Il Gotico rappresenta
l'ultima grande fase unitaria dell'arte medievale europea. Le sue origini si
collocano nella Francia del Nord, entro la prima metà del XII secolo, quando i
costruttori, coordinando in forma organica elementi già presenti nel Romanico, nell'architettura orientale e nelle regioni
anglo-normanne, giunsero a soluzioni del tutto originali.
Dal
XII al XV secolo il gotico si estese rapidamente con straordinaria vitalità
fino a rinnovare totalmente l'aspetto stilistico dell'arte europea in tutte le
sue forme, con una profonda unitarietà e costanza di linguaggio che si
specificò in aree nazionali o anche regionali e in diverse fasi storiche di
sviluppo.
Nella
storiografia artistica del Rinascimento italiano compare il termine gotico, applicato
all'architettura, per indicare genericamente quanto avvenuto dopo la fine
dell'arte antica, con il significato di barbarico;
questa connotazione negativa, allargata in seguito a designare un'arte
arbitraria e bizzarra, fuori delle regole classiche, durò fino alla fine del
XVIII secolo, quando ebbe inizio un apprezzamento dell'arte medievale.
L'Ottocento vide un grande sviluppo degli studi storici sul Gotico e l'immenso
campo di ricerca fornito dai molteplici aspetti del fenomeno offre ancora
spunti alla critica contemporanea.
Un
discorso a parte merita il gotico internazionale.
L'aspetto
architettonico è il più vasto dell'arte gotica, che non solo affronta su ampia
scala i temi dell'edificio sacro e di quello civile, ma imposta un discorso
nuovo sulla dimensione urbana, sulla città per una società nuova, di borghesi e
mercanti. Il simbolo della civiltà gotica, la cattedrale, esprime insieme lo
slancio fideistico della letteratura mistica e la razionalità della filosofia scolastica: è una struttura superbamente
organizzata, che sfrutta appieno le possibilità dei singoli elementi che la
caratterizzano.
L'impiego
dell'arco a sesto acuto permise di sostituire alla pesante volta a crociera romanica la volta a ogiva, agile e scattante, in cui il peso è scaricato
dai costoloni[1],
con funzione portante, sui pilastri, eliminando in tal modo il valore della
massa muraria a favore dell'apertura di grandi finestre, vere pareti di vetro
colorato. Le spinte laterali dei costoloni sono equilibrate all'esterno
dall'impiego dell'arco rampante in funzione di contrafforte[2],
appoggiato a un pilastro verticale libero, coronato da guglia[3].
La
pianta preferita è la basilicale, a 5 o 3 navate, con o senza transetto,
terminante in una vasta zona absidale a cappelle radiali. Adorna all'esterno di
una fastosa decorazione scultorea e all'interno di vetrate, statue, pale
d'altare, ex voto dedicati
da re e principi, borghesi e corporazioni artigiane, la cattedrale era fatta
per esprimere visivamente la potenza della Chiesa trionfante, affiancata dal
potere terreno.
Quasi
in contrapposizione a tanto fasto, le chiese degli ordini conventuali e
mendicanti si ponevano come la rappresentazione ideale della povertà
evangelica, semplificate nella struttura e nella decorazione, attorniate dagli
altri edifici della comunità religiosa: il chiostro, la sala capitolare, la
biblioteca.
Nel corso del
Trecento continuarono a Firenze i lavori dei cantieri di Santa Maria del Fiore –
fu costruito, su progetto di Giotto, il campanile – e di Santa Croce; il
mercato del grano di Orsanmichele fu trasformato nel 1380 in chiesa. A Siena e
Orvieto furono completate le rispettive cattedrali.
Dopo la
conquista angioina nel 1266, Napoli divenne il più importante centro artistico
dell'Italia meridionale. Maestranze francesi vi importarono le forme gotiche
della Francia meridionale, diffuse ben presto anche da architetti locali: S.
Lorenzo Maggiore, iniziata nel 1267, con navata unica e abside con cappelle
radiali; il duomo, dedicato a S. Gennaro, 1294-99, a tre navate con cappelle
laterali; S. Chiara, 1310-24, con atrio e aula unica; S. Maria Donnaregina,
1314-20, ad aula unica con abside poligonale; S. Pietro a Maiella, 1313-16.
Anche nella
Milano viscontea si compì l'assimilazione delle forme gotiche, che trovarono
ampia espressione nel Duomo – fatto
erigere da Gian Galeazzo Visconti nel 1386. Importanti nel secolo XIV furono la
ricostruzione e il completamento delle chiese di S. Eustorgio – dove il pisano
Giovanni di Balduccio costruì l'arca di S. Pietro Martire, 1336-39, esempio per
feconde esperienze della scultura milanese del sec. XIV – di S. Simpliciano e
di S. Marco, la costruzione dei campanili di S. Antonio e di S. Gottardo. Nel
1316 Matteo Visconti fece costruire la
loggia degli Osii (1316-30), con statue dei Maestri Campionesi.
Notevolissimi
furono gli sviluppi dell'architettura civile: la cittadella circondata da mura,
con poderose torri, comune dall’XI
secolo, evolse nella città borghese, centro commerciale, per la quale dal XII secolo
si elaborò una ricca tipologia di edifici – mercati, logge, ospedali – tra i
quali eccelse il palazzo municipale. Diffusissimi i castelli, che alla funzione
difensiva, prevalente in origine, affiancavano quella di dimora del signore.
La
cattedrale gotica, con gli ampi portali strombati, le guglie, i pinnacoli, gli
sporti, offriva largo campo alla decorazione scultorea: l'iconografia dei cicli
si semplificò e chiarì, rispetto al simbolismo romanico, perché la sua funzione
era didascalica e si allargò, secondo l'enciclopedismo medievale, non solo ai
soggetti della fede, ma a tutti gli aspetti della vita.
Accanto
alle storie dell'Antico e del Nuovo
Testamento comparvero quindi i lavori
dell'uomo, le figurazioni
astrologiche, le allegorie, le scienze umane e divine. L'umanizzazione
del tema sacro comportò la ricomparsa della figura umana, che dalla rigidezza
ieratica iniziale – le statue-colonne,
ancora incorporate nell'architettura – attinse a un maggiore naturalismo[4],
talora con accenti di schietto classicismo[5].
Dalle
maestranze legate ai cantieri, gli scultori passarono al servizio di re,
principi, nobili privati, borghesi e le nuove richieste della committenza
arricchirono la scultura gotica del periodo maturo di spunti nuovi.
Nell'arte
gotica del XII e del XIII secolo la pittura rivestì un ruolo secondario
rispetto all'architettura e alla scultura: scomparsi i cicli ad affresco della
tradizione romanica, trionfarono le vetrate[6],
ma in seguito, nel XIV secolo, l'affresco tornò a prevalere, anche per la
grande diffusione della pittura profana – cicli in castelli e palazzi
municipali – mentre contemporaneamente si affermava la pittura su tavola, a
destinazione sia pubblica con le grandi pale d'altare sia privata con opere di
devozione.
Si
osservino ora le personalità di maggiore rilievo.
Nicola Pisano (1215 – tra il
1278 e il 1284) forse di origine pugliese – in alcuni documenti compare col
nome di Nicola de Apulia – ebbe una grande funzione innovatrice nell'ambito
della scultura medievale.
Nel
1260 eseguì il pulpito del battistero di Pisa, rappresenta
una delle novità dell'epoca in fatto di sculture, principalmente per la
profondità e la precisione anatomica delle figure, che anticipano il
progressivo allontanamento dall'arte romanica.
A pianta esagonale, sorretto da colonne su cui si impostano archi
trilobati e una balaustra con cinque lastre a rilievo, opera in cui assieme a
spunti lombardi – visibili nella squadrata e solida volumetria – sono evidenti
i rapporti con schemi classicheggianti assimilati forse nei cantieri dei magistri federiciani;
tale rielaborazione di forme classiche, lungi dall'essere una fredda
imitazione, si risolve in una liberazione dall'astrattezza della plastica
medievale per raggiungere una maggiore individuazione delle figure e un'umanità
più viva e concreta: il pulpito presenta, infatti, decorazioni e rilievi che
preannunciano il recupero e la rilettura dello stile classico che rinnoverà
profondamente l'arte italiana nei secoli successivi. Nei sei riquadri principali
sono raffigurate scene della vita di Gesù e del Giudizio Universale.
Nel
pulpito del duomo di Siena[7] (1265-68),
eseguito in collaborazione col figlio Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio e Lapo, scultore attivo a Siena nel XIII secolo, la narrazione
si fa più concitata, le figure, più fitte e mosse, si animano sotto giochi
chiaroscurali più spezzati. Questo mutamento fu dovuto probabilmente
all'influsso della cultura gotica francese e al contatto con il più drammatico
temperamento del figlio. Il
pulpito, a pianta ottagonale è sostenuto da colonne, fra le quali si aprono
eleganti archi trilobati, decorati da statue di profeti e di virtù. Delle nove
colonne, quattro hanno la base a forma di leone, mentre la base della centrale
è circondata dalle otto figure delle arti. Il parapetto è formato da sette
pannelli con storie della vita di Cristo e con la raffigurazione del Giudizio
Universale, uniti fra loro da statue di profeti e della Madonna con il Bambino.
Il pulpito, eseguito a pochi anni di distanza da quello per il Battistero di Pisa, segna la piena adesione di
Nicola Pisano allo stile gotico, che però non rinuncia alla sua formazione
classica: la forza espressiva delle singole figure ne esalta l'individualità,
mentre l'incalzante ritmo narrativo le fonde nell'unità della scena.
Con
lui collaborò nuovamente nella Fontana
Maggiore a Perugia (1275-78), alla quale lavorò anche Arnolfo. Eretta forse
su disegno di fra Bevignate, che immaginò due vasche marmoree poligonali
concentriche sormontate da una tazza bronzea. La Fontana è una delle più belle,
per eleganza di linee, armonia di forme e pregio nella decorazione, incentrata
in 50 bassorilievi e 24 statue con cui la ornarono Nicola e Giovanni Pisano. Gli
specchi delle vasche rappresentano personaggi, santi, simboli e scene attinenti
alla città e alla fantasia medievale. Di Nicola Pisano sono gli specchi della
vasca inferiore e le statuette divisorie di quella superiore, dove la forma
plastica va risolvendosi in motivi puramente lineari, attraverso una
lavorazione delicata, quasi a stiacciato.
All'artista
sono attribuite anche un'acquasantiera in
S. Giovanni Fuorcivitas a Pistoia e l'arca
di S. Domenico nell'omonima chiesa di Bologna (1265-67), opera che sarà
integrata nei secoli successivi da altri artisti.
