Le leggende del castello nero
da
Racconti fantastici di
Igino Ugo Tarchetti
Non so se le memorie che io sto
per scrivere possano avere interesse per altri che per me, - le scrivo ad ogni
modo per me. Esse si riferiscono pressoché tutte ad un avvenimento pieno di
mistero e di terrore, nel quale non sarà possibile a molti rintracciare il filo
di un fatto, o desumere
una
conseguenza, o trovare una ragione qualunque. Io solo il
potrò, io attore e vittima a un tempo.
Incominciato in quell’età in cui
la mente è suscettibile delle allucinazioni più strane e più paurose,
continuato, interrotto e ripreso dopo un intervallo di quasi venti anni,
circondato di tutte le parvenze dei sogni, compiuti, - se così si può dire
d’una cosa che non ebbe principio evidente - in una terra che non era la mia e
alla quale mi avevano attratto delle tradizioni piene di superstizioni e di
tenebre, io non posso considerare questo avvenimento imperscrutabile della mia
vita che come un enigma
insolvibile, come l’ombra di un fatto, come una rivelazione incompleta, ma
eloquente d’un’esistenza trascorsa.
Erano fatti, od erano visioni?
L’uno e l’altro - né l’uno né l’altro forse. Nell’abisso che ha inghiottito il
passato non vi sono più fatti od idee, vi è il passato: i grandi caratteri delle
cose si sono distrutti come le cose, e le idee si sono modificate con esse - la
verità è nell’istante - il passato e l’avvenire sono due tenebre che ci
avviluppano da tutte le parti, e in mezzo alle quali noi trasciniamo,
appoggiandoci al presente che ci accompagna e che viene con noi, come
distaccato dal tempo, il viaggio doloroso della vita.
Ma abbiamo noi avuta una vita
antecedente? Abbiamo previssuto in altro tempo, con altro cuore e sotto un
altro destino, alla esistenza dell’oggi? Vi fu un’epoca nel tempo, nella quale
abbiamo abitato quei luoghi che ora ignoriamo, amato quegli esseri che la morte
ha rapito da anni, vissuto fra quelle persone di cui vediamo oggi le opere, o
cerchiamo la memoria nelle storie o nell’oscurità delle tradizioni? Mistero!
E nondimeno... sì, io ho sentito
spesso qualche cosa che mi parlava d’un’esistenza trascorsa, qualche cosa di
oscuro, di confuso, è vero, ma di lontano, di infinitamente lontano. Vi sono
delle rimembranze nella mia mente che non possono essere contenute in questo
limite angusto della mia vita, per giungere alla cui origine io devo risalire
la curva degli anni, risalire molto lontano… due o tre secoli…
Anche prima d’oggi mi era
avvenuto più volte ne’ miei viaggi di arrestarmi in una campagna e di
esclamare: «Ma io ho veduto già questo sito, io sono già stato qui altre
volte!… questi campi, questa valle, questo orizzonte io li conosco!» E chi non
ha esclamato talora, parendogli di ravvisare in qualche persona delle sembianze
già note: «Quell’uomo l’ho già veduto: dove? quando? chi è egli? non lo so, ma
per fermo noi ci siamo veduti altre volte, noi ci conosciamo!»
Nella mia infanzia vedeva spesso
un vecchio che certo aveva conosciuto fanciullo, da cui certo era stato
conosciuto già vecchio: non ci parlavamo, ma ci guardavamo come persone che
sanno di conoscersi da tempo.
Lungo una via di Poole
,
rasente la spiaggia della Manica, ho trovato un sasso sul quale mi rammento
benissimo di essermi seduto, saranno circa settant’anni, e ricordo che era un
giorno triste e piovoso, e vi aspettava una persona di cui ho dimenticato il
nome e le sembianze, ma che mi era cara.
In una galleria di quadri a Graz
ho
veduto un ritratto di donna che io ho amato, e la riconobbi subito benché ella
fosse allora più giovine, e il ritratto le fosse stato fatto forse vent’anni
dopo la nostra separazione. La tela portava la data del 1647: press’a poco
a
quell’epoca, risale la maggior parte di queste mie memorie.
Vi fu un tempo della mia
fanciullezza durante il quale non poteva ascoltare la cadenza di certe canzoni
che cantano da noi le donne di campagna nelle fattorie, senza sentirmi
trasportare ad un tratto in un’epoca così remota della mia vita, che non avrei
potuto risalirvi anche moltiplicando un gran numero di volte gli anni già vissuti
nell’esistenza presente. Bastava che io ascoltassi quella nota per cadere
sull’istante in uno stato come di paralisi, come di letargia
morale che mi rendeva estraneo a tutto ciò che mi circondava, qualunque fosse
lo stato d’animo in cui essa mi avesse sorpreso. Dopo i venti anni non ho più
riprovato quel fenomeno. Non aveva io più ascoltata quella nota? o la mia
anima, già abbastanza immedesimata colla vita presente, si era resa insensibile
a quel richiamo?
O che la mia natura è inferma, o
che io concepisco in modo diverso dagli altri uomini, o che gli altri uomini
subiscono, senza avvertirle, le medesime sensazioni. Io sento, e non saprei
esprimere in qual guisa
, che
la mia vita - o ciò che noi chiamiamo propriamente con questo nome - non è
incominciata col giorno della mia nascita, non può finire con quello della mia
morte: lo sento colla
stessa energia, colla stessa pienezza di sensazione con cui sento la vita
dell’istante, benché ciò avvenga in modo più oscuro, più strano, più
inesplicabile. E d’altra parte come sentiamo noi di vivere nell’istante? Si
dice, io vivo. Non basta: nel sonno non si ha coscienza dell’esistere - e
nondimeno si vive.
Questa coscienza dell’esistere
può non essere circoscritta esclusivamente negli stretti limiti di ciò che chiamiamo
la vita. Vi possono essere in noi due vite - e sotto forme diverse la credenza
di tutti i popoli e di tutte le epoche - l’una essenziale, continuata,
imperitura forse, l’altra a periodi, a sbalzi più o meno brevi, più o meno
ripetuti: l’una è l’essenza l’altra è la rivelazione, è la forma. Che cosa
muore nel mondo? La vita muore, ma lo spirito, il segreto, la forza della vita
non muore: tutto vive nel mondo.
Ho detto il sonno. E che cosa è
il sonno? Siamo noi ben certi che la vita del sonno non sia una vita a parte,
un’esistenza distaccata dall’esistenza della veglia? Che cosa avviene di noi in
quello stato? Chi lo sa dire? Gli avvenimenti a cui assistiamo o prendiamo
parte nel sogno
non sarebbero essi reali?
Ciò che noi chiamiamo con questo nome non potrebbe essere che una memoria
confusa di quegli avvenimenti?… Pensiero spaventoso e terribile! Noi forse, in
un ordine diverso di cose, partecipiamo a fatti, ad affetti, ad idee di cui non
possiamo conservare la coscienza nella veglia; viviamo in altro mondo e tra
altri esseri che ogni giorno abbandoniamo, che rivediamo ogni giorno.
Ogni sera si muore di una vita,
ogni notte si rinasce d’un’altra. Ma ciò che avviene di queste esistenze
parziali, avviene forse anche di quell’esistenza intera e più definita che le
comprende.
Gli uomini hanno sempre rivolto
lo sguardo all’avvenire, mai al passato; al fine, mai al principio;
all’effetto, mai alla causa; e non di meno quella porzione della vita a cui il
tempo può nulla togliere o aggiungere, quella su cui la nostra mente avrebbe
maggiori diritti a posarsi, e dalla cui investigazione potrebbe attingere le
più grandi compiacenze, e gli ammaestramenti più utili, è quella che è
trascorsa in un passato più o meno remoto. Perocché
noi
abbiamo vissuto, noi viviamo, vivremo.
Vi sono delle lacune tra queste
esistenze, ma saranno riempite. Verrà un’epoca in cui tutto il mistero ci sarà
rivelato; in cui si spiegherà tutto intero ai nostri occhi lo spettacolo di una
vita, le cui fila incominciano nell’eternità e si perdono nell’eternità; nella
quale noi leggeremo, come sopra un libro divino, le opere, i pensieri, le idee
concepite o compiute in un’esistenza trascorsa, o in una serie di esistenze
parziali che abbiamo dimenticate.
Se gli altri uomini serbino o no
questa fede, non so; ma ciò non potrebbe né fortificare, né abbattere il mio
convincimento. Ad ogni modo, ecco il mio racconto.
Nel 1830 io aveva quindici anni,
e conviveva colla famiglia in una grossa borgata del Tirolo, di cui alcuni
riguardi personali mi costringono a sopprimere il nome. Non erano passate più
di tre generazioni dacché i miei antenati erano venuti ad allogarsi
in
quel villaggio: essi vi erano bensì venuti dalla Svizzera, ma la linea retta
della famiglia era oriunda della Germania: le memorie che si conservavano della
sua origine erano sì inesatte e sì oscure, che non mi fu mai dato di poterne
dedurre delle cognizioni ben definite: ad ogni modo, mi preme soltanto di
accertare questo fatto, ed è che il ceppo della mia casa era originario della
Germania.
Eravamo in cinque: mio padre e
mia madre, nati in quel villaggio, vi avevano ricevuto quell’educazione
limitata e modesta che è propria della bassa borghesia. Vi erano bensì delle
tradizioni aristocratiche nella mia famiglia, delle tradizioni che ne facevano
risalire l’origine al vecchio feudalismo sassone; ma la fortuna della nostra
casa si era talmente ristretta che aveva fatto tacere in noi ogni istinto di
ambizione e di orgoglio. Non vi era differenza di sorta tra le abitudini della
mia famiglia e quelle delle famiglie più modeste del popolo; i miei genitori
erano nati e cresciuti tra di esse, la loro vita era tutta una pagina bianca,
né io aveva potuto attingere dalla loro convivenza, né trarre dal loro metodo
di educazione alcuna di quelle idee, di quelle memorie di fanciullezza che
predispongono alla superstizione e al terrore.
L’unico personaggio la cui vita
racchiudeva qualche cosa di misterioso e d’imperscrutabile, e che era venuto ad
aggiungersi, per così dire, alla mia famiglia, era un vecchio zio legato a noi,
dicevasi
, da una comunanza
d’interessi, di cui però non ho potuto decifrarmi in alcun modo le ragioni,
dopo che, e per la morte di lui e per quella di mio padre, io venni in possesso
della fortuna della mia casa.
Egli toccava allora - e parlo di
quell’età a cui risalgono queste mie memorie - i novant’anni. Era una figura
alta e imponente, benché leggermente curvata; aveva tratti di volto maestosi,
marcati, direi quasi plastici; l’andamento fiero quantunque vacillante per
vecchiaia, l’occhio irrequieto e scrutatore, doppiamente vivo su quel viso, di
cui gli anni avevano paralizzata la mobilità e l’espressione.
Giovine ancora, aveva abbracciato
la carriera del sacerdozio, spintovi dalle pressioni insistenti della famiglia;
poi aveva buttata la tonaca e s’era dato al militare; la rivoluzione francese
lo aveva trovato nelle sue file; egli aveva passato quarantadue anni lontano
dalla sua patria, e quando vi ritornò - poiché non aveva rotti i voti contratti
colla Chiesa - riprese l’abito di prete che portò senza macchie e senza
affettazione di pietà fino alla morte.
Lo si sapeva dotato d’indole
pronta benché abitualmente pacata, di volontà indomabile, di mente vasta e
erudita, quantunque s’adoprasse a non parerlo. Capace di grandi passioni e di
grandi ardimenti, lo si teneva in concetto di uomo non comune, di carattere
grande e straordinario. Ciò che contribuiva per altro a circondarlo di questo
prestigio, era il mistero che nascondeva il suo passato, erano alcune dicerie
che si riferivano a mille strani avvenimenti cui volevasi che egli avesse preso
parte - certo egli aveva reso dei grandi servigi alla rivoluzione; quali e con
quale influenza non lo si seppe mai: egli morì a novantasei anni portando seco
nella sua tomba il segreto della sua vita.
Tutti conoscono le abitudini
della vita di villaggio, non mi tratterrò a discorrere di quelle speciali della
mia famiglia. Noi ci radunavamo tutte le sere d’inverno in una vasta sala a
pian terreno, e ci sedevamo in circolo intorno ad uno di quegli ampi camini a
cappa sì antichi e sì comodi, che il gusto moderno ha ora abolito,
sostituendovi le piccole stufe a carbone. Mio zio, che abitava un appartamento
separato nella stessa casa, veniva qualche volta a prender parte alle nostre
riunioni, e ci raccontava alcune avventure de’ suoi viaggi o alcune scene della
rivoluzione che ci riempivano di terrore e di meraviglia. Taceva però sempre di
sé; e richiesto della parte che vi aveva preso, distoglieva la narrazione da
quel soggetto.
Una sera - lo ricordo come fosse ieri
- eravamo riuniti, secondo il solito in quella sala; era d’inverno, ma non vi
era neve; il suolo gelato e imbiancato di brina rifletteva i raggi della luna
in guisa da produrre una luce bianca e viva come quella di un’aurora.
Tutto era silenzio, e non si
udiva che il martellare alternato di qualche goccia che stillava dai
ghiacciuoli
delle gronde. Ad un
tratto un rumore sordo e improvviso di un oggetto gettato nel cortile dal
muricciuolo
di cinta, viene ad
interrompere la nostra conversazione; mio padre si alza, esce e si precipita
fuori della porta che mette sulla via, ma non ode rumore alcuno di passi, né
vede, per tutto quel tratto di strada che si distende d’innanzi a lui, alcuna
persona che si allontani. Allora raccoglie dal suolo un piccolo involto che vi
era stato gettato, e rientra con esso nella sala. Ci raccogliamo tutti intorno
a lui per esaminarlo.
Era, meglio che un involto, un
grosso plico
quadrato in vecchia carta
grigiastra macchiata di ruggine, e cucita lungo gli orli con filo bianco e a
punti esatti e regolari che accusavano l’ufficio di una mano di donna
. La
carta, tagliata qua e là dal filo, e arrossata e consumata sugli orli, indicava
che quel piego
era stato fatto da lungo
tempo.
Mio zio lo ricevette dalle mani
di mio padre, e lo vidi tremare ed impallidire nell’osservarlo. Tagliatane la
carta, ne trasse due vecchi volumi impolverati, e non v’ebbe gettato su gli
occhi, che il suo volto si coperse di un pallore cadaverico, e disse,
dissimulando un senso di dolore e di meraviglia più vivo: «È strano!» E dopo un
breve istante in cui nessuno di noi aveva osato parlare riprese: «È un
manoscritto, sono due volumi di memorie che risalgono alle prime origini della
nostra famiglia, e contengono alcune gloriose tradizioni della nostra casa. Io
ho dato questi due volumi ad un giovine che, quantunque non appartenesse
direttamente alla nostra famiglia, vi era congiunto per certi legami che non
posso ora qui rivelare. Furono il pegno d’una promessa, cui non io, ma il tempo
mi ha impedito di mantenere: sì, il tempo…» aggiunse tra di sé a bassa voce.
«Io lo aveva conosciuto all’Università di * * *, allorché vi studiava teologia:
egli fu ghigliottinato sulla piazza della Greve, e la sua famiglia fu distrutta
dalla rivoluzione, saranno ora quarant’anni… non uno gli sopravvisse… È
strano!…»
E dopo un breve intervallo,
osservando che verso la cucitura dei fogli si era accumulata una polvere
rossastra leggerissima, ci disse, come si fosse risovvenuto di un pericolo:
«Lavatemi le mani.»
«Perché?»
«Nulla...»
Ubbidimmo. Si passò tutta quella
sera in silenzio: mio zio era in preda a tristi pensieri, e si vedeva che egli
si sforzava di evocare o di scacciare delle memorie assai dolorose. Si ritirò
assai presto, si rinchiuse nel suo appartamento, e vi stette due giorni senza
lasciarsi vedere.
In quella sera io mi coricai in
preda a pensieri strani e paurosi di cui non sapeva darmi ragione. Era
preoccupato dall’idea di quell’avvenimento più che non avrei dovuto, più che un
fanciullo della mia età non avrebbe potuto esserlo. Indarno
io
tenterei ora di rendere qui colla parola i sentimenti inesplicabili e singolari
che si agitavano dentro di me in quell’istante. Parevami
che
tra quei volumi e mio zio, e me stesso, corressero dei rapporti che non aveva
avvertito fino allora, delle relazioni misteriose e lontane, di cui non
giungeva a decifrarmi in alcun modo la natura, né a comprendere il fine. Erano,
o mi parevano rimembranze
. Ma
di che cosa? Non lo sapeva. Di che tempo? Remote. Nella mia giovine
intelligenza tutto si era alterato e confuso.
Mi addormentai sotto
l’impressione di quelle idee, e feci questo sogno.
Aveva venticinque anni: nella mia
mente si erano come agglomerate tutte quelle idee, tutte quelle esperienze,
tutti quegli ammaestramenti che il tempo mi avrebbe fatto subire durante gli
anni che segnavano quella differenza tra l’età sognata e l’età reale; ma io
rimaneva nondimeno
estraneo a questo maggiore perfezionamento, benché il
comprendessi. Sentiva in me tutto lo sviluppo intellettuale di quell’età, ma ne
giudicava col senno e cogli apprezzamenti propri de’ miei quindici anni. Vi
erano due individui in me, all’uno apparteneva l’azione, all’altro la coscienza
e l’apprezzamento dell’azione. Era una di quelle contraddizioni, di quelle
bizzarrie, di quelle simultaneità di effetti che non sono proprie che dei
sogni.
Mi trovava in una gran valle
fiancheggiata da due alte montagne: la vegetazione, la coltivazione, la forma e
la disposizione delle capanne, e non so che di diverso, di antico nella luce,
nell’atmosfera, in tutto ciò che mi circondava, mi diceano
ch’io mi trovava colà in un’epoca assai remota dalla mia esistenza attuale -
due o tre secoli almeno. Ma come era ciò avvenuto? Come mi trovava in quelle
campagne? Non lo sapeva. Ciò era bensì naturale nel sogno: vi erano degli
avvenimenti che giustificavano il mio ristarmi in quel luogo, ma non sapeva
quali fossero; non aveva coscienza del loro valore, della loro entità, non
l’aveva che della loro esistenza. Era solo e triste. Camminava per uno scopo determinato,
prefisso, per un fine che mi attraeva in quel luogo, ma che ignorava.
All’estremità della valle
s’innalzava una rupe tagliata a picco, alta, perpendicolare, profonda, solcata
da screpolature dove non germogliava una liana; e sulla sua sommità vi era un
castello che dominava tutta la valle, e quel castello era nero. Le sue torri
munite di balestriere erano gremite di soldati, le porte dei ponti calate, le
altane
stipate d’uomini e di arnesi da difesa; negli appartamenti del castello era
rinchiusa una donna di prodigiosa bellezza, che nella consapevolezza del sogno
io sapeva essere la dama del castello nero, e quella donna era legata a me da
un affetto antico, e io doveva difenderla, sottrarla da quel castello.
Ma giù nella valle a’ piedi della
rupe ove io mi era arrestato
, un
oggetto colpiva dolorosamente la mia attenzione: sui gradini di un monumento
mortuario sedeva un uomo che ne era uscito allora; egli era morto e tuttavia
viveva; presentava un assieme di cose impossibile a dirsi, l’accoppiamento
della morte e della vita, la rigidità, il nulla dell’una temperata dalla
sensitività, dall’essenza dell’altra: le sue pupille che io sapeva essere state
abbacinate
con un chiodo rovente,
erano ancora attraversate da due piccoli fori quadrati che davano al suo
sguardo qualche cosa di terribile e di compassionevole a un tempo.
A quel fatto si legavano delle
memorie di sangue, delle memorie di un delitto a cui io aveva preso parte. Fra
me e lui e la dama del castello correvano dei rapporti inesplicabili. Egli mi
guardava colle sue pupille forate; e col gesto, e con una specie di volontà che
egli non manifestava, ma che io, non so come, leggeva in lui, m’incitava a
liberare la dama.
Una via scavata lateralmente
nella rupe conduceva al castello. Una immensa quantità di proiettili lanciatimi
dai mangani
delle torri m’impedivano
di giungervi. Ma, strana cosa! Tutti quei proiettili enormi mi colpivano, ma
non mi uccidevano - nondimeno mi arrestavano.
Attraverso le mura del castello,
io vedeva la dama correre sola per gli appartamenti coi capelli neri disciolti,
col volto e coll’abito bianchi come la neve, protendendomi le braccia con
espressione di desiderio e di pietà infinita; e io la seguiva collo sguardo
attraverso tutte quelle sale che io conosceva, nelle quali aveva vissuto un
tempo con lei.
Quella vista mi animava
a
correre in suo soccorso, ma non lo poteva, i proiettili lanciatimi dalle torri
me lo impedivano: a ogni svolto del sentiero la grandine diventava più fitta e
più atroce; e quegli svolti erano molti - dopo questo un altro, dopo quello
ancora un altro… io saliva e saliva… la dama mi chiamava dal castello, si
affacciava dalle ampie finestre coi capelli che le piovevano giù dal seno, mi
accennava colla mano di affrettarmi, mi diceva parole piene di dolcezza e di
amore, né io poteva giungere fino a lei - era un’impotenza straziante.
Quanto durasse quella terribile
lotta non so, tutta la durata del sogno, tutto lo spazio della notte...
Finalmente, e non sapeva in che modo, era arrivato alle porte del castello;
esse erano rimaste indifese, i soldati erano spariti: le imposte serrate si
spalancarono da sé cigolando sui cardini irruginiti
, e
nello sfondo nero dell’atrio vidi la dama col suo lungo strascico bianco, e
colle braccia aperte, correre verso di me, attraversando con una rapidità
sorprendente, e rasentando appena lo spazio, la distanza che ci separava.
Essa si gettò tra le mie braccia
coll’abbandono di una cosa morta, colla leggerezza, coll’adesione di un oggetto
aereo, flessibile, soprannaturale. La sua bellezza non era della terra; la sua
voce era dolce, ma debole come l’eco di una nota; la sua pupilla nera e velata
come per pianto recente, attraversava le più ascose
profondità della mia anima senza ferirla, investendola anzi della sua luce come
per effetto di un raggio. Noi passammo alcuni istanti così abbracciati: una
voluttà mai sentita da me né prima né dopo quell’ora, mi ricercava tutte le
fibre.
Per un momento io subii tutta
l’ebbrezza di quell’amplesso senza avvertirla: ma non m’era posato su questo
pensiero, non era appena discesa in me la coscienza di quella voluttà, che
sentii compiersi in lei un’orribile trasformazione. Le sue forme piene e
delicate che sentiva fremere sotto la mia mano, si appianarono, rientrarono in
sé, sparirono; e sotto le mie dita incespicate tra le pieghe che s’erano
formate a un tratto nel suo abito, sentii sporgere qua e là l’ossatura di uno
scheletro...
Alzai gli occhi rabbrividendo e
vidi il suo volto impallidire, affilarsi, scarnarsi, curvarsi sopra la mia bocca;
e colla bocca priva di labbra imprimervi un bacio disperato, secco, lungo,
terribile… Allora un fremito, un brivido di morte scorse per tutte le mie
fibre; tentai svincolarmi dalle sue braccia, respingerla… e nella violenza
dell’atto il mio sonno si ruppe - mi svegliai urlando e piangendo.
Tornai a’ miei quindici anni,
alle mie idee, a’ miei apprezzamenti, alle mie puerilità di fanciullo. Tutto
quel sogno mi pareva assai più strano, assai più incomprensibile che
spaventoso. Quali erano i sentimenti che si erano impossessati di me in quello
stato? Io non aveva ancora conosciuta la voluttà di un bacio, non aveva pensato
ancora all’amore, non poteva darmi ragione delle sensazioni provate in quella
notte. Ciò non ostante era triste, era posseduto da un pensiero irremovibile,
mi pareva che quel sogno non fosse altrimenti un sogno, ma una memoria un’idea
confusa di cose, la rimembranza di un fatto molto remoto dalla mia vita
attuale.
Nella notte seguente ebbi un
altro sogno.
