecc. Su tali presupposti si capisce come Machiavelli possa proporre come modello ai principi Cesare Borgia, personaggio feroce, infido, corrotto, ma che era giunto vicino alla costituzione di uno stato vasto e forte. Il principe cesserà di essere virtuoso solo quando il suo comportamento, magari onesto e santo dal punto di vista morale, gli causerà la perdita dello stato. Viene dunque posta una netta distinzione fra morale pubblica, cioè la morale del politico, e morale privata,cioè la morale dell’uomo quotidiano, che per il Machiavelli rimane quella tradizionale.
4) Le leggi della politica - Per raggiungere il successo il principe deve conoscere le leggi che regolano la politica e sapersene valere. A tali leggi si perviene sperimentalmente, partendo dall’analisi dei fenomenipolitici, cioè delle azioni e dei comportamenti tenuti dagli uomini politici nelle più diverse situazioni. Come avviene per le scienze naturali, le leggi che in questo modo si possono formulare saranno tanto più valide e universalmente applicabili quanto maggiore sarà il numero dei «fenome­ni», cioè dei fatti, presi in esame. Perciò il politico dovrà prendere in considerazione non soltanto le situazioni e le azioni politiche contemporanee che egli può conoscere di­rettamente di persona (esperienza delle cose presenti), ma anche quelle del passato, di cui verrà a conoscenza mediante lo studio delle storie (esperienza delle cose passate).
5) Le milizie - Strumento indispensabile al successo del principe è un esercito efficiente. E tale non può essere un esercito formato da milizie mercena­rie, pronte a vendersi al migliore offerente, e neppure da milizie ausiliarie, cioè fornite da un altro principe e perciò pronte a tradire a suo vantaggio. Il principe deve dunque possedere milizie proprie, cioè formate dai cittadini del suo Stato debitamente adde­strati alle armi.
6) Virtù e fortuna – Alla virtù del principe, cioè alla sua energia, intelligenza, spregiudicatezza, capacità di successo, si contrappone spesso la fortuna. In lei gli uomini del Rinascimento non vedono più, come vedevano i medioevali, una forza provvidenziale voluta da Dio per mantenere l’equilibrio del mondo, ma una forza ostile che mira di solito a sconvolgere i piani degli uomini virtuo­si. Dalla fortuna il principe dovrà sapersi difendere prevenendone i trabocchetti, così come gli uomini che vivono presso fiumi impetuosi si difendono dalle piene costruendo dighe che le prevengano.
7) Il principe e il popolo – La concezione politica del Machiavelli è molto aristocra­tica e individualistica. La politica dì uno Stato è per lui tutta nelle mani del principe che, uomo eccezionalmente dotato, lo costruisce e lo regge secondo criteri propri insin­dacabili dai sudditi. I sudditi, la massa cioè del popolo, non hanno voce; sono usati dal principe strumentalmente per la costruzione del suo edificio politico. Questo disprezzo per la massa dei cittadini, chiamati sprezzantemente vulgo, è uno dei limiti maggiori, proprio in sede politica, del pensiero machiavelliano: una massa non educata, ma semplicemente e arbitrariamente sfruttata, si rivelerà alla fine debole e inefficiente anche come strumento politico.

Il pensiero di Machiavelli alla luce della realtà politica del suo tempo - Nel pensiero politico machiavelliano è sempre presente, condizionandolo, una esigenza fondamenta­le: che in Italia si costruisca rapidamente uno Stato il più possibile vasto e forte. Machiavelli, infatti, con lucida diagnosi, si era reso conto che l’Italia, divisa in piccoli Stati perennemente in lotta fra loro, non avrebbe potuto resistere alla forza d’urto delle grandi monarchie che andavano consolidandosi in Europa: Francia, Spagna, Impero, che già avevano cominciato a volgere verso l’Italia le loro mire di conquista. Solo uno Stato italiano forte avrebbe potuto contrastarle e salvare l’indipendenza della penisola. La diagnosi era esatta: il sogno politico del Machiavelli non si attuò, e cominciò per l’Italia, come egli aveva previsto, il lungo periodo delle dominazioni straniere.

