Il basso impero
T 1 Gli Unni
Dalle Storie di Ammiano
Marcellino[1]
1. Il popolo degli Unni, poco noto agli antichi
storici, abita al di là delle paludi Meotiche lungo l'oceano glaciale e supera
ogni limite di barbarie. Siccome hanno l'abitudine di solcare profondamente con
un coltello le gote ai bambini appena nati, affinché il vigore della barba,
quando spunta al momento debito, si indebolisca a causa delle rughe delle
cicatrici, invecchiano imberbi, senz'alcuna bellezza e simili ad eunuchi.
2. Hanno membra robuste e salde, grosso collo e
sono stranamente brutti e curvi, tanto che si potrebbero ritenere animali
bipedi o simili a quei tronchi grossolanamente scolpiti che si trovano sui
parapetti dei ponti. Per quanto abbiano la figura umana, sebbene deforme, sono
così rozzi nel tenore di vita da non aver bisogno né di fuoco né di cibi
conditi, ma si nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne semicruda di
qualsiasi animale, che riscaldano per un po' di tempo fra le loro cosce ed il
dorso dei cavalli.
3. Non sono mai protetti da alcun edificio, ma
li evitano come tombe separate dalla vita d'ogni giorno. Neppure un tugurio con
il tetto di paglia si può trovare presso di loro, ma vagano attraverso montagne
e selve, abituati sin dalla nascita a sopportare geli, fame e sete. Quando sono
lontani dalle loro sedi, non entrano nelle case a meno che non siano costretti
da estrema necessità, né ritengono di essere al sicuro trovandosi sotto un
tetto.
4. Adoperano vesti di lino oppure fatte di
pelli di topi selvatici, né dispongono di una veste per casa e di un'altra per
fuori. Ma una volta che abbiano fermato al collo una tunica di colore
appassito, non la depongono né la mutano finché, logorata dal lungo uso, non
sia ridotta a brandelli. Usano berretti ricurvi e coprono le gambe irsute con
pelli caprine e le loro scarpe, poiché non sono state precedentemente
modellate, impediscono di camminare liberamente. Per questa ragione sono poco
adatti a combattere a piedi, ma inchiodati, per così dire, su cavalli forti,
anche se deformi, e sedendo su di loro alle volte come le donne, attendono alle
consuete occupazioni.
5. Stando a cavallo notte e giorno ognuno in
mezzo a questa gente acquista e vende, mangia e beve e, appoggiato sul corto
collo del cavallo, si addormenta così profondamente da vedere ogni varietà di
sogni. E nelle assemblee in cui deliberano su argomenti importanti, tutti in
questo medesimo atteggiamento discutono degli interessi comuni.
6. Non sono retti secondo un severo principio
monarchico, ma, contenti della guida di un capo qualsiasi, travolgono tutto ciò
che si oppone a loro. Combattono alle volte se sono provocati ed ingaggiano
battaglia in schiere a forma di cuneo con urla confuse e feroci. E come sono
armati alla leggera ed assaltano all'improvviso per essere veloci, così,
disperdendosi a bella posta in modo repentino, attaccano e corrono qua e là in
disordine e provocano gravi stragi. Senza che nessuno li veda, grazie
all'eccessiva rapidità attaccano il vallo e saccheggiano l'accampamento nemico.
7. Potrebbero poi essere considerati
senz'alcuna difficoltà i più terribili fra tutti i guerrieri poiché combattono
a distanza con giavellotti forniti, invece che d'una punta di ferro, di ossa
aguzze che sono attaccate con arte meravigliosa, e, dopo aver percorso
rapidamente la distanza che li separa dagli avversari, lottano a corpo a corpo
con la spada senz'alcun riguardo per la propria vita. Mentre i nemici fanno
attenzione ai colpi di spada, quelli scagliano su di loro lacci in modo che,
legate le membra degli avversari, tolgono loro la possibilità di cavalcare o di
camminare.
8. Nessuno fra loro ara né tocca mai la stiva
di un aratro. Infatti tutti vagano senza aver sedi fisse, senza una casa o una
legge o uno stabile tenore di vita. Assomigliano a gente in continua fuga sui
carri che fungono loro da abitazione. Quivi le mogli tessono loro le orribili
vesti, qui si accoppiano ai mariti, qui partoriscono ed allevano i figli sino
alla pubertà.
