Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

venerdì 29 aprile 2011

La rivoluzione narrativa del primo Novecento di Massimo Capuozzo

La rivoluzione narrativa del primo Novecento
Il romanzo occupa un posto di assoluta preminenza nel panorama let­terario e, nel corso del secolo, la produzione si differenzia in misura rilevante per avvicinarsi, sotto lo stimolo dell’industria culturale, alle esigenze di un pubblico differente. Accade così che mentre si affermano sperimentazioni di nuovi modi di narrare, tendenze di avanguardia, persistano, anche a li­vello di letteratura alta, romanzi di impianto tradizionale.
La crisi della tradizione ottocentesca si evidenzia nel fatto che raccontare e descrivere non basta più: la grande tradizione narrativa ottocentesca che aveva dato nel verismo gli ultimi altissimi frutti, entra, infatti, in cri­si nei primi anni del nuovo secolo.
Già nell’alveo dell’estetismo di fine secolo erano nate esperienze narrative che avevano indebolito il ruolo della trama, ma ciò che a molti scrittori cominciava ad apparire “vecchia” era l’operazione stessa del narrare. De­scrivere e raccontare erano sentiti come schemi che fatalmente riproducevano un ordine, volevano dire fissare un inizio e una fine, interpretare la realtà e disporla razionalmente in uno spazio e in un tempo. Ma nella cultura novecentesca proprio questo cominciava ad essere messo in dubbio, che la realtà fosse interpretabile secondo parametri razionali.
Ciò che caratterizzava la modernità era la perdita del centro, della certezza che l’uomo potesse conoscere il mondo che lo circonda, giudicarlo e quindi descriverlo. Un elemento che emergeva era la fine di una visione unitaria del mondo e di se stessi, che portava intellettuali, artisti e scrittori a cercare nuovi strumenti per esprimere questa nuova situazione, tut­ta moderna.
Una prima conseguenza della situazione finora delineata fu che gli scrittori si applicarono a forme della prosa alternative alla narrazione:
1.      la “prosa lirica” nella quale il racconto è sostituito dall’illumina­zione improvvisa, dal “flash”;
2.      il “frammento” e la “prosa d’arte”, cioè pezzi di bravura, sfoggi di raffinatezza stilistica.
Alcuni grandi romanzi creano nei primi decenni del secolo la di­mensione novecentesca del narrare.
·         Nel 1913 la prima parte di “Alla ricerca del tempo perduto”, il ciclo di sette romanzi di Marcel Proust che compì una delle più ambiziose imprese della letteratura di tutti i tempi: nel contesto di una società, sottoposta ad un profondo cambiamento sociale, che assiste al definitivo declino del mondo aristocratico, egli analizzò minutamente le cause della psicologia amorosa e i meccanismi della memoria, cogliendo insieme la relatività della dimensione temporale e la possibilità per ogni uomo, attraverso gli incontrollabili meccanismi della “memoria involontaria”, di rivivere l’essenza stessa del proprio passato.
·         Nel 1916 esce il lungo rac­conto “La metamorfosi”, di Franz Kafka che ebbe un peso decisivo nell’evoluzione delle tecniche romanzesche. In romanzi come “Il processo” del 1925 e “Il castello” del 1926 Kafka piegò tecniche della narrativa fantastica a rappresentazioni costruite con minuziosa verosimiglianza e allo stesso tempo caratterizzate da un angosciante senso dell’assurdo e da inquietanti trasfigurazioni oniriche: le private ossessioni psicologiche dell’autore si trasformano in densi simboli del destino umano, in un mondo privo di dei ed oppresso da misteriose ed incombenti presenze superiori.
·         Nel 1922 il romanzo “Ulisse” di James Joyce riprende il modello narrativo dell’“Odissea” di Omero, anche se la sua azione è circoscritta a quanto accade nell’arco di una sola giornata nella Dublino contemporanea. Una delle caratteristiche più originali della scrittura di Joyce è l’impiego sistematico delle tecniche del “monologo interiore” e del “flusso di coscienza”, attraverso le quali l’autore rappresenta, per così dire, “in presa diretta” lo scorrere incessante e spesso informe dei pensieri, delle percezioni, delle associazioni mentali consapevoli e inconsapevoli dei personaggi.
·         Nel 1923 appare, ai margini dell’ufficialità letteraria nazionale, La coscienza di Zeno di Italo Svevo in cui c’è «ardore di verità umana e desiderio continuo di sondare, ben al di là delle parvenze fenomeniche dell’essere, in quella zona sotterranea ed oscura della coscienza dove vacillano e si oscurano le evidenze più accettate». Se i primi due romanzi[1] sono una specie di autobiografia, “La coscienza di Zeno” che assume la forma di diario, approfondendo sistematicamente lo scandaglio dell’inconscio. In esso il problema esistenziale è risolto con la “scoperta dell’azione”: solo se ci si immerge totalmente nei problemi concreti del vivere quotidiano e non si ha più il tempo per le meditazioni sulle problematiche astratte dell’esistenza[2], è possibile liberarci dal peso dell’angoscia.
·         Nel 1926 uscì il romanzo “Uno nessuno e centomila” di Luigi Pirandello[3], opera intenzionalmente frammentaria, saggistica e antiromanzesca, cui lo scrittore affidò il compito di riassumere la propria sconsolata visione del mondo, basata su di un esasperato soggettivismo, secondo cui la realtà non avrebbe una sua oggettività, ma assumerebbe tanti aspetti diversi quanti sono gli uomini che la osservano; anzi essa cambierebbe anche a seconda dei vari momenti in cui viene a trovarsi il singolo uomo. La medesima cosa capiterebbe all’uomo: io non sono nella realtà quello che sono, ma quello che appare a ciascuno degli uomini con i quali vengo a contatto; e poiché la mia personalità non ha senso al di fuori del contatto con la società, è evidente che io creda di essere “uno”, essendo invece “centomila” e “nessuno”. Ne consegue l’impossibilità dell’uomo di comunicare con gli altri, poiché a lui sfugge, in ogni incontro, chi egli sia per l’altro. Da ciò una desolante solitudine, una sensazione d’angoscia, che determina come effetto o un cieco furore contro la società o un brutale impulso al suicidio.
·         Tra 1930-1933 i primi due volumi de “L’uomo senza qualità”, l’incompiuto, colossale romanzo di Musil in cui, mescolando narrazione e riflessione saggistica, Musil sconvolse le tradizionali tecniche romanzesche, costruendo una grande metafora dell’aspirazione dell’uomo alla totalità e insieme dell’impossibilità di raggiungere una verità che non sia provvisoria e parziale.
Ciascuno di questi scrittori (e insieme a loro bisogna ricordare almeno Virginia Woolf, William Faulkner, Gertrude Stein) aprì strade completamen­te inesplorate per il romanzo e perseguì obiettivi diversi; tutti però intrapresero un per­corso che passava per il radicale e profondo ripensamento delle strutture narrative, della lingua e dello stile.
Nel­le opere di questi autori è possibile indivi­duare alcune direzioni comuni della ricerca di rinnovamen­to delle strutture narrative:
1.      Il “tempo interiorizzato”: l’idea nuova è che il tempo non è una realtà oggettiva, che si misura in ore, giorni, mesi, ma è una percezione soggettiva, è il tempo della coscienza. La narrazione, l’organizzazione dei fatti in un prima e in un dopo avvie­ne allora secondo questo tempo “interiore”.
2.      La “destrutturazione dell’intreccio”: si indebolisce l’intreccio come narrazione continua, nella quale gli eventuali vuoti sono riempiti attraverso l’intervento del narratore. La materia del racconto tende a coagularsi sempre più in blocchi tematici, a seguire gli andamenti della coscienza dei personaggi che si sostituisce alle vicende.
In queste direzioni si mosse quindi la ricerca della narrativa novecentesca, ma, dopo questa “svolta”, è problematico trovare nel corso del secolo altri denominatori comuni.

L’ennesima, ultima sigaretta
Da La coscienza di Zeno[4] di Italo Svevo

·         In bilico tra autobiografia seria e confessione ironica, La coscienza di Zeno costituisce un'opera fondamentale per l'intero panorama della letteratura contempora­nea. Intimamente influenzato dal pensiero di Freud, fondatore della psicoanalisi (vedi p. 308), il romanzo sveviano è accostabi­le ai più importanti apporti del­la letteratura europea tra Otto e Novecento: le opere di Pirandello, di Proust, di Joyce (ed è utile ri­cordare che il grande scrittore ir­landese soggiornò a Trieste dal 1904 al 1914, entrando in profonda amicizia con Svevo).
Sotto lo scandaglio dell'indagine psicoanalitica, la realtà e i personaggi si frantumano in mille sfaccettature: affiorano i complessi, le mascherature e i moti contraddittori della co­scienza; sull'onda della memoria la coordinata del tempo perde il suo rigore cronologico per consentire l'immediato accostamento, nel cor­so della narrazione, di episodi anche molto lon­tani tra loro.
Zeno riflette molte componenti autobiografiche del suo autore: solo, al centro della pro­pria storia, attorniato da un coro di figure con le quali instaura complicati rapporti di antago­nismo, egli è un individuo abulico e infelice, incapace di affrontare la vita, di prendere de­cisioni, di assumersi responsabilità. Perenne­mente insoddisfatto, smarrito nei tortuosi tra­gitti della sua mente, non possiede neppure il coraggio di confessare a se stesso la propria inettitudine e si rifugia, pertanto, nel sogno o in futili diversivi, cercando a ogni costo delle autogiustificazioni alle quali lui per primo non crede.
Svevo sembra divertirsi a smontare l'interiorità di Zeno con esiti spesso ironici e talora decisamen­te comico-grotteschi. Ma si tratta di un diverti­mento molto amaro e dolente. In fondo, la negati­vità di Zeno, antieroe per eccellenza, è sintomatica dello stato di malattia che universalmente coinvol­ge e condiziona l'umanità d'oggi, priva di fedi e di valori in cui poter riconoscere una propria credibi­le identità: ansiosa di futuro, ma irresponsabil­mente protesa verso la propria autodistruzione.
·         Obbedendo alla richiesta del Dottor S., Zeno ri­costruisce la storia della sua precoce passione per il fumo. Ma se la nicotina suscita in lui un vero e proprio disgusto, perché allora l'ultima sigaretta non è mai... l'ultima?
·         Il brano proposto è tratto da uno dei capitoli più noti de La coscienza di Zeno, in cui il protagonista, per ordine dello psicanalista cui si è rivolto, narra e analizza i suoi numerosi propositi, sempre falliti, di smettere di fumare. Emerge quindi la caratteristica di inetto del protagonista, incapace di dominare gli eventi.
Il dottore al quale ne parlai mi disse d'iniziare il mio lavoro[5] con un'analisi storica della mia propensione al fumo: - Scriva! Scriva! Vedrà come arriverà a vedersi intero[6].
Credo anzi che del fumo posso scrivere qui al mio tavolo senz'andar a sognare su quella poltrona2. Non so come cominciare e invoco l'assistenza delle sigarette tutte tanto somiglianti a quella che ho in mano.
Oggi scopro subito qualche cosa che più non ricordavo. Le prime sigarette ch'io fumai non esistono più in commercio. Intorno al '70[7] se ne avevano in Austria di quelle che venivano vendute in scatoline di cartone munite del marchio dell'aquila bicipite[8]. Ecco: attorno a una di quelle scatole s'aggruppano subito varie persone con qualche loro tratto, sufficiente per suggerirmene il nome, non bastevole però a commovermi[9] per l'impensato incontro4. Tento di ottenere di più e vado alla poltrona[10]: le persone sbiadiscono e al loro posto si mettono dei buffoni che mi deridono. Ritorno sconfortato al tavolo.
Una delle figure, dalla voce un po' roca, era Giuseppe, un giovinetto della stessa mia età, e l'altra, mio fratello, di un anno di me più giovine e morto tanti anni or sono. Pare che Giuseppe ricevesse molto denaro dal padre suo e ci regalasse di quelle siga­rette. Ma sono certo che ne offriva di più a mio fratello che a me. Donde la neces­sità in cui mi trovai di procurarmene da me delle altre. Così avvenne che rubai. D'estate mio padre abbandonava su una sedia nel tinello il suo panciotto nel cui taschino si trovavano sempre degli spiccioli: mi procuravo i dieci soldi occorrenti per acquistare la preziosa scatoletta e fumavo una dopo l'altra le dieci sigarette che conteneva, per non conservare a lungo il compromettente frutto del furto. Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge solo ora perché non sapevo prima che potesse avere importanza. Ecco che ho registrata l'origine della sozza abitudine e (chissà?) forse ne sono già guarito. Perciò, per provare, accendo un'ultima sigaretta e forse la getterò via subito, disgustato.
Poi ricordo che un giorno mio padre mi sorprese col suo panciotto in mano. Io, con una sfacciataggine che ora non avrei e che ancora adesso mi disgusta (chissà che tale disgusto non abbia una grande importanza nella mia cura) gli dissi che m'era venu­ta la curiosità di contarne i bottoni. Mio padre rise delle mie disposizioni alla mate­matica o alla sartoria e non s'avvide che avevo le dita nel taschino del suo panciot­to. A mio onore posso dire che bastò quel riso rivolto alla mia innocenza quand'es­sa non esisteva più, per impedirmi per sempre di rubare. Cioè... rubai ancora, ma senza saperlo. Mio padre lasciava per la casa dei sigari virginia fumati a mezzo, in bilico su tavoli e armadi. Io credevo fosse il suo modo di gettarli via e credevo anche di sapere che la nostra vecchia fantesca[11], Catina, li buttasse via. Andavo a fumarli di nascosto. Già all'atto di impadronirmene venivo pervaso da un brivido di ribrezzo sapendo quale malessere m'avrebbero procurato. Poi li fumavo finché la mia fronte non si fosse coperta di sudori freddi e il mio stomaco si contorcesse. Non si dirà che nella mia infanzia io mancassi di energia.
So perfettamente come mio padre mi guarì anche di quest'abitudine. Un giorno d'e­state ero ritornato a casa da un'escursione scolastica, stanco e bagnato di sudore. Mia madre m'aveva aiutato a spogliarmi e, avvoltomi in un accappatoio, m'aveva messo a dormire su un sofà sul quale essa stessa sedette occupata a certo lavoro di cucito. Ero prossimo al sonno, ma avevo gli occhi tuttavia pieni di sole e tardavo a perdere i sensi. La dolcezza che in quell'età s'accompagna al riposo dopo una gran­de stanchezza, m'è evidente come un'immagine a sé, tanto evidente come se fossi adesso là accanto a quel caro corpo che più non esiste.
Ricordo la stanza fresca e grande ove noi bambini si giuocava, e che ora, in questi tempi avari di spazio, è divisa in due parti. In quella scena mio fratello non appare, ciò mi sorprende perché penso ch'egli pur deve aver preso parte a quella escursione e avrebbe dovuto poi partecipare al riposo. Che abbia dormito anche lui all'altro capo del grande sofà? Io guardo quel posto, ma mi sembra vuoto. Non vedo che me, la dolcezza del riposo, mia madre, eppoi mio padre di cui sento echeggiare le paro­le. Egli era entrato e non m'aveva subito visto perché ad alta voce chiamò: - Maria!
La mamma con un gesto accompagnato da un lieve suono labiale accennò a me, ch'essa credeva immerso nel sonno su cui invece nuotavo in piena coscienza. Mi piaceva tanto che il babbo dovesse imporsi un riguardo per me, che non mi mossi. Mio padre con voce bassa si lamentò:
- Io credo di diventar matto. Sono quasi sicuro di aver lasciato mezz'ora fa su quel­
l'armadio un mezzo sigaro ed ora non lo trovo più. Sto peggio del solito. Le cose mi
sfuggono.
Pure a bassa voce, ma che tradiva un'ilarità trattenuta solo dalla paura di destarmi, mia madre rispose:
-          Eppure nessuno dopo il pranzo è stato in quella stanza.
Mio padre mormorò:
-          È perché lo so anch'io, che mi pare di diventar matto!
-          Si volse ed uscì.
