Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

mercoledì 9 maggio 2012

L’ermetismo, Montale e Ossi di seppia

Rispetto alla situazione della narrativa, che è intricata e complessa, il quadro della poesia tra il 1925 e la seconda guerra mondiale appare molto più omogeneo e unitario: il centro è ancora Firenze, con riviste come «Il Frontespizio», «Letteratura», e soprattutto «Campo di Marte» (1938-39) diretta da Alfonso Gatto e Vasco Pratolini.
Come molti movimenti letterari anche l'«ermetismo» ha ricevuto la sua etichetta a posteriori, trovando una formulazione teorica in alcuni saggi critici.  Già in precedenza del resto gli stessi lirici nuovi avevano riflettuto sulla funzione della poesia, e accanto ai poeti non era mancata una fioritura critica vera e propria. Un tale lavorìo teorico testimonia la lucida coscienza di costituire una scuola, di operare attorno a qualcosa di comune: l'ermetismo fioren­tino degli Anni Trenta e Quaranta, più ancora dell'am­biente solariano, esibisce una forte convergenza della ricerca e forma un sistema poetico capace di monopolizzare per anni la civiltà lettera­ria, imponendosi come movimento dominante.
Con l'ermetismo anche la poesia testimonia l'isolamento della più autentica cultura italiana rispetto alla retorica del fascismo. Anzi, la poesia ermetica fa del distacco e della purificazione assoluta una delle sue mete più importanti: la parola poetica deve diventare un esercizio talmente estremo ed esclusivo da sostituire l'esistenza, da diventare l'esistenza stessa. La realtà per gli ermetici non ha peso, non ha una sicura consistenza, ed è soltanto la parola, liberata da ogni legame sintattico e logico troppo stretto, a formare l'unico ponte possibile con la Verità, con l'Assoluto. La Verità infatti sta oltre le apparenze fenomeniche, l'Assoluto è assente, è Altro, e si può cogliere solo nell’illuminazione extra-razionale della poesia. Gli ermetici si pongono così entro una comunicazione religiosa con l'autenticità.
Il precedente fondamentale di questa poetica era stato il lavoro compiuto all'inizio del secolo da Giuseppe Ungaretti, in direzione di un furioso analogismo che scava nella verbalità fino a spogliare la parola di ogni riferimento troppo scontato e sicuro, rendendola fulminante e concentratissima. Pensiamo all'opera prima e capolavoro di Ungaretti, L'Allegria, che introduce in Italia l'esempio ancora sconosciuto di autori come Mallarmé. Questa è una lezione centrale per tutta la scuola ermetica degli Anni Trenta: in Ungaretti, infatti, la poesia è già poesia assoluta, vertigine metafisica di un purissimo significante, che sembra ricercare le radici stesse del lin­guaggio.
Tutta interna al ventennio ermetico è invece la prima produzione di Eugenio Montale, tra Ossi di seppia (1925) e La bufera e altro (1953, ma con molti testi degli Anni Quaranta). Montale, con la sua lunga residenza fiorentina e con la sua raccolta del '39, Le occasioni, ha rappresentato uno dei punti di riferimento più sicuri per i poeti delle giovani generazioni. La sua poesia costituisce il polo opposto rispetto alla fede ottimistica e mistica di Ungaretti, disegnando così idealmente l'altro confine entro cui si muove l'esperienza ermetica. Anche per Montale i fenomeni sono falsificazione, alienazione mo­rale, anche per Montale occorre il contatto con l'Assoluto attraverso la poesia: sennonché qui la mistica comunione non si realizza mai, appare per un attimo e subito dispare. Le «occasioni», allora, sono una lunga lista di occasioni perdute, un colloquio con l'Oltre sempre interrotto dal silenzio, dal vuoto, dall'atroce dimensione della storia (la guerra, il nazismo). Lo scacco non autorizza però completamente alla rinunzia, e viene dunque di qui l'estrema tensione religiosa della poesia montaliana. Ciò che conta non è la salvezza ma la volontà di cercare ancora, di esistere ancora come uomini dentro un'apocalissi quotidianamente presente, dentro un mondo sempre più degradato, sempre più di rado aperto all'epifania miracolosa della Verità. Proprio tale degradazione sarà il centro dell'ultima maniera del poeta (quella di Satura, 1971, e dei diari poetici più recenti): la poesia adotta un linguaggio basso e stereotipato, in questo Montale, ma parla nello stesso tempo con un'incredibile voce postuma e scettica, aldilà di tutte le certezze. Come se il poeta avesse quasi rinunciato ad invocarla, la Verità, chiudendosi in una splendida ironia sapienziale.