Un problema rimasto aperto: il rapporto politica-morale - Se Machiavelli ha avuto il merito di individuare l’autonomia reciproca della politica e della morale, sgombran­do il terreno da falsi presupposti, non si è posto però l’essenziale problema di come queste due distinte attività possano, pur nella distinzione, conciliarsi nella coscienza umana; se cioè sia possibile, e come lo sia, attuare una politica che, pur perseguendo fini suoi propri, non contraddica ai fon­damentali principi etici dell’umanità.
È il problema che il Machiavelli ha lasciato aperto ai posteri, e che nella pratica politi­ca ancora non è stato risolto, ma alla cui soluzione l’umanità deve tendere come a me­ta fondamentale.

Ludovico Ariosto – Ariosto è la tipica figura di intellettuale cortigiano del Rinascimento, come Castiglione, Bembo e molti altri letterati dell’epoca. La personalità di Ariosto è però complessa ed inoltre nutre nei confronti dell'ambiente in cui vive e lavora sentimenti di malcelato rifiuto e scaglia contro di esso una sottile polemica.

La vita e le opere – Primo di dieci figli, Ludovico Ariosto nacque nel 1474 a Reggio Emilia da Daria Malaguzzi (di nobiltà reggiana) e dal conte Niccolò Ariosto (discendente da nobile famiglia bolognese trapiantata a Ferrara) dove questi era capitano, della rocca della città, in nome degli Estensi.
Nel 1481, la famiglia si trasferì prima, a Rovigo, dove Niccolò era stato inviato dal duca Ercole I d'Este con l'incarico di comandante della guarnigione; poi, a seguito della guerra scoppiata tra Ferrara e Venezia, a Reggio, infine nel 1484, a Ferrara, sede della Corte Estense, uno dei centri culturali più evoluti e raffinati del Rinascimento.
Tra il 1489 e il 1494, contro voglia, per volere del padre, e con esiti piuttosto modesti, studiò diritto presso l'Università di Ferrara. Ma intanto partecipava alla vivace vita della corte di Ercole I, dove entrò in contatto con vari e prestigiosi letterati e umanisti (Ercole Strozzi, Pietro Bembo e molti altri). Lasciato finalmente libero dal padre di dedicarsi ai prediletti studi letterari, abbandonò il diritto e intraprese lo studio della letteratura latina, cominciando a frequentare i corsi dell'umanista Gregorio da Spoleto ed impegnandosi anche in una produzione poetica sia latina sul modello dei grandi poeti dell’antichità, Tibullo, Catullo, Orazio (liriche amorose, elegie, De diversis amoribusDe laudibus Sophiae ad Herculem Ferrariae ducem primumEpithalamium, epitaffi ed epigrammi) sia volgare, le Rime di argomento prevalentemente amoroso e di timbro petrarche­sco (pubblicate postume 1546).
Nel 1500, in seguito alla morte del padre e, poiché era il primogenito, la necessità di provvedere a una numerosa famiglia, lo costrinse a cercare un impiego e ad abbandonare così la vita meditativa degli studi per quella pratica: la tutela delle cinque sorelle e dei quattro fratelli (tre dei quali minorenni e il maggiore Gabriele paralitico, che rimane con lui tutta la vita). In una delle Satire così egli rievoca argutamente questo momento della sua vita:
Mi more il padre, e da Maria il pensiero.
dietro a Marta bisogna ch’io rivolga.
Nel 1502, Ariosto ottenne il capitanato della rocca di Canossa.
Nel 1503, ebbe un figlio, Giambattista, dalla domestica Maria. Sempre nello stesso anno entrò al servizio del cardinale Ippolito d'Este, figlio di Ercole I e fratello del duca Alfonso e divenne funzionario di corte. Al servizio del cardinale, uomo gretto, avaro e insensibile alla cultura e alla poesia, svolse svariati, faticosi, mal retribuiti e ingrati compiti: dalle incombenze pratiche, quali aiutare il signore a spogliarsi, alle faccende amministrative, dalle funzioni di intrattenimento e di rappresentanza alle delicate e rischiose missioni politiche e diplomatiche. Il lavoro presso il cardinale lo costringeva ad attività troppo lontane dai suoi gusti, dal suo amore per la poesia. La vita stessa di corte, cui pure ambivano la maggior parte degli uomini di cultura del tempo, la sentiva come una necessità alquanto fastidiosa e l’accettava di malavoglia, anche se con bonaria rassegnazione. Vagheggiava per contra­sto una esistenza modesta e pacifica, libera da impegni gravosi e confacente ai suoi amati studi. È un ideale che argutamente esprime in una delle Satire:
In casa mia mi sa meglio una rapa,
ch’io cuoca, e cotta su ‘n stecco me inforco
e mondo e spargo poi di aceto e sapa
che all’altrui mensa tordo, starna o porco selvaggio.