Io apersi a mezzo gli occhi e guardai mia madre. Essa s'era rimessa al suo lavoro, ma continuava a sorridere. Certo non pensava che mio padre stesse per ammattire per sorridere così delle sue paure. Quel sorriso mi rimase tanto impresso che lo ricordai subito ritrovandolo un giorno sulle labbra di mia moglie. Non fu poi la mancanza di denaro che mi rendesse difficile di soddisfare il mio vizio, ma le proibizioni valsero ad eccitarlo.
Ricordo d'aver fumato molto, celato in tutti i luoghi possibili. Perché seguito da un forte disgusto fisico, ricordo un soggiorno prolungato per una mezz'ora in una can­tina oscura insieme a due altri fanciulli di cui non ritrovo nella memoria altro che la puerilità del vestito: due paia di calzoncini che stanno in piedi perché dentro c'è stato un corpo che il tempo eliminò. Avevamo molte sigarette e volevamo vedere chi ne sapesse bruciare di più nel breve tempo5. Io vinsi, ed eroicamente celai il males­sere che mi derivò dallo strano esercizio. Poi uscimmo al sole e all'aria. Dovetti chiudere gli occhi per non cadere stordito. Mi rimisi e mi vantai della vittoria. Uno dei due piccoli omini mi disse allora:
- A me non importa di aver perduto perché io non fumo che quanto m'occorre.
Ricordo la parola sana e non la faccina certamente sana anch'essa che a me doveva essere rivolta in quel momento.
Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato in cui la nicotina mi metteva. Quando seppi di odiare tutto ciò fu peggio. E lo seppi a vent'anni circa. Allora soffersi per qualche settimana di un violento male di gola accompagnato da febbre. Il dottore prescrisse il letto e l'assoluta astensione dal fumo. Ricordo questa parola assoluta! Mi ferì e la febbre la colorì: un vuoto grande e niente per resistere all'enorme pressione che subito si produce intorno ad un vuoto. Quando il dottore mi lasciò, mio padre (mia madre era morta da molti anni) con tanto di sigaro in bocca restò ancora per qualche tempo a farmi compagnia. Andandosene, dopo di aver passata dolcemente la sua mano sulla mia fronte scot­tante, mi disse: - Non fumare, veh!
Mi colse un'inquietudine enorme. Pensai: "Giacché mi la male non fumerò mai più, ma prima voglio farlo per l'ultima volta"'. Accesi una sigaretta e mi sentii subito libe­rato dall'inquietudine ad onta che la febbre forse aumentasse e che ad ogni tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state toccate da un tizzone ardente. Finii tutta la sigaretta con l'accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi:
- Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!
Bastava questa frase per farmi desiderare ch'egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta. Fingevo anche di dormire per indurlo ad allontanarsi prima.
Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo. Le mie giornate finirono coli'essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali. La ridda[12] delle ultime sigarette, formatasi a vent'anni, si muove tuttavia. Meno violento è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza. Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi dire, che da qualche tempo fumo molte sigarette... che non sono le ultime.
Sul frontespizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato[13]:
"Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta!!".
Era un'ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l'accompagnarono. M'ero arrabbiato col diritto canonico[14] che mi pareva tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch'è la vita stessa benché ridotta in un matraccio[15]. Quell'ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo.
Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla legge. Pur troppo! Fu un errore e fu anch'esso registrato da un'ultima sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo[16] coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M'ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco?
Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l'uomo ideale e forte che m'aspetta­vo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vive­re quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spie­gare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a pro­posito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come quell'igienista vecchio, descritto dal Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser vis­suto malato tutta la vita?
Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a mie spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente lasciai quella stanza proprio perché essa era divenuta il cimitero dei miei buoni propositi e non credevo più possibile di formarne in quel luogo degli altri. Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand'è l'ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L'ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su se stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la pro­pria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po' più lontano. Le date sulle pareti della mia stanza erano impresse coi colori più varii ed anche ad olio.
Il proponimento, rifatto con la fede più ingenua, trovava adeguata espressione nella forza del colore che doveva far impallidire quello dedicato al proponimento anterio­re. Certe date erano da me preferite per la concordanza delle cifre. Del secolo pas­sato ricordo una data che mi parve dovesse sigillare per sempre la bara in cui vole­vo mettere il mio vizio: "Nono giorno del nono mese del 1899".
Significativa nevvero? Il secolo nuovo m'apportò delle date ben altrimenti musicali: "Primo giorno del primo mese del 1901". Ancora mi pare che se quella data potesse ripetersi, io saprei iniziare una nuova vita.
[…]
Molti avvenimenti, anzi tutti, dalla morte di Pio IX alla nascita di mio fi­glio, mi parvero degni di essere festeggiati dal solito ferreo proposito. Tutti in famiglia si stupiscono della mia memoria per gli anniversarii lieti e tristi nostri e mi credono tanto buono!
Per diminuirne l'apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla malattia dell'ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: «mai più!».
Ma dove va l'atteggiamento se si tiene la promessa? L'atteggiamento non è possibile di averlo che quando si deve rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s'arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.

(da: La coscienza di Zeno, Zanichelli 1990)

L’assassinio di Via Belpoggio
Di Italo Svevo
·         Il protagonista del racconto, Giorgio, uccide Antonio per sottrargli del denaro ed è visto da una donna che in seguito lo riconoscerà in un articolo sul giornale. Giorgio è un poveraccio che si trova quasi per caso nei panni dell'assassino in quanto vive questa situazione inconsciamente, non si rende conto di aver ucciso una persona. Il suo primo pensiero è di fuggire, ma non lo fa e torna a casa dove riflette sull'accaduto senza riuscire a colpevolizzarsi. Qui cerca un nascondiglio per i soldi e lo trova sotto il materasso del suo amico Giovanni. Giorgio, leggendo il giornale, viene a sapere che gli indiziati principali dell'omicidio sono due individui di pessimo aspetto e questo lo tranquillizza. Un giorno Giovanni, rincasando, gli chiede se sia lui l'assassino perchè ha letto sul giornale la descrizione particolareggiata che una donna ha fornito sullo aspetto dell'assassino avendolo visto fuggire dal luogo del delitto. Questi particolari conducono a Giorgio, il quale si spaventa e decide di modificare il suo aspetto ma Giovanni glielo sconsiglia. Il protagonista cerca di coinvolgere l'amico ma senza nessun risultato. In seguito Giorgio pensa a come potrebbe giustificare l'accaduto nel caso in cui fosse arrestato. Si autoconvince di averlo fatto per la povera madre ma quando viene a sapere della sua morte non riesce più a pensare a nulla. Poi nella oscurità di una piazza gli sembra di scorgere Antonio vivo, lo insegue per chiedergli di testimoniare a suo favore, in quanto non lo aveva ucciso; ma una volta raggiunto si accorge che è un'altra persona. Deluso e amareggiato, decide di cambiare il suo cappello, ma commette un errore: dimentica quello vecchio nel negozio. Giunto a casa, trova delle guardie alle quali confessa il suo delitto.
Dunque uccidere era cosa tanto facile? Si fermò per un solo istante nella sua corsa e guardò dietro a sé: Nella lunga via rischiarata da pochi fanali vide giacere a terra il corpo di quell'Antonio di cui egli neppure conosceva il nome di famiglia e lo vide con un'esattezza di cui subito si meravigliò. Come nel breve istante aveva quasi potuto percepirne la fisionomia, quel volto magro da sofferente e la posizione del corpo, una posizione naturale ma non solita. Lo vedeva in iscorcio, là sull'erta, la testa piegata su una spalla perché aveva battuto malamente il muro; in tutta la figura, solo le punte dei piedi ritte e che si proiettavano lunghe lunghe a terra nella scarsa luce dei lontani fanali, stavano come se il corpo cui appartenevano si fosse adagiato volontario; tutte le altre parti erano veramente di un morto, anzi di un assassinato.
Scelse le vie più dirette; le conosceva tutte ed evitava i viottoli per i quali non direttamente si allontanava.
Era una fuga smodata come se avesse avuto le guardie alla calcagna. Quasi gettò a terra una donna e passò oltre non badando alle grida d'imprecazione ch'ella gli lanciava.
Si fermò sul piazzale di S. Giusto. Sentiva che il sangue gli correva vertiginosamente le vene, ma non aveva alcun affanno e non era dunque la corsa che lo aveva affaticato. Forse il vino poco prima? Non l'assassinio, sicuramente non quello; non lo aveva né affaticato né spaventato.
Antonio lo aveva pregato di tenergli per un istante quel pacco di banconote. Poco dopo, quando Antonio gliene chiese la restituzione a lui balenò alla mente l'idea che ben poca cosa lo divideva dalla proprietà assoluta di quel pacco: La vita di Antonio! Non ne aveva ancor ben concepita l'idea che già l'aveva posta ad esecuzione e si meravigliava che quella idea che ancora non era una risoluzione gli avesse dato l'energia di menare quel colpo formidabile tale che dello sforzo si risentiva nei muscoli del braccio.
Prima di lasciare il piazzale stracciò l'involucro che chiudeva il pacco di banconote, lo gettò via e ne distribuì disordinatamente per le tasche il contenuto; poi s'incamminò con passo che volle calmo ma che ben presto e per quanto egli tentasse di frenarlo, ridivenne celere perché moderarlo sul piano era difficile, dopo esser salito di corsa. Finì che fu preso da un grande affanno che lo costrinse a fermarsi, proprio sotto il castello, con la sentinella che guardava la città nella quale allora allora era stato commesso il grande delitto.
Sulla scalinata che conduceva alla piazza della Legna gli fu più facile di moderare il passo ma soltanto badando di portare sempre tutti e due i piedi su uno scalino prima di scendere al prossimo. Voleva riflettere ma non seppe che prenderne l'atteggiamento. Ben presto si disse che non ve n'era bisogno visto che ogni suo movimento era ora dettato dalla necessità! Accelerò di nuovo il passo. Senza ritardo egli si sarebbe recato alla ferrovia e avrebbe tentato di partire per Udine; di là gli sarebbe stato facile di passare in Svizzera.
Allora era perfettamente in sé. S'era dileguata la leggera nebbia prodotta nel suo cervello dalla cena che gli aveva pagata il povero Antonio. Non era stata la causa del delitto, ma il vino, fornitogli dalla sua vittima stessa, gliene aveva reso più facile l'esecuzione.
Se non avesse avuto quei fumi alla testa non avrebbe saputo dimenticare che commesso il delitto, molto ancora gli restava da fare prima di assicurarsene il frutto, e col suo carattere poco energico, inerte, avrebbe sempre cercato mezzi e modi e finito col non agire che al sicuro, dunque mai.
Dove si poteva uccidere al sicuro? E se ci fosse stato il luogo, Antonio si sarebbe potuto trascinare? Gli venne da ridere; quell'Antonio era tale un imbecille che lo si avrebbe potuto far andare espressamente ad un macello più lontano.
Camminava ora franco e calmo per la via ma non si dissimulava che la sua tranquillità veniva dal sapere che nessuno dei passanti poteva ancora essere a conoscenza del delitto da lui commesso. Per costoro, assolutamente, egli era ancora un uomo onesto e li guardava franco in faccia quasi per usufruire per l'ultima volta del diritto che stava per perdere.
Alla stazione però lo colse di nuovo l'agitazione di poco prima. Là egli aveva da fare il passo che doveva avere tanta importanza sul suo destino. Se lo si lasciava partire era salvo. Quale calma non gli sarebbe stata data dal sentirsi trascinare lontano con la rapidità vertiginosa del celere; perché, con un senso ch'egli non aveva saputo di avere, dall'altra estremità della città egli sentiva avanzarsi la notizia dell'omicidio e la persecuzione e sapeva che se non fuggiva, ben presto ne sarebbe stato raggiunto.
Alla una doveva partire il treno e ci mancava una mezz'ora circa. Egli non voleva entrare nell'atrio vuoto molto tempo prima della partenza, ma non seppe rimanere lungo tempo, solo, nell'oscurità e ciò non per timore ma per impazienza. Aveva guardato a lungo l'orologio della stazione sorvegliando su esso l'avanzare del tempo, poi osservato il cielo stellato e senza nubi.
Che cosa gli restava a fare? “Se avessi qualcuno con cui parlare!”, pensò e fu in procinto di abbordare un cocchiere che dormicchiava a cassetta della sua carrozza. Ma si trattenne perché correva pericolo di parlargli del suo delitto e come all'infuori della grande paura del giudizio dei suoi simili, a sua sorpresa egli non sentiva affatto rimorso ma invece una specie di superbia per la risoluzione ferrea presa improvvisamente e per la esecuzione ardita e sicura.
Entrò nell'atrio. Voleva vedere le facce dei presenti ritenendo di poter comprendere da queste il destino che lo attendeva.
Sulla panca accanto alla porta erano sedute due donne friulane vicino ai loro cesti, a mezzo addormentate. In fondo alcuni doganieri maneggiando dei colli e a sinistra, nella birraria, v'era un solo uomo grasso che fumava seduto dinanzi ad un bicchiere di birra semivuoto.
Si meravigliò di nuovo dell'acutezza della sua vista e mai non s'era sentito così forte ed elastico, pronto a lottare o a fuggire. Pareva che il suo organismo avvisato del pericolo che correva avesse raccolto tutte le forze per mettergliele a disposizione in quel frangente.
Il suo passo risonava forte nel locale vuoto e destava una eco confusa. Le due friulane alzarono il capo e lo guardarono.
Egli picchiò al finestrino della dispensa per chiamare l'impiegato e non senza sforzo, seppe attendere senza muoversi i parecchi minuti che costui ci mise a rispondere.
– Un biglietto per Udine!
– Che classe?
Non ci aveva pensato.
– Terza. – Non sceglieva quella per economia ma per prudenza; bisognava viaggiare in conformità ai vestiti molto sdrusciti.
– Andata e ritorno – aggiunse rapidamente e sorpreso della buona idea venutagli.
Per pagare levò un pacco di banconote ma le rimise subito in tasca; ve ne erano da mille fiorini. Trovò un piccolo pacchetto da dieci fiorini e pagò.
Gli sembrò che l'opera fosse compita a metà ora che aveva il biglietto in tasca. Anzi meglio che a metà perché non aveva più da parlare con nessuno. Gli bastava sedersi tranquillamente nel suo compartimento con quelle friulane che gli davano poco sospetto e il resto era affare della locomotiva.
Bisognava occupare in qualche modo il tempo che mancava alla partenza. Pose le mani in tutte le tasche e palpò i biglietti di banca. Erano soffici quasi volessero simboleggiare la vita che potevano dare.
Così con le mani in tasca si appoggiò ad un pilastro della porta, il punto più oscuro dell'atrio donde poteva sorvegliare tutto l'ambiente senza venir veduto. Anche sentendosi perfettamente al sicuro non voleva tralasciare alcuna precauzione.
Non sentiva una grande gioia al contatto delle banconote e andava dicendosi ch'era perché non se ne sentiva ancora sicuro possessore. Invece, anche senza questo dubbio, il pensiero del suo delitto non avrebbe lasciato luogo in lui ad altri sentimenti. Non era preoccupazione e non rimorso ma quell'impressione al braccio destro col quale aveva dato il colpo gli sembrava si fosse estesa a tutto il suo organismo. L'atto così breve e fulmineo aveva lasciato traccie sul corpo che lo aveva fatto. Il suo pensiero non sapeva staccarsene.
– Dammi i miei denari! – gli aveva detto Antonio fermandosi tutt'ad un tratto. Avendo già preso la decisione di non restituire il pacco, egli dubitò che Antonio non l'avesse indovinata e intanto non fece altro che un atto designato a distruggere in costui il sospetto. Stese la sinistra a porgergli il pacco ben sapendo ch'erano tanto distanti uno dall'altro che le loro mani non giungevano a toccarsi. Antonio si avvicinò subito troppo e in parte la violenza del colpo che ricevette derivò dal suo movimento verso il ferro. Già si piegava e non ancora aveva compreso ciò che gli succedeva. Portò le mani alla ferita e le ritirò bagnate di sangue. Gettò un urlo e stramazzò a terra ove subito s'irrigidì. Strano! In quell'urlo, la voce di Antonio era divenuta seria e solenne; non era più quella che fino ad allora aveva balbettato le parole dell'imbecille e dell'ubriaco: “Gli accadeva infatti cosa molto seria al povero Antonio”, pensò Giorgio seriamente.
