Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

lunedì 15 settembre 2014

Scheda di lettura di un'opera d'arte di Massimo Capuozzo

Un’opera d’arte può emozionare, può deludere. Da sempre gli uomini hanno provato sentimenti, emozioni di fronte alle opere d’arte siano state esse pitture, sculture, architetture, manufatti di vario genere, raggruppati sotto il termine di arti applicate.
La prima valutazione che si dà di un’opera d’arte è di tipo emozionale: un’opera può piacere o no. Dopo una valutazione di tipo estetico di un’opera d’arte si passa ad un livello superiore che implica un minimo di conoscenza delle tecniche artistiche, delle tipologie di opere d’arte, dei periodi storici e delle correnti artistiche.
I valori espressivi di un’opera, riferibili al significato, non possono essere separati dai valori visivi, riferibili al significante: l’analisi della linea, del colore, della luce, dello spazio sono funzionali al significato dell’opera.
L’opera d’arte può nascondere significati diversi da quelli direttamente espressi dal soggetto: simboli ed allegorie vanno decifrati rintracciando il significato che in ogni epoca hanno assunto sulla base di precisi valori mitologici, religiosi e culturali. Una battaglia, ad esempio, può avere valore solo celebrativo, ma può anche avere valori ideologici, simboleggiare ad esempio la lotta di un popolo per conquistare la libertà.
La lettura di un’opera passa attraverso varie fasi: si parte dall’acquisizione dei dati preliminari di un’opera (tipologia[1], autore[2], datazione[3], dati tecnici[4], dimensioni[5], committenza[6]), si arriva poi all’analisi del soggetto[7] (lettura iconografica[8] e iconologica[9]) per concludere con la lettura del linguaggio visivo (punto[10], linea[11], colore[12], luce[13], volume e spazialità[14], composizione[15]).
















Schema di lettura
Lo schema di lettura dell’opera è basato su più livelli di lettura, incentrati sui seguenti punti:
1) Informazioni relative all’opera.
È necessario individuare l’oggetto attraverso una serie di informazioni relative a:
- autore;
- titolo;
- dimensioni;
- tecnica e materiali con cui è stata realizzata;
- stato di conservazione ed eventuale restauro;
- provenienza e sede attuale.
2) Lettura dei contenuti dell’opera, da svilupparsi su più livelli:
- aspetti semantici, intesi come descrizione iconografica in genere e come connotazione iconologica degli elementi scritti;
- aspetti formali e stilistici, in particolare relativi all’esame del colore, della forma, della linea, dello spazio, ecc.
- studio delle fonti storiche e letterarie, se si tratta di un’opera a contenuto religioso o profano;
- analisi delle funzioni e degli scopi dell’opera rispetto al contesto storico in cui fu prodotta;
- eventuale comparazione dell’opera con altre, sugli elementi formali e stilistici.
3) Analisi degli elementi extra-contestuali.
Essi riguardano l’artista, il contesto storico, la committenza:
- per l’artista va ricostruito il suo profilo artistico e culturale;
- va analizzato il contesto storico, sociale e culturale in cui operò l’artista;
- vanno analizzati i rapporti con i committenti dell’opera.


[1] Tipologia - Bisogna distinguere se si tratta di una pittura (in tal caso se si tratta di acquerello, tempera, olio) o di un disegno; di una scultura (in tal caso se si tratta del tutto tondo, di un bassorilievo o di un altorilievo); di un’architettura (in tal caso se si tratta di chiesa, palazzo pubblico, acquedotto….); di un manufatto (in tal caso se si tratta in tal caso se si tratta d’oreficeria, tessile, di carta, di metallo…)
[2] Autore: Spesso l’autore è sconosciuto soprattutto quando l’opera è un oggetto d’arte antica. In questo caso si cita l’ambito culturale e storico a cui appartiene l’autore o gli autori (per es. stile di Prassitele, scultore di epoca Claudia….). Lo stesso problema dell’autore ignoto o non conosciuto lo abbiamo anche dopo la caduta dell’Impero romano e per tutto l’Alto medioevo. Raramente gli artisti in questo periodo firmavano le loro opere. Solo dal Basso medioevo e soprattutto dal Rinascimento gli artisti, elevandosi dal semplice ruolo di artigiani, iniziano a lasciare le loro firme. In questo periodo, anche quando l’autore è sconosciuto, lo stile di un’opera di un’opera si può ricondurre allo stile di un determinato maestro (architetto, scultore o pittore) e riferire l’opera alla sua bottega (per es. allievo di Giotto, maestro duccesco o bottega del Perugino…).
[3] Datazione – Spesso non è possibile avere una data precisa di un’opera d’arte soprattutto per i periodi precedenti al Basso medioevo, così, come per l’autore, si cerca di ricondurre l’opera ad un determinato periodo storico aiutandosi con le altre informazioni in nostro possesso (dati tecnici e stilistici, dimensioni, documenti scritti). Un’opera d’arte romana la si può datare riferendosi al periodo di governo di un dato imperatore (età augustea, età Claudia….), un’opera d’arte medievale la si data cercando di individuare il quarto di secolo e, se non è possibile, la prima o la seconda metà di un secolo.
In molti casi è la tecnica di un’opera a darci un indizio sulla sua datazione (per es. un dipinto a olio su tela non può essere precedente alla seconda metà del XV secolo)
[4] Dati tecnici – Si individuano le tecniche usate per la realizzazione dell’opera e il supporto utilizzato (per es. nel caso di una pittura bisognerà specificare se l’opera è su tela o su tavola).
L’analisi dei dati tecnici è molto importante per poter poi determinare il linguaggio visivo utilizzato dall’autore, il differente supporto di un’opera muta l’effetto che l’opera produce.
[5] Dimensioni – Le dimensioni sono strettamente collegate alla committenza. Per un dipinto generalmente si riporta l’altezza e la larghezza, per una scultura si riportano le dimensioni di massimo ingombro.
[6] Committenza – La committenza è sempre stata molto importante per meglio comprendere il soggetto dell’opera, le sue dimensioni e collocazione.
Nel Medioevo la committenza era prevalentemente religiosa; nel tardo medioevo e rinascimento la committenza era religiosa ma anche laica (corporazioni, grandi mercanti).
Oggi accanto alle committenze private si affiancano anche committenze di Enti pubblici.
[7] Descrizione del soggetto – Il soggetto spesso coincide con il titolo dell’opera. Davanti ad un’opera figurativa bisogna distinguere se si tratta di un ritratto, di una natura morta, di un paesaggio, di una scena storica, religiosa o allegorica. Si analizzano poi i singoli personaggi e si distinguono gli elementi principali da quelli secondari, il primo dal secondo piano. Nel primo Novecento con le Avanguardie il soggetto si è svincolato da una figura ben precisa: Cubismo o Astrattismo. In questo caso si analizzano elementi come la forma e il colore.
[8] Lettura iconografica - Lettura iconografica, detta anche compositiva o denotativa, riguarda materiale, dimensioni e collocazione attuale, il soggetto, gli elementi costitutivi e disposizione, l'organizzazione spaziale: la prospettiva, il movimento, pittoricismo (superfici), plasticismo (volumi), cromatismo (colori), colori e luce, linee di forza, il segno e la pennellata.
[9] Lettura iconologica – La lettura iconologica detta anche connotativa si basa sul confronto e sui riferimenti con altre opere a tema analogo: similitudini, confronti elementi innovativi o accademici; sulla ricerca dei valori più profondi; sui collegamenti con altra produzione dell'artista e le funzioni rappresentate.
[10] Punto – Bisogna prima di tutto definire se il punto contribuisce a definire gli altri elementi del linguaggio visivo (linee, superficie, colore). Il punto di vista è il punto immaginario della composizione che lo spettatore usa come riferimento per risalire alla posizione dell’artista rispetto al quadro.
[11] Linea - La linea può essere continua, spezzata, nervosa; può essere il contorno di un’immagine o può essere solo decorativa (per es. nell’Art Nouveau).
Nella pittura fiorentina del ’400 la linea del disegno era il fondamento dell’opera, delineava il contorno delle immagini in modo netto.
Nella tecnica incisoria la linea assolve un ruolo fondamentale sia nel determinare i contorni delle figure sia nel costruire la sottile trama delle superfici.
[12] Colore: L’analisi del colore riguarda le qualità di tono e luminosità, le armonie e i contrasti. Bisogna analizzare se un colore prevale sugli altri o contribuisce a determinare simmetrie o asimmetrie compositive. Con l’astrattismo di Mondrian, il colore è coinciso con la forma stessa delle immagini e nei casi di Klein e Rothko il colore assume una connotazione così piena da annullare qualsiasi riferimento ad altri elementi del linguaggio visivo.
[13] Luce – Il rapporto della luce con l’oggetto illuminato indica il passaggio graduale dalla luce all'ombra in un disegno o in un dipinto, attraverso la mescolanza graduata dei colori chiari e scuri, o in una scultura attraverso la diretta incidenza della luce naturale. Il chiaroscuro è l'effetto della luce, la quale cadendo su gli oggetti li rende più o meno chiari per le sue diverse incidenze, o più o meno scuri a misura che ne son privi. Fondamentale nella letture di un’opera d’arte è la direzione di provenienza della luce e delle relative ombre.
Nelle opere di scultura la superficie riveste una grande importanza perché influisce sull’effetto che l’opera produce soprattutto quando è esposta alla luce.
[14] Volume e spazia: nella cultura occidentale si è sempre osservato quanto un’immagine, un oggetto rappresentato aderisce al dato reale. Nel Rinascimento gli artisti hanno usato la prospettiva per rappresentare lo spazio e le cose in esse inserite. L’indagine del volume non può essere separata da quella della luce.
[15] Composizione: l’assetto compositivo di un’opera dipende dall’organizzazione complessiva di linee, forme e colori. Generalmente si distingue una composizione figurativa da quella astratta in cui il soggetto coincide con la disposizione stessa di forme e colori.

giovedì 11 settembre 2014

Letteratura italiana V

1. Letteratura dell’età del realismo - La crisi della letteratura e dell’arte romantica maturò prima nelle cerchie più ristrette degli intellettuali che sentirono l’inadeguatezza e la stanchezza di schemi, temi e linguaggio divenuti or­mai tradizionali e iniziarono quelle speri­mentazioni che solo verso la fine del seco­lo ebbero, a loro volta, una larga diffusione e crearono un nuovo gusto.
Quasi a simboleggiare il rinnovamento in atto, nel 1857 a Parigi furono stampati due libri che segna­rono l’inizio di nuovi percorsi culturali e letterari Madame Bovary di Gustave Flaubert e I fiori del male di Charles Baudelaire. Entrambi possono essere conside­rati, nei campi rispettivamente del roman­zo e della poesia, le opere da cui prese il via un nuovo modo di scrivere, di concepire l’arte e il ruolo dello scrittore. Madame Bo­vary si segnala immediatamente per il suo carattere antiromantico, sia per il contenu­to smitizzante nei confronti degli ideali e del gusto di quella cultura, sia per la for­mula narrativa, incentrata sulla scompar­sa dello scrittore-narratore, sia per il reali­smo dello stile e l’oggettività scientifica dell’indagine psicologica. Con scelte del tutto differenti Baudelaire mostrò le po­tenzialità espressive di una poesia che, at­traverso un linguaggio fortemente simbo­lico, metteva a nudo i tormenti, le ambi­guità, le esaltazioni dell’individuo.
La lezione di Baudelaire fu recepita prima in Francia e in seguito in tutta Europa e produsse l’effetto di sospin­gere i poeti verso un tipo di ricerca espres­siva dai forti contenuti intellettualistici, caratterizzata da una raffinatezza stilisti­ca che spesso coincise con il difficile e l’o­scuro. Questo fece della poesia una forma di lettura d’elite, esclusa a un pubblico di massa, e diede inizio, anche sotto l’aspetto del consumo, alla poesia moderna destinata a una circolazione quanto mai ristretta.
Al contrario il romanzo veniva a contatto con un pubblico sempre più lar­go ed eterogeneo e conservava una fun­zione di mediatore di idee e di ideologie; in questo ampliamento del circuito delle opere narrative si inserivano le scelte dell’industria editoriale.
Un’altra differenza tra le sorti della ormai nata poesia moderna e il ro­manzo è legata al diverso modo con cui le due forme letterarie entrarono in rap­porto con le tendenze del pensiero e della cultura. Mentre il percorso della poesia, che ebbe il momento di maggior identifi­cazione nel simbolismo, avvenne all’interno degli addetti ai lavori, la narrativa si sviluppò in un organico rapporto con le correnti culturali. È significativo, ad esempio, che nel periodo in cui il Positivi­smo acquistò il peso di cultura egemone si sia sviluppato il Naturalismo, che cerca­va di unire arte e metodo scientifico per una rappresentazione scientifica della realtà. Dall’ultimo decennio del secolo, la crisi della visione del mondo di matrice positivista provocò anche quella del Naturalismo: si svilupparono allora, nel clima di sfiducia nella scienza e di riaf­fermazione della priorità dell’arte, caratteristico della fine del secolo, esperienze narrative ispirate ad un atteggiamento cul­turale che si può definire estetismo.

Dopo l’unità: dagli eroici furori all’integrazione borghese
Al clima di entusiasmo e di tensione morale degli anni eroici del Risorgimento subentra, dopo l’unità, uno stato d’animo diffuso di incertezza e di delusione. All’integrazione politica della penisola non si è accompagnato il formarsi di quella nazione unita, solidale, armo­niosa che l’ingenuo - o interessato - interclassimo risorgimentale aveva vaticinato. Vengono ben presto alla luce stridenti disugua­glianze e divisioni fra le classi e fra regione e regione - in special modo fra Nord e Sud. Il nuovo Stato anziché sanarle le consolida e le accresce, scaricando sulle classi e le regioni più deboli i costi della sua politica finanziaria di risanamento e di sviluppo e dando al potere una struttura centralizzata e verticista a tutto vantaggio del blocco sociale dominante: si estende a tutto il regno la legge elettorale piemontese, consentendo cosi il diritto di voto a 500 mila elettori su una popola­zione di 20 milioni di abitanti; si scarta la proposta del decentramento regionale a vantaggio di una struttura amministrativa rigidamente unitaria, si avvia il risanamento del debito pubblico con l’esazione di pesantissime tasse indirette che «spreme tutto ciò che può essere spremuto dai ceti popolari», si falcidia con il libero scambio (fino al 1878) la debole industria meridionale. «Lo Stato italiano nasceva così con una forte impronta burocratica e censitaria e alla grande maggioranza dei suoi nuovi cittadini esso appariva impersonato dall’agente delle tasse e nella coscrizione militare obbligatoria. Di qui la sua rapida impopolarità, tanto più acuta quanto più grandi erano le speranze suscitate dal generale rivolgimento politico avvenuto» (G. Procacci).
In questo nuovo quadro la posizione del ceto dei letterati muta sensibilmente. Viene loro a mancare, anzitutto, quella funzione di iniziativa e di guida che essi avevano svolto negli anni del Risorgimento. Ora che non c’è più da incitare la balda gioventù borghese a imprese coraggiose essi perdono molta della loro importanza, rima­nendo esclusi dalla coalizione sociale di potere che le altre «avanguar­die risorgimentali» formano attorno alla dinastia sabauda. La rea­zione dei letterati si muove confusamente in varie direzioni. Si tenta di prolungare il clima battagliero degli anni precedenti sostenendo il garibaldinismo del partito d’azione e agitando la questione delle terre irredente e di Roma capitale; si rimprovera acerbamente alla classe dirigente la sua tendenza al compromesso, alla manovra poli­tica, la sua attenzione quasi esclusiva all’amministrazione; si denuncia con spirito populistico che per le masse popolari l’unificazione poli­tica non ha recato alcun vantaggio. Carducci, nella sua fase repubbli­cana e populista, sfiora accenti addirittura marxiani:
«... E pur non fai
tu leggi, o plebe, e, diradato gregge,
patria non hai».
A Milano, poi, con la Scapigliatura, emerge un tipo di contesta­zione più inquietante e radicale. Nella «capitale economica» d’Italia, che ha già i tratti di una grande moderna metropoli, dove un ceto medio urbano si fa più spesso e s’avvia una netta polarizzazione fra un’aggressiva borghesia imprenditoriale e un emergente proletariato industriale, un gruppetto di giovani bohémien è il primo ad avvertire che i letterati non solo hanno perso l’iniziativa politica e la leadership ideologica sulla vita nazionale, ma che si sta avviando un divorzio profondo fra società borghese e intellettuali. C’è già l’accenno di una rottura della solidarietà di classe, la coscienza di uno sradicamento sociale. Gli scapigliati, scrive Cletto Arrighi nel 1862, «meritano di essere inclusi in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia sociale». Essi si ispirano a Baudelaire e ai maudit francesi, testimoni smarriti e acuti del nuovo mondo urbano e industrializzato; si sentono idealmente legati con gli altri gruppi affini che si trovano, dice Arrighi, «in tutte le grandi città e ricche del mondo incivilito» e avvertono di essere «più avanti del loro tempo».
In effetti il movimento scapigliato precorre sviluppi sociali non ancora maturati in Italia. Dopo i burrascosi anni sessanta, la contesta­zione intellettuale si smorza alquanto. Anche se non si sente del tutto integrato e organico, il letterato avverte che l’Italietta è pur sempre un’Italia definitivamente dominata dalla classe borghese, quella stessa da cui provengono oramai indistintamente tutti gli ope­ratori di cultura. Borghese è il pubblico che con l’urbanizzazione e lo sviluppo dell’istruzione (dalla legge Casati alla legge Coppino) si accresce sensibilmente. Borghesi sono i committenti, cioè, indiretta­mente, il pubblico stesso e direttamente un’industria editoriale vivace, pronta a trarre profitto dalla crescente domanda di beni culturali. Cresce il numero degli scrittori che riescono a vivere del provento dei loro libri: molti sono quelli che hanno la possibilità di trovar lavoro come insegnanti, giornalisti, collaboratori editoriali. Perciò, sebbene un po’ sminuito, il letterato si sente a casa sua nell’Italia nuova, tanto più quando, con l’avvento della sinistra nel 1876, si allarga l’ambito del blocco sociale dominante fino a includere le fasce di media borghesia a cui il ceto intellettuale è più legato. Naturalmente esistono diffe­renze anche marcate fra quei letterati che ripiegano più decisamente su posizioni di schietto conservatorismo, timorosi delle prime consi­stenti manifestazioni di protesta sociale e coloro che, interpreti della borghesia più radicale e avanzata, insistono nella critica delle ingiusti­zie sociali del sistema. Nessuno tuttavia mette in discussione le basi del sistema stesso, borghese e nazionale, e tutti partecipano con convinzione di un medesimo clima culturale: quello che ha la sua base filosofica nel trionfante scientismo e positivismo europei ed esprime la sicurezza e l’ottimismo di una borghesia convinta che la scienza e la tecnica assicureranno un illimitato progresso economico al mondo e ad essa una inattaccabile supremazia sociale.
Dal punto di vista letterario questa cultura si traduce sia nella «rinascita di quel classicismo illuminista e giacobino che non aveva mai accettato la sconfitta di fronte al romanticismo e al manzonismo» (A. Asor Rosa), patriotticamente geloso della tradizione culturale italiana, che ha la sua roccaforte nell’Emilia e nella sua «fedeltà gelosa alla tradizione formale, che è tipica della civiltà letteraria della re­gione» (Sapegno) ed in Carducci il suo più autorevole esponente; sia in quella tendenza al naturalismo, che raccoglie l’esortazione di De Sanctis a volgersi al reale e non ha esitazioni ad accettare una poetica straniera e a proseguire l’operazione di superamento della tradizione classicistica operata dall’illuminismo e dal romanticismo. Da questa seconda tendenza emergeranno gli spunti più critici sulla società borghese, in nome di un populismo piuttosto paternalistico ma sincero. Con il realismo generico e con il verismo la letteratura riscopre il carattere policentrico regionale della società italiana. Natu­ralmente il potere politico unitario spinge decisamente verso l’inte­grazione culturale e linguistica: scuola, servizio militare, amministra­zione pubblica centralizzata stimolano la lenta diffusione di una lingua comune parlata (l’obiettivo fallito della «strategia culturale» di Manzoni che con i Promessi sposi contava di insegnare a parlare italiano a tutti gli italiani). Ma è un processo lento. Frattanto i veristi, nell’atto di ricostruire scrupolosamente il milieu secondo i precetti della poetica naturalista, scoprono che l’uso di una lingua nazionale - manzoniana o purista - suona irrimediabilmente falso. Da ciò una reviviscenza della letteratura dialettale oppure, come per Verga, l’af­fermarsi di una «lingua... tramata di espressioni, vocaboli, costrutti, propri del dialetto» (G. Petronio).
Giova qui sottolineare il fatto un po’ paradossale che la letteratura italiana non è mai forse stata tanto regionalista come dopo il compimento dell’unità politica. Ciò si spiega non soltanto con la voga del verismo, ma anche e soprattutto con il fatto che per la prima volta nella storia della penisola i letterati italiani si sentono sollevati dal compito di dover rappresentare la coscienza unitaria della patria italiana. L’unità c’è già, è nelle cose: è l’amministrazione regia e l’esercito, il disavanzo pubblico e l’impo­sta sul macinato, le ferrovie e la Triplice. I letterati possono smettere di rappresentare una patria fantomatica, parlando a suo nome in una lingua morta e possono invece abbandonarsi, dopo secoli, al gusto di rappresentare la realtà ossia, nella fattispecie, il mondo sociale circostante. Nella maggior parte della letteratura realista e verista, di tale mondo sono rappresentati gli strati piccolo-borghesi e quelli popolari della provincia italiana. Mentre i primi sono descritti molto impietosamente verso i secondi si dispiega una vena populista mirante a idealizzare il popolo come depositario di sani sentimenti ed istinti. In suo nome la critica alla società borghese si fa, spesso, dura, acerba, appassionata. Ma non si rinuncia a vedere il riscatto delle classi subalterne in funzione dell’ideale patriottico, come mezzo cioè di una vera unità nazionale, col risultato di rendere inevitabile che «la visione di concordia nazionale offerta ai ceti subalterni come meta del loro riscatto si risolvesse in puro strumentalismo da parte borghese. Da questo miscuglio di contestazione e di compromesso, di denuncia e di mistificazione escono risultati letterari mediocri. Fa eccezione la grande arte di Verga che si accosta al popolo non in modo ambiguo e ideologico, per consolare e promettere, ma con fermo pessimismo, per capire e conoscere: «proprio il rifiuto della speranza populista e delle suggestioni socialiste porta lo scrittore siciliano alla rappresentazione più convincente che del mondo popolare sia stata data in Italia durante l’Ottocento» (A. Asor Rosa).

2. La Scapigliatura - Il diffuso atteggiamento di insofferenza nei confronti del clima civile e sociale dell'epoca (in politica la gestione moderata del Risorgimento, nell'arte i toni moralistici e provinciali del romanticismo italiano) avviò una forte reazione alla cultura romantica da parte del gruppo della Scapigliatura, operante perlopiù a Milano negli anni '60. Il termine Scapigliatura, provocatorio e programmatico, simboleggiava il disordine della vita e dell'abbigliamento contro l'ordine curato e artificiale imperante. I temi degli scapigliati erano la lotta al conformismo borghese, dietro a cui vedevano il moderatismo romantico, il suo provincialismo e quindi il tono ormai convenzionale di una cultura incapace di stare al passo con la grande letteratura straniera, specie francese. La Scapigliatura non costituì mai, in effetti, un vero e proprio gruppo, ma solo un orientamento di rottura. Il "realismo" europeo fu il pretesto per provocare e attaccare (persino attraverso un furioso sperimentalismo formale) la sentimentale tradizione retorico-umanistica.
Ne fu araldo il milanese Cletto Arrighi (pseudonimo di Carlo Righetti, 1830-1906) con il romanzo La Scapigliatura e il 6 febbraio (1862), che narra di un ambiente di giovani artisti milanesi, irrequieti e ribelli.
Nato nel Monferrato, Ugo Iginio Tarchetti (1839-1869) dopo gli studi superiori fu ufficiale di carriera e partecipò alla repressione del brigantaggio nel Meridione, fatto che lo indusse a lasciare la vita militare. A quegli anni risalgono le prime composizioni, le prose poetiche Canti del cuore (1865). Suggestionato dalla letteratura fantastica del tedesco E.T. Hoffmann e di E.A. Poe, descrisse casi strani e bizzarri, pervasi talora da forte gusto per il macabro. Si ricordano i racconti Le leggende del castello nero (1867); Amore nell'arte (1869); Storia di una gamba (1869). Della sua produzione narrativa sono di particolare interesse tre romanzi: Paolina (1865), storia di una povera fanciulla nella crudele realtà della città; Una nobile follia. Drammi della vita militare (1866), violenta denuncia antimilitarista delle ipocrisie sociali; ma soprattutto Fosca (1869), l'opera più riuscita, che narra l'inquietante passione di un giovane per una donna brutta e malata, che, tuttavia, lo lega a sé per fascino morboso e perverso.
a) Il nome e la collocazione topografico-cronologica - La Scapigliatura, movimento il cui nome traduce il senso del termine francese bohème, è un movimento che si sviluppò a Milano, fra il 1860 e il 1890, cioè durante i primi trent’anni dell’Italia unita, a opera di un gruppo di intellettuali (i fratelli Camillo e Arrigo Boito, Ugo Tarchetti, Emilio Praga) in polemica con l’attardata cultura romantica e con il modello del romanzo manzoniano; ad essa si affianca la scapigliatura piemontese (Giovanni Faldella, Giovanni Camerana)..
b) La Scapigliatura come reazione antiborghese - Gli Scapigliati, pur appartenendo per nascita all’ambiente borghese, si sentono e si dichiarano al di fuori della società borghese quale si è andata consolidando dopo il ‘60, con la raggiunta unità d’Italia. La borghesia infatti, messi ormai da parte gli ideali e le passioni risorgimentali che pu­re l’avevano animata negli anni del riscatto, mirava ora - e particolarmente a Milano, dove si stava diffondendosi l’industrializzazione - all’espansione economica, e face­va del successo economico il suo metro di valutazione e di giudizio. La sicurezza nella bontà dei propri principi, che è tipica di ogni classe che detenga il potere in modo indi­scusso, la rendeva inoltre avversa a tutto ciò che, rappresentando una trasformazione, minacciava la sua sicurezza.
In questo clima si inserisce la rivolta degli Scapigliati, che diventano gli accusatori di una società dedita al «dio metallo», cioè all’avida conquista del denaro, insensibile ai valori dell’arte, ipocritamente decisa a ignorare gli aspetti turpi e squallidi che pure nel­la realtà esistono.
Parallelamente, essi rifiutano, nella vita concreta, l’ordine e gli agi di quella classe borghese cui appartengono per nascita e vivono polemicamente in modo disordinato e anomalo, dediti come sono, spesso, all’alcool e alla droga.
c) Il «realismo» degli Scapigliati - In letteratura, gli Scapigliati si autodefiniscono dei realisti. Ma il loro realismo ha un carattere del tutto particolare, protestatario ed ever­sivo. Non si propongono, cioè, una interpretazione ed una rappresentazione della realtà in tutti i suoi aspetti, ma vogliono soltanto denunciarne i risvolti turpi, abnormi, quei ri­svolti che la società dei benpensanti cancellava dalla propria attenzione. Sono quindi i cantori, fondamentalmente anarchici, dell’orrendo, del macabro, delle contraddizio­ni irrisolte, delle verità squallide che stanno al di sotto delle confortevoli apparenze.
Al Romanticismo, il grande movimento letterario che lì aveva preceduti, e allo stesso Manzoni gli Scapigliati furono avversi, anche se sentirono l’influsso di alcuni scrittori romantici stranieri.
d) L’influenza di Baudelaire - Recepirono invece, almeno embrionalmente, la lezione del decadentismo, il movimento che andava affermandosi in Francia, e soprattutto la lezio­ne di Baudelaire dal quale derivarono temi e tecniche innovatrici. L’opera maggiore di Baudelaire, I fiori del male, uscita nel 1857, diventò il loro breviario poetico. Fra gli scrittori scapigliati ricordiamo Emilio Praga, Arrigo Boito, Iginio Ugo Tarchetti, Giovanni Camerana, milanese dì nascita il primo, gravitanti tutti sull’area mila­nese gli altri o perché avevano fatto di Milano la loro città di adozione, o perché met­tevano capo culturalmente all’ambiente milanese.
e) La produzione scapigliata – La produzione scapigliata fu un’esperienza sviluppatasi soprattutto a Milano a partire dagli anni Sessanta.
Questi autori, accomunati dalla ricerca della novità sia tematica che formale, sperimentarono strade fra loro diverse. Introdussero il fantastico, l’onirico, la satira d’ambiente, il divertimento ironico, prediligendo forme narrative inusitate come il romanzo breve e la novella lunga.
Questi autori produssero una poesia che rappre­senta la punta avanzata verso il nuovo, ma che si esaurisce nel rinnovamento tematico e in qualche limitata sperimenta­zione formale.
Essi furono affascinati dai temi audaci e in­consueti dei simbolisti, e li assunsero come propri svuotandoli dei significati più profondi e inquietanti e riducendoli a espressioni di bizzarria, di originalità, di anticonformismo.