9.
Se
s'interrogano sulla loro origine, nessuno può dare una risposta, dato che è
nato in luogo ben lontano da quello in cui è stato concepito ed in una località
diversa è stato allevato. Sono infidi ed incostanti nelle tregue, mobilissimi
ad ogni soffio di una nuova speranza e sacrificano ogni sentimento ad un
violentissimo furore. Ignorano profondamente, come animali privi di ragione, il
bene ed il male, sono ambigui ed oscuri quando parlano, né mai sono legati dal
rispetto per una religione o superstizione, ma ardono d'un'immensa avidità
d'oro. A tal punto sono mutevoli di temperamento e facili all'ira che spesso in
un sol giorno, senza alcuna provocazione, più volte tradiscono gli amici e
nello stesso modo, senza bisogno che alcuno li plachi, si rappacificano.
5. Gli ultimi bagliori dell’impero - Dopo
quarantadue anni di regno della dinastia dei Severi, con l’assassinio
nel 235 di Alessandro Severo da parte della soldatesca ammutinata, la
situazione politica del Basso Impero precipitò. I militari elessero imperatore il centurione Massimino il Trace (primo imperatore di umili
origini). Dopo di lui, ucciso da una cospirazione del senato, per
trentacinque anni, in uno stato di anarchia militare, si succedettero
ventuno imperatori[2]
che morirono quasi tutti di morte violenta.
Il potere
imperiale quasi non esisteva più: regnava l’anarchia
·
i Germani,
sospinti da tribù provenienti dalle steppe euroasiatiche, premevano alle
frontiere del mondo romano.
·
l’economia
entrò in crisi perché dall’estero non affluivano più ricchezze e l’inflazione
monetaria si accentuava, gettando nella miseria gran parte del popolo romano.
·
la cultura
classica, tramontò sommersa da nuove dottrine filosofiche e dal diffondersi
del Cristianesimo.
Per
salvaguardare la pace Roma fu costretta a pagare tributi a parecchi popoli
vicini e nonostante questo:
·
i Parti
inviarono una spedizione contro Antiochia e da strappare ai Romani il controllo
sull’Armenia,
·
i Goti
occupavano le città di Calcedonia e Nicomedia.
Aureliano (270-275 d.C.), un imperatore
di origine illirica tentò di riprendere in mano la situazione:
·
fortificò le città,
·
condusse una campagna contro la regina di
Palmira (Siria), Zenobia,
·
recuperò la Gallia, la Spagna, la Bretagna.
·
tentò di rialzare il prestigio dell’imperatore
dinanzi al popolo facendosi proclamare emanazione del sole.
Ma l’Impero romano
era travagliato da una crisi difficilmente sanabile.
La pressione dei
barbari alle frontiere, insieme con l’anarchia militare che dilagava
all’interno, sarebbe stata una delle cause della decadenza e, in seguito, dello
smembramento dell’Impero.
Alla preoccupante
situazione politica si era aggiunta anche una gravissima crisi
socio-economica:
·
La borghesia,
sulla quale l’Impero aveva trovato appoggio nei suoi giorni migliori, si era
ormai paurosamente impoverita a causa delle continue rapine e violenze delle
soldatesche scatenate;
·
le campagne
erano state abbandonate dai coltivatori.
·
la sproporzione
fra le masse sempre più povere e la minoranza sempre più aggressiva dei
privilegiati.
Questa
situazione provocò anche una crisi demografica proprio nel momento in cui la
pressione barbarica sui confini germanici, danubiani e orientali richiedeva
maggiori forze per essere contenuta. Imperversava una grave crisi monetaria
che, in breve tempo, portò ad una altissima inflazione; i prezzi salirono così
alle stelle, aggravando la miseria dei ceti popolari.
5. 1. Il Cristianesimo nel III secolo –
Il riflesso della crisi del III secolo si riverbera anche nella storia
cristiana, infatti fu un uno dei periodi tra i più movimentati della cristianesimo:
esso vide, infatti, l’accrescersi della nuova fede e la sua capillare
diffusione in tutto l’impero, ma anche il propagarsi di eresie e, soprattutto,
vide persecuzioni da parte dello Stato e, con esse, l’insorgere di nuovi gravi
problemi disciplinari.
a) La persecuzione di Decio – Decio
che aveva conquistato nel 248 il trono imperiale, seguì una politica di restaurazione
religiosa, inaugurata con il sacrificio annuale sul
Campidoglio nel Gennaio del 250, con l’ordine che
il sacrificio fosse ripetuto nei Campidogli di tutte le città dell’impero.