Bruscamente venne tolto ai suoi sogni. Con passo rapido era entrata una guardia ed era andata direttamente alla dispensa. A Giorgio si gelò il sangue nelle vene. Lo cercavano diggià? Stette fermo vincendo il movimento istintivo che lo avrebbe gettato sulla via, ma poi, osservando la vivacità con la quale la guardia parlava con l'impiegato, gli parve di indovinare ch'essa era venuta precipitosamente a dare l'ordine di non lasciarlo partire e uscì dall'atrio senza far rumore in modo che persino le due friulane vicinissime alla porta non s'accorsero della sua uscita.
Nell'oscurità della piazza ebbe tanta calma da dubitare che quella sua fuga fosse giustificata ma non tanto da ritornar nell'atrio. Risolse di fermarsi per qualche tempo a quel posto sperando che la sua fortuna gli avrebbe dato qualche altra indicazione per poter orientarsi. Non era piccola risoluzione o di facile esecuzione neppure quella di rimanere là fermo, perché calmo non si sarebbe sentito che obbedendo al suo istinto e correndo all'impazzata lontano da quel luogo. La vista di persona che forse poteva avere il mandato di arrestarlo era bastata a togliergli tutta l'audacia di cui poco prima s'era gloriato.
Cercò una posizione naturale per dare anche meno nell'occhio e si sedette su una scalinata. Si sentiva a disagio così, ma sapeva che quella era una posizione naturale perché pochi giorni prima, dopo aver desinato abbondantemente una volta in quarant'otto ore, s'era seduto sui gradini di una chiesa e aveva potuto osservare che i passanti non lo vedevano.
Partire? Giocare d'audacia e partire alla cieca, senza curarsi di sapere se alla partenza stessa o alla prossima stazione sarebbe stato fermato? Lo fermò più che questo dubbio, l'orrore di quelle ore di un'angoscia che da poco conosceva. Travestì la sua paura in un ragionamento.
“Partire significava fuggire e la fuga era una confessione. Se fosse stato colto nella fuga era perduto senza misericordia”.
Sarebbe rimasto, e non gli mancarono gli argomenti neppure per rendere ragionevole il suo desiderio di non allontanarsi affatto dalla città. Chi poteva rintracciarlo? Due o tre persone che non lo conoscevano lo avevano veduto con Antonio e dalla parte proprio opposta a quella ove abitava.
Ma dopo quella prima vigliaccheria non si sentì più capace di audacie. Un'audacia utile gli veniva consigliata dal suo mobile cervello, ma anche mentre che con essa si baloccava, neppure per un istante non ebbe l'intenzione di porla ad esecuzione. Lo torturava una grande curiosità di sapere quello che la gente sapesse dell'assassinio e quali ipotesi facesse sull'assassinio. Egli avrebbe potuto portarsi di nuovo sul luogo del misfatto e informarsi con cautela. Ma a quest'uopo bisognava naturalmente parlare dell'assassinio e forse con guardie... tutta roba da far rizzare i capelli in testa.
No! Sarebbe ritornato immediatamente a quella specie di tana che da oltre un anno gli serviva d'abitazione e per lungo tempo non l'avrebbe abbandonata. Avrebbe continuato a fare la vita che aveva fatto fino allora, concedendosi soltanto quelle comodità che non potevano dare nell'occhio.
Per andare alla sua abitazione in Barriera vecchia egli avrebbe dovuto passare la spaziosa via del Torrente. Un'insormontabile paura della luce glielo impedì e spiegando a se stesso che la sua paura era cautela, infilò una viuzza solitaria che lo portò sulla collina adiacente ad una via larga ma fuori di mano, poco frequentata a quell'ora e poco illuminata. Poi con un giro enorme, sempre preferendo le vie più oscure, arrivò all'altra parte della città. Si fermò dinanzi ad una porta per uno scalino più bassa della via. Entrò, chiuse dietro a sé la porta, e nella profonda oscurità si sentì subito tranquillo. Egli aveva commesso un errore, quella passeggiata alla stazione, e, ritornato salvo in casa, gli parve di averlo annullato.
Là nessuno sapeva del suo tentativo di fuga; in uno dei canti della stanza sentiva russare Giovanni, probabilmente ubbriaco.
Cercò a tastoni il suo materasso, vi si stese e si spogliò. Cacciò la giubba nella quale v'erano i denari, sotto il guanciale e s'addormentò dopo aver brancolato verso il sonno in una fantasia disordinata. Non gli sembrava di essere stato lui l'uccisore. Quella via lontana ch'egli fuggendo aveva guardato anche una volta, l'assassinato che per sì breve tempo aveva conosciuto e quella fuga alla stazione, gli balzavano bensì dinanzi alla mente, ma senza commuoverlo o spaurirlo. Nella sua immensa stanchezza gli parve che l'oscurità in cui si trovava non avesse a diradarsi mai più. Chi sarebbe venuto a cercarlo là?
II
Giorgio nella triste società nella quale viveva, veniva chiamato il signore. Non doveva questo nomignolo alle sue maniere che pur si tradivano superiori a quelle degli altri ma più al disprezzo ch'egli dimostrava per le abitudini e i divertimenti dei suoi compagni. Costoro all'osteria erano felici mentre Giorgio vi entrava svogliato, vi stava per lo più silenzioso, e quanto più beveva tanto più triste diveniva. Il volgo ha un gran rispetto per la gente che non si diverte e Giorgio accorgendosi dell'impressione che produceva affettava maggior tristezza di quanto realmente sentisse.
In fondo la sua storia era molto semplice e solita, né egli aveva il passato splendido che voleva far credere. Gli studi di cui si vantava erano stati fatti in due classi liceali a percorrere le quali aveva messo cinque anni. Poi aveva abbandonato le scuole e in brevissimo tempo aveva dilapidato lo scarso peculio della madre. Fece vari tentativi per conservarsi il posto di borghese colto a cui la madre aveva tentato di portarlo, ma invano, perché non trovò altro impiego che di facchino. Non potendola mantenere aveva abbandonato la madre e viveva in quella stalla con altro facchino, certo Giovanni, lavorando, quando era molto attivo, due o tre giorni per settimana.
Era malcontento di sé e degli altri. Lavorava brontolando, brontolava quando riceveva la mercede e non sapeva quietarsi neppure nelle sue lunghe ore d'ozio.
Ricco non era stato mai, ma s'era trovato in condizioni nelle quali aveva potuto sognare di arrivare a stato migliore e altri a lui d'intorno, la madre principalmente, avevano sognato con lui e, certo, erano stati questi sogni e l'amarezza di vederne sempre più lontana la realizzazione che avevano costato la vita ad Antonio.
Si svegliò con un sussulto in seguito ad un grande rumore. Giovanni stava vestendosi, ed essendosi messo per errore uno stivale di Giorgio, bestemmiando se l'era levato e l'aveva gettato con violenza a terra.
Giorgio finse di dormire ancora e per proposito respirando rumorosamente ripensò con sorpresa al suo delitto. Se non fosse già stato commesso probabilmente egli non avrebbe avuto il coraggio di commetterlo, ma giacché era cosa fatta e ch'egli coi nervi quietati dal lungo riposo si trovava in quel luogo dimenticato da tutti, al sicuro, poggiando la testa sul suo tesoro, non provò né rimpianto né rimorso. Questo fu il primo sentimento in quella lunga giornata.
Giovanni oramai vestito lo prese per un braccio e lo scosse: – Non vai a cercare lavoro, poltrone?
Giorgio aperse gli occhi e stirandosi come se si fosse destato allora, brontolò: – Già oggi non se ne trova. Resterò ancora un poco a letto.
Giovanni esclamò: – Oh! il signore! Continui pure a riposare. – Uscì sbattacchiando dietro a sé l'uscio.
Già così, senza chiave, dal di fuori non si poteva entrare, ma a Giorgio non bastò. Si levò e andò a tirare il catenaccio. Poi trasse dalle tasche le banconote e le contò.
La vista di quel denaro gli dava un sentimento di certo non giocondo: Era il ricordo del suo delitto e poteva divenirne la prova. La vista della via illuminata dal sole mattutino lo aveva agitato e invano, affannosamente, per essere di nuovo soddisfatto della sua azione, andava calcolando quanti anni con quella somma avrebbe potuto vivere libero e ricco. La preoccupazione maggiore interrompeva il calcolo e la compiacenza. “Dove celarli?”
Il pavimento era coperto di tavole che all'infuori di qualche leggera saldatura alle estremità erano semplicemente poggiate sul terrazzo. Di buoni nascondigli ve n'erano abbastanza, ma nessuno sicuro perché essendovi in tutta la stanza un solo armadio, e quello senza chiave, i due inquilini avevano l'abitudine di usare spesso di quei ripostigli.
Ma le buone idee non mancavano a Giorgio. Nascose le banconote sotto il materasso di Giovanni.
Mentre era intento al lavoro con un sorriso di compiacenza sulle labbra, un leggero rumore proveniente da un canto della stanza lo fece trasalire e abbandonato un tavolo che aveva sollevato, questo, cadendo, gli contuse una mano, producendogli un dolore che dovette morsicarsi le labbra per non gridare. Gli parve che quello schiamazzo somigliasse a quello di una lotta e fu tale il suo spavento che quando si calmò, avvilito dovette riconoscere che se le buone idee non gli mancavano, gli mancava qualche cosa che avrebbe potuto essergli di utilità immensamente maggiore in quelle circostanze.
Decise di non uscire per il momento. Gli era ben facile di trattenersi là nella semioscurità piuttosto che di andare al sole, sulla via. Vedeva la luce che penetrava dall'unica finestra e calcolava quale impressione gli doveva produrre di camminare per le vie di giorno quando s'era sentito tanto male a camminarle di notte.
Giovanni gli avrebbe portato delle notizie, le voci che correvano sull'assassino. Aveva l'abitudine di leggere giornalmente il «Piccolo Corriere», e così sarebbe stato bene informato.
L'avvenimento probabilmente più importante del giorno innanzi era il suo misfatto!
Il più importante! Si sentì un malessere come se qualche peso violentemente gli si posasse sul cuore.
Anche i suoi compagni si sarebbero occupati di tale avvenimento.
Come avrebbe avuto il coraggio di parlare del suo delitto, come prima o poi vi sarebbe stato costretto? Fare l'attore in una simile parte, lui che per quanto perverso aveva il sangue che alla menoma emozione gli arrossava la faccia?
Studiò la sua parte. Comprese subito che in quelle circostanze e per quanto fosse da persona poco raffinata, di fronte al delitto, egli era costretto di dimostrare una grande, immensa indignazione. Né calma né indifferenza, perché la finzione sarebbe stata troppo difficile. L'indignazione avrebbe spiegato il rossore, avrebbe spiegato il tremito delle mani e l'attenzione intensa ch'egli non avrebbe saputo rifiutare ad ogni più piccolo particolare che gli sarebbe stato riferito sul delitto.
Si vestì, e alle 11, l'ora in cui gli operai non ancora l'invadevano, si portò all'osteria vicina. Prima di uscire dalla sua tana la guardò lungamente; aveva l'aspetto solito dopo ch'egli aveva pulita certa polvere che s'era ammassata accanto al letto di Giovanni, sotto al quale erano state smosse le tavole.
Nessuno avrebbe potuto supporre che in quella stanza era celato un tesoro.
All'osteria all'infuori della fantesca non vide nessuno. Con costei, una bella donna quantunque passatella, egli aveva amato talvolta di scherzare; in quel giorno gli riuscì impossibile.
Rimase seduto al suo posto trasalendo ad ogni rumore che poteva annunciare la venuta di altre persone.
Non aveva udito ancora neppure una parola sull'assassinio! Volle tentare di udire questa prima parola.
Era già avviato per uscire e ritornò a Teresina che portava delle stoviglie alla dispensa. La prese sotto il mento e guardandola fissa negli occhi: – Niente di nuovo Teresina? – le chiese, non trovando una domanda più abile, e nella sua voce vibrò una commozione che lo sorprese.
– Oh! Meno male! – esclamò ella allontanandosi da lui, perché erano troppo vicini alla porta. – Temevo foste ammalato vedendovi oggi così serio!
– Sto poco bene! – disse lui, e acciocché ella più facilmente glielo credesse ripeté la frase più volte. Ella si attendeva di ricevere qualche bacio ora che si era messa all'oscuro, ma egli le andò vicino, la prese per mano amichevolmente, e ripeté la sua domanda: – Niente di nuovo?
– Non sa dire altro quest'oggi? – chiese ella, e volendo fare la smorfiosa si liberò della sua stretta e fuggì.
Sulla via egli camminò con passo che volle sicuro diffilato verso la sua abitazione. Si trovava molto debole, vigliacco in modo sorprendente. Il pensiero al suo misfatto gli aveva tolto ogni naturalezza. Il suo contegno non era più naturale neppure con quella servetta! Perché andava figurandosi che tutta la città si preoccupasse dell'assassinio? Aveva chiesto alla Teresa se nulla sapesse di nuovo e s'era atteso ch'ella subito in risposta alla sua vaga domanda gli raccontasse quanto ella aveva sentito parlare del misfatto. – Oh! Bisogna mutare di contegno –, si disse, nella fiera risoluzione morsicandosi le labbra, – ne va della pelle –. Si era contenuto tanto scioccamente con Teresa che l'aveva resa capace di divenire un testimonio a suo carico.
Forse in città nulla si sapeva dell'assassinio! Questa speranza per quanto insensata diminuì il suo abbattimento. Era l'unica ipotesi felice per lui perché egli aveva capito che non rimaneva impunito se anche non veniva scoperto; quel terrore continuo era già per sé una grave punizione. Chi poteva saperlo? Per un fenomeno qualunque il cadavere di Antonio poteva essere scomparso dalla faccia della terra. Probabilmente sempre è stata la speranza che ha supposto nella natura il miracolo.
Ma troppo presto questa speranza venne distrutta. A mezzodì capitò Giovanni e anche a lui egli disse di essere indisposto per scusarsi di non essere andato al lavoro.
– Ah! Così – fece Giovanni e finché non continuò, Giorgio attribuì il sorriso ironico che gli vedeva errare sulle labbra ad un sospetto. – Sei ammalato come al solito, eh?
Infatti non era la prima volta che Giorgio si diceva ammalato per scusare la sua infingardaggine.
Poi subito senz'altra transizione che uno sbadato: – Hai inteso? – Giovanni incominciò a raccontare del delitto di via Belpoggio. Mangiava del pane che s'era portato di pranzo e quelle parole attese da Giorgio con febbrile impazienza uscivano dalla sua bocca una alla volta con lunghi intervalli. – Certo, Antonio Vacci... pare si tratti di oltre trentamila fiorini. Un bel colpo! Il cuore spaccato! Se è vissuto dieci secondi dopo di aver ricevuto quel colpo è assai.
Giorgio non si agitava soltanto per la sua ultima speranza che crollava. Era stato quel cuore spaccato che gli aveva dato il dolore al braccio; forse nel suo braccio aveva sentito le ultime vibrazioni del viscere moribondo, e l'idea di quel contatto immediato lo faceva fremere. Si sapevano da tutti persino i particolari del delitto; doveva sembrare enorme. Sul corpo di Antonio non era rimasta traccia della istantaneità del fatto, ma della violenza sì.
Non ardiva aprir bocca. Cribrava ogni parola che gli saliva alle labbra e la ringoiava perché ognuna gli pareva dovesse dare sospetto. Non c'era mezzo di far parlare quell'individuo tutto occupato dal suo magro cibo e che nelle tante riflessioni che emetteva non aveva detto ancora nulla sulle supposizioni che dovevano essere state fatte in città sul suo conto?
Finalmente Giorgio trovò una frase che gli parve un capolavoro di naturalezza: – E l'assassino chi è? – Per trovare questa frase aveva dovuto prima esaminare quanta parte del fatto di cui trattavasi fosse a sua conoscenza soltanto perché egli lo aveva commesso, poi esaminare quanto nelle parole di Giovanni vi fosse di oscuro perché era pericoloso dimostrare di aver capito troppo presto tutto – Sì l'assassino chi è?