3. L’estetica naturalista - Il grande prestigio che il pensiero scientifico acquistò nel corso del secondo Ottocento si fece sentire anche nel cam­po letterario. In particolare i narratori avvertirono l’impor­tanza di accordare il processo creativo sul modello del metodo della ricerca scientifica, giungendo alla formulazione di alcuni criteri generali:
·         il narratore non deve inventare una storia più o meno interes­sante, ma rappresentare la vera vita dell’individuo e della società;
·         la narrazione si qualifica come studio di un fenomeno di cui si in­dicano le cause, così che l’arte si risolve, in ultima analisi, in un processo di conoscenza;
·         muta il rapporto tra narratore e opera, nel senso che l’autore è necessariamente portato a far parlare i fatti più che a darne una spiegazione attraverso interventi diretti nella narrazione;
·         l’espressione dei sentimenti si trasforma in spiegazione dei sen­timenti, sfruttando a tal fine ciò che in quel periodo veniva sco­perto nell’ambito della fisiologia.
Tutte queste istanze, presenti nella narrativa francese che si disse naturalista, vennero ordinate in una teoria del ro­manzo da Emile Zola, il quale tra il 1868 e il 1893 si impegnò nella scrittura di una ventina di romanzi del ciclo dei Rougon-Macquart che, secondo l’indicazione dello stesso autore, è fa «sto­ria naturale e sociale di una famiglia sotto il secondo impero».
Zola espresse le sue idee sul romanzo in uno scritto teorico che eb­be grande rilievo e che fu anche in Italia al centro dell’attenzione. Il titolo dell’opera, Il romanzo sperimentale, annuncia già la tesi di fondo: il romanziere è come lo sperimentatore scientifico, non si limita ad osservare, ma deve scegliere l’argomento, collocare i personaggi in situazioni determinate, studiarne, secondo l’esperienza, le reazioni, farli agire secondo la loro indole. In questo mo­do egli può rendere chiari i meccanismi dei comportamenti uma­ni e creare in laboratorio una scienza umana che sia in grado di guarire la società dai suoi mali. Egli indica pertanto nel Naturali­smo un metodo e non una scuola, e quindi non rivolge la sua at­tenzione ai problemi di stile; si limita a dire che la lingua deve es­sere omogenea all’ambiente rappresentato e che il romanziere-sperimentatore non deve in alcun caso comparire all’interno dell’opera.

L’arte del secondo Ottocento - La rivalutazione della luce e del colore come mezzi per esprimere sensazioni e suggestioni suscitate nell'artista dalla natura, l'uso di una pennellata rapida e densa e la predilezione per il lavoro en plein air furono le caratteristiche salienti dell'Impressionismo, corrente pittorica che per tali vie intese contrapporsi con nuovi valori formali all'arte accademica.
Movendo dall'impressionismo e tuttavia prendendone le distanze, movimenti artistici quali il divisionismo, segnatamente con il suo teorico Signac, il postimpressionismo e il simbolismo posero l'accento su altri aspetti della creazione artistica.
Dopo il simbolismo, sul finire dell'Ottocento, un'ulteriore svolta fu impressa da Edvard Munch, pittore in aperta polemica contro l'accademismo.
L’Impressionismo – Sviluppatosi in Francia nella seconda metà dell'Ottocento, l'Impressionismo rappresentò un evento rivoluzionario nei confronti della cultura figurativa ufficiale. Eppure si trattò di una ripresa, per quanto sconvolgente e repentina, di alcuni motivi già caratteristici dell'opera di Corot e dei paesaggisti di Barbizon, del realismo di Courbet e del romanticismo di Delacroix.
Le premesse - Nella fase formativa del movimento ebbe grande importanza il programma antiaccademico di E. Manet. La critica ufficiale accolse negativamente le sue opere, mentre lo scrittore Emile Zola scrisse una serie di articoli in favore di Manet e degli altri pittori del gruppo.
La prima manifestazione ufficiale dell'Impressionismo, fu una mostra organizzata nell'aprile-maggio 1874, nello studio fotografico di Félix Nadar con intenti di polemica indipendenza dal Salon ufficiale. Vi esposero una trentina di  pittori, tra cui Bazille, Cézanne, Degas, Monet, Morisot, Pissarro, Renoir, Sisley. La mostra fu definita Exposition impressionniste, con un neologismo derivato dal titolo  di un quadro di Claude Monet (Impression, soleil levant, 1872).
Il nucleo primo dell'Impressionismo, come da allora si chiamò il movimento si era costituito, intorno al 1860, dall'incontro di Pissarro, Cézanne e Armand Guillaumin (1841-1927), a cui si erano aggiunti Monet, Renoir, Sisley e Bazille. Pur con personalità così diverse, questi pittori erano accomunati dallo stesso desiderio di rompere con gli schemi accademici e sollecitati da una particolare sensibilità verso i problemi inerenti la visione e dall'indifferenza per il contenuto classicamente inteso: «trattare un soggetto per i valori tonali e non per il soggetto in sé: ecco che cosa distingue gli impressionisti dagli altri pittori».
Alla pittura in studio gli impressionisti preferirono la pittura all'aria aperta (en plein air): le vibrazioni luminose del paesaggio, dell'oggetto, della figura umana immersa nell'atmosfera furono fissate con istantaneità nei loro aspetti mutevoli, ricreate attraverso la giustapposizione di rapidi tocchi di colore. Eliminando gli effetti plastici del disegno e del chiaroscuro per un sensibile non-finito, gli impressionisti operarono una fusione tra oggetto, spazio e atmosfera, al fine di far coincidere la rappresentazione pittorica con l'impressione momentanea, fisiologica e soggettiva, dell'artista. La tecnica adottata, pur trovando un sostegno teorico nei contemporanei studi sulla complementarietà dei colori, si realizzò sul piano della sensibilità pittorica individuale, senza seguire un metodo rigorosamente definito, come avvenne invece successivamente per alcuni movimenti, quali il divisionismo, che proprio dall'impressionismo presero impulso.
Se l'interesse comune per la pittura en plein air aveva dato temporaneamente un'impronta unitaria all'opera di questi artisti, pur non eliminandone le differenze di stile e di sensibilità, tuttavia l'Impressionismo non ebbe mai l'assetto di un movimento organizzato e coerente a un programma.
Il divisionismo –  Il divisionismo (in francese pointillisme, puntinismo) è un movimento pittorico nato in Francia attorno al 1884 col nome di neoimpressionismo. Esso sviluppò su basi scientifiche e sistematiche gli interessi per i processi ottico-visuali già empiricamente perseguiti dall'impressionismo e connessi all'invenzione della fotografia.
I divisionisti elaborarono una pittura basata sull'uso di colori puri ("divisi") e complementari, mai mescolati fra loro, ma giustapposti in pennellate minute, talora puntiformi, in modo da affidare all'occhio dello spettatore il compito di fonderne le radiazioni luminose, producendo nell'immagine effetti di grande luminosità e brillantezza cromatica. L'elaborazione teorica però annulla l'immediatezza della sensazione visiva; in tal modo, pur rimanendo aderente al plein air degli impressionisti, la tematica divisionista si concreta in immagini innaturali e fuori del tempo.
Teorico del divisionismo fu Paul Signac, il massimo esponente Georges Seurat. Dalla Francia il movimento si diffuse in altri paesi europei e anche in Italia.
Il postimpressionismo – Agli inizi del Novecento entrò convenzionalmente in uso il termine postimpressionismo con riferimento alle varie tendenze della pittura francese che dopo l'Impressionismo e il Divisionismo portarono all'affermazione del Fauvismo e del Cubismo. Alla ricerca di una nuova definizione espressiva della forma, dopo la decomposizione attuata dal colore e dalla luce degli impressionisti, contribuirono artisti di interessi e temperamento diversi: Cézanne, Gauguin, Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Émile Bernard (1868-1941), Odilon Redon, Pierre Bonnard (1867-1947), Édouard Vuillard (1868-1940). Attraverso queste differenti personalità e sullo stimolo della fondamentale lezione di Cézanne il postimpressionismo vide lo sviluppo delle esperienze simboliste e sintetiste (Scuola di Pont-Aven, nabis), con il loro ideale di "superare il mondo delle apparenze".
Il simbolismo - Il simbolismo fu un movimento emerso nella pittura moderna verso il 1890, durante il periodo postimpressionista. All'idea di ricerca e di progresso propria del realismo ottocentesco, esso sostituì quella di una continua aspirazione alla trascendenza. I maestri della nuova generazione furono G. Moreau, O. Redon e R. Bresdin. La nuova estetica prese le mosse in Francia in campo letterario con Baudelaire, Mallarmé, Verlaine, Rimbaud. In questo momento di vivo fermento culturale intervenne nell'ambito simbolista P. Gauguin già in contatto con i poeti simbolisti.
Quasi contemporaneamente, in relazione più o meno stretta col simbolismo francese, si manifestarono analoghe tendenze in altri paesi europei: in Inghilterra, dove un avvio era stato dato dai preraffaelliti , con l'estetismo vittoriano di Aubrey Beardsley (1872-98), in Olanda con Jan Toorop (1858-1928), in Svizzera con Ferdinand Hodler (1853-1918), in Germania con Alfred Kubin (1887-1959). Un altro centro simbolista fu poi Vienna, dove attorno a G. Klimt si raccolse un folto gruppo di artisti che nel 1897 fondarono il movimento della secessione viennese.
La pittura italiana  dell’ultimo Ottocento - Durante l'ultimo ventennio dell'Ottocento l'Italia visse un clima politico e sociale acceso, in cui si produssero eventi quali l'ascesa della "sinistra storica", la fondazione del partito socialista italiano, la morte nel 1878 di Vittorio Emanuele II, la stipula della triplice alleanza nel 1889. Questo clima di transizione e mutamento lasciò tracce, seppure in modi differenti, anche nei due principali episodi della produzione artistico-figurativa, il divisionismo e il realismo sociale. Sulla scorta delle esperienze pittoriche del pointillisme francese, nella Milano di fine Ottocento si formò in un primo tempo la corrente del Divisionismo, i cui maggiori esponenti furono Giovanni Segantini e Gaetano Previati. In seguito si affermò una cultura figurativa attenta agli ideali socialisti e alle istanze di rinnovamento delle classi proletarie, il cui interprete di maggior spessore fu sicuramente Giuseppe Pellizza da Volpedo. 
Il movimento del divisionismo era nato in Francia, nel 1884. A Milano esso fu ripreso da pittori come G. Segantini, G. Previati, G. Pellizza da Volpedo, A. Morbelli, Vittore Grubicy (1851-1920, che fu anche il teorico del movimento italiano), che tuttavia lo ridussero a formula tecnica, al servizio d'una tematica di volta in volta simbolista, storico-allegorica, politico-sociale.
Dallo studio divisionista delle vibrazioni luminose prese le mosse la ricerca futurista di U. Boccioni, G. Balla, C. Carrà, G. Severini.

4. Il Verismo – Il Verismo è la corrente letteraria italiana più interessante della seconda parte del secolo che, sulle premesse filosofiche del positivismo, trae origine dalle teorie del naturalismo francese e dalle condizioni proprie del momento storico italiano, come la grave crisi delle regioni meridionali, l'esistenza di una consuetudine linguistica e dialettale di carattere regionale e la mancanza di una consolidata tradizione di narrativa romantica di tipo realistico e di contenuto sociale. Maestro indiscusso del movimento fu Giovanni Verga.
a) L’Italia dei veristi e il regionalismo - Intorno al 1870 Luigi Capuana, scrittore e critico, diffuse in Italia i princìpi del naturalismo francese e pose i presupposti teo­rici e pratici del verismo. Capuana attenua alcuni aspetti delle tesi di Zola, in particolare l’identificazione tra scrittore e speri­mentatore scientifico e imita il carattere di denuncia del roman­zo.
Contemporaneamente rivolge un’attenzione particolare ai problemi della forma, che ritiene centrali, e individua il caratte­re precipuo del romanzo naturalista proprio in un aspetto costitutivo della forma del romanzo, vale a dire nel concetto di imper­sonalità e di scomparsa dell’autore. Secondo la sua teorizzazione, il romanzo verista dovrebbe essere in grado di ritrarre ogni realtà sociale, non solo la vita semplice e schematizzabile delle classi in­feriori, ma anche la vita complessa, soprattutto a livello psicolo­gico, della borghesia, adeguando ogni volta lo stile e il linguag­gio al contenuto.
La realtà del proprio tempo, che essi vogliono ritrarre in presa diretta, costituisce abitualmente e programmaticamente la materia dei veristi. Ma in essa il loro interesse si rivolge non già alle classi egemoni, ma ai ceti poveri e frustrati, soprattutto a quel quarto stato che era rimasto ai margini del moto risorgimentale, non educato a parteci­parvi, e a cui l’unità d’Italia aveva recato più disagi che vantaggi, aggiungendo nuove imposizioni (tasse, leva militare obbligatoria) alle vessazioni antiche.
Poiché mancava all’Italia, dove l’industrializzazione era ancora agli inizi, quel prole­tariato operaio delle grandi città che in Francia offre materia ai romanzi di Zola, il mondo che essi ritraggono è quello dei ceti subalterni delle varie regioni italiane, che sono poi le loro regioni d’origine e che essi più profondamente conoscono: i vaccari e i mandriani della Toscana in Fucini, i pescatori, i pastori, i contadini siciliani in Verga e in Capuana.
Di qui il carattere regionalistico che connota il verismo, e che corrisponde alla reale fisionomia del nostro Paese, dove nonostante la raggiunta unità ogni regione ave­va continuato a mantenere le sue caratteristiche specifiche e diversificanti.
b) Le tecniche narrative del verismo - Come i naturalisti francesi, anche i veristi italiani sostengono il principio che lo scrittore deve essere distaccato e obiettivo nei confronti della materia che rappresenta e non deve interferire in essa né col suo giudizio né con la sua sensibilità. «La mano dell’artista» - scrive Verga nella prefazione a una sua novella, L’amante di Gramigna - deve rimanere «assolutamente invisibile», così che l’opera d’arte sembri «essersi fatta da sé, esser sorta ed esser maturata spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore».
Per aderire al reale e per adeguarsi alla «verità» della materia rappresentata, anche la lingua che i personaggi parlano dovrà mantenere caratteri regionali.
c) L’esperienza poetica legata al verismo - alcuni scrittori traspor­tarono in versi l’idea di una nuda e veritiera rappresentazione della realtà; ricordiamo qui il nome di Olindo Guerrini, che usava lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti.

5. Giovanni Verga – È il massimo esponente del verismo, di cui fu anche uno dei teorici.
a) La vita e le opere - La famiglia, di sentimenti liberali, apparteneva alla piccola nobiltà di campagna. Nato a Catania nel 1840, Verga trascorse la giovinezza nella proprietà di Vizzini, vicino al capoluogo etneo. compi a Catania gli studi medi. Nel 1858 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza catanese senza peraltro pervenire alla laurea; all'arrivo di Garibaldi nel 1860 si arruolò nella Guardia nazionale e rimase in servizio fino al 1864. In quegli anni scrisse e pubblicò alcuni romanzi di contenuto patriottico (I carbonari della montagna nel 1861-62; Sulle lagune nel 1863) e collaborò con numerose riviste politiche e letterarie.
Nel 1865 compì il primo viaggio a Firenze, allora capitale d'Italia, restando affascinato dal mondo intellettuale della città. dove venne a contatto con un ambiente letterario più aperto di quello siciliano Vi tornò più stabilmente nel 1869, dopo aver pubblicato il romanzo Una peccatrice nel 1866 e averne preparato un secondo, Storia di una capinera nel 1871.
Dal 1872 si trasferì a Milano. L'incontro più significativo fu quello con il siciliano Capuana, che gli fece conoscere il naturalismo degli scrittori francesi Flaubert e Zola. Pubblicato un terzo romanzo, Eva nel 1873, Verga continuò una produzione connotata da due tendenze antitetiche: scrisse un bozzetto di forte impronta naturalista e di ambientazione siciliana Nedda, nel 1874 e contemporaneamente approntò due romanzi dai toni tardoromantici, con tematiche proprie del mondo elegante dei salotti aristocratici e borghesi: Tigre reale (1875) ed Eros (1875). Il suo interesse si era ormai orientato verso la poetica del vero, mutuata dagli scrittori francesi: dall'intensa riflessione teorica e dal recupero nella memoria di temi siciliani nacquero le raccolte di novelle Vita dei campi nel 1880, Novelle rusticane bel 1883 e il romanzo I Malavoglia nel 1881, il primo del ciclo intitolato I vinti. Queste grandi opere sia per la novità dell'argomento, accentuata dalla sostanziale marginalità dell'ambiente rappresentato, sia per l'originalità dell'impostazione linguistica, molto distante dalla tradizione manzoniana, non ottennero il successo che avrebbero meritato. Per questo motivo, oltre che per sopravvenute difficoltà economiche, lo scrittore non trascurò del tutto la narrativa di ambiente non siciliano e pubblicò il romanzo Il marito di Elena del 1882 e le novelle milanesi Per le vie del 1883.
Nel 1884 ottenne un grande successo con la versione teatrale della novella Cavalleria rusticana, andata in scena a Torino per interessamento di Giacosa. Ritrovato l'entusiasmo, egli tornò a dedicarsi alle novelle di ambiente siciliano (Vagabondaggio, 1887) e soprattutto alla stesura di un romanzo già iniziato verso il 1883 e mai compiuto, il Mastro-don Gesualdo del 1889, che fu ben accolto dai lettori. Seguirono altre due raccolte di novelle, I ricordi del capitano d'Arce del 1891 e Don Candeloro e C.i del 1894. Nel frattempo aveva ottenuto un trionfo la versione musicale della Cavalleria rusticana,opera di Mascagni (la prima è del 1890): Verga, di nuovo in ristrettezze economiche, fece causa al compositore e all'editore Sonzogno, ottenendo nel 1893 un sostanzioso risarcimento, che gli consentì di vivere agiatamente per il resto dei suoi giorni.

Nel 1893 tornò in Sicilia e si occupò con continuità soprattutto di teatro, per cui compose tra l'altro i drammi La lupa nel 1896, La caccia al lupo del 1901, La caccia alla volpe del 1901 e soprattutto Dal tuo al mio del 1903, in cui viene presentata una tematica sociale di notevole intensità e modernità. Per circa vent'anni, fino alla morte avvenuta a Catania nel 1922, scomparve dalla ribalta letteraria.

b) I tre momenti della narrativa verghiana - Nella produzione narrativa di Verga sono distinguibili tre momenti. È autore, in un primo tempo, di mediocri romanzi storici.
Successivamente compone romanzi che rappresentano situazioni languide e lacrimo­se, come la vicenda di una giovinetta che diventa monaca a forza e che si conclude con la pazzia e la morte della protagonista (Storia di una capinera), oppure presentano personaggi d’eccezione, come artisti, donne bellissime e fatali, a volte non prive dell’alone fascinoso dell’esotismo (Una peccatrice, Eva, Eros, Tigre reale).
Il terzo tempo verghiano, quello verista, nasce da una decisa svolta sia morale sia artistica dello scrittore. Stanco ormai del mondo egocentrico e superficiale rappresenta­to nei romanzi del secondo periodo, Verga torna col pensiero all’umile gente della sua Sicilia: pescatori, contadini, pastori, piccola borghesia di provincia, e alla loro vita dura e stentata, segnata da fatiche e dolori.
c) La teoria dell'impersonalità – La posizione di Verga nell'ambito delle poetiche del vero è il metodo dell'impersonalità, lasciare che sia il fatto nudo e schietto, e non le valutazioni dell'autore, il centro della narrazione, come scrive nella premessa alla novella L'amante di Gramigna. Su questa impostazione Verga sviluppò in particolare la parte più alta della sua produzione novellistica. La Vita dei campi è caratterizzata dalla presenza di indimenticabili personaggi dominati da una tragica condizione di violenza, in cui si frantumano i diversi aspetti della vita: essa diviene brutalità nei rapporti umani (Rosso Malpelo), crudeltà nella vita sociale (Jeli il pastore), disperazione nel conflitto dei sentimenti (Cavalleria rusticana), tragica oppressione delle pulsioni naturali del sesso e della psiche (La lupa e L'amante di Gramigna).
Le Novelle rusticane invece prediligono quadri d'assieme, segnati da un immutabile destino di sconfitta sia nel confronto con la natura (Malaria), sia in quello con la storia (Libertà; Cos'è il re). Dominano la morte e il fattore economico, che in questo contesto acquista un aspetto particolare, di mezzo per la sopravvivenza e di idolo del possesso (Pane neroLa roba), assumendo in un caso e nell'altro un significato più importante della vita stessa.
d) La grande stagione verista - La tecnica del verismo, col principio dell’adesione al rea­le e col rifiuto della interferenza e degli abbandoni emotivi dello scrittore, appare a Verga la migliore per rappresentare l’amara esistenza degli umili della sua terra.
Il momento verista di Verga è preannunciato da una novella, Nedda, composta nel 1874. Nedda è la storia di una povera ragazza siciliana, raccoglitrice di olive, oppressa dalla miseria anche nei suoi affetti, e la sua vita è narrata secondo la tecnica veristica di lasciare che le cose parlino da sé.
Su questa direttiva lo scrittore compone successivamente le sue opere maggiori: le novelle delle raccolte Vita dei campi del 1880 e Novelle rusticane del 1883 in cui sono rappresentati situazioni e ambienti siciliani, sentimenti e passioni elementari vissute spesso con drammatica violenza e i due romanzi I Malavoglia del 1881 e Mastro don Gesualdo del 1888.
e) Il ciclo dei vinti – Da Zola Verga ricavò, oltre ai principi generali del romanzo sperimentale, la concezione di origine darwiniana del ciclo, inteso come susseguirsi di romanzi che, riguardando gli stessi personaggi o i loro discendenti, permettono di cogliere le costanti e le modificazioni di comportamento in relazione al mutare dell'ambiente sociale.
 Nella prefazione ai Malavoglia Verga definisce la tesi generale e le articolazioni del ciclo dei vinti, che egli definisce una specie di fantasmagoria della lotta per la vita. Secondo il progetto, il ciclo avrebbe dovuto essere composto da cinque romanzi (I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, La duchessa di Leyra, L'onorevole Scipioni, L'uomo di lusso), attraverso cui l'autore avrebbe descritto la lotta per l'affermazione in tutte le classi sociali, dalle più umili alle più elevate. L'idea base era che i protagonisti pagassero il loro tentativo di modificare la propria condizione sociale con una sconfitta irreparabile. Con un corollario: il mutamento, e non solo della struttura sociale, ma anche dei rapporti interpersonali, risulta impossibile; la delusione che ne deriva è una vera e propria vendetta della colpa.
Il terzo romanzo, La duchessa di Leyra, avrebbe dovuto trattare delle vicende della figlia di Mastro-don Gesualdo, ma l'autore non ebbe la forza per concludere il ciclo dei vinti.
f) I Malavoglia - Il romanzo I Malavoglia narra le vicende di una famiglia di pescatori di Aci Trezza, un paesino vicino a Catania, guidata con polso fermo da padron 'Ntoni, il nonno, che, sullo sfondo di un'Italia appena unificata, affronta il drammatico passaggio dai valori di un mondo arcaico alla sfuggente realtà del presente. Il romanzo si costruisce attorno al fondamentale concetto dell'ideale dell'ostrica, cioè la necessità per chi appartiene alla fascia dei deboli di rimanere abbarbicato ai valori della famiglia, al lavoro, alle tradizioni ataviche, per evitare allora che il mondo, il "pesce vorace", lo divori. 
Una tempesta ha distrutto la barca che era il loro mezzo di sostentamento, ed essi sono costretti, per pagare i debiti contratti, a vendere la casa, la «casa del nespolo», che è il simbolo della loro unione familiare. Segue la storia delle loro fatiche per resistere al bisogno; il cedimento di alcuni di lo­ro, che abbandonano la famiglia e il paese per cercare altrove fortuna; le rinunce di tutti quelli che restano, che non saranno a sufficienza compensate dalla casa finalmente riacquistata, perché la famiglia non è ormai più quella di un tempo a causa di chi se ne è andato e di chi è morto.
Intorno ai Malavoglia si muovono, sfondo e coro a un tempo, gli abitanti di Aci Trezza, con le loro beghe, i loro sentimenti, le sofferenze, le chiacchiere, i pettegolezzi.
I Malavoglia si fondano sulla coralità dell'oggetto della narrazione e delle modalità attraverso cui essa avviene. La voce narrante diventa collettiva, fa largo uso dei proverbi e dei modi di dire, avvalendosi spesso dello stile indiretto libero, attraverso cui la voce di un personaggio si fonde senza difficoltà né resistenze sintattiche con quella di altri, secondo una totale continuità comunicativa. La scelta linguistica evidenzia lo scontro ideologico campagna-città, civiltà contadina-civiltà borghese, aggravato dallo scontro tra le generazioni (la paziente ed epica lotta del vecchio padron 'Ntoni con l'insofferenza e la spregiudicatezza del giovane 'Ntoni).
g) Mastro-don Gesualdo, celebra invece il mito della roba e al tempo stesso l'impossibilità di trasformare la ricchezza accumulata in una completa promozione sociale. Mastro-don Gesualdo è il romanzo dell'uomo solo, che tenta di emergere nonostante le resistenze sorde o esplicite della società contadina da cui proviene, che lo rifiuta per il suo modo di vivere così diverso dalla tradizionale rassegnazione, e di quella nobiliare, che non gli permette di introdursi in un mondo in cui ha valore la nascita e non l'agire. Un tentativo troppo grande per non fallire. Così come il protagonista è solo nella sua lotta, la lingua della narrazione perde il colore della coralità e assume un carattere teso, a volte contratto, in cui l'apporto dialettale assume spesso una valenza gergale e amara, per esprimere un quadro in cui domina il cupo pessimismo dell'immobilità.
h) Il pessimismo – Nel suo radicale pessimismo, Verga considera queste sconfitte come fatalmente le­gate al destino degli uomini. Nella corsa allo «star meglio» e alla ricchezza sempre ci saranno dei vinti, e i vincitori di oggi saranno probabilmente i vinti di domani.
Nonostante l’impegno veristico di obiettività e di distacco, la pietas dello scrittore, di fronte a questa condizione umana, traspare, in modo implicito, nei gesti, negli atteggiamenti, nei pensieri dei personaggi e nel ritmo stesso del dialogo e del racconto. L’al­ta poesia di queste due opere nasce proprio dalla controllata emozione tradotta in «co­se».
i) Il linguaggio verghiano - Per aderire alla realtà rappresentata Verga da alla sua lin­gua una coloritura regionale, ottenuta qualche volta introducendo vocaboli dialettali si­ciliani, ma più spesso costruendo il periodo sulle strutture e sul ritmò del periodo dia­lettale.
Inoltre, lo scrittore si sforza di trasferire nel linguaggio la «forma mentale» dei suoi personaggi, sia che essi parlino in discorso diretto, sia che i loro pensieri e le loro paro­le vengano riferiti nel discorso indiretto.
In questa direzione è significativo l’uso frequente dei proverbi, attraverso i quali essi esprimono la loro atavica tradizione sapienziale, la loro «cultura».
Allo stesso modo, per filtrare i concetti attraverso la levatura mentale, le abitudini dei suoi personaggi, lo scrittore ricorre alle similitudini tratte dall’umile esperienza quo­tidiana che essi vivono. Per fare un esempio, il vecchio padron ‘Ntoni, parlando del giovane nipote che è andato a fare il soldato e che si lascia ingenuamente affascinare dalle meraviglie della città, dice che «è fatto come i merluzzi, che abboccherebbero a un chiodo arrugginito». E sono esempi che possono abbondantemente moltiplicarsi.
l) conclusioni – Verga fece suo il naturalismo; inventò una scrittura nuda e crudele, capace di rappresentare il destino amaro di uomini falliti. I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo sono i romanzi più belli di fine secolo. Bruciò in sé l'esperienza positiva del realismo manzoniano e realizzò un'opera che del risentimento e della disperazione fece il proprio suggello filosofico e la più radicale e straordinaria bellezza. Accostato da Riccardo Bacchelli a Manzoni e Leopardi come il terzo grande scrittore dell'Ottocento italiano, Verga venne facilmente contrapposto da Luigi Pirandello a D'Annunzio e al suo estenuato decadentismo.