Tra il 1507 e il 1515, periodo assai ricco di incidenti diplomatici, Ariosto fu spesso costretto a fare viaggi a cavallo per recarsi ad Urbino, a Venezia, a Firenze, a Bologna, a Modena, a Mantova e a Roma. E così, mentre attendeva alla stesura dell'Orlando furioso, e si impegnava nell'ambito del teatro di corte, scrivendo e mettendo in scena i primi importanti esperimenti del nuovo teatro volgare, le commedie Cassaria e I Suppositi, Ariosto fu protagonista di una delle fasi più aspre delle guerre d'Italia.
Fra gli anni 1507 e 1531 compose per il teatro di corte cinque commedie modellate per la struttura sui classici greci e latini, ma nelle quali spesso si riflettono la vita e la so­cietà contemporanee.
La situazione del Ducato, restio alla soggezione allo Stato della Chiesa, divenne, in seguito alle vicende provocate dalla Lega di Cambrai del 1508, delicata sul piano militare e diplomatico.  
Nel 1509, Ariosto seguì il cardinale nella guerra contro Venezia.
Nel 1510, Ariosto si recò a Roma per ottenere la revoca della scomunica inflitta da papa Giulio II Della Rovere al cardinale e su quest'ultimo fu richiesta l'opera di Ariosto, inviato spesso come messaggero presso Giulio IIla risolutezza del poeta è indicata dal fatto che il papa giunse a minacciarlo di morte e di essere gettato ai pesci.
Nel 1512, Ariosto insieme al duca Alfonso, che dopo la vittoria dei Francesi e dei Ferraresi sulle truppe papali aRavenna cercava di rappacificarsi col pontefice, visse una romanzesca fuga attraverso gli Appennini, per sottrarsi alle ire del pontefice, deciso a non riconciliarsi con gli Estensi, alleatisi con i francesi nella guerra della Lega Santa.
Nel 1513, alla morte di Giulio II, si recò nuovamente a Roma per felicitarsi con il nuovo papa Leone X de’ Medici, che aveva con lui rapporti amichevoli, sperando, tuttavia invano, di ottenere un beneficio generoso che gli permettesse una sistemazione più tranquilla, ma rimase deluso. Nel viaggio di ritorno Ariosto conobbe a Firenze Alessandra Benucci, una fiorentina sposata con il ferrarese Tito Strozzi: fu l'unico amore della sua vita.
Nel 1515, morto il marito, la Benucci andò ad abitare a Ferrara, ma non visse mai con lui, neppure dopo il matrimonio, celebrato in gran segreto nel 1527 — affinché lei non perdesse i diritti all'eredità del marito e lui i suoi benefici ecclesiastici.
Nel 1516, uscì la prima edizione dell'Orlando furioso, in quaranta canti, dedicata al cardinale Ippolito d'Este, che tuttavia non dimostrò alcuna gratitudine.
Nel 1517, Ariosto lasciò il servizio del cardinale Ippolito, quando questi fu nominato vescovo di Budapest. Ariosto si rifiutò di seguirlo in un paese che giudicava inospitale per co­stumi e per clima; e soprattutto perché sarebbe stato costretto ad abbandonare, oltre che la sua città («a me piace abitar la mia contrada»), anche la donna amata, Alessandra Benucci.