Con grande gioia egli osservò che l'altro s'impazientava. Mettendovisi con tutt'attenzione egli sapeva dunque ingannare abbastanza abilmente e questa volta non ebbe che un solo rimorso. Nella gioia di aver trovato quella frase l'aveva ripetuta quasi inconsapevole.
– Non te l'ho già detto? Non l'hanno trovato finora. Non si sa chi sia.
E da Giovanni di più non poté sapere ed egli vi rinunciò. Per avere le notizie che Giovanni gli poteva dare non aveva il bisogno di sottostare al supplizio di un colloquio. Se le sarebbe procurate da un giornale.
Un quarto d'ora dopo l'uscita del facchino con un coraggio ch'egli stesso ammirava, egli uscì non senza avere titubato per qualche istante. Col desiderio di notizie ch'era stato stimolato in lui da Giovanni non poteva attendere più oltre.
Per giungere all'edicola più vicina del «Piccolo Corriere» gli occorreva camminare per dieci minuti circa. Camminava dapprima rasente ai muri, poi, per il volgare ragionamento che l'aspetto di voler celarsi avrebbe potuto dar sospetto, franco in mezzo alla via, con passo che voleva essere disinvolto ma che s'impacciava continuamente. Aveva dunque disimparato di camminare?
Avuto il giornale si rintanò immediatamente. Si gettò sul materasso che aveva trascinato sotto all'unica finestra e si mise a leggere. Mai in tutta la sua esistenza egli non aveva trovato tanto interesse a un pezzo di carta stampata, giammai su questa carta egli aveva saputo rivolgere tutta la sua attenzione e dimenticare il proprio contorno da sembrargli, cessata la lettura, di destarsi da un lungo sogno.
L'assassinio era il fatto più importante della cronaca locale e la riempiva quasi del tutto. Il racconto del misfatto era preceduto da alcune considerazioni fatte dal giornale sulla frequenza con cui simili fatti di sangue si verificano in città e con un tono d'amarezza che certamente impressionò maggiormente l'assassino che leggeva che le autorità a cui era destinato, si lagnava della trascuratezza con cui s'invigilava alla pubblica sicurezza.
Leggendo a lui sembrava di odiare il giornale! Perché quell'accanimento? Certamente anche se egli fosse stato punito l'altro non si sarebbe risvegliato più. Non bastava l'accanimento che già naturalmente ci avrebbe messo l'autorità a ricercarlo?
Da tutto l'articolo appariva o si voleva far apparire, che l'assassinio aveva destato la massima sensazione in città. Si trattava di un misfatto, diceva il giornalista, commesso con un'audacia inaudita, in una via della città abbastanza vicina al centro e ad un'ora avanzata bensì, ma non tanto che si dovesse supporne specialmente spopolato quel rione. Un passante qualunque per la sola ragione che aveva seco del denaro era stato ucciso proditoriamente.
S'ingannavano e Giorgio avrebbe dovuto esserne lieto perché in tale modo il sospetto sarebbe caduto anche più difficilmente su lui; nessuno aveva veduto la vittima accompagnata dall'assassino. Però descritto in tale modo quale l'opera di un aggressore che aveva ucciso un passante qualunque solo perché nelle sue tasche aveva supposto del denaro il delitto diveniva ben più terribile; il malessere di Giorgio ne veniva aumentato. Costoro che di lui parlavano non sapevano a quale tentazione egli era stato esposto dall'imbecillità di Antonio.
Era facile a comprendere che descritto in tale guisa l'assassinio doveva commuovere tutta la città. Ognuno sentiva minacciata la propria amata persona e sarebbe divenuto al caso un utile ausiliare della polizia.
Dell'assassino non una sola parola giusta.
Poco prima del fatto, raccontava il giornale, erano stati veduti aggirarsi in quei pressi due individui di pessimo aspetto presumibilmente gli autori dell'omicidio.
Quest'errore era assolutamente consolante per Giorgio ed egli stesso si meravigliò di non sentirsi scendere nel cuore un po' di calma all'apprenderlo.
Quell'articolo l'aveva scosso profondamente. Egli aveva sospettato delle persecuzioni fatte con maggiore fortuna, ma, per quanto sfortunate ora che vi si trovava di fronte, lo agitavano e lo impaurivano. Forse esiste nel nostro organismo qualche parte tanto delicata che già si risente al solo augurio del male. Egli sentiva convergere sul suo tale un cumulo di odio, che, per quanto impotente dovesse sembrargli per il momento, lo opprimeva.
Il giornale che non poteva dire una parola sull'assassino, si sfogava col fare una biografia particolareggiata dell'assassinato.
Antonio Vacci era maritato e padre di due ragazze. La famiglia era vissuta poveramente fino a qualche mese prima, in cui le era toccata inaspettata una vistosa eredità. Il Vacci veniva descritto quale persona di poco cervello e che dacché era arricchito aveva l'abitudine di portare seco una grossa somma di denaro che faceva vedere a chi lo desiderava.
Non era quindi possibile di elevare dei sospetti contro quelle persone che sapevano di questo tesoro ambulante perché erano troppe. «Intanto», soggiungeva il giornale, «l'autorità fa subito degli interrogatori a tutti gli abitanti della casa ove abitava il povero Vacci».
“Oh! Fossi fuggito”, pensò con rammarico cocente l'assassino. Da quanto aveva letto era chiaro che il sospetto fino ad allora non era caduto su di lui e partendo da Trieste la sera innanzi egli sarebbe potuto giungere fino in Isvizzera[17]  prima di aver a temere persecuzioni. Riteneva fondatamente che il profondo malessere che lo rendeva tanto infelice non lo avrebbe colto se si fosse trovato lontano dal luogo ove aveva ucciso.
Verso sera si recò anche una volta all'aperto. Camminò più franco ed egli si affrettò ad attribuire quel coraggio alla certezza di sapersi inosservato. Ma la paura regnava sovrana nel suo organismo. A farlo trasalire bastava qualche cosa d'immediato e impreveduto, per esempio di trovarsi improvvisamente faccia a faccia con una montura qualunque che magari somigliasse soltanto a quella di una guardia. Non era la lettura del giornale, la sicurezza di sapersi non sospettato che gli dava coraggio, e finì col riconoscerlo anche lui. Era l'abitudine alla nuova posizione che gli permetteva di muoversi più sciolto. Gran parte di quello che noi diciamo coraggio è l'esperienza e l'abitudine del pericolo.
III
Giovanni entrando alle sette di sera lo guardò con cipiglio comicamente serio: – Sai che si sospetta che tu sii l'assassino di Antonio Vacci? – gli disse a bruciapelo.
Giorgio era nell'oscurità, sul suo giaciglio. Egli sentì che se non fosse stato così, l'altro, alla sola vista della sua fisonomia, che doveva essersi alterata orribilmente, avrebbe compreso che quel sospetto di cui parlava scherzosamente era ben fondato. Ove erano iti i suoi propositi di freddezza e di disinvoltura? – Chi? – balbettò. Non si poteva movere una domanda più sciocca ma l'aveva preferita a tutte le altre perché la più breve che gli fosse venuta in mente.
Giovanni rispose che tutti i loro amici ne parlavano. A quanto raccontava il «Piccolo Corriere della Sera» una donna aveva veduto fuggire l'assassino dal luogo del delitto, anzi quasi ne era stata gettata a terra, e aveva saputo dare sul suo aspetto dei particolari abbastanza precisi: Intanto dei capelli ricci neri, abbondantissimi, e un cappello a cencio.
Lo spavento che in Giorgio era stato provocato dalle prime parole di Giovanni, da queste ultime venne alquanto diminuito. Piccolissima, ma qualche tranquillità gliene doveva derivare. Egli si rammentava di quella donna la quale lo aveva visto nell'oscurità e per un breve istante, tale che sicuramente non le aveva concesso di osservare in lui altro all'infuori del cappello a cencio e dei capelli neri. Di più ella non lo aveva visto uccidere e se anche lo avesse ritrovato e riconosciuto, egli non era del tutto perduto; poteva salvarsi negando. Certo! Era atroce la sua situazione ed egli ne era consapevole, ma tutt'altro che disperata. I capelli si potevano tagliare e mutare il cappello.
– Guarda quale combinazione! – disse pronto a Giovanni con un'audacia di cui poco prima non si sarebbe creduto capace. – Nell'ozio di quest'oggi io avevo deciso di tagliare i capelli che mi pesano, e anche... anche mutare questo cappello a cencio che non mi piace.
Non c'era male, ma lo spavento trapelava se non dalle parole dal suono della voce, e un osservatore più abile di Giovanni se ne sarebbe accorto.
Con intelligenza costui osservò: – Se non vuoi avere seccature da parte della polizia farai bene a non mutare per ora né la tua barba né il tuo cappello.
– Ma se ci sei tu per dichiarare che avevo l'intenzione di fare questi mutamenti prima che del cappello o della barba dell'assassino si parlasse.
Oh! Se avesse potuto trarre Giovanni nella sua orbita, farne il suo complice! Se non fosse stata quella orribile paura di vederlo sorgere quale primo accusatore gli avrebbe gettato le braccia al collo, gli si sarebbe confidato e gli avrebbe offerto metà del suo tesoro imponendogli metà delle sue torture. Gli sarebbe sembrata la liberazione quella di avere un complice, perché egli credeva che avrebbe mutato natura il suo terrore se avesse potuto metterlo in parole. Quel pensiero continuo dei suoi persecutori gli sembrava più terribile perché non espresso. Causa la mancanza della parola ragionata egli credeva di non aver saputo prendere una risoluzione energica che lo avrebbe salvato. Si ragionava tanto male con quelle idee mobili che passavano per la mente senza lasciarvi traccia, inafferrabili pochi istanti dopo nate.
Fece un leggero tentativo di ottenere aiuto da Giovanni non appellandosi però con una confessione alla sua amicizia, ma confidando nella debolezza del cervello di costui. – Del resto – disse con noncuranza – sai bene che all'ora in cui dicono che il misfatto è stato commesso, io ero già a letto, tant'è vero che mi salutasti entrando.
– Non rammento! – disse Giovanni con un'esitazione che chiuse definitivamente la bocca a Giorgio; somigliava molto a un sospetto.
E tacque quantunque Giovanni poi sembrasse parlare appositamente per ridargli il coraggio che gli aveva tolto.
Poco prima di uscire disse: – Ecco un colpo di coltello che frutta bene a quel brav'uomo che lo diede. Io se vivessi cento anni e sempre lavorassi, non guadagnerei quanto costui ha conquistato in un solo istante. In fondo sono pregiudizi che ci trattengono dal fare il nostro interesse. Paff! Un colpo bene assestato e si ha tutto quello che occorre!
Guardandolo uscire Giorgio pensava che forse Giovanni sarebbe stato capace di ammazzarlo al sicuro per trafugargli il suo tesoro ma che non avrebbe accettato la complicità in un affare pericoloso. Egli si sentiva migliore di molto di lui che a sangue freddo predicava l'assassinio. Egli l'aveva commesso ma in un dato momento, vinto dalla tentazione di rendere suoi quei denari che lo salvavano dalla sua infelicissima vita. Non aveva ragionato e in quell'istante nemmeno se avesse avuto presente la punizione che gli sarebbe potuta toccare per quel fatto, la forca, il boia, non si sarebbe lasciato trattenere. Aveva dunque arrischiato la propria vita per prendersi l'altrui e, non come vigliaccamente faceva Giovanni, accarezzato l'idea di uccidere al sicuro.
O forse ora se ne era dimenticato? L'atto di cui egli ricordava l'istantaneità non era stato prodotto da un'aberrazione momentanea e lo provava la soddisfazione ch'egli lungamente aveva sentita scoprendosi in quello stesso atto forte ed energico. Oscuramente poi si ricordò che qualche idea molto simile a quella enunciata da Giovanni doveva essere passata anche per la sua mente. Quale strano indebolimento della memoria! L'assassinio era venuto a dividere la sua vita in due parti e al di là di quell'avvenimento egli non ricordava le proprie idee, le proprie sensazioni, il proprio individuo che oscuramente come se si fosse trattato di cose non vissute ma udite raccontare, molti, molti anni prima.
Ora, doveva rassegnarsi a riconoscerlo, egli era un individuo di cui la soppressione veniva desiderata da un'intera società.
Come sfuggire a tale odio, come rendersene meno degno? Se egli fosse stato chiamato a dare ragione del suo misfatto, che cosa avrebbe detto per diminuirne agli occhi altrui la crudeltà, convincerli ch'egli era migliore di quanto poteva apparire se giudicato unicamente da quella sua azione? Egli avrebbe raccontato che un individuo ch'egli appena conosceva gli aveva consegnato del denaro quasi dicendogli: – Se mi uccidi sono tuoi! – che egli seguendo l'invito lo aveva ucciso. Non avrebbe trovato altro da dire? Sicuramente ciò non bastava a giustificarlo né a far apparire minore la sua colpa e scoprendo che vi era l'impossibilità di convincere altri della propria innocenza, egli finì col riconoscere che il suo sentimento era anormale, irragionevole. Strano infatti il sentimento d'innocenza in un individuo che aveva ucciso e non per amore o per odio ma per avidità.
Egli non poteva più ingannare se stesso, ma gl'importava tanto di diminuire l'odio e il disprezzo nei suoi futuri giudici che a quello scopo dedicò tutto il suo pensiero e quando credette di aver scoperto i mezzi per raggiungerlo, in quell'opera impiegò un tempo prezioso, nel quale avrebbe potuto fors'anche salvarsi.
Da parecchi anni non s'era rammentato di sua madre ed ora pensava a lei per farsi aiutare in una finzione che aveva progettato. Se il suo delitto fosse stato scoperto, e non stava in suo potere d'impedirlo, egli avrebbe asserito che l'aveva commesso per porsi in stato di aiutare la sua vecchia madre.
A notte fatta egli fece la lunga gita a S. Giacomo ove doveva trovarsi la madre. Camminando non pensava affatto al piacere di rivederla; rifaceva la scena su cui aveva già fantasticato, in cui si sarebbe giustificato dinanzi ai giudizi.
Il suo delitto non aveva avuto altro scopo che di rendere aggradevoli gli ultimi anni di vita di una povera vecchia, di sua madre. Non ne dubitava più. Gli sarebbe stato facile di mutare in un'indulgenza commessa l'orrore che avrebbe ispirato la sua azione.
Era certo di poter indurre sua madre a recitare la commedia. Era una donna intelligente che non lo amava dacché egli aveva tradito le speranze ch'ella in lui aveva riposte, ma che lo avrebbe accarezzato non appena saputolo ricco. A lui era di grande conforto quella speranza di affetto ch'egli avrebbe corrisposto con tutte le forze dell'anima sua. In quell'affetto si sarebbe quietata la sua agitazione, si sarebbero annegati quelli che impropriamente egli chiamava rimorsi. L'avrebbe trattata dolcemente, si sarebbe confidato a lei come a se stesso, e avrebbe posto a sua disposizione tutto il suo denaro. Quell'amore gli nasceva nel cuore addirittura violento. Nulla di simile era mai passato per la sua anima. Egli era stato sempre egoista e duro ed ora si compiaceva nell'idea di accarezzare un essere debole e farsene lo schiavo e il difensore.
Scorse un ragazzo seduto accanto alla prima casa operaia. Lo riconobbe e provò un sentimento giocondo: Era Giacomino, il figliuolo di un vicino della madre.
Il ragazzo nell'ombra fumava con voluttà; vedendo Giorgio arrossendo si levò in piedi e celò la sigaretta nel cavo della mano.
Giorgio gli sorrise e voleva rassicurarlo, dirgli ch'egli di certo non lo avrebbe denunciato al padre, ma non aveva tempo e si limitò a quel sorriso.
– Mia madre dov'è? – chiese con premura come se avesse da portarle una notizia urgente.
Più rassicurato da quel sorriso che attristato dalla triste notizia che doveva dare, il ragazzo disse: – Sua madre? – e spese queste due uniche parole per preparare Giorgio, aggiunse rapidamente: – Sua madre è morta da otto giorni all'ospedale. Anzi papà sarà contento di vederla perché da parte della signora Annetta ha da dirle qualche cosa. Vado a chiamarlo!