Mi trovava ancora in quel luogo,
ma tutto era cambiato, il cielo, gli alberi, le vie non erano più quelli; i
fianchi della rupe erano intersecati da sentieri coperti di madreselve; nel
castello non rimanevano che poche rovine, e nei cortili deserti e negli
interstizi delle stanze terrene crescevano le cicute e le ortiche.
Passando vicino al monumento che
sorgeva prima nella valle e di cui pure non restavano che alcune pietre, l’uomo
abbacinato che stava ancora seduto sopra un gradino rimasto intatto, mi disse
porgendomi un fazzoletto bruttato di sangue: «Recatelo alla signora del
castello.»
Mi trovai assiso sulle rovine: la
signora del castello era seduta al mio fianco - eravamo soli - non si udiva una
voce, un’eco, uno stormire di fronde nella campagna - essa, afferrandomi le
mani, mi diceva: «Sono venuta tanto da lontano per rivederti, senti il mio
cuore come batte… senti come batte forte il mio cuore!… tocca la mia fronte e
il mio seno: oh! sono assai stanca, ho corso tanto; sono spossata dalla lunga
aspettazione… erano quasi trecento anni che non ti vedeva.»
«Trecento anni!»
«Non ti ricordi? Noi eravamo
assieme in questo castello: ma sono memorie terribili! non le evochiamo.»
«Sarebbe impossibile, io le ho
dimenticate.»
«Li ricorderai dopo la tua
morte.»
«Quando?»
«Assai presto.»
«Quando?»
«Fra venti anni, al venti di
gennaio: i nostri destini, come le nostre vite, non potranno ricongiungersi
prima di quel giorno.»
«Ma allora?»
«Allora saremo felici,
realizzeremo i nostri voti.»
«Quali?»
«Li ricorderai a suo tempo…
ricorderai tutto. La tua espiazione sta per finire tu hai attraversate undici
vite prima di giungere a questa, che è l’ultima. Io ne ho attraversate sette
soltanto, e sono già quarant’anni che ho compiuto il mio pellegrinaggio nel
mondo: tu lo compirai con questa fra venti anni. Ma non posso rimanere più a
lungo con te, è necessario che ci separiamo.»
«Spiegami prima questo enigma.»
«È impossibile… Può avvenire però
che tu lo abbia a comprendere. Ho rinfacciato ieri a lui la sua promessa; te ne
ho restituito il mezzo, quei due volumi, quelle memorie scritte da te, quelle
pagine sì colme di affetto… Le avrai, se quell’uomo che ci fu allora sì fatale
non t’impedirà di averle.»
«Chi?»
«Tuo zio… egli… l’uomo della
valle.»
«Egli? mio zio!»
«Sì, e lo hai tu veduto?»
«Lo vidi, e ti manda per me
questo fazzoletto insanguinato.»
«È il tuo sangue, Arturo,»
diss’ella con trasporto, «sia lodato il cielo! egli ha mantenuto la sua
promessa.» Dicendo queste parole la signora del castello sparve - io mi
svegliai atterrito.
Mio zio stette rinchiuso per due
giorni nel suo appartamento: appena ne fu uscito mi precipitai nelle sue stanze
per impadronirmi di quei volumi, ma non vi trovai che un mucchio di cenere;
egli li aveva dati alle fiamme. Quale non fu però il mio terrore quando nel
rimescolare quelle ceneri vi rinvenni alcuni frammenti che parevano scritti di
mio pugno; e da alcune parole sconnesse che erano rimaste intelligibili
,
potei ricostruire con uno sforzo potente di memoria degli interi periodi che si
riferivano agli avvenimenti accennati oscuramente in quei sogni!
Io non poteva più dubitare della
verità di quelle rivelazioni; e benché non giungessi mai ad evocare tutte le
mie rimembranze per modo da dissipare
le
tenebre che si distendevano su quei fatti, non era più possibile che io potessi
metterne in dubbio l’esistenza. Il castello nero era spesso nominato in quei
frammenti, e quella passione d’amore che pareva legarmi alla signora del
castello, e quel sospetto di delitto che pesava sull’uomo della valle vi erano
in parte accennati. Oltre a ciò, per una combinazione singolare altrettanto che
spaventevole
, la notte in cui aveva
fatto quel sogno era appunto la notte del venti gennaio: mancavano adunque
venti anni esatti alla mia morte.
Dopo quel giorno io non aveva
dimenticato mai quel presagio, ma quantunque non ponessi in dubbio che vi fosse
un fondo di verità in tutto quell’assieme di fatti, era riuscito a persuadermi
che la mia gioventù, la mia sensibilità, la mia immaginazione, avevano
contribuito in gran parte a circondarli del loro prestigio. Mio zio, morto sei
anni dopo, mentre io era assente dalla famiglia, non aveva fatto alcuna
rivelazione che si riferisse a quegli avvenimenti; io non aveva più avuto alcun
sogno che potesse considerarsi come uno schiarimento od una continuazione di
quelli; e degli affetti nuovi, e delle cure nuove, e delle nuove passioni erano
venute a distogliermi da quel pensiero, a crearmi un nuovo stato di cose, un
nuovo ordine di idee, ad allontanarmi da quella preoccupazione triste e
affannosa.
Non fu che diciannove anni dopo
che io dovetti persuadermi per una testimonianza irrefragabile
, che
tutto ciò che io aveva sognato e veduto era vero, e che il presagio della mia
morte doveva conseguentemente avverarsi.
Nell’anno 1849, viaggiando al
nord della Francia, aveva disceso il Reno fin presso al confluente della
piccola Mosa
, e m’era trattenuto a
cacciare in quelle campagne. Errando solo un giorno lungo le falde di una
piccola catena di monti mi era trovato ad un tratto in una valle nella quale mi
pareva esser stato altre volte, e non aveva fatto questo pensiero che una
memoria terribile venne a gettare una luce fosca e spaventosa nella mia mente,
e conobbi che quella era la valle del castello, il teatro de’ miei sogni e
della mia esistenza trascorsa. Benché tutto fosse mutato, benché i campi, prima
deserti, biondeggiassero adesso di messi, e non rimanessero del castello che
alcuni ruderi sepolti a metà dalle ellere
,
ravvisai tosto quel luogo, e mille e mille rimembranze, mai più evocate, si
affollarono in quell’istante nella mia anima conturbata.
Chiesi ad un pastore che cosa
fossero quelle rovine, e mi rispose: «Sono le rovine del castello nero; non
conoscete la leggenda del castello nero? Veramente ve ne sono di molte e non si
narrano da tutti allo stesso modo, ma se desiderate di saperla come la so io…
se…»
«Dite, dite,» io interruppi
sedendomi sull’erba al suo fianco. E intesi da lui un racconto terribile, un
racconto che io non rivelerò mai, benché altri il
possa allo stesso modo sapere, e sul quale ho potuto ricostruire tutto
l’edificio di quella mia esistenza trascorsa.
Quando egli ebbe finito, io mi
trascinai a stento fino ad un piccolo villaggio vicino, d’onde
fui
trasportato, già infermo a Wiesbaden, e vi tenni il letto tre mesi.
Oggi, prima di partire, mi sono
recato a rivedere le rovine del castello - è il primo giorno di settembre,
mancano sei mesi all’epoca della mia morte - sei mesi, meno dieci giorni -
giacché non dubito che morrò in quel giorno prefisso. Ho concepito lo strano
desiderio che rimanga alcuna
memoria di me. Assiso
sopra una pietra del castello ho tentato di richiamarmi tutte le circostanze
lontane di questo avvenimento, e vi scrissi queste pagine sotto l’impressione
di un immenso terrore.
***
L’autore di queste memorie, che
fu mio amico e letterato di qualche fama, proseguendo il suo viaggio verso
l’interno della Germania, morì il venti gennaio 1850, come gli era stato
presagito, assassinato da una banda di zingani
nelle gole così dette di Giessen presso Freiburgo.
Io ho trovate queste pagine tra i
suoi molti manoscritti, e le ho pubblicate.
Rosso Malpelo
Da Vita dei campi di
Giovanni Verga
La novella ‘Rosso Malpelo’ fu scritta quando era molto vivo il
dibattito sulla realtà del meridione e in particolare sul lavoro minorile
nelle cave.
Nel 1876 era stata avviata un’inchiesta parlamentare sulle condizioni
economico-sociali del Sud, la cosiddetta ‘Inchiesta in Sicilia’, che aveva fra
i suoi scopi anche quello di conoscere le condizioni di lavoro dei minori,
impiegati soprattutto nelle miniere di zolfo e nelle cave di rena.
L’inchiesta, condotta da Franchetti e Sonnino, si concludeva con un
capitolo il ‘Lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane’, dal quale emergeva
un quadro drammatico della situazione: i ragazzi lavoravano dalle dieci alle
dodici ore il giorno in condizioni di estrema difficoltà e di pericolo,
dormivano vicino alla miniera e tornavano a casa una volta la settimana, si
nutrivano solo del pane che portavano da casa ed erano costretti a un lavoro
durissimo. Dovevano trasportare pesanti carichi di minerale lungo salite
ripidissime all’interno di gallerie nelle quali il calore raggiungeva i 40° e
da li uscivano all’aria aperta, esponendosi spesso a un vento ghiacciato e
comunque sempre a dannosi sbalzi di temperatura. A ciò si aggiungevano i
maltrattamenti subiti da parte degli operai e dei sorveglianti e gli incidenti
a causa dei quali si rompevano o si lussavano gli arti, rimanendo storpi a
vita.
Verga conosceva questa situazione, non solo perché aveva letto
l’inchiesta Franchetti-Sonnino che aveva suscitato enorme scalpore, ma anche
perché una miniera di zolfo si trovava nei sobborghi di Catania, la città nella
quale aveva trascorso gli anni della sua giovinezza. Anche se egli si poneva
politicamente su posizioni conservatrici, non poteva restare indifferente di
fronte a una situazione di tal genere.
La novella narra la storia di un ragazzo siciliano di cui perfino la
madre non ricorda più il nome, dato che, per i suoi capelli rossi e la sua
indole bizzarra, è chiamato da tutti Rosso Malpelo (da un popolare detto
siciliano «pilu russu, malu pilu», che associa i capelli rossi alla cattiveria).
Malpelo lavora nella cava di sabbia dove è morto suo padre, sepolto dal crollo
di una galleria, e dove lui stesso sparirà inghiottito nel nulla. Assistiamo
al suo duro lavoro quotidiano, in cui gli sono compagni l’asino grigio e un
ragazzina debole e malaticcio, Ranocchio, a cui Rosso a modo suo vuole bene e
che protegge, pretendendo di insegnargli a sopravvivere e a difendersi nella
loro difficile realtà. Ma sia «il grigio» che Ranocchio muoiono, e Rosso
Malpelo accetta di andare ad esplorare un passaggio pericoloso, consapevole
che, se gli succederà qualcosa, non importerà niente a nessuno, e per lui sarà
una liberazione.
Il racconto costruito secondo le tecniche della narrativa verista,
sviluppatasi in Italia nella seconda metà dell’Ottocento. Gli scrittori che
aderivano a questa corrente narravano nelle loro opere vicende che avevano
come protagonisti personaggi appartenenti di solito a classi sociali basse e
davano una rappresentazione oggettiva della realtà, aderendo al principio
dell’impersonalità dell’arte, secondo il quale lo scrittore non doveva
intervenire con osservazioni e giudizi personali a commentare i fatti narrati.
Malpelo si chiamava così perché
aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso
e cattivo, che prometteva di riescire
un
fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa
lo
chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo,
aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.
Del resto, ella lo vedeva
soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della
settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un
paio, di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli
faceva la ricevuta a scapaccioni.
Però il padrone della cava aveva
confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi
per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, e che
tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se
lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo,
torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai
della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di
ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello
fra
le gambe, per rosicchiarsi quel po’ di pane bigio
,
come fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo
, e
gli tiravan dei sassi, finché il soprastante
lo
rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava, fra i calci, e si lasciava
caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso
e sporco di rena rossa, che la sua sorella s’era fatta sposa
, e
aveva altro pel capo che pensare a ripulirlo la domenica. Nondimeno era
conosciuto come la bettonica
per
tutto Monserrato e la Caverna
,
tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto
al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e
perché mastro Misciu
, suo
padre, era morto in quella stessa cava.
Era morto così, che un sabato
aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo
, di
un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell’ingrottato
, e
dacché non serviva più, s’era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o
40 carra
di rena. Invece mastro
Misciu sterrava
da tre giorni, e ne
avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e
solo un minchione
come
mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò
appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto
di
tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di
buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e
attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio, come se quelle soperchierie
cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com’era aveva di quelle occhiate
che facevano dire agli altri: - Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come
tuo padre -.
Invece nemmen suo padre ci morì,
nel suo letto, tuttoché
fosse una buona bestia. Zio Mommu
lo
sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l’avrebbe tolto per venti
onze
,
tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se si sta
a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare
l’avvocato
.
Dunque il sabato sera mastro
Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l’avemaria era suonata da un pezzo,
e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n’erano andati dicendogli
di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non
fare la morte del sorcio
. Ei,
che c’era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli «ah!
ah!» dei suoi bei colpi di zappa in pieno, e intanto borbottava: - Questo
è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata
! - e
così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto
, il
cottimante
!
Fuori della cava il cielo
formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un
arcolaio. Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e
si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, e dicesse ohi! anch’esso.
Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco
vuoto ed il fiasco del vino.
Il padre, che gli voleva bene,
poveretto, andava dicendogli: - Tirati in là! - oppure: - Sta attento! Bada se
cascano dall’alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa! - Tutt’a un
tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì
un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia
e si
sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.
L’ingegnere che dirigeva i lavori
della cava, si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua
poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di Malpelo che
aveva fatto la morte del sorcio. Tutte le femminucce di Monserrato, strillavano
e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch’era toccata a
comare Santa
, la sola, poveretta, che
non dicesse nulla, e sbatteva i denti invece, quasi avesse la terzana
.
L’ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era
accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già essere bell’e arrivato in
Paradiso, andò proprio per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il
buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo sciancato disse che a sgomberare
il sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era caduta una
montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle
mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n’era da riempire delle carra per
delle settimane. Il bell’affare di mastro Bestia!
Nessuno badava al ragazzo che si
graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero.
- To’! - disse infine uno. - È
Malpelo! Di dove è saltato fuori, adesso?
- Se non fosse stato Malpelo non
se la sarebbe passata liscia... –
Malpelo non rispondeva nulla, non
piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la buca, sicché
nessuno s’era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal
viso stravolto, e tali occhiacci invetrati
, e
la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli
pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un
affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e
dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.
Però infine tornò alla cava dopo
qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano;
giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua
e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con
accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre.
Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso
torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa
che il suo diavolo gli susurrasse nelle orecchie, dall’altra parte della
montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo
e
cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al
cane, quasi non fosse grazia di Dio
. Il
cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano che gli dà
il pane, e le botte, magari. Ma l’asino, povera bestia, sbilenco e macilento,
sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza
pietà, col manico della zappa, e borbottava:
- Così creperai più presto! –
Dopo la morte del babbo pareva
che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali
feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei
si acconciava ad esserlo
il
peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio
smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto
di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le
busse
senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena,
ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura
crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che
s’immaginava gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo babbo. Certo ei
provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed
i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano
lasciato crepare. E quando era solo borbottava: - Anche con me fanno così! e a
mio padre gli dicevano Bestia, perché egli non faceva così! - E una volta che
passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva: - È stato lui! per
trentacinque tarì
! - E
un’altra volta, dietro allo Sciancato: - E anche lui! e si metteva a ridere! Io
l’ho udito, quella sera! –
Per un raffinamento di malignità
sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da
poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s’era lussato il
femore
, e
non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di
rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano messo nome Ranocchio; ma
lavorando sotterra, così Ranocchio com’era, il suo pane se lo buscava. Malpelo
gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.
Infatti egli lo tormentava in
cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio
non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli:
- To’, bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non
ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da
quello! –
O se Ranocchio si asciugava il
sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici: - Così, come ti cuocerà il
dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! - Quando cacciava un asino
carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli,
rifinito
, curvo sotto il peso,
ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico
della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte.
Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze
, non
poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno il quale era caduto
tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe. Malpelo soleva dire a
Ranocchio: - L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei potesse
picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi -.
Oppure: - Se ti accade di dar
delle busse, procura di darle più forte che puoi; così gli altri ti terranno da
conto, e ne avrai tanti di meno addosso -.
Lavorando di piccone o di zappa
poi menava le mani con accanimento, a mo’ di uno che l’avesse con la rena, e
batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo
padre. - La rena è traditora, - diceva a Ranocchio sottovoce; - somiglia a
tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più
forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio
padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo
chiamavano Bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di
lui -.
Ogni volta che a Ranocchio
toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo piagnucolava a guisa di una
femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e lo sgridava: - Taci, pulcino! -
e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo
orgoglio: - Lasciami fare; io sono più forte di te -. Oppure gli dava la sua
mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva
nelle spalle, aggiungendo: - Io ci sono avvezzo
-.
Era avvezzo a tutto lui, agli
scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto,
a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle braccia e la
schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo,
allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che
la razione di busse non gliel’aveva levata mai, il padrone; ma le busse non
costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a
tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il
diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi, anche quando il colpevole non
era stato lui. Già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non
si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta, come
Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità, e di scolparsi,
ei ripeteva: - A che giova? Sono malpelo! - e nessuno avrebbe potuto dire se
quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di fiero orgoglio o di
disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza
o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da
lui, e quindi non gliene faceva mai.
Il sabato sera, appena arrivava a
casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei
cenci che gli piangevano
addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa, scoprendolo
sull’uscio in quell’arnese
, ché
avrebbe fatto scappare il suo damo
se
vedeva con qual gente gli toccava imparentarsi; la madre era sempre da questa o
da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone
come
un cane malato. Per questo, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del
vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare
nel
cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie
degli orti, a dar la caccia alle lucertole e alle altre povere bestie che non
gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per
altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.
La vedova di mastro Misciu era
disperata di aver per figlio quel malarnese
,
come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia
di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col
mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e
diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella
cava della rena, brutto, cencioso e lercio
com’era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere
persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano
se
vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed
anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d’ingresso è
a picco, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi,
è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja
, a
strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e
Malpelo, certo, non valeva di più; se veniva fuori dalla cava il sabato sera,
era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a
portare a sua madre la paga della settimana.
Certamente egli avrebbe preferito
di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in
mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena, - o il carrettiere, come
compare Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi
sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per
le belle strade di campagna; - o meglio ancora, avrebbe voluto fare il
contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti
carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa.
Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui.
E pensando a tutto ciò, narrava a Ranocchio del pilastro che era caduto addosso
al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva
a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che
quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere del babbo,
il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi.
Ranocchio aveva paura, ma egli
no. Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel
buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano.
Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l’intricato
laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all’infinito, di qua e
di là, sin dove potevano vedere la sciara
nera
e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti
tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano
ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e
senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano
inutilmente.
Ma una volta in cui riempiendo i
corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal
tremito che dovettero tirarlo all’aria aperta colle funi, proprio come un asino
che stesse per dar dei calci al vento
.
Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di
mastro Misciu; sebbene i pratici affermarono che quello dovea essere il luogo
preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio,
nuovo al mestiere, osservava curiosamente
come
fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le
scarpe da una parte e i piedi dall’altra.
Dacché poi fu trovata quella
scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il
piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa, gliela
dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della
galleria, e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo
scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso
bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto penar
molto a finire, perché il pilastro gli si era piegato proprio addosso, e
l’aveva sepolto vivo: si poteva persino vedere tutt’ora che
mastro Bestia avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e
avea le mani lacerate e le unghie rotte.
- Proprio come suo figlio
Malpelo! - ripeteva lo sciancato - ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava
di là -. Però non dissero nulla al ragazzo, per la ragione che lo sapevano
maligno e vendicativo.
Il carrettiere si portò via il
cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava la rena caduta e gli
asini morti, ché stavolta, oltre al lezzo del carcame
,
trattavasi di un compagno, e di carne battezzata. La vedova rimpiccolì i
calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a
nuovo per la prima volta. Solo le scarpe furono messe in serbo per quando ei
fosse cresciuto, giacché rimpiccolire le scarpe non si potevano, e il fidanzato
della sorella non le aveva volute le scarpe del morto.
Malpelo se li lisciava sulle
gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e
lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque
fossero così ruvide e callose. Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul
saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le
pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una
accanto all’altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il mento
nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel
cervellaccio.
Ei possedeva delle idee strane,
Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne
serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l’età sua; e quando gli aveano
chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva
risposto di no. Suo padre li aveva resi così lisci e lucenti nel manico colle
sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di
quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo era crepato
di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo
lontano nella sciara.
- Così si fa, - brontolava
Malpelo; - gli arnesi che non servono più, si buttano lontano -.
Egli andava a visitare il carcame
del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il
quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo
bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a
considerare con l’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da
tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio.
I cani scappavano guaendo, come
comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando
sui
greppi
dirimpetto, ma il Rosso
non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. - Vedi quella cagna nera, -
gli diceva, - che non ha paura delle tue sassate? Non ha paura perché ha più
fame degli altri. Gliele vedi quelle costole al grigio? Adesso non soffre più
-. L’asino grigio se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e
lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli
le ossa bianche; i denti che gli laceravano le viscere non lo avrebbero fatto
piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate, per
mettergli in corpo un po’ di vigore nel salire la ripida viuzza. - Ecco come
vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche
;
anch’esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare
innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse:
«Non più! non più!».
Ma ora gli occhi se li mangiano i
cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca
spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio -.
La sciara si stendeva malinconica
e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni,
nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che venisse a
cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che
lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che la terra lì sotto era
tutta vuota dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle;
tanto che una volta un minatore c’era entrato da giovane, e n’era uscito coi
capelli bianchi, e un altro, cui s’era spenta la candela, aveva invano gridato
aiuto per anni ed anni.
- Egli solo ode le sue stesse
grida! - diceva, e a quell’idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara,
trasaliva.
- Il padrone mi manda spesso
lontano, dove gli altri hanno paura d’andare. Ma io sono Malpelo, e se non
torno più, nessuno mi cercherà -.
Pure, durante le belle notti
d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna
circostante era nera anch’essa, come la lava, ma Malpelo, stanco della lunga
giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi
quella quiete e quella luminaria
dell’alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di
scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente - perché allora la
sciara sembra più bella e desolata.
- Per noi che siamo fatti per
vivere sotterra, - pensava Malpelo, - dovrebbe essere buio sempre e da per
tutto -.
La civetta strideva sulla sciara,
e ramingava
di qua e di là; ei
pensava: - Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra, e si
dispera perché non può andare a trovarli -.
Ranocchio aveva paura delle
civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava, perché chi è costretto a
star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asino grigio aveva paura
dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore
di esser mangiate.
- Tu eri avvezzo a lavorar sui
tetti come i gatti, - gli diceva, - e allora era tutt’altra cosa. Ma adesso che
ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né
dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri in
compagnia dei morti-.
Ranocchio invece provava una tale
compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e
gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono
stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. - Chi te l’ha detto?
- domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto la mamma.
Allora Malpelo si grattava il
capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa
lunga. - Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar
la gonnella -.
E dopo averci pensato un
po’: - Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che
lo chiamavano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri, le
scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io -.
Da lì a poco, Ranocchio, il quale
deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano portarlo
fuori dalla cava sull’asino, disteso fra le corbe
,
tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo
non ne avrebbe fatto osso duro a quel mestiere
, e
che per lavorare in una miniera, senza lasciarvi la pelle, bisognava nascervi.
Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci nato, e di mantenersi così sano
e vigoroso in quell’aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava
Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e
picchiandolo. Ma una volta, nel picchiarlo sul dorso, Ranocchio fu colto da uno
sbocco di sangue
;
allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca
cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli poi gran male, così
come l’aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e
sulla schiena, con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran
calcio sulle spalle: un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure
Malpelo non si mosse, e soltanto dopo che l’operaio se ne fu andato,
aggiunse: - Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me,
ti giuro! –
Intanto Ranocchio non guariva, e
seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni. Allora Malpelo
prese dei soldi della paga della settimana, per comperargli del vino e della
minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi, che lo coprivano
meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre, e alcune volte sembrava soffocasse; la
sera poi non c’era modo di vincere il ribrezzo
della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi
alla fiammata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile, chino su di lui, colle
mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati, quasi volesse
fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso
trafelato e l’occhio spento, preciso come quello dell’asino grigio allorché
ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava: -
È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu
crepi! –
E il padrone diceva che Malpelo
era capace di schiacciargli il capo, a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.
Finalmente un lunedì Ranocchio
non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in
cui era ridotto oramai era più di impiccio che altro. Malpelo si informò dove
stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là
che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliuolo fosse di
quelli che guadagnano dieci lire la settimana.
Cotesto non arrivava a
comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel
modo, mentre che
da
due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio
non gli dava retta; sembrava che badasse a contare quanti travicelli c’erano
sul tetto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio
strillasse a quel modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e
malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli
invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai
pianto per lui, perché non aveva mai avuto timore di perderlo.
Poco dopo, alla cava dissero che
Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui
la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove
solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano più che le
ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così. Sua madre si
sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s’era asciugati i
suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un’altra
volta, ed era andata a stare a Cifali
colla figliuola maritata, e avevano chiusa la porta di casa
.
D’ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno,
ché quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe
sentito più nulla.
Verso quell’epoca venne a
lavorare nella cava uno che non s’era mai visto, e si teneva nascosto il più
che poteva. Gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato dalla
prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per anni ed anni.
Malpelo seppe in quell’occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano
i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e
guardati a vista.
Da quel momento provò una malsana
curiosità per quell’uomo che aveva provata la prigione e ne era scappato. Dopo
poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di
quella vitaccia da talpa, e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la
vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso, e preferiva tornarci coi
suoi piedi.
- Allora perché tutti quelli che
lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione? - domandò Malpelo.
- Perché non sono malpelo come
te! - rispose lo Sciancato. - Ma non temere, che tu ci andrai! e ci lascerai le
ossa! –
Invece le ossa le lasciò nella
cava, Malpelo come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare
un passaggio che doveva comunicare col pozzo grande a sinistra, verso la valle,
e se la cosa andava bene, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d’opera
nel cavar fuori la rena. Ma a ogni modo, però, c’era il pericolo di smarrirsi e
di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi,
né avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo
,
per tutto l’oro del mondo.
Malpelo, invece, non aveva
nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua
pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui
.
Allora, nel partire, si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da
anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che
nessuno possa udirlo. Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato?
Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col
pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui.
Così si persero persin le ossa di
Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel
sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi
e gli occhiacci grigi.
Libertà
da
Novelle rusticane di
Giovanni Verga
Una rivolta di contadini siciliani inizia e finisce nel sangue.
‘Libertà’ è una parola affascinante, ma ingannevole che crea illusioni
e fa nascere speranze presto distrutte dalla brutalità dell’esercito
garibaldino.
Alla fine pagano come al solito i più deboli.
La novella prende spunto da un fatto storico e rievoca la sanguinosa
rivolta di Bronte, un paese vicino a Catania, seguita da un’altrettanto sanguinosa
repressione da parte dei garibaldini, guidati da Nino Bixio (luglio-agosto
1860). A Bronte nei giorni dal 2 al 5 agosto 1860 la popolazione, formata in
gran parte da poveri contadini, si sollevò contro i locali proprietari
terrieri. Dopo la caduta del governo borbonico, c’erano stati vari proclami
rivoluzionari, secondo i quali la terra, già di proprietà di pochi galantuomini, come erano detti i
proprietari terrieri, doveva essere distribuita ai capifamiglia contadini.
Queste le ragioni della rivolta: le condizioni miserevoli dei
contadini, la fame, il desiderio di «libertà» dalla schiavitù e dalla miseria.
La popolazione siciliana, in gran parte, aiutò Garibaldi ed i Mille nella
vittoriosa guerra contro i Borbone, perché vedeva in questa la possibilità di
un miglioramento della sua condizione di vita.
La rivolta di Bronte fu sanguinosa, e si risolse in un eccidio
spaventoso. Fu repressa personalmente da Nino Bixio, che fece fucilare alcuni
dei rivoltosi, prendendo quasi a caso quelli che dovevano essere giustiziati.
Gli altri furono condannati ed imprigionati a vita.
Verga riferisce con esattezza la storia con il suo contenuto
drammatico. Descrive le uccisioni, la psicologia della folla impazzita, i
drammi. Notevole è l’uso l’uso di paragoni tratti dalla natura: i rivoltosi
sono come un «torrente», come la «piena del fiume», e travolgono tutto senza
ormai rendersi conto di ciò che fanno. Passata la follia e finito l’eccidio, il
giorno che sorge porta una calma strana e piena di paure; i soldati che
arrivano e fucilano sono accolti quasi con un senso di liberazione; la tragedia
che si è consumata ha lasciato tutti stravolti ed esterrefatti.
Alla fine, tutto torna come prima: i «signori» al loro posto, i poveri
contadini sempre più poveri. La tragedia si è chiusa, e non è servita a niente.
Solo i condannati continueranno a chiedersi il perché, gridando che loro
volevano solo «la libertà». E un mondo senza speranza, che neppure la vittoria
garibaldina ed il cambio di Re riescono a mutare.
I contadini siciliani di Bronte avevano occupato abusivamente le terre
che nel 1799 il re Ferdinando IV di Borbone aveva donato all’ammiraglio inglese
Nelson. Garibaldi non esitò a domare con la violenza una rivolta che
minacciava di incrinare m modo grave un ordine faticosamente conquistato. La
narrazione dei fatti segue la successione logico-cronologica, in cui fabula e
intreccio coincidono, dallo scoppio dell’insurrezione all’intervento
dell’esercito e al successivo processo ai responsabili.
Il sistema dei personaggi appare nettamente diviso in due gruppi: da un
lato la folla impazzita, ubriaca di sangue; dall’altro le vittime, i cappelli.
I protagonisti sono colti nel loro ruolo rispettivamente di
persecutori e di perseguitati, colpiti, questi ultimi, da una vendetta che non
risparmia neppure i più deboli o indifesi.
I contadini, in genere salariati a giornata chiamati coppole per i
caratteristici berretti rotondi, non hanno un’identità precisa: sono
soprattutto voci furibonde, prima ancora che volti, e verranno indicati con un
nome o un riferimento al mestiere solo dopo la tragedia, quando diventeranno
vittime a loro volta e subiranno l’arresto e la prigione.
I galantuomini sono invece meglio delineati e rappresentano una classe
sociale più differenziata rispetto a quella dei contadini: sono, infatti, esponenti
della borghesia (il notaio, lo speziale), del clero (il prete) e
dell’aristocrazia (il barone, la baronessa), ma il denaro che possiedono o il
potere che esercitano non li salvano dalla furia omicida degli oppressi.
Il narratore esterno e oggettivo, come esige la poetica del Verismo,
manifesta m questa novella un punto di vista complesso. Egli, infatti, non
divide i personaggi semplicemente m «buoni» e «cattivi», ma coglie ed esprime
le sfumature del loro comportamento. Così nel giorno della strage i contadini
sono descritti come lupi feroci a caccia della preda, ma nel racconto dei
mesi successivi se ne sottolinea la miseria e la sofferenza, un calvario che
si conclude con un processo-farsa. Allo stesso modo i signori appaiono vittime
della crudeltà e della follia dei braccianti, ma non sono esenti da colpe, la
cui denuncia è messa dal narratore in bocca ai persecutori (A te prima,
barone) che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri!’).
Sciorinarono
dal
campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e
cominciarono a gridare in piazza: - Viva la libertà! –
Come il mare in tempesta. La
folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei
galantuomini,
davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche
; le
scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe
in
una stradicciuola.
- A te prima, barone! che hai
fatto nerbare
la gente dai tuoi
campieri
! - Innanzi a tutti gli
altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle
unghie. - A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! - A te, ricco
epulone
, che non puoi scappare
nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! - A te, sbirro! che hai fatto
la giustizia solo per chi non aveva niente! - A te, guardaboschi! che hai
venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì
al
giorno!
E il sangue che fumava ed
ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! - Ai
galantuomini! Ai cappelli!
Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! -Don Antonio sgattaiolava a casa per le
scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il
marciapiede. - Perché? perché mi ammazzate? - Anche tu! al diavolo! - Un
monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. - Abbasso i
cappelli! Viva la libertà! - Te’! tu pure! - Al reverendo che predicava
l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia
consacrata nel pancione. - Non mi ammazzate, ché
sono in peccato mortale! - La gnà
Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14
anni, l’inverno della fame, e rimpieva la Ruota
e
le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche
cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci
delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché
capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla
rabbia. - Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse -
lo speziale
, nel mentre chiudeva in
fretta e in furia - don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del
somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino
vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non
aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone,
mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce
del marito. - Paolo! Paolo! - Il primo lo colse nella spalla con un colpo di
scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava
col braccio sanguinante al martello
.
Ma il peggio avvenne appena cadde
il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa
come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di
strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: - Neddu! Neddu! - Neddu
fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo
rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente
gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie
l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. -
Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; - strappava il
cuore! - Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due
mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere
di
cinquant’anni - e tremava come una foglia. - Un altro gridò: - Bah! egli
sarebbe stato notaio, anche lui!
Non importa! Ora che si avevano
le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i
cappelli! - Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano
ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora,
agitando le braccia scarne, strillando l’ira in falsetto
,
colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. - Tu che venivi a pregare il
buon Dio colla veste di seta! - Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto
alla povera gente! - Te’! Te’! - Nelle case, su per le scale, dentro le alcove
,
lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate!
e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure!
La baronessa aveva fatto
barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri
che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo
alle schiopettate
,
perché non aveva armi da rispondere. Prima c’era la pena di morte chi tenesse
armi da fuoco. - Viva la libertà! - E sfondarono il portone. Poi nella corte,
sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. - I
campieri dopo! - I campieri dopo! - Prima volevano le carni della baronessa, le
carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col
lattante al seno, scarmigliata - e le stanze erano molte. Si udiva la folla
urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il
figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava
l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: - Mamà! mamà! - Al primo urto gli
rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano.
Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il
bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L’altro
figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento
mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno
abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti,
sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia
il bambino lattante. L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che
nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi
ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la
lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria.
E in quel carnevale furibondo
del
mese di luglio, in mezzo agli urli briachi
della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio
,
fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi
.
Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno
fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in
ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i
cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di
luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle
case deserte.
Aggiornava
;
una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s’era
rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far
capannello
sul sagrato si
guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere
sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare.
- Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! - Il
casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere
gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il
fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio.
E come l’ombra s’impiccioliva
lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due
casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio,
si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi
dell’Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra sé
calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in
cagnesco il vicino.
- Libertà voleva dire che doveva
essercene per tutti! - Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo
,
avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! - Se non c’era più
il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno
avrebbe fatto a riffa e a raffa!
- E
se tu ti mangi la tua parte all’osteria, dopo bisogna tornare a spartire da
capo? - Ladro tu e ladro io -. Ora che c’era la libertà, chi voleva mangiare
per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! - Il
taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.
Il giorno dopo si udì che veniva
a far giustizia il generale
,
quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi
soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato
rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le
donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle
barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare
quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale
piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.
Il generale fece portare della
paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina,
prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella
chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito
ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i
primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso
al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva
dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono
dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli
usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaletti della festa.
Dopo arrivarono i giudici per
davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal
viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli
accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna
, e
dicendo - ahi! - ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva
più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due
file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per
le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in
mezzo alle vigne, in mezzo alle biade
color d’oro, trafelate
,
zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si
potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran
carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle
inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in
presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano
sempre più gialli in quell’ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni
lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri
giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le
sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare
lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo
costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo
stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull’uscio di una chiesa, le
guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le
mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più
nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima.
I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la
povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L’orfano
dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per
vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di
tanto in tanto certe ubbie
, e
temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all’uscire dal carcere, egli
ripeteva: - Sta tranquilla che non ne esce più -. Ormai nessuno ci pensava;
solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso
la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano
tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di
conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all’aria ci vanno i
cenci
.
Il processo durò tre anni,
nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati
parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati
al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni,
parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo,
stipati nella capponaia
-
ché capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul
mostaccio quello dello speziale, che s’era imparentato a tradimento con lui!
Li facevano alzare in piedi ad
uno ad uno. - Voi come vi chiamate? - E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e
cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano, fra le chiacchiere,
coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla
bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di
tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che
agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini,
stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano
fra
di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei
galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei
poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a
confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi
fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava
colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: -
Sul mio onore e sulla mia coscienza!...
Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette,
balbettava: - Dove mi conducete? - In galera? - O perché? Non mi è toccato
neppure un palmo
di
terra! Se avevano detto che c’era la libertà!...
La roba
da Novelle rusticane (1883)
La roba è una delle novelle più note di Giovanni Verga. Essa si configura
come l’abbozzo del suo secondo grande romanzo, Mastro-don Gesualdo.
Il protagonista, Mazzarò, vive la sua affannosa avventura di
accaparramento della roba, incurante di ogni altro ideale e fermamente
convinto in ciò che fa. Ma la vecchiaia non tarderà a venire, e con essa la
solitudine, la certezza della morte e dell’inutilità di possedere tante
ricchezze. Sacrificando tutto alla logica economica, è diventato il maggiore
proprietario terriero della regione. Ma proprio perché è vissuto solo in
funzione della roba, non riesce ad accettare la morte e di fronte a essa ha una
reazione disperata e assurda.
Il viandante che andava lungo il
Biviere di Lentini
,
steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie
riarse
della Piana di Catania,
e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i
pascoli deserti di Passaneto
e
di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada
polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della
lettiga
suonano tristamente
nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il
lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal
sonno della malaria: - Qui di chi è? - sentiva rispondersi: - Di Mazzarò -. E
passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che
sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le
donne che si mettevano la mano sugli occhi
per
vedere chi passava: - E qui? - Di Mazzarò -. E cammina e cammina, mentre la
malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un
cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul
piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato
bocconi sullo schioppo
,
accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere
chi fosse: - Di Mazzarò -. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove
l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di
Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la
campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di
Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese
, e
i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si
vedevano nei pascoli lontani della Canziria
,
sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e
si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava
ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. - Tutta roba di
Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le
cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve
dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo
nel
bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la
terra, e che gli si camminasse sulla pancia. - Invece egli era un omiciattolo,
diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco
, a
vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come
facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì
ch’era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo.
Infatti, colla testa come un
brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a
sera a zappare, a potare, a mietere
;
col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di
cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro,
quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto in
mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le
eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire
povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto
lo portava di seta nera
,
era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello
di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva
fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga - dappertutto, a
destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di
cinquemila bocche
,
senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano
sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte,
e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in
fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una
chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i
contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento
spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un
corbello
, nelle calde giornate
della mèsse
. Egli non beveva vino,
non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti
lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si
vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di
donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata
anche 12 tarì
, quando aveva dovuto
farla portare al camposanto.
Era che ci aveva pensato e
ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a
lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a
fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva
14 ore, col soprastante
a
cavallo dietro, che vi piglia a nerbate
se
fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto
della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi
aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivavano in novembre;
e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che
stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue
olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che
vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi
alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la
vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di Mazzarò sembravano un
esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto
alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne
alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle
madie
larghe come tinozze.
Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col
nerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava a ripetere: -
Curviamoci, ragazzi! - Egli era tutto l’anno colle mani in tasca a spendere, e
per la sola fondiaria
il
re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta.
Però ciascun anno tutti quei
magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare
il tetto per farcelo capire tutto
; e
ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare
il denaro, tutto di 12 tarì d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia
per
la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da
pagare il re
, o gli altri; e alle
fiere gli armenti
di
Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza
giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda
,
alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo.
Tutta quella roba se l’era fatta
lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere
la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e
andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e
le sue mule - egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto
quello ch’ei
avesse al mondo; perché
non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba.
Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.
Ed anche la roba era fatta per
lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa
tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di
Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era
stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle
vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi
campieri
dietro, pareva il re, e
gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione
,
sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva
sorprendere colle mani nel sacco. - Costui vuol essere rubato per forza! -
diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel
di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: - Chi è minchione
se ne stia a casa, - la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare -. Invece
egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a
sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava
all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di
pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni
,
cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe.
In tal modo a poco a poco Mazzarò
divenne il padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì prima
dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e
infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle
carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non era
rimasto altro che lo scudo di pietra ch’era prima sul portone, ed era la sola
cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: - Questo solo, di tutta
la mia roba, non fa per te -. Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e
non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli
dava più calci nel di dietro.
- Questa è una bella cosa,
d’avere la fortuna che ha Mazzarò! - diceva la gente; e non sapeva quel che ci
era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche,
quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che
era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del
mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa
limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò,
dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare,
malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la
fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini
, e
arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si
lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi
il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l’acchiappava - per un pezzo di
pane. - E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! - I mezzadri che venivano
a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro
donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non
metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l’asinello, che non
avevano da mangiare.
- Lo vedete quel che mangio io? -
rispondeva lui, - pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono
il padrone di tutta questa roba -. E se gli domandavano un pugno di fave, di
tutta quella roba, ei diceva: - Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete
quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? - E se gli
domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva.
E non l’aveva davvero. Ché
in
tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta
quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del
resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena
metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché
voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del
re, ché il re non può ne venderla, né dire ch’è sua.
Di una cosa sola gli doleva, che
cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è
una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare
della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete
lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a
guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che
ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna
come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il
peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per
invidia, e borbottava: - Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha
niente! –
Sicché quando gli dissero che era
tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un
pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i
suoi tacchini, e strillava: - Roba mia, vientene con me! –
La fine di Candia
Da Le novelle della Pescara di Gabriele
D’Annunzio
Strani sono, a
volte, i fili della sorte e imprevedibili, nella loro tragicità, le vicende
dell’esistenza umana: Candia sperimenta l’ossessione torturante dell’innocente,
che tutti credono colpevole.
Donna Cristina Lamonica, tre
giorni dopo il convito
pasquale che in casa Lamonica soleva essere grande per tradizione e magnifico e
frequente di convitati
,
numerava
la biancheria e
l’argenteria delle mense
e
con perfetto ordine riponeva ogni cosa nei canterani e nei forzieri
pei
conviti futuri.
Erano presenti, per solito, alla
bisogna
e porgevano aiuto, la
cameriera Maria Bisaccia e la lavandaia Candida Marcanda detta popolarmente
Candia. Le vaste canestre
ricolme di tele fini giacevano in fila sul pavimento. I vasellami di argento e
gli altri strumenti da tavola rilucevano sopra una spasa
; ed
erano massicci, lavorati un po’ rudemente da argentarli rustici, di forme quasi
liturgiche
, come sono tutti i
vasellami che si trasmettono di generazione in generazione nelle ricche
famiglie provinciali. Una fresca fragranza di bucato spandevasi nella stanza.
Candia prendeva dalle canestre i
mantili, le tovaglie, le salviette
;
faceva esaminare alla signora la tela intatta, e porgeva via via ciascun capo a
Maria che riempiva i tiratoi
,
mentre la signora spargeva negli interstizi
- un
aroma e segnava nel libro la cifra. Candia era una femmina alta, ossuta,
segaligna
, di cinquantanni; aveva
la schiena un po’ curvata dall’attitudine abituale del suo mestiere, le braccia
molto lunghe, una testa d’uccello rapace sopra un collo di testuggine
.
Maria Bisaccia era un’ortonese
un
po’ pingue
, di carnagione lattea,
d’occhi chiarissimi; aveva la parlatura molle
, e
i gesti lenti e delicati come colei ch’era usa
a
esercitar le mani quasi sempre tra la pasta dolce, tra gli sciroppi, tra le conserve
e tra le confetture.
Donna Cristina, anche nativa di
Ortona
, educata nel monastero
benedettino
, era piccola di statura,
con il busto un po’ abbandonato sul davanti; aveva i capelli tendenti al
rosso, la faccia sparsa di lentiggini, il naso lungo e grosso, i denti cattivi
,
gli occhi bellissimi e pudichi
,
somigliando un chierico vestito d’abiti muliebri
.
Le tre donne attendevano
all’opera con molta cura; e spendevano così gran parte del pomeriggio.
Ora, una volta, come
Candia usciva con le canestre vuote, Donna Cristina numerando le posate trovò
che mancava un cucchiaio.
Maria! Maria! — ella gridò, con
una specie di spavento. — Conta! Manca ‘na cucchiara
...
Conta tu!
- Ma come? Non può essere, signò
- rispose Maria.- Mo’ vediamo.
E si mise a riscontrare
le
posate, dicendo il numero ad alta voce. Donna Cristina guardava, scotendo il
capo. L’argento tintinniva chiaramente.
- È vero! - esclamò alla fine
Maria, con un atto di disperazione. — E mo’ che facciamo?
Ella era sicura da
ogni sospetto. Aveva dato prove di fedeltà e di onestà per quindici anni, in
quella famiglia. Era venuta da Ortona insieme con Donna Cristina, all’epoca
delle nozze, quasi facendo parte dell’appannaggio matrimoniale
; ed
oramai nella casa aveva acquistata una certa autorità, sotto la protezione
della signora. Ella era piena di superstizioni religiose, devota al suo santo e
al suo campanile
,
astutissima. Con la signora aveva stretto una specie di alleanza ostile contro
tutte le cose di Pescara, e specialmente contro il santo dei Pescaresi. Ad ogni
occasione nominava il paese natale, le bellezze e le ricchezze del paese
natale, gli splendori della sua basilica, i tesori di San Tommaso
, la
magnificenza delle cerimonie ecclesiastiche, in confronto alle miserie di San
Cetteo che possedeva un solo piccolo braccio d’argento. Donna Cristina disse:
- Guarda bene di là.
Maria uscì dalla stanza per
andare a cercare. Rovistò tutti gli angoli della cucina e della loggia
inutilmente. Tornò a mani vuote.
- Non c’è! Non c’è!
Allora ambedue si misero a
pensare, a cumular congetture
, a
investigar nella loro memoria. Uscirono su la loggia che dava nel cortile, su
la loggia del lavatoio, per fare l’ultima ricerca. Come
parlavano a voce alta, alle finestre delle case in torno si affacciarono le
comari.
- Che v’è successo, Donna Cristi? Dite! Dite!
Donna Cristina e Maria raccontarono il fatto, con molte
parole, con molti gesti.
- Gesù! Gesù! Dunque ci stanno i ladri?
In un momento il rumore
del
furto si sparse pel vicinato, per tutta Pescara. Uomini e donne si misero a
discutere, a immaginare chi potesse essere il ladro. La novella, giungendo alle
ultime case di Sant’Agostino, s’ingrandì: non si trattava più di un semplice
cucchiaio, ma di tutta l’argenteria di casa Lamonica.
Ora, come il tempo era bello e su
la loggia le rose cominciavano a fiorire e due lucherini
in
gabbia cantavano, le comari si trattennero alle finestre per il piacere di
ciarlare al bel tempo
,
con quel dolce calore. Le teste femminili apparivano tra i vasi di basilico e
il ciaramellìo
pareva dilettare i gatti in su le gronde
.
Donna Cristina disse,
congiungendo le mani:
- Chi sarà stato?
- Donna Isabella Sertale, detta
la Faina, che aveva i movimenti lesti e furtivi
di
un animaletto predatore
,
chiese con la voce stridula
:
- Chi ci stava con voi, Donna
Cristi? Mi pare che ho visto ripassare Candia...
- Aaaah! - esclamò Donna
Felicetta Margasanta, detta la Pica per la sua continua garrulità
.
- Ah! - ripeterono le altre comari.
- E non ci pensavate?
- E non ve n’accorgevate?
- E non sapete chi è Candia?