Tra il 1517 e il 1521, attende alla composizione delle sette Satire componimenti in terzine e in forma epistolare (pubblicate solo nel 1534): realistica e amara meditazione sugli ambienti cortigiani e sulla sorte degli uomini di lettere. Non sono satire nel senso che è oggi dato al termine, ma conversazioni argute e riflessive come le Satire oraziane che Ariosto ebbe a modello. In esse l’autore delinea il proprio ritratto che, se non corrisponde sempre a ciò che egli vera­mente fu nella realtà, coglie però i tratti essenziali della sua natura e del suo carattere: la predilezione per la vita studiosa e appartata, l’insofferenza per la mondanità vacua della corte, l’amore per la sua donna e per la sua città e la sofferenza a staccarsi da en­trambe, l’ammirazione per la cultura classica; e poi le speranze e le delusioni che a lui, come a tutti gli uomini, elargiva la vita: il tutto guardato con maturo e bonario equili­brio.
Questi sono probabilmente anche gli anni a cui risale la stesura dei Cinque Canti, composti in vista di un inserimento nel Furioso, ma poi lasciati da parte a causa dei toni cupi e perciò dissonanti rispetto al resto del poema.
Nel 1518, lasciato il cardinale Ippolito, entrò al servizio del duca Alfonso I: anche questa «servitù» non fu leggera, pur senza migliorare la situazione economica.
Tra il 1519 e il 1520 prosegue la composizione delle rime in volgare e compone, inoltre, due commedie Il Negromante e I studenti (incompiuta).
Nel 1521, seguì una seconda edizione dell’Orlando furioso.
Dal 1522 al 1525, per volere del duca dovette, assume­re, seppur malvolentieri, l’incarico di governatore della regione montuosa e selvatica della Garfagnana, un paese violento, infestato dai briganti. E, benché amasse rappresentarsi come inetto alle cose pratiche, tenne questo difficile ufficio con fermezza ed equilibrio. Le Lettere, scritte per dovere d'ufficio al duca, rivelano la grande fermezza, serietà e sagacia amministrativa e politica con cui Ariosto cercò di ricondurre la legge e l'ordine in quel territorio di confine, infestato dai banditi e dalle violenza delle fazioni rivali.
Nel 1525, lasciata la Garfagnana, si apre un periodo più sereno e per il poeta e per il suo ducato. Tornato a Ferrara, il duca gli affida varie cariche amministrative ma anche incarichi a lui più congeniali. Fu chiamato, infatti, a far parte delMaestrato dei savi e fu nominato sovrintendente agli spettacoli di corte. Riscrive in versi la Cassaria e I Suppositi, rielabora Il Negromante.
Nel 1528 è a Modena con il duca per scortare l'imperatore Carlo V di passaggio nello Stato estense e nel 1528 scrive una nuova commedia, la Lenain versi rappresentata a Ferrara nel carnevale del 1528 e ripresa l'anno successivo con l'aggiunta di nuove scene. Imperniata sui maneggi della ruffiana Lena per favorire gli amori contrastati della giovane figlia di un suo amante, è il miglior testo teatrale ariostesco, in quanto riscatta la convenzionalità del tema ancorandolo alla realtà ferrarese del Rinascimento.
Tornato a Ferrara si ritirò finalmente a vita privata; si comprò una modesta casetta con un piccolo orto, e lì trascorse gli ultimi suoi anni, fra le occupazioni agresti e i diletti studi, curando soprattutto l’ultima revisione della sua opera maggiore, L’Orlando furioso.
Nel 1531, dopo essere stato a Firenze, ad Abano e a Venezia, il marchese del Vasto, Alfonso d'Avalos, condottiero dell'esercito imperiale, gli assegna, a Correggio, una pensione di cento ducati d'oro.
Nel 1532 seguì una terza edizione dell’Orlando furioso aumentata di sei canti: notevolissima l’elabora­zione linguistica e formale che intercorre fra la prima edizione e l’ultima. Nello stesso anno diresse le recite di una compagnia padovana inviata a Ferrara dal Ruzzante.
Ammalatosi di enterite, morì nel 1533 nella parva domus acquistata sei anni prima in contrada Mirasole.

Il «Furioso» libro per la Corte - Il Furioso, nato nella Corte estense e dedicato al cardinale Ippolito d’Este, si rivolge all’ambiente della Corte e viene incontro al suo desi­derio di svago e al suo gusto raffinato e maturo.