Pietro Cavallini (Roma 1240 – 1330) assorbì
la cultura bizantina neoellenistica, guardando anche al mondo classico
attraverso l'arte paleocristiana. Perduti gli affreschi eseguiti nella chiesa
romana di S. Paolo (ca. 1270-79), Cavallini ci è noto per i mosaici con Storie della Vergine nell'abside di S. Maria in Trastevere
(1291), dove la narrazione, classicamente impostata, è ammorbidita dalla
dolcezza del colore.
i mosaici commissionate dal cardinale Stefaneschi a Cavallini costituiscono uno
dei più evidenti esempi del momento di passaggio dalle forme ieratiche
dell’arte bizantina alla scena prospettica dell’arte italiana «moderna».
Di alcuni anni più tardi è il Giudizio
universale affrescato
nella controfacciata di S. Cecilia in Trastevere, opera di altissimo valore in
cui l'assorta umanità degli apostoli mitiga la bizantina solennità della
visione dove la scelta della tecnica dell'affresco offre notevoli spunti
stilistici che il mosaico non permette, soprattutto nei panneggi che con il chiaroscuro danno alla scena
rappresentata una tridimensionalità e una potenza espressiva di grande spessore
drammatico.
In quest’ottica si può leggere il Giudizio
Universale, reputata il capolavoro del maestro romano. Con questi affreschi
la pittura romana si affianca e supera i modelli toscani anche se in
contemporanea il giovane Giotto imporrà la sua visione artistica e i suoi
modelli in tutta la pittura dal Trecento in poi. L'opera di Cavallini è
particolarmente innovativa perché per esempio negli Apostoli seduti negli scranni, egli infonde una
presenza fisica e un volume del tutto estranei alla maniera bizantina: i
panneggi non sono ripetitivi, ma variano a seconda della posizione delle
membra, i volti sono raffigurati con individualità, la cromia è varia, il
chiaroscuro è morbido e raffinato, ma non costipato, grazie a lumeggiature ed
ombre scure nei solchi più profondi.
La conoscenza del giovane Giotto, le cui forme risultano qui peraltro ammorbidite, è
evidente nell'affresco con la Madonna e
santi della tomba del cardinale Matteo d'Acquasparta in S.
Maria d'Aracoeli del 1302 o dopo.
Dell'attività di Cavallini a Napoli, dove è documentata la sua presenza
nel 1308 al servizio di Roberto
d'Angiò, il cui mecenatismo portò a
Napoli alcuni dei più importanti pittori della sua epoca non rimane
praticamente nulla: Cavallini lavorò alla cappella Brancaccio in San Domenico Maggiore nel 1308 e a Santa
Maria Donnaregina nel 1317 con il suo
concittadino Filippo Rusuti, che il maestro romano diresse forse
tra il 1316 e il 1320.
Cenni di Pepo detto Cimabue (Firenze 1240 – Pisa
1302) si formò nell'ambito del neoellenismo bizantino, nonché del gusto dialettale dei mosaici del battistero
fiorentino, alla cui esecuzione prese sporadicamente parte.
La
più antica sua opera a noi nota è il Crocifisso di
S. Domenico di Arezzo del 1275 in cui si avverte già chiaramente il premere di
un'intensa forza espressiva di valore drammatico nuovo, entro gli schemi della omposizione medievale: Cimabue, si orientò verso le recenti rappresentazioni
con il Christus patiens dipinte da
Giunta Pisano, ma aggiornò l’iconografia arcuando maggiormente il corpo di Cristo. La
somiglianza con il modello di Giunta si deve ad una specifica richiesta dei
dominicani aretini, essendo il Crocifisso di Giunta conservato nella chiesa principale
dell’ordine, la basilica di San Domenico a Bologna. Un’altra novità rispetto al
modello fu l’uso delle striature d’oro nel panneggio che copre il corpo di
Cristo o nelle vesti dei due dolenti sulle parti estreme dei bracci della croce,
un motivo usato per la prima volta da Coppo di Marcovaldo e derivato dalle
icone bizantine.
Di
qualche anno più tardi è la Madonna in maestà degli Uffizi, caratterizzata
dalla tensione che una dinamicità latente conferisce alla simmetrica, serrata
composizione. Il dipinto realizzato
a tempera su tavola per i monaci di Vallombrosa che la chiesero per l'altare
maggiore della Chiesa di Santa Trinità è noto anche con il titolo di Madonna di santa Trinità. La stilizzata
Madonna ha una stesura cromatica tenue e delicata in un articolato e gradevole
disegno. I panneggi hanno un'efficacissima brillantezza aurea alla maniera
bizantina che ne affievoliscono il modellato. L'espressione è soave ed
armoniosa ed i suoi occhi sempre rivolti verso i fedeli, hanno uno sguardo
tenero ed affettuoso. Il trono è spazioso e maestoso e gli angeli che
l'attorniano conferiscono all'insieme un'atmosfera solenne, ma alcuni di essi
lasciano trasparire dal volto segnali di angoscia e di asprezza, come pure due
dei profeti in basso (quelli centrali).
Ad
Assisi nel transetto destro della
basilica inferiore affrescò la Madonna col Bambino in trono, quattro
angeli e san Francesco, dipinto palesemente ridotto dal lato sinistro dove
si suppone fosse presente un Sant'Antonio
di Padova a pendant del Poverello d'Assisi. L'affresco, infatti,
fu incorniciato alcuni decenni dopo dai maestri giotteschi che affrescarono il
resto del transetto.
Per l'alta
qualità dei dipinti della Basilica inferiore, verso
il 1280 si collocano gli affreschi della chiesa superiore di S. Francesco ad Assisi, dove Cimabue fu chiamato a
realizzare le pitture nell'abside e nel transetto. È difficile avere un'idea
degli affreschi assisiati di Cimabue e della sua bottega, perché oggi sono i
più danneggiati della basilica
Superiore. Il complesso ciclo pittorico comprende: Evangelisti nella volta della crociera, Storie della Vergine nel coro, Scene dell'Apocalisse,
Giudizio e Crocifissione nel braccio sinistro del transetto, Storie di San Pietro nel braccio destro, queste ultime poi
continuate da seguaci. Anche se fortemente deteriorati, si avvertono ancora in
essi il senso grandioso dello spazio e la concitata drammaticità delle figure,
alternata a pause di pacata armonia. La scena più interessante è quella
della Crocifissione nel transetto sinistro, dove le
numerose figure in basso con i loro gesti straziati fanno convergere le linee
di forza verso il crocifisso, attorno al quale si dispiega un seguito di
angeli. La drammaticità quasi patetica della rappresentazione è considerato il
punto di arrivo della riflessione francescana sul tema della Croce in senso
drammatico.
Dopo
i lavori di Assisi, le composizioni di Cimabue mostrano di tendere a una più
distesa impaginazione, il linguaggio a farsi meno aspro ed emotivo, il ritmo a
rallentare. Si giunge così al Crocifisso già in S. Croce a Firenze, ora al
Museo dell'Opera di S. Croce, in parte distrutto dall'alluvione del 1966, cui
il chiaroscuro più fuso conferisce un tono di drammatica catarsi. Realizzato
dall’artista dopo il viaggio a Roma, fu tra le opere più danneggiate
dall’alluvione del 1966 che causò il distacco di gran parte della pellicola
pittorica. Il corpo arcuato nello spasmo del dolore e gli occhi chiusi
identificano la tipologia del Christus Patiens (Cristo sofferente). Nelle
tabelle laterali sono le immagini a mezzobusto della Vergine e di san Giovanni
Evangelista.
Probabilmente
vicino ad esso si colloca la Maestà della Vergine con San Francesco nella chiesa
inferiore di Assisi, peraltro assai ridipinta.
Nelle
ultime opere – la Maestà del Louvre ed il mosaico con San Giovanni, 1302, nel duomo di Pisa – è avvertibile
l'influsso delle nuove forme della scultura pisana. La
Madonna con il Bambino o Maestà del Louvre, proveniente dalla chiesa di San
Francesco a Pisa amplifica la maestosità, tramite un più ampio campo attorno
alla Madonna (si pensi alla Madonna del Bordone di Coppo di Marcovaldo), e
migliore è la resa naturalistica, pur senza concessioni al sentimentalismo
(Madonna e bambino non si guardano e le loro mani non si toccano). Il trono è
disegnato con un'assonometria intuitiva e quindi collocato precisamente nello
spazio, anche se gli angeli sono disposti ritmicamente attorno alla divinità
secondo precisi schemi di ritmo e simmetria, senza interesse ad una reale
disposizione nello spazio, infatti, levitano l'uno sopra l'altro (non l'uno
dietro l'altro). Molto fine è il modo con cui i panneggi avvolgono il corpo
delle figure, soprattutto della Madonna, che crea un realistico volume fisico.
Non vi è usata l'agemina (le striature dorate).
Su
Arnolfo di Cambio (Colle di Valdelsa
1245 – Firenze, prima del 1310) la prima documentazione su Arnolfo di Cambio si
ha a Siena nel 1266, come discepolo di Nicola Pisano e collaboratore di Lapo e Giovanni Pisano al
pulpito del Duomo. È anche ipotizzata una sua collaborazione all'arca di San
Domenico a Bologna (1265-67). Probabilmente quando fu al servizio di Carlo d'Angiò, Arnolfo
di Cambio conobbe l'arte romana e del meridione, come rivela la tomba oggi smembrata
del cardinale Annibaldi del 1276 a Roma, in San Giovanni in Laterano, che
costituì un prototipo per le tombe romane del periodo gotico e
imposta il problema (tipico di tutta l'attività di Arnolfo di Cambio) del
rapporto architettura-scultura.
Nel
1277 e così ancora nel 1281 si ha una presenza di Arnolfo di Cambio a Perugia,
dove esegue tre figure di assetati oggi a Perugia, nella Galleria, resti di una
fontanella per la Piazza Maggiore, di sobrio ed efficace naturalismo.