- Ve lo diciamo noi chi è Candia!
- Sicuro!
- Ve lo diciamo noi!
- I panni li lava bene, non c’è
che dire. È la meglio lavandaia che sta a Pescara, non c’è che dire. Ma tiene
lu difetto delle cinque dita
...
Non lo sapevate, comma?
- A me ‘na volta mi mancò due
mantili.-
- A me ‘na tovaglia.
- A me ‘na camicia.
- A me tre paia di calzette.
- A me due federe.
- A me ‘na sottana nuova.
- Io non ho potuto riavere niente.
- Io manco.
- Io non l’ho cacciata; perché chi prendo? Silvestra
?
- Ah! Ah!
- Angelantonia? Babascetta?
- Una peggio dell’altra!
- Bisogna ave’ pazienza.
- Ma ‘na cucchiara, mo’ !
- È troppo, mo’!
- Non vi state zitta, Donna Cristi; non vi state zitta!
- Che zitta e non zitta! -
proruppe Maria Bisaccia che, quantunque avesse l’aspetto placido
e
benigno, non si lasciava sfuggire nessuna occasione per opprimere o per mettere
in mala vista
gli altri serventi della
casa. - Ci penseremo noi, Donn’Isabbè, ci penseremo!
E le ciarle dalla loggia alle
finestre seguitavano. E l’accusa di bocca in bocca si propalò
per
tutto il paese.
II
La mattina vegnente
,
mentre Candia Marcanda teneva le braccia nella lisciva
,
comparve su la soglia la guardia comunale Biagio Pesce soprannominato il
Caporaletto
.
Egli disse alla lavatrice:
- Ti vuole il signor Sindaco sopra il Comune» subito.
- Che dici? - domandò Candia
aggrottando le sopracciglia, ma senza tralasciare la sua bisogna
.
- Ti vuole il signor Sindaco
sopra il Comune, subito.
- Mi vuole? E perché? - seguitò a
domandare Candia, con un modo un po’ brusco, non sapendo a che attribuire
quella chiamata improvvisa, inalberandosi
come fanno le bestie caparbie
dinanzi a un’ombra.
- Io non posso sapere perché - rispose il Caporaletto. - Ho
ricevuto l’ordine.
- Che ordine?
La donna, per una ostinazione
naturale in lei, non cessava dalle
domande. Ella non sapeva persuadersi della cosa.
- Mi vuole il Sindaco? E perché?
E che ho fatto io? Non ci voglio venire. Io non ho fatto nulla.
Il Caporaletto, impazientito, disse:
- Ah, non ci vuoi venire? Bada a te!
E se ne andò, con la mano su
l’elsa
della vecchia daga
,
mormorando. Intanto per il vico
alcuni che avevano udito il dialogo uscirono su gli usci e si misero a guardare
Candia che agitava la lisciva con le braccia. E, poiché sapevano del cucchiaio
d’argento, ridevano tra loro e dicevano motti ambigui
che
Candia non comprendeva. A quelle risa e a quei motti, l’inquietudine prese
l’animo della donna; e crebbe quando ricomparve il Caporaletto accompagnato
dall’altra guardia.
- Cammina! - disse il
Caporaletto, risolutamente.
Candia si asciugò le braccia, in
silenzio; e andò. Per la piazza la gente si fermava. Rosa Panara, una nemica,
dalla soglia della bottega gridò con una risata feroce:
La lavandaia, smarrita, non
immaginando la causa di quella persecuzione, non seppe che rispondere.
Dinanzi al Comune stava un gruppo
di persone curiose che la volevano veder passare. Candia, presa dall’ira, salì
le scale rapidamente; giunse in conspetto
del
Sindaco, affannata; chiese:
- Ma che volete da me?
Don Silla, uomo pacifico, rimase
un momento turbato dalla voce aspra della lavandaia, e volse uno sguardo ai
due fedeli custodi della dignità sindacale
.
Quindi disse prendendo il tabacco nella scatola di corno
:
- Figlia mia, sedetevi.
Candia rimase in piedi
. Il
suo naso ricurvo era gonfio di collera, e le sue guance rugose tremolavano alle
contratture delle mascelle mordaci.
- Voi siete stata ieri a riporta’
la biancheria a Donna Cristina Lamonica?
- Be’, che c’è? che c’è? Manca
qualche cosa? Tutto contato, capo per capo
...
Non manca nulla. Che c’è, mo’?
- Un momento, figlia mia! C’era
nella stanza l’argenteria...
Candia, indovinando, si voltò
come un falchetto inviperito che stia per ghermire
. E
le labbra sottili le tremavano.
- C’era nella stanza
l’argenteria, e Donna Cristina trova mancante ‘na cucchiara... Capite, figlia
mia? L’avete presa voi... pe’ sbaglio?
Candia saltò come una locusta
, a
quell’accusa immeritata. Ella non aveva preso nulla, in verità.
- Ah, io? Ah, io? Chi lo dice?
Chi mi ha vista? Mi faccio meraviglia di voi, Don Sì! Mi faccio meraviglia di
voi! Io ladra? io? io?...
E la sua indignazione non aveva
fine. Ella più era ferita dall’ingiusta accusa perché si sentiva capace
dell’azione che le addebitavano
.
- Dunque voi non l’avete presa? -
interruppe Don Siila, ritirandosi in fondo alla sua grande sedia curule
,
prudentemente
.
- Mi faccio meraviglia! - garrì
di
nuovo la donna, agitando le lunghe braccia come due bastoni.
- Be’, andate. Si vedrà.
Candia uscì, senza salutare,
urtando contro lo stipite
della porta. Ella era diventata verde: era fuori di sé. Mettendo il piede nella
via vedendo tutta la gente assembrata
,
comprese che oramai l’opinione popolare era contro di lei; che nessuno avrebbe
creduto alla sua innocenza. Nondimeno si mise a gridare le sue discolpe
. La
gente rideva, dileguandosi. Ella, furibonda, tornò a casa; si disperò; si mise
a singhiozzare su la soglia. Don Donato Brandimarte, che abitava a canto, le
disse per beffa:
- Piangi forte, piangi forte, che
mo’ passa la gente
.
Come i panni ammucchiati
aspettavano il ranno
,
ella finalmente si acquetò; si nudò le braccia, e si rimise all’opera.
Lavorando, pensava alla discolpa, architettava un metodo di difesa, cercava
nel suo cervello di femmina astuta un mezzo artifizioso
per
provare l’innocenza; arzigogolando sottilissimamente
, si
giovava di tutti gli spedienti della dialettica plebea
per
mettere insieme un ragionamento che persuadesse gli increduli. Poi, quando
ebbe terminata la bisogna, uscì; volle andare prima da Donna Cristina.
Donna Cristina non si fece
vedere. Maria Bisaccia ascoltò le molte parole di Candia scotendo il capo,
senza risponder niente; e si ritrasse con dignità.
Allora Candia fece il giro di
tutte le sue clienti. Ad ognuna raccontò il fatto, ad ognuna espose la
discolpa, aggiungendo sempre un nuovo argomento, aumentando le parole,
accalorandosi
, disperandosi dinanzi
alla incredulità e alla diffidenza, e inutilmente. Ella sentiva che oramai non
era più possibile la difesa. Una specie di abbattimento cupo le prese l’animo.
— Che più fare! Che più dire!
III
Donna Cristina Lamonica intanto
mandò a chiamare la Cinigia, una femmina del volgo, che faceva professione di
magia e di medicina empirica
con
molta fortuna. La Cinigia già qualche volta aveva scoperta la roba rubata; e si
diceva ch’ella avesse diverse pratiche
con
i ladroncelli.
Donna Cristina le disse:
- Ritrovami la cucchiara, e ti darò ‘na regalia forte
.
La Cinigia rispose:
- Va bene. Mi bastano ventiquattr’ore.
E, dopo ventiquattr’ore, ella
portò la risposta. - Il cucchiaio si trova in una buca, nel cortile, vicino al
pozzo.
Donna Cristina e Maria discesero
nel cortile, cercarono e trovarono, con grande meraviglia.
Rapidamente, la novella si sparse
per Pescara.
Allora, trionfante, Candia
Marcanda si diede a percorrere le vie. Ella pareva più alta; teneva la testa
eretta, sorrideva, guardava tutti negli occhi come per dke:
- Avete visto? Avete visto?
La gente su le botteghe,
vedendola passare, mormorava qualche parola e poi rompeva in uno sghignazzìo
significativo
. Filippo La Scivi, che
stava bevendo un bicchiere d’acquavite fine nel caffè d’Angeladea, chiamò
Candia.
- ‘Nu bicchiere pe’ Candia, di questo qua!
- La donna, che amava i liquori ardenti
,
fece con le labbra un atto di cupidigia
.
Filippo La Selvi soggiunse: Te lo
meriti, non c’è che di’.
Una torma
88
di oziosi erasi ragunata89 innanzi al caffè. Tutti avevano su la faccia un’aria
burlevole
.
Filippo La Selvi, rivoltosi
all’uditorio, mentre la donna beveva:
- L’ha saputa fa’; è vero? Volpe vecchia
.. .
E battè familiarmente la spalla ossuta della lavandaia.
Tutti risero.
Magnafave, un piccolo gobbo,
scemo e bleso
, unendo insieme l’indice
della mano destra con quello della sinistra, e impuntandosi su le sillabe,
disse:
- Ca... ca... ca... Candia...
la... la... Cinigia...
E seguitò a gesticolare e a
balbettare con un’aria furbesca, per indicare che Candia e la Cinigia erano
comari
. Tutti, a quella vista,
si contorcevano nell’ilarità
.
Candia rimase un momento
smarrita, co ‘1 bicchiere in mano. Poi d’un tratto comprese. Non credevano alla
sua innocenza. L’accusavano di aver riportato il cucchiaio d’argento
segretamente, d’accordo con la strega
,
per non aver guai.
Un impeto cieco di collera allora
la invase. Ella non trovava parole. Si gittò su ‘1 più debole, su ‘1 piccolo
gobbo, a tempestarlo di pugni e di graffi. La gente, con una gioia crudele, in
conspetto di quella lotta, schiamazzava a torno in cerchio, come dinanzi a un
combattimento d’animali; ed aizzava le due parti con le voci e con le
gesticolazioni
.
Magnafave, sbigottito da quella
furia improvvisa, cercava di fuggire, sgambettando come uno scimmiotto; e,
tenuto dalle mani terribili della lavandaia, girava con rapidità crescente,
come un sasso nella fionda, sinché cadde con grande veemenza bocconi
.
Alcuni corsero a. rialzarlo.
Candia si allontanò tra i sibili; andò a chiudersi in casa; si gìttò a traverso
il letto, singhiozzando e mordendosi le dita, pe ‘1 gran dolore. La nuova
accusa le coceva
più
della prima, tanto più ch’ella si sentiva capace di quel sotterfugio
.
Come discolparsi ora? Come chiarire la verità? — Ella si disperava, pensando di
non poter addurre
in
discolpa difficoltà materiali che avessero potuto impedire l’esecuzione
dell’inganno. L’accesso al cortile era facilissimo: una porta, non chiusa,
corrispondeva al primo pianerottolo della scalinata grande; per togliere
l’immondizie o per altre bisogne
una
quantità di gente entrava ed usciva liberamente da quella porta. Dunque ella
non poteva chiudere la bocca agli accusatori dicendo: -Come avrei fatto ad
entrare? — I mezzi per condurre a termine l’impresa erano molti ed agevoli
, e
su questa agevolezza
si
fondava la credenza popolare
.
Candia allora cercò differenti
argomenti di persuasione; aguzzò l’astuzia; immaginò tre, quattro, cinque casi
diversi per spiegare come mai si trovasse il cucchiaio nella buca del cortile;
ricorse ad artifizi e a cavilli
d’ogni genere; sottilizzò con una ingegnosità singolare. Poi si mise a girare
per le botteghe, per le case, cercando in tutti i modi di vincere l’incredulità
delle persone. Le persone ascoltavano quei ragionamenti capziosi
,
dilettandosi. In ultimo dicevano: - Va bene! Va bene!
Ma con tal suono di voce che
Candia rimaneva annichilata
.
Tutte le sue fatiche dunque erano inutili! Nessuno credeva! Nessuno credeva!
Ella, con una pertinacia mirabile
,
tornava all’assalto. Passava le notti intere pensando sempre a trovar nuove ragioni,
a costruire nuovi edifizi
, a
superare nuovi ostacoli. E a poco a poco, in questo continuo sforzo, la sua
mente s’indeboliva, non sosteneva più altro pensiero che non fosse quello del
cucchiaio, non aveva quasi più consapevolezza della vita comune. Più tardi, per
la crudeltà della gente, una vera manìa prese il cervello della povera donna.
Ella, trascurando le sue bisogne,
s’era ridotta quasi alla miseria. Lavava male i panni, li perdeva, li faceva
strappare. Quando scendeva alla riva del fiume, sotto il ponte di ferro, dove
erano raccolte le altre lavandaie, a volte si lasciava sfuggir di mano le tele
che rapiva per sempre la corrente. Parlava continuamente, senza, stancarsi
«vai, della medesima cosa. Per non udirla, le lavandai giovani si mettevano a
cantare e la beffavano nei canti con rime improvvise
.
Ella gridava e gesticolava, come una pazza.
Nessuno più le dava lavoro. Per
compassione le antiche clienti le mandavano qualche cosa da mangiare. A poco a
poco ella si abituò a mendicare. Andava per le strade, tutta cenciosa
,
curva e disfatta. I monelli le gridavano dietro:
- Mo’ dicci la storia de la
cucchiara, che nun la saperne, zi’
Ca’!
Ella fermava i passanti
sconosciuti, talvolta per raccontare la storia e per arzigogolare
su
la discolpa. I giovinastri la chiamavano e per un soldo le facevano fare tre,
quattro volte la narrazione; sollevavano difficoltà contro gli argomenti;
ascoltavano sino alla fine, per poi ferirla con una sola parola. Ella scoteva
il capo; passava oltre, si univa alle altre femmine mendicanti e ragionava con
loro, sempre, sempre, infaticabile, invincibile. Prediligeva una femmina sorda,
che aveva su la pelle una sorta di lebbra
rossastra e zoppicava da un piede.
Nell’inverno del 1874 la colse
una febbre maligna. Fu assistita dalla femmina lebbrosa. Donna Cristina
Lamonica le mandò un cordiale e un cassetto di brace
.
L’inferma, distesa su ‘1
giaciglio, farneticava
del
cucchiaio; si levava su i gomiti, tentava di agitar le mani, per secondare la
perorazione
. La lebbrosa le prendeva
le mani e la riadagiava pietosamente.
Nell’agonia, quando già gli occhi
ingranditi si velavano come per un’acqua torbida
che
vi salisse dall’interno, Candia balbettava:
- No so’ stata io, signò...
vedete... perché... la cocchiara...
(da G. D’Annunzio, Novelle
della Pescara, Mondadori, Milano)
L'assassinio di via Belpoggio
da
Racconti scritti e autobiografici
di
Italo Svevo
I
Dunque uccidere era cosa tanto
facile? Si fermò per un solo istante nella sua corsa e guardò dietro a sé:
Nella lunga via rischiarata da pochi fanali vide giacere a terra il corpo di
quell'Antonio di cui egli neppure conosceva il nome di famiglia e lo vide con
un'esattezza di cui subito si meravigliò. Come nel breve istante aveva quasi
potuto percepirne la fisionomia, quel volto magro da sofferente e la posizione
del corpo, una posizione naturale ma non solita. Lo vedeva in iscorcio, là
sull'erta, la testa piegata su una spalla perché aveva battuto malamente il
muro; in tutta la figura, solo le punte dei piedi ritte e che si proiettavano
lunghe lunghe a terra nella scarsa luce dei lontani fanali, stavano come se il
corpo cui appartenevano si fosse adagiato volontario; tutte le altre parti
erano veramente di un morto, anzi di un assassinato.
Scelse le vie più dirette; le
conosceva tutte ed evitava i viottoli per i quali non direttamente si
allontanava.
Era una fuga smodata come se
avesse avuto le guardie alla calcagna. Quasi gettò a terra una donna e passò
oltre non badando alle grida d'imprecazione ch'ella gli lanciava.
Si fermò sul piazzale di S.
Giusto. Sentiva che il sangue gli correva vertiginosamente le vene, ma non
aveva alcun affanno e non era dunque la corsa che lo aveva affaticato. Forse il
vino poco prima? Non l'assassinio, sicuramente non quello; non lo aveva né
affaticato né spaventato.
Antonio lo aveva pregato di
tenergli per un istante quel pacco di banconote. Poco dopo, quando Antonio
gliene chiese la restituzione a lui balenò alla mente l'idea che ben poca cosa
lo divideva dalla proprietà assoluta di quel pacco: La vita di Antonio! Non ne
aveva ancor ben concepita l'idea che già l'aveva posta ad esecuzione e si
meravigliava che quella idea che ancora non era una risoluzione gli avesse dato
l'energia di menare quel colpo formidabile tale che dello sforzo si risentiva
nei muscoli del braccio.
Prima di lasciare il piazzale
stracciò l'involucro che chiudeva il pacco di banconote, lo gettò via e ne
distribuì disordinatamente per le tasche il contenuto; poi s'incamminò con
passo che volle calmo ma che ben presto e per quanto egli tentasse di frenarlo,
ridivenne celere perché moderarlo sul piano era difficile, dopo esser salito di
corsa. Finì che fu preso da un grande affanno che lo costrinse a fermarsi,
proprio sotto il castello, con la sentinella che guardava la città nella quale
allora allora era stato commesso il grande delitto.
Sulla scalinata che conduceva
alla piazza della Legna gli fu più facile di moderare il passo ma soltanto
badando di portare sempre tutti e due i piedi su uno scalino prima di scendere
al prossimo. Voleva riflettere ma non seppe che prenderne l'atteggiamento. Ben
presto si disse che non ve n'era bisogno visto che ogni suo movimento era ora
dettato dalla necessità! Accelerò di nuovo il passo. Senza ritardo egli si
sarebbe recato alla ferrovia e avrebbe tentato di partire per Udine; di là gli
sarebbe stato facile di passare in Svizzera.
Allora era perfettamente in sé.
S'era dileguata la leggera nebbia prodotta nel suo cervello dalla cena che gli
aveva pagata il povero Antonio. Non era stata la causa del delitto, ma il vino,
fornitogli dalla sua vittima stessa, gliene aveva reso più facile l'esecuzione.
Se non avesse avuto quei fumi
alla testa non avrebbe saputo dimenticare che commesso il delitto, molto ancora
gli restava da fare prima di assicurarsene il frutto, e col suo carattere poco
energico, inerte, avrebbe sempre cercato mezzi e modi e finito col non agire
che al sicuro, dunque mai.
Dove si poteva uccidere al
sicuro? E se ci fosse stato il luogo, Antonio si sarebbe potuto trascinare? Gli
venne da ridere; quell'Antonio era tale un imbecille che lo si avrebbe potuto
far andare espressamente ad un macello più lontano.
Camminava ora franco e calmo per
la via ma non si dissimulava che la sua tranquillità veniva dal sapere che
nessuno dei passanti poteva ancora essere a conoscenza del delitto da lui
commesso. Per costoro, assolutamente, egli era ancora un uomo onesto e li
guardava franco in faccia quasi per usufruire per l'ultima volta del diritto
che stava per perdere.
Alla stazione però lo colse di
nuovo l'agitazione di poco prima. Là egli aveva da fare il passo che doveva
avere tanta importanza sul suo destino. Se lo si lasciava partire era salvo.
Quale calma non gli sarebbe stata data dal sentirsi trascinare lontano con la
rapidità vertiginosa del celere; perché, con un senso ch'egli non aveva saputo
di avere, dall'altra estremità della città egli sentiva avanzarsi la notizia
dell'omicidio e la persecuzione e sapeva che se non fuggiva, ben presto ne
sarebbe stato raggiunto.
Alla una doveva partire il treno
e ci mancava una mezz'ora circa. Egli non voleva entrare nell'atrio vuoto molto
tempo prima della partenza, ma non seppe rimanere lungo tempo, solo,
nell'oscurità e ciò non per timore ma per impazienza. Aveva guardato a lungo
l'orologio della stazione sorvegliando su esso l'avanzare del tempo, poi
osservato il cielo stellato e senza nubi.
Che cosa gli restava a fare? “Se
avessi qualcuno con cui parlare!”, pensò e fu in procinto di abbordare un
cocchiere che dormicchiava a cassetta della sua carrozza. Ma si trattenne
perché correva pericolo di parlargli del suo delitto e come all'infuori della
grande paura del giudizio dei suoi simili, a sua sorpresa egli non sentiva
affatto rimorso ma invece una specie di superbia per la risoluzione ferrea presa
improvvisamente e per la esecuzione ardita e sicura.
Entrò nell'atrio. Voleva vedere
le facce dei presenti ritenendo di poter comprendere da queste il destino che
lo attendeva.
Sulla panca accanto alla porta
erano sedute due donne friulane vicino ai loro cesti, a mezzo addormentate. In
fondo alcuni doganieri maneggiando dei colli e a sinistra, nella birraria,
v'era un solo uomo grasso che fumava seduto dinanzi ad un bicchiere di birra
semivuoto.
Si meravigliò di nuovo
dell'acutezza della sua vista e mai non s'era sentito così forte ed elastico,
pronto a lottare o a fuggire. Pareva che il suo organismo avvisato del pericolo
che correva avesse raccolto tutte le forze per mettergliele a disposizione in
quel frangente.
Il suo passo risonava forte nel
locale vuoto e destava una eco confusa. Le due friulane alzarono il capo e lo
guardarono.
Egli picchiò al finestrino della
dispensa per chiamare l'impiegato e non senza sforzo, seppe attendere senza
muoversi i parecchi minuti che costui ci mise a rispondere.
– Un biglietto per Udine!
– Che classe?
Non ci aveva pensato.
– Terza. – Non sceglieva quella
per economia ma per prudenza; bisognava viaggiare in conformità ai vestiti
molto sdrusciti.
– Andata e ritorno – aggiunse
rapidamente e sorpreso della buona idea venutagli.
Per pagare levò un pacco di
banconote ma le rimise subito in tasca; ve ne erano da mille fiorini. Trovò un
piccolo pacchetto da dieci fiorini e pagò.
Gli sembrò che l'opera fosse
compita a metà ora che aveva il biglietto in tasca. Anzi meglio che a metà
perché non aveva più da parlare con nessuno. Gli bastava sedersi
tranquillamente nel suo compartimento con quelle friulane che gli davano poco
sospetto e il resto era affare della locomotiva.
Bisognava occupare in qualche
modo il tempo che mancava alla partenza. Pose le mani in tutte le tasche e
palpò i biglietti di banca. Erano soffici quasi volessero simboleggiare la vita
che potevano dare.
Così con le mani in tasca si
appoggiò ad un pilastro della porta, il punto più oscuro dell'atrio donde
poteva sorvegliare tutto l'ambiente senza venir veduto. Anche sentendosi
perfettamente al sicuro non voleva tralasciare alcuna precauzione.
Non sentiva una grande gioia al
contatto delle banconote e andava dicendosi ch'era perché non se ne sentiva
ancora sicuro possessore. Invece, anche senza questo dubbio, il pensiero del
suo delitto non avrebbe lasciato luogo in lui ad altri sentimenti. Non era
preoccupazione e non rimorso ma quell'impressione al braccio destro col quale
aveva dato il colpo gli sembrava si fosse estesa a tutto il suo organismo.
L'atto così breve e fulmineo aveva lasciato traccie sul corpo che lo aveva
fatto. Il suo pensiero non sapeva staccarsene.
– Dammi i miei denari! – gli
aveva detto Antonio fermandosi tutt'ad un tratto. Avendo già preso la decisione
di non restituire il pacco, egli dubitò che Antonio non l'avesse indovinata e
intanto non fece altro che un atto designato a distruggere in costui il
sospetto. Stese la sinistra a porgergli il pacco ben sapendo ch'erano tanto
distanti uno dall'altro che le loro mani non giungevano a toccarsi. Antonio si
avvicinò subito troppo e in parte la violenza del colpo che ricevette derivò
dal suo movimento verso il ferro. Già si piegava e non ancora aveva compreso
ciò che gli succedeva. Portò le mani alla ferita e le ritirò bagnate di sangue.