6. Antonio Fogazzaro - Una posizione più appartata, ma più inquieta, fu quella di Antonio  Fogazzaro (1842-1911) che ebbe idee decisamente contrarie alla poetica del Verismo.
Risalendo alle esperienze idealistiche del primo romanticismo nordico, Fogazzaro propose un’arte che recuperasse alle radici, nella sua primordiale sublimità, la natura umana, sostenendola nell’incessante e drammatica lotta contro la "bestia oscura che sopravvive in noi". Fogazzaro sposta l’attenzione dalla realtà esterna a quella interiore e tenta le vie della scoperta del subconscio, rientrando per questo nell’area del decadentismo. I suoi romanzi, da Malombra, il primo ed il più esemplare, a Piccolo mondo antico, il suo capolavoro, e Piccolo mondo moderno, sono testimonianza di una vita tormentata, vissuta nella solitudine della propria coscienza.
Spirito profondamente religioso, visse la sua religiosità con scarso equilibrio, ma con intenso fervore, pervaso spesso da una sorta di esasperato misticismo che più volte lo fece deviare dall’ortodossia cattolica.
Smanioso di liberarsi dalle pastoie di un conformismo borghese opprimente, fu però incapace di formulare in termini di chiarezza una nuova visione della società, delle sue regole, della sua cultura.
Le caratteristiche più salienti della sua arte sono da individuare appunto nel costante turbamento derivante dal contrasto insolubile tra la sua sensualità e il suo misticismo, nei continui tentativi di mettere a nudo tutto quanto è riposto nel più profondo dell’animo, nella tendenza a forgiarsi uno stile quanto più possibile alieno dalla tradizione.

7. Le voci di un’Italia bambina: Cuore e PinocchioDue romanzi che raggiunsero il maggior successo di pubblico furono due libri per l’infanzia: Cuore di De Amìcis che raggiunse un vastissimo pubblico e Pinocchio di Carlo Collodi, il libro più letto di tutto il secondo Ottocento. Cuore di Edmondo De Amicis si colloca in un momento cruciale della storia italiana, quando la nazione appena nata stava ancora cercando principi comuni in cui identificarsi. Gli alunni del maestro Perboni rappresentano un inventario di modelli ideali del futuro cittadino perfetto, ad uso e consumo dei piccoli italiani: nella prospettiva risorgimentale di De Amicis, il bambino è visto come adulto in miniatura, già impegnato con i propri minuscoli mezzi nell’eterna lotta tra il bene e il male. Nulla è lasciato alla fantasia, all’illogicità magica e ammaliante propria della visione infantile. Anche Le avventure di Pinocchio di Collodi sembra sostenersi su un progetto di tipo pedagogico. La celebre favola mette in scena la trasformazione di un burattino in bambino vero, metafora del passaggio dall’età informe e irrazionale dell’infanzia al tempo regolato e maturo dell’età adulta. Eppure, se il capolavoro di Collodi è ancora attuale, è perché Pinocchio, con la sua credulità, la furbizia disinteressata, la pigrizia e gli slanci di affetto, rappresenta in modo geniale il mondo di ogni bambino. Così come tutti i personaggi che accompagnano il burattino nelle sue avventure, dalla Fata Turchina a Mangiafuoco, dal Grillo Parlante al Gatto e la Volpe, sono un riflesso della sua paura, dei sogni e dei più folli e irrealizzabili desideri. Il libro Cuore di De Amicis è, realista e urbano, quanto Pinocchio è fiabesco e contadino. Pinocchio è una favola rispetto al libro Cuore, perché vi troviamo elementi fantastici che nell’altro non vi sono. Il libro Cuore parla di ragazzi e non di burattini. Quello di De Amicis è un libro dove si parla di fatti concreti, reali, di giovani di scuola, di rapporti fra ragazzi e di sentimenti mentre in Pinocchio sono raccontati fatti che sono frutto di una fantasia, talvolta sfrenata e spesso surreale.

L’ora delle scelte – Nel venticinquennio a cavallo del ‘900 (1890-1915) fra gli intel­lettuali si diffonde un atteggiamento di ostilità verso la società di massa che si sta formando in Occidente e nella quale si va creando una polarizzazione netta fra grande borghesia ed élite politica, da un lato, e masse proletarie in aumento e in ascesa dall’altro, mentre, intanto, i ceti medi (piccola borghesia imprenditoriale ed agraria, commer­cianti, artigiani, impiegati pubblici e privati) - dai quali per lo più gli intellettuali provengono e nei quali per la loro professione si collocano - rischiano una progressiva proletarizzazione.
La prospettiva di tale declassamento spazza via gli atteggiamenti moderatamente progressisti dei decenni precedenti, e impone una scelta più netta: o diventare progressisti in modo radicale e abbrac­ciare il socialismo in una delle forme in cui esso si presenta o, rifiutando questa scelta di campo:
a) passare dalla parte dei gruppi dominanti in primo luogo da loro stessi;
b) rifiutare ogni impegno politico-sociale rifugiandosi nell’arte e nella cultura fine a se stesse;
c) proporsi come leader di movimenti piccolo-borghesi miranti a una società di tipo diverso, antisocialista e anticapitalista, dominata da aristocrazie spirituali e intellettuali.
Solo una piccola parte sceglie la prima soluzione. E si tratta per lo più di adesioni tiepide e passeggere. Si pensi a Pascoli a cui un po’ di prigione fa cambiare subito parere e a De Amicis e al suo socialismo edulcorato e «deamicisiano».
Dalla parte del potere economico e politico si schierano soprattutto gli scienziati e i tecnologi, produttori di quel tipo di cultura che più interessa al modo di produzione capitalista (spesso convinti di svol­gere solo un’attività neutrale al di sopra delle parti), alcuni grandi intellettuali, come Benedetto Croce, filosofo idealista, storico e cri­tico, dittatore per decenni della cultura italiana («un feudatario d’i­dee», lo chiamerà Corrado Alvaro), e molti letterati di mezza tacca, produttori di cultura volgare, «di massa», utili come persuasori di obbedienza.
Nel filone dei disimpegnati, di coloro che si rifugiano nell’autoa­nalisi e nella commiserazione di sé e del mondo, i letterati formano una schiera nutrita: dai crepuscolari che, a partire da Marino Moretti, si chiedono «Chinar la testa che vale? Che vai nuova fermezza?», da Svevo e Tozzi coi loro personaggi abulici e infelici, a Pirandello che disegna e anticipa ora, nella sua opera narrativa, il protagonista del suo teatro futuro: l’uomo senza identità, «risultato della scomposi­zione della persona romantica e borghese, del frantumarsi di quella unità psicologica e morale in un mosaico di apparenze ingannevoli» (A. Leone De Castris); a Pascoli che cerca rifugio nell’intimità dome­stica «come nido, caldo, chiuso, segreto, raccolto in una sua esistenza senza rapporti con l’esterno», ambito primordiale e istintivo dei rapporti di sangue, ai quali è affidato ogni legame, con la negazione di tutti i modi di contatto e di rapporto collegati con una più alta organizzazione della ragione» (G. Bàrberi Squarotti).
Ma vasta e variopinta è anche la schiera dei letterati che nutrono velleità di primato sociale. Momento di coagulo sono per essi le cosiddette riviste fiorentine, da Marzocco a Leonardo, da Il Regno a Hermes a La Voce a Lacerba.
Specialmente interessante fu il tentativo della Voce di Prezzolini di organizzare «un gruppo di pressione per tutto il ceto bor­ghese», anzi un «partito intellettuale» che però «se promuove la consapevolezza della propria autonomia di fronte alla classe domi­nante... dall’altra parte tuttavia si prepara ad assolvere il nuovo ruolo di persuasore intellettuale, di tecnico dell’opinione, di organizzatore del consenso ideologico e culturale al sistema» (G. Sca­lia). Più francamente e focosamente contro il sistema fu il movimento futurista con la sua titanica e abbastanza istrionica pretesa di rico­struire da cima a fondo l’universo: «I futuristi, come più tardi i surrealisti, volevano di fatto... cambiare la vita: il furore tecnolo­gico, non era fine a se stesso ma si accompagnava all’empito prome­teico, all’ansia di un rinnovamento totale che doveva esplicarsi anche nell’ambito sociale e politico» (L. De Maria). Naturalmente il com­pito di «rifare la vita» doveva toccare agli esseri superiori, ai superuomini, i soli degni di vivere nell’universo ricostruito, perciò se Prezzolini aveva scritto che la guerra era un esame in cui «tutto ciò che è sano e nascosto si rivela», Marinetti affermerà perentoriamente che essa è «la sola igiene del mondo».
Il tema del superuomo evoca subito il ricordo di D’Annunzio, ossia del più vistoso esempio di letterato, che abbia cercato in questo e, forse, in ogni altro periodo, con l’arte e con l’azione, di proporsi a guida carismatica di un popolo e di una generazione. È difficile sottovalutare l’influenza che D’Annunzio ebbe nell’introdurre in Italia un clima e una mentalità fascisti. Anche se si può dire che tutta l’intellettualità italiana, che cercò di rilanciare nel primo Novecento il primato politico del dotto esprimendo essen­zialmente i sentimenti di frustrazione e di rivincita dei ceti medi a cui apparteneva e solleticando nella pletora dei laureati e dei diplomati l’orgoglio della loro mezza cultura, contribuì a questo risultato. Ma D’Annunzio fu più di ogni altro «l’uomo e il poeta della classe media italiana che vedeva realizzati in lui tutti i suoi sogni proibiti: la forza fisica e le straordinarie capacità erotiche, il coraggio indomito e l’eleganza raffinata, l’eloquenza sonora e l’avventura impossibile, il vivere pericolosamente e il lusso sfarzoso, l’esaltazione della patria e la difesa dell’ordine costituito, l’aspirazione alla potenza e alla gloria e il disprezzo per la plebe» (C. Salinari).

8. Il DecadentismoL'artista decadente afferma la propria orgogliosa differenza chiudendosi in un aristocratico e sofferto rifiuto della società. Il Decadentismo si esercita su temi quali l'inconscio e il sogno, la memoria e l'infanzia, l'angoscia e il senso della morte. Ricorrenti sono il gusto per l'artificio e l'eleganza ricercata contro la volgarità dell'arte di massa; il fascino dell'Oriente lontano o l'attrazione per le droghe; il rifiuto della solidarietà sociale, pur nel vagheggiamento d'indistinti ideali umanitari; la sensualità provocante; l'erotismo morboso; il culto per l'esoterico e il satanico, non di rado accompagnato da slanci mistico-devozionali e da ritorni alla fede cattolica. Sono rifiutate le tecniche letterarie fondate sul valore logico e razionale della parola; se ne cercano altre nuove, che facciano leva sugli elementi evocativi e allusivi e quindi sulle suggestioni fono-simboliche del linguaggio.
Si dà così spazio a un forte estetismo e a una letteratura simbolista, capace di far interagire tutte le differenze musicali, figurative, poetiche di un segno letterario. In Italia il vero portavoce del nostro Decadentismo fu D'Annunzio, mentre Pascoli fondò, in modo originale e diverso dal contesto europeo, la poesia simbolista italiana.
a) L’origine e la diffusione - Il Decadentismo è un movimento che ha origine in Francia intorno al 1880 e annovera fra i suoi maggiori esponenti i poeti Rimbaud, Verlaine, Mallarmé, che si richiamano tutti all’esempio di Baudelaire. Dalla Francia, il Decadentismo si diffonde negli altri Paesi, assumendo forme e modi diversi.
In Italia, la stagione decadente è aperta da Pascoli e da D’Annunzio, ma al Decadentismo sono ascrivibili, in misura diversa, la maggior parte dei nostri scrittori del Novecento.
b) Il rifiuto del reale - Caratteristica fondamentale del Decadentismo è il rifiuto della realtà concreta, di quella realtà che, invece, aveva suscitato l’interesse e l’impegno degli scrittori detti appunto realisti, soprattutto dei naturalisti francesi e dei veristi italiani. A tale rifiuto si accompagna la volontà di superare tale realtà, di evadere da essa.
L’evasione avviene per diverse vie, che danno luogo a posizioni diverse anche lettera­rie. Di esse le più significative sono il simbolismo e il superomismo
c) Il simbolismo - Per gli scrittori che sono definiti simbolisti la realtà concreta non conta per se stessa, ma solo in quanto rimanda ad un’altra realtà di cui essa è simbolo: - una realtà più profonda, sotterranea e spesso misteriosa, cui il poeta deve tendere e che deve cercare di far affiorare nella sua poesia.
d) Il superomismo - A volte invece l’evasione decadente dal reale porta a vagheggiare esistenze eccezionali, capaci di gesti eccezionali. Nasce così, sulla scia del pensiero del filosofo Nietzsche, il mito del superuomo, dell’uomo cioè che si sente superiore alle leggi che regolano la convivenza sociale e che considera quindi gli altri uomini come gregge da dominare e come trampolino di lancio per la sua affermazione. A quello del superuomo si collegano altri pericolosi miti: l’esaltazione della violenza, della guerra, dei gratuiti gesti di forza.
e) Altre forme di evasione dal reale - Altre volte l’evasione dalla realtà si manifesta in quello che è stato definito estetismo, cioè nel vagheggiamento di esistenze raffinatissime, che si svolgono in ambienti altrettanto raffinati e spesso artificiali.
A volte, infine, l’evasione avviene nell’esotismo, cioè nel sogno di vivere in paesi re­moti e dallo splendore intenso, dove siano possibili esistenze felici, sganciate da tutti i limiti della quotidianità.
f) Il rifiuto della razionalità - Comune a tutte queste posizioni dei decadenti è la sfiducia nella ragione e il rifiuto dei suoi strumenti conoscitivi e valutativi. Infatti, la realtà sotterranea postulata dai simbolisti non può essere raggiunta dalla ragione, ma può es­sere captata soltanto dall’intuizione. Così pure, i miti dell’estetismo e dell’esotismo nascono in dispregio della ragione, che ne denuncia l’arbitrarietà e l’inconsistenza. E non è certo giustificabile con la ragione la volontà di affermazione del superuomo, volontà che determina lo sconvolgimento di quei rapporti sociali, come il principio d’uguaglianza, il rispetto democratico, che la ragione ha costruito attraverso il tempo.
g) Le nuove tecniche espressive del Decadentismo - La mutata visione della realtà determina il nascere di nuove tecniche espressive. Si instaura, così, un linguaggio che più che a narrare o a descrivere tende a suggerire, a orientare cioè l’intuizione dei lettori verso le zone sotterranee intraviste dal poeta. Questo nuovo linguaggio fa spesso leva, più ancora che sul significato vero e proprio dei vocaboli, sulle suggestioni musicali e coloristiche che da essi promanano e che vengono evidenziate con accorgimenti diversi dai diversi poeti.

9. Giovanni Pascoli – Giovanni Pascoli è forse il poeta, in bilico fra Ottocento e Novecento, che più radicalmente ha contribuito allo svecchiamento della lirica italiana. La sua produzione è un vertice del simbolismo europeo. Riprese Leopardi nel punto più nevralgico: nella ferita e insieme nel mistero dolente della Natura. Con Myricae diede un nuovo senso alchemico e sognante al perché delle cose; con i Poemetti e i Canti di Castelvecchio lasciò che quel mistero si aprisse in una muta bellezza cristallina; con i Poemi conviviali poi si permise anche di più: di ripercorrere, lungo quegli stessi segreti, la continuità fra antico e moderno, fra la classicità e la modernità.

a) La vita e le opere – Nato a San Mauro di Romagna nel 1855, quarto di otto figli, trascorse la prima infanzia nella tenuta dei principi Torlonia, di cui il padre era amministratore. A sette anni entrò, con i fratelli Giacomo e Luigi, nel collegio degli Scolopi di Urbino, dove nel 1867 lo colse la notizia dell'assassinio del padre Ruggero in un agguato, tesogli da nemici mai identificati e rimasti impuniti.

Il drammatico evento segnò in maniera decisiva la sua vita e la sua poesia. A quella morte seguirono nel 1868 quella della madre Caterina, stroncata dal dolore, e, nel volgere di breve tempo, quelle della sorella Margherita e del fratello Luigi. Con la morte del padre, l’indigenza entrava nella famiglia e Pascoli continuò i suoi studi fra gravi difficoltà economiche.

Con l’ausilio di una borsa di studio si iscrisse all'università di Bologna, dove ebbe come professore Carducci. Ma dopo il primo anno disertò le lezioni e prese a frequentare gli ambienti socialisti: i dolori e le privazioni, la sfiducia in una società che lasciava impunito il delitto, maturarono in lui un’amara volontà di rivolta e di giustizia. In seguito il suo spirito si andò progressivamente placando e si acquietò in un caritatevole sguardo nei confronti di tutti gli aspetti della vita, del male come del bene: una specie di amore cristiano senza tuttavia l’accettazione della trascendenza.
Nel 1875, per aver partecipato a una manifestazione, fu privato del sussidio economico che gli permetteva di frequentare l'università; nel 1876 la morte del fratello Giacomo rese ancor più precaria la situazione della famiglia.
Nel 1878, durante una dimostrazione a favore degli anarchici, fu arrestato. Uscito di prigione dopo circa tre mesi anche per l'intervento di Carducci, riprese gli studi e riuscì a laurearsi a pieni voti nel 1882.
In quello stesso anno andò insegnare al liceo di Matera, poi a Massa e nel 1887 passò a Livorno, dove ricostituì il nucleo familiare con le sorelle Ida e Maria.
A Livorno nel 1891 pubblicò la raccolta Myricae, ventidue componimenti poetici che crebbero fino ai 156 della sesta edizione del 1903.
Nel 1892 si aggiudicò la prima delle tredici medaglie d'oro vinte al concorso di poesia latina di Amsterdam.
Tre anni più tardi ottenne la cattedra di grammatica latina e greca all'università di Bologna. Acquistata una piccola proprietà a Castelvecchio di Barga, in Lucchesia, vi si trasferì con la sorella Maria. Alternava il soggiorno bolognese con lunghi periodi trascorsi nella sua casa di Castelvecchio, che gli consentiva il contatto col mondo campagnolo da cui proveniva e che gli era umanamente e poeticamente congeniale.
Nel 1897 uscirono i Poemetti (poi sdoppiati in Primi poemetti nel 1904 e Nuovi poemetti nel 1907) nel frattempo fu trasferito all'università di Messina, dove lavorò ai tre volumi di critica dantesca: Minerva oscura nel 1898, Sotto il velame nel 1900 e La mirabile visione nel 1902.
Nel 1903 pubblicò i Canti di Castelvecchio e passò a Pisa.
Ritiratosi Carducci dall'insegnamento, Pascoli gli succedette nella cattedra di letteratura italiana dell'università di Bologna nel 1906.
Nel frattempo erano apparsi i Poemi conviviali nel 1904, che inaugurarono la seconda fase della sua produzione. Uscirono poi le raccolte di argomento storico e civile: Odi e inni del 1906; le Canzoni di re Enzo del 1911; i Poemi italici nel 1911; Poemi del Risorgimento postumo nel 1913. Le prose, edite nel 1903 con il titolo Miei pensieri di varia umanità, confluirono poi nel volume Pensieri e discorsi del 1907.
Morì a Bologna nel 1912.
Da ricordare sono poi i Carmina pubblicati postumi nel 1914, che raccolgono la sua poesia lirica in latino; scritti fra il 1885 e il 1911 sono divisi in varie sezioni secondo l'argomento. Notevole, anche se di discontinuo valore, la restante produzione in lingua latina (da citare i poemi Veianus del 1891; Gladiatores del 1892; Fanum Apollinis, del 1904; Thallusa del 1911).
b) I due versanti della poesia pascoliana - Le raccolte di liriche pascoliane si possono di­stinguere in due gruppi: al primo gruppo appartengono le Myricae, i Primi e Nuovi poemetti, i Canti di Castelvecchio, i Poemi conviviali; al secondo gruppo Odi ed Inni, le Canzoni di Re Enzo, i Poemi italici, i Poemi del Risorgimento.
Le raccolte del se­condo gruppo sono di ispirazione prevalentemente civile e sociale e costituiscono, nel complesso, la produzione artisticamente meno felice di Pascoli il quale invece dà il meglio di sé nelle raccolte del primo gruppo, le più caratterizzate da una sensibilità de­cadente.
c) La funzione del poeta: il «fanciullino» - Come i simbolisti francesi, anche Pascoli è convinto che la funzione del poeta sia di cogliere la realtà nascosta che sta al di sotto delle forme visibili e tangibili e di cui tali forme sono simbolo.
Nella prosa Il fanciullino egli sostiene che il poeta ha la dote, che è propria dei fan­ciulli, di vedere al di là dell’apparenza delle cose; una dote intuitiva che gli uomini co­muni perdono via via che diventano adulti.
d) I maggiori temi pascoliani – I temi ricorrenti nelle più significative raccolte pascoliane (Myricae, Canti di Castelvecchio, Primi e Nuovi poemetti) sono tratti dalla realtà quotidiana e autobiografica del poeta, una realtà dimessa e umile, spesso dolorosa: l’infanzia segnata dalla tragica morte del padre; la madre e alcuni fratelli prematuramente perduti e la famiglia disfatta; la casa dell’infanzia, la casa-nido, rievocata nei più diver­si stati d’animo e nelle diverse ore e stagioni, fiorita di rose e di gelsomini nella calura estiva, o immersa nell’ombra della sera, mentre intorno le volano le farfalle notturne e si diffonde il profumo acuto delle peonie; la campagna romagnola, piena di voci nella stagione dei lavori agricoli, o malinconica nell’abbandono autunnale; il collegio di Urbino, dove il poeta ha trascorso l’infanzia e dove i piccoli collegiali giocavano con gli aquiloni; il cimitero dove riposano i suoi morti, ed altro
d) Dalla realtà al simbolo È una tematica dì cose sperimentate e vissute che, in astrat­to, potrebbero anche essere il bagaglio di uno scrittore realista. Ma in Pascoli i dati concreti, pur rappresentati con attenta precisione, costituiscono solo il punto di parten­za dal quale le liriche muovono per suggerire altri temi e valori di cui la realtà presen­tata è simbolo: valori più vasti, che coinvolgono aspetti fondamentali e generali dell’esistenza umana.
Ad esempio, la breve lirica Lavandare può apparire, a prima vista, come un bozzetto di genere: una campagna autunnale, un aratro abbandonato, le lavandaie che sbattono i panni e cantano uno stornello. Ma attraverso questi elementi il poeta suggerisce altri significati; le figure, il paesaggio, le voci diventano il simbolo di una componente pe­renne dell’esistenza umana: la malinconia e l’abbandono.
Analogamente, la lirica Novembre, attenta ai particolari concreti di una giornata di novembre, in cui la limpidezza del cielo quasi primaverile contrasta con gli aspetti già invernali del paesaggio (rami secchi, terreno che suona «vuoto» sotto i passi, ed altro), propone, al di là del piano descrittivo, il tema del rapporto vita-morte, anzi della mor­te prevalente sulla vita.
e) Il mondo classico pascoliano Il mondo classico, che gli offrì materia di ispirazione soprattutto nei Poemi conviviali, assume una dimensione nuova nella poesia pascoliana. Le ferme e nitide figure del mondo greco-romano, almeno quali la tradizione le ha tramandate, diventano anch’esse espressione delle inquietudini, delle ansie, dello sgomento del poeta di fronte alla vita e al suo mistero. Un esempio è Aléxandros: Alessandro Magno, che nella storiografia classica è celebrato per le sue doti di condottiero e di politico, si trasforma, nel componimento pascoliano, in un sognatore affascinato dall’ignoto che, giunto con le sue conquiste ai confini del mondo, si duole perché non gli resta più nulla da scoprire e quindi da sognare.
f) Il «linguaggio» pascoliano - Nei confronti del linguaggio poetico tradizionale, Pa­scoli compie un’autentica rivoluzione, che avrà grande influenza sulla poesia del Nove­cento.
Nel lessico: scompaiono i vocaboli aulici e arcaici. Il suo lessico è tratto dall’uso comune; egli usa anche voci gergali, termini tecnici derivati soprattutto dalla vita agrico­la; frequente l’uso di voci onomatopeiche (il verso dei vari uccelli, il don don delle campane).
Nella sintassi: al periodo ampio, costruito, proprio degli scrittori del passato, si sostitui­sce il periodo breve, con frequenti spezzature e sospensioni.
Nella metrica viene meno il verso compatto e sonoro e vi si sostituisce una versificazione spezzata, ricca di pause, di cesure, di riprese melodiche, con rime interne che danno particolare risalto ad alcuni vocaboli-chiave. Nel complesso, ne risulta una musicalità sommessa, ma molto articolata e mossa.