Il suo
nome si trova nel Monumento al cardinale De Braye del 1282
in San Domenico di Orvieto. Il Monumento è un complesso scultoreo e
architettonico, decorato con inserti decorativi di mosaico cosmatesco e
composta di vari elementi, in passato è stata smembrata. In seguito a un
lungo restauro terminato nel 2004, il monumento è stato ricollocato in San
Domenico, addossato alla parete sinistra di ciò che resta della chiesa. La
struttura del monumento è diversa da quella originale, gli studiosi hanno
potuto ricostruirla solo ipoteticamente. Comunque si ritiene che il Monumento
de Braye non doveva differenziarsi troppo dagli altri primi esempi
di tombe a muro realizzati in Italia. I riferimenti più diretti sono due
monumenti conservati a Viterbo nella chiesa di San Francesco
alla Rocca, la Tomba di Clemente IV realizzata da Pietro di
Oderisio nel 1270 e la Tomba di Adriano V, attribuita allo stesso
Arnolfo. Queste opere corrispondono a un modello di sepolcro formato da
un baldacchino con un arco di forme gotiche (ogivale o trilobato),
che accoglie un basamento sostenente un sarcofago con
la statua distesa del defunto. Arnolfo arricchì questo modello
progettandone uno sviluppo in altezza con altri elementi scultorei e
architettonici. Nella parte alta, infatti, si inseriscono tre nicchie con statue e
al centro una lapide con la dedica funebre e la firma di Arnolfo. In
alto, la nicchia principale contiene il gruppo della Madonna in trono col
Bambino. Nelle nicchie laterali sono posti a sinistra San Marco che
presenta il Cardinale De Braye alla Madonna, a destra San Domenico,
che partecipa all'avvenimento rivolgendosi al cielo. La complessità dell'opera
ha richiesto l'apporto di aiuti, ma la mano di Arnolfo è riconoscibile in vari
punti, soprattutto nel gruppo centrale del cardinale giacente: la figura
distesa è rivelata con l'originale inserimento dei chierici reggicortina.
Sono figure vivaci che oppongono la loro vitale energia alla figura immobile,
distesa e con gli occhi chiusi del defunto, in un efficace contrasto simbolico
tra vita e morte. Altra figura particolarmente espressiva è la statua
di San Domenico. La forma esile che si assottiglia verso il basso aumenta
l'effetto di leggerezza e fragilità. Le linee verticale delle vesti che
avvolgono il corpo del santo sviluppano una tensione verticale, che è ribadita
dalla testa e dallo sguardo rivolti verso l'alto. Grande attenzione è stata
riservata al volto, dall'espressione intensa e commossa. In ogni parte si
coglie il senso di chiarezza e rigore formale tipico dello stile di
Arnolfo. Anche il gruppo della Madonna col Bambino, di altissima qualità e
scolpito a tutto tondo, è concepito secondo un principio di essenzialità di
forme e volumi. In occasione dell'ultimo restauro si è scoperto che questo
gruppo è una statua romana del II secolo, forse una Giunone che
Arnolfo ha sapientemente trasformato nella Vergine cristiana. Il Bambino è
stato appositamente scolpito e adattato al grembo della madre. Il gruppo si
inseriva in un trono con ornamenti cosmateschi diverso da quello che si vede
oggi. Il restauro e l'accurato lavoro di analisi tra cui gli studi condotti da
Angiola Maria Romanini hanno permesso di scoprire aspetti del lavoro arnolfiano
finora sconosciuti. Una delle scoperte più interessanti è rappresentato
dall'uso del colore da parte di Arnolfo non inteso in senso decorativo ma
come parte integrante dell'opera. Dalle tracce di colore ritrovate nelle
pupille dei chierici reggicortina ai raffinati mosaici cosmateschi che
rivestono le parti architettoniche, tutto rientra in un preciso progetto in cui
l'effetto pittorico è un fondamentale aspetto dell'impatto visivo d'insieme.
Strettamente connesso a quest’aspetto, è l'altra importante scoperta che tutti
gli elementi, scultorei e architettonici del monumento, rispondono alla scelta
di un punto di vista preciso. Ogni pezzo è concepito e disposto con un
preciso orientamento ed è lavorato fino a dove rimane visibile, sempre in
riferimento a quel punto di vista, calcolato secondo le leggi dell'ottica.
Questi risultati si basano su conoscenze scientifiche molto raffinate
e all'avanguardia, oggetto di studio di alcuni filosofi e matematici operanti
presso le corti papali tra Roma, Viterbo e Orvieto. Gli sviluppi futuri di tali
ricerche si ritroveranno nella prospettiva rinascimentale. Non è ancora chiaro
come Arnolfo sia entrato in possesso di simili conoscenze, ma la sua opera
rivela un'apertura indubitabile verso il mondo della scienza.
Il
suo nome si trova ancora nei cibori[8] di San Paolo fuori le Mura del 1285 e
di Santa Cecilia in Trastevere del 1293 a Roma; nel sacello[9] di San Bonifacio IV del 1296, nel
vecchio San Pietro in Vaticano, dove si qualifica architector. L'8 settembre 1296 il cardinale Pietro
Valeriano colloca a Firenze la prima pietra di Santa Maria del Fiore, su
progetto di Arnolfo di Cambio, e nel 1300 il Consiglio dei Cento di Firenze in
un suo documento esonera da altri gravami l'artista al fine di permettergli di
concludere utilmente i lavori alla Cattedrale: la parte alla quale Arnolfo
lavorò di più era comunque la facciata,
che fu iniziata molto anticipatamente per esigenze di culto legate all'utilizzo
provvisorio della vecchia chiesa
di Santa Reparata, demolita solo in seguito. La facciata di Arnolfo fu poi
demolita nel 1587-1588 e mai più ripristinata fino alla
facciata neomedievale del XIX secolo. Restano di quell'impresa alcuni disegni
numerose statue e frammenti conservati nel Museo
dell'Opera del Duomo di Firenze. Tra questi spicca la
cosiddetta Madonna della
Natività, che riprende la posa dei ritratti funerari dei sarcofagi
etruschi, o la Statua di
Bonifacio VIII.
Giovanni Pisano (Pisa ca. 1245 – Siena
dopo il 1314), figlio e allievo di Nicola, iniziò la sua attività collaborando con il padre
nella realizzazione del pulpito[10] del duomo di Siena.
Successivamente
nel 1278 ebbe larga parte nei lavori della Fonte
di Piazza a Perugia, il cui impianto architettonico è dovuto a Nicola, ma
dove l'influsso di Giovanni è presente, sia pure in maniera non completamente
accertata, in molte sculture e rilievi. In seguito, secondo la tradizione, si
sarebbe recato in Francia – tale viaggio tuttavia non è documentato –
visitando, tra l'altro, la cattedrale di Reims, allora in costruzione: ciò
spiegherebbe gli influssi transalpini evidenti nella sua opera, rispetto al
maggiore classicismo del
padre.
Dal
1284 al 1296 egli fu impegnato nella sua prima grande realizzazione autonoma,
la decorazione della facciata del duomo di Siena. Dagli stipiti dei portali
fino alle numerose statue – oggi per la maggior parte nel Museo dell'Opera,
sostituite nella facciata da copie – tutta la realizzazione è di qualità
altissima. Le figure della Maria, di Mosè, di Platone, di Abacuc, di Davide si
distinguono per la carica di drammaticità e di movimento, in forme
profondamente incise dallo scalpello, ma non prive di una certa intonazione
lirica.
Nel
1297 è documentata la sua attività a Pisa come capomastro del duomo. Dal 1298
fino al 1301 Giovanni fu a Pistoia, impegnato nella costruzione del pulpito nella chiesa di S. Andrea. È
questo probabilmente il suo capolavoro e se, strutturalmente, non si distingue
molto da quello di Siena, opera del padre Nicola, si caratterizza per la ben
maggiore drammaticità delle rappresentazioni. I rilievi, affollatissimi di
figure, si individuano per la tensione continua, data dall'emergere in luce di
questa o quella figura, mentre fra i punti di maggiore rilievo si apre il
vuoto. Il
programma iconografico del pergamo riprende i modelli paterni, con Allegorie
nei pennacchi degli archetti, Profezie (ovvero sei sibille per
il mondo pagano e dieci profeti per il mondo giudaico) a figura intera,
appoggiate sulle mensole dei capitelli, ed i cinque parapetti del pulpito
con Storie della vita di Cristo: Annunciazione,
Natività, Bagno di Gesù e Annuncio ai pastori, Sogno e adorazione dei Magi, Strage degli Innocenti, Crocifissione, Giudizio finale. Il sesto
parapetto non esiste perché su quel lato vi è aperto l'accesso. Le scene sono
molto affollate, come nel pulpito di Siena, ma rispetto alla composta
organizzazione ritmica di Nicola Pisano, qui Giovanni scolpì le figure come
emergenti all'improvviso dallo sfondo, con bruschi giochi di luci ed ombre
derivati dal diverso rilievo di ciascuna figura e un'estrema ricerca del
dinamismo. Fra i riquadri più notevoli, la Natività, la Strage degli innocenti,
il Giudizio finale.
Poco
più tarda è la Madonna nella
Cappella degli Scrovegni di Padova (ca. 1305), dove un intenso sguardo lega la
Madre e il Figlio.
Negli
anni 1302-10, Giovanni fu impegnato nella realizzazione del nuovo pulpito per
il duomo di Pisa, opera di particolare monumentalità, dove tutta la decorazione
si anima di un'intonazione drammatica molto più violenta e movimentata di
quella dei rilievi di Pistoia. Anche scene pacate, come la Natività, ne sono
pervase, mentre in altre (la Strage degli innocenti, la Crocifissione, il Giudizio finale) essa raggiunge toni quasi esagitati.
Successivamente,
intorno al 1312-13, Giovanni fu impegnato nella tomba dell'imperatrice Margherita
di Brabante, moglie di Enrico VII di
Lussemburgo, nella chiesa di S. Francesco a Genova (oggi distrutta). Ne restano
soltanto la figura della regina, risorgente dal sepolcro in pacata serenità
(nel Museo di S. Agostino a Genova) e pochi altri brani.
L'ultima
opera di Giovanni è probabilmente la Madonna della Cintola nel duomo di Prato, dove viene ancora
una volta ripreso il tipico tema del colloquio
tra la Vergine e il Bambino. L'opera di Giovanni ebbe larghissima eco e fu per
decenni presente ai maggiori scultori italiani.
Di
Angiolo di Bondone detto Giotto
(Colle di Vespignano ca. 1267-Firenze 1337) scarsissime sono le notizie
biografiche, attorno alla cui giovinezza sono fiorite varie leggende. Forse la
più nota di esse narra la scoperta del genio di Giotto fanciullo da parte di Cimabue, pittore presso
la cui bottega fiorentina egli svolse tradizionalmente il proprio discepolato,
completando la sua formazione con l'attività giovanile a Roma, dove si recò
probabilmente con il maestro.
Giotto
rinnovò
il linguaggio pittorico mediante la sintesi plastica e la chiara modulazione
spaziale, ponendosi come fondatore dell'arte figurativa moderna e come uno dei
più autorevoli precursori del Rinascimento.