Gettò un urlo e stramazzò a terra ove subito s'irrigidì. Strano! In quell'urlo,
la voce di Antonio era divenuta seria e solenne; non era più quella che fino ad
allora aveva balbettato le parole dell'imbecille e dell'ubriaco: “Gli accadeva
infatti cosa molto seria al povero Antonio”, pensò Giorgio seriamente.
Bruscamente venne tolto ai suoi
sogni. Con passo rapido era entrata una guardia ed era andata direttamente alla
dispensa. A Giorgio si gelò il sangue nelle vene. Lo cercavano diggià? Stette
fermo vincendo il movimento istintivo che lo avrebbe gettato sulla via, ma poi,
osservando la vivacità con la quale la guardia parlava con l'impiegato, gli
parve di indovinare ch'essa era venuta precipitosamente a dare l'ordine di non lasciarlo
partire e uscì dall'atrio senza far rumore in modo che persino le due friulane
vicinissime alla porta non s'accorsero della sua uscita.
Nell'oscurità della piazza ebbe
tanta calma da dubitare che quella sua fuga fosse giustificata ma non tanto da
ritornar nell'atrio. Risolse di fermarsi per qualche tempo a quel posto
sperando che la sua fortuna gli avrebbe dato qualche altra indicazione per
poter orientarsi. Non era piccola risoluzione o di facile esecuzione neppure
quella di rimanere là fermo, perché calmo non si sarebbe sentito che obbedendo
al suo istinto e correndo all'impazzata lontano da quel luogo. La vista di
persona che forse poteva avere il mandato di arrestarlo era bastata a
togliergli tutta l'audacia di cui poco prima s'era gloriato.
Cercò una posizione naturale per
dare anche meno nell'occhio e si sedette su una scalinata. Si sentiva a disagio
così, ma sapeva che quella era una posizione naturale perché pochi giorni
prima, dopo aver desinato abbondantemente una volta in quarant'otto ore, s'era
seduto sui gradini di una chiesa e aveva potuto osservare che i passanti non lo
vedevano.
Partire? Giocare d'audacia e
partire alla cieca, senza curarsi di sapere se alla partenza stessa o alla
prossima stazione sarebbe stato fermato? Lo fermò più che questo dubbio,
l'orrore di quelle ore di un'angoscia che da poco conosceva. Travestì la sua
paura in un ragionamento.
“Partire significava fuggire e la
fuga era una confessione. Se fosse stato colto nella fuga era perduto senza
misericordia”.
Sarebbe rimasto, e non gli
mancarono gli argomenti neppure per rendere ragionevole il suo desiderio di non
allontanarsi affatto dalla città. Chi poteva rintracciarlo? Due o tre persone
che non lo conoscevano lo avevano veduto con Antonio e dalla parte proprio
opposta a quella ove abitava.
Ma dopo quella prima
vigliaccheria non si sentì più capace di audacie. Un'audacia utile gli veniva
consigliata dal suo mobile cervello, ma anche mentre che con essa si baloccava,
neppure per un istante non ebbe l'intenzione di porla ad esecuzione. Lo
torturava una grande curiosità di sapere quello che la gente sapesse
dell'assassinio e quali ipotesi facesse sull'assassinio. Egli avrebbe potuto
portarsi di nuovo sul luogo del misfatto e informarsi con cautela. Ma a
quest'uopo bisognava naturalmente parlare dell'assassinio e forse con
guardie... tutta roba da far rizzare i capelli in testa.
No! Sarebbe ritornato
immediatamente a quella specie di tana che da oltre un anno gli serviva
d'abitazione e per lungo tempo non l'avrebbe abbandonata. Avrebbe continuato a
fare la vita che aveva fatto fino allora, concedendosi soltanto quelle comodità
che non potevano dare nell'occhio.
Per andare alla sua abitazione in
Barriera vecchia egli avrebbe dovuto passare la spaziosa via del Torrente.
Un'insormontabile paura della luce glielo impedì e spiegando a se stesso che la
sua paura era cautela, infilò una viuzza solitaria che lo portò sulla collina
adiacente ad una via larga ma fuori di mano, poco frequentata a quell'ora e
poco illuminata. Poi con un giro enorme, sempre preferendo le vie più oscure,
arrivò all'altra parte della città. Si fermò dinanzi ad una porta per uno
scalino più bassa della via. Entrò, chiuse dietro a sé la porta, e nella
profonda oscurità si sentì subito tranquillo. Egli aveva commesso un errore,
quella passeggiata alla stazione, e, ritornato salvo in casa, gli parve di
averlo annullato.
Là nessuno sapeva del suo
tentativo di fuga; in uno dei canti della stanza sentiva russare Giovanni,
probabilmente ubbriaco.
Cercò a tastoni il suo materasso,
vi si stese e si spogliò. Cacciò la giubba nella quale v'erano i denari, sotto
il guanciale e s'addormentò dopo aver brancolato verso il sonno in una fantasia
disordinata. Non gli sembrava di essere stato lui l'uccisore. Quella via
lontana ch'egli fuggendo aveva guardato anche una volta, l'assassinato che per
sì breve tempo aveva conosciuto e quella fuga alla stazione, gli balzavano
bensì dinanzi alla mente, ma senza commuoverlo o spaurirlo. Nella sua immensa
stanchezza gli parve che l'oscurità in cui si trovava non avesse a diradarsi
mai più. Chi sarebbe venuto a cercarlo là?
II
Giorgio nella triste società
nella quale viveva, veniva chiamato il signore. Non doveva questo nomignolo
alle sue maniere che pur si tradivano superiori a quelle degli altri ma più al
disprezzo ch'egli dimostrava per le abitudini e i divertimenti dei suoi
compagni. Costoro all'osteria erano felici mentre Giorgio vi entrava svogliato,
vi stava per lo più silenzioso, e quanto più beveva tanto più triste diveniva.
Il volgo ha un gran rispetto per la gente che non si diverte e Giorgio
accorgendosi dell'impressione che produceva affettava maggior tristezza di
quanto realmente sentisse.
In fondo la sua storia era molto
semplice e solita, né egli aveva il passato splendido che voleva far credere.
Gli studi di cui si vantava erano stati fatti in due classi liceali a
percorrere le quali aveva messo cinque anni. Poi aveva abbandonato le scuole e
in brevissimo tempo aveva dilapidato lo scarso peculio della madre. Fece vari
tentativi per conservarsi il posto di borghese colto a cui la madre aveva
tentato di portarlo, ma invano, perché non trovò altro impiego che di facchino.
Non potendola mantenere aveva abbandonato la madre e viveva in quella stalla
con altro facchino, certo Giovanni, lavorando, quando era molto attivo, due o
tre giorni per settimana.
Era malcontento di sé e degli
altri. Lavorava brontolando, brontolava quando riceveva la mercede e non sapeva
quietarsi neppure nelle sue lunghe ore d'ozio.
Ricco non era stato mai, ma s'era
trovato in condizioni nelle quali aveva potuto sognare di arrivare a stato
migliore e altri a lui d'intorno, la madre principalmente, avevano sognato con
lui e, certo, erano stati questi sogni e l'amarezza di vederne sempre più
lontana la realizzazione che avevano costato la vita ad Antonio.
Si svegliò con un sussulto in
seguito ad un grande rumore. Giovanni stava vestendosi, ed essendosi messo per
errore uno stivale di Giorgio, bestemmiando se l'era levato e l'aveva gettato
con violenza a terra.
Giorgio finse di dormire ancora e
per proposito respirando rumorosamente ripensò con sorpresa al suo delitto. Se
non fosse già stato commesso probabilmente egli non avrebbe avuto il coraggio
di commetterlo, ma giacché era cosa fatta e ch'egli coi nervi quietati dal
lungo riposo si trovava in quel luogo dimenticato da tutti, al sicuro,
poggiando la testa sul suo tesoro, non provò né rimpianto né rimorso. Questo fu
il primo sentimento in quella lunga giornata.
Giovanni oramai vestito lo prese
per un braccio e lo scosse: – Non vai a cercare lavoro, poltrone?
Giorgio aperse gli occhi e
stirandosi come se si fosse destato allora, brontolò: – Già oggi non se ne
trova. Resterò ancora un poco a letto.
Giovanni esclamò: – Oh! il
signore! Continui pure a riposare. – Uscì sbattacchiando dietro a sé l'uscio.
Già così, senza chiave, dal di
fuori non si poteva entrare, ma a Giorgio non bastò. Si levò e andò a tirare il
catenaccio. Poi trasse dalle tasche le banconote e le contò.
La vista di quel denaro gli dava
un sentimento di certo non giocondo: Era il ricordo del suo delitto e poteva
divenirne la prova. La vista della via illuminata dal sole mattutino lo aveva
agitato e invano, affannosamente, per essere di nuovo soddisfatto della sua
azione, andava calcolando quanti anni con quella somma avrebbe potuto vivere
libero e ricco. La preoccupazione maggiore interrompeva il calcolo e la
compiacenza. “Dove celarli?”
Il pavimento era coperto di
tavole che all'infuori di qualche leggera saldatura alle estremità erano
semplicemente poggiate sul terrazzo. Di buoni nascondigli ve n'erano
abbastanza, ma nessuno sicuro perché essendovi in tutta la stanza un solo
armadio, e quello senza chiave, i due inquilini avevano l'abitudine di usare
spesso di quei ripostigli.
Ma le buone idee non mancavano a
Giorgio. Nascose le banconote sotto il materasso di Giovanni.
Mentre era intento al lavoro con
un sorriso di compiacenza sulle labbra, un leggero rumore proveniente da un
canto della stanza lo fece trasalire e abbandonato un tavolo che aveva
sollevato, questo, cadendo, gli contuse una mano, producendogli un dolore che
dovette morsicarsi le labbra per non gridare. Gli parve che quello schiamazzo
somigliasse a quello di una lotta e fu tale il suo spavento che quando si
calmò, avvilito dovette riconoscere che se le buone idee non gli mancavano, gli
mancava qualche cosa che avrebbe potuto essergli di utilità immensamente
maggiore in quelle circostanze.
Decise di non uscire per il
momento. Gli era ben facile di trattenersi là nella semioscurità piuttosto che di
andare al sole, sulla via. Vedeva la luce che penetrava dall'unica finestra e
calcolava quale impressione gli doveva produrre di camminare per le vie di
giorno quando s'era sentito tanto male a camminarle di notte.
Giovanni gli avrebbe portato
delle notizie, le voci che correvano sull'assassino. Aveva l'abitudine di
leggere giornalmente il «Piccolo Corriere», e così sarebbe stato bene
informato.
L'avvenimento probabilmente più
importante del giorno innanzi era il suo misfatto!
Il più importante! Si sentì un
malessere come se qualche peso violentemente gli si posasse sul cuore.
Anche i suoi compagni si
sarebbero occupati di tale avvenimento.
Come avrebbe avuto il coraggio di
parlare del suo delitto, come prima o poi vi sarebbe stato costretto? Fare
l'attore in una simile parte, lui che per quanto perverso aveva il sangue che
alla menoma emozione gli arrossava la faccia?
Studiò la sua parte. Comprese
subito che in quelle circostanze e per quanto fosse da persona poco raffinata,
di fronte al delitto, egli era costretto di dimostrare una grande, immensa
indignazione. Né calma né indifferenza, perché la finzione sarebbe stata troppo
difficile. L'indignazione avrebbe spiegato il rossore, avrebbe spiegato il
tremito delle mani e l'attenzione intensa ch'egli non avrebbe saputo rifiutare
ad ogni più piccolo particolare che gli sarebbe stato riferito sul delitto.
Si vestì, e alle 11, l'ora in cui
gli operai non ancora l'invadevano, si portò all'osteria vicina. Prima di
uscire dalla sua tana la guardò lungamente; aveva l'aspetto solito dopo ch'egli
aveva pulita certa polvere che s'era ammassata accanto al letto di Giovanni,
sotto al quale erano state smosse le tavole.
Nessuno avrebbe potuto supporre
che in quella stanza era celato un tesoro.
All'osteria all'infuori della
fantesca non vide nessuno. Con costei, una bella donna quantunque passatella,
egli aveva amato talvolta di scherzare; in quel giorno gli riuscì impossibile.
Rimase seduto al suo posto
trasalendo ad ogni rumore che poteva annunciare la venuta di altre persone.
Non aveva udito ancora neppure
una parola sull'assassinio! Volle tentare di udire questa prima parola.
Era già avviato per uscire e
ritornò a Teresina che portava delle stoviglie alla dispensa. La prese sotto il
mento e guardandola fissa negli occhi: – Niente di nuovo Teresina? – le chiese,
non trovando una domanda più abile, e nella sua voce vibrò una commozione che
lo sorprese.
– Oh! Meno male! – esclamò ella
allontanandosi da lui, perché erano troppo vicini alla porta. – Temevo foste
ammalato vedendovi oggi così serio!
– Sto poco bene! – disse lui, e
acciocché ella più facilmente glielo credesse ripeté la frase più volte. Ella
si attendeva di ricevere qualche bacio ora che si era messa all'oscuro, ma egli
le andò vicino, la prese per mano amichevolmente, e ripeté la sua domanda: –
Niente di nuovo?
– Non sa dire altro quest'oggi? –
chiese ella, e volendo fare la smorfiosa si liberò della sua stretta e fuggì.
Sulla via egli camminò con passo
che volle sicuro diffilato verso la sua abitazione. Si trovava molto debole,
vigliacco in modo sorprendente. Il pensiero al suo misfatto gli aveva tolto
ogni naturalezza. Il suo contegno non era più naturale neppure con quella
servetta! Perché andava figurandosi che tutta la città si preoccupasse
dell'assassinio? Aveva chiesto alla Teresa se nulla sapesse di nuovo e s'era
atteso ch'ella subito in risposta alla sua vaga domanda gli raccontasse quanto
ella aveva sentito parlare del misfatto. – Oh! Bisogna mutare di contegno –, si
disse, nella fiera risoluzione morsicandosi le labbra, – ne va della pelle –.
Si era contenuto tanto scioccamente con Teresa che l'aveva resa capace di
divenire un testimonio a suo carico.
Forse in città nulla si sapeva
dell'assassinio! Questa speranza per quanto insensata diminuì il suo abbattimento.
Era l'unica ipotesi felice per lui perché egli aveva capito che non rimaneva
impunito se anche non veniva scoperto; quel terrore continuo era già per sé una
grave punizione. Chi poteva saperlo? Per un fenomeno qualunque il cadavere di
Antonio poteva essere scomparso dalla faccia della terra. Probabilmente sempre
è stata la speranza che ha supposto nella natura il miracolo.
Ma troppo presto questa speranza
venne distrutta. A mezzodì capitò Giovanni e anche a lui egli disse di essere
indisposto per scusarsi di non essere andato al lavoro.
– Ah! Così – fece Giovanni e
finché non continuò, Giorgio attribuì il sorriso ironico che gli vedeva errare
sulle labbra ad un sospetto. – Sei ammalato come al solito, eh?
Infatti non era la prima volta
che Giorgio si diceva ammalato per scusare la sua infingardaggine.
Poi subito senz'altra transizione
che uno sbadato: – Hai inteso? – Giovanni incominciò a raccontare del delitto
di via Belpoggio. Mangiava del pane che s'era portato di pranzo e quelle parole
attese da Giorgio con febbrile impazienza uscivano dalla sua bocca una alla
volta con lunghi intervalli. – Certo, Antonio Vacci... pare si tratti di oltre
trentamila fiorini. Un bel colpo! Il cuore spaccato! Se è vissuto dieci secondi
dopo di aver ricevuto quel colpo è assai.
Giorgio non si agitava soltanto
per la sua ultima speranza che crollava. Era stato quel cuore spaccato che gli
aveva dato il dolore al braccio; forse nel suo braccio aveva sentito le ultime
vibrazioni del viscere moribondo, e l'idea di quel contatto immediato lo faceva
fremere. Si sapevano da tutti persino i particolari del delitto; doveva
sembrare enorme. Sul corpo di Antonio non era rimasta traccia della
istantaneità del fatto, ma della violenza sì.
Non ardiva aprir bocca. Cribrava
ogni parola che gli saliva alle labbra e la ringoiava perché ognuna gli pareva
dovesse dare sospetto. Non c'era mezzo di far parlare quell'individuo tutto
occupato dal suo magro cibo e che nelle tante riflessioni che emetteva non
aveva detto ancora nulla sulle supposizioni che dovevano essere state fatte in
città sul suo conto?
Finalmente Giorgio trovò una
frase che gli parve un capolavoro di naturalezza: – E l'assassino chi è? – Per
trovare questa frase aveva dovuto prima esaminare quanta parte del fatto di cui
trattavasi fosse a sua conoscenza soltanto perché egli lo aveva commesso, poi
esaminare quanto nelle parole di Giovanni vi fosse di oscuro perché era
pericoloso dimostrare di aver capito troppo presto tutto – Sì l'assassino chi
è?
Con grande gioia egli osservò che
l'altro s'impazientava. Mettendovisi con tutt'attenzione egli sapeva dunque
ingannare abbastanza abilmente e questa volta non ebbe che un solo rimorso.
Nella gioia di aver trovato quella frase l'aveva ripetuta quasi inconsapevole.
– Non te l'ho già detto? Non
l'hanno trovato finora. Non si sa chi sia.
E da Giovanni di più non poté
sapere ed egli vi rinunciò. Per avere le notizie che Giovanni gli poteva dare
non aveva il bisogno di sottostare al supplizio di un colloquio. Se le sarebbe
procurate da un giornale.
Un quarto d'ora dopo l'uscita del
facchino con un coraggio ch'egli stesso ammirava, egli uscì non senza avere
titubato per qualche istante. Col desiderio di notizie ch'era stato stimolato
in lui da Giovanni non poteva attendere più oltre.
Per giungere all'edicola più
vicina del «Piccolo Corriere» gli occorreva camminare per dieci minuti circa.
Camminava dapprima rasente ai muri, poi, per il volgare ragionamento che
l'aspetto di voler celarsi avrebbe potuto dar sospetto, franco in mezzo alla
via, con passo che voleva essere disinvolto ma che s'impacciava continuamente.
Aveva dunque disimparato di camminare?
Avuto il giornale si rintanò
immediatamente. Si gettò sul materasso che aveva trascinato sotto all'unica
finestra e si mise a leggere. Mai in tutta la sua esistenza egli non aveva
trovato tanto interesse a un pezzo di carta stampata, giammai su questa carta
egli aveva saputo rivolgere tutta la sua attenzione e dimenticare il proprio
contorno da sembrargli, cessata la lettura, di destarsi da un lungo sogno.
L'assassinio era il fatto più
importante della cronaca locale e la riempiva quasi del tutto. Il racconto del
misfatto era preceduto da alcune considerazioni fatte dal giornale sulla
frequenza con cui simili fatti di sangue si verificano in città e con un tono
d'amarezza che certamente impressionò maggiormente l'assassino che leggeva che
le autorità a cui era destinato, si lagnava della trascuratezza con cui
s'invigilava alla pubblica sicurezza.
Leggendo a lui sembrava di odiare
il giornale! Perché quell'accanimento? Certamente anche se egli fosse stato
punito l'altro non si sarebbe risvegliato più. Non bastava l'accanimento che
già naturalmente ci avrebbe messo l'autorità a ricercarlo?
Da tutto l'articolo appariva o si
voleva far apparire, che l'assassinio aveva destato la massima sensazione in
città. Si trattava di un misfatto, diceva il giornalista, commesso con
un'audacia inaudita, in una via della città abbastanza vicina al centro e ad
un'ora avanzata bensì, ma non tanto che si dovesse supporne specialmente
spopolato quel rione. Un passante qualunque per la sola ragione che aveva seco
del denaro era stato ucciso proditoriamente.
S'ingannavano e Giorgio avrebbe
dovuto esserne lieto perché in tale modo il sospetto sarebbe caduto anche più
difficilmente su lui; nessuno aveva veduto la vittima accompagnata
dall'assassino. Però descritto in tale modo quale l'opera di un aggressore che
aveva ucciso un passante qualunque solo perché nelle sue tasche aveva supposto
del denaro il delitto diveniva ben più terribile; il malessere di Giorgio ne
veniva aumentato. Costoro che di lui parlavano non sapevano a quale tentazione
egli era stato esposto dall'imbecillità di Antonio.
Era facile a comprendere che
descritto in tale guisa l'assassinio doveva commuovere tutta la città. Ognuno
sentiva minacciata la propria amata persona e sarebbe divenuto al caso un utile
ausiliare della polizia.
Dell'assassino non una sola
parola giusta.
Poco prima del fatto, raccontava
il giornale, erano stati veduti aggirarsi in quei pressi due individui di
pessimo aspetto presumibilmente gli autori dell'omicidio.
Quest'errore era assolutamente
consolante per Giorgio ed egli stesso si meravigliò di non sentirsi scendere
nel cuore un po' di calma all'apprenderlo.
Quell'articolo l'aveva scosso profondamente.
Egli aveva sospettato delle persecuzioni fatte con maggiore fortuna, ma, per
quanto sfortunate ora che vi si trovava di fronte, lo agitavano e lo
impaurivano. Forse esiste nel nostro organismo qualche parte tanto delicata che
già si risente al solo augurio del male. Egli sentiva convergere sul suo tale
un cumulo di odio, che, per quanto impotente dovesse sembrargli per il momento,
lo opprimeva.
Il giornale che non poteva dire
una parola sull'assassino, si sfogava col fare una biografia particolareggiata
dell'assassinato.
Antonio Vacci era maritato e
padre di due ragazze. La famiglia era vissuta poveramente fino a qualche mese
prima, in cui le era toccata inaspettata una vistosa eredità. Il Vacci veniva
descritto quale persona di poco cervello e che dacché era arricchito aveva
l'abitudine di portare seco una grossa somma di denaro che faceva vedere a chi
lo desiderava.
Non era quindi possibile di
elevare dei sospetti contro quelle persone che sapevano di questo tesoro
ambulante perché erano troppe. «Intanto», soggiungeva il giornale, «l'autorità
fa subito degli interrogatori a tutti gli abitanti della casa ove abitava il
povero Vacci».
“Oh! Fossi fuggito”, pensò con
rammarico cocente l'assassino. Da quanto aveva letto era chiaro che il sospetto
fino ad allora non era caduto su di lui e partendo da Trieste la sera innanzi
egli sarebbe potuto giungere fino in Isvizzera
prima
di aver a temere persecuzioni. Riteneva fondatamente che il profondo malessere
che lo rendeva tanto infelice non lo avrebbe colto se si fosse trovato lontano
dal luogo ove aveva ucciso.
Verso sera si recò anche una
volta all'aperto. Camminò più franco ed egli si affrettò ad attribuire quel
coraggio alla certezza di sapersi inosservato. Ma la paura regnava sovrana nel
suo organismo. A farlo trasalire bastava qualche cosa d'immediato e
impreveduto, per esempio di trovarsi improvvisamente faccia a faccia con una
montura qualunque che magari somigliasse soltanto a quella di una guardia. Non
era la lettura del giornale, la sicurezza di sapersi non sospettato che gli
dava coraggio, e finì col riconoscerlo anche lui. Era l'abitudine alla nuova
posizione che gli permetteva di muoversi più sciolto. Gran parte di quello che
noi diciamo coraggio è l'esperienza e l'abitudine del pericolo.
III
Giovanni entrando alle sette di
sera lo guardò con cipiglio comicamente serio: – Sai che si sospetta che tu sii
l'assassino di Antonio Vacci? – gli disse a bruciapelo.
Giorgio era nell'oscurità, sul
suo giaciglio. Egli sentì che se non fosse stato così, l'altro, alla sola vista
della sua fisonomia, che doveva essersi alterata orribilmente, avrebbe compreso
che quel sospetto di cui parlava scherzosamente era ben fondato. Ove erano iti
i suoi propositi di freddezza e di disinvoltura? – Chi? – balbettò. Non si poteva
movere una domanda più sciocca ma l'aveva preferita a tutte le altre perché la
più breve che gli fosse venuta in mente.