– Non occorre, non occorre – disse Giorgio con voce afona, e, già allontanandosi, in modo che il ragazzo forse non poté udirlo aggiunse: – Ritornerò domani, addio.
Così perdette quella speranza che in poche ore aveva accarezzato tanto da finire col tenerci addirittura quanto alla speranza di non venir scoperto. Non era il dolore per la morte della madre che lo faceva barcollare e che gli offuscava la vista. Egli non vedeva dinanzi a sé il volto della defunta ora illividito, o non richiamava alla mente la voce che non doveva udire più mai, o il gesto che tanto spesso era stato affettuoso per lui. Era morta inopportunamente quella vecchia e la sua morte faceva di lui di nuovo un vile assassino rapace.
Fu questa notizia sorprendente che gli tolse la capacità di pensare e lo gettò in braccio ai suoi persecutori. In quelle ore in cui s'era cullato nel sogno di fingere al suo delitto uno scopo nobile e guadagnarsi nel caso in cui fosse stato preso la commiserazione dei suoi simili, egli non aveva pensato al difficile compito di sfuggire alla pena. Perduta questa speranza la paura lo aveva guadagnato di nuovo del tutto ed egli fuggiva anche adesso che ritornando in città si avvicinava maggiormente al pericolo.
Nella oscurità accanto a piazza della Barriera, ebbe una strana visione. Con lo stesso suo passo veloce camminava dinanzi a lui un ometto curvo, piccolo, misero, le mani ostinatamente in tasca, Antonio Vacci insomma. Lo vedeva distintamente, scorgeva tutte le particolarità della miserabile personcina, persino i radi capelli grigi accuratamente lisciati sulle tempie, e per un istante non ebbe dubbio di sorta: Antonio era vivo!
Non si fermò a riflettere come ciò potesse essere dopo ch'egli l'aveva visto giacere in terra come cosa senza vita. Antonio era vivo ed egli non aveva ucciso. Si cacciò innanzi con un urlo. Voleva offrirgli la restituzione di tutti i suoi denari, magari obbligandosi a dargliene degli altri in futuro e non chiedergli nulla in compenso, soltanto che vivendo testificasse ch'egli non aveva ucciso.
Stupefatto si trovò dinanzi ad una faccia misera, dalla pelle incartapecorita ma del tutto sconosciuta, non quella di Antonio, e ripiombò nella sua disperazione con questo di più che essendosi trovato a desiderare la vita di Antonio con una intensità maggiore, egli si giudicò anche meno degno di odio e di persecuzione e provò una forte compassione di se stesso che gli cacciò le lagrime agli occhi. Egli si vedeva come un uomo che capitato per propria colpa su un'erta china precipita e rimangono inutili tutti i suoi sforzi per fermarsi perché il terreno frana sotto ai suoi piedi e gli arbusti a cui si attacca non resistono. Gli sembravano sforzi per fermarsi quella gita in cerca di sua madre e la speranza di ritrovare Antonio vivo!
Invece appena allora, in quell'agitazione in cui si trovava, fece l'unico sforzo per salvarsi, ma tanto balordamente che fu quello stesso sforzo che lo perdette. L'uomo sulla china, per salvarsi, non aveva trovato di meglio che secondarla e precipitarsi da sé a valle.
Bisognava liberarsi da quel cappello a cencio che gli pesava sulla testa come il suo delitto stesso. Non rammentò l'intelligente osservazione di Giovanni e risoluto entrò da un cappellaio. Era l'ora in cui si doveva venir osservati meno perché si stava già chiudendo il negozio, ma egli non pensò che trasudato dalla corsa e agitato da tante emozioni, sarebbe bastato un solo sospetto per scoprire in lui il malfattore che fugge.
Una ragazza già vestita per abbandonare il negozio, inguantata, elegante, con certi occhi neri spiritati dall'impazienza, gli chiese che cosa desiderasse e udito che voleva un cappello con una smorfia ritornò dietro il banco. Il padrone un giovine alto e magro si alzò da un piccolo tavolo posto nel fondo del negozio. Prima che si alzasse Giorgio non lo aveva veduto ed ora non lo guardava ma si sentiva osservato da lui, ciò che finì con lo sconcertarlo.
– Presto – mormorò con accento supplichevole che alla ragazza dovette sembrare fuori di posto.
Ella gli offerse un altro cappello a cencio. – No – disse lui con qualche vivacità.
Ella gliene porse un altro ch'egli prese in mano risoluto di non rimanere più oltre in quella luce, osservato con intensa curiosità dalla ragazza, dal padrone e dal facchino che aveva tralasciato di ritirare i cappelli esposti evidentemente soltanto per guardarlo.
Egli ben volentieri avrebbe fatto a meno di provare il cappello nuovo prima di pagarlo, ma capì che ne era obbligato dalla più rudimentale prudenza. Si levò il cappello a cencio e la faccia venne inondata da un sudore abbondante.
– Caldo? – chiese la ragazza motteggiando.
Egli esitò un istante prima di rispondere. Gli parve che da quella domanda gli fosse stata data l'occasione di spiegare che si trovava in quello stato in seguito alla lunga gita da lui fatta e non per altra ragione. Ma non seppe avere tanta audacia. – Sì! Molto caldo! – mormorò rasciugandosi il fronte.
Pagò e uscì dimenticandosi di prendere con sé il cappello a cencio. Il cappello nuovo, troppo piccolo, gli stava in testa in equilibrio e malfermo gli dava immenso fastidio.
In piazza della Barriera per la quale dovette ripassare vide Giovanni con altri tre operai. Si avvicinò loro esitante, sapendo allora per esperienza che ogni sua parola ogni suo gesto sarebbe stato tanto strano da destare sospetto.
L'accolsero con saluto glaciale e lo guardarono con diffidenza. Non era un inganno della sua paura; così non lo avevano trattato mai. Lo guardavano con curiosità e nessuno gli rivolse la parola.
A mezzo ubbriaco dal terrore egli ebbe un ultimo tentativo di disinvoltura: – Si va all'osteria? Pagherò io per questa sera.
Giovanni gli disse: – Essi sospettano che tu sii l'assassino di via Belpoggio e finché non ti sei nettato di questo sospetto non vogliono venire con te! –
Egli comprese che se fosse stato innocente avrebbe dovuto atterrare chi per primo elevava un simile sospetto. Ma che cosa poteva fare con quel tremito che gl'invadeva le membra e gl'impediva persino la parola?
I quattro operai si allontanarono inorriditi da lui. Il loro sospetto era divenuto certezza.
Barcollando egli si allontanò.
Aveva fatto pochi passi quando si sentì preso con violenza per ambedue le braccia e udì qualcuno che vicinissimo al suo orecchio gridò: – In nome della legge...
Ebbe una violenta allucinazione mentre gli rimaneva abbastanza di coscienza per capire che non era altro che un'allucinazione. Intese un enorme fragore, il rumore di cose che crollavano, le imprecazioni di una folla armata e vide dinanzi a sé Antonio che rideva sgangheratamente, le mani nelle tasche, nelle quali certo aveva riposto il suo tesoro riconquistato. Poi più nulla.
Si ritrovò adagiato sul suo giaciglio. Nella stanza v'era una sola guardia.
Due uomini vestiti in borghese, di cui uno, piccolo e tarchiato, con un volto grasso e dolce sembrava il superiore, contavano i denari che già avevano trovati sotto il giaciglio di Giovanni.
Costui li aveva aiutati e stava in posizione rispettosa in un canto della stanza. Alla porta vi era un'altra guardia, che tratteneva la folla che si spingeva innanzi.
– Assassino! – gli gridò una vecchia alla quale era riuscito di giungere fino sul limitare della porta, e sputò.
Era perduto! Non poteva negare, ma quello ch'era peggio non avrebbe mai trovato le parole per descrivere le torture da lui sofferte e che avrebbero attenuato la sua colpa. Per tutti costoro egli era una macchina malvagia di cui ogni movimento era una mala azione o il desiderio di farla, mentre egli sentiva di essere un miserabile giocattolo abbandonato in mano capricciosa.
Con voce dolcissima l'uomo dal volto dolce gli chiese se stesse meglio, poi il nome. In quella faccia non vi era segno di odio o di disprezzo e Giorgio dicendo il proprio nome lo guardò fisso per non vedere la folla alla porta.
Poi la medesima persona comandò alla guardia di far entrare per il confronto quella donna e il cappellaio.
– No! – pregò Giorgio, e abbondanti lagrime gl'irrigarono il volto. – Ella mi sembra buono e non mi torturerà inutilmente; le dirò tutto, tutta la verità. – Poi indugiò alquanto quasi per attendere una ispirazione che lo portasse a tacere, a salvarsi, ma bastò un piccolo movimento d'impazienza del suo interlocutore per far cessare ogni esitazione. – Sono io l'assassino di Antonio – disse con voce semispenta.

Il treno ha fischiato
Da Novelle per un anno[18] di Luigi Pirandello
Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d’ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall’ospizio, ov’erano stati a visitarlo.
Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via:
Frenesia, frenesia.
Encefalite.
Infiammazione della membrana.
Febbre cerebrale .
E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.
Morrà? Impazzirà?
Mah!
Morire, pare di no...
Ma che dice? che dice?
Sempre la stessa cosa. Farnetica...
Povero Belluca!
E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso.
Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s’era fieramente ribellato al suo capo ufficio, e che poi, all’aspra riprensione di questo, per poco non gli s’era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d’una vera e propria alienazione mentale.
Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare.
Circoscritto... sì, chi l’aveva definito così? Uno dei suoi compagni d’ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz’altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note, libri mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d’un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi.
Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, cosi per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po’, a fargli almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte.
Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d’una improvvisa alienazione mentale.
Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capo ufficio. Già s’era presentato, la mattina, con un’aria insolita, nuova; e cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d’una montagna era venuto con più di mezz’ora di ritardo.
Pareva che il viso, tutt’a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d’improvviso all’intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai.
Così ilare, d’una ilarità vaga e piena di stordimento, s’era presentato all’ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.
La sera, il capo ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte:
- E come mai? Che hai combinato tutt’oggi?
Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un’aria d’impudenza, aprendo le mani.
Che significa? aveva allora esclamato il capo ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. Ohé, Belluca!
Niente, aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d’impudenza e d’imbecillità su le labbra. Il treno, signor Cavaliere.
Il treno? Che treno?
- Ha fischiato.
Ma che diavolo dici?
Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare...
Il treno?
Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo...
Si fa in un attimo, signor Cavaliere!
Gli altri impiegati, alle grida del capo ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi.
Allora il capo ufficio che quella sera doveva essere il malumore urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli.
Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s’era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch’egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo.
Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all’ospizio dei matti.
Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva: - Si parte, si parte... Signori, per dove? per dove?
E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d’un bambino o d’un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s’era mai occupato d’altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite.
Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell’improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa.
Difatti io accolsi in silenzio la notizia.
E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù, amaramente, e dissi: - Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev’essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest’uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l’avrò veduto e avrò parlato con lui.
Cammin facendo verso l’ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio:
“A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita “impossibile”, la cosa più ovvia, I’incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d’un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell’uomo è “impossibile”. Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev’essere, appartenendo a quel mostro.
Una coda naturalissima. ‘‘
Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca.
Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell’uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita.
Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; l’altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate.
Tutt’e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l’una con quattro, l’altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto.
Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt’e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa.
Letti ampii, matrimoniali; ma tre.
Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch’esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta.
Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé.
Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai.
Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo.
Quando andai a trovarlo all’ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po’, ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito.
Magari! diceva Magari!
Signori, Belluca, s’era dimenticato da tanti e tanti anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva.
Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d’una nòria o d’un molino, sissignori, s’era dimenticato da anni e anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva.
Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l’eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d’addormentarsi subito. E, d’improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.
Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvviso gli si fossero sturati.
Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno.
S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte.
C’era, ah! c’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr’egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s’era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell’arida, ispida angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l’immaginazione d’improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C’erano, mentr’egli qua viveva questa vita “ impossibile “, tanti e tanti milioni d’uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti... sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva cosi... c’erano gli oceani... Ie foreste...
E, dunque, lui ora che il mondo gli era rientrato nello spirito poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo.
Gli bastava!
Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva.
Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo:
Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato...

La signora Frola e il signor Ponza, suo genero
Da Novelle per un anno di Luigi Pirandello
·         La novella qui proposta è particolarmente significativa, sia per le sue qualità tematiche e stilisti­che, sia perché da essa Pirandello trasse la commedia Così è (se vi pare) (1917), una sorta di mani­festo ideologico e programmatico della propria concezione della vita relativistica e critica.
·         Scritta probabilmente nel 1915, fu pubblicata una prima volta nel 1917 e poi nel quindicesimo e ultimo volume della raccolta Novelle per un anno, uscito postumo nel 1937.

Ma insomma, ve lo figurate? c'è da ammattire sul serio tutti quanti a non poter sapere chi tra i due sia il pazzo, se questa signora Frola o questo signor Ponza, suo genero. Cose che càpitano soltanto a Valdana, città disgraziata, calamìta di tutti i forestieri eccentrici!
Pazza lei o pazzo lui; non c'è via di mezzo: uno dei due dev'esser pazzo per forza. Perché si tratta niente meno che di questo... Ma no, è meglio esporre prima con ordine.
Sono, vi giuro, seriamente costernato dell'angoscia in cui vivono da tre mesi gli abitanti di Valdana, e poco m'importa della signora Frola e del signor Ponza, suo genero. Perché, se è vero che una grave sciagura è loro toccata, non è men vero che uno dei due, almeno, ha avuto la fortuna d'impazzirne e l'altro l'ha ajutato, séguita ad ajutarlo così che non si riesce, ripeto, a sapere quale dei due veramente sia pazzo; e certo una consolazione meglio di questa non se la potevano dare. Ma dico di tenere così, sotto quest'incubo, un'intera cittadinanza, vi par poco? togliendole ogni sostegno al giudizio, per modo che non possa più distinguere tra fantasma e realtà. Un'angoscia, un perpetuo sgomento. Ciascuno si vede davanti, ogni giorno, quei due; li guarda in faccia; sa che uno dei due è pazzo; li studia, li squadra, li spia e, niente! non poter scoprire quale dei due; dove sia il fantasma, dove la realtà. Naturalmente, nasce in ciascuno il sospetto pernicioso che tanto vale allora la realtà quanto il fantasma, e che ogni realtà può benissimo essere un fantasma e viceversa. Vi par poco? Nei panni del signor prefetto, io darei senz'altro, per la salute dell'anima degli abitanti di Valdana, lo sfratto alla signora Frola e al signor Ponza, suo genero.
Ma procediamo con ordine.
Questo signor Ponza arrivò a Valdana or sono tre mesi, segretario di prefettura. Prese alloggio nel casolare nuovo all'uscita del paese, quello che chiamano "il Favo". Lì. All'ultimo piano, un quartierino. Tre finestre che danno sulla campagna, alte, tristi (ché la facciata di là, all'aria di tramontana, su tutti quegli orti pallidi, chi sa perché, benché nuova, s'è tanto intristita) e tre finestre interne, di qua, sul cortile, ove gira la ringhiera del ballatojo diviso da tramezzi a grate. Pendono da quella ringhiera, lassù lassù, tanti panierini pronti a esser calati col cordino a un bisogno.
Nello stesso tempo, però, con maraviglia di tutti, il signor Ponza fissò nel centro della città, e propriamente in Via dei Santi n. 15, un altro quartierino mobigliato di tre camere e cucina. Disse che doveva servire per la suocera, signora Frola. E difatti questa arrivò cinque o sei giorni dopo; e il signor Ponza si recò ad accoglierla, lui solo, alla stazione e la condusse e la lasciò lì, sola.
Ora, via, si capisce che una figliuola, maritandosi, lasci la casa della madre per andare a convivere col marito, anche in un'altra città; ma che questa madre poi, non reggendo a star lontana dalla figliuola, lasci il suo paese, la sua casa, e la segua, e che nella città dove tanto la figliuola quanto lei sono forestiere vada ad abitare in una casa a parte, questo non si capisce più facilmente; o si deve ammettere tra suocera e genero una così forte incompatibilità da rendere proprio impossibile la convivenza, anche in queste condizioni.