Il problema
delle prime manifestazioni dell'arte di Giotto è connesso con l'individuazione
della parte da lui avuta in due importanti cicli decorativi: gli affreschi alti
nella navata della basilica superiore di S. Francesco in Assisi del 1290 e
l'esecuzione, almeno dei cartoni, per l'ultima zona dei mosaici della cupola
del battistero di Firenze.
Sembra
attendibile che nelle Storie dell'Antico e del Nuovo Testamento di Assisi la mano di Giotto sia
riconoscibile in quelle della prima campata verso la facciata e, sull'interno
di questa, le due Storie di Isacco della
seconda campata sono prevalentemente riconosciute come la prima opera
rivoluzionaria del giovane Giotto.
Quanto ai
mosaici del battistero di Firenze, l'esecuzione si addentra nel Trecento.
Giotto eseguì poi il Crocifisso di
S. Maria Novella in Firenze (1290-1300); dopo il 1296 diede probabilmente
inizio al ciclo dei ventotto riquadri con le Storie francescane, affrescato nella fascia bassa
della basilica superiore di Assisi.
La
questione giottesca – un problema
degli studi sulla storia dell'arte nata dall'attribuzione a Giotto o meno degli affreschi della Basilica superiore di Assisi, e se sì
in quale misura rispetto ai suoi collaboratori in un'opera tanto vasta – è
tutt'ora aperta, ma gli studiosi, dopo i tentennamenti iniziali, sembrano ormai
più propensi a mantenere l'attribuzione tradizionale a Giotto, per
l'inconfondibile maniera di organizzare le scene, la padronanza della
prospettiva intuitiva negli sfondi, il realismo, l'eloquenza senza fronzoli dei
gesti e delle fisionomie. Indipendentemente dal fatto che si tratti di Giotto
o di un altro pittore, le scene non mostrano sempre la stessa qualità
esecutiva, per cui furono sicuramente dipinte da più mani all'interno dello
stesso cantiere con la supervisione di un protomagister. L'importanza
del Ciclo francescano sta comunque nelle soluzioni formali rivoluzionarie.
Innanzitutto l'impaginazione delle scene si differenzia nettamente dalle
cornici geometriche pensate da Cimabue e dagli altri pittori duecenteschi: per
essi la superficie era essenzialmente bidimensionale, ed era trattata quindi
come la pagina miniata con motivi di corredo puramente decorativi. Per Giotto
invece lo spazio pittorico doveva ricreare un volume tridimensionale e
giustificò l'interruzione tra le scene tramite una serie di colonne che
simulano un loggiato, sviluppando un'idea già usata, ad esempio nei mosaici della cupola del battistero di
Firenze. Con un sapiente dosaggio del chiaroscuro si rende l'evidenza plastica delle
figure, mentre l'uso di architetture scorciate che svolgono il ruolo di quinte
prospettiche creano degli spazi praticabili in cui i personaggi si muovono con
naturalezza e coerenza, ad esempio possono girarsi di spalle rispetto
all'osservatore cosa prima inconcepibile. La composizione è libera dagli
schematismi e simmetrie della pittura precedente, anche se accanto a scenari
naturali ed architettonici realistici troviamo ancora delle rappresentazioni
dal gusto arcaico e non tutti gli scorci sono resi con la stessa sicurezza: più
incerte appaiono le città dipinte in lontananza e gli edifici delle prime tre
campate della parete sinistra. Ecco l’elenco dei ventotto riquadri: Omaggio
dell'uomo semplice, Dono del mantello, Sogno del castello con le armi, Preghiera
in San Damiano, Rinuncia ai beni, Sogno di Innocenzo III, Conferma
della Regola, Apparizione sul carro di fuoco, Visione dei troni, Cacciata
dei diavoli, Prova del fuoco, Estasi di san Francesco, Presepe
di Greccio, Miracolo della sorgente, Predica agli uccelli, Morte
del cavaliere, Predica a Onorio III, Apparizione al Capitolo di Arles, San
Francesco riceve le stimmate, Morte di san Francesco, Visioni, Verifica
delle stimmate, Saluto di santa Chiara, Canonizzazione, Apparizione a
Gregorio IX, Guarigione dell'uomo di Leida, Confessione della donna
resuscitata, Liberazione dell'eretico.
Un frammento
dell'affresco con l'Indizione del giubileo da parte di Bonifacio
VIII (1300, Roma, S.
Giovanni in Laterano) dimostrerebbe il gravitare dell'artista nell'ambito delle
commissioni.
A Firenze, ai
primi del Trecento, Giotto eseguì la Madonna in trono di S. Giorgio alla Costa e il Polittico di Badia (Firenze,
Uffizi).
Con i soggiorni
a Rimini (dove, scomparsi gli affreschi, rimane il Crocifisso del Tempio Malatestiano) e a Ravenna,
ebbe inizio l'opera di diffusione del linguaggio giottesco, che gradualmente condizionò
le diverse scuole regionali.
Dopo il 1304
Giotto intraprese la decorazione ad affresco della cappella di Enrico Scrovegni
all'Arena di Padova. I circa quaranta riquadri con le Storie di Gioacchino, S. Anna e
la Vergine e la Storia di Cristo, più le figure decorative alle
pareti, le allegorie dei Vizi e
delle Virtù nello zoccolo, il Giudizio Universale sulla parete d'ingresso, fanno del
complesso un monumento straordinario, uno dei massimi capolavori dell’arte
occidentale. Le innovative caratteristiche volumetriche e di prospettiva del
ciclo di Assisi permangono, ma ora, a testimonianza della sua continua volontà
di ricerca e rinnovamento, c’è una nuova attenzione per il colore, più acceso e
variato e per la linea, più morbida e meno marcata. La suddivisione dello spazio stellato della volta in
due campi perfettamente uguali, in ognuno dei quali brillano come astri la
Vergine, madre e regina, e Cristo Benedicente, rende immediatamente il senso
del ruolo attribuito in quella chiesa alla Madonna che, intermediaria nei
confronti del Figlio e tramite pertanto della Salvezza, è la vera protagonista
del ciclo. Un significato confermato dallo sviluppo eccezionale delle scene che
ne narrano le vicende prima e dopo la nascita, occupanti l'intero registro
superiore e gran parte della parete dell'arco trionfale, nonché la sua
reiterata presenza sulla controfacciata, in atto di ricevere la Cappella dal
peccatore pentito o di guidare le schiere dei beati verso la ricompensa eterna.
Tale intenzione si dichiarava d'impatto al visitatore che entrava nella
Cappella, il quale era subito attratto dalla rappresentazione dell'Annunciazione
sull'arco trionfale, di dimensioni inusuali per l'inserimento dell'episodio della
Missione dell'annuncio a Maria.
La
rappresentazione del Giudizio Universale sulla controfacciata mette istantaneamente
in rapporto l'inizio e la fine della vicenda principe nell'esperienza di ogni
buon cristiano: la salvezza. Poiché i misteri legati a quest'ultima richiedono
una raccolta meditazione, Giotto impone un percorso mentale che è anche
movimento fisico, disponendo gli episodi della vita della Vergine e di Cristo
in una sequenza narrativa tale che il riguardante è sollecitato ad andare su e
giù per ben tre volte prima di arrestare lo sguardo dinanzi all'altare. Da qui,
per decidere del proprio comportamento, dopo il memento mori delle due cappelle funerarie dipinte, al visitatore
non resta che considerare i percorsi alternativi configurati nelle due pareti
dalla sequenza dei sette Vizi e delle sette Virtù: i primi, sulla parete
settentrionale, conducono - con un crescendo che culmina nello Disperazione
penzolante impiccata - all'Inferno; le altre, culminanti nella Speranza levata
in volo, terminano nella zona destinata ai beati.
A Giotto è
attribuito anche lo stesso progetto dell'edificio: dell'attività di Giotto
architetto sarebbe questa la testimonianza più completa e, con il campanile di
Santa Maria del Fiore, più significativa. Si tratta di una torre, molto alta a
base quadrata, in cui i marmi policromi animano la struttura, anche se nella
decorazione e nella parte alta della struttura ci sono stati interventi di
altre mani (Andrea Pisano e Franceso Talenti), a causa dell’abbandono
dell’artista.
Gli affreschi
dell'Arena di Padova rappresentano il compimento del processo di cambiamento
della pittura in Italia. Ne sono aspetti fondamentali e permanenti: la
rappresentazione impostata secondo coordinate soprattutto dirette in
profondità, per cui la scena è contenuta in un preciso spazio; gli oggetti sono
disposti secondo schemi strutturali architettonici con linee essenziali e solo
con i particolari di significato generale; il chiaroscuro è usato per
evidenziare la plasticità e il volume dell'oggetto; nell'azione rappresentata è
individuato un nodo che ne esprima il
senso drammatico e da cui partano e a cui tendano i gesti dei personaggi.
Questa struttura
sintetica, spaziale, plastica e drammatica non può essere intesa soltanto come
altissimo raggiungimento di Giotto, ma come punto di arrivo, geniale sintesi di
una complessa elaborazione storica che si è nutrita di classicismo bizantino,
di rigore romanico, di linearità gotica.
Dopo il 1305 lo
stile di Giotto si rinnovò. Dalla grande tavola con la Maestà nella chiesa di Ognissanti a Firenze
(1306-10, ora agli Uffizi) al mosaico della Navicella
in S. Pietro a Roma, di cui restano due angeli (a Roma, Museo Petriano, e a
Boville Ernica), agli affreschi della
cappella della Maddalena nella basilica inferiore di Assisi, ai due cicli
murali in S. Croce a Firenze, nelle cappelle Peruzzi (Storie di S. Giovanni Battista e di S. Giovanni Evangelista, 1320) e
Bardi (Storie di S. Francesco, 1325),
la spazialità si fa meno serrata, più articolata e distesa, il colore più
tenero, in una sempre fresca e rinnovata sensibilità.
Dalla fine del
1328 alla metà del 1333 Giotto fu a Napoli per Roberto d'Angiò e lavorò nella
chiesa francescana di S. Chiara e in Castel Nuovo. Poco o nulla rimane della
sua opera, ma anche a Napoli il suo influsso fu determinante. Così anche a
Milano, dove Giotto lavorò intorno al 1333 per Azzone Visconti; il suo
magistero di architetto ha un'eco nel complesso di S. Gottardo.
Nel 1334 Giotto
fu nominato architetto della città di Firenze; nella parte bassa il campanile
del duomo segue il suo progetto, così come parte delle formelle scolpite che lo
adornano.