Questa «udienza» signorile è sempre presente sia al poeta che al lettore, per il quale es­sa acquista concreta evidenza nelle frequenti apostrofi che Ariosto rivolge ai suoi ascoltatori, nelle informazioni che da loro, alla fine di alcuni canti, sul futuro svolgimento dell’azione, o nelle considerazioni che accompagnano il racconto di vicende e il comportamento di personaggi, e che si sentono nate da un’intesa esistenziale e culturale comune al poeta e a chi lo ascolta.

La materia cavalleresca - La materia del poema è cavalleresca ed è enunciata da Ariosto nelle ottave iniziali: egli canterà vicende d’armi e di amori che hanno per protagonisti i paladini di Carlo Magno difensori della cristianità e i Saraceni che, guidati dal loro re Agramante, sono giunti con la loro offensiva fin sotto la mura di Parigi.
È una materia che Ariosto trae dai due grandi cicli medioevali, il carolingio e il bretone, nonché da numerosi cantari composti successivamente sulla scia dei cicli stessi. Tale materia, in tempi ad Ariosto vicini, aveva ispirato
due altri poeti, Pulci, autore del Margante maggiore e Boiardo autore dell’Orlando inna­morato. Era stato proprio Boiardo ad aprire la strada che poi Ariosto avrebbe per­corso trionfalmente, cioè ad operare la fusione dei due cicli medioevali, il carolingio e il bretone, attribuendo ai paladini di Carlo Magno, che nelle antiche chanson erano impegnati senza distrazioni e umane debolezze nella difesa della patria e della fede, quelle umane passioni, e soprattutto la passione amorosa, che avevano caratterizzato gli eroi del ciclo bretone. Se, in virtù di tale «contaminazione», nel poema di Boiardo Orlando era diventato innamorato, in quello di Ariosto diventerà addirittura furioso, cioè paz­zo per amore.
La materia cavalleresca era dunque già di casa alla Corte estense. Ma mentre Boiar­do aveva recuperato vicende e personaggi con commossa ammirazione e con seria adesione agli ideali che il mondo cavalleresco aveva rappresentato, Ariosto vede in esso una realtà ormai troppo remota da quella dei suoi tempi, che era la realtà feroce da cui nasceva il pensiero di Machiavelli. Rievoca perciò questo mondo come una favola bel­la e improbabile; e di essa si avvale per esprimere la sua concezione della vita, che è poi la concezione del Rinascimento.
Se la materia romanza alimenta in modo prevalente la molteplice varietà delle vicende del Furioso, nel poema concorrono altre «fonti», cioè episodi e situazioni tratte dagli autori classici.
Ma tutti gli apporti esterni, quale che ne sia l’origine, acquistano originalità per il modo con cui sono rielaborati dall’autore, e per lo spirito nuovo che in essi è infuso.

Le vicende - Le complicate e molteplici vicende del Furioso si possono raccogliere in­torno a tre filoni fondamentali che costituiscono l’ossatura del poema:
1) L’amore del paladino Orlando per Angelica, principessa del Catari: amore perennemente deluso perché Angelica, bellissima e irraggiungibile, gli sfugge, e dal quale sarà provocata la pazzia di Orlando.
2) Gli amori del guerriero saracino Ruggero e della guerriera cristia­na Bradamante, che si concluderà, dopo varie vicissitudini in cui hanno gran parte gli incantesimi del mago Atlante, con la conversione di Ruggero al Cristianesimo e con le nozze dei due. Ed è questo il filone cortigiano-encomiastico del poema, perché dalle nozze di Ruggero e di Bradamante avrà origine la casa estense; e la narrazione delle lo­ro vicende offre il destro al poeta di elogiare in forma di predizione i maggiorenti della famiglia.
3) La guerra fra Cristiani e Saraceni, che, tema quasi esclusivo delle chanson medioevali del Ciclo carolingio, qui costituisce poco più che lo sfondo a tante variegate vicende private.
Intorno a questi tre temi fondamentali si svolgono innumerevoli vicende collaterali, e agisce una miriade di personaggi: azioni e personaggi mossi da Ariosto con un’abilissima e sicura regia che gli consente di mantenere al poema, pur nella varietà delle sue elemento, un’articolata e salda unità.

La «geografia» e la natura nel «Furioso» - In una delle Satire, ironizzando sui suoi gusti sedentari, il poeta così si rappresenta:
Chi vuole andare a torno, a torno vada,
vegga Inghilterra, Ongheria, Francia e Spagna;
a me piace abitar la mia contrada.