Già in apertura della prima raccolta montaliana, con la poesia I limoni, incontriamo il nucleo di questa angoscia: il mondo morto che come una rete strìnge nell'orrore della necessità, dell'alienazione; e d'altra parte la ricerca disperata di un «fantasma» che salvi, di una «maglia rotta nella rete», l'illusione di una fuga, di una possibile libertà. La salvezza può essere simbolicamente l'odore dorato e divino dei limoni, apparsi da un «malchiuso portone», oppure può essere un «vento» che sembra smuovere per un istante le «giostre d'ore troppo uguali», oppure l'epifania di una fanciulla che si tuffa fulminea in acqua (come Esterina in Falsetto, che inizia una lunga serie di donne-simbolo). Non a caso queste prime poesie si chiamano Movimenti: forme musicali, ma ancor più lampi di speranza, slanci che paiono interrompere la paralisi che avvolge e congela ogni gesto della vita. Ma i segni del negativo, dell'aridità, della morte, non si dissolvono mai del tutto, e dopo ogni illusione tutto si richiude sugli uomini, sul poeta che percorre le inospitali strade dei paesaggi liguri: l'agave abbarbicata sullo scoglio diventa la perfetta allegoria di questa dolorosa e inutile esistenza.
Dopo i Movimenti leggiamo le poesie intitolate Sarcofaghi, ed il mondo sembra davvero addormentato per sempre, pietrificato. Sta proprio qui, in quest'intuizione della durezza più insensibile del vivere, la ispirazione più personale e atroce del primo Montale, che si avvicina così per certi aspetti a Sbarbaro[1]. La poesia del negativo, tutta intessuta dei segni dell'impossibilità, tocca il culmine nella sezione intitolata appunto Ossi di seppia: una serie di rapide illuminazioni paesaggistiche che si dilatano ogni volta a dimensioni quasi metafìsiche. E cosi gli «scalcinati muri», questa terra «abbagliata» dal sole, schiaffeggiata dal vento, diventano gli emblemi di una condizione umana senza vie d'uscita: «Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Gli Ossi sono la misurazione disperata del perimetro d'una «muraglia» entro la quale i gesti della sopravvivenza si ripetono identici, dove regna il «disagio», la «pena invisibile», la stanchezza: una prigione che rende tutto uguale, «miele e assenzio», un «male di vivere» che toglie ogni «luce», lasciando solo la calura di un eterno clima canicolare. L'attesa della «buona pioggia» è destinata a non essere mai esaudita. Unico sollievo, allora, sono certi incanti della memoria, come benefica acqua che disseta, riflesso purissimo che per un attimo sconfigge il «fuoco» ossessivo dell'esistenza (e si leggano, ma già fuori dalla serie degli Ossi, poesie come Vasca o Fine dell'infanzia).
Per pronunciare questa negatività la poesia montaliana si serve di oggetti e ritmi che non appartengono tutti al repertorio sublime della poesia tradizionale, e non rinuncia a utilizzare le suggestioni più varie, legandosi per esempio in stretto rapporto con la poesia dannunziana oltre che con le prove crepuscolari. Il risultato è una ambigua e difficile mescolanza di cadenze povere e aristocratiche (pensiamo per esempio a certo raffinatissimo lessico), che si accompagna però sempre ad un'esibizione della propria incapacità a poetare «alla grande»: la dizione montaliana, insomma, è nonostante tutto sempre una «debole vita che si lagna», un «balbo parlare», «lettere fruste e inaridite». Ed allora i termini rari, le musicali cadenze, come gli oggetti più splendidi e d'eccezione, non sono altro che le reliquie di un catalogo caotico e scompaginato, accavallate senza scopo accanto ai paesaggi più banali, ai dati più elementari (e si legga la serie di Mediterraneo, che è una sorta di dichiarazione di poetica, proprio sotto il segno di un linguaggio «scabro ed essenziale»).
Le poesie conclusive della raccolta, riunite nella sezione Meriggi e ombre, riprendono i medesimi temi con un'orchestrazione molto più complessa e intricata, portando la poesia montaliana già alle soglie delle Occasioni (pensiamo per esempio al poemetto Arsenio, a testi come Incontro o Casa sul mare, splendide sintesi dei modi di questo primo Montale). E intanto i versi insistono sempre più sul motivo del tempo che trascina e sconvolge le cose, come un flusso insensato e sempre uguale, come l'avanti e indietro del mare: tutto discende in uno «sfacelo» senza nome, in un'infinita fatica che non porterà mai alla libertà, che non districherà mai una ragione dal «limbo squallido / delle monche esistenze». «Tutto è fisso», dunque, «tutto è scritto». L'invito col quale Montale con­clude l'ultima poesia della raccolta (Riviere), l'invito a ripetere un giorno gli slanci dell'adolescenza, a «cangiare in inno l'elegia», l'invito a «rifiorire», risuona davvero come una triste e consapevole ironia.