Naturalmente a Valdana dapprima si pensò così. E certo chi scapitò[19] per questo nell'opinione di tutti fu il signor Ponza. Della signora Frola, se qualcuno ammise che forse doveva averci anche lei un po' di colpa, o per scarso compatimento o per qualche caparbietà o intolleranza, tutti considerarono l'amore materno che la traeva appresso alla figliuola, purcondannata a non poterle vivere accanto.
Gran parte ebbe in questa considerazione per la signora Frola e nel concetto che subito del signor Ponza s'impresse nell'animo di tutti, che fosse cioè duro, anzi crudele, anche l'aspetto dei due, bisogna dirlo. Tozzo, senza collo, nero come un africano, con folti capelli ispidi su la fronte bassa, dense e aspre sopracciglia giunte, grossi mustacchi[20] lucidi da questurino, e negli occhi cupi, fissi, quasi senza bianco, un'intensità violenta, esasperata, a stento contenuta, non si sa se di doglia tetra o di dispetto della vista altrui, il signor Ponza non è fatto certamente per conciliarsi la simpatia o la confidenza. Vecchina gracile, pallida, è invece la signora Frola, dai lineamenti fini, nobilissimi, e una aria malinconica, ma d'una malinconia senza peso, vaga e gentile, che non esclude l'affabilità con tutti.
Ora di questa affabilità, naturalissima in lei, la signora Frola ha dato subito prova in città, e subito per essa nell'animo di tutti è cresciuta l'avversione per il signor Ponza; giacché chiaramente è apparsa a ognuno l'indole di lei, non solo mite, remissiva, tollerante, ma anche piena d'indulgente compatimento per il male che il genero le fa; e anche perché s'è venuto a sapere che non basta al signor Ponza relegare in una casa a parte quella povera madre, ma spinge la crudeltà fino a vietarle anche la vista della figliuola.
Se non che, non crudeltà, protesta subito nelle sue visite alle signore di Valdana la signora Frola, ponendo le manine avanti, veramente afflitta che si possa pensare questo di suo genero. E s'affretta a decantarne tutte le virtù, a dirne tutto il bene possibile e immaginabile; quale amore, quante cure, quali attenzioni egli abbia per la figliuola, non solo, ma anche per lei, sì, sì, anche per lei; premuroso, disinteressato...
Ah, non crudele, no, per carità! C'è solo questo: che vuole tutta, tutta per sé la mogliettina, il signor Ponza, fino al punto che anche l'amore, che questa deve avere (e l'ammette, come no?) per la sua mamma, vuole che le arrivi non direttamente, ma attraverso lui, per mezzo di lui, ecco. Sì, può parere crudeltà, questa, ma non lo è; è un'altra cosa, un'altra cosa ch'ella, la signora Frola, intende benissimo e si strugge di non sapere esprimere. Natura, ecco... ma no, forse una specie di malattia... come dire? Mio Dio, basta guardarlo negli occhi. Fanno in prima una brutta impressione, forse, quegli occhi; ma dicono tutto a chi, come lei, sappia leggere in essi: la pienezza chiusa, dicono, di tutto un mondo d'amore in lui, nel quale la moglie deve vivere senza mai uscirne minimamente, e nel quale nessun altro, neppure la madre, deve entrare. Gelosia? Sì, forse; ma a voler definire volgarmente questa totalità esclusiva d'amore.
Egoismo? Ma un egoismo che si dà tutto, come un mondo, alla propria donna! Egoismo, in fondo, sarebbe quello di lei a voler forzare questo mondo chiuso d'amore, a volervisi introdurre per forza, quand'ella sa che la figliuola è felice, così adorata... Questo a una madre può bastare! Del resto, non è mica vero ch'ella non la veda, la sua figliuola. Due o tre volte al giorno la vede: entra nel cortile della casa; suona il campanello e subito la sua figliuola s'affaccia di lassù.
- Come stai Tildina?
- Benissimo, mamma. Tu?
- Come Dio vuole, figliuola mia. Giù, giù il panierino!
E nel panierino, sempre due parole di lettera, con le notizie della giornata. Ecco, le basta questo. Dura ormai da quattr'anni questa vita, e ci s'è abituata la signora Frola. Rassegnata, sì. E quasi non ne soffre più.
 
Com'è facile intendere, questa rassegnazione della signora Frola, quest'abitudine ch'ella dice d'aver fatto al suo martirio, ridondano[21] a carico del signor Ponza, suo genero, tanto più, quanto più ella col suo lungo discorso si affanna a scusarlo.
Con vera indignazione perciò, e anche dirò con paura, le signore di Valdana che hanno ricevuto la prima visita della signora Frola, accolgono il giorno dopo l'annunzio di un'altra visita inattesa, del signor Ponza, che le prega di concedergli due soli minuti d'udienza, per una "doverosa dichiarazione", se non reca loro incomodo.
Affocato in volto, quasi congestionato, con gli occhi più duri e più tetri che mai, un fazzoletto in mano che stride per la sua bianchezza, insieme coi polsini e il colletto della camicia, sul nero della carnagione, del pelame e del vestito, il signor Ponza, asciugandosi di continuo il sudore che gli sgocciola dalla fronte bassa e dalle gote raschiose e violacee, non già per il caldo, ma per la violenza evidentissima dello sforzo che fa su se stesso e per cui anche le grosse mani dalle unghie lunghe gli tremano; in questo e in quel salotto, davanti a quelle signore che lo mirano quasi atterrite, domanda prima se la signora Frola, sua suocera, è stata a visita da loro il giorno avanti; poi, con pena, con sforzo, con agitazione di punto in punto crescenti, se ella ha parlato loro della figliuola e se ha detto che egli le vieta assolutamente di vederla e di salire in casa sua.
Le signore, nel vederlo così agitato, com'è facile immaginare, s'affrettano a rispondergli che la signora Frola, sì, è vero, ha detto loro di quella proibizione di vedere la figlia, ma anche tutto il bene possibile e immaginabile di lui, fino a scusarlo, non solo, ma anche a non dargli nessun'ombra di colpa per quella proibizione stessa.
Se non che, invece di quietarsi, a questa risposta delle signore, il signor Ponza si agita di più; gli occhi gli diventano più duri, più fissi, più tetri; le grosse gocce di sudore più spesse; e alla fine, facendo uno sforzo ancor più violento su se stesso, viene alla sua "dichiarazione doverosa".
La quale è questa, semplicemente: che la signora Frola, poveretta, non pare, ma è pazza. Pazza da quattro anni, sì. E la sua pazzia consiste appunto nel credere che egli non voglia farle vedere la figliuola. Quale figliuola? E' morta, è morta da quattro anni la figliuola: e la signora Frola, appunto per il dolore di questa morte, è impazzita: per fortuna, impazzita, sì, giacché la pazzia è stata per lei lo scampo dal suo disperato dolore. Naturalmente non poteva scamparne, se non così, cioè credendo che non sia vero che la sua figliuola è morta e che sia lui, invece, suo genero, che non vuole più fargliela vedere.
Per puro dovere di carità verso un'infelice, egli, il signor Ponza, seconda da quattro anni, a costo di molti e gravi sacrifici, questa pietosa follia: tiene, con dispendio superiore alle sue forze, due case: una per sé, una per lei; e obbliga la sua seconda moglie, che per fortuna caritatevolmente si presta volentieri, a secondare anche lei questa follia. Ma carità, dovere, ecco, fino a un certo punto: anche per la sua qualità di pubblico funzionario, il signor Ponza non può permettere che si creda di lui, in città, questa cosa crudele e inverosimile: ch'egli cioè, per gelosia o per altro, vieti a una povera madre di vedere la propria figliuola.
Dichiarato questo, il signor Ponza s'inchina innanzi allo sbalordimento delle signore, e va via. Ma questo sbalordimento delle signore non ha neppure il tempo di scemare[22] un po', che rieccoti la signora Frola con la sua aria dolce di vaga malinconia a domandare scusa se, per causa sua, le buone signore si sono prese qualche spavento per la visita del signor Ponza, suo genero.
E la signora Frola, con la maggior semplicità e naturalezza del mondo, dichiara a sua volta, ma in gran confidenza, per carità! poiché il signor Ponza è un pubblico funzionario, e appunto per questo ella la prima volta s'è astenuta dal dirlo, ma sì, perché questo potrebbe seriamente pregiudicarlo nella carriera; il signor Ponza, poveretto - ottimo, ottimo inappuntabile segretario alla prefettura, compìto, preciso in tutti i suoi atti, in tutti i suoi pensieri, pieno di tante buone qualità - il signor Ponza, poveretto, su quest'unico punto non... non ragiona più, ecco; il pazzo è lui, poveretto; e la sua pazzia consiste appunto in questo: nel credere che sua moglie sia morta da quattro anni e nell'andar dicendo che la pazza è lei, la signora Frola che crede ancora viva la figliuola. No, non lo fa per contestare in certo qual modo innanzi agli altri quella sua gelosia quasi maniaca e quella crudele proibizione a lei di vedere la figliuola, no; crede, crede sul serio il poveretto che sua moglie sia morta e che questa che ha con sé sia una seconda moglie. Caso pietosissimo! Perché veramente col suo troppo amore quest'uomo rischiò in prima di distruggere, d'uccidere la giovane moglietta delicatina, tanto che si dovette sottrargliela di nascosto e chiuderla a insaputa di lui in una casa di salute. Ebbene, il povero uomo, a cui già per quella frenesia d'amore s'era anche gravemente alterato il cervello, ne impazzì; credette che la moglie fosse morta davvero: equesta idea gli si fissò talmente nel cervello, che non ci fu più verso di levargliela, neppure quando, ritornata dopo circa un anno florida come prima, la moglietta gli fu ripresentata. La credette un'altra; tanto che si dovette con l'ajuto di tutti, parenti e amici, simulare un secondo matrimonio, che gli ha ridato pienamente l'equilibrio delle facoltà mentali.
Ora la signora Frola crede d'aver qualche ragione di sospettare che da un pezzo suo genero sia del tutto rientrato in sé e ch'egli finga, finga soltanto di credere che sua moglie sia una seconda moglie, per tenersela così tutta per sé, senza contatto con nessuno, perché forse tuttavia di tanto in tanto gli balena la paura che di nuovo gli possa esser sottratta nascostamente. Ma sì. Come spiegare, se no, tutte le cure, le premure che ha per lei, sua suocera, se veramente egli crede che è una seconda moglie quella che ha con sé? Non dovrebbe sentire l'obbligo di tanti riguardi per una che, di fatto, non sarebbe più sua suocera, è vero? Questo, si badi, la signora Frola lo dice, non per dimostrare ancor meglio che il pazzo è lui; ma per provare anche a se stessa che il suo sospetto è fondato.
- E intanto, - conclude con un sospiro che su le labbra le s'atteggia in un dolce mestissimo sorriso, - intanto la povera figliuola mia deve fingere di non esser lei, ma un'altra, e anch'io sono obbligata a fingermi pazza credendo che la mia figliuola sia ancora viva. Mi costa poco, grazie a Dio, perché è là, la mia figliuola, sana e piena di vita; la vedo, le parlo; ma sono condannata a non poter convivere con lei, e anche a vederla e a parlarle da lontano, perché egli possa credere, o fingere di credere che la mia figliuola, Dio liberi, è morta e che questa che ha con sé è una seconda moglie. Ma torno a dire, che importa se con questo siamo riusciti a ridare la pace a tutti e due? So che la mia figliuola è adorata, contenta; la vedo; le parlo; e mi rassegno per amore di lei e di lui a vivere così e a passare anche per pazza, signora mia, pazienza... Dico, non vi sembra che a Valdana ci sia proprio da restare a bocca aperta, a guardarci tutti negli occhi, come insensati? A chi credere dei due? Chi è il pazzo? Dov'è la realtà? dove il fantasma?
Lo potrebbe dire la moglie del signor Ponza. Ma non c'è da fidarsi se, davanti a lui, costei dice d'esser seconda moglie; come non c'è da fidarsi se, davanti alla signora Frola, conferma d'esserne la figliuola. Si dovrebbe prenderla a parte e farle dire a quattr'occhi la verità. Non è possibile. Il signor Ponza - sia o no lui il pazzo - è realmente gelosissimo e non lascia vedere la moglie a nessuno. La tiene lassù, come in prigione, sotto chiave; e questo fatto è senza dubbio in favore della signora Frola; ma il signor Ponza dice che è costretto a far così, e che sua moglie stessa anzi glielo impone, per paura che la signora Frola non le entri in casa all'improvviso. Può essere una scusa. Sta anche di fatto che il signor Ponza non tiene neanche una serva in casa. Dice che lo fa per risparmio, obbligato com'è a pagar l'affitto di due case; e sisobbarca intanto a farsi da sé la spesa giornaliera, e la moglie, che a suo dire non è la figlia della signora Frola, si sobbarca anche lei per pietà di questa, cioè d'una povera vecchia che fu suocera di suo marito, a badare a tutte le faccende di casa, anche alle più umili, privandosi dell'ajuto di una serva. Sembra a tutti un po' troppo. Ma è anche vero che questo stato di cose, se non con la pietà, può spiegarsi con la gelosia di lui.
Intanto, il signor Prefetto di Valdana s'è contentato della dichiarazione del signor Ponza. Ma certo l'aspetto e in gran parte la condotta di costui non depongono in suo favore, almeno per le signore di Valdana più propense tutte quante a prestar fede alla signora Frola. Questa, difatti, viene premurosa a mostrar loro le letterine affettuose che le cala giù col panierino la figliuola, e anche tant'altri privati documenti, a cui però il signor Ponza toglie ogni credito, dicendo che le sono stati rilasciati per confortare il pietoso inganno.
Certo è questo, a ogni modo: che dimostrano tutt'e due, l'uno per l'altra, un meraviglioso spirito di sacrifizio, commoventissimo; e che ciascuno ha per la presunta pazzia dell'altro la considerazione più squisitamente pietosa. Ragionano tutt'e due a meraviglia; tanto che a Valdana non sarebbe mai venuto in mente a nessuno di dire che l'uno dei due era pazzo, se non l'avessero detto loro: il signor Ponza della signora Frola, e la signora Frola del signor Ponza.
La signora Frola va spesso a trovare il genero alla prefettura per aver da lui qualche consiglio, o lo aspetta all'uscita per farsi accompagnare in qualche compera: e spessissimo, dal canto suo, nelle ore libere e ogni sera il signor Ponza va a trovare la signora Frola nel quartierino mobigliato; e ogni qual volta per caso l'uno s'imbatte nell'altra per via, subito con la massima cordialità si mettono insieme; egli le dà la destra e, se stanca, le porge il braccio, e vanno così, insieme, tra il dispetto aggrondato e lo stupore e la costernazione della gente che li studia, li squadra, li spia e, niente!, non riesce ancora in nessun modo a comprendere quale sia il pazzo dei due, dove sia il fantasma, dove la realtà.

Il viaggio

da Novelle per un anno di Luigi Pirandello
Adriana Braggi è una donna di tren­tacinque anni, che vive in Sicilia nel­la prima metà del Novecento. Sposatasi a diciotto anni, è rimasta ve­dova dopo quattro anni di matrimo­nio e da allora vive in una sorta di clausura con i due figli nella casa di famiglia, in una cittadina dell’interno dell’isola. Secondo le usanze, esce pochissimo, solo accompa­gnata, e segue con rassegnata dedizione la crescita dei figli e i lavori dei domestici nel palazzo. Con lei vive l’anziana madre e Cesare Braggi, il fratello maggiore del marito, ancora scapolo. L’uomo, dopo la morte del fratello, ha provveduto al mantenimento dell’intera famiglia. Morta la madre e divenuti adolescenti i due figli, Adriana, nonostante la giovane età, si sente vec­chia e stanca.
L’angoscia e l’oppressione si acutizzano in concomitanza di alcuni malesseri che preoccupano il suo medico curante; quest’ultimo le consiglia di recarsi a Palermo per consultare uno specialista.