10 Gabriele D’Annunzio – Gabriele D'Annunzio (1863-1938) è certo uno dei protagonisti del Decadentismo europeo. Maestro della tecnica letteraria e del virtuosismo, provò quasi tutti i generi, lavorando intorno a una scrittura capace di innumerevoli stili e registri. L'Alcyone resta uno dei libri più belli dell'inizio secolo. Ma la sua opera, per quanto complessa e sfuggente, non appare solo come la distillazione di tutte le possibilità romantiche: è anche il sostrato di tutte le svariate proposte novecentesche. D'Annunzio sembra nel bene e nel male il padre del Novecento.

a) La vita - Nato a Pescara nel 1863 dopo aver compiuto i primi studi nella città natale, nel 1874 fu mandato a Prato, nell’allora famoso Collegio Cicognini dove rimase fino al conseguimento della licenza liceale nel (1881);
nel frattempo il suo talento trovò una prima espressione nei versi di Primo vere del 1879, ispirati al modello carducciano, che lo segnalarono all'attenzione della critica.
Iscrittosi alla facoltà di lettere di Roma, non portò mai a termine gli studi, trovando nei circoli letterari della capitale e nei giornali cittadini Il Fanfulla della Domenica e la Cronaca bizantina l'occasione per mettersi in vista.
Nel 1882 uscirono Canto novo, in cui affermò la propria visione panica e sensuale della vita, e i bozzetti narrativi di Terra vergine, ambientati nel natio Abruzzo, in cui è palese l'influsso di Verga
Il 1886 è l'anno dei racconti di San Pantaleone, confluiti poi, insieme ad altri, nelle Novelle della Pescara del 1902. Seguì un periodo di crisi e di ripensamento che lo indusse a confrontarsi e misurarsi con quanto di meglio e di più affine alla sua sensibilità era nel Decadentismo europeo. Nelle letture di Nietzsche e Wagner, e in particolare nella concezione del superuomo, trovò invece la legittimazione filosofica per quel vivere inimitabile, sprezzante di ogni morale comune, che avrebbe caratterizzato gran parte della sua opera e della sua vita.
Espressione di tale travaglio furono i romanzi Il piacere del 1889; Giovanni Episcopo del 1891; L'innocente del 1892; Il trionfo della morte del 1894; Le vergini delle rocce del 1895. In essi la tradizione ottocentesca è stemperata in personaggi e atmosfere sovraccarichi di torbido e morboso psicologismo. Svolto nel frattempo il servizio militare a Roma, nel 1891 fu costretto dai creditori a trasferirsi a Napoli, dove rimase due anni, scrivendo sul "Mattino" di E. Scarfoglio e M. Serao. Sul fronte lirico, dopo La Chimera del 1890 e le Elegie romane del 1892, pubblicò le Odi navali e il Poema paradisiaco (1893), che segnò una tappa importante nell'evoluzione del linguaggio poetico italiano aperto a una morbida cantabilità, a ritmi e a suggestioni oniriche.
Nel 1897 si buttò nell'agone politico, risultando eletto deputato per la Destra; ma non comparve mai alla Camera, se non per passare, due anni dopo, con spettacolare disinvoltura sui banchi della Sinistra ("vado verso la vita"). Intanto aveva conosciuto la grande attrice Eleonora Duse (ritratta più tardi in maniera impietosa nel romanzo Il fuoco, 1900), con cui ebbe un lungo sodalizio d'arte e di vita. Si cimentò infatti nel teatro, genere per il quale, a partire dal Sogno d'un mattino di primavera del 1897, scrisse numerose opere: La città morta del 1898; La Gioconda del 1899; La gloria del 1899; Francesca da Rimini del 1902; La figlia di Iorio del 1904, La fiaccola sotto il moggio, del 1905; La nave del 1908; Fedra del 1909. Il suo capolavoro è La figlia di Iorio, in cui la lingua si adegua mirabilmente alla sacralità orgiastica e primitiva della vicenda.
Nella quiete della Capponcina, la villa di Settignano, presso Firenze, nacquero i primi tre libri di poesia delle Laudi: Maia del 1903, Elettra del 1903 e Alcyone del 1904.
Soprattutto a quest'ultimo è giustamente affidata la sua fama. L'uomo e la natura appaiono come trasfigurati in una sembianza eterea, senza contorni, in cui la parola è una musica avvolta nelle proprie magiche eufonie e il verso è davvero tutto: mito, canto, solarità, metafora di acqua, cielo e terra, oblio segreto, ricordo e presagio, culla e destino di ogni cosa. D'Annunzio scrisse ancora in versi le patriottiche Canzoni delle gesta d'oltremare (1912), pubblicate sul Corriere della Sera durante la guerra di Libia, e i Canti della guerra latina, usciti sullo stesso giornale tra il 1914 e il 1918, che andarono a comporre rispettivamente Merope e Asterope, il quarto e quinto libro delle Laudi (gli altri due, previsti dal progetto originario, non vennero mai scritti); ma in queste opere, pur conservando spesso un notevole magistero formale e un raro mestiere, di rado seppe evitare le secche della retorica.
Per i debiti accumulati dagli sperperi di un tenore di vita superiore ai pur cospicui diritti d'autore (nel 1910 aveva intanto pubblicato l'ultimo romanzo, Forse che sì forse che no), venne il sequestro della Capponcina, che lo costrinse al "volontario esilio" in Francia. Dopo alcuni mesi trascorsi come ospite d'onore della buona società parigina, si ritirò ad Arcachon, sulla costa atlantica. Qui scrisse ancora per il teatro, in una totale identità fra parola e musica, opere di cesellata maniera (alcune in un francese antico che suscitò l'ammirazione di A. France): Le martyre de Saint Sébastien (1911, musicato da C. Debussy), La Pisanelle (1912, musicata da I. Pizzetti), Parisina (1913, musicata da P. Mascagni).
Nel 1911 cominciarono ad apparire sul "Corriere della Sera" le Faville del maglio, che inaugurarono una prosa di memoria "interiore" e di ripiegamento. L'anno successivo la morte di G. Pascoli e di A. Bermond, proprietario della villa di Arcachon in cui abitava, gli ispirarono Contemplazione della morte, che contiene alcune tra le sue pagine migliori. Scrisse anche il racconto La Leda senza cigno nel 1913, ma pubblicato nel 1916.
Ai primi di maggio del 1915 rientrò in Italia per schierarsi con gli interventisti, che chiedevano la partecipazione dell'Italia alla prima guerra mondiale a fianco dell'Intesa contro Germania e Austria. Partecipò alla guerra e con valore: fu protagonista di imprese come la beffa di Buccari e il volo su Vienna, che divennero leggenda. Per la perdita dell'occhio destro e la cecità temporanea a cui fu costretto egli dettò il Notturno (1921), il "comentario delle ténebre" dallo stile levigato e scarnito.
La delusione per la vittoria "mutilata" lo spinse a guidare l'occupazione di Fiume (settembre 1919) e ad assumere la Reggenza del Carnaro, provocando l'intervento dell'esercito italiano in quello che D'Annunzio chiamò "Natale di sangue" del 1920: furono questi avvenimenti l'apogeo e insieme la fine della sua parabola di uomo d'azione. Nel 1921 si ritirò nei pressi di Gardone, sul lago di Garda, in una villa che divenne il Vittoriale degli Italiani, un monumento elevato a se stesso e una dorata prigione, in cui Mussolini lo confinò ricoprendolo di onori e riconoscimenti (la nomina a Principe di Montenevoso nel 1924; l'edizione, a spese dello Stato, dell'Opera Omnia, 1926; la presidenza dell'Accademia d'Italia, 1937).
Nel Vittoriale attese alle ultime opere: i due volumi delle Faville del maglio (1924 e 1928), i frammenti narrativo-memoriali del Libro segreto (1935), Le dit du sourd et du muet (1936) in francese antico.
b) Gli anni della sperimentazione giovanile - D’Annunzio conobbe e assimilò la produzione del Decadentismo straniero, soprattutto francese, ma anche del Decadentismo inglese, nonché il romanzo introspettivo russo di Dostojeskij.
Gli anni di questa avida sperimentazione giovanile furono quelli che seguirono la conclusione dei suoi studi liceali, dal 1881 al 1893, e che egli trascorse prima a Roma, poi a Napoli. Appartengono a questi anni raccolte di liriche (le più famose sono Canto novo e il Poema paradisiaco), novelle e romanzi, in cui mise a frutto la lezione appresa dagli scrittori stranieri.
c) Il mito del superuomo - Intorno al 1894-95, a seguito della lettura del filosofo Nietzsche, entra prepotente, nella produzione dannunziana, il mito del superuomo, cioè dell’uomo d’eccezione, superiore alla morale comune, nato per dominare gli altri uomini. Il tema del superuomo sarà presente, d’ora innanzi, nella molteplice e varia produzione del D’Annunzio: nei romanzi, in quasi tutte le tragedie, nei libri delle Laudi ad eccezione di Alcyone.
Al mito dell’uomo d’eccezione si accompagna quello della nazione d’eccezione, guerriera, dominatrice e civilizzatrice. D’Annunzio esalta perciò le guerre coloniali e vagheggia per l’Italia imprese di conquista e di espansione imperialistica.
Ma egli non si limitò a celebrare il superuomo nei suoi scritti; volle impersonarlo anche nella vita. Non di rado visse, magari coprendosi di debiti, come un principe del Rinascimento, fra splendidi arredi, levrieri e cavalli di razza. Combatté con grande coraggio nella prima guerra mondiale, ma non nella promiscuità delle trincee, bensì compiendo gesti vistosi, come il volo su Vienna, la beffa di Buccari, in cui appagava la sua individuale volontà di affermazione.
d) La «tregua» dell’Alcyone - Il terzo libro delle Laudi, Alcyone, rappresenta una tregua dello spirito del superuomo e un abbandono del poeta al mondo della natura. Il libro comprende le liriche ispirate prima da un soggiorno primaverile a Fiesole, poi (e sono le più numerose) da un’estate marina in Versilia.
Caratteristica dell’Alcyone è l’immedesimazione e l’immersione del poeta nel grembo della natura, che gli si rivela attraverso le sensazioni che essa suscita e che D’Annunzio coglie con acutissima percezione: sensazioni di cose concrete (aghi di pino, frutti maturi, riverbero delle onde, pioggia che batte sugli alberi, ed altro), che, nei versi dannunziani, suggeriscono sapientemente l’atmosfera delle ore e della stagione, ma, nello stesso tempo, le inquietudini, o il senso di appagamento, che esse generano nel poeta.
e) Le opere «notturne» - L’aggettivo «notturno» è tratto per estensione dal titolo di un’opera dannunziana, Il Notturno, che il poeta compose durante la guerra, quando, ferito a un occhio, fu costretto a rimanere per lungo tempo nell’inerzia e nell’oscurità. È un’opera che esprime uno stato d’animo meditativo e doloroso. La denominazione di «notturne» fu perciò usata per indicare tutte le sue opere di taglio più pessimistico e meditativo (La contemplazione della morte, Il compagno dagli occhi senza cigli, ed altre). In tali opere, lontane dai trionfalismi e dagli orpelli abituali, la critica ha individuato alcuni dei momenti più riusciti della poesia dannunziana.
f) Il percorso narrativo - Gabriele D’Annunzio fu autore di vari romanzi, in alcuni dei quali tuttavia è abbastanza visibile la traccia dell’esperienza naturalista e verista anche se per lo più la sua narrativa si svolse nell’ambito del Decadentismo. Il suo primo romanzo, Il piacere del 1889, mentre da un lato sembra indulgere all’analisi psicologica dell’amore secondo il metodo seguito da Flaubert e da Maupassant, dall’altro si compiace di esasperare l’egocentrismo del protagonista, Andrea Sperelli e la sua tendenza estetizzante nel godimento del piacere. E così pure nei due successivi romanzi, Giovanni Episcopo del 1891 e L’innocente del 1892, mentre è evidente che intende rifarsi al realismo di Dostoevskij e Tolstoj, dal primo soprattutto riprende il metodo di scandagliare fino in fondo la coscienza umana, riprende cioè quell’atteggiamento che lo avvicina ai decadenti. Insomma quello che maggiormente risalta nei suoi primi romanzi è una sorta di pendolarismo fra realismo e decadentismo, con la tendenza però a liberarsi gradualmente del primo per approdare con maggiore consapevolezza al secondo. Difatti è singolare l’esaltazione che il D’Annunzio fa del protagonista de L’innocente, Tullio Hermil, e finanche del suo terribile delitto: lo scrittore, con la chiara volontà di destare scandalo, fa dire a Tullio che "la giustizia degli uomini non lo tocca", avvicinandosi così sempre più alla creazione del suo ideale di uomo, il superuomo. Altro passo innanzi in questa direzione si ha con il Trionfo della morte del 1894, il cui protagonista, non potendo possedere della sua donna anche l’anima, procura la morte ad entrambi. L’immagine del superuomo è finalmente compiuta nei tre romanzi successivi: Le vergini delle rocce, Il fuoco e Forse che sì, forse che no, rispettivamente del 1895, del 1898 e del 1910.
g) Il tecnico della parola - Già in un’opera giovanile il poeta affermava: «divina è la parola». E questo culto, quasi religioso, della parola è stato l’elemento caratterizzante della sua attività di scrittore.
Egli si vantò di conoscere più di ogni altro l’arte di «collocare le parole» nel periodo e nel verso. Sfruttò al massimo il valore musicale delle pause, che, isolando le parole, danno loro rilievo e consentono che la loro eco si dilati.
Una singolare abilità tecnica ebbe anche in campo metrico. Usufruì ed alternò i metri più diversi, che usò come strumenti raffinati per costruire quelle che egli chiama, con espressione derivata dalla musica, le sue «frasi musicali».
Questa eccezionale abilità tecnica, tuttavia, non fu sempre al servizio di un’autentica ispirazione. Nella vastissima produzione dannunziana non di rado le parole suonano a vuoto, compiaciute di se stesse e fine a se stesse. In questi casi, la poesia scade a retorica fastidiosa e stucchevole.
h) Conclusioni - Il merito maggiore di D'Annunzio è l'idea che la letteratura possa essere un discorso infinito: la facoltà estrema non solo di riuscire a conquistare ma anche a raccontare la straordinaria vitalità dell'esistenza. D'Annunzio sperimentò e provò ogni possibilità espressiva. Toccò in qualche modo i limiti come i difetti della tradizione letterario-umanistica, stabilendo quelle "colonne d'Ercole" che tutti i poeti italiani del Novecento sapranno tanto più rispettare quanto più si sentiranno difesi da quegli stessi limiti della parola, ormai definiti e dunque invalicabili. Ciò che più conta in lui è il senso altissimo di un'esperienza letteraria che cercò di essere un modello espressivo assoluto, consapevolmente moderno, anche grazie alla tanto disprezzata retorica. Il poeta Montale non esitò ad affermare che per superare D'Annunzio era indispensabile attraversarlo. In effetti, nonostante il molto artificio, le troppe vuote sonorità e la diffusa assenza di un solido senso morale, sacrificato per un'irraggiungibile favola bella, ciò che è più vivo nella sua opera rappresenta un passaggio obbligato per intendere appieno quel che avvenne durante e dopo la sua vita.

11. La lirica del secondo Ottocento - Accanto alla multiforme vitalità del ro­manzo la produzione lirica continuò ad avere un posto di prestigio, anche se non poteva certo competere con le ca­pacità di farsi leggere del romanzo. Come per la prosa, bisogna allargare lo sguardo al­le esperienze straniere che offrono modelli nuo­vi ai nostri poeti. In primo luogo va però ricordata la diversità della situazione italiana rispetto a quella europea: mentre in Europa l’esperienza della lirica romantica era sta­ta ricca di opere e di autori che avevano dato vita a una nuo­va poesia, in Italia emergeva da un panorama piuttosto piatto, altissima ma inimitabile, la voce poetica di Leopardi. Questo ci aiuta a spiegare perché i grandi mutamenti che caratte­rizzarono il genere lirico nella seconda metà del secolo avvennero al di là delle Alpi, in Francia in particolare e solo più tardi giunsero anche da noi.
Si trattò di un processo rilevan­te nella storia della lirica, una vera e propria svolta che segnò la nascita della lirica moderna. In questo processo il linguaggio lirico divenne più difficile e la poesia si trasformò in ge­nere d’elite nel momento in cui gli altri generi andavano in­vece conquistando un pubblico più vasto.
Mutarono in primo luogo la figura del poeta e l’idea stessa di poesia: il poeta non sentì più se stesso come portavoce dei valori e dei senti­menti generali colti nella eccezionalità della sua esperienza individuale, rifiutò ogni funzione di «poeta-vate», deposita­rio e trasmettitore di messaggi, per rivendicare invece un’estraneità rispetto al proprio tempo, il rifiuto di una società rispetto alla quale si sentiva diverso.
Questo atteggiamento, che contrasta decisamente con l’idea romantica, fu teorizzato per la prima volta dal poeta francese Charles Baudelaire che ispirò la sua stessa vita alla irregolarità, al disordine, all’eccentricità, divenendo il modello per molti altri arti­sti e letterati sia francesi sia europei. Insieme a Baudelaire, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Stéphane Mallarmé diede­ro vita ad un movimento detto simbolismo, che ebbe una na­scita ufficiale col Manifesto del simbolismo pubblicato nel 1886.
Il dato che più colpisce nell’opera di questi poeti è il caratte­re inconsueto dei loro versi: essi teorizzano la libertà d’in­venzione, l’importanza decisiva del suono, la rottura della sintassi e delle forme metriche tradizionali fino alla disarmo­nia. Il linguaggio poetico abbandona ogni modo descrittivo per cercare l’espressione più elaborata, soggettiva, oscura; la struttura prevalente è analogica, abolisce cioè i nessi logici espliciti e procede per accostamenti, parallelismi, contrapposizioni. S’impose anche l’inconsueta scelta tematica: in parte si trattò di temi nuovi quali le immagini della città caotica, lo spettacolo della folla, il vagheggiamento di evasioni esotiche oppure lo smascheramento polemico delle apparenze, del perbenismo; in altri casi i temi nascevano dall’introspezione ed erano quelli da sempre presenti nella poesia, quali la me­moria, il sogno, i dissidi interiori, ma trasformati in espe­rienze eccezionali, estreme, e trasfigurate in simboli. In questo modo entrarono nella poesia anche il brutto, il demonia­co, il peccato, e più in generale cadde la convenzione per la quale i temi bassi erano esclusi dall’espressione lirica. La poesia e le teorizzazioni dei simbolisti francesi furono pre­sto note in Italia ed esercitarono un’influenza sui nostri poeti. Tuttavia i veri eredi del movimento furono gli scrittori del Novecento, nel senso che soltanto allora si col­se la globalità di quell’esperienza.

 

12 La Letteratura del primo Novecento - Il primo quindicennio del Novecen­to fu dominato da Giovanni Giolitti che orientò la vita politica italiana verso forme diverse da quelle reazionarie degli ultimi anni del secolo prece­dente. Giolitti tentò di integrare nello Stato liberale le nascenti forze operaie, di realizzare una conciliazio­ne tra le forze socialiste e il liberalismo avanzato. Ma questo disegno s’infranse di fronte alla particolare situazione italiana.

Dal notevole sviluppo indu­striale deriva una sorta di «illusione ottica»: i vagheggiamenti dello stato for­te, le esaltazioni nazionalistiche che assumono ben più virulenta consistenza: sul Leonardo, sul Regno, nelle serate futuriste folti gruppi di intellettuali esaltano l’avventura, il rischio, la missione africana dell’Italia. Si tratta di un comples­so di forze opposte a Giolitti che egli nei primi tempi sottovalutò, ma alle quali fu poi costretto a fare notevoli conces­sioni.
In questa situazione van­no viste le manifestazioni letterarie di questo periodo che hanno una caratteristica comune di inquieta ricerca, di velleitarismo e di ambigua disponibilità. D’Annunzio mantiene ancora un ruolo di primo piano: ol­tre che come poeta-vate egli si presenta come maestro di comportamento, di vita inimitabile: sulle sue pagine generazioni di piccoli borghesi sognano amori d’eccezione e vagheggiano il bel gesto.
In un complesso rapporto di opposizione-filiazione con D’Annunzio si collocano i giovani intellettuali in­quieti e disponibili che bramano fare il processo alla generazione che li ha preceduti e danno vita alle riviste fiorentine.
La Voce è la rivista più notevole in quanto dapprima si batte per un rin­novamento della letteratura coin­cidente con un rinnovamento della so­cietà italiana, ma, dopo, mu­terà indirizzo e proprio sulle sue pa­gine sarà teorizzata una concezione quanto mai aristocratica e rarefatta della poesia.
Contro le mitologie decadentistiche co­mincia la sua polemica Croce che elabora un sistema filosofico di laica razionalità e teorizza una con­cezione del fatto artistico che si di­mostrerà sempre più restia ad acco­gliere il processo iniziato negli ultimi decenni dell’Ottocento.
Sotto il denominatore comune dell’opposizione ai moduli dannunziani vanno visti i crepuscolari e i futuri­sti.
La prima guerra mondiale segnò una cesura nella prima metà del secolo. A guerra conclusa si presentano nella società italiana problemi di partico­lare gravità: il rifiuto da parte delle potenze alleate delle richieste ita­liane crea subito il mito della «vittoria mutilata»; le masse proletarie esigono quanto durante la guer­ra era stato loro promesso: riforme sociali e distribuzione di terre; gli ex ufficiali, di estrazione piccolo-borghese, difficil­mente si rassegnano alla grigia rou­tine quotidiana.
Alle elezioni del 1919, la neoformazione fascista non ottenne seggi, ma alle elezioni del 1921 questa formazione mandò alla Camera 30 deputati. Dal vago sinistrismo iniziale il fascismo passò ad un miscuglio di posizioni nel quale confluiscono il disprezzo per la democrazia e per il socialismo, l’esal­tazione e la pratica della violenza, mitologia nazionalistica.
Il partito socialista aumentò il mito del pericolo rosso, fornendo un’arma propagandistica al fascismo, e non fu capace di proporre un’alternativa al vecchio stato liberale; la vec­chia classe liberale mette allo scoper­to la sua vocazione autoritaria e pensa ad un uso strumentale del fasci­smo in funzione antisocialista. Con la collusione de­gli interessi agrari e industriali, con la complicità degli organi dello stato liberale e della monarchia, il fascismo trionfò.
Soppressa nel 1925 ogni manifestazio­ne di vita democratica, Mussolini con la creazione dell’Accademia d’Italia, dell’Istituto fascista di cultura, con le scuole di mistica fascista cercò di legare al regime anche la cultura. In realtà, anche se in Italia mancarono in questo campo esempi di coraggiosa opposizione e di fuoriuscitismo, egli ottenne solo conformistiche adesioni e la migliore produzione letteraria di quegli anni ignorò le mitologie e le parole d’or­dine ufficiali. Ben diversa consisten­za ebbe invece l’opposizione politica contro la quale l’apposito Tribunale speciale non cessò di erogare se­coli di prigione e di domicilio coatto.
La parabola del fascismo intanto si sviluppò con logica coerente con le sue premesse: seguirono infatti l’avventura imperialistica della guerra d’Abissinia, la tragica farsa dei volontari in Spagna, l’intervento nella seconda guerra mondiale a rimorchio del militarismo nazista.
Il dibattito letterario del primo do­poguerra fu inizialmente caratterizzato da un richiamo all’ordine ed alla tradizione: La Ron­da teorizzò la lezione dei classici, l’estrema pulizia formale, la prosa d’arte rigorosamente calibrata. Fu una visione piuttosto an­gusta dei compiti del letterato che si limitava ad una sapienza calligrafica senza troppa preoccupazione per i complessi pro­blemi derivanti dal rapporto tra letteratura e vita nazionale.
Contro tale posizione Gramsci su L’Ordine nuovo e Gobetti su La Rivoluzione liberale, teorizzano una diversa concezione dell’attività letteraria, vista da loro in stretto rapporto con le questioni più vive della società italiana. Su Il Baretti Gobetti si batté per una sprovincializzazione della no­stra letteratura, per un’apertura verso una dimensione europea.
In Europa infatti gli anni tra il 1920 e il 1930 sono ricchi di fermenti e di realizzazioni: Solaria divulga la conoscenza de­gli autori stranieri e con Pirandello e Svevo la letteratura italiana conquista una dimensione europea.
Intanto il fascismo, pesa sulla cultura italiana: gli uomini di lettere più consapevoli del gruppo di Solaria trovano risibili sia i richiami autarchici alla tra­dizione e l’esaltazione di una lette­ratura strapaesana fatti dalla cultura ufficiale, sia le mitologie fasci­ste, scelgono una forma d’arte che non si compromette col regime, lo ignora e da questo nasce il vagheggiamento memoriale, la trasfigurazione del dato reale in una dimensione arcana e simbolica, l’impegno per realizzare pa­gine di assorta levità diventano le caratteristiche di fondo della produzio­ne in prosa; il rifugio nel proprio io, la solitudine esistenziale, l’ascetica ri­cerca della parola essenziale e dei rapporti analogici, sulla scia di prece­denti teorizzazioni, diventano le caratteristiche della poesia nuova che in Ungaretti e in Montale trova i suoi mae­stri. Al di fuori di questo filone, Saba, ripudiando ogni ricercatezza espressiva, canta con profon­da umanità tutti gli aspetti del quo­tidiano e trova chiari accenti di opposizione al regime.
Un altro aspetto della letteratura d’opposizione è poi da considerare l’interesse suscitato negli anni ‘30, per i narratori americani dalle cui pagine si ricavava il mito di un’America giovane, sanguigna e libera. Furono questi i testi di più larga diffusione tra il pubblico: la poesia invece, diventa sempre più una produzione per iniziati.
In complesso la letteratura del ventennio, resta estranea alle mitologie fasciste e prosegue nella sua ricerca formale. Il fascismo, malgrado la creazione dell’Accademia d’Italia non riesce ad ottenere i suoi scopi.