Quello che fino
ad allora era stato un atto formale divenne così una sorta di censimento
religioso, con la persecuzione di quanti non si fossero presentati
per fare sacrifici e tra questi c’erano, ovviamente, i cristiani.
Vennero immediatamente
arrestati e uccisi i vescovi delle più importanti città imperiali: Fabiano
a Roma, Babila ad Antiochia, Alessandro a
Gerusalemme e molti altri con loro.
La persecuzione
del 250 fu un duro colpo per la Chiesa, anche a causa delle defezioni
di molti cristiani.
b) I ‘lapsi’ e il Concilio di Cartagine – Gli apostati,
coloro che avevano preferito rinnegare la propria fede per
aver salva la vita, furono generalmente definiti lapsi o caduti.
Quello dei lapsi
divenne presto un serio problema nella Chiesa antica, soprattutto dopo la
persecuzione di Decio: molti di loro chiedevano, infatti, a persecuzione
finita, di essere riammessi nella Chiesa. Questo procurò molte
preoccupazioni pastorali.
Si imposero così
trattamenti diversi: ad esempio, lo scismatico Novato aveva un
atteggiamento di grande tolleranza nei loro confronti, a
differenza di Novaziano che era invece particolarmente rigido.
Al Concilio
di Cartagine, nel 251, si decise, con un certo equilibrio, che i lapsi
fossero riammessi alla piena comunione con la Chiesa soltanto in punto
di morte.
c) La persecuzione di Valeriano – Una nuova persecuzione scoppiò nel 257 ad opera dell’imperatore Valeriano. Questi si limitò, in un primo momento, a confiscare i beni ecclesiastici e a destituire i cristiani che ricoprissero cariche pubbliche o comunque importanti.
In seguito cercò soprattutto di colpire le gerarchie della Chiesa. Trovarono così la morte in questa persecuzione, tra gli altri, S. Cipriano e il vescovo di Roma Stefano.
In seguito cercò soprattutto di colpire le gerarchie della Chiesa. Trovarono così la morte in questa persecuzione, tra gli altri, S. Cipriano e il vescovo di Roma Stefano.
5.2. Il Basso Impero romano - Rappresentò
l'ultima parte della storia politica romana che va dalla presa di potere di
Diocleziano nel 284 alla caduta dell'Impero romano d'Occidente nel 476, anno in
cui Odoacre depose l'ultimo imperatore legittimo, Romolo Augusto.
a) Diocleziano
- Diocleziano dovette affrontare la disastrosa situazione quando nel 284
assunse il potere imperiale. Divise il potere con il commilitone Massimiano[3]
a cui affidò il compito di governare l’Occidente. Sedi degli Augusti erano
Nicomedia e Milano, capitale d’Occidente fino al 404.
Domata una
ribellione in Egitto, Diocleziano si dedicò alla riorganizzazione dell’Impero.
Ripartì il territorio in 12 diocesi che comprendevano più province. Tentò di
consolidare le finanze stabilendo un tetto a salari e prezzi ed imponendo un
regime di doppia tassazione, sulla proprietà fondiaria e sulla persona.
Nel 293 creò la tetrarchia
un sistema di governo nel quale l’autorità sovrana si era divisa in quattro
parti, tanto che, nei decreti ufficiali, comparve per la prima volta il plurale
maiestatis
Divise l’Impero
in due parti, una orientale e una occidentale, ciascuna delle quali avrebbe
dovuto essere governata da un imperatore, un Augusto, assistito da un Cesare,
che sarebbe diventato, automaticamente, il suo successore. I due Augusti
scelsero rispettivamente come capitali Milano e Nicomedia mentre Roma conservò
solo una preminenza morale in base alla quale il potere fu ripartito tra due Augusti,
lui e Massimiano.
In questo modo
veniva inaugurata l’epoca del dominato (da dominus, signore).