A
Siena, la prosperità economica,
l'esistenza di un grandioso cantiere per il duomo, che richiamava prestigiose
personalità come Nicola e Giovanni Pisano, favorirono il fiorire di una civiltà
artistica che trovò più spiccata individualità – tale da autorizzare la
definizione di scuola – tra la metà
del XIII e la metà del XV secolo. In quest'arco di tempo le espressioni pittoriche
senesi presentano caratteri stilistici coerenti e originali, così da dar vita
come a un altro polo rispetto alla cultura fiorentina rappresentata da Giotto e
giotteschi, per la fusione delle più alte tradizioni bizantine con gli eleganti
modi gotici d'Occidente – Duccio di Buoninsegna – per il raffinatissimo gusto
lineare e cromatico – Simone Martini, Niccolò di Ser Sozzo Tegliacci – per
l'interpretazione profana, cortese,
dei temi sacri e allegorici –Ambrogio e Pietro Lorenzetti, Lippo Vanni.
Nulla
si sa della formazione di Simone Martini,
nato a Siena nel 1284 e amico di Francesco Petrarca.
La
sua prima opera nota è l'affresco della Maestà nella
Sala del Mappamondo nel Palazzo Pubblico di Siena del 1315 e ritoccata nel 1321
dallo stesso Martini che rivela una personalità artistica già matura. Nelle
parti superstiti del 1315 la pittura di Simone appare ancora ispirata ai modi
di Duccio – di cui fu forse allievo – ma anche rivoluzionaria nel superamento
di consuetudini bizantine a favore di una concezione concreta e quasi
naturalistica dello spazio, indubbiamente da ricollegarsi alla lezione
innovatrice di Giotto. Sotto il baldacchino, che introduce una certa
tridimensionalità, le figure, disegnate da una linea morbida e fluida, si
dispongono armoniosamente. Il dipinto occupa tutta la larghezza della parete e
poco più di quattro quinti in altezza. Al centro della composizione primeggia
la Madonna col Bambino, ai cui lati sono disposte su tre virtuali ellissi
concentriche le figure di santi, apostoli ed angeli, contrastate da uno sfondo
di intenso blu oltremarino. Nel gruppo di destra sono stati identificati –
variamente disposti, ma sempre da sinistra verso destra – San Paolo,
l'arcangelo Gabriele, Santa Maria Maddalena, San Giovanni Evangelista e Santa
Caterina di Alessandria: nel gruppo a sinistra – da sinistra verso destra – Santa
Barbara, San Giovanni Battista, Sant'Agnese, l'arcangelo Michele. In basso, ai
piedi del trono, stanno due angeli in atto di offrire alla Vergine rose e gigli
in coppe d'oro, e i quattro santi patroni di Siena: Crescenzio, Vittore, Savino
ed Ansano. La composizione ha una cornice, nelle cui vaste fasce sono dipinti
venti medaglioni intercalati da motivi vegetali che circondano borchie
circolari, dove si dispongono in alternanza la balzana ed il leone rampante, ovvero, gli stemmi di Siena e
quelli del suo popolo. Nel medaglione centrale della fascia alta è raffigurato
il Cristo benedicente, mentre ai lati stanno Isacco, Mosè, Davide e Giacobbe;
nei medaglioni delle due fasce laterali sono raffigurati i profeti, mentre agli
angoli, gli evangelisti. Nel medaglione centrale della fascia inferiore della
cornice è raffigurato un busto muliebre sdoppiato, i cui volti – con uno senile
e l'altro giovanile – simboleggiano la Vecchia
e la Nuova Legge recanti il Decalogo
ed i Sette Sacramenti; ai lati del busto muliebre bifronte stanno altri
quattro medaglioni raffiguranti tre santi vescovi ed un Dottore della Chiesa. A fianco del busto sdoppiato
sono riprodotte le leggende
corrispondenti al recto ed al verso di una moneta senese. Sempre in basso sulla
fascia di una ulteriore incorniciatura sono dipinti in monocromia altri due
medaglioni, raffiguranti l'uno la Madonna col Bambini e angeli, l'altro, il
leone rampante del sigillo del Capitano del popolo. Il grande affresco è
considerato come un omaggio alla Maestà di Duccio nel Duomo di Siena, dalla
quale Simone riprende lo stesso impianto compositivo con la Madonna col Bambino al centro, i santi
ai due lati e, in primo piano, i santi patroni di Siena. In questo dipinto si
evidenzia però anche il distacco di Simone dalla precedente pittura di cui
sopra considerata, soprattutto per lo squisito e delicato gusto gotico nella
raffigurazione di una Vergine più austera e distaccata, assise in un trono
cuspidato entro un baldacchino da cerimonia: un gusto che possiamo definire di
sapore transalpino. Inoltre nella Madonna di Simone è completamente assente
l'horror vacui che pare caratterizzare quella di Duccio.
Analoghi
modi si riscontrano negli affreschi della
cappella di S. Martino nella chiesa inferiore della basilica di S.
Francesco ad Assisi, eseguiti verso il 1317 per alcuni studiosi, dal 1325 al
1330 per altri. L'esempio giottesco si rivela nella plasticità leggermente
accentuata delle figure, ampiamente panneggiate (secondo moduli tipici di
Giovanni Pisano): gli aristocratici personaggi, collocati in ambienti
prospetticamente costruiti, esaltano la magnificenza degli ideali
cavallereschi.
Quest'ultimo
tratto giunge alla sua più alta espressione nella tavola con S. Ludovico da Tolosa incorona
il fratello Roberto d'Angiò (1317, Napoli, Galleria Nazionale di
Capodimonte): la ricca decorazione e i vivaci colori si stagliano sul fondo
d'oro e concorrono a creare una scena in cui il motivo religioso svanisce
rispetto all'esaltazione della regalità dei personaggi. San Ludovico
(1275 - 1298), figlio del re di Sicilia Carlo II d'Angiò (1248 - 1309), e di
Maria di Ungheria (1257 - 1323), a Montpellier, ad inizio 1296, rinunziò alla
corona di Napoli scegliendo la strada religiosa, che intraprese nel maggio
dello stesso anno. Al suo posto ascese al trono il fratello Roberto ma forti
furono le contestazioni e le voci di usurpazione, tanto che si arrivò ad un
processo presso la corte pontificia. Il papa si pronunciò a favore ma le
polemiche non si placarono, soprattutto negli ambienti dei ghibellini. La
santificazione di Ludovico, che avvenne il 7 aprile 1317 sotto il pontificato
di papa Giovanni XXII, diede modo al nuovo re di Napoli di validare la propria
legittimità al trono. Simone Martini valutò l'importanza dell'avvenimento ed
impostò il suo concetto nel modo più razionale ed espressivo, mettendo in
relazione sul piano figurativo le due alte investiture — terrena e celeste —
che riconosceva come inseparabili anche nel pensiero di Roberto. L'opera è
costituita da tavola grande (200 x 138 cm.), dove è raffigurato il santo, e una
predella (56 x 205 cm.) in cui sono narrate le sue storie. L'episodio
principale è descritto nella sua quasi totalità dalla maestosa immagine di San
Ludovico da Tolosa, assise in trono e vistosamente adornato con vesti
episcopali la cui apertura scopre il saio francescano. Il Santo è incoronato da
due angeli nel momento in cui sta porgendo una corona sul capo di Roberto
d'Angiò, suo fratello minore. Il dipinto è dunque una celebrazione del grande
Santo, realizzato in occasione della sua santificazione, ma anche quella della
dinastia della famiglia angioina. Nella composizione tutto diventa aulico,
regale e pregiato: la sontuosità del mantello in broccato rifinito con
elegantissime bordure dorate, il prezioso casellamento di gemme sul pastorale e
sulla mitra, la raffinatezza delle due corone che sembrano fondersi con lo
stesso cromatismo dorato dello sfondo. Simone Martini dimostra in questo
dipinto di avere una grande sensibilità e capacità di raffigurare le varie
materie, come le stoffe con i relativi ricami, i gigli della famiglia Angiò, il
tappeto di motivo orientale disteso sul pavimento, i pregiati metalli delle
oreficerie, gli intarsi della pedana in legno sotto il trono.
Ugualmente
ricca di preziosità stilistiche è l'arte di Martini nei dipinti su tavola – polittico
per i domenicani di Pisa, 1319, Pisa, Museo; Madonna col Bambino, Siena, Pinacoteca; tavola con Il beato Agostino Novello e quattro suoi miracoli, Siena, S.
Agostino.
Nel
1328 l'artista eseguì il celebre Guidoriccio da Fogliano, affrescato sulla parete che
fronteggia la Maestà, nel Palazzo Pubblico di Siena: la severa e
maestosa figura del condottiero e l'aspro e nudo paesaggio sono calati in
un'atmosfera di lirica e malinconica contemplazione. Il dipinto si
estende per tutta la parte adiacente al soffitto – molto distante in altezza
dal pavimento – nella parete di fondo della sala del Mappamondo, di fronte alla "Parete della Balestra"
dove è rappresentata la Maestà (cm. 763 x 970). L'autografia di Simone Martini, ricavata
da documentazioni esistenti, non ha mai dato adito a discussioni. L'affresco fu
commissionato intorno all'ottobre-dicembre del 1328 e assegnato – come
appartenenza – al ciclo dei "Castelli conquistati dalla repubblica di
Siena", dovendo proseguire lungo le altre due pareti maggiori della sala.
L'intero ciclo fu iniziato nel 1314 con la rappresentazione del Castello di
Giuncarico, quindi continuato con la presente opera e portato a termine dallo
stesso artista nel 1331 con la raffigurazione dei Castelli di Arcidosso e di
Casteldelpiano, ormai perduti. In questa composizione rimane intatto anche il
suo idealizzato modulo formale, dove la favola persevera incontrastata in un
elegante ed aristocratico tono che intende celebrare, con un'astrazione
umanistica, non più l'essere divino ma l'uomo, nella figura di Guidoriccio da
Fogliano, il grande condottiero vincente su Castruccio Castracani e
conquistatore di Montemassi. In un paesaggio bigio, spoglio delle cose più
naturali, irto di castelli e torri con bandiere sventolanti, con lunghi
steccati, sguarnite montagne e con un tetro accampamento nella vallata, il
protagonista, più che essere celebrato, è semplicemente raffigurato. Ma questa
figura solitaria, viene rappresentata dall'artista come una apparizione di un
personaggio nel suo superbo e rigido profilo, inserito in un ampio ambiente
irreale dove incombe la sua supremazia.