Giovanni rispose che tutti i loro
amici ne parlavano. A quanto raccontava il «Piccolo Corriere della Sera» una
donna aveva veduto fuggire l'assassino dal luogo del delitto, anzi quasi ne era
stata gettata a terra, e aveva saputo dare sul suo aspetto dei particolari
abbastanza precisi: Intanto dei capelli ricci neri, abbondantissimi, e un
cappello a cencio.
Lo spavento che in Giorgio era
stato provocato dalle prime parole di Giovanni, da queste ultime venne alquanto
diminuito. Piccolissima, ma qualche tranquillità gliene doveva derivare. Egli
si rammentava di quella donna la quale lo aveva visto nell'oscurità e per un
breve istante, tale che sicuramente non le aveva concesso di osservare in lui
altro all'infuori del cappello a cencio e dei capelli neri. Di più ella non lo
aveva visto uccidere e se anche lo avesse ritrovato e riconosciuto, egli non
era del tutto perduto; poteva salvarsi negando. Certo! Era atroce la sua
situazione ed egli ne era consapevole, ma tutt'altro che disperata. I capelli
si potevano tagliare e mutare il cappello.
– Guarda quale combinazione! –
disse pronto a Giovanni con un'audacia di cui poco prima non si sarebbe creduto
capace. – Nell'ozio di quest'oggi io avevo deciso di tagliare i capelli che mi
pesano, e anche... anche mutare questo cappello a cencio che non mi piace.
Non c'era male, ma lo spavento
trapelava se non dalle parole dal suono della voce, e un osservatore più abile
di Giovanni se ne sarebbe accorto.
Con intelligenza costui osservò:
– Se non vuoi avere seccature da parte della polizia farai bene a non mutare
per ora né la tua barba né il tuo cappello.
– Ma se ci sei tu per dichiarare
che avevo l'intenzione di fare questi mutamenti prima che del cappello o della
barba dell'assassino si parlasse.
Oh! Se avesse potuto trarre
Giovanni nella sua orbita, farne il suo complice! Se non fosse stata quella
orribile paura di vederlo sorgere quale primo accusatore gli avrebbe gettato le
braccia al collo, gli si sarebbe confidato e gli avrebbe offerto metà del suo
tesoro imponendogli metà delle sue torture. Gli sarebbe sembrata la liberazione
quella di avere un complice, perché egli credeva che avrebbe mutato natura il
suo terrore se avesse potuto metterlo in parole. Quel pensiero continuo dei
suoi persecutori gli sembrava più terribile perché non espresso. Causa la
mancanza della parola ragionata egli credeva di non aver saputo prendere una
risoluzione energica che lo avrebbe salvato. Si ragionava tanto male con quelle
idee mobili che passavano per la mente senza lasciarvi traccia, inafferrabili
pochi istanti dopo nate.
Fece un leggero tentativo di
ottenere aiuto da Giovanni non appellandosi però con una confessione alla sua
amicizia, ma confidando nella debolezza del cervello di costui. – Del resto –
disse con noncuranza – sai bene che all'ora in cui dicono che il misfatto è
stato commesso, io ero già a letto, tant'è vero che mi salutasti entrando.
– Non rammento! – disse Giovanni
con un'esitazione che chiuse definitivamente la bocca a Giorgio; somigliava
molto a un sospetto.
E tacque quantunque Giovanni poi
sembrasse parlare appositamente per ridargli il coraggio che gli aveva tolto.
Poco prima di uscire disse: – Ecco
un colpo di coltello che frutta bene a quel brav'uomo che lo diede. Io se
vivessi cento anni e sempre lavorassi, non guadagnerei quanto costui ha
conquistato in un solo istante. In fondo sono pregiudizi che ci trattengono dal
fare il nostro interesse. Paff! Un colpo bene assestato e si ha tutto quello
che occorre!
Guardandolo uscire Giorgio
pensava che forse Giovanni sarebbe stato capace di ammazzarlo al sicuro per
trafugargli il suo tesoro ma che non avrebbe accettato la complicità in un
affare pericoloso. Egli si sentiva migliore di molto di lui che a sangue freddo
predicava l'assassinio. Egli l'aveva commesso ma in un dato momento, vinto
dalla tentazione di rendere suoi quei denari che lo salvavano dalla sua
infelicissima vita. Non aveva ragionato e in quell'istante nemmeno se avesse
avuto presente la punizione che gli sarebbe potuta toccare per quel fatto, la
forca, il boia, non si sarebbe lasciato trattenere. Aveva dunque arrischiato la
propria vita per prendersi l'altrui e, non come vigliaccamente faceva Giovanni,
accarezzato l'idea di uccidere al sicuro.
O forse ora se ne era
dimenticato? L'atto di cui egli ricordava l'istantaneità non era stato prodotto
da un'aberrazione momentanea e lo provava la soddisfazione ch'egli lungamente
aveva sentita scoprendosi in quello stesso atto forte ed energico. Oscuramente
poi si ricordò che qualche idea molto simile a quella enunciata da Giovanni
doveva essere passata anche per la sua mente. Quale strano indebolimento della
memoria! L'assassinio era venuto a dividere la sua vita in due parti e al di là
di quell'avvenimento egli non ricordava le proprie idee, le proprie sensazioni,
il proprio individuo che oscuramente come se si fosse trattato di cose non
vissute ma udite raccontare, molti, molti anni prima.
Ora, doveva rassegnarsi a
riconoscerlo, egli era un individuo di cui la soppressione veniva desiderata da
un'intera società.
Come sfuggire a tale odio, come
rendersene meno degno? Se egli fosse stato chiamato a dare ragione del suo
misfatto, che cosa avrebbe detto per diminuirne agli occhi altrui la crudeltà,
convincerli ch'egli era migliore di quanto poteva apparire se giudicato
unicamente da quella sua azione? Egli avrebbe raccontato che un individuo
ch'egli appena conosceva gli aveva consegnato del denaro quasi dicendogli: – Se
mi uccidi sono tuoi! – che egli seguendo l'invito lo aveva ucciso. Non avrebbe
trovato altro da dire? Sicuramente ciò non bastava a giustificarlo né a far
apparire minore la sua colpa e scoprendo che vi era l'impossibilità di
convincere altri della propria innocenza, egli finì col riconoscere che il suo
sentimento era anormale, irragionevole. Strano infatti il sentimento
d'innocenza in un individuo che aveva ucciso e non per amore o per odio ma per
avidità.
Egli non poteva più ingannare se stesso,
ma gl'importava tanto di diminuire l'odio e il disprezzo nei suoi futuri
giudici che a quello scopo dedicò tutto il suo pensiero e quando credette di
aver scoperto i mezzi per raggiungerlo, in quell'opera impiegò un tempo
prezioso, nel quale avrebbe potuto fors'anche salvarsi.
Da parecchi anni non s'era
rammentato di sua madre ed ora pensava a lei per farsi aiutare in una finzione
che aveva progettato. Se il suo delitto fosse stato scoperto, e non stava in
suo potere d'impedirlo, egli avrebbe asserito che l'aveva commesso per porsi in
stato di aiutare la sua vecchia madre.
A notte fatta egli fece la lunga
gita a S. Giacomo ove doveva trovarsi la madre. Camminando non pensava affatto
al piacere di rivederla; rifaceva la scena su cui aveva già fantasticato, in
cui si sarebbe giustificato dinanzi ai giudizi.
Il suo delitto non aveva avuto
altro scopo che di rendere aggradevoli gli ultimi anni di vita di una povera
vecchia, di sua madre. Non ne dubitava più. Gli sarebbe stato facile di mutare
in un'indulgenza commessa l'orrore che avrebbe ispirato la sua azione.
Era certo di poter indurre sua
madre a recitare la commedia. Era una donna intelligente che non lo amava
dacché egli aveva tradito le speranze ch'ella in lui aveva riposte, ma che lo
avrebbe accarezzato non appena saputolo ricco. A lui era di grande conforto
quella speranza di affetto ch'egli avrebbe corrisposto con tutte le forze
dell'anima sua. In quell'affetto si sarebbe quietata la sua agitazione, si
sarebbero annegati quelli che impropriamente egli chiamava rimorsi. L'avrebbe
trattata dolcemente, si sarebbe confidato a lei come a se stesso, e avrebbe
posto a sua disposizione tutto il suo denaro. Quell'amore gli nasceva nel cuore
addirittura violento. Nulla di simile era mai passato per la sua anima. Egli
era stato sempre egoista e duro ed ora si compiaceva nell'idea di accarezzare
un essere debole e farsene lo schiavo e il difensore.
Scorse un ragazzo seduto accanto
alla prima casa operaia. Lo riconobbe e provò un sentimento giocondo: Era
Giacomino, il figliuolo di un vicino della madre.
Il ragazzo nell'ombra fumava con
voluttà; vedendo Giorgio arrossendo si levò in piedi e celò la sigaretta nel
cavo della mano.
Giorgio gli sorrise e voleva
rassicurarlo, dirgli ch'egli di certo non lo avrebbe denunciato al padre, ma
non aveva tempo e si limitò a quel sorriso.
– Mia madre dov'è? – chiese con
premura come se avesse da portarle una notizia urgente.
Più rassicurato da quel sorriso
che attristato dalla triste notizia che doveva dare, il ragazzo disse: – Sua
madre? – e spese queste due uniche parole per preparare Giorgio, aggiunse
rapidamente: – Sua madre è morta da otto giorni all'ospedale. Anzi papà sarà
contento di vederla perché da parte della signora Annetta ha da dirle qualche
cosa. Vado a chiamarlo!
– Non occorre, non occorre –
disse Giorgio con voce afona, e, già allontanandosi, in modo che il ragazzo
forse non poté udirlo aggiunse: – Ritornerò domani, addio.
Così perdette quella speranza che
in poche ore aveva accarezzato tanto da finire col tenerci addirittura quanto
alla speranza di non venir scoperto. Non era il dolore per la morte della madre
che lo faceva barcollare e che gli offuscava la vista. Egli non vedeva dinanzi
a sé il volto della defunta ora illividito, o non richiamava alla mente la voce
che non doveva udire più mai, o il gesto che tanto spesso era stato affettuoso
per lui. Era morta inopportunamente quella vecchia e la sua morte faceva di lui
di nuovo un vile assassino rapace.
Fu questa notizia sorprendente
che gli tolse la capacità di pensare e lo gettò in braccio ai suoi persecutori.
In quelle ore in cui s'era cullato nel sogno di fingere al suo delitto uno
scopo nobile e guadagnarsi nel caso in cui fosse stato preso la commiserazione
dei suoi simili, egli non aveva pensato al difficile compito di sfuggire alla
pena. Perduta questa speranza la paura lo aveva guadagnato di nuovo del tutto
ed egli fuggiva anche adesso che ritornando in città si avvicinava maggiormente
al pericolo.
Nella oscurità accanto a piazza
della Barriera, ebbe una strana visione. Con lo stesso suo passo veloce
camminava dinanzi a lui un ometto curvo, piccolo, misero, le mani ostinatamente
in tasca, Antonio Vacci insomma. Lo vedeva distintamente, scorgeva tutte le
particolarità della miserabile personcina, persino i radi capelli grigi
accuratamente lisciati sulle tempie, e per un istante non ebbe dubbio di sorta:
Antonio era vivo!
Non si fermò a riflettere come
ciò potesse essere dopo ch'egli l'aveva visto giacere in terra come cosa senza
vita. Antonio era vivo ed egli non aveva ucciso. Si cacciò innanzi con un urlo.
Voleva offrirgli la restituzione di tutti i suoi denari, magari obbligandosi a
dargliene degli altri in futuro e non chiedergli nulla in compenso, soltanto
che vivendo testificasse ch'egli non aveva ucciso.
Stupefatto si trovò dinanzi ad
una faccia misera, dalla pelle incartapecorita ma del tutto sconosciuta, non
quella di Antonio, e ripiombò nella sua disperazione con questo di più che
essendosi trovato a desiderare la vita di Antonio con una intensità maggiore,
egli si giudicò anche meno degno di odio e di persecuzione e provò una forte
compassione di se stesso che gli cacciò le lagrime agli occhi. Egli si vedeva
come un uomo che capitato per propria colpa su un'erta china precipita e
rimangono inutili tutti i suoi sforzi per fermarsi perché il terreno frana
sotto ai suoi piedi e gli arbusti a cui si attacca non resistono. Gli
sembravano sforzi per fermarsi quella gita in cerca di sua madre e la speranza
di ritrovare Antonio vivo!
Invece appena allora, in
quell'agitazione in cui si trovava, fece l'unico sforzo per salvarsi, ma tanto
balordamente che fu quello stesso sforzo che lo perdette. L'uomo sulla china,
per salvarsi, non aveva trovato di meglio che secondarla e precipitarsi da sé a
valle.
Bisognava liberarsi da quel
cappello a cencio che gli pesava sulla testa come il suo delitto stesso. Non
rammentò l'intelligente osservazione di Giovanni e risoluto entrò da un
cappellaio. Era l'ora in cui si doveva venir osservati meno perché si stava già
chiudendo il negozio, ma egli non pensò che trasudato dalla corsa e agitato da
tante emozioni, sarebbe bastato un solo sospetto per scoprire in lui il
malfattore che fugge.
Una ragazza già vestita per
abbandonare il negozio, inguantata, elegante, con certi occhi neri spiritati
dall'impazienza, gli chiese che cosa desiderasse e udito che voleva un cappello
con una smorfia ritornò dietro il banco. Il padrone un giovine alto e magro si
alzò da un piccolo tavolo posto nel fondo del negozio. Prima che si alzasse
Giorgio non lo aveva veduto ed ora non lo guardava ma si sentiva osservato da
lui, ciò che finì con lo sconcertarlo.
– Presto – mormorò con accento
supplichevole che alla ragazza dovette sembrare fuori di posto.
Ella gli offerse un altro
cappello a cencio. – No – disse lui con qualche vivacità.
Ella gliene porse un altro
ch'egli prese in mano risoluto di non rimanere più oltre in quella luce,
osservato con intensa curiosità dalla ragazza, dal padrone e dal facchino che
aveva tralasciato di ritirare i cappelli esposti evidentemente soltanto per
guardarlo.
Egli ben volentieri avrebbe fatto
a meno di provare il cappello nuovo prima di pagarlo, ma capì che ne era
obbligato dalla più rudimentale prudenza. Si levò il cappello a cencio e la
faccia venne inondata da un sudore abbondante.
– Caldo? – chiese la ragazza
motteggiando.
Egli esitò un istante prima di
rispondere. Gli parve che da quella domanda gli fosse stata data l'occasione di
spiegare che si trovava in quello stato in seguito alla lunga gita da lui fatta
e non per altra ragione. Ma non seppe avere tanta audacia. – Sì! Molto caldo! –
mormorò rasciugandosi il fronte.
Pagò e uscì dimenticandosi di
prendere con sé il cappello a cencio. Il cappello nuovo, troppo piccolo, gli
stava in testa in equilibrio e malfermo gli dava immenso fastidio.
In piazza della Barriera per la
quale dovette ripassare vide Giovanni con altri tre operai. Si avvicinò loro
esitante, sapendo allora per esperienza che ogni sua parola ogni suo gesto
sarebbe stato tanto strano da destare sospetto.
L'accolsero con saluto glaciale e
lo guardarono con diffidenza. Non era un inganno della sua paura; così non lo
avevano trattato mai. Lo guardavano con curiosità e nessuno gli rivolse la
parola.
A mezzo ubbriaco dal terrore egli
ebbe un ultimo tentativo di disinvoltura: – Si va all'osteria? Pagherò io per
questa sera.
Giovanni gli disse: – Essi
sospettano che tu sii l'assassino di via Belpoggio e finché non ti sei nettato
di questo sospetto non vogliono venire con te! –
Egli comprese che se fosse stato
innocente avrebbe dovuto atterrare chi per primo elevava un simile sospetto. Ma
che cosa poteva fare con quel tremito che gl'invadeva le membra e gl'impediva
persino la parola?
I quattro operai si allontanarono
inorriditi da lui. Il loro sospetto era divenuto certezza.
Barcollando egli si allontanò.
Aveva fatto pochi passi quando si
sentì preso con violenza per ambedue le braccia e udì qualcuno che vicinissimo
al suo orecchio gridò: – In nome della legge...
Ebbe una violenta allucinazione
mentre gli rimaneva abbastanza di coscienza per capire che non era altro che
un'allucinazione. Intese un enorme fragore, il rumore di cose che crollavano,
le imprecazioni di una folla armata e vide dinanzi a sé Antonio che rideva
sgangheratamente, le mani nelle tasche, nelle quali certo aveva riposto il suo
tesoro riconquistato. Poi più nulla.
Si ritrovò adagiato sul suo
giaciglio. Nella stanza v'era una sola guardia.
Due uomini vestiti in borghese,
di cui uno, piccolo e tarchiato, con un volto grasso e dolce sembrava il
superiore, contavano i denari che già avevano trovati sotto il giaciglio di
Giovanni.
Costui li aveva aiutati e stava
in posizione rispettosa in un canto della stanza. Alla porta vi era un'altra
guardia, che tratteneva la folla che si spingeva innanzi.
– Assassino! – gli gridò una
vecchia alla quale era riuscito di giungere fino sul limitare della porta, e
sputò.
Era perduto! Non poteva negare,
ma quello ch'era peggio non avrebbe mai trovato le parole per descrivere le
torture da lui sofferte e che avrebbero attenuato la sua colpa. Per tutti
costoro egli era una macchina malvagia di cui ogni movimento era una mala
azione o il desiderio di farla, mentre egli sentiva di essere un miserabile
giocattolo abbandonato in mano capricciosa.
Con voce dolcissima l'uomo dal
volto dolce gli chiese se stesse meglio, poi il nome. In quella faccia non vi
era segno di odio o di disprezzo e Giorgio dicendo il proprio nome lo guardò
fisso per non vedere la folla alla porta.
Poi la medesima persona comandò
alla guardia di far entrare per il confronto quella donna e il cappellaio.
– No! – pregò Giorgio, e
abbondanti lagrime gl'irrigarono il volto. – Ella mi sembra buono e non mi
torturerà inutilmente; le dirò tutto, tutta la verità. – Poi indugiò alquanto
quasi per attendere una ispirazione che lo portasse a tacere, a salvarsi, ma
bastò un piccolo movimento d'impazienza del suo interlocutore per far cessare
ogni esitazione. – Sono io l'assassino di Antonio – disse con voce semispenta.
Il viaggio
da
Novelle per un anno di
Luigi Pirandello
Adriana Braggi è una donna di trentacinque
anni, che vive in Sicilia nella prima metà del Novecento. Sposatasi a diciotto
anni, è rimasta vedova dopo quattro anni di matrimonio e da allora vive in
una sorta di clausura con i due figli nella casa di famiglia, in una cittadina
dell’interno dell’isola. Secondo le usanze, esce pochissimo, solo accompagnata,
e segue con rassegnata dedizione la crescita dei figli e i lavori dei domestici
nel palazzo. Con lei vive l’anziana madre e Cesare Braggi, il fratello maggiore
del marito, ancora scapolo. L’uomo, dopo la morte del fratello, ha provveduto
al mantenimento dell’intera famiglia. Morta la madre e divenuti adolescenti i
due figli, Adriana, nonostante la giovane età, si sente vecchia e stanca.
L’angoscia e l’oppressione si acutizzano
in concomitanza di alcuni malesseri che preoccupano il suo medico curante;
quest’ultimo le consiglia di recarsi a Palermo per consultare uno specialista.
L’idea di un viaggio verso la città, e
forse verso altre mete, la anima di un fervore e di un’ansia febbrili, quasi
infantili. Cesare Braggi la accompagna e tra i due si accende un’improvvisa,
tumultuosa passione. Amareggiata dal fatto di non poter dare una forma convenzionale
a questa unione, e di non poter quindi ritornare a casa, la donna, giunta dopo
un lungo itinerario a Milano, si suicida.
Adriana è sul treno diretto a Palermo;
arrivata in città, viene visitata da un illustre medico e dopo qualche giorno
parte, sempre in compagnia del cognato, alla volta di Napoli.
Andava in treno per la prima volta. A ogni tratto, a ogni
giro di ruota, aveva l’impressione di
penetrare, d’avanzarsi in un mondo ignoto, che d’improvviso le si creava nello
spirito con apparenze che, per quanto le fossero vicine, pur le sembravano come lontane e le davano, insieme col piacere
della loro vista, anche un senso di pena sottilissima e indefinibile: la
pena ch’esse fossero sempre esistite oltre e fuori dell’esistenza e anche dell’immaginazione di lei; la
pena d’essere tra loro estranea e di passaggio, e ch’esse senza di lei
avrebbero seguitato a vivere per sé con le loro proprie vicende.
Ecco
lì le umili case di un villaggio: tetti e finestre e porte e scale e strade: la
gente che vi dimorava era, come per tanti
anni era stata lei nella sua cittaduzza, chiusa lì in quel punto di
terra, con le sue abitudini e le sue occupazioni: oltre a quello che gli occhi
arrivavano a vedere, non esisteva più nulla per quella gente; il mondo era un sogno: tanti e tanti lì nascevano e lì crescevano
e morivano, senza aver visto nulla di quel che ora andava a veder lei in
quel suo viaggio,
che era così poco a petto della grandezza del mondo, e che tuttavia a lei
sembrava già tanto.
Nel
volgere gli occhi, incontrava a quando a quando lo sguardo e il sorriso del cognato, che le domandava:
«Come ti senti?».
Gli
rispondeva con un cenno del capo:
«Bene».
Più
d’una volta il cognato venne a sederlesi accanto per mostrarle e nominarle un
paese lontano, ov’era stato, e quel monte là dal profilo minaccioso, tutti gli
aspetti di maggior rilievo che si figurava
dovessero più vivamente richiamare l’attenzione di lei.
Non intendeva che tutte le cose, anche le minime, quelle
che per lui erano le più comuni,
destavano intanto in lei un tumulto di sensazioni nuove; e che le indicazioni, le notizie ch’egli le dava, anziché accrescere,
diminuivano e raffreddavano quella fervida, fluttuante immagine di
grandezza, ch’ella, smarrita, con quel sentimento di pena indefinibile, si
creava alla vista di tanto mondo ignoto.
Nel
tumulto interno delle sensazioni, inoltre, la voce di lui, anziché far luce, le
cagionava quasi un arresto buio e violento, pieno di fremiti pungenti; e allora
quel sentimento di pena si faceva più acuto in lei, più distinto. Si vedeva
meschina nella sua ignoranza; e avvertiva un
oscuro e quasi ostile rincrescimento della vista di tutte quelle cose che ora,
troppo tardi per lei, all’improvviso, le riempivano gli occhi e le entravano nell’anima.
A
Palermo, scendendo il giorno dopo dalla casa del clinico primario dopo la lunghissima
visita, comprese bene dallo sforzo che faceva il cognato per nascondere la
profonda costernazione, dalla premura affettata con
cui ancora una volta aveva voluto farsi
insegnare il modo di usare la medicina prescritta e dall’aria con cui il medico gli aveva risposto; comprese bene che questi
aveva dato su lei sentenza di morte, e
che quella mistura di veleni da prendere a gocce con molta precauzione, due
volte al giorno prima dei pasti, non era altro che un inganno pietoso o
il viatico di una lenta agonia.
Eppure, appena, ancora un po’ stordita e disgustata dal
diffuso odore dell’etere nella casa del medico, uscì
dall’ombra della scala sulla via, nell’abbagliamento del sole al tramonto, sotto un ciclo tutto di fiamma che
dalla parte della marina lanciava come un
immenso nembo sfolgorante sul Corso lunghissimo; e vide tra le vetture entro quel baglior d’oro il brulichio della folla
rumorosa, dai volti e dagli abiti accesi da riflessi purpurei, i guizzi
di luce, gli sprazzi colorati,
quasi di pietre preziose, delle vetrine, delle insegne, degli specchi delle
botteghe; la vita, la vita, la vita soltanto
si sentì irrompere in subbuglio nell’anima per tutti i sensi commossi ed
esaltati quasi per un’ebbrezza divina; né potè avere alcuna angustia, neppure
un fuggevole pensiero per la morte prossima e inevitabile, per la morte ch’era
pure già dentro di lei, appiattata
là, sotto la scapola sinistra, dove più acute a tratti sentiva le punture. No,
no, la vita, la vita! E quel subbuglio interno che le sconvolgeva lo spirito,
le faceva impeto intanto alla gola, ove non
sapeva che cosa, quasi un’antica pena sommossa dal fondo del suo essere le si era a un tratto ingorgata, ed ecco la
forzava alle lagrime, pur fra tanta
gioia.