L’Impero conobbe
di nuovo una certa prosperità, ma la libertà individuale subì molte
restrizioni:
·
fu vietato abbandonare il proprio mestiere,
·
i coloni furono vincolati alla terra,
·
la qualifica di cittadino scomparve sostituita
da quella di suddito.
Nel 303, di
fronte all’opposizione suscitata dal rilancio del carattere divino del
l’imperatore, emanò una serie di editti di persecuzione contro i cristiani.
Nel 305, malato,
depose il potere con Massimiano a favore dei Cesari.
Con
l’istituzione della tetrarchia, le
spinte eccentriche furono in qualche modo frenate. Nonostante il carattere
autoritario, la tetrarchia non si rivelò una formula di governo stabile,
poiché subito dopo i primi tetrarchi essa fu corrosa dalle inevitabili contese
dei loro successori. Inoltre si verificò in questi anni una progressiva
marginalizzazione delle aree più antiche dell'impero a vantaggio di un oriente
assai più prospero quanto a politica, amministrazione e cultura.
b)
Costantino - Dopo l’abdicazione di Diocleziano e Massimiano sembrò
funzionare il meccanismo della tetrarchia: i due Cesari divennero Augusti e
nominarono altri due Cesari.
Alla morte di
Costanzo Cloro si scatenò la lotta alla successione. Tra tutti i pretendenti
prevalsero:
·
in Occidente il figlio di Costanzo Cloro,
Costantino (che sconfisse il rivale Massenzio nella battaglia di Ponte
Milvio[4]
a Roma nel 312)
·
in Oriente Licinio (nominato da Diocleziano,
intervenuto per calmare i contrasti).
Nel 313 i due
imperatori, incontratisi a Milano, emanarono un Editto, con il quale
concedevano libertà di culto ai cristiani e promulgavano leggi in loro favore
sebbene un editto di tolleranza fosse già stato emesso, in favore dei
Cristiani, da Galerio, nel 311.
Nel 324, quando
Licinio prese a perseguitare di nuovo i cristiani, Costantino gli mosse guerra
e, sconfittolo, divenne unico imperatore sia per l’Occidente sia per
l’Oriente, con suo figlio Costanzo come Cesare, ristabilendo così ristabilì
oltre che la riunificazione di tutti i domini romani anche l’ereditarietà del
potere imperiale.
Il regno di
Costantino fu contraddistinto da due fatti d’importanza capitale per
l’evoluzione dell’Impero: il riconoscimento ufficiale del Cristianesimo e la
fondazione di Costantinopoli.
Rese quindi più
efficiente l’esercito e ampliò l’apparato burocratico, inoltre la figura
dell’imperatore fu definitivamente assimilata a quella del sovrano assoluto di
stampo orientale, circondato da un’aura sacrale.
Sotto il regno
di Costantino la religione cristiana assunse se non ancora ufficialmente, la
posizione di religione privilegiata, per quanto Costantino non avesse ripudiato
nettamente il culto solare di Mitra e solo in punto di morte si fosse
convertito al Cristianesimo. Nei confronti del Cristianesimo egli adottò una
politica sempre più favorevole, arrivando a esortare i sudditi orientali ad
abbracciare questa religione e affidando ai cristiani incarichi nell’esercito e
nella pubblica amministrazione. Politicamente, Costantino seguì molto da vicino
le vicende della Chiesa, allora in fase di organizzazione, nella quale le
dispute teologiche si succedevano numerose e accese.
Nel 325, quando
una d’esse, sorta a proposito di un dogma sostenuto dal prete Ario, sembrò
minacciare l’ordine interno, l’Imperatore convocò a Nicea, un concilio di
prelati che condannò formalmente l’eresia ariana.
Nel 332, dopo
aver sconfitto i Goti, Costantino morì nel 337, mentre si preparava ad
affrontare i Persiani.
T 2 La battaglia di ponte Milvio, dove nacque l’Europa cristiana
di Giulio Saletti
1. Ci sono battaglie che segnano la storia.
Canne, Bouvines[5], Azincourt[6], Verdun[7]. Battaglie che scandiscono le cronologie
come cippi miliari sulle strade delle civiltà. Ma ci sono poi battaglie, come
Maratona o Lepanto, che la storia la cambiano. Battaglie sospese sul ‘punto di
biforcazione’, per usare un concetto caro al fisico Ilya Prigogine[8], che piegano gli eventi verso mondi
completamente diversi, imprimendo alla freccia del tempo il tratto
dell’irreversibilità.