Del
1333 è l'Annunciazione (Firenze,
Uffizi), in cui prevale il gioco lineare. L'arte di Simone tuttavia non giunge
mai a cristallizzarsi in soluzioni puramente grafiche o decorative; al
contrario, proprio per l'intensificarsi dell'espressione lineare si arricchisce
di densi significati umani. Nella tavola di centro, che a prima vista
sembrerebbe un trittico, dall'angelo inginocchiato davanti alla Madonna esce il
tradizionale discorso, rilevato in oro sullo sfondo aureo. Nello scomparto
laterale a sinistra è raffigurato Sant'Ansano, mentre in quello a destra, una
santa di non facile identificazione: per la maggior parte degli studiosi si
tratta di Santa Giustina o Santa Giuditta; per altri, tra i quali il Kaftal, la
santa raffigurata è Massima, la madrina di Sant'Ansano; per altri ancora,
trattasi di Santa Margherita. I quattro medaglioni con le raffigurazioni dei
busti di Profeti, inseriti nelle quattro cuspidi laterali, sono autografi. L'opera
fu realizzata per la cappella di Sant'Ansano della cattedrale senese. La
critica moderna è ormai concorde nell'attribuire l'Annunciazione a Simone
Martini ed i due santi al collaboratore, data la stesura più corposa, come pure i medaglioni
raffiguranti i Profeti.
L'espressività
si accentua nelle opere del periodo di Avignone, dove Simone Martini si
trasferì nel 1339 alla corte papale di Benedetto e dove morì nel 1344. Qui i
modi della sua pittura, più naturalistica di quella gotica francese, concorsero
con quella alla nascita del gotico internazionale.
Ambrogio
Lorenzetti
nacque a Siena nel 1285 e morì nel 1348. La sua opera più antica è la Madonna col Bambino firmata
e datata 1319 nella parrocchiale di Vico l'Abate in Val di Pesa, dove l'artista
appare vicino alla lezione di Giotto, evidente nell'esaltazione dei valori
plastici e nella salda strutturalità dell'immagine, espressa nei contorni che
definiscono vividi piani cromatici. L'attività di Ambrogio si svolse tra
Firenze e Siena fino al 1335; dopo questa data documenti e opere ne attestano
la presenza pressoché ininterrotta a Siena. Qui, allontanandosi da Duccio e da
Simone Martini, egli instaurò un linguaggio italiano e popolare, capace di
esprimere una ricca gamma di sentimenti umani. Nelle sue celebri Madonne (dalla Madonna del Latte dell'arcivescovado
di Siena alla Madonna col Bambino di
Brera, alla piccola Maestà n. 65 della pinacoteca di Siena alla Maestà del municipio di Massa Marittima),
all'appassionata immediatezza si unisce una sottigliezza di indagini
stilistiche e di ricerche formali inedite.
Tra il 1337 e il
1339 eseguì gli affreschi con le Allegorie ed Effetti del buono e cattivo governo in città e nel
contado nella
Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena, opera di grande interesse non solo
artistico ma anche iconografico e documentario perché Ambrogio diede per la
prima volta preminenza assoluta alla rappresentazione del paesaggio,
cogliendone gli aspetti più vivi e realistici e rendendolo scevro da ogni stilizzazione
formale.
L'Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo è un ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti che
dovevano ispirare l'operato dei governatori cittadini che si riunivano in
queste sale, sono composti da quattro scene disposte lungo tutto il registro
superiore di tre pareti di una stanza rettangolare, detta Sala del Consiglio
dei Nove, o della Pace. Il periodo di governo dei Nove, in carica dal 1287 al 1355, fu molto fecondo e prolifico per la comunità senese:
vennero aperti nuovi e numerosi cantieri, tra i quali quello del Duomo; furono edificati molti
palazzi, incluso il Palazzo
Pubblico; venne completata una parte consistente della cinta muraria; nell'arte
fiorì la Scuola senese.
Gli affreschi
furono commissionati dal Governo della Città di Siena, che in quegli anni era
governata da nove cittadini, il Governo
dei Nove appunto, che rimanevano
in carica un periodo di tempo limitato, per lasciare poi il posto ad altri nove
cittadini.
Ambrogio vi lasciò
la firma sotto l’affresco della parete di fondo, dove si trova l’Allegoria
del Buon Governo. La Sala del Consiglio dei Nove ha subito negli anni
numerose modifiche: il sistema degli accessi alla sala è stato modificato e
sono andati perduti la mobilia e gli arredi originari. Anche gli affreschi
hanno subito integrazioni e mostrano qua e là lacune. Nel dipingere le scene
Ambrogio ricorse a stratagemmi fini, per esempio nel Buon Governo la prospettiva e la luce sono
costruite in modo da mostrare serenamente la città fino in profondità, mentre
la scura città del Cattivo
Governo dà subito una
sensazione di disarmonia, con tetri edifici che bloccano la visuale. Influenzato
dalla prima formazione avvenuta a Siena, Ambrogio tuttavia si discostò dai
caratteri dominanti di tale arte tanto che è difficile ritenerlo un'esponente
tipico della pittura senese del Trecento. Nell'affresco fu rappresentato il
paesaggio rurale ed urbano, quasi assoluta novità nel panorama artistico
dell'epoca (presente già in alcune miniature di ambito federiciano, ma molto
più stilizzato), con una cura del dettaglio, una vastità ed una credibilità mai
toccate finora. Tuttavia questa rappresentazione non era fine a se stessa
(volontà di portare una testimonianza di un paesaggio) ma fa parte di un
preciso messaggio politico, veicolato dal paesaggio: la campagna qui illustra
allegoricamente un concetto (di effetto di un regime politico), non un paesaggio.
Del 1342 è la Presentazione al Tempio (Firenze,
Uffizi) e del 1344 l'Annunciazione (Siena,
Pinacoteca). Ambrogio fu anche cartografo e realizzò fra l'altro il perduto Mappamondo, mappa girevole, probabilmente su
pergamena, dello Stato senese, che si conservava nella sala maggiore del
palazzo pubblico di Siena.
Fratello
maggiore di Ambrogio, anche Pietro Lorenzetti
(Siena 1280/85 – 1348), fu attivo oltre che a Siena, a Firenze, Assisi e
Arezzo. La prima opera certa è il polittico della Pieve d'Arezzo del 1320, dove
la visione di Pietro appare sostanziata anche dal patetismo e dalla
drammaticità di Giovanni Pisano. Espressioni analoghe che si ritrovano anche
nella Madonna del Museo diocesano di Cortona, nel
motivo del muto colloquio di sguardi tra la Madonna e il Bambino.
La pala della Beata Umiltà agli Uffizi del 1316 rivela un forte
ascendente giottesco. Il polittico mostra la Beata
Umiltà con una monaca
inginocchiata al centro della pala, circondata da storie della vita della
beata, con pinnacoli di Evangelisti e una predella con tondi di Santi e un Cristo in pietà al centro. Le Storie, dalla vivace vena
narrativa e descrittiva della vita monastica dell'epoca, vanno lette per file,
da sinistra verso destra, dall'alto in basso. Esse sono: Beata Umiltà decide
di separarsi dal marito Ugolotto per vivere santamente, Ugolotto prende la
veste religiosa, Beata Umiltà riesce miracolosamente a leggere nel refettorio
di Santa Perpetua, (le
monache stanno chiacchierando durante il pasto violando il voto di silenzio, ma
la beata appare ristabilendo l'ascolto delle Sacre Scritture), Un monaco
vallombrosano rifiuta di farsi amputare un piede malato, Beata Umiltà risana il
piede del monaco vallombrosano, Beata Umiltà guada il fiume Lamone, Beata
Umiltà giunge a Firenze, Beata Umiltà porta i mattoni raccolti per costruire il
convento, Beata Umiltà resuscita un bambino, Beata Umiltà detta i suoi sermoni,
Beata Umiltà resuscita una suora, Miracolo
del ghiaccio, Funerali della beata Umiltà. I quattro evangelisti sono
rappresentati a mezza figura, affacciati su scranni retti dal loro animale
simbolico. Da sinistra si riconoscono: San Marco col leone San Giovanni con
l'aquila San Matteo con l'angelo (perduto)
San Luca con il bue. I tondi della predella rappresentano: San
Girolamo San Paolo Madonna Cristo in pietà San Giovanni Evangelista San Pietro San
Giovanni Gualberto Lo stile di Pietro in quest'opera appare influenzato da
quello del fratello Ambrogio per quanto riguarda la riduzione del
fondo oro in favore di una maggiore importanza data agli sfondi architettonici,
che spesso si adattano gradevolmente alla forma delle tavole. Alcune scene
mostrano un tentativo di superare il tradizionale sfondamento delle pareti
degli edifici per mostrare scene ambientate all'interno con la presenza di
archi e loggiati, mentre altre devono ricorrere a tale espediente. In generale
è evidente anche l'influsso della scuola
giottesca, con personaggi solidi e ben collocati nello spazio, che poco hanno a
che fare con le esili figure allungate della scuola più marcatamente
gotico-senese. Importante documento sono le numerosissime notazioni di costume
e di vita quotidiana.
Tra il 1326 e il
1329 Pietro eseguì un importante ciclo di affreschi con le Storie della Passione di Cristo
nella basilica inferiore di Assisi, nel transetto sinistro.
Le scene – Entrata
di Cristo in Gerusalemme, Lavanda dei piedi, Ultima Cena Cattura di Cristo, Giuda
impiccato, Flagellazione davanti a Pilato, Andata al Calvario, Crocifissione, Deposizione
dalla croce, Seppellimento di Cristo, Discesa agli Inferi, Resurrezione, San
Francesco riceve le stimmate, Madonna col Bambino tra i santi Francesco a
Giovanni Evangelista – si dispiegano sulla volta a botte e sulle pareti
della cappella, compresi gli spicchi sopra l'arco che dà alla cappella di San
Giovanni. Raffigurano le scene della vita di Cristo ante mortem (la volta) e post mortem (parete verso la
cappella di San Giovanni) e si ricollegano a quelle dell'infanzia di Cristo nel
braccio opposto della crociera, con la ripetizione della Crocifissione:
una doppia presenza che si riscontra anche nella basilica superiore, dove la scena è
riprodotta due volte da Cimabue e la sua bottega, secondo un principio
non del tutto chiaro; forse i Francescani volevano ribadire la centralità
dell'episodio in tutta la decorazione basilicale, magari, come ha ipotizzato Chiara Frugoni, attingendo alle
versioni leggermente differenti in ciascuno degli evangelisti. Alla base degli affreschi
si trovano alcuni riquadri con i santi Rufino,
Caterina d'Alessandria, Chiara e Margherita di assistenti del Lorenzetti, e un
curioso trompe-l'oeil, la Panca
vuota. Sotto la Madonna si trovano un Crocifisso e un riquadro di un committente orante
(in origine erano forse due, posti simmetricamente). Nella cappella di San Giovanni Battista inoltre dipinse una finta pala
d'altare, la Madonna col
Bambino tra i santi Giovanni Battista e Francesco.