13. Il Crepuscolarismo – Fu un fenomeno abbastanza circoscrit­to che si sviluppò tra il 1903 e il 1911 e coinvolse un gruppo di poeti che, schiacciati tra l’eredità pascoliana e quella dannunziana, presero una strada comune e furono in genere uni­ti da rapporti di amicizia e di solidarietà nelle scelte lettera­rie e negli atteggiamenti esistenziali.
Il termine crepuscolare nacque in sede critica e fu scelto perché indica sia la luce del­l’alba sia quella del tramonto e rimanda quindi ai significati di estenuazione, fine, ma anche a quelli di alba, di realtà nuo­va che sorge.
Si tratta di una poesia costruita intorno a terni ricorrenti: le piccole cose, il quotidiano, l’intimo, il ritorno al­l’infanzia, le lacrime, la malattia, la noia, l’indifferenza. Altrettanto costanti i caratteri della lingua e dello stile: una ge­nerale facilità di linguaggio, l’abbassamento del lessico, l’accentuazione della rima o al contrario la ricerca di un andamento del verso che si avvicina alla prosa.
Tra i poeti crepu­scolari si può distinguere un gruppo romano, nel quale spic­ca la figura di Sergio Corazzini, e un gruppo torinese, del quale fa parte, oltre al maggiore di loro Guido Gozzano, au­tore del poemetto La signorina Felicita ovvero la felicità, Carlo Chiaves. Iniziatore del modo crepuscolare di far poesia si considerò il ferrarese Corrado Covoni.

Le avanguardie – Nei primi anni del Novecento nacquero le avanguardie, tese a innovare con una rottura rivoluzionaria la tradizione figurativa centrata sulla riproduzione della realtà naturale. Il primo movimento d'avanguardia in senso stretto fu l'espressionismo, che coinvolse non solo le arti figurative, ma anche la musica, il teatro, la letteratura e il cinema. I centri del movimento furono in particolare la Francia, la Germania e l'Austria. Soprattutto per artisti quali Schiele e Kokoscka fu anche determinante l'apporto della psicanalisi di Freud, con la sua scoperta dell'inconscio e del suo rapporto con il mondo onirico. Inoltre la scoperta dell'arte africana, in particolare delle maschere, che rappresentano il massimo dell'espressività e della soggettività, in alternativa allo sviluppo della pittura europea fu senz'altro determinante.
Nel 1907 il sodalizio di due artisti come Braque e Picasso è all'origine del cubismo, una pittorica concettuale che introduce il tempo nella rappresentazione pittorica, scomponendo le forme in un'immagine che raccoglie simultaneamente vedute diverse nello spazio e successive nel tempo. Il gruppo dei cubisti si disgregò allo scoppio della prima guerra mondiale, ma il cubismo, con la sua carica eversiva, rappresentò un essenziale punto di richiamo per i movimenti d'avanguardia successivi.
Nel 1909 nasce in Italia il movimento letterario, artistico e politico del futurismo, che sostiene un totale distacco dalla tradizione per aderire, attraverso la rappresentazione del movimento, al dinamismo della vita moderna. Sul piano politico il futurismo esaspera le tendenze nazionalistiche e finisce per confluire nel fascismo. Il futurismo, che non fu un caso isolato, ma influenzò anche altri paesi come la Russia, non impedì nuove esperienze d'avanguardia in Italia, rappresentate dalla pittura metafisica, dal gruppo di Novecento o dei Valori plastici. La data di nascita del futurismo fu segnata dal Manifesto del futurismo, pubblicato nel 1909 dallo scrittore Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944). Sulla sua scia, nel 1910 un gruppo di pittori lanciò a Milano il Manifesto dei pittori futuristi e successivamente il Manifesto tecnico della pittura futurista, firmato da U. Boccioni, C. Carrà, G. Balla, Gino Severini, L. Russolo. Caratteristiche della pittura futurista sono l'abolizione della prospettiva tradizionale e il moltiplicarsi dei punti di vista per esprimere il dinamico interagire del soggetto con lo spazio circostante.
Questo pandinamismo fu variamente interpretato: Boccioni, non dimentico della lezione cubista, lo tradusse in forme deformate e cariche di emotività, accentrate nelle linee-forza (Elasticità, 1912, Milano, collezione privata); Carrà non rinunciò mai totalmente ai valori plastici e pittorici (Donna al balcone, 1912, Milano, collezione privata); Balla scompose il movimento secondo una metodologia analitica e sperimentale che ne evidenzia la struttura sequenziale; Gino Severini (Cortona 1883 - Parigi 1966) frantumò le immagini in una molteplicità di piani-luce dal tenue e raffinato cromatismo; Luigi Russolo (1885-1947) dipinse immagini dall'accesa e contrastante cromia.
La morte di Boccioni nel 1916 e il contemporaneo passaggio di Carrà e Severini a soluzioni vicine al cubismo determinarono lo scioglimento del gruppo milanese e il trasferimento a Roma del centro del futurismo (nascita del secondo futurismo).
Attorno a Marinetti si riunì un gruppo d'artisti, tra cui il modenese Enrico Prampolini (1894-1956), il trentino Fortunato Depero (1892-1960), Balla, assertori della necessità per l'arte futurista d'una progettazione totale e di una più concreta interferenza col reale (tavole polimateriche di Prampolini).
L'unico vero architetto futurista fu Antonio Sant'Elia (Como 1888 - Monfalcone 1916), la cui produzione è però limitata a disegni e bozzetti prospettici, senza alcuna indagine degli spazi interni e della distribuzione planimetrica, e alle teorie del suo Manifesto dell'architettura futurista. Da questi progetti emerge l'immagine di una "città nuova" futurista, in cui il dinamismo e la velocità sono fattori essenziali.
Altre prove d'avanguardia in Italia si svilupparono a partire dal dopoguerra. Fu il caso della pittura metafisica di G. de Chirico, a cui aderirono solo in parte anche Carrà, De Pisis (in particolare con le sue nature morte) e Morandi, che informarono il loro lavoro essenzialmente al raggiungimento di un valore alogico e magico, in cui l'immobilità dei manichini simboleggia l'assenza di drammi e di psicologia.
Carrà, De Pisis e Morandi aderirono anche al gruppo di pittori "Novecento", che si costituì nel 1922 con l'intenzione di recuperare l'arte del passato, dai primitivi al Rinascimento, come base di un'arte pura italiana. Il gruppo era composto da Anselmo Bucci (1887-1955), Achille Funi (1890-1972), Pietro Marussig (1879-1933), Ubaldo Oppi (1889-1946), Felice Carena (1879-1966), Amerigo Bartoli (1890-1971) e soprattutto Sironi, Casorati, Tosi e Martini.

14. Il Futurismo - Il futurismo fu il movimento d'avanguardia più importante di inizio secolo. Si basa sul rifiuto di tutte le forme artistiche tradizionali; cerca un linguaggio adeguato alla nuova civiltà delle macchine e basato sul vitalismo dell'epoca moderna. Il futurismo coinvolge tutte le forme artistiche dando origine a veri e propri capolavori nell'ambito delle arti plastiche e visive. Volle essere soprattutto un nuovo costume rivoluzionario di vita individuale e collettiva; per questo si diffuse in vari modi in tutta Europa e finì per anticipare l'ideologia fascista.
a) I caratteri - Alla base del futurismo fu l'intuizione che la cultura del Novecento non avrebbe potuto non tener conto dei poderosi processi di trasformazione socio-economica in atto: la rapida industrializzazione, la nuova struttura e la nuova funzione delle città, il trionfo della velocità, protagonista dei mezzi di comunicazione (come la radio) e dei mezzi di trasporto (l'automobile, l'aereo e in generale quelli mossi dal motore a scoppio), infine la stessa violenza distruttiva delle nuove armi. Ai futuristi risultò inadeguata la vecchia concezione della cultura come riflessione e comprensione razionale della realtà; così le contrapposero l'idea di una cultura incentrata sul bisogno di agire e su un progetto artistico capace di rappresentare il dinamismo.
L'elaborazione teorica fu affidata ai cosiddetti "manifesti". Il primo Manifesto del futurismo fu pubblicato il 20 febbraio 1909 da F.T. Marinetti, sulle pagine del quotidiano "Le Figaro" di Parigi e richiamava l'atto di fondazione di un movimento politico: i futuristi aspiravano a modificare radicalmente la società. Il futurismo, dunque, si pose in un'ottica dichiaratamente antiborghese: fu contro il perbenismo, ogni forma di tradizione, il parlamentarismo e la democrazia; sostenne invece la positività assoluta del gesto ribelle e libertario, dell'eroismo fine a se stesso, del disprezzo dei sentimenti, della guerra come "sola igiene del mondo". Tra i vari successivi manifesti che ribadivano e ampliavano l'intento provocatorio del primo, il più interessante per l'elaborazione culturale e le conseguenze fu il Manifesto tecnico della letteratura futurista (1912), che propose la distruzione di tutti i nessi sintattici per lasciare le "parole in libertà" e realizzare l'espressione dell'"immaginazione senza fili", fondata su un uso estremo dell'analogia e dell'onomatopea per restituire sulla pagina l'effetto bruto e immediato del rumore. Una "rivoluzione tipografica" doveva realizzarsi con l'abolizione della punteggiatura e l'assunzione di una grafica capace di trasmettere immediatamente la diversa importanza delle parole. Apparvero anche manifesti tecnici di altre arti quali la pittura, la musica e l'architettura. Il Manifesto del teatro futurista sintetico (1915) suggeriva di sorprendere il pubblico con spettacoli brevissimi o addirittura inesistenti per provocarne la reazione anche violenta. Le posizioni del futurismo italiano in ambito politico trovarono espressione sulla rivista "Lacerba", furono meno originali e rimasero legate a forme di nazionalismo. Allo scoppio della prima guerra mondiale i futuristi si schierarono decisamente a favore dell'interventismo e parecchi di loro partirono volontari.
b) Filippo Tommaso Marinetti - Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), teorico del futurismo, nacque ad Alessandria d'Egitto, dove compì gli studi liceali; si laureò poi in lettere alla Sorbona di Parigi. Scrisse in francese le sue prime opere: I vecchi marinai (Les vieux marins, 1898); La conquista delle stelle (La conquête des étoiles, 1902); Distruzione (Destruction, 1904); la migliore è Il re Baldoria (Le roi Bombance, 1905), tragedia satirica contro la democrazia. Dopo la pubblicazione dei primi manifesti futuristi, curò l'antologia Poeti futuristi (1912). In quegli anni uscirono le sue opere più significative: Mafarka il futurista (1910) e la raccolta poetica Zang Tumb Tumb. Adrianopoli, Ottobre 1912 (1914), testi affidati a un'esasperata sperimentazione. Lo scoppio della prima guerra mondiale accentuò l'impegno politico di Marinetti che si schierò a favore dell'intervento, riunendo i suoi discorsi nel volume Guerra sola igiene del mondo (1915); nel dopoguerra aderì al Partito Fascista. Esaltato dal regime, nel 1929 fu nominato Accademico d'Italia e da allora tutto dedicato alla propaganda di governo. Pubblicò numerose opere autobiografiche, tra cui L'alcova di acciaio (1927); Scatole d'amore in conserva (1927); La grande Milano tradizionale e futurista (1969, postumo); Una sensibilità italiana nata in Egitto (1969, postumo).
Marinetti ebbe un ruolo di rilievo sulla scena europea per la capacità di organizzare e propagandare le nuove forme espressive; impose il modello dell'avanguardia in antitesi con il gusto estetico del pubblico.

15. L’arte per l’arte, l’impressionismo - Tra il 1914 e il 1916, una rivista come «La Voce» pubblicata a Firenze, accentua il suo carattere letterario: i vociani privilegiano una critica autobiografica e il frammentismo lirico, cercano di espungere qualsiasi intrusione etica sociale o politica e di promuovere una poetica fondata sul culto della parola e dello stile. A tale indirizzo fanno riferimento alcuni dei maggiori poeti del secolo.
Tra il 1919 e il 1923 il gruppo degli scrittori de «La Ronda» concordano con il programma di Cardarelli che enunciava la volontà di restaurare la tradizione classica della letteratura italiana impersonata in Petrarca, Manzoni e Leopardi, esigeva per lo scrittore piena autonomia da ogni compromissione politica e sociale, considerando l’atto letterario come supremo esercizio di stile. Sul piano letterario La Ronda mostra il rifiuto di ogni forma irrazionalista, dalla poesia simbolista di Pascoli alle mitografie di D’Annunzio, alle teorie iconoclaste dei futuristi. Ciò accanto al recupero di una concezione dell’arte intesa come diletto, mestiere raffinato di letterati che si professano estranei a ogni finalizzazione dei contenuti. I rondisti sono teorici di una scrittura d’arte, senza impegni etici né politici, esercizio disinteressato.
Tra il 1926 e il 1936, intorno alla rivista fiorentina «Solaria», si raccolgono alcuni tra i migliori scrittori del periodo e che ebbero grossa influenza nel dopoguerra. Tra loro Eugenio Montale e Carlo Emilio Gadda. La rivista era stata fondata e diretta a Firenze da A. Carocci. Una rivista eclettica, oscillante tra il rigore formale de «La Ronda» e il moralismo del gobettiano «Baretti». In contrasto con l’autarchia culturale predicata dal fascismo, vi fu una grossa apertura verso le esperienze europee: si recensirono tempestivamente i libri di P. Valéry, E. Hemingway, A. Gide, A. Malraux; si stamparono traduzioni di T.S. Eliot, J. Joyce, R.M. Rilke. Si cercò di valorizzare autori del Novecento italiano dedicando numeri unici a Saba, Svevo, Tozzi. Dal 1930 ci fu una maggiore attenzione verso i giovani scrittori, come Vittorini. Gli interventi di N. Chiaromonte, U. Morra e G. Noventa sulla responsabilità storica del letterato allarmarono la censura che sequestrò alcuni numeri della rivista, tra cui quello del marzo-aprile 1934 contenente Il garofano rosso di Vittorini.
Di tutti gli autori che si mossero variamente in questi anni, gli unici riletti dalle generazioni successive di lettori, furono Dino Campana, Vincenzo Cardarelli, Riccardo Bacchelli.

16. Poetiche espressioniste surrealiste magicorealiste - Sulla linea pirandelliana sono Pier Maria Rosso di San Secondo, e in parte Massimo Bontempelli fautore del realismo magico. Giuseppe Antonio Borgese con il romanzo Rubè tenta di opporsi al frammentismo vociano come all’isolazionismo rondista.

17. La produzione regionale - La politica culturale del fascismo cercò di promuovere un tipo di cultura nazionalista e unitaria, decisamente “italianofila”. Le culture che si esprimevano nelle lingue regionali furono osteggiate, anche se non mancarono in quegli anni autori e testi che usarono le lingue regionali per esprimersi.