2.
La battaglia di
ponte Milvio, combattuta il 28 ottobre 312, è tra queste. Quando 1700 anni fa
l’esercito di Costantino incrociò l’armata di Massenzio a un passo da Roma, il
mondo che ne uscì non sarebbe più stato come prima. Un anno dopo, l’editto di
Milano sulla libertà di culto avrebbe spianato la strada alla cristianità. Là
l’Europa affonda le proprie radici.
T 3 L'errore in battaglia che cambiò la storia del mondo
1. L’avanzata di Costantino lungo la via
Flaminia viene così arrestata a Saxa Rubra (Rocce Rosse), a 13 chilometri a
nord di ponte Milvio, dove gli uomini di Costantino riescono a sconfiggere
senza grandi difficoltà una parte delle forze di Massenzio, costrette a
ripiegare immediatamente sul ponte.
2. A questo punto, nell’intento di accerchiare
Costantino, o forse per permettere l’attraversamento del fiume ai suoi soldati
in ritirata, anche Massenzio, accompagnato dalle sue truppe scelte, lascia
la città.
3. I due eserciti si affrontano così presso il
ponte, situato a soli tre chilometri da Roma: i soldati di Massenzio, che
combattono con le spalle al fiume, non hanno possibilità di fuga, l’unica
via di ritirata è rappresentata dal ponte stesso.
4. Massenzio è convinto che la struttura in
legno, provvisoriamente costruita per essere rimossa rapidamente in caso di
necessità, reggerà il peso delle sue truppe in ritirata, ma si sbaglia
nuovamente: il ponte cede e l’improvviso crollo lascia la maggior parte
dell’esercito senza via di scampo.
5. Seguono violenti combattimenti nei pressi
del fiume; entrambi gli schieramenti si danno battaglia con accanimento e nella
confusione dello scontro gli uomini di Costantino riescono a distinguere i
compagni dagli avversari grazie al monogramma cristiano dipinto sugli
scudi.
6. Quando anche la sua guardia del corpo è
annientata fino all’ultimo uomo, Massenzio riconosce di aver perso e, nel
tentativo di fuggire a cavallo, cade nelle acque del Tevere, dove
muore annegato. Costantino fa recuperare il suo corpo e il giorno
successivo, entrando trionfalmente nella città conquistata, i suoi soldati
mostrano esultanti la testa mozzata di Massenzio.
7. In seguito alla brillante vittoria, che gli
vale il dominio sulle province occidentali dell’Italia e del Nord Africa,
Costantino, mantenendo la parola data, si converte al Cristianesimo e,
ricevendo il battesimo nel 337, diviene un modello per il mondo intero (il
suo esempio sarà seguito anche da Clodoveo, Carlo Magno e Ottone III).
8. L’opera di Costantino, vale a dire la
cristianizzazione dello Stato romano, segna dunque l’inizio di una nuova epoca:
se Roma avesse resistito all’assedio e gli uomini di Costantino,
maggiormente esposti agli attacchi avversari e isolati dai rifornimenti,
fossero stati costretti alla ritirata, quest’epoca non avrebbe avuto inizio, o
quantomeno sarebbe stata posticipata.
9. Ciò dimostra come
gli errori di valutazione commessi da Massenzio sul ponte Milvio non abbiano
soltanto deciso l’esito di una battaglia, quanto piuttosto cambiato la storia
del mondo.
T 4 In
hoc signo vinces
1. Dopo la vittoria su Massenzio Costantino
venne accolto in modo trionfale a Roma e dichiarato formalmente l’unico
imperatore d’Occidente esistente. Dedicò la sua affermazione al Dio dei
cristiani, di cui vietò le oppressioni sistematiche e proseguendo così quanto
avviato, a partire dal 306 d.C., in Gallia e Britannia.
2. Grazie alla sua opera protettrice il
Cristianesimo poté espandersi senza che i suoi fedeli fossero sottoposti
ripetutamente ad azioni dannose ed aggressive mentre i suoi ministri ufficiali
del culto ottenevano diversi vantaggi. Con l’editto del 313
d.C. Costantino stabilì la cessazione definitiva delle
sopraffazioni violente condotte ai danni dei cristiani, che ebbero inizio
con Nerone.