L’i­dea di un viaggio verso la città, e forse verso altre mete, la anima di un fervore e di un’ansia febbrili, quasi infantili. Cesare Braggi la accompagna e tra i due si accende un’improvvisa, tumultuosa passione. Amareggiata dal fatto di non poter dare una forma conven­zionale a questa unione, e di non poter quindi ritorna­re a casa, la donna, giunta dopo un lungo itinerario a Milano, si suicida.
Adriana è sul treno diretto a Palermo; arrivata in città, viene visitata da un illustre medico e dopo qualche giorno parte, sempre in compagnia del cognato, alla volta di Napoli.
Andava in treno per la prima volta. A ogni tratto, a ogni giro di ruota, aveva l’im­pressione di penetrare, d’avanzarsi in un mondo ignoto, che d’improvviso le si crea­va nello spirito con apparenze che, per quanto le fossero vicine, pur le sembravano come lontane e le davano, insieme col piacere della loro vista, anche un senso di pena sottilissima e indefinibile: la pena ch’esse fossero sempre esistite oltre e fuori dell’esistenza e anche dell’immaginazione di lei; la pena d’essere tra loro estranea e di pas­saggio, e ch’esse senza di lei avrebbero seguitato a vivere per sé con le loro proprie vicende.
Ecco lì le umili case di un villaggio: tetti e finestre e porte e scale e strade: la gente che vi dimorava era, come per tanti anni era stata lei nella sua cittaduzza, chiusa lì in quel punto di terra, con le sue abitudini e le sue occupazioni: oltre a quello che gli occhi arrivavano a vedere, non esisteva più nulla per quella gente; il mondo era un sogno: tanti e tanti lì nascevano e lì crescevano e morivano, senza aver visto nulla di quel che ora andava a veder lei inquel suo viaggio[23], che era così poco a petto della grandezza del mondo, e che tuttavia a lei sembrava già tanto.
Nel volgere gli occhi, incontrava a quando a quando lo sguardo e il sorriso del cognato, che le domandava:
«Come ti senti?».
Gli rispondeva con un cenno del capo:
«Bene».
Più d’una volta il cognato venne a sederlesi accanto per mostrarle e nominarle un paese lontano, ov’era stato, e quel monte là dal profilo minaccioso, tutti gli aspetti di maggior rilievo che si figurava dovessero più vivamente richiamare l’attenzione di lei.
Non intendeva che tutte le cose, anche le minime, quelle che per lui erano le più comuni, destavano intanto in lei un tumulto di sensazioni nuove; e che le indicazio­ni, le notizie ch’egli le dava, anziché accrescere, diminuivano e raffreddavano quella fervida, fluttuante immagine di grandezza, ch’ella, smarrita, con quel sentimento di pena indefinibile, si creava alla vista di tanto mondo ignoto.
Nel tumulto interno delle sensazioni, inoltre, la voce di lui, anziché far luce, le cagionava quasi un arresto buio e violento, pieno di fremiti pungenti; e allora quel sentimento di pena si faceva più acuto in lei, più distinto. Si vedeva meschina nella sua ignoranza; e avvertiva un oscuro e quasi ostile rincrescimento della vista di tutte quelle cose che ora, troppo tardi per lei, all’improvviso, le riempivano gli occhi e le entravano nell’anima.
A Palermo, scendendo il giorno dopo dalla casa del clinico primario dopo la lun­ghissima visita, comprese bene dallo sforzo che faceva il cognato per nascondere la profonda costernazione, dalla premura affettata[24] con cui ancora una volta aveva vo­luto farsi insegnare il modo di usare la medicina prescritta e dall’aria con cui il me­dico gli aveva risposto; comprese bene che questi aveva dato su lei sentenza di morte, e che quella mistura di veleni da prendere a gocce con molta precauzione, due volte al giorno prima dei pasti, non era altro che un inganno pietoso o il viatico[25] di una lenta agonia.
Eppure, appena, ancora un po’ stordita e disgustata dal diffuso odore dell’etere[26] nella casa del medico, uscì dall’ombra della scala sulla via, nell’abbagliamento del sole al tramonto, sotto un ciclo tutto di fiamma che dalla parte della marina lanciava come un immenso nembo sfolgorante sul Corso lunghissimo; e vide tra le vetture entro quel baglior d’oro il brulichio della folla rumorosa, dai volti e dagli abiti acce­si da riflessi purpurei, i guizzi di luce, gli sprazzi colorati[27], quasi di pietre preziose, delle vetrine, delle insegne, degli specchi delle botteghe; la vita, la vita, la vita soltan­to si sentì irrompere in subbuglio nell’anima per tutti i sensi commossi ed esaltati quasi per un’ebbrezza divina; né potè avere alcuna angustia, neppure un fuggevole pensiero per la morte prossima e inevitabile, per la morte ch’era pure già dentro di lei, appiattata là, sotto la scapola sinistra, dove più acute a tratti sentiva le punture. No, no, la vita, la vita! E quel subbuglio interno che le sconvolgeva lo spirito, le face­va impeto intanto alla gola, ove non sapeva che cosa, quasi un’antica pena sommos­sa dal fondo del suo essere le si era a un tratto ingorgata, ed ecco la forzava alle lagri­me, pur fra tanta gioia.
«Niente... niente...» disse al cognato, con un sorriso che le s’illuminò vividissimo negli occhi attraverso le lagrime. «Mi par d’essere... non so... Andiamo, andiamo...»
«All’albergo?»
«No... no...»
«Andiamo allora a cenare allo "Chalet" a mare, al Foro Italico; ti piace?»
«Sì, dove vuoi.»
«Benissimo. Andiamo! Poi vedremo il passeggio al Foro; sentiremo la musica...» Montarono in vettura e andarono incontro a quel nembo sfolgorante, che acce­cava.
Ah, che serata fu quella per lei, nello «Chalet» a mare, sotto la luna, alla vista di quel Foro illuminato, corso da un continuo fragore di vetture scintillanti, tra l’odore delle alghe che veniva dal mare, il profumo delle zagare[28] che veniva dai giardini! Smarrita come in un incanto sovrumano, a cui una certa angoscia le impediva di abbandonarsi interamente, l’angoscia destata dal dubbio che non fosse vero quanto vedeva, si senti va lontana, lontana anche da se stessa, senza memoria né coscienza né pensiero, in una infinita lontananza di sogno.
L’impressione di questa lontananza infinita la riebbe più intensa la mattina se­guente, percorrendo in vettura gli sterminati viali deserti del parco della Favorita, per­ché, a un certo punto, con un lunghissimo sospiro potè quasi rivenire a sé da quella lontananza e misurarla, pur senza rompere l’incanto né turbare l’ebbrezza di quel so­gno nel sole, tra quelle piante che parevano assorte anch’esse in un sogno senza fine.
E, senza volerlo, si voltò a guardare il cognato, e gli sorrise, per gratitudine.
Subito però quel sorriso le destò una viva e profonda tenerezza per sé condanna­ta a morire, ora, ora che le si schiudevano davanti agli occhi stupiti tante bellezze meravigliose, una vita, quale anche per lei avrebbe potuto essere, qual era per tante creature che lì vivevano. E sentì che forse èra stata una crudeltà farla viaggiare.
Ma poco dopo, quando la vettura finalmente si fermò in fondo a un viale remoto, ed ella, sorretta da lui, ne scese per vedere da vicino la fontana d’Ercole; lì, davanti a quella fontana, sotto il cobalto del cielo[29] così intenso che quasi pareva nero attorno alla fulgida statua marmorea del semidio su l’alta colonna sorgente in mezzo all’am­pia conca, chinandosi a guardare l’acqua vitrea, su cui nuotava qualche foglia, qualche cuora verdastra[30] che riflettevano l’ombra sul fondo; e poi, a ogni lieve ondulìo di quell’acqua, vedendo vaporare come una nebbiolina sul volto impassibile delle sfin­gi che guardano la conca, quasi un’ombra di pensiero si sentì anche lei passare sul volto che come un alito fresco veniva da quell’acqua; e subito a quel soffio un gran silenzio di stupore le allargò smisuratamente lo spirito; e, come se un lume d’altri cieli[31] le si accendesse improvviso in quel vuoto incommensurabile, ella sentì d’attin­gere in quel punto quasi l’eternità, d’acquistare una lucida, sconfinata coscienza di tutto, dell’infinito che si nasconde nella profondità dell’anima misteriosa, e d’aver vissuto, e che le poteva bastare, perché era stata in un attimo, in quell’attimo, eterna.
Propose al cognato di ripartire quello stesso giorno. Voleva ritornarsene a casa, per lasciarlo libero, dopo quei quattro giorni sottratti alle sue vacanze. Un altro giorno egli avrebbe perduto per riaccompagnarla; poi poteva riprendere la via, la sua corsa an­nuale per paesi più lontani, oltre quell’infinito mare turchino. Senza timore poteva, che di sicuro lei non sarebbe morta così presto, in quel mese delle sue vacanze.
Non gli disse tutto questo; lo pensò soltanto; e lo pregò che fosse contento di ricondurla al paese.
«Ma no, perché?» le rispose egli. «Ormai ci siamo; tu verrai con me a Napoli. Con­sulteremo là, per maggior sicurezza, qualche altro medico.»
«No, no, per carità, Cesare! Lasciami ritornare a casa. È inutile!»
«Perché? Nient’affatto. Sarà meglio. Per maggior sicurezza.»
«Non basta quello che abbiamo saputo qua? Non ho nulla; mi sento bene, vedi? Farò la cura. Basterà.»
Egli la guardò serio e disse:
«Adriana, desidero così».
E allora ella non potè più replicare: vide in sé la donna del suo paese che non deve mai replicare a ciò che l’uomo stima giusto e conveniente; pensò che egli volesse per sé la soddisfazione di non essersi contentato d’un solo consulto, la soddisfazione che gli altri, là in paese, domani, alla morte di lei, potessero dire: «Egli fece di tutto per sal­varla; la portò a Palermo, anche a Napoli...». O forse era in lui veramente la speranza che un altro medico di più lontano, più bravo, riconoscesse curabile il male, scoprisse un rimedio per salvarla? O forse... ma sì, questo era da credere piuttosto: sapendola irremissibilmente perduta, egli voleva, poiché si trovava in viaggio con lei, procurarle quell’ultimo e straordinario svago, come un tenue compenso alla crudeltà della sorte.
Ma ella aveva orrore, ecco, orrore di tutto quel mare da attraversare. Solo a guar­darlo, con questo pensiero, si sentiva mozzare il fiato, quasi avesse dovuto attraver­sarlo a nuoto.
«Ma no, vedrai», la rassicurò egli, sorridendo. «Non avvertirai neppure d’esserci, di questa stagione. Vedi com’è tranquillo? E poi vedrai il piroscafo... Non sentirai nulla.»
Poteva ella confessargli l’oscuro presentimento che la angosciava alla vista di quel mare, che cioè, se fosse partita, se si fosse staccata dalle sponde dell’isola che già le parevano tanto lontane dal suo paesello e così nuove; in cui già tanta agitazione, e così strana, aveva provato; se con lui si fosse avventurata ancor più lontano, con lui sperduta nella tremenda, misteriosa lontananza di quel mare, non sarebbe più ritor­nata alla sua casa, non avrebbe più rivalicato quelle acque, se non forse morta? No, neanche a se stessa poteva confessarlo questo presentimento; e credeva anche lei a quell’orrore del mare, per il solo fatto che prima non lo aveva mai neppur veduto dalontano; e, doverci ora andar sopra[32]...
S’imbarcarono quella sera stessa per Napoli. Di nuovo, appena il piroscafo si mosse dalla rada[33] e uscì dal porto, passato lo stor­dimento per il trambusto e il rimescolio di tanta gente che saliva e scendeva per il pontile, vociando, e lo stridore delle gru su le stive; vedendo a grado a grado allontanarsi è rimpiccolirsi ogni cosa, la gente su lo scalo, che seguitava ad agitare in salu­to i fazzoletti, la rada, le case, finché tutta la città non si confuse in una striscia bian­ca, vaporosa, qua e là trapunta da pallidi lumi sotto la chiostra ampia dei monti[34] grigi rossigni; di nuovo si sentì smarrire nel sogno, in un altro sogno meraviglioso, che le faceva però sgranare gli occhi di sgomento, quanto più, su quel piroscafo, pur gran­de, sì, ma forse fragile se vibrava tutto così ai cupi tonfi cadenzati delle eliche, entra­va nelle due immensità sterminate del mare e del cielo.
Egli sorrise di quello sgomento e, invitandola ad alzarsi e passandole con una inti­mità che finora non s’era mai permessa un braccio sotto il braccio, per sorreggerla, la condusse a vedere di là, su la coperta stessa, i lucidi possenti stantuffi d’acciaio[35] che movevano quelle eliche. Ma ella, già turbata di quel contatto insolito, non potè resistere a quella vista e più al fiato caldo, al tanfo grasso[36] che vaporavano di là, e fu per mancare e reclinò e quasi appoggiò il capo su la spalla di lui. Si contenne subito, quasi atterrita di quella voglia istintiva d’abbandono a cui stava per cedere.
E di nuovo egli, con maggior premura, le chiese:
«Ti senti male?».
Col capo, non trovando la voce, gli rispose di no. E andarono tutti e due, così a braccio, verso la poppa, a guardar la lunga scia fervida fosforescente sul mare già dive­nuto nero sotto il cielo polverato di stelle, in cui il tubo enorme della ciminiera esa­lava con continuo sbocco il fumo denso e lento, quasi arroventato dal calore della macchina. Finché, a compir l’incanto, non sorse dal mare la luna; dapprima tra i vapori dell’orizzonte come una lugubre maschera di fuoco che spuntasse minaccio­sa a spiare in un silenzio spaventevole quei suoi dominii d’acqua; poi a mano a mano schiarendosi, restringendosi precisa nel suo niveo fulgore[37] che allargò il mare in un argenteo pàlpito senza fine. E allora più che mai Adriana sentì crescersi dentro l’an­goscia e lo sgomento di quella delizia che la rapiva e la traeva irresistibilmente a nascondere, esausta, la faccia sul petto di lui.
Fu a Napoli, in un attimo, nell’uscire da un caffè-concerto, ove avevano cenato e passato la sera. Solito egli, nei suoi viaggi annuali, a uscire di notte da quei ritrovi con una donna sotto il braccio, nel porgerlo ora a lei, colse all’improvviso sotto il gran cappello nero piumato il guizzo d’uno sguardo acceso, e subito, quasi senza volerlo, diede col braccio al braccio di lei una stretta rapida e forte contro il suo petto. Fu tutto. L’incendio divampò.
Là, al buio, nella vettura che li riconduceva all’albergo, allacciati, con la bocca su la bocca insaziabilmente, si dissero tutto, in pochi momenti, tutto quello che egli or ora, in un attimo, in un lampo, al guizzo di quello sguardo aveva indovinato: tutta la vita di lei in tanti anni di silenzio e di martirio. Ella gli disse come sempre, sempre, senza volerlo, senza saperlo, lo avesse amato; e lui quanto da giovinetta la aveva desi­derata, nel sogno di farla sua, così, sua! sua!
Fu un delirio, una frenesia, a cui diedero una violenta lena instancabile la brama di ricompensarsi in quei pochi giorni sotto la condanna mortale di lei, di tutti quegli anni perduti, di soffocato ardore e di nascosta febbre; il bisogno d’accecarsi, di per­dersi, di non vedersi quali finora l’uno per l’altra erano stati per tanti anni, nelle com­poste apparenze oneste, laggiù, nella cittaduzza dai rigidi costumi, per cui quel loro amore, le loro nozze domani sarebbero apparse come un inaudito sacrilegio.
Che nozze? No! Perché lo avrebbe costretto a quell’atto quasi sacrilego per tutti? perché lo avrebbe legato a sé che aveva ormai tanto poco da vivere? No, no: l’amore, quell’amore frenetico e travolgente, in quel viaggio di pochi giorni; viaggio d’amore, senza ritorno; viaggio d’amore verso la morte.