«Niente...
niente...» disse al cognato, con un sorriso che le s’illuminò vividissimo negli occhi attraverso le lagrime. «Mi par
d’essere... non so... Andiamo, andiamo...»
«All’albergo?»
«No... no...»
«Andiamo
allora a cenare allo "Chalet" a mare, al Foro Italico; ti piace?»
«Sì, dove vuoi.»
«Benissimo.
Andiamo! Poi vedremo il passeggio al Foro; sentiremo la musica...» Montarono in vettura e andarono incontro a quel
nembo sfolgorante, che accecava.
Ah,
che serata fu quella per lei, nello «Chalet» a mare, sotto la luna, alla vista
di quel Foro illuminato, corso da un continuo
fragore di vetture scintillanti, tra l’odore delle alghe che veniva dal mare, il profumo delle zagare che veniva dai giardini! Smarrita come in un
incanto sovrumano, a cui una certa angoscia le impediva di abbandonarsi
interamente, l’angoscia destata dal dubbio che non fosse vero quanto vedeva, si
senti va lontana, lontana anche da se
stessa, senza memoria né coscienza né pensiero, in una infinita
lontananza di sogno.
L’impressione di questa lontananza infinita la riebbe più
intensa la mattina seguente, percorrendo
in vettura gli sterminati viali deserti del parco della Favorita, perché, a un certo punto, con un lunghissimo sospiro
potè quasi rivenire a sé da quella lontananza e misurarla, pur senza
rompere l’incanto né turbare l’ebbrezza di quel sogno nel sole, tra quelle piante che parevano assorte anch’esse in un
sogno senza fine.
E,
senza volerlo, si voltò a guardare il cognato, e gli sorrise, per gratitudine.
Subito
però quel sorriso le destò una viva e profonda tenerezza per sé condannata a
morire, ora, ora che le si schiudevano davanti agli occhi stupiti tante
bellezze meravigliose, una vita, quale anche per lei avrebbe potuto essere,
qual era per tante creature che lì vivevano. E sentì che forse èra stata una crudeltà
farla viaggiare.
Ma
poco dopo, quando la vettura finalmente si fermò in fondo a un viale remoto, ed
ella, sorretta da lui, ne scese per vedere da vicino la fontana d’Ercole; lì,
davanti a quella fontana, sotto il cobalto
del cielo così intenso che quasi pareva nero attorno alla
fulgida statua marmorea del semidio su l’alta colonna sorgente in mezzo all’ampia conca, chinandosi a guardare l’acqua vitrea,
su cui nuotava qualche foglia, qualche cuora verdastra che
riflettevano l’ombra sul fondo; e poi, a ogni lieve ondulìo di quell’acqua,
vedendo vaporare come una nebbiolina sul volto impassibile delle sfingi che
guardano la conca, quasi un’ombra di pensiero si sentì anche lei passare sul volto che come un alito fresco veniva da
quell’acqua; e subito a quel soffio un gran silenzio di stupore le allargò smisuratamente lo spirito; e, come se un
lume d’altri cieli le si accendesse improvviso in quel vuoto
incommensurabile, ella sentì d’attingere in quel punto quasi
l’eternità, d’acquistare una lucida, sconfinata coscienza di tutto, dell’infinito che si nasconde nella
profondità dell’anima misteriosa, e d’aver vissuto, e che le poteva
bastare, perché era stata in un attimo, in quell’attimo, eterna.
Propose
al cognato di ripartire quello stesso giorno. Voleva ritornarsene a casa, per
lasciarlo libero, dopo quei quattro giorni sottratti alle sue vacanze. Un altro
giorno egli avrebbe perduto per
riaccompagnarla; poi poteva riprendere la via, la sua corsa annuale per
paesi più lontani, oltre quell’infinito mare turchino. Senza timore poteva, che di sicuro lei non sarebbe morta così presto,
in quel mese delle sue vacanze.
Non
gli disse tutto questo; lo pensò soltanto; e lo pregò che fosse contento di
ricondurla al paese.
«Ma
no, perché?» le rispose egli. «Ormai ci siamo; tu verrai con me a Napoli. Consulteremo
là, per maggior sicurezza, qualche altro medico.»
«No,
no, per carità, Cesare! Lasciami ritornare a casa. È inutile!»
«Perché?
Nient’affatto. Sarà meglio. Per maggior sicurezza.»
«Non
basta quello che abbiamo saputo qua? Non ho nulla; mi sento bene, vedi? Farò la cura. Basterà.»
Egli
la guardò serio e disse:
«Adriana,
desidero così».
E
allora ella non potè più replicare: vide in sé la donna del suo paese che non
deve mai replicare a ciò che l’uomo stima giusto e conveniente; pensò che egli
volesse per sé la soddisfazione di non
essersi contentato d’un solo consulto, la soddisfazione che gli altri, là in paese, domani, alla morte di
lei, potessero dire: «Egli fece di tutto per salvarla; la portò a
Palermo, anche a Napoli...». O forse era in lui veramente la speranza che un altro medico di più lontano, più bravo,
riconoscesse curabile il male, scoprisse un rimedio per salvarla? O forse... ma
sì, questo era da credere piuttosto: sapendola irremissibilmente perduta,
egli voleva, poiché si trovava in viaggio con lei, procurarle quell’ultimo e
straordinario svago, come un tenue compenso alla crudeltà della sorte.
Ma
ella aveva orrore, ecco, orrore di tutto quel mare da attraversare. Solo a guardarlo,
con questo pensiero, si sentiva mozzare il fiato, quasi avesse dovuto attraversarlo a nuoto.
«Ma
no, vedrai», la rassicurò egli, sorridendo. «Non avvertirai neppure d’esserci,
di questa stagione. Vedi com’è tranquillo? E poi vedrai il piroscafo... Non
sentirai nulla.»
Poteva ella confessargli l’oscuro presentimento che la
angosciava alla vista di quel mare, che
cioè, se fosse partita, se si fosse staccata dalle sponde dell’isola che già le
parevano tanto lontane dal suo paesello e
così nuove; in cui già tanta agitazione, e così strana, aveva provato;
se con lui si fosse avventurata ancor più lontano, con lui sperduta nella tremenda, misteriosa lontananza di
quel mare, non sarebbe più ritornata alla sua casa, non avrebbe più
rivalicato quelle acque, se non forse morta? No, neanche a se stessa poteva confessarlo questo presentimento; e credeva
anche lei a quell’orrore del mare, per il solo fatto che prima non lo
aveva mai neppur veduto da lontano; e, doverci ora andar sopra...
S’imbarcarono
quella sera stessa per Napoli. Di nuovo,
appena il piroscafo si mosse dalla rada e uscì dal porto, passato lo stordimento
per il trambusto e il rimescolio di tanta gente che saliva e scendeva per il pontile,
vociando, e lo stridore delle gru su le stive; vedendo a grado a grado allontanarsi è rimpiccolirsi ogni cosa, la gente su lo
scalo, che seguitava ad agitare in saluto i fazzoletti, la rada, le
case, finché tutta la città non si confuse in una striscia bianca, vaporosa, qua e là trapunta da pallidi lumi
sotto la chiostra ampia dei monti grigi rossigni; di nuovo si sentì
smarrire nel sogno, in un altro sogno meraviglioso, che le faceva però sgranare
gli occhi di sgomento, quanto più, su quel piroscafo, pur grande, sì, ma forse fragile se vibrava tutto così ai
cupi tonfi cadenzati delle eliche, entrava nelle due immensità
sterminate del mare e del cielo.
Egli sorrise di quello sgomento e, invitandola ad
alzarsi e passandole con una intimità
che finora non s’era mai permessa un braccio sotto il braccio, per sorreggerla,
la condusse a vedere di là, su la coperta
stessa, i lucidi possenti stantuffi d’acciaio che movevano quelle eliche. Ma ella,
già turbata di quel contatto insolito, non potè resistere a quella vista e più al fiato caldo, al tanfo grasso che vaporavano di là, e fu per mancare e reclinò e quasi appoggiò il capo su
la spalla di lui. Si contenne subito, quasi atterrita di quella voglia
istintiva d’abbandono a cui stava per cedere.
E
di nuovo egli, con maggior premura, le chiese:
«Ti senti male?».
Col
capo, non trovando la voce, gli rispose di no. E andarono tutti e due, così a braccio, verso la poppa, a guardar la lunga scia
fervida fosforescente sul mare già divenuto nero sotto il cielo
polverato di stelle, in cui il tubo enorme della ciminiera esalava con continuo sbocco il fumo denso e lento,
quasi arroventato dal calore della macchina.
Finché, a compir l’incanto, non sorse dal mare la luna; dapprima tra i vapori
dell’orizzonte come una lugubre maschera di fuoco che spuntasse minacciosa a spiare in un silenzio spaventevole quei suoi
dominii d’acqua; poi a mano a mano schiarendosi, restringendosi precisa nel suo
niveo fulgore che allargò il mare in un argenteo
pàlpito senza fine. E allora più che mai Adriana sentì crescersi dentro l’angoscia e lo sgomento di quella delizia che la
rapiva e la traeva irresistibilmente a nascondere, esausta, la faccia
sul petto di lui.
Fu a Napoli, in un attimo, nell’uscire da un
caffè-concerto, ove avevano cenato e passato
la sera. Solito egli, nei suoi viaggi annuali, a uscire di notte da quei
ritrovi con una donna sotto il braccio, nel porgerlo ora a lei, colse
all’improvviso sotto il gran cappello nero
piumato il guizzo d’uno sguardo acceso, e subito, quasi senza volerlo, diede col braccio al braccio di lei una stretta
rapida e forte contro il suo petto. Fu tutto. L’incendio divampò.
Là,
al buio, nella vettura che li riconduceva all’albergo, allacciati, con la bocca
su la bocca insaziabilmente, si dissero
tutto, in pochi momenti, tutto quello che egli or ora, in un attimo, in
un lampo, al guizzo di quello sguardo aveva indovinato: tutta la vita di lei in tanti anni di silenzio e di
martirio. Ella gli disse come sempre, sempre, senza volerlo, senza
saperlo, lo avesse amato; e lui quanto da giovinetta la aveva desiderata, nel
sogno di farla sua, così, sua! sua!
Fu
un delirio, una frenesia, a cui diedero una violenta lena instancabile la brama
di ricompensarsi in quei pochi giorni sotto la condanna mortale di lei, di
tutti quegli anni perduti, di soffocato ardore e di nascosta febbre; il bisogno
d’accecarsi, di perdersi, di non vedersi quali finora l’uno per l’altra erano
stati per tanti anni, nelle composte apparenze oneste, laggiù, nella
cittaduzza dai rigidi costumi, per cui quel loro amore, le loro nozze domani
sarebbero apparse come un inaudito sacrilegio.
Che
nozze? No! Perché lo avrebbe costretto a quell’atto quasi sacrilego per tutti? perché lo avrebbe legato a sé che aveva ormai
tanto poco da vivere? No, no: l’amore, quell’amore frenetico e
travolgente, in quel viaggio di pochi giorni; viaggio d’amore, senza ritorno;
viaggio d’amore verso la morte.
Iginio Ugo
Tarchetti – Iginio Pietro Teodoro Tarchetti nacque a San Salvatore
Monferrato il 9 giugno 1839. Quinto di otto figli di una famiglia agiata compì
studi classici presso i Padri Somaschi.
Alla
fine del liceo classico, Tarchetti si arruolò nell’Esercito ed iniziò la sua
breve e tempestosa carriera di ufficiale nel Commissariato militare.
Nel
1861, Tarchetti fu inviato con il proprio reggimento a Foggia, e quindi a
Lecce, a Taranto e a Salerno, per la repressione del brigantaggio meridionale.
Nel
1863, Tarchetti ottenne il trasferimento a Varese e qui conobbe Carlotta Ponti,
con la quale iniziò una relazione amorosa (osteggiata dal padre
della giovane che arrivò a minacciarlo con la pistola), che durò circa un anno
e di cui resta traccia nel fitto epistolario.
Negli
anni 1863-65 maturarono le sue esperienze più importanti: terminata la
travagliata relazione con Carlotta, gli affanni maggiori gli derivarono
dall’impiego militare e dall'insofferenza per la disciplina, acuitasi
soprattutto dopo il periodo trascorso nell’Italia meridionale, durante il quale
si era rafforzato il suo fondamentale antimilitarismo che spesso gli
aveva procurato punizioni.
Nel
1864, Tarchetti ottenne un’aspettativa per motivi di salute: si recò a
Milano e qui avviò, con alcuni amici, un cenacolo letterario ed in omaggio ad
Ugo Foscolo, assunse il secondo nome di Ugo.
Il
31 ottobre 1865 sulla Rivista minima,
Tarchetti pubblicò le Idee minime sul
romanzo e, nel mese di novembre, proprio pochi giorni dopo l’inizio
della pubblicazione di Paolina sulla stessa
rivista, fu richiamato in servizio e destinato a Parma, dove intrecciò una scandalosa relazione con la parente di
un suo superiore, Carolina, una donna epilettica di cui rimane traccia nella
protagonista del romanzo Fosca.
Congedatosi
dall’Esercito, ritornò a Milano e qui, insieme agli amici scapigliati cominciò
a condurre una vita disordinata e turbolenta, ma anche letterariamente
impegnata, alternando fughe a Torino e a San Salvatore alla
frequentazione di salotti borghese, come quello della contessa
Clara Maffei, e delle redazioni dei periodici radicali come il Gazzettino rosa.
Amico
dei coetanei scapigliati, per qualche tempo Tarchetti fece parte della
redazione dell’Emporio pittoresco,
pubblicando diversi articoli. Intanto, oltre alle novelle e ad
alcune poesie, pubblicò a puntate su Il
Sole il romanzo antimilitarista Drammi della vita militare .Vincenzo D***, Una nobile follia.
Fra
il 1868 e il 1869, Tarchetti visse ospite dell'amico Salvatore Farina, che
spesso lo aiutò anche economicamente.
Il
25 marzo 1869, con il fisico già minato dalla tisi, per un attacco di febbre
tifoide Tarchetti si aggravò e morì in casa di Farina.
Nel
1869, postumi furono pubblicati: Racconti
fantastici, L'amore nell'arte,
Storia di una gamba, L'innamorato della montagna e Fosca.
Nel
1879 fu pubblicato Disjecta.
Poole:
Poole è una città del Dorset in Inghilterra.
Nell'abitato si segnalano alcune belle costruzioni tardo-medievali, fra cui il
palazzo municipale, del XIV secolo. Poole, con le sue spiagge ed il porto
turistico, attraeva numerosi visitatori durante il periodo estivo.
Perochè: è
una congiunzione subordinate causale di uso letterario, usata per introdurre una proposizione causale con
il verbo all'indicativo o al congiuntivo. Essa equivale a: per questo, perché,
poiché.
Vita dei campi - Nell'ambito della
produzione verista di Giovanni Verga un posto di primo piano, accanto ai romanzi,
è occupato da due raccolte di novelle pubblicate nel 1880 e nel 1883.
La
prima, Vita dei campi, si compone di nove novelle.
Tematica
unificatrice è quella dell'amore-passione: l'uomo vive prigioniero di un
sentimento a cui non può opporre alcuna resistenza. Questo lo spinge
all'azione, spesso violenta e impulsiva, lo condanna all'emarginazione o alla
degradazione fisica o morale. Cavalleria rusticana, La lupa, Jeli il pastore,
L'amante di Gramigna, Pentolacela... raccontano tutte una passione esclusiva,
totalizzante, che porta l'individuo ad allontanarsi dall'equilibrio naturale
del suo ambiente, rappresentato dalla casa, dal nucleo familiare chiuso e ben
protetto. La famiglia definisce il perdurare nel tempo dei valori arcaici di
una società contadina e, proprio per questo, non ammette alcuna lesione della sua
stabilità; ogni trasgressione è destinata all'insuccesso, alla sconfitta,
perché la natura ricerca prontamente e spontaneamente il suo equilibrio,
escludendo ogni elemento di disturbo.
La
famiglia, poi, garantisce l'uomo, lo protegge dalla logica esterna della
sopraffazione: come l'ostrica che rimane avvinta allo scoglio è tutelata dalla
violenza della marea, così l'uomo, nella struttura gerarchica della famiglia,
dove ognuno ha un proprio ruolo, si salva dall'egoismo del mondo esterno.
Il
chiuso nucleo familiare, infatti, insieme con gli altri, costituisce la
collettività, il villaggio; le sue relazioni sociali sono esclusivamente
basate su rapporti economici. Un individuo non vale per quello che è, ma è
inserito in una collettività che lo accetta e lo apprezza per quanto possiede.
Al di fuori del villaggio, poi, c'è il mondo, ignoto, inesplorato, la città che
conduce alla perdizione.
Caratteristiche
stilistiche della raccolta sono il canone dell'impersonalità, cioè
l'obiettività di ciò che viene rappresentato, senza intrusioni di commento o di
partecipazione emotiva da parte dell'autore, la creazione di una struttura
linguistica che sintetizzi la lingua italiana e il dialetto siciliano e che
ricrei un ambiente e dei personaggi come "fatti da sé".
Vita dei campi, è una raccolta di otto novelle ambientate nel
mondo contadino. Di
queste, cinque (]eli il pastore, Cavalleria rusticana, L’amante di Gramigna, La
lupa, Pentolacela) sono incentrate sul tema dell’amore-passione e si concludono in modo
drammatico e violento; delle altre, una (Rosso
Malpelo) narra la storia di un ragazzo
che lavora in una cava, un’altra (Guerra dei santi) ha per protagonista un intero paese, la terza (Fantasticheria) non ha un vero e proprio impianto
narrativo e fa da prologo ai Malavoglia. In questa raccolta la società contadina non viene rappresentata come un
mondo semplice e sereno al di qua
della storia e del progresso, ma appare dominata dalla crudele legge del più
forte in base alla quale la roba e la donna, gli unici beni di questo mondo povero, tendono fatalmente a cadere nelle mani di chi possiede il potere e la ricchezza.
L’unica cellula in cui non valgono i rapporti economici ma solo i legami di sangue e all’interno
del la quale l’individuo si sente
difeso e protetto è la famiglia. Ecco perché chi ne è privo è ancor più debole ed emarginato (Jeli, Rosso Malpelo) e d’altra parte chi attenta a essa, alla sua unità
finisce per essere ucciso (don Alfonso in Jeli il pastore, Turiddu
in Cavalleria rusticana, la lupa nella novella omonima). Per rappresentare questa realtà Verga adotta il metodo dell’«impersonalità» dell’arte:
si serve di uno stile rapido e oggettivo, non commenta i fatti né
esprime giudizi sui personaggi e lascia la parola a un narratore interno al
mondo rappresentato che ne condivide il
linguaggio e il modo di pensare.
Giovanni Verga
- Giovanni Verga nacque a Catania il 2 settembre 1840.
L’attività
giovanile di Verga si svolse nella città natale: influenzato dal suo insegnante
Don Antonio Abate, autore di opere intrise di romanticismo, Verga esordì con un
romanzo intitolato Amore e Patria, scritto fra il 1856 e il 1857
e rimasto inedito.
Nel
1861, uscì a puntate I
carbonari della montagna.
Nel
1863, fu pubblicato su «La nuova Europa»
il secondo romanzo d’appendice verghiano intitolato Sulle lagune.
Nel
1865, Verga lasciò la Sicilia: Firenze, capitale del regno d’Italia, offriva a
Verga l’ambiente mondano ideale in cui far spaziare il proprio talento.
L’interesse del giovane provinciale inurbato per i fasti della mondanità trovò
ampio sfogo in Una peccatrice del 1866.
Il
successo letterario giunse per Verga con Storia di una capinera del 1871, romanzo in cui l’accento
è posto sul tema delle passioni travolgenti e fatali. In esso si riscontra una
sorta di verismo ante litteram,
soprattutto, quando Verga narra la pazzia della giovane protagonista costretta
a farsi monaca.
Nel
1872, Verga si trasferì a Milano, dove frequentò i ritrovi eleganti del
capoluogo lombardo ed entrò in contatto con gli scapigliati, pur non
condividendo fino in fondo l’atteggiamento nichilista del loro movimento.
Testimonianza di questa fase è il romanzo Eva del 1873.
Non
altrettanto felice si possono considerare i successivi romanzi: Tigre reale del 1873 ed Eros del 1875.
Nel
1878, traumatizzato dalla morte della madre e angosciato dai sensi di colpa per
aver abbandonato il focolare domestico, Verga cominciò la composizione de I malavoglia. Se Nedda del 1875 rappresenta per alcuni
l’inizio della nuova arte di Verga, per altri non farà che rivelare come
«l’elegante reduce dei salotti» abbia «cambiato materia ma non… il suo spirito
e le sue abitudini mentali». Tesi, questa, che trova conferma nel volume
successivo Primavera e altri
racconti, dove Verga torna alla società elegante e salottiera di Eros.
Quando
nel 1875 compose il bozzetto marinaresco Padron ‘Ntoni e quando, poi, nel 1878 annunciò a
Salvatore Paola il ciclo della “marea”,
successivamente rinominato “ciclo dei Vinti”,
per Verga il Verismo era ancora uno strumento tecnico, che suggeriva un
linguaggio nuovo. Solo con l’introduzione a L’amante
di Gramigna Verga fu in grado di accettare la dottrina dell’impersonalità;
con Fantasticheria, poi,
il provvisorio distacco dalla tematica mondana potrà dirsi consumato.
Primo
frutto della conversione letteraria
di Verga è Vita dei campi del 1880.
Il
senso di una tragedia ineluttabile appare anche ne I Malavoglia del 1881. Ne I Malavoglia, tuttavia, Verga
continuò a fare retorica sul focolare e sulla necessità di non infrangere la
legge della solidarietà che lega i poveri fra loro. L’ideale dell’ostrica, teorizzato in Fantasticheria,
è una formulazione ideologica: in Verga visse una coerente ideologia
conservatrice, che può spiegare il pessimismo fatalistico ed il terrore della
storia, rivissuto nell’Aci Trezza de I
Malavoglia, paese reso microcosmo astorico, di vita vissuta secondo le
necessità della natura, più che della storia.
Mastro Don Gesualdo è del 1889. Tra quest’ultimo e I Malavoglia si collocano Il marito di Elena del 1882 le novelle milanesi Per le vie del 1883 e, infine, le Novelle rusticane sempre del 1883.
Dopo Mastro Don Gesualdo comincia il tramonto dello scrittore
che ricerca una nuova espressione nel teatro.
Di
questo periodo è Dal tuo al
mio del 1905, che racchiude
in sé una prefazione piena di strali polemici verso i socialisti.
L’involuzione
delle idee politico sociali di Verga è netta e rapida: in una lettera a
Camerini del 1888 egli si definiva politicamente «moderato», ma era intimamente
avverso al metodo della democrazia parlamentare. Più tardi diventerà
sostenitore della politica crispina e africanista e, quando si verificheranno i
luttuosi fatti di Milano del 1898, plaudì alle repressioni di Bava-Beccaris.
Nel
1912, Verga aderì esplicitamente al partito nazionalista, fu interventista,
dannunziano e antinittiano, e mostrò simpatie per il nascente partito fascista.
Queste prese di posizione furono dettate anche da motivi economici: Verga,
proprietario terriero, era molto preoccupato dalla legge agrumaria che
danneggiava i produttori, era in ansia per la mancata vendita dei suoi limoni
di Novalucello.
Dopo
la raccolta Vagabondaggio del 1887, iniziò il crepuscolo di
Verga con I ricordi del
capitano d’Arce del 1891.