3. Costantino affermò di aver avuto, in uno
spazio di tempo compreso fra il tardo pomeriggio e la mezzanotte del 27
ottobre, una apparizione miracolosa, i cui particolari si differenziano,
tuttavia, a seconda dei testi dai quali si attingono le
informazioni. Lattanzio (Africa, 250 d.C. approssimativamente –
Gallia, successivamente al 317 d.C.) sostiene che nell’apparizione si comandava
a Costantino di mettere un simbolo grafico, che faceva riferimento a Cristo,
sugli scudi dei propri fanti. Il retore cristiano parla di questo simbolo
grafico come di uno staurogramma [9].
4. Invece Eusebio (Cesarea in
Palestina, 265 d.C. – Cesarea in Palestina, verosimilmente 340 d.C.) riferisce
due versioni dell’evento. La prima, riportata nella Storia ecclesiastica,
dichiara in modo esplicito che il Dio dei cristiani favorì Costantino, ma non
cita alcuna apparizione. Nella Vita di Costantino Eusebio offre, al
contrario, una narrazione particolareggiata dell’apparizione, asserendo di
averla ottenuta dal medesimo sovrano. Stando a questa versione Costantino era
in cammino con le sue truppe quando, guardando verso il sole, osservò una croce
luminosa e sotto di essa era scritto in greco antico «Εν Τουτω Νικα» (con
questo vinci), tradotto in latino con la frase «In hoc signo vinces» (con
questo segno vincerai).
5. In un primo tempo rimase dubbioso su quale
fosse il significato dell’apparizione, ma, durante la notte, Costantino
sognò il Cristo che lo invitava ad utilizzare il segno della croce contro
i suoi avversari. Eusebio prosegue affermando che il vessillo, adoperato
da Costantino nel conflitto che lo vide opporsi a Licinio (Moesia,
265 d.C. approssimativamente – Tessalonica 325 d.C.), aveva la
raffigurazione del monogramma di Cristo (ΧΡ).
T 5 E se avesse vinto Massenzio
Di
Sandro Bari
1. Nella Storia contano i fatti e le ipotesi
restano tali. Se Massenzio avesse vinto la battaglia contro Costantino, la
storia sarebbe cambiata, non sapremo mai come.
2. Massenzio ha tutte le carte per vincere. Ha
il favore del popolo romano, del Senato e dei fedeli pretoriani; ama Roma e la
romanità; si dimostra magnanimo coi vinti; è tollerante verso il Cristianesimo
pur non rinnegando le sue credenze pagane (a lui si deve l’editto di
Nicomedia); dispone di un esercito almeno quattro volte superiore a quello
nemico.
3. Costantino è forte e valoroso, ma crudele:
ha fatto sbranare prigionieri per divertimento; ha fatto strage di soldati
arresi, dopo aver loro promesso salvezza; farà una feroce rappresaglia appena
conquistata Roma. Pur essendo osservante del culto del dio Sole, sfrutterà la
dottrina cristiana a suo uso, intrigando con i senatori romani, giocando sul
concetto di “un dio unico” senza rinunciare alla sua carica di “pontefice
massimo” del paganesimo.
4. Editti e concili sono da lui usati per
gestire il potere assoluto. Il suo battesimo nel palazzo del Laterano in Roma è
molto dubbio e sembra essere in realtà una “garanzia” in punto di morte. La sua
interpretazione del Cristianesimo si manifesta con l’uccisione di cittadini e militari
sospettati di tradimento, nonché lo sterminio della sua famiglia: il primo
figlio Crispo[10], Massimiano, Licinio, Liciniano, la moglie
Fausta.
5. La leggenda della “visione dell’angelo”, da
lui stesso diffusa molto dopo la presa di potere, gli consente di circondarsi
di un’aura quasi soprannaturale, aiutato in ciò dal mondo cristiano, che ne fa
il suo campione e che gli attribuirà poi la famosa “donazione” dei beni
temporali (dimostratasi poi falsa).
6. Oggi altre versioni spiegano
scientificamente la “visione”, come la teoria di Fabrizio Falcone e Bruno
Carboniero.