Del 1329
è la pala con predella per i carmelitani di Siena. Il trittico con la Natività della Vergine al
Museo dell'opera di Siena (1335-42) attesta l'evoluzione di Pietro verso più
complessi impianti compositivi, palesati nelle salde strutture plastiche dei
personaggi inserite in uno spazio prospetticamente definito.
[1] Costolone – Particolare tipo di
nervatura aggettante sull'intradosso (superficie interna (generalmente
inferiore) di un arco o di una volta, detta anche imbotte, delimitata dalle
linee d'imposta) o sull'estradosso (superficie
superiore di una struttura ad arco, di una volta o di una cupola) di una volta o di una cupola. Già presente
nell'architettura romana imperiale del secolo II d. C. senza tuttavia una
funzione portante particolare, il costolone fu poi adottato nell'architettura
bizantina e in quella islamica, spesso con funzione di rinforzo. Largamente
usato anche nel periodo romanico per convogliare le spinte delle volte a crociera,
divenne elemento essenziale della tecnica costruttiva gotica e seguitò a
svolgere una funzione importante nell'architettura rinascimentale e
postrinascimentale .
[2] Contrafforte – Nervatura di rinforzo che aumenta la sezione di una
struttura muraria all'intersezione con travi, archi, volte, onde contenere le
risultanti dei carichi; ha in genere sezione decrescente dal basso verso
l'alto. Appare come elemento funzionale nell'architettura romana, sotto forma
di nicchie celate nel perimetro murario o sporgenti da esso come a Roma nel Pantheon; nell'architettura romanica, dove i contrafforti sono per lo più
ispessimenti del muro in corrispondenza dei costoloni delle volte; nel gotico, dove le spinte
delle volte sono trasmesse ai contrafforti mediante archi rampanti . Nel Rinascimento il contrafforte tende
invece a divenire elemento puramente decorativo. Con lo stesso nome si
designano i rinforzi in muratura posti all'interno di opere fortificate per
accrescerne la resistenza.
[3] Guglia – Elemento architettonico,
generalmente piramidale, disposto sulla linea del tetto o a piombo dei muri
perimetrali, con un'evidente funzione decorativa e di richiamo visivo per
l'edificio sottostante.
Molto frequente
nelle architetture delle civiltà orientali, dove viene realizzata in pietra (stūpa di
Bali) o in legno (pagode cinesi), la guglia si incontra di rado
in Occidente fino all'epoca gotica, età in cui è utilizzata come terminale per i campanili
o per le torri fiancheggianti le chiese, come contrappeso per i piloni che
reggono i contrafforti o
come coronamento della crociera del transetto.
In quest'ultimo
caso, la guglia è costituita da un'intelaiatura di legno coperta di piombo o di
lastre di ardesia.
Quasi scomparsa
in epoca rinascimentale e barocca, fu talvolta
ripresa in edifici moderni (cupola di S. Gaudenzio a Novara, di A. Antonelli; tempio
della Sagrada Familia a Barcellona, di A. Gaudí).
[4] Naturalismo - Termine comune alle correnti
di pensiero che considerano la natura non solo come oggetto fondamentale della riflessione
filosofica, ma anche come punto di riferimento determinante e assoluto per
quanto riguarda la vita e gli interessi dell'uomo.
Nella storia
dell'arte il termine naturalismo, inteso come tendenza alla rappresentazione
obiettiva della realtà, assume valore di categoria eterna, riferibile a diversi
momenti artistici: da certe figurazioni preistoriche all'arte ellenistica, da
certi aspetti del Quattrocento italiano e fiammingo al caravaggismo del Seicento europeo, fino alla
pittura di costume del Settecento inglese.
Il caravaggismo
fu una corrente artistica che ebbe inizio nel sec. XVII e che annoverò
personalità diverse operanti in Italia, in Francia, in Spagna e soprattutto nei
Paesi nordici fino a tutto il sec. XVIII. La lezione caravaggesca non ebbe
soltanto valore di insegnamento formale, ma costituì soprattutto un alto
esempio di misura morale: con Caravaggio l'artista assunse una dignità nuova
nella società del secolo della Controriforma. Corrispondendo alle esigenze e agli
ideali del tempo, l'arte di Caravaggio ebbe anche carattere di azione
chiarificatrice, il cui significato fu subito raccolto da artisti diversi.
Storicamente,
invece, con naturalismo si indica il movimento sorto in Francia verso il 1870
come continuazione e sviluppo del realismo, dal quale ricavò l'opposizione
all'idealismo classico e romantico sulla base di una rivendicazione del valore
della realtà oggettiva come tema di rappresentazione valido in sé anche nei
suoi aspetti meno gradevoli ed edificanti. Tuttavia, pur derivando dal realismo
tali esigenze di verità e di sincerità espressiva, il naturalismo ne attenuò
l'impegno politico e sociale, accentuando invece i rapporti con le scienze
naturali, in corrispondenza con gli ideali positivistici e con la mentalità
razionalistica del momento.
Dalla Francia,
dove il movimento raggiunse elevate espressioni e creò le premesse culturali
della svolta impressionista, tale
spinta verso la realtà si diffuse in tutta Europa e in America. In Italia,
attraverso gli stretti rapporti che ebbero coi francesi i fratelli Palizzi e
S. De Tivoli, il
naturalismo incise sulla formazione dei macchiaioli.
[5] Classicismo – Termine assunto ad indicare fenomeni culturali o
momenti storici traenti origine da modelli classici,
ossia, per le loro caratterizzazioni emergenti, esemplari. Questa accezione è conseguente al significato del
termine latino classicus, da cui deriva
direttamente classicismo, coniato da Quintiliano nel
secolo I d. C. col significato appunto di esemplare,
scrittore di prima classe a indicare per traslato quegli scrittori dell'età
aurea augustea degni, per la loro importanza e per i risultati di alta
elaborazione formale da essi raggiunti, di essere presi a modello. E il
concetto di imitazione di un modello considerato qualitativamente
irraggiungibile resta una delle categorie fondamentali nella delimitazione del
fenomeno.
D'interesse
archeologico nei confronti delle culture antiche assunte a modello, il
classicismo è accompagnato per lo più da un vasto processo di elaborazione di
teorie estetiche e precettistiche.
Per quanto
riguarda l'architettura e le arti figurative, il fenomeno è caratterizzato dal
costante e prevalente riferimento all'arte greca e romana.
Così è avvenuto
per la cosiddetta rinascita carolingia che si riferisce abbastanza
indifferentemente a motivi della tradizione ellenistica, romana, ravennate e
bizantina.
Nel primo
Rinascimento i modelli principali sono stati reperiti in Italia e soprattutto a
Roma e diffusi nell'accezione dei grandi maestri toscani. Nel più recente
neoclassicismo si è unita tradizione greca, etrusca, pompeiana, egizia, ecc. In
tali movimenti di reviviscenza dei modelli classici sono apparsi caratterizzanti
la rappresentazione naturalistica del corpo umano, l'idealizzazione di questo
attraverso la proposta di canoni proporzionali, il conseguente più esteso
concetto di armonia e di bellezza intese come equilibrio razionale dei
rapporti, l'iconismo e il naturalismo come fenomeni linguistici e tematici
prevalenti, ecc.
Il fenomeno del
classicismo implica infatti sempre due polarità compenetrantesi: quella
morfologica e quella ideologica. Morfologicamente gli aspetti ricorrenti nei
fenomeni classicistici sono il richiamo a una tradizione, la citazione di un lessico di epoche
storicizzate come classiche, il riferimento a modelli desunti da un repertorio
archeologico, la concezione di un bello ideale contrapposto alla mutevolezza
delle forme reali e articolantesi come proporzionalità, armonia, razionalità,
nel totale rifiuto di ogni forma di decorazione accessoria e di ogni
concessione al sentimento e alla passionalità, dall'altra. Ideologicamente il
classicismo si articola su due piani; uno è etico, come lettura della storia e
della cultura classica in funzione di modelli di comportamento. L'altro, a
carattere politico e statale, si lega alle concezioni, variamente interpretate,
dello Stato e dell'Impero, come appare evidente in epoca carolingia, in talune
posizioni politiche del papato, nell'ideologia fascista e nazista dell'impero,
ecc.: tutte intese ad affermare una relazione dialettica con le concezioni
giuridiche e dello Stato proprie del mondo antico greco e soprattutto romano.
[6] Vetrate – L'uso di schermare
finestre con vetri policromi risale a tempi molto antichi, tuttavia il grande
sviluppo della vetrata ebbe luogo nel periodo romanico e soprattutto gotico,
allorché la riduzione delle funzioni di sostegno del tessuto murario permise
l'apertura di sempre più ampie finestre.
Lungo il secolo
XII lo sviluppo della vetrata fu soprattutto limitato all'area francese. Fra le
vetrate del centro-nord della Francia, grande importanza ebbero quelle del coro
dell'abbazia di S. Denis; caratteri più bizantineggianti ebbero quelle del
centro e del sud della Francia, per i rapporti con la cultura italiana.
La svolta in
senso gotico avvenne alla fine del secolo XII, soprattutto con le vetrate di S. Remi a Reims (1175 –
1200). A queste, nel secolo XIII, seguì il grande sviluppo della vetrata, che
raggiunse il suo apogeo. Sono di questo secolo i grandi complessi di Chartres
(1200-36), di Bourges, di Lione, di Reims, di Troyes.
Caratteri
specifici delle vetrate del secolo XIII sono l'arricchirsi delle strutture
narrative, l'unificazione dell'intero vano della finestra in un'unica apertura
schermata dalla vetrata, un ampliarsi sempre maggiore delle vetrate stesse,
fino a esempi come quello della Sainte-Chapelle di Parigi (1242-48), dove ormai
è del tutto assente il tessuto murario, sostituito dallo sviluppo continuo
delle vetrate, appena separate da sottili pilastri.
Conseguente
all'arricchimento delle strutture narrative fu il sempre più largo uso della grisaille – pittura monocroma, basata su varie tonalità di grigio, con
effetti di chiaroscuro e rilievo – che comportò una svolta verso maggiori
effetti di pittoricismo, compensando in tal modo la scarsità o assenza di
decorazioni pittoriche.