E aggiunge che le terre lontane che non conosce gli basterà percorrerle sulla carta geo­grafica, o, come dice, sulla scorta dell’antico geografo egiziano Tolomeo (II sec. d.C.):
il resto della terra
senza mai pagar l’oste, andrò cercando
con Tolomeo, sia il mondo in pace o in guerra.
Quasi per giocoso contrasto i suoi paladini e le sue dame invece corrono incessantemente il mondo: Angelica viene dall’Oriente, gira per l’Occidente e poi torna in Orien­te; Orlando, Rinaldo, Ruggero, inseguendo i loro personali programmi, lanciano i ca­valli in terre remotissime, e Ruggero ha addirittura a disposizione un cavallo alato, l’Ippogrifo, per superare più rapidamente le distanze. Alle loro avventure non basta neppure la terra: Astolfo, infatti, venuto in possesso dell’Ippogrifo, affronterà il viag­gio sulla luna per recuperare il senno di Orlando che nel frattempo è impazzito. A questa mobilità dei personaggi si accompagna la varietà degli sfondi naturali nei quali essi si muovono: boschi folti e fioriti o cupi e minacciosi, fiumi e ruscelli, lande desolate e rupi marine, o il mare nella sua violenza quando è sconvolto dalle procelle, o anche l’alone lunare e la fredda struttura dell’astro. Il fascino rinascimentale della natura, di cui abbiamo parlato, ha nel poema ariostesco un esempio tipico e fastoso.

Gli «appetiti» degli uomini - Per Ariosto il mondo cavalleresco, nel quale egli non crede più, è un veicolo per esprimere la sua visione della realtà e per rappresentare le perenni e molteplici passioni, i «vari ap­petiti» degli uomini.
Attraverso i personaggi e i loro comportamenti, la natura umana vi è ritratta nella sua molteplice varietà: il bene coesiste accanto al male, la generosità accanto alla grettezza, l’eroismo accanto alla viltà, E il poeta da al bene e al male, al bello e al brutto, uguale spazio e interesse, nella matura coscienza che di questi contrasti è fatta la vita, o, come avrebbe detto il suo contemporaneo Machiavelli, «la verità effettuale». Funzione del poeta non è tanto di giudicarla, ma di capirla e di ritrarla. Scrive Caretti, riprenden­do un giudizio di Croce, che il segreto della poesia ariostesca, e l’ele­mento che da ad essa unità, va ricercato «nel modo adulto e superiore con cui Ario­sto, quasi "occhio di Dio" che scruta e vede e intende l’intero universo, ha saputo con­templare e rappresentare l’armonia cosmica che in sé rilega, senza dissonanza alcuna, tutti gli aspetti della vita, anche i più contraddittori e contrastanti».

Francesco Guicciardini - Francesco Guicciardini fu protagonista della politica italiana negli anni delle guerre tra Francia e Spagna per il dominio della penisola, e ne divenne anche il lucido interprete sul piano storiografico.
Francesco Guicciardini nacque a Firenze nel marzo del 1483, da una famiglia di tradizionale fede medicea che proprio dai Medici aveva ottenuto benessere, autorità ed onori come poche altre famiglie all'interno delle mura fiorentine. Il padre Piero, profondamente legato al filosofo Marsilio Ficino, lo indirizzò verso gli studi di giurisprudenza, studi che Francesco intraprese prima a Firenze, poi a Padova e in ultimo a Pisa.
Nel 1508, Guicciardini cominciò a dedicarsi al mestiere di avvocato e sposò Maria Salviati, nonostante l'opposizione familiare dovuta all'appartenenza di Alamanno Salviati, il padre di lei, al partito degli ottimati.
Dal 1512 al 1514, Guicciardini fu in Spagna come ambasciatore della Repubblica Fiorentina presso Ferdinando il Cattolico e, nel 1515, diventò uno dei 9 membri della Signoria.