I limoni
Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall' azzurro:
piú chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell' aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest' odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed é l' odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s' abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l' anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità
Lo sguardo fruga d' intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno piú languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.

Ma l' illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l' azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s' affolta
il tedio dell' inverno sulle case,
la luce si fa avara - amara l' anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d' oro della solarità.

Non chiedrci la parola
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo ad un polveroso prato.

Ah, l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri e a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Meriggiare
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra fronde il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Spesso il male di vivere
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.


Incontro
Tu non m’abbandonare mia tristezza
sulla strada
che urta il vento forano
co’suoi vortici caldi, e spare; cara
tristezza al soffio che si estenua...

Se mi lasci anche tu tristezza, solo
presagio vivo in questo nembo, sembra
che attorno mi si effonda
un ronzio qual di sfere quando un’ora
sta per scoccare...

Forse riavrò un aspetto: nella luce
radente un moto mi conduce accanto
a una misera fronda che in un vaso
s’alleva s’una porta di osteria.
A lei tendo la mano, e farsi mia
un’altra vita sento, ingombro d’una
 forma che mi fu tolta...

La tua vita è ancor tua: tra i guizzi rari
del giorno sparsa già. Prega per me
allora ch’io discenda altro cammino
che una via di città,
nell’aria persa, innanzi al brulichio
dei vivi; ch’io ti senta accanto; ch’io
scenda senza viltà.

Casa sul mare
Il viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora I minuti sono eguali e fissi
come I giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.

Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
I soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l’isole dell’aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.

Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l’avara mia speranza.
A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse per l’eterno.

Riviere
Riviere,
bastano pochi stocchi d'erbaspada
penduli da un ciglione
sul delirio del mare;
o due camelie pallide
nei giardini deserti,
e un eucalipto biondo che si tuffi
tra sfrusci e pazzi voli
nella luce;
ed ecco che in un attimo
invisibili fili a me si asserpano,
farfalla in una ragna
di fremiti d'olivi, di sguardi di girasoli.

Dolce cattività, oggi, riviere
di chi s'arrende per poco
come a rivivere un antico giuoco
non mai dimenticato.
Rammento l'acre filtro che porgeste
allo smarrito adolescente, o rive:
nelle chiare mattine si fondevano
dorsi di colli e cielo; sulla rena
dei lidi era un risucchio ampio, un eguale
fremer di vite,
una febbre del mondo; ed ogni cosa
in se stessa pareva consumarsi.

Oh allora sballottati
come l'osso di seppia dalle ondate
svanire a poco a poco;
diventare
un albero rugoso od una pietra
levigata dal mare; nei colori
fondersi dei tramonti; sparir carne
per spicciare sorgente ebbra di sole,
dal sole divorata…
                        Erano questi,
riviere, i voti del fanciullo antico
che accanto ad una rósa balaustrata
lentamente moriva sorridendo.