18. La rivoluzione narrativa del primo Novecento - Il romanzo occupa un posto di assoluta preminenza nel panorama let­terario e, nel corso del secolo, la produzione si differenzia in misura rilevante per avvicinarsi, sotto lo stimolo dell’industria culturale, alle esigenze di un pubblico differente. Accade così che mentre si affermano sperimentazioni di nuovi modi di narrare, tendenze di avanguardia, persistano, anche a li­vello di letteratura alta, romanzi di impianto tradizionale.
La crisi della tradizione ottocentesca si evidenzia nel fatto che raccontare e descrivere non basta più: la grande tradizione narrativa ottocentesca che aveva dato nel verismo gli ultimi altissimi frutti, entra, infatti, in cri­si nei primi anni del nuovo secolo.
Già nell’alveo dell’estetismo di fine secolo erano nate esperienze narrative che avevano indebolito il ruolo della trama, ma ciò che a molti scrittori cominciava ad apparire vecchia era l’operazione stessa del narrare. De­scrivere e raccontare erano sentiti come schemi che fatalmente riproducevano un ordine, volevano dire fissare un inizio e una fine, interpretare la realtà e disporla razionalmente in uno spazio e in un tempo. Ma nella cultura novecentesca proprio questo cominciava ad essere messo in dubbio, che la realtà fosse interpretabile secondo parametri razionali.
Ciò che caratterizzava la modernità era la perdita del centro, della certezza che l’uomo potesse conoscere il mondo che lo circonda, giudicarlo e quindi descriverlo. Un elemento che emergeva era la fine di una visione unitaria del mondo e di se stessi, che portava intellettuali, artisti e scrittori a cercare nuovi strumenti per esprimere questa nuova situazione, tut­ta moderna.
Una prima conseguenza della situazione finora delineata fu che gli scrittori si applicarono a forme della prosa alternative alla narrazione:
1.      la prosa lirica nella quale il racconto è sostituito dall’illumina­zione improvvisa, dal flash;
2.      il frammento e la prosa d’arte, cioè pezzi di bravura, sfoggi di raffinatezza stilistica.
Alcuni grandi romanzi creano nei primi decenni del secolo la di­mensione novecentesca del narrare.
·         Nel 1913 la prima parte di Alla ricerca del tempo perduto, il ciclo di sette romanzi di Marcel Proust che compì una delle più ambiziose imprese della letteratura di tutti i tempi: nel contesto di una società, sottoposta ad un profondo cambiamento sociale, che assiste al definitivo declino del mondo aristocratico, egli analizzò minutamente le cause della psicologia amorosa e i meccanismi della memoria, cogliendo insieme la relatività della dimensione temporale e la possibilità per ogni uomo, attraverso gli incontrollabili meccanismi della memoria involontaria, di rivivere l’essenza stessa del proprio passato.
·         Nel 1916 esce il lungo rac­conto La metamorfosi, di Franz Kafka che ebbe un peso decisivo nell’evoluzione delle tecniche romanzesche. In romanzi come Il processo (1925) e Il castello (1926) Kafka piegò tecniche della narrativa fantastica a rappresentazioni costruite con minuziosa verosimiglianza e allo stesso tempo caratterizzate da un angosciante senso dell’assurdo e da inquietanti trasfigurazioni oniriche: le private ossessioni psicologiche dell’autore si trasformano in densi simboli del destino umano, in un mondo privo di dei ed oppresso da misteriose ed incombenti presenze superiori.
·         Nel 1922 il romanzo Ulisse di James Joyce riprende il modello narrativo dell’Odissea di Omero, anche se la sua azione è circoscritta a quanto accade nell’arco di una sola giornata nella Dublino contemporanea. Una delle caratteristiche più originali della scrittura di Joyce è l’impiego sistematico delle tecniche del monologo interiore e del flusso di coscienza, attraverso le quali l’autore rappresenta, per così dire, in presa diretta lo scorrere incessante e spesso informe dei pensieri, delle percezioni, delle associazioni mentali consapevoli e inconsapevoli dei personaggi.
·         Nel 1923 appare, ai margini dell’ufficialità letteraria nazionale, La coscienza di Zeno di Italo Svevo in cui c’è «ardore di verità umana e desiderio continuo di sondare, ben al di là delle parvenze fenomeniche dell’essere, in quella zona sotterranea ed oscura della coscienza dove vacillano e si oscurano le evidenze più accettate». Se i primi due romanzi Una vita e Senilità sono una specie di autobiografia, La coscienza di Zeno che assume la forma di diario, approfondendo sistematicamente lo scandaglio dell’inconscio. In esso il problema esistenziale è risolto con la scoperta dell’azione: solo se ci si immerge totalmente nei problemi concreti del vivere quotidiano e non si ha più il tempo per le meditazioni sulle problematiche astratte dell’esistenza, è possibile liberarci dal peso dell’angoscia.
·         Nel 1926 uscì il romanzo Uno nessuno e centomila di Luigi Pirandello, opera intenzionalmente frammentaria, saggistica e antiromanzesca, cui lo scrittore affidò il compito di riassumere la propria sconsolata visione del mondo, basata su di un esasperato soggettivismo, secondo cui la realtà non avrebbe una sua oggettività, ma assumerebbe tanti aspetti diversi quanti sono gli uomini che la osservano; anzi essa cambierebbe anche a seconda dei vari momenti in cui viene a trovarsi il singolo uomo. La medesima cosa capiterebbe all’uomo: io non sono nella realtà quello che sono, ma quello che appare a ciascuno degli uomini con i quali vengo a contatto; e poiché la mia personalità non ha senso al di fuori del contatto con la società, è evidente che io creda di essere uno, essendo invece centomila e nessuno. Ne consegue l’impossibilità dell’uomo di comunicare con gli altri, poiché a lui sfugge, in ogni incontro, chi egli sia per l’altro. Da ciò una desolante solitudine, una sensazione d’angoscia, che determina come effetto o un cieco furore contro la società o un brutale impulso al suicidio.
·         Tra 1930-1933 i primi due volumi de L’uomo senza qualità, l’incompiuto, colossale romanzo di Musil in cui, mescolando narrazione e riflessione saggistica, Musil sconvolse le tradizionali tecniche romanzesche, costruendo una grande metafora dell’aspirazione dell’uomo alla totalità e insieme dell’impossibilità di raggiungere una verità che non sia provvisoria e parziale.
Ciascuno di questi scrittori (e insieme a loro bisogna ricordare almeno Virginia Woolf, William Faulkner, Gertrude Stein) aprì strade completamen­te inesplorate per il romanzo e perseguì obiettivi diversi; tutti però intrapresero un per­corso che passava per il radicale e profondo ripensamento delle strutture narrative, della lingua e dello stile.
Nel­le opere di questi autori è possibile indivi­duare alcune direzioni comuni della ricerca di rinnovamen­to delle strutture narrative:
1.      Il tempo interiorizzato: l’idea nuova è che il tempo non è una realtà oggettiva, che si misura in ore, giorni, mesi, ma è una percezione soggettiva, è il tempo della coscienza. La narrazione, l’organizzazione dei fatti in un prima e in un dopo avvie­ne allora secondo questo tempo interiore.
2.      La destrutturazione dell’intreccio: si indebolisce l’intreccio come narrazione continua, nella quale gli eventuali vuoti sono riempiti attraverso l’intervento del narratore. La materia del racconto tende a coagularsi sempre più in blocchi tematici, a seguire gli andamenti della coscienza dei personaggi che si sostituisce alle vicende.
In queste direzioni si mosse quindi la ricerca della narrativa novecentesca, ma, dopo questa svolta, è problematico trovare nel corso del secolo altri denominatori comuni.
In Italia, il trentennio tra l’inizio della prima guerra mondiale e la fine della seconda fu caratterizzato dalla presenza del Fascismo le cui direttrici ufficiali della cultura esaltavano gli uomini dalla volontà granitica ed eroica: per questo motivo la cultura italiana di questo periodo fu fortemente condizionata da una tale realtà storica e questo rende naturalmente più difficile una disposizione della produzione narrativa.
Ciò che prevale in Italia è la molteplicità delle esperienze e delle soluzioni:
1.      L’emergere della piccola borghesia tra le due guerre incrementa una produzione letteraria di consumo. A parte i generi settoriali, la gran parte della produzione di consumo si ricollega ai romanzi d’appendice ottocenteschi; volgarizzamento della letteratura colta per i ceti medioborghesi: Luciano Zuccoli (La freccia nel fianco, 1913), Guido da Verona volgarizzatore del dannunzianesimo, in fondo la stessa Grazia Deledda che nel dopoguerra scrive Incendio nell’uliveto nel 1918 e Cosima nel 1937, e riceve un nobel nel 1926. Sibilla Aleramo, una scrittrice come Térésah, Antonio Beltramelli.
2.      Oltre a Pirandello e a Svevo, un ruolo fondamentale fu giocato dalla rivista fiorentino Solaria. L’attività del gruppo Solaria, cui collaborano critici quali Debenedetti e Solmi, aveva già delineato, negli anni trenta, due precisi filoni narrativi: quello di tipo saggistico-memorialistico e quello realistico. Nella linea solariana si dispiega una vasta gamma narrativa che ha, in un certo senso, caratteristiche di letteratura di opposizione: l’artista, limitandosi, infatti, a rifugiarsi nella rarefatta evocazione memoriale ed astraendosi dalla contemporanea realtà italiana, si spinge sino alla descrizione di dolorose realtà sociali, trasferita in un clima remoto e arcano che toglie mordente alla volontà di opposizione.
3.      Accanto a questo c’è una letteratura d’opposizione meno cifrata e più decisa.
·         Nel 1929 Moravia pubblica Gli indifferenti, un inclemente affresco della decomposizione borghese opposto alle mitologie ufficiali. La vicenda narrata si concentra su pochi personaggi ed ha come ambientazione principale il salone di casa Ardengo. Ritratto della disgregazione di una famiglia borghese, Gli indifferenti, contraddicendo i valori marziali ed eroici propagandati dal regime fascista, fu considerato dal regime un romanzo scandaloso e per questo sottoposto a censura. La prosa è asciutta, essenziale, fredda e analitica che inaugurò un modello narrativo, caratterizzato da un programmatico grigiore, nello sforzo di rendere anche stilisticamente lo squallore dell’Italia fascista. Il romanzo riveste una particolare importanza perché, in un momento di crisi e di stanchezza della nostra narrativa, si impose con la for­za di un romanzo di rottura. L’aspetto che più colpì il pubblico e la critica fu il crudo realismo con cui venivano ritratti ambienti, situazioni e personaggi in una prosa disadorna e secca. Come se­gnala il titolo, il romanzo si realizza nella messa in scena di una situazione esistenziale, l’indifferenza, che si manifesta come incapacità, inerzia, inettitudine, apatia morale. Questa condizio­ne viene ritratta nei componenti di una famiglia borghese che, dietro le apparenze e le finzioni del perbenismo, nascondono corruzione e assenza di valori.
·         Nel 1930 Corrado Alvaro pubblica Gente in Aspromonte le cui pagine nascono da una favolosa trasfigurazione di vita regionale condotta sul filo della memoria, non solo da una commossa ricostruzione di fatti, di persone, di paesaggi impressi nell’anima al suo affacciarsi alla vita, ma anche da una sofferta partecipazione al dramma della povera gente che da secoli lotta e soccombe, preda spesso di tirannici latifondisti, in una terra arida e desolata, e più ancora da un continuo impegno morale che accompagna e guida gli umili verso la rivolta e il riscatto. In questa terra desolata, in questo luogo di annose ingiustizie sociali e di inveterate sopraffazioni, Alvaro colloca la vicenda umana di Argirò, un pastore i cui buoi e animali avuti in custodia precipitano in un burrone e devono essere venduti per pochi soldi come carne di bassa macelleria e la progressiva presa di coscienza del suo figlio maggiore Antonello che trova nel brigantaggio l’unica forma di riscatto. Il racconto vuol evidenziare questa presa di coscienza del mondo dei pastori che finalmente riescono a manifestare la loro protesta contro la società ingiusta che ha dimenticato la loro umanità. Gente in Aspromonte diventa la tragica storia di un urto secolare, vera e guizzante, senza niente di veristico e di stucchevole, e dove oggetti, proverbi, urli, insieme a un valido senso di un dialogo semplice e parlato, ricomposto senza alcuna codificazione letteraria, si fondono in valori e in tensioni permeate di magico contenuto.
·         Nel 1933 Ignazio Silone pubblica Fontamara, scritto in un momento di amarezza, di rimpianto e di solitudine, nell’incertezza del futuro, ma anche col proposito morale di resistere alla paura del presente. Silone concepì questo romanzo per denunziare lo stato di avvilimento sociale in cui si trovava il suo paese. Fontamara potrebbe essere definito un libro-eroe, avendo avuto l’effetto deflagrante di un giornale di denuncia clandestino: il romanzo, infatti, fu vietato in Italia e poté uscire solo in Svizzera a spese dell’autore, proprio per il carattere eccessivamente schietto della denuncia sociale in esso contenuto. Fontamara è la storia di un paese della Marsica, costituito da poche casupole e strade primitive nel periodo in cui, ai soprusi antichi di cui i poveri contadini di quel paese sono vittime, si aggiunge anche la violenza dei fascisti arrivati al potere. Dal racconto esce l’immagine di un’umanità primitiva e rozza, ma capace di virtù eroiche. L’ambiente, la Marsica, è sempre presente, come un quadro amaro, ritratto in linee dure, che è parte integrante della vita dei fontamaresi. I contadini di Fontamara, sfruttati, si ribellano solo quando il lettore è già ampiamente esausto, e questo senso di angoscia e di pena è rafforzato dal finale tragico di tale ribellione. Tali sentimenti in gioco sono gestiti con un’arma semplicissima, la stessa del Verismo, la cronaca nuda: lo stile appare, infatti, povero e incalzante, più dinamico dei protagonisti, più cinico dei cinici descritti e tutto ciò rende Fontamara uno di quelle opere letterarie indimenticabili. Un elemento importante di questo romanzo è l’ironia, con cui Silone esprime la contrapposizione tra l’ingenuità dei cafoni e la falsità degli altri, la paura di essere presi in giro da parte dei primi e l’intenzione di ingannare da parte dei secondi. Si pone l’accento, anche, l’enormità dei provvedimenti che arrivano dall’alto, che assumono l’aspetto di beffe. Se da un lato Fontamara è un bollettino storico sulla condizione miserabile dei contadini del Centro-Sud, dall’altro è un grandissimo esempio di come si possa fare grande letteratura avendo come protagonisti personaggi assolutamente anti-eroici, abulici, ignoranti, irritanti e sfruttati. Elementi essenziali sono i contadini che non sanno fare massa, il dio sconosciuto della terra da coltivare e possedere, le meschine ricchezze della vita agricola (l’acqua, il podere, le recinzioni), le prepotenze fraterne dei cafoni leggermente più furbi, capaci di farsi ben volere dal potere locale, dal Regime, nel caso specifico.
·         Nel 1934 Carlo Bernari pubblica Tre operai, scritto  fra il 1928 e il 1929. Tenuto conto del delicato periodo storico in cui vigeva la letteratura rondista ed evasiva, il romanzo, per il suo contenuto sociale e realistico, rappresentava un momento di rottura con la moda vigente. Alcuni confusero il documento politico-sociale con la pagina che Bernari aveva scritto e la inserirono nel vago clima neorealistico del tempo, altri vi videro il trionfo della poetica neorealistica di marca verghiana. La genesi è in gran parte politica e impegnata in senso sociale, con idee non conformi a quelle del regime fascista infatti alcuni giornali autorevoli dell’epoca rifiutarono recensioni favorevoli, supponendo che nel romanzo vi fossero elementi politicamente pericolosi e compromettenti. né l’occupazione delle fabbriche, né i problemi degli operai, negli anni del Fascismo, costituivano Infatti argomenti fondamentali e frequenti della narrativa ufficiale. Bernari tuttavia nel suo romanzo non affrontava la condizione operaia come condizione di classe, bensì i problemi umani di tre individui che fanno gli operai: per questo egli si mantiene ancora al di qua della letteratura sociale. Bernari crea quel clima problematico e diseroicizzato degli indifferenti, degli uomini logorati e vinti, ridotti ormai ad una situazione fallimentare della vita, che caratterizzerà con maggiore consapevolezza il Neorealismo. Gli operai di Bernari sono dei vinti la cui aspirazione è quella di uscire dalla loro condizione per entrare nel mondo piccolo-borghese, ma certamente l’opera rimane una testimonianza della sconfitta operaia negli anni in cui il Fascismo si affermava ed ancora un documento del disorientamento delle coscienze, in quanto il lavoro stesso è inteso o rappresentato come condizione primaria di alienazione dell’uomo da sé e dai suoi simili. C’è infatti, in esso, la condizione ferma e scontata della fabbrica: questa esiste ed esistono una serie di cose per cui questa istituzione vive la sua vita impersonale inghiottendo uomini e avvenimenti per privarli di ogni elemento di distinzione umana e sociale.
Questi scrittori diedero il via ad una narrativa di opposizione al regime fascista, naturalmente con tutte le precauzioni suggerite dalle circostanze, orientandosi verso una descrizione più realistica della società italiana, al di là della retorica della sanità del popolo italiano. Per questo questi scrittori vengono anche definiti neorealisti degli anni Trenta, anche se essi ebbero del mondo un sentimento angosciato e pessimistico. Per il resto la storia del romanzo italiano degli anni Trenta si svolge fra toni vagamente realistici e... . Fra questi si segnalano:
1.      Aldo Palazzeschi mantenne un atteggiamento distanziato ed attendista di fronte al regime fascista e alla sua ideologia di ritorno all’ordine conducendo vita molto appartata ed intensificando la sua produzione narrativa e collaborando, dal 1926 in poi, al Corriere della sera. Palazzeschi ebbe un ruolo rilevante nella letteratura del Novecento per il suo stile e per le sue concezioni narrative: rappresentò, infatti, una nota di arguzia e di genialità, soprattutto per il modo come descrive i suoi personaggi e le vicende in cui essi agiscono. Quest’atteggiamento ironico e demolitore, unito alla capacità di creare rapidi ed incisivi bozzetti o immagini, è alla base di tutta la sua produzione in prosa. L’opera dove si riassume il significato fondamentale del messaggio di Palazzeschi è il romanzo Le sorelle Materassi, pubblicato nel 1934 dove la trama, profondamente umana con sfumature di malinconia si presta alla problematica introdotta dall’autore, che si riassume in una visione commossa, pur nel tono vario e nell’ispirazione seriosa e sicura che caratterizza il capolavoro. Protagoniste sono Carolina e Teresa Materassi, due anziane sorelle ricamatrici. Nella grigia esistenza delle due zitelle, dedite al lavoro in compagnia della terza sorella Giselda e della serva Niobe piomba ad un tratto il nipote Remo, rimasto orfano di madre Augusta, la defunta quarta sorella Materassi. La giovinezza, la bellezza e la disinvoltura del ragazzo spingono le zie a piegarsi ai suoi comandi, cambiando vita e bruciando in poco tempo i risparmi accumulati in anni di duro lavoro. Abbandonate dal nipote, ridotte alla miseria, le tre donne non cessano tuttavia di adorare Remo, accontentandosi di ricevere qualche cartolina e accettando anche Peggy, modernissima ragazza americana che egli ha sposato. Ormai in rovina, si riducono a lavorare per le contadine del circondario, ma si consolano conservando religiosamente le fotografie di Remo. In particolare una di queste che lo ritrae in succinto costume da bagno, è collocata, come su un altare, nella loro stanza da lavoro. Aldo Palazzeschi raffigura con sarcasmo le sorelle attraverso un linguaggio teatrale, ricco di formule orali e di espressioni del vernacolo intessute in un dialogo sorprendentemente effervescente, punto di forza dell’arte di Palazzeschi. Altrettanta vivacità è data dai particolari scenici delle descrizioni e dai giochi linguistici con cui l’autore crea a siparietti esilaranti, come la scena della cambiale, in cui Remo arriva a chiudere le zie in dispensa pur di farsi firmare un’astronomica cambiale.
2.      Riccardo Bacchelli si impone per la sua grande poliedricità narrativa: in lui colpisce particolarmente l’ampiezza della problematica che abbraccia i principali aspetti della condizione umana e svolge temi storici, sociali, morali, filosofici e scientifici. In varie opere di Bacchelli è presente lo sfondo storico che conferisce saldezza e stabilità al racconto e che testimonia in particolare l’interesse che l’autore ha per la storia di cui è scrutato il ritmo ed il significato. Lo studio stesso delle epoche passate è condotto con uno stato d’animo contrassegnato spesso dalla nostalgia, dal rimpianto che a volte deriva dal venir meno delle cose, dall’immagine di una realtà che scompare per sempre. Oltre a ciò, la serena consapevolezza dei problemi sociali e morali dell’uomo cui si unisce il vagheggiamento di un’umanità forte e buona conferisce originalità ed un notevole fascino all’opera di Bacchelli. I pregi più indicativi del mondo di Bacchelli si riassumono nel suo capolavoro, Il mulino del Po, pubblicato fra il 1938 e il 1940. L’opera è un grandioso affresco storico che, nella salda cornice di un ampio periodo che va dalla sconfitta napoleonica in Russia fino alla battaglia del Piave nella Prima Guerra Mondiale, svolge la complessa vicenda di quattro generazioni di mugnai del Po, gli Scacerni, ed intende celebrare, attraverso le lotte dei protagonisti con il Po e con le avversità della storia, la resistenza e la tenacia del popolo italiano. Mirabili sono le pagine che descrivono l’alluvione del grande fiume, gli scontri tra i restauratori e i liberali nel clima infuocato del Risorgimento, le tempestose lotte di classe nella Romagna socialista negli ultimi decenni del XIX secolo, le frequenti commosse descrizioni bucoliche e del costume contadino, e sempre acuto, affatto manzoniano quello dei molti personaggi. Al sapore storico si unisce infatti nel romanzo l’interesse per lo studio dei personaggi, nella cui vita e nei cui gesti si individuano spesso significati universali ed umani, mentre sia nell’analisi storica e sociale (evidente soprattutto se notiamo l’importanza assegnata agli esami degli aspetti e dei problemi delle varie classi) sia sulla problematica morale domina la capacità di ampie e ben articolate concezioni che è tipica dell’autore. La scrittura ariosa, precisa, fatta di periodi lunghi e nitidamente espressi, richiama quella di Manzoni che Bacchelli assunse come modello e la lingua è la stessa che si parlava in quel mondo, a quel tempo. All’esempio manzoniano Bacchelli si è costantemente richiamato interpretandolo come compimento di grandi affreschi romanzeschi, guidati da saldi concetti morali, da un gusto molto forte della meditazione e dell’ammaestramento e da un vivo interesse per la storia. Al di là di questo si coglie una straordinaria somiglianza etica, tra Bacchelli e Verga: i mulini sono anche lo scoglio dal quale le ostriche non dovrebbero mai distaccarsi, pena, per chi contravviene a questa regola, non scritta ma ferrea, la rovina. E difatti, alla fine, uguale e triste è la sorte degli Scacerni come lo era stata quella di mastro don Gesualdo, dei Verginesi come prima di loro dei Malavoglia, e drammatica risulta, nello sperare e nel disperare, la somiglianza di padrona Cecilia con padron ‘Ntoni.
3.      Dino Buzzati interpreta l’angoscia esistenziale, il nonsenso di molti comportamenti umani e l’assurdità delle situazioni. I romanzi e i racconti di Dino Buzzati, esprimono profondamente il senso d’inquietudine e di ansia che spesso riempie la vita umana. Caratteristica dell’opera di Buzzati è la coesistenza di fantasia e realtà. Dopo due prove narrative di diverso successo, nel 1940 Buzzati pubblica Il deserto dei Tartari mentre l’Europa freme sotto i colpi di una guerra nella quale anche l’Italia inizia a muovere i primi passi. Ne Il deserto dei Tartari, attraverso metafore, analogie, sottili processi allusivi ed evocativi, Buzzati segue la vita-non vita di Giovanni Drogo, dal suo arrivo, appena ventunenne, alla Fortezza Bastiani, fino alla sua morte. La Fortezza è un avamposto al confine con un deserto, in passato teatro di incursioni da parte dei Tartari: sperduta, sulla sommità di una montagna, retta da regole ferree, microcosmo affascinante che ammalia i suoi abitanti impedendo loro di abbandonarla. I militari che la abitano e le danno vita sono retti da un’unica speranza: vedere sopraggiungere i Tartari dai confini, per combatterli, acquisire gloria, onore, diventare, insomma, eroi. Le vite si consumano, dunque, in quest’attesa, cullate dalla pigra abitudine, scandite dall’ignaro trascorrere del tempo. Giovanni Drogo è subito avvinto, dalla sua malia: è sicuro di sé, sa di avere tutta la vita davanti, di poterne disporre a suo piacimento, aspettando la grande occasione. Così Giovanni si adatta alla vita della Fortezza, consegnando nelle mani della Disciplina militare, la propria esistenza. L’intero romanzo è caratterizzato dal continuo mutare di prospettiva del narratore. Talvolta questi assume il punto di vista del protagonista, altre volte narra di lui in terza persona, allontanandosi; oppure interloquisce con i personaggi; in alcuni casi sembra seguire un proprio pensiero, un flusso di coscienza ininterrotto che prelude a quelle che saranno poi le riflessioni dello stesso Giovanni Drogo.
4.      Vitaliano Brancati affronta un particolare aspetto della realtà sociale del meridione: se il meridionalismo di Alvaro è lirico e quello di Silone è sociale, il suo meridionalismo è ironico e moralistico. Egli rappresenta la vita pigra e sonnolenta della provincia siciliana, concentrandosi nella rappresentazione del gallismo e dell’ossessione della donna e dell’eros. Il moralismo si stempera però in una caricatura non priva di qualche adesione e simpatia per i suoi eroi. Così la comicità si trasforma in amaro umorismo, lasciando intravedere una prospettiva esistenziale e psicologica e la lezione pirandelliana. Il primo libro della trilogia del gallismo che lo impose all’attenzione della critica e che dimostrò le sue positive qualità di narratore, fu il romanzo Don Giovanni in Sicilia pubblicato nel 1941. Scapolo quarantenne, Giovanni Percolla vive in casa con le sorelle sedotto dagli sguardi di Ninetta che sposa e si trasferisce con la sposa a Milano, dove Ninetta l’introduce in società. Il romanzo mette in luce le due anime del protagonista che sono poi le due anime dell’autore stesso: da un lato l’istintiva adesione alla vita tranquilla e sorniona della provincia meridionale, dall’altro l’esigenza razionalmente riconosciuta di impegnarsi in una vita operosa come quella di Milano. Questi atteggiamenti così diversi tra loro non sono ancora drammaticamente contrapposti; si assiste piuttosto alla descrizione di un gallismo fatto non solo di discorsi scambiati con gli amici, ma anche della tendenza ad ingigantire l’importanza degli sguardi e, più ancora, della contemplazione quasi estatica della donna. Le donne che ricambiano uno sguardo trasformano la vita di un uomo. Quest’esaltazione nasconde però un’intima povertà politica ed intellettuale: come osserva Leonardo Sciascia questi uomini che s’acquattano come scarafaggi in certe strade buie e maleodoranti, che si riuniscono nel retrobottega di una farmacia notturna e ogni tanto fanno risuonare un lungo gemito per le vie barocche di Catania, negli anni della guerra d’Etiopia, col fascismo al potere ed il secondo conflitto mondiale alle porte non sanno far altro che pensare alla donna, per vagheggiarla più che per avvicinarla. Con accenti ancora più divertiti che tragici, Brancati ha rappresentato l’inerzia tipica della sua terra, ma anche il vuoto che si cela dietro a tanta propaganda fascista

19. Italo Svevo - Italo Svevo è uno dei maggiori romanzieri italiani contemporanei; egli ha fatto suo il presupposto essenziale del Novecento: la letteratura è un'analisi spietata, paradossale e ironica della coscienza moderna. Narrare non significa più rappresentare il mondo, quanto trascrivere l'assurda e inquietante casualità delle sue leggi, della sua possibile insignificanza. Al pari dei migliori scrittori di inizio Novecento, ha colto la crisi della cultura europea, l'ansia e l'inspiegabile tragicità della vita quotidiana.

a) La vita – Italo Svevo (pseudonimo di Aron Ettore Schmitz, 1861-1928) era figlio di un commerciante ebreo di origine tedesca.

A dodici anni fu mandato in Baviera a compiere gli studi, che continuò poi a Trieste, frequentando l’Istituto Superiore di Commercio Antonio Revoltella.

In seguito al fallimento dell’industria paterna si im­piega in una banca, nel 1880, dopo essere stato assunto alla Unionbank viennese, iniziò a coltivare gli interessi letterari e a partecipare attivamente alla vita intellettuale triestina.

Cominciò a scrivere novelle (L'assassinio di via Belpoggio, 1890) e il romanzo Una vita, pubblicato a proprie spese con lo pseudonimo di I. Svevo nel 1892, senza ottenere alcun successo.

Nel 1896 sposò una lontana parente, Livia Veneziani.

Negli anni successivi stese il secondo romanzo, Senilità (1898), parzialmente autobiografico. Lasciata la banca, nel 1899 si impegnò nella conduzione dell’industria di vernici sottomarine del suocero.

La scarsa attenzione della critica lo scoraggiò e per circa vent'anni abbandonò, almeno apparentemente, l'attività letteraria; in realtà continuò a scrivere novelle e commedie da ricordare Il marito del 1903, tenne un diario, si dedicò allo studio del violino e fu attratto dalla psicoanalisi. Tradusse in italiano, per interesse personale, l'opuscolo Il sogno di Freud.

L'avvenimento più rilevante anteriore al primo conflitto mondiale fu l'amicizia con lo scrittore irlandese James Joyce, residente a Trieste, che gli diede tra l'altro un giudizio competente sulle sue prime opere, spingendolo a dedicarsi di nuovo alla narrativa.

A partire dal 1919 scrisse il suo romanzo più famoso, La coscienza di Zeno del 1923. In Italia l'opera non suscitò attenzione, ma l'entusiastica approvazione di Joyce suscitò il positivo intervento dei prestigiosi critici francesi V. Larbaud, B. Crémieux e P.-H. Michel; nel 1925 il giovane Eugenio Montale pubblicò una positiva recensione del romanzo: fu il successo anche in Italia.

Svevo continuò a produrre soprattutto racconti lunghi, tra cui Vino generoso nel 1927; Una burla riuscita nel 1928; Corto viaggio sentimentale, iniziato nel 1925 e mai concluso; la Novella del buon vecchio e della bella fanciulla, per la quale Svevo scrisse due possibili finali. Compose anche alcune opere teatrali: Con la penna d'oro e La rigenerazione (pubblicate postume).

Iniziò a scrivere un quarto romanzo di ampio respiro, Il vecchione, di cui stese alcuni lunghi frammenti e gli abbozzi di qualche capitolo. Nel marzo 1928 venne festeggiato a Parigi in un solenne incontro al Pen Club.

Svevo Morì in un incidente d’auto a Motta di Livenza nel 1928.

b) Il «caso Svevo» - I tre romanzi che costituiscono la produzione maggiore di Svevo, Una vita (1892), Senilità (1898), La coscienza di Zeno (1923), ebbero un singolare destino che fece parlare di un «caso Svevo». Mentre ora sono considerati dalla critica fra le testimonianze più significative della nostra letteratura fra Ottocento e Novecento, quando furono pubblicati passarono quasi del tutto sotto silenzio. Svevo rimase pressoché ignorato fino a che Montale, in un suo articolo, lo fece conoscere all’Italia, e lo scrittore irlandese James Joyce, amico di Svevo, lo fece conoscere all’Europa.

c) La formazione culturale di Svevo – La formazione culturale di Svevo fu assai poco legata alla tradizione italiana; fu piuttosto una formazione di tipo mitteleuropeo, cioè legata alla cultura del centro Europa. Svevo era orientato verso questo tipo di cultura dalla stessa condizione politica di Trieste, che, nonostante il suo diffuso irredentismo, fece parte fino al 1918 dell’impero asburgico, anzi ne costituì lo sbocco sul Mediterraneo. A questo si aggiunga che egli compì i suoi studi in Germania.
d) Fra romanzo naturalistico e romanzo di introspezione analitica – I primi due romanzi, Una vita e Senilità, risentono ancora dell’interesse nutrito dal giovane Svevo per i natu­ralisti francesi. Di tipo naturalistico è infatti il loro impianto narrativo: in essi le vicen­de si susseguono in ordine cronologico, legate da rapporti di causa e di effetto; è natu­ralistico anche l’interesse per gli ambienti sociali, come, ad esempio, in Una vita, per l’ambiente bancario, che Svevo conosceva per diretta esperienza.
Tuttavia, già in questi romanzi è evidente l’attenzione di Svevo per l’indagine introspettiva, cioè per una profonda analisi della psicologia dei personaggi, soprattutto dei protagonisti. In questo senso ebbero grande influenza su Svevo il pensiero del medico e filosofo austriaco contemporaneo Sigmund Freud, l’iniziatore della psicanalisi, e le ricerche che questi compiva a Vienna e che miravano a scandagliare i fondi più sotterra­nei della coscienza umana.
Nel terzo romanzo, La coscienza di Zeno, l’impianto naturalistico dei primi due scompare del tutto. Il racconto è concepito infatti come una specie di diario che il pro­tagonista Zeno Cosini scrive su esortazione dello psicanalista che deve curarlo. Le vi­cende della sua vita non sono esposte in ordine cronologico, ma recuperate sul filo del­la memoria, via via che gli si presentano alla mente. E non contano per quello che so­no realmente state, ma per il modo, lo stato d’animo con cui il personaggio le ha vissu­te e per le reazioni che gli suscitano nel ricordo. È per questa via che Svevo introduce il lettore nella psicologia, anche dell’inconscio, del suo personaggio.
e) La figura dell’«inetto» nei romanzi di SvevoFin dal primo romanzo, Una vita, Svevo descrive un particolare individuo borghese, attratto dall'arte, bloccato da un condizionamento nevrotico che lo rende inetto e inadatto a vivere la concretezza del mondo del commercio e della realtà quotidiana.
Nel secondo romanzo lo scrittore torna ancor più sul tema dell'inettitudine, che fin dal titolo, Senilità, è termine allusivo della condizione psicologica di chi è incapace "d'arrivare all'immediata rappresentazione di una cosa reale", così come fanno gli altri. Lo splendido ritratto psicologico del protagonista Emilio Brentani mette a fuoco le caratteristiche dell'uomo moderno, eroe negativo, malato, continuamente in fuga dal presente, perduto dietro a desideri illusori e a modelli astratti.
l’incapacità di adeguarsi all’ambiente in cui vivono, di inserirsi in esso è comune a tutti i protagonisti sveviani. Restano così degli esclusi, degli emarginati; si tratta di un’emarginazione vissuta passivamente, perché essi non cercano neppure di lottare per opporvisi, ma vi si abbandonano con abulia.
Solo il protagonista del terzo romanzo, La coscienza di Zeno, in un certo senso si salva, perché finisce con l’accettarsi così com’è, e nello stesso tempo prende le distanze dalla sua abulia e inettitudine, guardando ad esse con chiara coscienza e con ironia.
f) La coscienza di ZenoSvevo ebbe sempre una predilezione per Senilità, tanto ritenerla il suo lavoro migliore, ma è indiscutibile che il terzo romanzo, La coscienza di Zeno contiene tali e tanti elementi di novità da farlo considerare un'opera capitale del Novecento.
La prima novità consiste nella materia: non si tratta né di un'autobiografia, né di ricordi consapevoli, ma del riemergere di contenuti inconsci riportati alla luce grazie a una cura psicoanalitica cui si sottopone il protagonista.
La seconda grande novità consiste nella struttura narrativa dell'opera: le vicende non sono esposte secondo uno schema narrativo scandito da uno sviluppo logico o cronologico, ma riemergono e si riaggregano attorno a nuclei di interesse che costituiscono l'argomento e i titoli dei capitoli centrali del romanzo: "Il fumo", "La morte di mio padre", "La storia del mio matrimonio", "La moglie e l'amante", "Storia di un'associazione commerciale". I particolari narrativi assumono importanza a seconda del contesto in cui sono collocati, in quanto è l'interesse psicologico a determinare il recupero della memoria e l'organizzazione del racconto.
Tale impostazione determina anche il caratteristico andamento della scrittura di Svevo, in cui tra presente e passato si sovrappongono le diverse sfumature della coscienza.
I capitoli iniziali e quello finale sono dedicati al presente, rappresentato dalla cura psicoanalitica. In essi si svolge un sottile duello tra il protagonista e il medico: il medico cerca di mettere alle strette il paziente perché non si rifugi nelle sue menzogne; il paziente, a sua volta, mira a dimostrare l'incapacità della psicoanalisi a guarire l'individuo, perché la duplicità psicologica non è una malattia, ma il fondamento stesso della vita e "la vita attuale è inquinata alle radici". L'unica forma di guarigione sarebbe, paradossalmente, una catastrofe universale che cancellasse la vita umana dall'universo.
g) Giudizio critico – L'opera di Svevo appartiene alla grande stagione narrativa europea che ha espresso talenti quali Joyce, Proust, Kafka, Thomas Mann e Musil. Li accomuna tutti la crisi della ragione nei confronti degli oscuri e incontrollabili recessi dell'animo umano. Sotto l'ironia e l'autoironia dei propri personaggi, Svevo nasconde la tragica incapacità, l'inettitudine di vivere il presente come una verità tangibile, lucidamente avvertita.