7. Costantino toglie potere ad ogni altra
autorità che interferisca col suo assolutismo; riforma le legioni portandole da
6000 uomini a 1500; scioglie la potente guardia pretoriana; nel 335 istituisce
la tetrarchia dinastica di parenti imbelli. Fonda la sua nuova capitale in
Oriente: megalomane, in una corte sfarzosa si copre di gioielli e vesti
preziose, sottraendo a Roma enormi ricchezze e rendendola vulnerabile con lo
smantellamento delle difese. Alla sua morte, Roma e l’impero sono in rovina,
aperti alla discesa dei barbari.
8. Massenzio, al quale basterebbe schierare il
suo esercito in riva sinistra del Tevere aspettando il nemico, interpreta male
la profezia “perirà il nemico di Roma” e, con imperdonabile errore strategico e
tattico, trasferisce l’esercito oltre il Fiume attraversando ponte Milvio e un
ponte improvvisato, probabilmente di barche, poche decine di metri più a monte.
9. Nella piana in riva destra del Tevere tra
Prima Porta e Saxa Rubra, dove dovranno manovrare circa 240.000 uomini,
Costantino, sceso da Malborghetto, lancia la cavalleria gallica che sgomina i
possenti cavalieri numidi di Massenzio. La massa enorme dell’esercito di Roma,
incalzata dagli attaccanti, viene chiusa nella sacca dell’ansa tiberina: i due
stretti ponti non basteranno a permettere l’attraversamento del Fiume, dove
anche Massenzio troverà la morte.
10. La Storia scritta dai vincitori descriverà
poi Massenzio come sopraffattore e despota; Costantino sarà il “liberatore” della
città nella quale farà strage, assurgerà a simbolo di una religione nella quale
non crede e infine sarà la causa diretta della fine della grandezza di Roma e
dell’Impero.
11. Ma continua ad essere definito “il grande”.
12. Roma avrebbe potuto continuare ad essere
maestosa nel suo impero, chissà per quanto tempo ancora, se in questa storia
avesse vinto il “buono”.
13. Ma i disegni del Fato sono
incontrovertibili.
c) Da Giuliano a Teodosio – Alla morte di Costantino gli succedettero i tre figli Costante, Costanzo e Costantino II. Costanzo, prevalso sui fratelli, scelse come successore Giuliano, il generale che aveva sconfitto gli Alamanni nel 357.
Questi, circondatosi di intellettuali e filosofi pagani cercò di escludere i cristiani dalle cariche dirigenziali e tentò di restaurare il paganesimo (i cristiani lo soprannominarono l’Apostata, cioè il Rinnegatore, poiché aveva abbandonato la religione cristiana). Per acquistare prestigio presso il popolo progettò di eliminare totalmente l’Impero persiano ma morì in battaglia. Verso la fine del IV secolo i Goti, spinti dagli Unni, arrivarono al confine danubiano e chiesero di essere ammessi nell’Impero.
Valente, imperatore d’Oriente, accettò, sperando di utilizzarli nell’esercito, ma i continui saccheggi nelle regioni imperiali portarono alla guerra. Nel 378 ad Adrianopoli, in Tracia, l’esercito romano fu duramente sconfitto. I Goti dilagarono allora in Tracia, saccheggiando e distruggendo. Graziano, già imperatore d’Occidente, rimase sul trono, mentre in Oriente fu eletto imperatore un generale spagnolo, Teodosio nel 379.
Invece di continuare a combattere, Teodosio contrattò la pace e i Goti divennero alleati dell’Impero, sposarono donne romane ed ebbero incarichi dirigenziali. Graziano e Teodosio, nel 380, promulgarono l’Editto di Tessalonica, con il quale il Cristianesimo diventava l’unica religione dell’Impero e veniva cancellata ogni usanza pagana (sacrifici, giochi olimpici, templi).
d) Il Cristianesimo
da Costantino a Teodosio – Il 313 d.C. è l'anno dell'Editto di Milano, con il quale il Cristianesimo ottiene la libertà di culto.
Quando
Costantino si pose alla testa del movimento cristiano ci fu ancora una fase di
discussione fra intellettuali di ogni religione e di ogni confessione cristiana.
Costantino, che con l'Editto di tolleranza del 313 aveva avviato una sempre più
sistematica integrazione della Chiesa all'interno delle strutture
politico-amministrative dello Stato, ritenne di dovere favorirne lo sviluppo e
la purezza delle dottrine.