Nel secolo XIII
si verificò inoltre la grande diffusione europea della vetrata: dalla Germania,
oscillante fra tradizione romanica e cultura gotica, all'Inghilterra, in
stretta relazione con la Francia (ne sono esempio le vetrate della cattedrale
di Canterbury), fino all'Italia. Qui gli esemplari più antichi sembrano essere
le vetrate della Basilica Superiore di S. Francesco ad Assisi (ca. 1240-50),
direttamente legate alla tradizione tedesca. Ulteriore sviluppo in direzione
del pittoricismo si ebbe nel XIV secolo, soprattutto per un intensificarsi dei
particolari e delle volumetrie a grisaille e, sul piano della narrazione, per la sempre più accentuata
definizione degli spazi architettonici e ambientali in cui sono inseriti i
personaggi.
La Francia
intanto perse il suo ruolo preminente e si affermarono le scuole inglesi,
spagnole e italiane; qui si ricordano ancora Assisi, S. Maria del Fiore e S.
Croce a Firenze, l'abside del duomo di Orvieto con vetrata di Giovanni di
Bonino su disegni di Lorenzo Maitani (1334). Oltre al Maitani, fornirono
disegni per vetrate Niccolò di Pietro, Taddeo e Agnolo Gaddi e
altri illustri artisti. L'indirizzo in senso pittorico fu accentuato
nell'ultimo quarto del secolo dalla cultura del gotico internazionale. Si
giunge così al secolo XV per assistere a una svolta ormai irreversibile della
vetrata verso i caratteri di una “pittura su vetro” che sostituiscono quelli
originari e specifici di pittura di vetro.
In Italia fornirono disegni artisti come Paolo Uccello, Donatello, Andrea del Castagno per
S. Maria del Fiore a Firenze, Filippino Lippi e Domenico Ghirlandaio per S. Maria Novella, Filippo Lippi
per il duomo di Prato, il Foppa e Cristoforo de' Mottis per il duomo di Milano, il Bergognone
per la Certosa di Pavia, G. Mocetto per S. Zanipolo di Venezia ecc.
Con il secolo
XVI le vicende culturali europee portano pressoché dovunque a una riduzione di
interesse per le vetrate (salvo quelle a soggetto araldico, di destinazione
profana e comunque di piccole dimensioni). In Italia furono tuttavia ancora
presenti figure di rilievo come Guillaume de Marcillat (attivo
a Roma, Cortona, Arezzo).
Una ripresa si
ebbe nel corso del secolo XIX con il neogotico e, soprattutto negli ultimi
decenni, con l'affermarsi del simbolismo e dell'Art Nouveau, a cui ben
si confacevano le campiture definite dei tasselli vitrei, sottolineate dai
listelli di piombo che accentuavano le caratterizzazioni grafiche
dell'immagine. Notevoli le vetrate eseguite da L. C. Tiffany su disegni di
Toulouse-Lautrec, Bonnard, Vuillard, ecc., quelle disegnate da M. Denis, fino
ad arrivare a quelle realizzate nel Novecento su disegni di Léger, Braque,
Rouault, Matisse e altri.
[7] Il Duomo di Siena - Il Duomo di Siena é uno dei capolavori del
romanico-gotico italiano. La Cattedrale fu eretta nel luogo in cui esisteva una
chiesa fin dal IX secolo La costruzione iniziò nel 1229 e fu portata a termine
solo alla fine del Trecento. Tra il 1258 e 1285 la direzione dei lavori fu
affidata ai monaci Cistercensi di San Galgano, che chiamarono a Siena Nicola Pisano e suo figlio Giovanni.
All'inizio del Trecento, Siena era al massimo della sua prosperità e
le proporzioni della Cattedrale non apparvero più degne dello splendore della
Repubblica. Si decise quindi di ricostruire una nuova e grandiosa Cattedrale di
cui l'attuale chiesa sarebbe stata solo un transetto. Il progetto fu affidato a
Lando di Pietro nel 1339, ma la peste del 1348 e le guerre con le città vicine
fecero precipitare la situazione che da florida divenne critica e l'ambizioso
progetto fu definitivamente abbandonato. Dopo questa parentesi, si tornò a
lavorare sul duomo originario e nel 1376 fu affidata la costruzione della
facciata superiore a Giovanni di Cecco; nel frattempo la cupola e il campanile
erano già stati eseguiti. Nel 1382 si provvedeva al rialzamento delle volte
della navata centrale e alla ricostruzione dell'abside: solo allora il Duomo
poté considerarsi terminato.
La facciata, di
Giovanni Pisano, é luminosa, solare, maestosa, ricca di particolari: in marmi
policromi ha una ricca decorazione scultorea. La zona inferiore, aperta da tre
portali con timpani gotici, è opera di Giovanni Pisano, così come le statue dei
profeti, dei filosofi e dei patriarchi, mentre la parte superiore è del
Trecento e mosaici ottocenteschi decorano le tre cuspidi. Il fianco destro,
scandito dalle fasce marmoree chiare e scure, è aperto da grandi finestre a
tabernacolo e dalla Porta del Perdono, sormontata da un bassorilievo
raffigurante la Madonna con il Bambino, attribuito a Donatello. I contrafforti
sono coronati da statue di profeti, copie degli originali del XIV secolo,
custoditi nella cripta di San Giovanni.
Il campanile, a fasce bianche e
nere, sorge su un'antica torre, presenta sei ordini di finestre ed è coronato
da una cuspide a piramide ottagonale.
L'interno é uno spettacolare gioco di ombre, tra
gli archi imponenti e la miriade di opere realizzate da Bernini, Donatello,
Michelangelo, Pinturicchio e Nicola Pisano. A croce latina, è suddiviso in tre
navate da pilastri, che sostengono le volte dipinte in azzurro con stelle
d'oro. La bicromia delle fasce bianche e nere raggiunge qui un effetto di
grande enfasi, accentuato dal magnifico pavimento con tarsie marmoree
prevalentemente dello stesso colore.
La navata centrale e il presbiterio
presentano un cornicione sostenuto dai busti di 172 pontefici, sotto il quale
si trovano i busti di 36 imperatori, opera del XV-XVI secolo. La cupola, a
pianta esagonale, è decorata da statue dorate di santi e da figure di
patriarchi e profeti, dipinte a chiaroscuro alla fine del XV secolo.
Nel transetto sinistro si può
ammirare lo splendido pulpito di Nicola Pisano. Si prosegue nel transetto
sinistro, dove è posta la tomba del Cardinale Riccardo Petroni, eseguita da
Tino di Camaino nel 1317-1318, il cui modello fu spesso ripetuto nel corso del
XIV secolo.
L'esterno e l'interno sono legati
dallo stupendo rosone gotico di Duccio di Buoninsegna e dal motivo
architettonico tipico della Toscana, con quelle strisce alternate di bianco e
verde scuro, ai quali si aggiungono i marmi
gialli il rosso ammonnitico ed i travertini.
L'elemento più particolare della
Cattedrale é il
pavimento, un esempio unico nel suo genere. L'impresa decorativa
interessa 1.300 metri quadri di superficie e durò oltre 400 anni, dal XIV al
XVIII secolo: se inizialmente il lavoro era basato sulla semplicità, col
passare del tempo si affinò fino a realizzare scene che sembrano vere e proprie
opere pittoriche che rappresentano l'evolversi della filosofia umana: si parte
dalla saggezza alchemica di Ermete
Trismegisto, per passare alla mitologia quella greco-romana, quindi alle scene
del Vecchio Testamento fino a quello del Nuovo, per arrivare alla Verità
Assoluta rappresentata da Dio. Le 56 scene sono state realizzate dai numerosi
artisti che si sono succeduti: tra questi il Pinturicchio, Domenico di Bartolo,
Francesco di Giorgio Martini e Domenico Beccafumi.
[8] Battistero – Il Battistero è uno dei quattro edifici che
compongono il complesso monumentale di Piazza dei Miracoli.
Il progetto
originale del Battistero era dell'architetto Diotisalvi, ma i lavori furono
interrotti presto per essere ripresi un secolo più tardi, sotto la guida di
Nicola e Giovanni Pisano. La struttura fu terminata a fine Trecento. Questa è
la ragione della particolare mescolanza di stili architettonici che
contraddistingue il Battistero e che è possibile ritrovare anche in altre opere
di Piazza dei Miracoli. L'ultimo intervento che ci ha consegnato l'edificio
così come lo vediamo oggi risale al XIX secolo, quando furono anche eseguite
delle copie delle originali sculture ornamentali. Queste ultime, infatti,
furono trasferite e sono tuttora conservate nel Museo dell'Opera del Duomo.
Il Battistero è a
pianta circolare, ricoperto di marmo bianco, prevalentemente in stile romanico
pisano, sebbene decorazioni e bifore evidenziano un'influenza gotica. La sua
cupola piramidale è divisa in una parte di mattone rosso ed una di lamine di
piombo bianco. Culmina con un cupolino sopra al quale poggia una statua in
bronzo raffigurante San Giovanni Battista.
L'interno del
Battistero fu progettato volutamente spoglio allo scopo di favorire uno
straordinario eco, in grado di suscitare un'atmosfera mistica e suggestiva. Al
centro della struttura è situata la Fonte Battesimale, concepita per il rito
"a immersione", allora
molto comune. Opera di Guido Bigarelli da Como, realizzata nel 1246, è
costituito da una grande vasca ottagonale con altre quattro vasche più piccole
all'interno. L'opera risente dell'influenza bizantina del suo autore, che si
rivela negli intarsi che la impreziosiscono.
[9] Sacello – Nella Roma antica, piccola
area cintata o piccolo edificio con un altare sacro a una divinità, più spesso
di carattere privato. Erano chiamate sacella anche le cappelle dei Lari Compitali.
Nell'architettura cristiana, sinonimo di oratorio, di piccola cappella o
edificio sepolcrale.
[10] Pulpito – Nelle chiese cristiane,
struttura sopraelevata destinata alla predicazione o alla lettura dei testi
sacri.
Derivato dall'ambone, ma collocato fuori dal presbiterio (in genere nella navata centrale) per
un più diretto contatto con i fedeli, il pulpito, di forma quadrata, circolare
o poligonale, è sorretto da pilastrini o colonne, oppure è addossato
direttamente alla parete o a un pilastro. Integrato in epoca gotica da un
baldacchino a tettoia per migliorare l'acustica, il pulpito può essere
costruito in pietra, marmo o legno, col parapetto talora adorno di tarsie
colorate (Cappella Palatina a Palermo) o di rilievi marmorei (pulpito di Nicola e Giovanni Pisano nelle
cattedrali di Siena e di Pisa). Il legno fu particolarmente usato nei pulpiti
sei-settecenteschi, sontuosamente scolpiti e ornati di stucchi.