20. Luigi PirandelloLuigi Pirandello compie una grande rivoluzione letteraria, specie nel teatro. Partito dal naturalismo, approdò a una tecnica che, a differenza di quella ottocentesca, rinunciava all'unicità della voce narrante. Mostrare la duplicità comica e tragica dell'esistenza significa descrivere l'apparenza, le contraddizioni e le ambiguità tipiche dell'uomo del Novecento.
a) Vita e operePirandello nacque nel 1867 a Girgenti (Agrigento) da una famiglia agiata e borghese: suo padre era, infatti, proprietario di miniere di zolfo. Il pensiero politico dell’ambiente in cui nasce è prevalentemente garibaldino-risorgimentale. Frequentò il liceo classico a Palermo poi si iscrisse alla facoltà di lettere a Roma.
Dopo un litigio con un professore, Pirandello si trasferì a Bonn, dove si laureò in filologia romanza con una tesi sui dialetti siciliani, e presso la cui università in­segnò per un anno: il soggiorno tedesco fu per lui importante perché in Germania Pirandello entrò in contatto con i letterati romantici, i quali lo influenzarono per quanto riguarda l’umorismo.
Nel 1892, Pirandello cominciò a dedicarsi alla letteratura, scrivendo a Roma il romanzo L’esclusa, completato nel 1893 e pubblicato nel 1908: egli riusciva così a vivere di letteratura grazie agli assegni che il padre gli corrispondeva.
Nel 1894, Pirandello sposò Maria Antonietta Portulano con la quale andò a vivere a Roma, trovando occupazione come professore di lingua italiana all’Università.
Nel 1895, Pirandello scrisse la prima commedia, Il nibbio.
Nel 1902, Pirandello pubblicò Il turno.
Nel 1903, il padre ebbe un crack finanziario: la sua miniera di zolfo si allagò, provocando la crisi psicologica della moglie di Pirandello, che divenne ben presto pazza, e la declassazione dal passaggio da una vita di agio ed una di piccolo borghese. La gelosia della moglie e la condizione matrimoniale cominciano a essere sentiti da Pirandello come una trappola; egli doveva inoltre lavorare il doppio per vivere continuava quindi a fare l’insegnante ed a scrivere libri, lavorando anche per il cinema e scrivendo soggetti per alcuni film: Pirandello cominciò così a sentirsi un intellettuale sfruttato dalla società.
Nel 1904, Pirandello pubblicò sulla rivista Nuova antologia, Il fu Mattia Pascal, un romanzo particolare e diverso dagli altri.
Nel 1908, Pirandello scrisse L'umorismo (in cui confluirono parecchie pagine dei suoi scritti precedenti) per presentarlo come titolo al concorso a ordinario presso l'Istituto superiore di Magistero femminile.
Nel 1909, Pirandello pubblicò I vecchi e i giovani.
Nel 1910, Pirandello si occupò di teatro e fece rappresentare le commedie Lumìe di Sicilia e La morsa: egli diventò così scrittore di teatro, sebbene abbandonasse del tutto i racconti e la letteratura.
Sempre per il teatro scrisse Il piacere dell’onestà, Pensaci Giacomino, Se non così, Lì o là, Il gioco delle parti.
Nel 1911, Pirandello pubblica il romanzo Suo marito.
Nel 1915 c’è la guerra: Pirandello si schierò su posizioni interventiste perché vedeva nella guerra la fine del Risorgimento. Nello stesso anno egli pubblicò Si gira, il cui titolo fu cambiato nel 1925 in I quaderni di Serafino Gubbio operatore. Nel frattempo suo figlio Stefano fu catturato e Pirandello non riuscì a riscattarlo: le condizioni della moglie quindi peggiorano e fu ricoverata.
Dal 1916 comincia ad occuparsi veramente e solamente di teatro scrivendo commedie e anche testi in dialetto siciliano come: Il berretto a sonagli, commedia in due atti il cui titolo si riferisce al berretto portato dal buffone, il copricapo della vergogna ostentato davanti a tutti - la commedia riprende le tematiche delle due novelle La verità e Certi obblighi entrambe del 1912; Lì o là, una commedia in tre atti messa fu messa in scena per la prima volta il 4 novembre 1916 ed ispirata ad un episodio del capitolo IV del romanzo Il fu Mattia Pascal; La giara atto unico ripreso dall’omonima novella del 1906.
Nel 1917, Pirandello compose Pensaci, Giacomino!, il cui nucleo originario, è tratto dalla novella omonima. Successivamente compose Il piacere dell’onestà, tratta dalla novella Tirocinio; sempre nello stesso anno Pirandello mandò in scena Così è (se vi pare), tratto dalla novella La signora Frola e il signor Ponza, suo genero.
Nel 1918, Pirandello scrisse Il gioco delle parti.
Nel 1920, Pirandello abbandonò il lavoro di insegnante.
Nel 1921, Pirandello scrisse Sei personaggi in cerca d’autore, che all’inizio non ebbe molto successo, ma nelle ultime rappresentazioni fu applauditissimo; egli scrisse inoltre Enrico IV un dramma in 3 atti rappresentato il 1922 al Teatro Manzoni di Milano.
Nel 1924, Pirandello aderì al Fascismo: questo movimento provocò in Pirandello sostanzialmente due reazioni e comportamenti: lo accolse con favore perché prometteva ordine, legalità e non più scioperi, ma sotto sotto era però un anarchico, perché avrebbe voluto liberarsi e rifiutare i vincoli e le imposizioni della società. Ben presto Pirandello si accorse però che quella del Fascismo era solo una maschera che dissimulava il suo carattere autoritario, ma, per continuare a lavorare liberamente, egli decise comunque di non opporsi ad esso, standosene in disparte. In questo stesso anno scrisse Ciascuno a suo modo: l'opera fa parte della cosiddetta trilogia del teatro nel teatro, preceduta da Sei personaggi in cerca d'autore e seguita da Questa sera si recita a soggetto.
Nel 1925, Pirandello diventò direttore del teatro d’Arte a Roma e si legò all’attrice Marta Abba. In quest’anno egli pubblicò Uno, nessuno e centomila.
Tra la fine del 1928 e l'inizio del 1929, Pirandello scrisse Questa sera si recita a soggetto, subito dopo l'esperienza di capocomico presso il Teatro d'Arte: l’opera è considerata la terza parte della trilogia che il drammaturgo dedica al teatro nel teatro, preceduta da Sei personaggi in cerca d'autore e Ciascuno a suo modo.
Nel 1930, Pirandello si allontanò un po’ dal Fascismo. Raccolse le sue opere nelle Novelle per un anno e le produzioni teatrali in Maschere nude.
Nel 1934, Pirandello ricevette il Nobel per la letteratura. Egli lavorò molto per il cinema.
Nel 1936, Pirandello morì d’infarto, lasciando incompiuto I giganti della montagna, terminato poi dal figlio, secondo gli appunti lasciati dal padre.
b) La narrativa e il teatro – Fin dall'inizio della sua produzione letteraria gli schemi naturalistici assumono il Pirandello contorni paradossali in quanto viene a mancare il rapporto tra la realtà e la verità.
Nel romanzo Il fu Mattia Pascal il protagonista prima scompare, accettando un suicidio di cui viene ritenuto erroneamente vittima, poi finge un suicidio; il gioco si conclude con la completa sconfitta dell'uomo, costretto, dal fluire della vita, a sopravvivere a se stesso. La prosa nervosa e ironica, la successione di fatti inattesi, ma tutti rigorosamente concatenati in un contesto in cui pure domina il caso, fanno di quest'opera uno dei capolavori europei del Novecento.
L'opera complessivamente più alta della prosa pirandelliana è costituita dalle Novelle per un anno, che disegnano un mondo caotico dominato dal caso e dal male di vivere e danno un efficace e originale ritratto della società italiana di primo Novecento.
Pirandello scrisse anche alcuni testi teorici. Il primo è l'Umorismo, in cui egli definisce la caratteristica peculiare della sua opera come "il sentimento del contrario", cioè la capacità di avvertire la sofferenza attraverso il contrasto tra ciò che ciascuno è e ciò che rappresenta per gli altri.
L'ultimo lavoro teorico è Uno, nessuno e centomila, originale romanzo-saggio in cui la teoria dell'autore viene esposta organicamente: il tema fondamentale è il rapporto fra individuo e collettività. Per stabilire tale relazione, l'individuo ha bisogno di darsi una forma che lo rappresenti stabilmente agli occhi degli altri, fatta di convenzioni, di ruoli familiari e professionali, di doveri e soprattutto dei giudizi e pregiudizi altrui, ai quali la persona cerca di adattarsi per ottenere una riconoscibilità pubblica (assumendo, appunto, centomila maschere), fino al punto di non riconoscersi più. Dal contrasto tra il divenire della vita e la staticità della forma nasce dunque l'acuta sofferenza della persona e l'assurda inattendibilità della comunicazione.
Da questa situazione di sdoppiamento, tra il fluire della vita e la staticità della maschera, discende una complessiva teatralizzazione dei rapporti umani, in quanto ciascuno è costretto a recitare la parte che il mondo circostante gli impone.
Questa problematica è approfondita nella prima produzione teatrale di Pirandello: esempi particolarmente significativi sono Così è (se vi pare) e Il gioco delle parti. Ma la vera novità del suo teatro consiste nella rottura del realismo scenico e nella creazione del teatro in cui è rappresentato il dramma dei personaggi, intesi autonomamente e non più come proiezioni sceniche delle persone. Mentre le persone, nella quotidianità, sono costrette ad assumere una forma e a recitare la parte assegnata loro dalla società, i personaggi, invece, sono pura forma, vivono sempre le stesse vicende che loro assegna l'autore una volta per tutte, in una fissità psicologica fuori dal tempo.
Testo esemplare in questo senso è il dramma dei Sei personaggi in cerca d'autore, la cui trama, relativa a una tragica storia di miseria morale e materiale, è funzionale al vero dramma: i personaggi, creati dall'autore nella propria mente (ma da lui rifiutati e quindi non fatti vivere in un testo) cercano vanamente, attraverso una compagnia di attori, di mettere in scena la loro storia; scoprono tuttavia che non vi può essere corrispondenza tra la verità e la rappresentazione; riproducono allora i frammenti smarriti di una creazione tragica e sterile.
c) «La maschera e il volto» – Ogni essere umano – dice Pirandello – è fissato, bloccato in una specie di maschera immobile che lo fa apparire sempre uguale a se stesso. Ma l’individuo non è fisso, immobile, non è cioè quello della «maschera», ma è in continua trasformazione; ogni persona non è mai, nel tempo, uguale a se stessa: il buono non è sempre buono, il furbo non è sempre furbo ed altro. L’uomo di oggi, in altre parole, non è lo stesso dell’uomo di ieri, né di quello che sarà domani. «Non c’è uomo – scri­ve lo stesso Pirandello – che differisca più da un altro che da se stesso nella successio­ne del tempo».
La «maschera» diventa così una prigione della nostra vera natura; a volte diventa così soffocante e intollerabile che si tenta di spezzarla, di uscirne fuori, col rischio di mettere a repentaglio la propria posizione sociale, di essere considerati dei pazzi.
È questo il tema di alcune tra le più felici novelle pirandelliane, come La carriola e Il treno ha fischiato. Ma esso è presente anche in altri numerosi scritti, il più importante dei quali è il romanzo Il fu Mania Pascal, dove il protagonista approfitta di alcune circo­stanze favorevoli per buttar via il suo se stesso tradizionale, per darsi un altro nome e un’altra vita; ma l’esperimento non gli riesce, ed egli è costretto a ritornare nella sua «maschera».
d) Che cosa è la verità - Per Pirandello non esiste una sola verità, ma tante verità quanti sono gli uomini; il mondo, perciò, risulta privo di certezze obiettive. Nel romanzo Uno, nessuno, centomila, il protagonista si accorge, ad un tratto, che coloro che lo circondano, a cominciare da sua moglie, lo vedono ognuno in modo diverso dall’altro e tutti poi diversamente da come egli vede se stesso. Sente così la sua personalità come polverizzarsi; non è più uno, ma centomila e perciò nessuno. Analogamente, nella commedia Così è (se vi pare), la giovane donna, sulla cui identità corrono voci contraddittorie, incalzata dalla curiosità degli altri personaggi, si presenta velata sulla scena e dichiara: «La verità? è solo questa... Io sono colei che mi si crede».
e) Il «caso» e lo scacco – Spesso nell’opera pirandelliana il susseguirsi delle azioni non è determinato da un controllabile e logico rapporto di causa e di effetto, ma da spinte imprevedibili, dal «caso» appunto. Il caso scompiglia le programmazioni razionali e orienta arbitrariamente le vicende.
Da questa situazione deriva all’uomo un senso di insicurezza, di precarietà, di sfidu­cia in se stesso, nelle sue decisioni e nelle sue azioni, di cui non può prevedere e controllare le conseguenze. La più semplice ed in sé innocua delle sue azioni può infatti, per effetto del caso, determinare conseguenze imprevedibili e a volte sgomentanti.
Altro tema pirandelliano è quello dello scacco, del fallimento, che è comune agli individui e alle intere società. Esso si lega, in parte, al tema del caso, perché è proprio quest’ultimo a togliere all’uomo la fiducia di poter orientare il suo destino e di agire positivamente di conseguenza. I personaggi di una novella pirandelliana, Notte, concludono tristemente che il fallimento è l’essenza stessa della vita, nella quale non si può sapere «perché si debba nascere, perché si debba amare, perché si debba morire».
f) L’umorismo pirandelliano L’amaro destino degli uomini è guardato da Pirandello attraverso il filtro dell’umorismo, che nasce, come dice lo stesso Pirandello, allorché di una situazione a prima vista comica, si vede successivamente anche il risvolto doloroso, che trasforma il primo moto di comicità in sorriso dolente ed amaro.
La poetica dell’umorismo, che traduce la visione di Pirandello circa la vita, si ritrova in un saggio del 1908, intitolato appunto L’umorismo.
Un’opera d’arte nasce dal libero movimento interiore ed è quindi essa stessa espressione del movimento: l’artista, infatti, quando compone solitamente non riflette, ma usa i sentimenti e non c’è quindi riflessione perché essa si traduce in sentimento.
L’umorista usa però la riflessione perché gli permette di scomporre e analizzare anche i sentimenti. L’arte umoristica non si limita ad evidenziare il paradosso (ovvero l’avvertimento del contrario), ma cerca di spiegarlo, andando in fondo al comportamento umano: l’artista, infatti, cerca di capire con la riflessione perché una persona si comporta in un certo modo e quindi indaga sui sentimenti. Nell’artista nasce perciò anche la pietà.
Per Pirandello l’arte è sempre accompagnata dalla consapevolezza di sé; essa non è inoltre armonica ma stridente (fuori di chiave) e pluriprospettica perché evidenzia l’aspetto contraddittorio e paradossale della realtà, una realtà che essa riproduce fedelmente. L’arte tende quindi a scomporre e non a ricomporre perché mette in evidenza le sue assurdità (antinomie). L’intellettuale, che ha realmente capito come stanno le cose dall’alto della sua consapevolezza guarda gli altri con umorismo, ovvero con pietà (comica) ma anche con irrisione. Dietro l’umorismo pirandelliano c’è però sempre una parte di tragico (ovvero di pessimismo), come anche dal tragico si intravede e nasce il comico.
g) L’ultimo Pirandello – Già con il pirandellismo – inteso come l’imitazione di tali caratteristiche da parte di altri autori indica una parte della produzione teatrale di Pirandello stesso durante la quale Pirandello imita se stesso, mettendo in scena in modo arrovellato e contorto personaggi secondo schemi già visti – si ha una ripetizione stanca degli stessi temi. Al posto dell’umorismo nelle novelle e del grottesco nel teatro si ha una poetica irrazionale e misticheggiante.
Se prima non c’era unità, ora Pirandello va alla ricerca di valori al di là: sembra infatti tornare alle poetiche del Decadentismo con quella che si potrebbe definire una involuzione. Nel primo Novecento ci sono poi le avanguardie e col fascismo si ha un ritorno all’ordine e l’arte acquisisce un valore simbolico e mitico.
Dimostrazione di questa nuova poetica sono i drammi teatrali: Lazzaro, Nuova Colonia e soprattutto ne I giganti della montagna.
Questo cambiamento si nota soprattutto nell’ambientazione e nelle azioni.
L’atmosfera diventa mitica e simbolica ed i luoghi diventano leggendari, le azioni, non sono più quotidiane come tradimenti, matrimoni, ma anche fantastiche.
I giganti della montagna parla di un’attrice che vorrebbe portare l’arte e il messaggio estetico fra gli uomini e rappresentare così la favola del figlio cambiato. Il pubblico però rifiuta l’arte ed ella chiede aiuto al mago Cotrone, il quale la dissuade e le consiglia di andare dai giganti. Sennonché tutti gli attori e anche lei stessa sono sbranati dai servi dei giganti. Il racconto assume un forte significato simbolico secondo il quale i giganti rappresenterebbero il potere, ovvero il fascismo, col risultato che l’arte, se vuole sopravvivere, deve adeguarsi e chiedere aiuto al potere; i servi dei giganti raffigurerebbero i gerarchi fascisti, servi del potere.
Da ciò Pirandello si pone il problema del rapporto tra arte e potere. Secondo lui l’artista deve rinunciare al rapporto col pubblico e chiudersi finalmente nella sua arte, di fronte ad un pubblico che non lo capisce e che non vuole capirlo.
In questo periodo Pirandello continuò a scrivere inoltre novelle raccolte negli ultimi libri di Novelle per un anno, come Berecche e la guerra, I piedi nell’erba, che tratta del ritorno alla natura, ed Una giornata. Sono novelle nelle quali Pirandello scava nell’inconscio dei personaggi e affronta temi come la morte e la meccanizzazione della società moderna.
h) Conclusioni - Con la sua ampia produzione teatrale e narrativa, Pirandello è una delle voci più significative della cultura italiana del Novecento e, in assoluto, uno degli scrittori italiani più noti nel mondo. Interprete della crisi dell'uomo moderno nel rapporto con se stesso e con gli altri, egli ha contribuito sensibilmente alla formazione del romanzo del Novecento, facendogli superare gli schemi del verismo. Altrettanto decisivo il suo apporto nel rinnovamento del teatro tradizionale, come attesta la sua fortuna, inalterata in tutto il mondo.

21. La rivoluzione lirica del primo Novecento La grande rottura rispetto alla tradizione romantica e classicista si era prodotta in Francia e in Europa nella seconda metà dell’Ottocento e, a cavallo dei due secoli, anche in Italia. Pertanto le esperienze poetiche del primo Novecento appaiono sotto il segno della continuità e dello svi­luppo e configurano con maggior evidenza la fi­sionomia di una poesia novecentesca, moderna con caratteri propri e definibili che cercherò di riassumere e schematiz­zare.
1.      La poesia del Novecento è un’esperienza che si allontana dal re­sto del sistema letterario, si sviluppa in una sfera a sé stante ed ha una circolazione limitata.
2.      La lirica moderna accentua ancora, se è possibile, il carattere di soggettivismo. Il poeta compone senza potersi rapportare a un pubblico, né reale, né fittizio.
3.      Il linguaggio, la parola, prevalgono su tutti gli altri elementi della poesia. Il poeta, che non si sente più in grado di esprimere attraverso il linguaggio la sua visione del mondo, si propone di cercare la parola che ha in sé la capacità di significare, alludere, evocare. Egli fa come da filtro tra le parole e le cose, le mette in relazione e lascia che da questa re­lazione scaturisca un significato.
4.      Un carattere subito evidente nella poesia moderna è la difficoltà di comprensione che essa presenta. L’oscurità può derivare da una concentrazione dei significati o può essere il risultato della scomparsa del contenuto, quando le suggestioni del suono, le sequenze ritmiche finiscono per sostituire i significati. Ma anche senza considerare queste estreme esperienze delle avanguardie, il lettore della poesia moderna si trova di fronte a una poesia nella quale non riesce a isolare un contenuto preciso, alla quale non può accostarsi attraverso lo strumento della parafrasi. Egli deve pertanto accettare l’indetermina­tezza come elemento costitutivo del messaggio poetico.
A differenza di quanto accade per la prosa, si possono indi­care per la poesia alcuni momenti fondamentali e alcune ten­denze generali, con la precisazione tuttavia che nel no­stro Novecento ci sono poeti di grande statura la cui voce si differenzia con caratteri originali.
1.      A partire dai primi decenni del Novecento la nuova poesia italiana si forma con lo sguardo rivolto alle esperienze stra­niere; le opere di Baudelaire, Mallarmè, Rimbaud, Valéry di­ventano i punti di riferimento costanti; si può dire insomma che i poeti d’inizio secolo recuperarono i ritardi accumulati dalla nostra letteratura nel corso del secolo precedente.
2.      D’Annunzio e Pascoli ebbero una funzione di cerniera tra Ottocento e Novecento ed esercitarono un’importante influenza. Non va nemmeno trascurato l’esempio dei crepusco­lari sia per le scelte tematiche sia per l’intonazione intimistica e sommessa che portarono nella nostra poesia.
5.      Una proposta decisamente caratterizzata fu quella dell’avanguardia futurista. Le dichiarazioni programmatiche e teoriche contenute nei manifesti della letteratura futurista, mentre negavano di fatto la possibilità di una narrazione proponendo ad esempio l’abolizione della sintassi, della punteggiatura, dell’aggettivo, potevano trovare una più efficace realizzazione nel linguaggio poetico. In effetti alcune parole d’ordine dell’avanguardia futurista si ponevano nel solco segnato dalla ricerca della poesia moderna come la proposta del verso libero, della immaginazione senza fili, delle parole in libertà. I crepuscolari oppongono coscientemente ai miti dannunziani la pro­saica, dimessa vita giornaliera e pro­vinciale e tuttavia a questo mondo non riescono ad aderire del tutto: sono troppo letterati e raffinati per non sentirlo di pessimo gusto, dai confini del decadentismo non riescono ad uscire. I futuristi con vi­rulenza iconoclasta predicano la di­struzione dei musei e della tradizione, il ripudio dei formalistici compiaci­menti dannunziani ed esaltano la macchina, la velocità, la violenza e la guerra «sola igiene del mondo». Oltre che l’elemento irrazionalistica, che da qualche decennio è la costante di tanta produzione artistica europea, c’è nel loro caso dell’altro: la collusione con le tendenze naziona­listiche già virulente nel paese, la su­blimazione letteraria di quella ferrea legge di violenza che l’industrialismo portava nei rapporti tra le classi.
6.      Fuori da queste due scuole operarono poeti che in vario modo parteciparono delle inquietudini del tempo e tentarono nuove strade, con differenti risultati. Nella poesia che con più evidenza si coglie già il nuovo ci sono Clemente Rebora e soprattutto, Dino Campana, certamente la voce poetica più originale e più alta di questo periodo, senza i cui Canti orfici non si capirebbero Ungaretti e tutto l’ermetismo.
7.      L'opera di Saba e Ungaretti è una rivoluzione quasi inconsapevole. Saba cerca la semplicità della parola, la musicalità del verso, un paesaggio reale e quotidiano. In Ungaretti è più evidente il confronto con la tradizione francese; la sua poesia coglie l'innocenza e la nuda verità umana anche delle circostanze più tragiche. Entrambi i poeti insieme con Campana, Rebora e Sbarbaro inaugurano la nuova poesia italiana del Novecento.

22. Giuseppe Ungaretti – Nel 1916, in piena guerra e in un clima letterario saturo di dannunzianesimo e di canzoni inneggianti alle virtù guerriere e alle gesta d'oltremare, i versi di Porto sepolto ebbero un effetto sorprendente.
La data di questa prima raccolta di poesie di Ungaretti, il 1916, ha un valore rilevante nella storia della poesia italiana del Novecento, poiché in questa raccolta si rende concreto il problema centrale della lirica del primo Novecento. Si trattava di accoglie­re l’eredità simbolista, passata attraverso i modelli francesi, e le novità delle sperimentazioni delle avanguardie, e per la stret­ta relazione con una «novità» di contenuto. In effetti quelle poesie, dai versi spesso brevissimi, talvolta composti di una sola parola, stravolgevano la tradizione, portando alle estreme conseguenze quanto aveva iniziato Pascoli.
Ungaretti sa far com­piere questo passo in avanti alla nostra lirica; ciò che, infatti, va fortemente rilevato, perché costituisce la vera svolta di Porto Sepolto, è l’impiego degli strumenti retorici di natura metrica, sti­listica e sintattica, messi a punto in un arco di esperienze poetiche che vanno da Baudelaire a Pascoli, ai crepuscolari e ai futuristi, per rifondare la parola poetica nella pienezza della sua funzione. Nei versi di Porto Sepolto non vuole più esserci traccia di parodia, sperimentalismo, trasgressione, cioè di quello stimolo di natura so­prattutto polemica e culturale che esprimevano un bisogno di novità, ma anche una «crisi» della poesia. Ungaretti, che pure ha rifatto questa stessa strada, sembra aderire più profondamente alle ragioni fondamentali che hanno determinato la svolta della poe­sia moderna e cerca uno strumento espressivo non incrostato dalla tradizione per ridare profondità, sacralità alla parola. Ri­cerca la parola poetica autentica, «pura», creatrice, capace di ri­velare un frammento del mistero della vita, legandolo a un’e­sperienza circostanziata, colta come un’improvvisa e momenta­nea illuminazione.
Le novità di carattere formale di questo tipo di poesia appaiono subito evidenti:
  1. La disgregazione della metrica che, andando al di là dell’adozione del verso libero, dà un risalto maggiore alla percezio­ne del verso come frammento (nella poesia di Ungaretti si trova­no versi composti di una sola parola), usando l’a capo, lo spazio bianco della pagina come pausa, come silenzio;
  2. La disarticolazio­ne sintattica che elimina i nessi logici, la punteggiatura;
  3. La co­struzione per analogie, il carattere di frammento, di illuminazio­ne improvvisa di immagine momentanea che racchiudono in un’estrema sintesi il contenuto.
Quello che rimane in una poe­sia di questo tipo è necessariamente enfatizzato, bloccato, fissato in una sorta di isolamento che funziona da moltiplicatore delle possibilità della parola di comunicare dei significati, per farla apparire come rivelazione, mistero. Non si deve tuttavia pensare che questa ricerca di un’intensità di significato, che ca­ratterizza anche le poesie della seconda raccolta Allegria di Nau­fragi (pubblicata nel 1931, e comprensiva delle poesie di Porto Se­polto), sia un recupero sia supera e annulla la crisi di fine secolo.
Il poeta non ha un messaggio esplicito, ha una parola che nasce in lui dalla pienezza di un sentimento morale e dalla ricerca di da­re ad esso un’espressione forte, ed egli la offre nella sua essen­zialità e nudità come illuminazione e frammento, non come discorso.
Nessun libro del Novecento poetico italiano è stato, da questo punto di vista, altrettanto rivoluzionario.
Nell’Allegria, dopo i ritocchi formali volti a scolpire ancor più la parola-materia, il verso libero (ma spesso si tratta di endecasillabi e settenari spezzati) dilata al massimo la sua forza espressiva. Il poeta, uomo di pena, racconta il suo calvario di soldato come in un diario della sofferenza scandito dal luogo e dal giorno. La solidarietà e la compassione si elevano sui cumuli di macerie; la metrica è frantumata, la parola è scarnificata, ridotta alla sua essenza pura, tanto più significativa perché sobria, frammento di vita che si staglia sul bianco della pagina. E proprio questa voluta rarefazione (eredità del simbolismo estremo del francese S. Mallarmé) conferisce alle immagini il loro scabro e intenso lirismo, mentre il poeta, avvolto in una corolla di tenebre, diventa un grido unanime... un grumo di sogni.
Nelle raccolte successive Sentimento del tempo (1933), La Terra Promessa (1950), Un grido e Paesaggi (1952) Ungaretti ritorna a un linguaggio più tradizionale, ricupera il verso, la strofa che ospita un andamento sintattico più complesso, propone la ri­cerca di una lingua alta ed elegante.