Dal 1516 in poi, si susseguirono per Guicciardini gli incarichi per conto di organismi o esponenti ecclesiastici: venne nominato avvocato concistoriale e governatore di Modena da papa Leone X dei Medici nello stesso 1516 e, tra il '21 ed il '26, fu commissario generale dell'esercito pontificio, Presidente della Romagna e diplomatico presso la lega di Cognac, fortemente voluta da papa Clemente VII dei Medici per unire gli stati italiani contro Carlo V.
L'annus horribilis di Francesco Guicciardini fu il 1527, l'anno del sacco di Roma da parte dei lanzichenecchi al servizio di Carlo V e l'anno in cui cadde la signoria dei Medici, con conseguente ripristino della Repubblica. Guicciardini, la cui tradizione familiare e il cui servizio presso due pontefici medicei lo rendevano particolarmente inviso alla Firenze repubblicana, fu oggetto di numerose accuse (alcune delle quali riuscì a dimostrare false), non poté più ricoprire incarichi e si ritirò a vita privata.
Nel 1529, Guicciardini fu oggetto di un processo da parte della Repubblica e, dopo essere stato condannato in contumacia, gli furono confiscati i beni. Nello stesso anno si trasferì a Roma.
Nel 1530, gli imperiali riportarono i Medici a Firenze dopo un lungo assedio alla città e papa Clemente VII tentò di riorganizzare il governo. Dopo violente lotte di potere all'interno della dinastia medicea, assunse il potere Cosimo de' Medici, il cui assolutismo Guicciardini, tornato nella sua città, cercò inutilmente di frenare.
Morì nel 1540, dal 1538 si era definitivamente ritirato dalla vita politica.

La vita e le opere
Discendente di una delle più importanti famiglie fiorentine, ricevette una solida formazione umanistica. Nel 1512 interruppe la stesura della sua prima opera, le Storie fiorentine, per assumere un incarico diplomatico, un'ambasceria alla corte di Spagna, ove rimase fino al 1514. Qui scrisse l'opera politica il Discorso di Logrogno (1512), una proposta di organizzazione politica dello Stato fiorentino, cui fece seguire poco dopo l'altro discorso Del governo di Firenze dopo la restaurazione dei Medici e un Diario di viaggio. Tornato in Italia ed entrato in buoni rapporti con i Medici di nuovo al potere, nel 1516 ebbe da papa Leone X l'incarico di governatore di Modena (in seguito governerà Reggio Emilia e la Romagna). In quegli anni si dedicò alla stesura del Dialogo del reggimento di Firenze (1525). In campo politico operò soprattutto per favorire l'alleanza tra Francia e Papato in funzione antimperiale (lega di Cognac), al cui interno fu nominato luogotenente generale della Chiesa. Dopo il sacco di Roma (1527), venne rimosso dalle cariche che ricopriva.
Tornato a Firenze, da cui nel frattempo erano stati cacciati i Medici, si dedicò all'attività letteraria: scrisse una parte dei Ricordi (1528) e opere storiche, come le Cose fiorentine (1528-31) e soprattutto le Considerazioni sopra i Discorsi del Machiavelli (1528), rilevanti per comprendere la sua concezione della politica. Bandito dalla città a causa delle sue simpatie medicee, prima si ritirò nella proprietà di Finocchieto e poi si rifugiò in Romagna presso Clemente VII. Quando nel 1530 la Repubblica fiorentina fu abbattuta, Guicciardini riprese i rapporti di collaborazione con il papa, che nel 1531 lo nominò governatore a Bologna e nel 1533 lo volle con sé in un viaggio a Marsiglia per incontrare il re di Francia. Si dedicò quindi all'organizzazione del potere mediceo a Firenze, ma poco alla volta venne emarginato: ritiratosi allora nelle sue proprietà, si dedicò sempre più al lavoro letterario e in particolare alla stesura del suo capolavoro, la Storia d'Italia, iniziata nel 1536 e non del tutto terminata quando lo colse la morte nella villa di Montici.