Fallì il tentativo di dar vita, con la Duchessa
di Leyra, ad un quadro della vita aristocratica siciliana: del romanzo, che
doveva essere parte del progettato e mai concluso “ciclo dei Vinti”, vide la luce solo il
primo capitolo, pubblicato nel 1922, dopo la morte dell’autore.
Verga
visse i suoi ultimi anni a Catania, dove morì nel 1922 abbandonato ad una vita
inattiva e tranquilla, ad una solitudine sdegnosa e scontrosa, noncurante della
tardiva fama consacrata dalla nomina a senatore nell’ottobre del 1920.
cava della rena rossa: cava di sabbia rossa da costruzione. La cava è
un luogo allo scoperto, o scavato nel sottosuolo, da cui si estraggono minerali
o materiali da costruzione.
bigio: nero perché fatto con farina scura più
scadente.
soprastante: sorvegliante.
bettonica:
pianta erbacea molto nota fino ai secolo scorso per le sue numerose
applicazioni in medicina.
mastro Mìsciu: mastro è il nome che
viene solitamente dato in Sicilia ai muratori e agli artigiani. Misciu è diminutivo
di Domenico.
a cottimo:
con un compenso pattuito in anticipo, indipendentemente dal numero di ore di
lavoro che saranno effettivamente prestate.
minchione: ingenuo, sciocco.
fa pancia: si gonfia fino a franare.
lezzo del carcame: puzzo del cadavere.
mentre che: nonostante che.
il sangue suo: un suo figliolo.
Le novelle
della Pescara - Gabriele D’Annunzio pubblicò Le novelle della Pescara nel 1902, utilizzando anche alcuni testi
già apparsi nelle raccolte Il libro delle
vergini (1884) e San Pantaleone
(1886).
L’opera
nasce quindi da un’attenta selezione, che le conferisce, nella varietà dei temi
affrontati, un carattere unitario. Il primo elemento caratterizzante è, come
suggerisce il titolo, il rapporto con il territorio.
Il
paese di Pescara è al centro di questa narrazione, insieme alla campagna
circostante che spesso accoglie folle di persone in preda ad impulsi non
controllabili. Si pensi ai contadini in rivolta nel racconto dell’Eroe, dove il nobile protagonista si
getta nel fuoco mentre i poveri assediano il palazzo, all’esaltazione
collettiva dei fedeli che gridano al miracolo o alla guerra tra due paesi, dai
nomi immaginari di Radusa e Mascalico, ognuno dei quali cerca di imporre il
proprio patrono all’altro.
D’Annunzio
mostra da un lato una perfetta padronanza del mezzo espressivo, che riesce a
restituire ogni minima emozione dei personaggi, dall’altro una viva curiosità
per le emozioni più estreme. Si va dal fanatismo della folla alla sorte
disperata di molte madri, che finiscono per morire di parto o nel tentativo
disperato di vedere un’ultima volta il figlio ormai lontano. La
rappresentazione di scene di vita quotidiana si risolve a volte in beffe di
sapore boccaccesco, ma il legame più significativo risulta quello che avvicina
D’Annunzio al Verismo.
Anche
lo scrittore abruzzese ama soffermarsi sulle emozioni del popolo e sulle sue
rivolte, non però per descrivere le rivendicazioni sociali, ma per studiarne
gli stati d’animo, le energie quasi primordiali che vengono sprigionate nel
momento della protesta. Per questo agli occhi di D’Annunzio la rivolta dei
contadini non è molto diversa dalla guerra in nome del patrono: ciò che davvero
lo affascina è il grande spettacolo delle emozioni collettive, che portano
singoli individui ad un livello quasi subumano di ferocia ed aggressività. La
conferma di questo interesse per le emozioni intense, quasi morbose, viene
dalla novella che chiude la raccolta, Il cerusico di mare. In essa D’Annunzio
descrive minuziosamente l’infezione di un marinaio e la maldestra operazione
effettuata da un compagno di bordo, per poi soffermarsi sul propagarsi
dell’infezione, fino alla morte dello sfortunato protagonista: anche se manca
la folla, emerge comunque l’interesse per le situazioni estreme, descritte nei
minimi particolari.
In
questo senso la raccolta si ricollega ad altre opere di D’Annunzio: il romanzo Giovanni Episcopo (1892), e La figlia di Iorio (1904).
Il
mondo rurale e primitivo di queste novelle sembra d’altronde richiamarsi alle
opere coeve di Grazia Deledda, anch’essa oscillante, come il primo D’Annunzio,
tra influenze veriste e suggestioni dostoevskijane.
Gabriele
D’Annunzio – Gabriele D’Annunzio nacque a Pescara il 12 marzo 1863 da
famiglia borghese: compì gli studi liceali nel collegio Cicognini di Prato,
distinguendosi per la sua condotta indisciplinata e per il suo accanimento
nello studio.
Già
negli anni di collegio, con la sua prima raccolta poetica Primo vere, pubblicata a spese del
padre, D’Annunzio ottenne un precoce successo, in seguito al quale iniziò a
collaborare ai giornali letterari dell'epoca.
Nel
1881, iscrittosi alla facoltà di Lettere, D'Annunzio si trasferì a Roma, dove
condusse una vita, ricca di amori e avventure. In breve, collaborando a diversi
periodici, il giovane D'Annunzio divenne figura di primo piano della vita
culturale e mondana romana.
Nel
1882, furono pubblicati con successo Canto
novo e Terra vergine.
Nel
1883, ebbero grande risonanza la fuga ed il matrimonio di D’Annunzio con la
duchessina Maria Hardouin di Gallese, unione da cui nacquero tre figli, ma che,
a causa dei suoi continui tradimenti, durò solo fino al 1890.
Nel
1883, D’Annunzio compose i versi l'Intermezzo
di rime del 1883, la cui «inverecondia» scatenò un'accesa polemica.
Nel
1886, uscì la raccolta Isaotta
Guttadàuro ed altre poesie, poi divisa in due parti L'Isottèo e La Chimera nel 1890.
Nel
1889, ricco di risvolti autobiografici, D’Annunzio pubblicò il romanzo Il piacere.
Nel
1891, D'Annunzio, assediato dai creditori, si allontanò da Roma e si trasferì
insieme all'amico pittore Francesco Paolo Michetti a Napoli, dove, collaborando
ai giornali locali, trascorse due anni di «splendida miseria»: a Napoli la
principessa Maria Gravina Cruyllas abbandonò il marito ed andò a vivere con il
poeta, dal quale ebbe una figlia.
Nel
1891, D’Annunzio pubblicò il romanzo
Giovanni Episcopo.
Nel
1892, pubblicò Le elegie romane e L'innocente.
Nel
1893, Il poema paradisiaco.
Alla
fine del 1893, D'Annunzio fu costretto a lasciare per le difficoltà economiche
anche Napoli: ritornò, con la Gravina e la figlioletta, in Abruzzo, ospite di
Michetti.
Nel
1894, D'Annunzio pubblicò il suo nuovo romanzo Il trionfo della morte.
Nel
1895, uscì Le vergini delle rocce,
il romanzo in cui si affaccia la teoria
del superuomo che dominò tutta la sua produzione successiva. In questo
stesso anno D’annunzio iniziò una relazione con l'attrice Eleonora Duse,
descritta successivamente nel romanzo Il
Fuoco del 1900 ed avviò una fitta produzione teatrale.
Nel
1897, D’Annunzio scrisse Sogno d'un
mattino di primavera; sempre nello stesso anno D’Annunzio fu eletto
deputato, ma nel 1900, opponendosi al ministero Pelloux, abbandonò la destra e
si unì all'estrema sinistra (in seguito non fu più rieletto).
Nel
1898, D’Annunzio scrisse Sogno d'un
tramonto d'autunno e La città morta; sempre
nello stesso anno, D'Annunzio mise fine al suo legame con la Gravina, da cui
aveva avuto un altro figlio e si stabilì a Settignano, nei pressi di Firenze,
nella villa detta La Capponcina, dove
visse lussuosamente prima assieme alla Duse, poi con il suo nuovo amore
Alessandra di Rudinì.
Nel
1899, D’Annunzio scrisse La Gioconda.
Nel
1901, D’Annunzio scrisse la Francesca da
Rimini.
Nel
1902, uscirono Le novelle del Pescara.
Nel
1903, scrisse La figlia di Jorio e i
primi tre libri delle Laudi: Maia, Elettra, Alcyone del
1903.
Il
1906 è l'anno dell'amore per la contessa Giuseppina
Mancini.
Nel
1910, D’Annunzio pubblicò il romanzo Forse
che sì, forse che no, e per sfuggire ai creditori, convinto dalla nuova
amante Nathalie de Goloubeff, si rifugiò in Francia. Il poeta visse allora tra
Parigi ed una villa ad Arcachon, partecipando alla vita mondana della belle
époque internazionale: compone opere in francese; al «Corriere della Sera»
fece pervenire le prose Le faville
del maglio; scrisse la tragedia lirica La Parisina, musicata da Mascagni, e anche sceneggiature
cinematografiche, come quella per il film Cabiria del 1914.
Nel
1912, a celebrazione della guerra in Libia, uscì il quarto libro
delle Laudi, Merope. Il quinto, Asterope, fu completato nel 1918 e i
restanti due, sebbene annunciati, non usciranno mai.
Nel
1915, nell'imminenza dello scoppio della prima guerra mondiale, D’Annunzio
tornò in Italia: egli riacquistò un ruolo di primo piano, tenendo accesi
discorsi interventistici e partecipò a varie ed ardite imprese belliche.
Durante un incidente aereo fu ferito ad un occhio. A Venezia, costretto a una
lunga convalescenza, scrisse il Notturno,
edito nel 1921.
Nonostante
la perdita dell'occhio destro, D’Annunzio divenne partecipò a celebri imprese,
quali la beffa di Buccari ed il volo nel cielo di Vienna.
Nel
1919, alla fine della guerra, D’Annunzio condusse una violenta battaglia per
l'annessione all'Italia dell'Istria e della Dalmazia: alla testa di un gruppo
di legionari marcia su Fiume ed occupò la città, instaurandovi una singolare
repubblica, la Reggenza italiana del Carnaro, che il governo Giolitti fece
cadere nel 1920.
Negli
anni dell'avvento del Fascismo, nutrendo una certa diffidenza verso Mussolini
ed il suo partito, si ritirò, celebrato come eroe nazionale, presso Gardone,
sul lago di Garda, nella villa di Cargnacco, trasformato poi nel museo-mausoleo
del Vittoriale degli Italiani. Qui, pressoché in solitudine, nonostante gli
onori tributatigli dal regime, raccogliendo le reliquie della sua gloriosa
vita, il vecchio esteta trascorre una malinconica vecchiaia sino alla morte
avvenuta il primo marzo 1938.
mense:
servizi da tavola. nei canterani e nei forzieri: nei cassettoni dove si
riponeva la biancheria e nei mobili muniti di serratura.
alla bisogna: per le necessità di quel
lavoro.
canestre:
panieri di vimini dotati di manici.
spasa:
cestello piatto e largo.
di testuggine:
simile a quello della tartaruga.
nel monastero
benedettino: le famiglie nobili o della ricca borghesia mandavano le figlie
in convento per ricevere un'istruzione.
pudichi:
pieni di riservatezza
somigliando...
muliebri: simile a un chierico, cioè a un sacerdote, ma in abiti femminili
(dal latino mulier, «donna»).
'na cucchiara:
un cucchiaio, in dialetto abruzzese.
riscontrare:
contare di nuovo.
San Tommaso:
il patrono di Ottona.
loggia:
corridoio aperto con archi o finestre, oppure balcone, terrazzo.
cumular
congetture: mettere insieme una gran quantità di ipotesi.
il
ciaramellìo: le ciance, le chiacchiere.
in su le
gronde: sugli orli sporgenti del tetto da cui far scorrere la pioggia.
lisciva:
cenere di legna sciolta in acqua bollente, usata per lavare oppure sbiancare
tessuti
il Caporaletto:
qui il termine si riferisce forse al carattere di Biagio, prepotente e
sgarbato perché esercita un potere poco soggetto a un controllo da parte dei
superiori.
motti ambigui: parole poco
chiare, che alludevano alla scomparsa
del cucchiaio d'argento.
arzigogolando
sottilissimamente: facendo ragionamenti
molto complicati.
rompeva...
significativo: scoppiava in rumorose risate di scherno a indicare che non
credeva proprio all'innocenza di Candia, la quale avrebbe potuto rivelare alla
Cinigia il nascondiglio del cucchiaio.
ilarità: allegria sfrenata, chiassosa.
le gesticolazioni: i gesti pieni di eccitazione.
agevoli: facili da mettere in pratica.
torbida: cupa, senza limpidezza.
Italo Svevo – Italo
Svevo pseudonimo di Ettore Schmitz, nacque nel 1861 a Trieste da
madre ebrea e da padre tedesco, agiato commerciante nel settore vetrario:
studiò in un collegio in Baviera e si appassionò alla letteratura tedesca.
Nel
1878, Svevo tornò in Italia diciassettenne per completare gli studi, e si
iscrisse all'Istituto superiore di commercio di Trieste, Revoltella.
Nel
1880, in seguito al fallimento dell'industria paterna, Svevo abbandonò gli
studi ed entrò come impiegato alla viennese Banca Union, dove restò vent'anni,
ma nelle ore libere dal lavoro si dedicò allo studio del violino e, soprattutto
la notte, a scrivere.
Nel
1892, Svevo pubblicò a sue spese il romanzo Una
vita con lo pseudonimo Italo Svevo, pseudonimo che accosta le due
culture e le due lingue dell'autore il tedesco e l'italiano: il libro guadagnò
qualche segnalazione, ma passò sostanzialmente inosservato.
Nel
1896, Svevo sposò una cugina, Livia Veneziani, figlia di un ricco industriale e
l'anno dopo nacque la figlia Letizia.
Nel
1898, uscì il secondo romanzo, Senilità,
sempre a spese dell'autore ed inosservato come il precedente, scrisse novelle e
testi teatrali che forse nessuno avrebbe letto, incurante del mancato successo.
Nel
1899, Svevo entrò come socio nella ditta commerciale del suocero di cui assunse
poi la direzione e visitò per lavoro e risiedette a lungo in
l'Inghilterra, Francia e Germania.
Nel
1906, Svevo si iscrisse alla Berlitz
School per migliorare il suo inglese, che gli era necessario nei rapporti
di lavoro e conobbe un insegnante irlandese eccezionale: James Joyce.
Presto
le lezioni diventeranno private: non si faceva cenno alla grammatica, ma si
parlava soprattutto di letteratura e, su insistenza di Joyce, Svevo gli diede i
suoi romanzi, che furono giudicati positivamente.
Fra
il 1908 e il 1910, Svevo lesse Freud e si interessò di psicoanalisi, ma non era
solo un interesse teorico c'era quello pratico: per valutare l'opportunità di
far curare un suo parente tenne una corrispondenza con un medico collaboratore
di Freud: Svevo non aveva molta fiducia nell'applicazione terapeutica della
psicoanalisi e scrisse che Freud era più importante per i romanzieri che per gli
ammalati.
Nel
1919, Svevo iniziò a scrivere La
coscienza di Zeno che fu pubblicato, sempre a spese dell'autore, nel
1923.
L'anno
dopo Joyce, che nel frattempo si era trasferito a Parigi e che era entusiasta
del libro, ne parlò ai suoi amici e fu deciso il lancio di Svevo in Francia.
Nel
1927, La coscienza di Zeno fu
tradotto in Francia e Svevo si battè per l'affermazione dei primi due romanzi,
mentre pubblicava Vino generoso del
1927 ed Una burla riuscita nel 1928.
Nel
marzo del 1928, al Pen Club di Parigi
fu organizzato per lui un omaggio celebrativo, con la presenza di oltre
cinquanta intellettuali europei, fra i quali Joyce, ma un banale incidente
automobilistico lo fermò nel pieno della fama attesa da trent'anni: Svevo morì
nel settembre del 1928 a Motta di Livenza (Treviso).
Molte
sue opere furono pubblicate postume: La
novella del buon vecchio e della bella fanciulla nel 1930, Corto viaggio sentimentale nel 1949, Saggi e pagine sparse nel 1954, Le Commedie nel 1960 composte di sei
testi teatrali.
Luigi Pirandello - Luigi
Pirandello – La vita e la produzione artistica di Pirandello possono essere
distinte in quattro fasi:
1.
l’intellettuale: scrive racconti e il romanzo L’esclusa, lasciando le opere teatrali nel cassetto;
2.
la declassazione (1903-1910): continua tuttavia a scrivere racconti;
3.
il teatro (1910-1930): si ha la prevalenza di commedie;
4.
la fase finale (1930-1936): Pirandello raccoglie le sue opere e scrive I giganti della montagna.
Pirandello
nacque nel 1867 a Girgenti (Agrigento) da una famiglia agiata e borghese: suo
padre era, infatti, proprietario di miniere di zolfo. Il pensiero politico dell’ambiente
in cui nasce è prevalentemente garibaldino-risorgimentale. Frequentò il liceo classico
a Palermo poi si iscrisse alla facoltà di lettere a Roma.
Dopo
un litigio con un professore, Pirandello si trasferì a Bonn, dove si laureò in
filologia romanza con una tesi sui dialetti
siciliani, e presso la cui università insegnò per un anno: il soggiorno
tedesco fu per lui importante perché in Germania Pirandello entrò in contatto
con i letterati romantici, i quali lo influenzarono per quanto riguarda
l’umorismo.
Nel
1892, Pirandello cominciò a dedicarsi alla letteratura, scrivendo a Roma il
romanzo L’esclusa , completato nel
1893 e pubblicato nel 1908: egli riusciva così a vivere di letteratura grazie agli
assegni che il padre gli corrispondeva.
Nel
1894, Pirandello sposò Antonietta Portulano con la quale andò a vivere a Roma,
trovando occupazione come professore di lingua italiana all’Università.
Nel
1895, Pirandello scrisse la prima commedia, Il
nibbio.
Nel
1902, Pirandello pubblicò Il turno.
Nel
1903, il padre ebbe un crack finanziario: la sua miniera di zolfo si allagò, provocando
la crisi psicologica della moglie di Pirandello, che divenne ben presto pazza, e
la declassazione dal passaggio da
una vita di agio ed una di piccolo borghese. La gelosia della moglie e
la condizione matrimoniale cominciano a essere sentiti da Pirandello come una
trappola; egli doveva inoltre lavorare il doppio per vivere continuava quindi a
fare l’insegnante ed a scrivere libri, lavorando anche per il cinema e
scrivendo soggetti per alcuni film: Pirandello cominciò così a sentirsi un
intellettuale sfruttato dalla società.
Nel
1904, Pirandello pubblicò sulla rivista Nuova
antologia, Il fu Mattia Pascal,
un romanzo particolare e diverso dagli altri.
Nel
1908, Pirandello scrisse L'umorismo (in cui confluirono parecchie pagine
dei suoi scritti precedenti) per presentarlo come titolo al concorso a
ordinario presso l'Istituto superiore di Magistero femminile.
Nel
1909, Pirandello pubblicò I vecchi e i
giovani.
Nel
1910, Pirandello si occupò di teatro e fece rappresentare le commedie Lumìe di Sicilia e La morsa: egli diventò così scrittore di teatro, sebbene abbandonasse
del tutto i racconti e la letteratura.
Sempre
per il teatro scrisse Il piacere
dell’onestà, Pensaci Giacomino, Se non così, Lì o là, Il gioco delle parti.
Nel
1911, Pirandello pubblica il romanzo Suo
marito.
Nel
1915 c’è la guerra: Pirandello si schierò su posizioni interventiste perché
vedeva nella guerra la fine del Risorgimento. Nello stesso anno egli pubblicò Si gira, il cui titolo fu cambiato nel
1925 in I quaderni di Serafino Gubbio
operatore. Nel frattempo suo figlio Stefano fu catturato e Pirandello non
riuscì a riscattarlo: le condizioni della moglie quindi peggiorano e fu
ricoverata.
Dal
1916 comincia ad occuparsi veramente e solamente di teatro scrivendo commedie e
anche testi in dialetto siciliano come: Il
berretto a sonagli,
commedia in due atti il cui titolo si riferisce al berretto portato
dal buffone, il copricapo della vergogna ostentato davanti a tutti - la
commedia riprende le tematiche delle due novelle La verità e Certi
obblighi entrambe del 1912; Lì o
là, una commedia in tre atti messa fu messa in scena per la prima
volta il 4 novembre 1916 ed ispirata ad un episodio del capitolo IV
del romanzo Il fu Mattia Pascal; La giara atto unico ripreso dall’omonima novella del 1906.
Nel
1917, Pirandello compose Pensaci,
Giacomino!, il cui nucleo originario, è tratto dalla novella omonima. Successivamente
compose Il piacere dell’onestà,
tratta dalla novella Tirocinio;
sempre nello stesso anno Pirandello mandò in scena Così è (se vi pare), tratto dalla novella La signora Frola e il signor Ponza, suo genero.
Nel
1918, Pirandello scrisse Il gioco delle
parti.
Nel
1920, Pirandello abbandonò il lavoro di insegnante.
Nel
1921, Pirandello scrisse Sei personaggi
in cerca d’autore, che all’inizio non ebbe molto successo, ma nelle ultime
rappresentazioni fu applauditissimo; egli scrisse inoltre Enrico IV un dramma in 3 atti rappresentato il 1922 al Teatro Manzoni di Milano.
Nel
1924, Pirandello aderì al Fascismo: questo movimento provocò in Pirandello
sostanzialmente due reazioni e comportamenti: lo accolse con favore perché
prometteva ordine, legalità e non più scioperi, ma sotto sotto era però un
anarchico, perché avrebbe voluto liberarsi e rifiutare i vincoli e le
imposizioni della società. Ben presto Pirandello si accorse però che quella del
Fascismo era solo una maschera che dissimulava il suo carattere autoritario,
ma, per continuare a lavorare liberamente, egli decise comunque di non opporsi
ad esso, standosene in disparte. In questo stesso anno scrisse Ciascuno a suo modo: l'opera fa parte
della cosiddetta trilogia del teatro
nel teatro, preceduta da Sei
personaggi in cerca d'autore e seguita da Questa sera si recita a soggetto.
Nel
1925, Pirandello diventò direttore del teatro d’Arte a Roma e si legò
all’attrice Marta Abba. In quest’anno egli pubblicò Uno, nessuno e centomila.
Tra
la fine del 1928 e l'inizio del 1929, Pirandello scrisse Questa sera si recita a soggetto, subito
dopo l'esperienza di capocomico presso il Teatro d'Arte: l’opera è
considerata la terza parte della trilogia che il drammaturgo dedica
al teatro nel teatro, preceduta da Sei personaggi in cerca d'autore e Ciascuno a suo modo.
Nel
1930, Pirandello si allontanò un po’ dal Fascismo. Raccolse le sue opere nelle Novelle per un anno e le produzioni
teatrali in Maschere nude.
Nel
1934, Pirandello ricevette il Nobel per la letteratura. Egli lavorò molto per
il cinema.
Nel 1936, morì d’infarto lasciando incompiuto I giganti della montagna, terminato poi
dal figlio.
in quel suo viaggio: Adriana rivive nei suoi
pensieri le considerazioni di chi si allontana per la prima volta dalla
propria casa, dal proprio piccolo paese. La donna si concentra soprattutto
sul fatto che il mondo sia sconfinato e ignoto, procurandole sensazioni di
ansia e di smarrimento.
lume d’altri cieli:
la giornata
serena, la cornice suggestiva della fontana d’Ercole accendono nell’animo
della donna una nuova luce (lume) di
serenità che si sostituisce a quel sen
so di vuoto senza limiti che aveva contrassegnato fino a
quel momento la sua esistenza.
l’imbarco sul piroscafo e il viaggio in mare,
proprio perché costituiscono un’assoluta novità
nella vita di Adriana, si accompagnano
a un sentimento vago e confuso di inquietudine e di turbamento.
insenatura riparata
dal vento e dai marosi, quindi adatta per le attività portuali e la sosta delle imbarcazioni.
chiostra ampia
dei monti: disposizione a
semicerchio dei rilievi alle spalle della
città.
stantuffi d’acciaio: organi meccanici che si muovono all’interno di cilindri e trasmettono forza motrice al piroscafo.