Storia socioculturale di un ventennio - Semplificando molto si può dire che il Fascismo dal punto di vista sociale, più che il braccio armato del grande capitale (inizialmente cauto verso di essi), fu l’espressione dei ceti medi frustrati, ostili sia alle classi popolari, con cui non volevano confondersi, sia alla grande borghesia che li spingeva verso il basso. Dopo aver sperato nella guerra per un rimescolamento delle carte a proprio vantaggio, «ora si vedevano governati da quegli stessi uomini contro cui si erano battuti nelle radiose giornate dell’intervento e pressati e scavalcati al tempo stesso dall’ascesa di quelle forze popolari che della neutralità avevano fatto un punto fondamentale del proprio programma» (A. Asor Rosa). Incapace di comprendere la nozione di lotta di classe, dato il suo viscerale individualismo e il fatto che per lui lo sfrutta­mento «rimane anonimo, inavvertito, celato dietro la cortina delle libere contrattazioni», il piccolo borghese è convinto che «la collaborazione fra le classi sia possibile e che esista un interesse generale che coincide col suo, intermedio tra quello della borghesia e quello del proletariato». Così i ceti medi «sognano uno stato al di sopra delle classi che non sia controllato né dalla borghesia né dal proletariato, e che di conseguenza sia al loro servizio» (D. Guérin).
Perciò l’obiettivo strategico di Mussolini e del Fascismo sarà la conquista dello Stato, da cui i ceti medi si ripromettono il controllo del potere politico e il godimento della rendita burocratica (impieghi, sovvenzioni ecc.) per reprimere da un lato l’ascesa delle classi subal­terne e negoziare dall’altro un accordo con la grande borghesia detentrice del potere economico. La conquista dello Stato richiederà un’intesa con la corona e gli alti gradi dell’esercito e della burocrazia ad essa collegati, coi quali di fatto il Fascismo dovrà spartire il potere politico durante il ventennio (tale intesa sarà resa possibile dalla ostilità alle istanze popolari e dalla ideologia nazionalista che accomu­nava le due parti).
Fra le truppe dei ceti medi all’assalto dello Stato troviamo larga­mente rappresentati la pletora dei mezzi intellettuali che affollano le scuole e fanno anticamera alle redazioni dei giornali e delle case editrici. Molti di essi si pongono al servizio della macchina propagan­distica del regime ricavando anch’essi dallo Stato etico la loro parcella di rendita. Gli intellettuali di regime furono di due specie: i «puri» e gli opportunisti. I primi «erano per la maggior parte intel­lettuali di mezza tacca... Nessuno li prendeva sul serio, neppure coloro cui fornivano i prodotti delle loro dotte elucubrazioni».
Le maggiori figure della cultura del regime e fra loro in particolare il filosofo Giovanni Gentile, il giurista Alfredo Rocco e lo storico Gioacchino Volpe «si erano formati prima del Fascismo... Le loro maggiori opere le avevano ormai alle spalle». Fatto è che il Fascismo non produsse una sua cultura e quanto alla dottrina fascista «non aggiunse nulla a quello che aveva ereditato dal recente passato: mise insieme lo Stato etico dell’idealismo hegeliano con la nazione proleta­ria dei nazionalisti, il dinamismo dei futuristi con l’esaltazione del superuomo. Più propriamente sua fu l’idea della latinità, delle quadrate legioni, dell’Italia del Littorio». La maggior parte degli intellettuali di regime fu comunque costituita da semplici opportunisti, con la fede a comando, come molti dei primi membri dell’Accademia d’Italia (creata nel 1926), quasi tutti i profes­sori di università (dei quali solo 11, su 1200, non giurarono nel 1931 fedeltà al regime), la maggior parte degli insegnanti della scuola primaria e secondaria, gli scrittori e i pubblicisti a disposizione della stampa e della radio di regime che prestarono mano all’attività dell’I­stituto per gli studi del Fascismo universale, fondato nel 1936, all’or­ganizzazione dei Littoriali della cultura, infeconde gare intellettuali bandite annualmente dal 1934 dalle università, o alle imprese propagandistiche e censorie del ministero della cultura popolare, il fa­moso Minculpop.
Oltreché la scuola, fascistizzata già dal 1923 dalla riforma Gentile e poi nel 1930 da una disposizione che stabiliva che rettori e presidi di facoltà universitarie e scuole medie dovessero essere scelti tra professori con almeno cinque anni di tessera fascista, particolar­mente utile al regime fu la collaborazione data dall’intellettualità opportunista allo sviluppo di cinema e radio fascisti, con cui negli anni ‘30 si inaugurò anche in Italia l’era dei mass media e della manipolazione di massa.
Attraverso la radio (entrata nelle case italiane a partire dall’ottobre del 1924) l’Italia fu frastornata dalle «radio cronache delle cerimonie ufficiali e patriottiche, cortei, sfilate, inaugurazioni, saggi ginnici, ecc., dove si venne coniando uno stile che fu detto littorio il quale toccava il suo culmine nelle radiotrasmissioni dei discorsi di Mussolini» (G. Manacorda).
Per quanto riguarda specificatamente la letteratura l’influenza del Fascismo si fece sentire sensibilmente nella marcata tendenza al disim­pegno politico e al rifugio nella torre d’avorio letteraria, manifestata da riviste come la Ronda e Solaria (soppressa quando cominciò a sembrare un punto di riferimento culturale troppo indipendente dal regime), nella prosa d’arte e nella poesia ermetica, che appaiono ambiguamente «una difesa dei valori poetici che certamente si opponeva alle intrusioni della politica fascista, ma nello stesso tempo un’evasione dalla realtà che non consentiva la denunzia della tragica situazione di quegli anni» (G. Petronio).
Più direttamente espressione della contraddittoria ideologia fascista furono da un lato Strapaese di Maccari, dall’altro Novecento e il gruppo di Stracittà di Bontempelli. La prima rivista espresse il ruralismo del regime cioè l’esaltazione dei valori e dei modi di vita e di pensiero tradizionali delle campagne italiane, fatta per consolarle del prezzo che esse dovevano pagare ai maldestri sforzi di industrializzazione e di modernizzazione tentati dal Fascismo; mentre la seconda esaltava il preteso rapporto tra Fascismo e modernità, quel rapporto per cui esso si era riconosciuto nel futurismo e questo nel Fascismo e che, nella misura in cui esisté, da ragione a quelle interpretazioni che vedono nel Fascismo il tentativo di risposta di una società arretrata come l’Italia alla crisi dell’industrializzazione in atto: «un’ideologia di emergenza con un programma non d’immobilizzazione e d’ibernazione della società malata (come fanno invece i sistemi di tipo militare) ma di fuga in avanti» (L. Incisa).
Una cultura o, più particolarmente, una letteratura di opposizione non fu tollerata dal regime fascista. L’iniziativa di Gramsci e di Gobetti, espressione l’una di una rilettura originale del marxismo, l’altra di una revisione autocritica dei presupposti dell’ideologia libe­rale, fu presto interrotta o isolata con la violenza, la morte e il carcere. Sopravvisse in solitudine Benedetto Croce che poté continuare a pubblicare la sua rivista La critica, la quale, pur evitando ogni incursione nel terreno specificatamente politico, costituì un punto di riferimento, l’unico non clandestino, per quel poco di opposizione che si manifestò anche nelle file della borghesia italiana nazionale. Sul terreno letterario c’è da ricordare però che è proprio negli anni più fortunati del Fascismo, quelli del consenso, che vedono la luce alcune opere, come Gli indifferenti di Moravia, Il garofano rosso e Conversazione in Sicilia di Vittorini, Paesi tuoi di Pavese, implicita­mente antifasciste, che costituiscono le radici della letteratura impe­gnata del dopoguerra.

23. L’Ermetismo – Il fenomeno più rilevante nel panorama della lirica italia­na degli anni Trenta e Quaranta è l’affermarsi di modi di concepire e fare poesia che furono riassunti nel nome di ermetismo, una tendenza che ha in sé i caratteri della modernità ed eredita sicuramente molte delle tensioni primonovecentesche verso una poesia pura, espressione di una ricerca di nuovo linguaggio, ma anche di nuovi contenuti.
Il poeta ermetico esprime un’ansia di testimonianza di verità che trova un’espressione indeterminata nel simbolo e nell’analogia, nella tendenza a enfatizzare la parola.
Il termine ermetico cominciò a circo­lare per indicare testi letterari che apparivano chiusi, nel sen­so che la loro comprensione era ostacolata non solo dalla com­plessità dell’argomento, ma dalla volontà dell’autore che ricercava l’oscurità. Il termine fu poi adottato dalla critica per indicare un gruppo di poeti che condividevano alcune idee-gui­da del fare letterario.
·         L’idea della poesia come va­lore che sta al di fuori e al di sopra della storia e del tempo e che quindi può parlare di un Uomo inteso nella sua essenza spiritua­le e non calato in una determinata situazione storica o persona­le
·         La poesia è proposta come testimonianza della verità anch’essa assoluta, che non si deve cioè misurare e confrontare con gli eventi e con la storia.
·         A quest’idea si associa la ricerca di uno stile alto, l’unico capace di esprimere convenientemente l’ansia di verità e di assoluto.
Ciò non impedisce ai poeti ermetici di porsi compiutamente entro l’alveo della poesia moderna; in particolare essi fanno propria l’esperienza ungarettiana di una parola essenziale, il valore espressivo fondamentale dell’analogia e del simbolo. Per la loro concezione della letteratura come espressione pura e incontami­nata, sottratta da ogni influsso storico e politico, rimasero estra­nei a un coinvolgimento nella politica culturale del regime fasci­sta e sposarono la linea dell’astensione dalla partecipazione alla vita politica e al dibattito ideologico.
Poiché l’ermetismo non fu propriamente una scuola poetica, non tutti i critici concordano sui nomi da far rientrare in questo «contenitore»; tuttavia si può affermare che poeti come Mario Luzi, Alfonso Gatto, Vittorio Sereni, Salvatore Quasimodo furono tra i maggiori protagonisti della stagione dell’ermetismo, anche se poi approdarono ad esperienze diverse: in particolare Quasimodo (1901-1968), che aveva pubblicato con successo le raccolte Acque e terre (1930) e Oboe sommerso (1932); dopo il 1945, quando l’ermetismo entra­va in crisi, coniugò il suo impegno di poeta a quello politico e ci­vile, come testimonia la raccolta Giorno dopo giorno (1947).

 

24. Eugenio Montale - Eugenio Montale è forse il poeta italiano più grande del Novecento, fu il poeta della decenza e del rigore. La sua poesia, lontana da qualsiasi astrazione ideologica, riuscì a mostrare, nella complessità della sua ricerca espressiva, il senso di un'autenticità umana che sa resistere a tutto, a patto di rifiutare qualsiasi enfasi, qualsiasi facile gioco di vanità. Quasi tutta la poesia contemporanea non ha saputo prescindere dal suo straordinario e limpido insegnamento.

a) La vita e le opere – Montale nacque a Genova nel 1896 e trascorre l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza fra Geno­va e la casa delle vacanze estive di Monterosso nelle Cinque Terre. Per ragioni di salu­te, compì studi irregolari.
Nel 1917 fu richiamato sotto le armi; congedato nel 1919 ritornò a Genova dove collaborò a varie riviste frequentò l’ambiente letterario ligure(soprattutto C. Sbarbaro).
Nel 1922 uscirono i primi versi sulla rivista Primo tempo di Torino, città nella quale conobbe Giacomo Debenedetti e Piero Gobetti, che gli pubblicò Ossi di seppia nel 1925. Nello stesso anno firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti e, con il saggio Omaggio a Italo Svevo, avviò la scoperta del grande scrittore triestino.
Nel 1927 si trasferì a Firenze, dove sì impiegò presso la casa editrice Bemporad; l’anno dopo ottenne il posto di direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, posto che tenne fino al 1938, quando ne fu allontanato perché non iscritto al partito fascista. In quel periodo, culminato nella pubblicazione delle Occasioni del 1939, scrisse sulle maggiori riviste e conobbe Drusilla Tanzi, che più tardi divenne sua moglie.
Sempre a Firenze frequentò anche lo stimolante ambiente che si raccoglieva intorno alla rivista «Solaria».
Nel 1945 si iscrisse al Partito d'Azione.
Dal 1946 ebbe inizio la sua collaborazione al «Corriere della sera», che si intensificò a partire dal 1948, quando Montale si trasferì da Firenze a Milano, dove da allora visse fino alla morte e fu redattore del Corriere della Sera. Intensa fu in quegli anni l'attività di traduttore (Dickinson, Yeats, T.S. Eliot, E. Pound, C. Kavafis, W. Shakespeare, H. Melville e J. Steinbeck fra gli altri).
Nel 1956 apparvero il terzo grande libro di versi, La bufera, le prose della Farfalla di Dinard, seguiti dai saggi di Auto da fé (1966), dalle interviste-confessioni di Nel nostro tempo (1972). Con Satura (1971) si aprì l'ultima, prolifica stagione poetica, che comprende anche Diario del '71 e del '72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977) e Altri versi (1981).
Nel 1975 vinse il premio Nobel per la letteratura.
Muore a Milano nel 1981.
b) La formazione - La formazione di Montale è avvenuta al di fuori degli schemi consueti, data l’irregolarità dei suoi studi. Alla conoscenza dei poeti italiani ha accompagnato quella di poeti stranieri, francesi e soprattutto anglosassoni; inoltre, nella prima giovinezza, ha studiato musica e canto (era sua intenzione di diventare baritono).
Il messaggio poetico di scabra razionalità, di ostinata resistenza e un destino segnato dalla sconfitta, che Montale ha lanciato nella letteratura italiana, è fondamentalmente affidato a solo quattro opere.
c) Ossi di seppia - Fin dal suo apparire, nel 1925, la critica vide in Ossi di seppia il frutto già maturo di una personalità compiuta. Erano forti i legami metrici e sintattici con la tradizione lirica (Dante, Leopardi, Pascoli, D'Annunzio e Gozzano), ma si innestavano in un tessuto lessicale nuovo, distante dagli esperimenti delle avanguardie come dalle teorizzazioni sulla cosiddetta poesia pura, e tuttavia ricchissimo di assonanze e onomatopee, di guizzi della parola improvvisi e inconsueti: soprattutto una lingua che esprimeva in toni composti e meditativi una visione negativa dell'esistenza. La vita è per l'uomo, inesorabilmente calato in un lago d'indifferenza, un muro che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia; l'unica speranza, esigua e parziale, è nella contemplazione della natura, che si apre talora in brevi squarci di luminosa pienezza. E, in effetti, il paesaggio ligure, così scabro ed essenziale, ha gran parte in queste liriche, con il suo minuzioso erbario mediterraneo, e Montale ne assorbe gli umori. L'uomo, prigioniero del proprio cielo senza sogni, può forse trovare qualche conforto nella scintilla accesa qua e là, quasi per caso, da oggetti, simulacri, eventi minimi nei quali esorcizza la propria sete di felicità.
d) Le occasioni – Le occasioni sono forse il libro più compiuto, quello in cui meglio la regola corregge l'emozione in un equilibrio perfetto, in un lirismo disteso, senza accensioni. In esso gli amuleti e una salvifica presenza femminile prendono il posto di pomari, ulivi e girasoli. Gli oggetti, analogamente a quanto accade nella pittura metafisica e nel realismo magico, acquistano, straniati dal loro contesto naturale, una realtà diversa da quella loro consueta.
e) La bufera - La bufera fissa con sguardo attonito e amaro il senso di un'immobilità fattasi rovina. Eppure, anche nel momento in cui
la lotta dei viventi
più infuria, balugina un lume di "decenza quotidiana (la più difficile delle virtù)", e il libro si conclude con l'indizio di un nuovo inizio, di vita che risorge e ricomincia. Ma nulla di consolatorio è in questa attesa; essa appare piuttosto un ostinato rifiuto ad arrendersi, il consapevole tentativo di opporsi a uno scetticismo ineluttabile che, a poco a poco, diventa estrosa facezia, gioco amaro.
f) I temi della poesia montaliana - Fra le tre maggiori raccolte poetiche montaliane, Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera, non vi è distinzione di temi così netta come, ad esempio, tra le raccolte di Ungaretti. Ritorna in esse, infatti, sia pure con approfondi­menti e con diversificate angolazioni, la medesima visione della vita. Indichiamo perciò complessivamente i temi di tali raccolte, aggiungendo che i componimenti della seconda e della terza raccolta sono di tecnica più ardua ed ermetica, e perciò di più difficile comprensione e interpretazione.
g) «Il male di vivere» - Questa espressione, che costituisce il titolo di una lirica degli Ossi di seppia, vuoi significare che, per Montale, l’essenza della vita è il male, cui non sfuggono né le cose animate, né quelle che consideriamo inanimate: l’uomo, il «cavallo stramazzato», il ruscello senza sbocco, la foglia bruciata dall’arsura.
Il «male di vivere» peraltro non sempre coincide con la forza distruttrice che si abbatte sulle esistenze. A volte esso si identifica con l’oppressione che grava sull’uomo, il quale si sente chiuso nella sua vita da una specie di invalicabile muraglia e non riesce a capire il senso della forza che l’imprigiona.
h) «La divina indifferenza» - L’unica salvezza di fronte al «male di vivere» sta nel resistere all’angoscia, nel guardare al proprio destino con lucido coraggio. Questo stato d’animo, sempre nella lirica ricordata, il male di vivere, è definito da Montale «la divina indifferenza», cioè il dignitoso distacco, considerato «divino» perché con­sente all’uomo, che pure conosce la negatività della vita, la forza quasi sovrumana di accettarla.
i) «Il fantasma che ti salva» - Il pessimismo montaliano è percorso comunque da una ricorrente speranza positiva: che possa esserci qualcosa, che possa avvenire un mi­racolo che consenta all’uomo di capire il senso della sua esistenza. Tale speranza sì concreta in alcune immagini: il «fantasma che ti salva» e che forse è possibile incontrare al di là dell’erto muro della vita, solo che riusciamo a valicarlo; la «maglia rotta nella rete / che ti stringe». È tuttavia una salvezza che il poeta, in genere, non spera più per sé, ma invoca per altri più fortunati.
l) La Liguria montaliana - Nato a Genova, Montale è il cantore di una Liguria assolutamente anticonvenzionale, non fastosa né vistosa: un paese asciutto ed aspro, fatto di stradette che si spingono nell’entroterra, di muri a secco, di terreni «bruciati dal salino». Pur suggestivamente evocato e descritto, tale paesaggio non è per lo più fine a se stesso; ma è la proiezione dello stato d’animo del poeta; ne esprime la sensibilità scontrosa e desolata, solo eccezionalmente protesa verso la fiducia e la speranza.
m) Il linguaggio di Montale - La poesia montaliana rifiuta il canto spiegato, l’abbandono sentimentale; o se lo consente così avaramente che in questi casi esso assume un significato intenso e particolare. Essa è tutta percorsa da sotterranee e complesse suggestioni melodiche, ottenute sapientemente attraverso assonanze, rime interne, pause. Anche il linguaggio è volutamente scabro («qualche storta sillaba e secca come un ramo»), a volte oscuro per collegamenti, allusioni, analogie che non è facile individuare e sciogliere: adeguato anch’esso alla intensa e amara materia poetica.
n) L’ultimo Montale - L’ultima copiosa produzione montaliana, costituita dalle raccolte Satura e Diario del ‘71 e ‘72, è caratterizzata da tono e linguaggio prosastici, del tutto lontani da quelli delle raccolte precedenti: tono e linguaggio di «poesia parlata».
I componimenti più ricchi di emozioni poetiche, pur nella pacatezza del discorso, so­no quelli che vanno sotto il titolo di Xenia (e che fanno parte dei Satura): essi ricorda­no la moglie morta, momenti e cose della loro vita in comune, che allora apparivano insignificanti e che ora assumono intenso valore nel ricordo.

25. Carlo Emilio GaddaOsservatore acuto e lucidamente critico della società italiana, sperimentatore inesauribile delle potenzialità espressive del linguaggio, Gadda risulta una figura affascinante e atipica della letteratura del Novecento. I suoi capolavori restano l'esempio di una letteratura che ha cercato di trascrivere le sofferenze e i paradossi, ma anche le orribili corruzioni della civiltà moderna.
a) Vita e opere - Carlo Emilio Gadda nacque a Milano nel 1893. Fatto prigioniero durante la prima guerra mondiale e deportato, narrò l'esperienza di quegli anni nel Giornale di guerra e di prigionia, pubblicato in parte nel 1955 e integralmente nel 1965.
La morte dell'amatissimo fratello Enrico negli ultimi giorni di guerra segnò profondamente il suo animo e gli provocò uno stato di nevrosi che lo tormentò per tutta la vita.
Esercitò la professione di ingegnere elettrotecnico per qualche tempo in Italia e poi in Argentina. Tornato a Milano nel 1924 iniziò a collaborare con il giornale L’Ambrosiano e scrisse il suo primo romanzo, Racconto italiano di ignoto del Novecento (1924-26), pubblicato solo nel 1985.
Iniziò in questi stessi anni la collaborazione con la rivista Solaria, sulla quale nel 1927 pubblicò il saggio Apologia manzoniana. 
Serie difficoltà economiche lo costrinsero a tornare alla professione d'ingegnere (1925-1931) anche all'estero, ma Gadda si concentrò sempre più sull'attività letteraria: scrisse il saggio filosofico Meditazione milanese (1928-29) e il romanzo La meccanica, incompiuti e pubblicati postumi nel 1970, e pubblicò il suo primo libro La Madonna dei filosofi nel 1931, raccolta di racconti di contenuto psicologico, seguito nel 1934 da una seconda raccolta, Il castello di Udine, incentrata sui ricordi di guerra.
Nel 1936 ebbe origine il nucleo fondamentale del suo capolavoro, La cognizione del dolore, un intenso romanzo (1938-41) pubblicato incompleto su "Letteratura" ed edito nel 1963.
Nel 1940 si trasferì a Firenze ove rimase fino al 1950. Qui riunì i racconti nell'opera L'Adalgisa. Disegni milanesi nel 1944 ed entrò in rapporto di amicizia con numerosi scrittori, in particolare con Montale.
L'immediato dopoguerra vide Gadda impegnato nella stesura di un altro capolavoro, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, del quale pubblicò ampi tratti su "Letteratura" nel 1946 (fu edito nel 1957).
Nel 1950 si stabilì a Roma, dove per quattro anni lavorò alla RAI. Alla produzione di nuovi testi (Il primo libro delle favole, 1952 e Novelle del Ducato in fiamme, 1953) affiancò la continua, a volte ossessiva rielaborazione di testi già scritti o editi, (I sogni e la folgore, 1955; i saggi I viaggi la morte, 1958 e Verso la Certosa, 1961). Nel 1963 uscì una nuova raccolta I racconti. Accoppiamenti giudiziosi, in cui alcuni dei suoi più riusciti testi brevi sono accanto a importanti inediti.
L'ultima produzione di Gadda è di tipo saggistico, (I Luigi di Francia, 1964), ma non sono privi del gusto della narrazione e di audace impasto linguistico Eros e Priapo nel 1967, implacabile indagine psicoanalitica della struttura retorica del regime fascista e il divertente trattatello dialogico a tre voci Il guerriero, l'amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo (1967).
b) Quer pasticciaccio brutto de via Merulana - Il romanzo si presenta come un "giallo" incentrato su due crimini avvenuti in un palazzo di Roma: il furto dei gioielli della signora Menegazzi e l'assassinio di Liliana Balducci, una donna ricca, gentile e triste perché senza figli. Su entrambi indaga il commissario Ciccio Ingravallo. Invece d'indirizzarsi verso la scoperta dei colpevoli il testo di Gadda devia continuamente, accentuando le complicazioni delle indagini, fornendo particolari forse non utili alla scoperta della verità, individuando moventi possibili ma non provati. La trama non giunge a una conclusione e proprio in questo modo emerge dalle pagine del Pasticciaccio il ritratto di una società in cui i comportamenti dei singoli e della collettività sono privi di motivazioni reali, risultano dettati da consuetudini, pregiudizi, calcoli meschini e spesso miopi e ottusi. Anche il regime politico, il fascismo della fine degli anni '20, alla ricerca di una legittimazione perbenista e moralistica, contribuisce a creare un clima in cui dominano l'ipocrisia e la corruzione del senso etico del dovere e dello Stato.