Quanto, marine, queste fredde luci
parlano a chi straziato vi fuggiva.
Lame d'acqua scoprentisi tra varchi
di labili ramure; rocce brune
tra spumeggi; frecciare di rondoni
vagabondi…
                Ah, potevo
credervi un giorno, o terre,
bellezze funerarie, auree cornici
all'agonia d'ogni essere.
                              Oggi torno
a voi più forte, o è inganno, ben che il cuore
par sciogliersi in ricordi lieti - e atroci.
Triste anima passata
e tu volontà nuova che mi chiami,
tempo è forse d'unirvi
in un porto sereno di saggezza.
Ed un giorno sarà ancora l'invito
di voci d'oro, di lusinghe audaci,
anima mia non più divisa. Pensa:
cangiare in inno l'elegia; rifarsi;
non mancar più.
                        Potere
simili a questi rami
ieri scarniti e nudi ed oggi pieni
di fremiti e di linfe,
sentire
noi pur domani tra i profumi e i venti
un riaffluir di sogni, un urger folle
di voci verso un esito; e nel sole
che v'investe, riviere,
rifiorire!


[1] a Camillo Sbarbaro sono dedicate due poesie degli Ossi

Un momento della Natura in Pascoli e D’Annunzio

La Natura è concepita da Pascoli come una presenza misteriosa e complessa che il poeta deve interpretare attivando l'immaginazione e aguzzando i sensi. Inoltre, condividendo le posizioni antipositivistiche e negando l'idea che la scienza abbia portato la felicità, Pascoli crede che la società industriale soffochi l'uomo condizionandolo pesantemente. Per questo contrappone la società alla Natura, agli aspetti semplici e dimessi della campagna. Perciò egli assume uno stato d'animo tipicamente decadente in quanto evade dalla realtà misteriosa e ostile rifugiandosi in luoghi chiusi, circondandosi di piccole e semplici cose rassicuranti e protettive.
Varie poesie del Pascoli hanno come sfondo elementi atmosferici, come la nebbia, i tuoni, i fulmini… Possiamo trovare fenomeni di questo tipo nelle poesie come "Temporale", "Il lampo" ed "Il tuono”. In queste poesie, il poeta presenta tali fenomeni come un qualcosa di pauroso anche per la terra stessa. Infatti per il poeta, il mondo all'esterno del nido familiare è indefinito e pericoloso, e viene pertanto temuto dal poeta.
La Natura è concepita da D'Annunzio una forma eccezionale: la natura si antropomorfizza, assume vesti mitiche, e l'uomo si naturalizza, divenendo una creatura "silvana".
L'IO trova a contatto con la natura una certa familiarità, si fonde con essa, si identifica con le varie presenze naturali, animali, vegetali, minerali, trasfigurandosi e potenziandosi.
La natura si identifica, soprattutto nell'Alcyone (il terzo libro de "Le laudi"), con il principio femminile ed è pervasa da una forza erotica: il poeta ne percepisce le sensazioni come provocazioni sessuali. La natura è ampio oggetto di conquista piena ed esaltante.
D’Annunzio ricerca una sottile musicalità e l'impiego di un linguaggio analogico. Una poesia pura, che risponde al nucleo più genuino del poeta.
L'esperienza pànica non è che una manifestazione del superomismo: solo al superuomo, creatura d'eccezione, è concesso di trasformarsi al contatto con la natura, attingendo ad una vita superiore al di là del limite umano. Solo il superuomo può cogliere ed esprimere l'armonia segreta della natura.


PASCOLI
Il lampo
·         Un lampo rompe il silenzio e la notte con una luce violenta che mette a nudo la vera realtà del mondo: la sua tragicità e il caos che la contraddistingue. In questa situazione d’angoscia e paura Pascoli sente la sua vita in bilico tra il voler restare in un “nido” ormai distrutto e l’affrontare una vita piena d’inganni.
·         Pascoli sente il bisogno di immergersi nel proprio io, per osservarlo, comprenderlo e cercare una vita interiore reale, avvolta nel mistero e nella sofferenza.