I "Ricordi"
Nessun'opera di Guicciardini fu pubblicata durante la sua vita: fra le altre, rimasero tra le carte di famiglia più di duecento pensieri e aforismi pubblicati nel 1576 con il nome di Avvertimenti e poi con il titolo ottocentesco di Ricordi. La stesura di queste brevi riflessioni coprì tutto l'arco della vita dello scrittore, dagli anni giovanili (la prima serie di pensieri risale addirittura agli anni spagnoli) fino al 1530. Guicciardini riflette sulla "ruina d'Italia" con una lucidità che esclude ogni riferimento a modelli e teorie: non cerca e non accetta spiegazioni e interpretazioni universali della realtà politica. Egli è convinto che, in linea di massima, i rapporti umani siano caratterizzati da una negatività raramente modificabile e che quindi il risultato di ogni azione politica sia determinato più da mutamenti in superficie che da iniziative che pretendono di agire sui meccanismi profondi del processo storico. A essi si deve abituare "il buon occhio del saggio" per esercitare la "discrezione", cioè la capacità di comprendere e sapersi orientare in mezzo alle infinite variazioni che si propongono allo sguardo di chi deve guidare la cosa pubblica. In questo quadro l'obiettivo da perseguire è costituito dal "particulare", che riguarda sia la sfera personale e si identifica con il "decoro" (cioè la reputazione e l'onore personali e familiari), sia il campo politico, in cui si realizza come il migliore equilibrio possibile tra le violente e oscure forze contrastanti. Il "particulare" non è quindi la trasformistica capacità di fare comunque i propri interessi (come a lungo è stato interpretato), quanto la salvaguardia della propria dignità in tempi di crisi in cui non si riescono a realizzare alti ideali collettivi.
La "Storia d'Italia"
Questa concezione dell'agire umano è il risultato di una drammatica sconfitta non solo di una politica o di una strategia militare, ma di tutta una civiltà. La Storia d'Italia (20 libri) fu pubblicata, con numerosi tagli censori, a Firenze nel 1561 e più completa a Venezia nel 1564. Il periodo considerato è relativamente breve: dal 1492 (morte di Lorenzo il Magnifico) al 1534 (morte di Clemente VII, l'ultimo papa Medici). In questi decenni si passò dalla prosperità e dall'equilibrio del tardo Quattrocento alla rovina totale, drammaticamente rappresentata dal sacco di Roma (1527) da parte delle truppe dell'Impero, raccontato da Guicciardini in pagine di alto valore letterario. Egli individua i principali responsabili di tale disastro in Ludovico il Moro e in papa Alessandro VI, che, mossi da un irrefrenabile desiderio di potenza, chiamarono in Italia gli eserciti stranieri. Più in generale la narrazione mette in risalto il percorso di violenza, di presunzione, di cecità dei principi italiani che si illusero di saper controllare e utilizzare per i propri piccoli interessi dinastici o territoriali forze di gran lunga più potenti di loro. Da queste vicende Guicciardini ricava la convinzione che non è più possibile ragionare in termini campanilistici, in quanto le cause della rovina di ogni singolo stato italiano derivano dalla crisi di tutto il sistema politico. Così dallo studio del passato nasce una riflessione politica proiettata nel futuro: l'identità storico-culturale d'Italia ha bisogno di realizzarsi in un organismo unitario, che egli pensa di tipo federale. Ma Guicciardini non si illuse che ciò potesse avvenire in tempi brevi: nel suo radicale pessimismo egli avvertì costantemente lo scarto tra le teorizzazioni della ragione e la resistenza opposta dalla realtà.
Unica opera che Guicciardini scrisse per la pubblicazione, la Storia d'Italia presenta una lingua di grande nobiltà formale, a cui non fu estraneo il confronto con le Prose della volgar lingua di Bembo.


[1]È un’autobiografia scritta  per  dare  conto  di  un singolare  e  tragico  destino. Nato nel 1079 vicino a Nantes, in Francia, Abelardo dimostrò sin da giovanissimo un talento e  una  cultura  eccezionali; prima insegnò all’Università di Parigi, poi come ‘libero maestro’ in una scuola da lui stesso fondata.
Parigi  conobbe  Eloisa,  figlia  del  canonico  Fulberto,  se  ne  innamorò  ed  ebbe  con  lei  una relazione: scoperto dal padre della ragazza, fu  evirato. La storia d’amore tra Abelardo ed Eloisa, ricostruibile anche grazie ad un carteggio fra i due (anche Eloisa era un’intellettuale, dotta di latino, in un’epoca in cui una simile competenza, per una donna, era molto rara) divenne leggendaria.

Nessun commento:

Posta un commento