[1] In effetti, anche se i primi due romanzi sembrano avere un’impostazione di natura realistica, essi tuttavia svolgono una tematica tutta intimistica relativa al protagonista. Inoltre non è difficile cogliere nei due personaggi (Alfonso Nitti ed Emilio Brentani) un preciso riferimento non solo esterno, ma soprattutto intimo, con la realtà esistenziale dell’Autore. Uno dei maggiori studiosi dello Svevo, Bruno Maier, individua le tappe di questa ricerca: in “Una vita” la ricerca non dà alcun esito positivo e si risolve in una sorta di “presa d’atto” del “conflitto tragico dell’uomo con la realtà” che può risolversi solo col suicidio (cosa che fa Alfonso Nitti non riuscendo a trovare altro modo per venir fuori dall’angoscia del vivere); in “Senilità” si prospetta invece una specie di sotterfugio per resistere e sopravvivere al conflitto con la realtà: quello di eludere il più possibile i problemi reali del vivere civile e crearsi una finzione della realtà più vicina e che maggiormente ci interessa secondo il nostro capriccio: si tratta, insomma, di una vera e propria “evasione simbolica dalla realtà”; I tre romanzi rappresentano lo svolgimento di una coscienza in crisi con la società e con la cultura tradizionale e nello stesso tempo una ricerca di soluzione al problema esistenziale.
[2] «L’unica età dell’oro - scrisse Pampaloni e ben si addice a Svevo - possibile sulla terra è quella dell’uomo che accetta la sua precarietà e il condizionamento della vita. Tolleranza, autocoscienza e ironia sono le vie possibili, a portata di mano, della salvezza».
[3] Pirandello esordì come verista, ma, fin dall’inizio, il suo verismo fu caricaturale e grottesco, mirante a distruggere la realtà più che a rappresentarla. Pirandello già era riuscito ad equilibrare spinte sperimentali e narratività in un romanzo fondamentale come Il fu Mattia Pascal del 1904. Costantemente estranea al suo mondo poetico fu ogni problematica morale ed attraverso le novelle ed i suoi romanzi definì la sua concezione della vita. Anche nei romanzi si riscontra quel particolare umorismo basato sul sentimento del contrario, che consiste in una contemporanea presenza di rappresentazione e di riflessione, su una disposizione dell’artista a vedere, sotto l’orpello delle verità conclamate la sostanziale precarietà, a scomporre i vari momenti della nostra personalità e coglierne le contraddizioni.
[4] La coscienza di Zeno - Dopo molti anni di silenzio letterario, la pubblicazione di La coscienza di Zeno segna un momento di successo nella vita di Svevo, dominato dall'interesse degli ambienti letterari per questo romanzo che, fin dall'impostazione narrativa, si rivela innovativo e originale rispetto alle forme tradizionali.
Trieste, anni Venti. Il protagonista e io narrante, Zeno Cosini, tipico esponente della ricca borghesia commerciale, individuo abu­lico e incostante, attribuisce alle sigarette la col­pa di tutti i suoi malanni (in realtà immaginari, frutto della nevrosi di cui è vittima). Ha deciso innumerevoli volte di smettere di fumare, ma sen­za mai riuscirci. Come estrema risorsa, ora che già è vecchio, ricorre alla psicoanalisi, affidandosi alle cure del Dottor S.
Per sei mesi, secondo la pre­scrizione dello psicoanalista, egli ricostruisce per scritto la sua esistenza, per favorire il ritorno alla luce della sua coscienza di eventi lontani e significativi che possano spiegare l'origine delle sue manie. Il romanzo consiste in queste rievocazioni volte a mettere a nudo, appunto, la "coscienza", cioè l'interiorità ed ecco quindi Zeno narrare, senza un piano prestabilito, le confessioni, sull'onda della memoria, richiamano la tecnica del "ricordo involontario. Gli episo­di della sua vita che egli ritiene salienti: la morte del padre, con il quale aveva sem­pre vissuto un difficile rapporto fatto di amore, odio e soggezione; il ma­trimonio con la volitiva Augusta, la più brutta delle tre sorelle Malfenti; l'ambigua relazione con l'a­mante Carla, che Zeno si com­piace di proteggere come un padre; l'associazione commer­ciale con il cognato Guido, bell’uomo disinvolto e sicuro di sé, marito di Ada, la sorella Malfenti che Zeno avrebbe voluto sposare; la morte di Guido stesso, suicida per un rovescio finanzia­rio, e il clamoroso sbaglio di Zeno che, intenzionato a partecipare al di lui funerale, sbaglia corteo fune­bre.
Il denominatore comune di tut­ti questi eventi si rivela essere la fondamentale mancanza di volontà, l'inettitudine a vivere del protagonista. Il vizio del fumo è solo uno dei molteplici sintomi di un malessere ben più profondo che è poi la malattia congenita dell'uo­mo moderno, la crisi di un mondo già avviato ver­so la catastrofe della Seconda guerra mondiale.
Alla fine del romanzo, Zeno si dichiara perfettamente guarito; rinnega la fede nella psicoanalisi, affermando che il confine tra stato di «malattia» e stato di «salute» è pressoché inconsistente, poiché la vita moderna è «inquinata alle radici».
La visione finale è apocalittica: l'uomo, da sem­pre costruttore di mortiferi ordigni, finirà per portare la Terra alla catastrofe cosmica; soltanto allora, forse, l'umanità superstite si troverà puri­ficata da malattie e parassiti.
La concezione della vita che Svevo-Zeno esprime nel romanzo si mostra chiaramente nelle scelte stilistiche. La narrazione avviene in prima persona; l'intreccio si svolge senza regola sul filo della memoria, e la rievocazione, anziché portare Zeno alla guarigione, non fa che mettere in evidenza il caso che domina gli eventi della vita, sottolineando quindi la sfiducia nella possibilità dell'uomo di orientarli e dirigerli.
I piani temporali della narrazione si intrecciano, in un'alternanza di presente e passato che riproduce la complessa vita dell'interiorità; interi periodi di vita sono lasciati nell'oscurità, mentre singoli fatti danno luogo a lunghe riflessioni.
Svevo fa largo uso del monologo interiore che riproduce spesso nei suoi periodi un po' contorti il duro lavorio della coscienza che riflette su se stessa.
Ne risulta la figura di un personaggio disgregato, tipico esponente del nuovo eroe della letteratu­ra novecentesca, la cui forza ed eccezionalità non sta più nelle azioni che compie e nel progresso materiale che realizza, ma nella profonda consapevolezza del carattere problematico della vita.
[5] il mio lavoro: la ricostruzione per scritto della pro­pria vita.
[6] a vedersi intero: a vedere chiaramente dentro di sé e quindi a individuare i motivi delle proprie nevrosi.
[7] ‘70: 1870; sono gli anni dell'infanzia di Zeno (ma an­che di Svevo, nato nel 1861).
[8] aquila bicipite: emblema dell'Impero austro-ungarico.
[9] commovermi:  commuovermi.
[10] vado alla poltrona: secondo la tradizionale pratica psicoanalitica, il paziente, per ricordare, deve prima di tutto rilassarsi mettendosi comodo su un lettino o su una poltrona.
[11] fantesca: domestica, persona di servizio.
[12] ridda: danza agitata e scomposta.
[13] ornato: fregio di ornamento.
[14] diritto canonico: il complesso delle leggi della Chie­sa cattolica.
[15] matraccio: recipiente in vetro per analisi ed esperimenti di chimica.
[16] a quelle complicazioni... del suo: cioè agli studi giu­ridici, che (tra le altre questioni) regolano quelle relative alla proprietà.
[17] L'assassino riteneva che sarebbe stato al sicuro in Svizzera. Si capisce che aveva una nozione imperfetta dei trattati d'estradizione. (N.d.A.)
[18] Novelle per un anno – Il genere novellistico fu particolarmente amato da Pirandello, che vi si dedicò costantemente fin dagli inizi della sua produzione letteraria, e si estende su un ampio arco cronologico, dal 1894, anno di pubblicazione della prima parziale raccolta, Amori senza amore, fino quasi alla morte, Una giornata, pubblicata postuma nel 1937.
Lo scrittore avviò fin dal 1922 una nuova grande raccolta in cui voleva comprendere tutte le sue novelle, quelle già edite in precedenti occasioni e quelle inedite che andava scrivendo, dando ai suoi racconti una strutturazione unitaria per un totale di 365 racconti riuniti sotto il titolo complessivo di Novelle per un anno.
Di solito si insiste sulla funzione laboraroriale delle novelle pirandelliane, infatti, questa vastissima produzione per­mise all'autore di approfondire il suo studio sui più disparati aspetti dell'esistenza, attraverso un affollatissimo repertorio di tipi umani, di personaggi implicati e ingarbugliati in una sterminata serie di situazioni in cui gli animi mettono a nudo im­pulsi, sentimenti e reazioni assolutamente im­prevedibili. Per questo, molte novelle furono adattate per la rappresentazione scenica ed i temi che vi si possono cogliere sono quelli costanti della produzione di Pirandello.
Per questa ragione l’impianto delle Novelle per un anno sembra debole, appena un pretesto per raccogliere in un’unità una produzione frammentaria, ma, durante la lettura, il quadro che l’autore vuole proporre si compone: la rappresentazione della figura di ognuno di noi entro il proprio mondo. Un piccolo fatto di cronaca, un amore finito o mai cominciato, un lutto, una cattiva abitudine, tutto esplode nell’apparenza del semplice fatto che è, in realtà, la maschera dell’assurdo che l’autore ci vuole veicolare. La cronaca stessa è assurda perché, perchè è la vita l’assurdo stesso. La globalità delle novelle è lo specchio del tutto: un implacabile e inesorabile frammentarsi.
Il comune denominatore narrativo è il particolare umorismo pirandelliano: mai spensierato, esso scaturisce dal sentimento del contra­rio, cioè dal considerare come gli aspetti ridi­coli e grotteschi di un individuo o di un fatto nascano sempre da un fondo tragico di soffe­renza. Il ridicolo poggia dunque su una base di umana sofferenza ed il tragico comporta a sua volta aspetti ridicoli: nella molteplicità del reale, tragico e comico sono così intimamente e vicendevolmente con­nessi.
Gli individui che le animano si trovano spesso calati in vicende assurde, di­sgregati nella loro personalità, sono sog­getti alla cieca volontà del caso, diventano vittime dì fraintendimenti ed errori, soffrono di laceranti crisi di identità, si muovono in ambienti sempre in bilico tra realismo descrittivo e trasfigurazione simbolica.
Una folla smaniante e gesticolante di uomini di tutte le condizioni sociali, colti negli ambienti più vari, nelle situazioni più strane, più grottesche, più paradossali, sempre segui­ti dallo sguardo dolente e solidale dell'autore, testimoni della profonda crisi dell'uomo contemporaneo, che, privo di valori, si sente la­cerato nell'animo, incapace di dare una risposta agli interrogativi fondamentali dell'esistenza: la solitudine, l’incapacità di dominare le circostanze fondamentali della vita, la difficoltà, se non impossibilità, di entrare in contatto con gli altri, la continua sconfitta, sono motivi che ricorrono costantemente nelle novelle.
Essi si muovono sulla scena a rappresentarci, a immiserirci, cercano di insegnarci ad avere un po’ di compassione nei nostri confronti, e nei confronti degli altri, ci mostrano
·         come la verità del mondo dell’arte si contrapponga all’illusione del nostro mondo;
·         come sia difficile che riescano a comunicare tra loro;
·         quanto l’autore sia solamente uno strumento in mano alla natura, perchè quest’ultima continui la sua opera, perfezionando sempre più le sue creature dando loro quello che per l’uomo sarà sempre solo il miraggio dell’eternità;
·         come mai un uomo potrà avere la sua parte tra i personaggi, mettendoci in guardia: cercare di restare a cavallo tra i due significa perderli entrambi.
Molti temi e motivi che percorrono le novelle pirandelliane, so­no sottesi a tutta la sua opera: la coscienza dell'ingiustizia e della casualità della vita, l'ipocrisia dei rapporti umani, la solitudine dell'individuo derivata dall'impossibilità di comunicare con i propri simili e quindi di comprenderli e di essere compreso, il sentimento di impotenza di fronte alla mancanza di una verità certa e univoca.
Se il tono e la tematica di fondo sono uniformi, esiste, tuttavia, nella raccolta una notevole varietà di soluzioni stilistiche e narrative. Alcune novelle mettono più direttamente in luce la formazione verista di Pirandello, concentrandosi su vicende tratte dal mondo della Sicilia cui già Verga si era ispirato, ma l'intento non è quello di documentare una condizione sociale, o celebrare un modo di vita. Anzi, Pirandello si limita a descrivere vicende grottesche e amaramente umoristiche dalle quali emerge il persistere dell'assurdo in tutti gli ambiti sociali, anche i più umili e poveri. Altre novelle presentano vicende di solitudine, di incomprensione o di pazzia, vista come valvola di sicurezza dal dolore del vivere, ambientate in città, nella dimensione dei piccoli impie­gati o di chi deve ricorrere ad espedienti per trovare i mezzi di sussistenza. Altre sono invece caratterizzate da un notevole sperimentalismo stilistico; l'autore tende in questi casi a scardinare il piano spazio-temporali e ad esprimere la frantumazione dell'uomo anche attraverso le soluzioni narrative.
In tutti questi casi, tuttavia, l'intento di fondo resta costante: la rappresentazione, dolorosa ed amara, di una profonda crisi di valori che interessa i primi decenni del Novecento.
[19] scapitò: ebbe la peggio
[20] mustacchi: baffi folti e lunghi
[21] ridondano: si risolvono.
[22] scemare: ridursi.
[23] in quel suo viag­gio: Adriana rivive nei suoi pensieri le considerazioni di chi si allontana per la pri­ma volta dalla propria casa, dal proprio pic­colo paese.La donna si concentra soprat­tutto sul fatto che il mondo sia sconfina­to e ignoto, procu­randole sensazioni di ansia e di smarri­mento.
[24] premura affettata: il cognato si pro­diga in attenzioni proporzionate alla gravita del male da cui è afflitta la donna, dimostrandole senti­menti di autentico e sincero affetto
[25] s’intende tutto quanto può es­sere d’aiuto, di con­forto e di sollievo per l’ammalata.
[26] l’etere eti­lico è una miscela di composti chimici usata come aneste­tizzante.
[27] l’autore si sof­ferma volutamente nella descrizione di luci, suoni e colori della città con l’inten­to di sottolineare quanto questi con­trastino con l’animo triste e perso della donna.
[28] il fiore dei limoni dal profumo intenso e penetran­te.
[29] cobalto: cielo di un colore az­zurro intenso.
[30] espressione meta­forica collegata alla forma a cuore delle foglie che galleggia­no nella fontana.
[31] lume d’altri cieli: la giornata serena, la cornice suggestiva della fontana d’Ercole accendono nell’a­nimo della donna una nuova luce (lume) di serenità che si so­stituisce a quel sen­so di vuoto senza li­miti che aveva con­trassegnato fino a quel momento la sua esistenza. 
[32] l’imbarco sul piroscafo e il viag­gio in mare, proprio perché costituisco­no un’assoluta no­vità nella vita di Adriana, si accompagna­no a un sentimento vago e confuso di in­quietudine e di turba­mento.
[33] insenatura riparata dal vento e dai marosi, quindi adatta per le attività portuali e la sosta delle imbarcazioni.
[34] chiostra ampia dei monti: disposi­zione a semicerchio dei rilievi alle spalle della città.
[35] stantuffi d’acciaio: organi mecca­nici che si muovono all’interno di cilindri e trasmettono forza motrice al piroscafo.
[36] tanfo grasso: odore assai sgrade­vole dovuto alla com­bustione dei grassi che lubrificano il motore.
[37] lugubre   maschera di fuoco... niveo fulgore: dal ponte della nave Adriana assiste al sorgere della luna che illumina   l’orizzonte di una luce serena. Ancora una vol­ta l’autore pone a confronto due im­magini contrastanti che si adattano perfettamente ai sentimenti ambivalenti della donna: la lugu­bre maschera di fuoco - la luna appena sorta dal caratteristico colore rossastro appare come un oscuro presagio di morte; il niveo fulgore - la luce bianca come la neve della luna, ormai nell’alto del cielo – abbaglia la distesa del mare come un soffio (pàlpito) argenteo tra­smettendo un’im­magine di calma e tranquillità.