E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tragico tumulto
una casa apparì sparì d'un tratto;
come un occhio, che, largo esterefatto,
s'aprì si chiuse, nella notte nera.

Il tuono
·         Pascoli vuole descrivere il tuono che, con alto fragore, rintrona nella notte scatenandosi in tutta la sua violenza terribile. L’essere umano all’udire questa voce possente della natura, s’impaurisce come il bimbo che piange spaventato nella notte buia. Ad intervenire per tranquillizzare il suo bimbo fu, infatti, la madre, la quale si assume un simbolo di protezione, di sicurezza e di pace serena.
·         Il poeta inizialmente esprime la sua angoscia per lo scatenarsi improvviso di elementi negativi inserendo segnali di morte ed immagini dell’oscurità del nulla, ma riesce alla fine a tranquillizzarsi e riprendersi concludendo con l’annuncio del rifiorire della vita. Questo carattere è reso noto anche dalle parole chiave: “canto di madre” e “culla” che rappresentano “il nido” e la vita che rinasce.

E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d'arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s'udì di madre, e il moto di una culla.

Temporale
·         Il poeta non si limita a descrivere uno spettacolo naturale. Egli piuttosto comunica uno stato d'animo tormentato, di cui la tempesta e i  colori sono “il simbolo”: le parole che ha scelto (rosso "affocato", dal nero "di pece", dagli "stracci" di nubi); l’utilizzazione di brevi frasi senza verbo, poste una dopo l'altra, che non lasciano spazio ai dettagli nella descrizione della natura e sembrano esprimere direttamente uno stato d'animo sbigottito; inoltre il ritmo dei versi,  in particolare i versi finali che hanno una più forte foga, questo effetto da un senso di stupore di fronte ad un qualcosa di inusuale all’interno di un contesto completamente diverso (la piccola casa che si distingue contro il nero minaccioso della tempesta).
·         Pascoli richiama il tema del nido familiare, attraverso metafore che hanno un significato simbolico.
·         Lo stato d’animo di disagio e di rifiuto rappresentato dall’imminente presenza di un temporale, ma nel verso conclusivo con l’espressione “ l’ala di gabbiano” rappresenta uno stato di serenità e di protezione favorito dalla presenza del casolare che richiama il concetto del nido famigliare. Come sappiamo, le sue opere richiamano problematiche dell’autore presenti nella sua vita.

Un bubbolio lontano...
Rosseggia l'orizzonte,
come affocato, a mare;
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare,
tra il nero un casolare,
un'ala di gabbiano.

La pioggia nel pineto
·         Il tema è la pioggia estiva, mentre il poeta e la donna amata varcano le soglie della pineta e vi si inoltrano.
·         In questa poesia si osserva una straordinaria abilità letteraria del poeta, capace di percepire con l’acutezza dei sensi, e di riprodurre con l’armonia delle parole, i suoni diversi che la pioggia suscita cadendo sulla fitta vegetazione.
·         “Il poeta descrive la pioggia estiva nella pineta, cogliendola nei vari momenti e nella diversa orchestrazione dei suoni: quando inizialmente è rada, quando poi s’infittisce, quando infine diventa scrosciante. Il poeta e la donna amata si abbandonano con gioiosa voluttà alla freschezza della pioggia, imbevendosi dello spirito stesso del bosco, fino a sentirsi come trasformati in piante e frutti, in elementi della natura vegetale”.
·         Il motivo vero in questa poesia non è quello della descrizione della pioggia, ma il panismo del poeta, la percezione di sentirsi intimamente fuso con la natura e di ritornare alle sorgenti primordiali della vita.

Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitío che dura
e varia nell'aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
nè il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d'arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

Ascolta, ascolta. L'accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall'umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s'allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s'ode voce del mare.
Or s'ode su tutta la fronda
Crosciare
l'argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell'aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell'ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.

Piove su le tue ciglia nere
Sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alvèoli
con come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c'intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.