Per questo convocò
nel 325 a Nicea il primo concilio ecumenico generale della Chiesa, durante il
quale furono condannate le dottrine eretiche di Ario e fu elaborata la prima stesura
organica del credo cristiano.
Alla fine del IV
e nel V secolo la crisi dell'impero arrivò a un grado tanto profondo da portare
sconforto in ogni settore: militare, politico, civile, economico e culturale.
Per l'uomo non sembrava esserci più alcuna speranza in questa terra. L'unica
salvezza era in Cielo.
Il Cristianesimo
divenne l'unica religione legale nel 391 con l'imperatore Teodosio. Allora i
Cristiani erano circa il 50% della popolazione dell'Impero, ma rappresentavano
la stragrande maggioranza nelle città: una crescita notevole se si pensa che
all'epoca di Costantino i Cristiani erano solo il 30% e nelle campagne la
religione cristiana era diffusa solo marginalmente.
Allora la Chiesa
divenne intollerante e autoritaria, la lotta alle idee divenne fondamentale per
la gestione sociale e la libertà di pensiero fu resa impossibile.
Subito si pose
il problema del rapporto tra Cristianesimo e Stato, l'Impero romano.
Il
Cristianesimo, da religione messianica di ambientazione ebraica e con un
messaggio prettamente ad "uso e
consumo" degli ebrei, grazie alla sua diffusione negli ambienti della
diaspora e all'apertura volta da San Paolo ai "romani", nel corso dei secoli aveva acquistato una forza tale
da cambiarne lo status giuridico: da religione illecita (fino a Costantino) a
religione tollerata e in seguito, con Teodosio I, a religione di Stato.
Con i concili
ecumenici si assistette ad una definizione rigorosa dell'ortodossia e alla
formazione di un linguaggio teologico specifico cristiano, mutuato dalla
filosofia greca.
Invano
l'imperatore Giuliano (361-363) aveva tentato di tornare al politeismo. Ma la
società stava cambiando. Per la cultura greco-romana, la situazione stava
precipitando. La razionalità, per quanto profonda, non era più sufficiente a
spiegare un mondo immerso nella "decadenza". L'ansia e l'angoscia non
accennavano a diminuire. La struttura politica aveva già perso da tempo la sua
vecchia autorità morale.
Era nata una
nuova istituzione a carattere "spirituale",
la chiesa cristiana che si rivolgeva direttamente al cuore dell'uomo.
Un'organizzazione, ispirata al monoteismo cristianizzato, che da "giovane ribelle ingenua" si era
fatta "adulta e responsabile".
La Chiesa riempì
il vuoto morale che si era creato nell'umanità e assorbì tutte le richieste di
giustizia. L'impero diventava un impero celeste. In nome di una giustizia migliore,
in tutto il mondo conosciuto divenne impossibile esprimere opinioni contrarie a
quelle del potere. L'autorità civile si associò a quella religiosa e arrivava
ovunque. La legge e la giustizia in generale erano considerate come concessione
volontaria di un solo Dio onnipotente. Non c'era più un patto con la divinità: bisognava
solo amarla e ringraziarla. Gli imperatori e gli uomini che nacquero da
quest'epoca in poi furono sempre più spesso fervidi credenti. L'educazione che
ricevevano e la cultura che seguivano sarebbero state sempre più monolitiche e
dogmatiche.
Dal suo
riconoscimento ufficiale era passato mezzo secolo. Dopo qualche decennio di
diatribe teologiche, la Chiesa cristiana divenne la sola istituzione che
garantisse il diritto, per i popoli e per i cittadini. Nel 392 tutte le
opinioni che discordavano da questa visione del mondo furono dichiarate
illegali e perseguite militarmente.
Mentre, in
precedenza, guerre e assassini avvenivano per motivi chiaramente politici, con
la creazione dell'impero gli intenti aggressivi furono mascherati da un’ideale
tendenza a un bene "universale".
Con l'incontro fra stato e chiesa questa tendenza divenne ancora più impellente
e ancora più difficile da raggiungere.
D'altronde la
gente comune era sempre più spaventata dalle incursioni di popoli stranieri, i
"barbari". Questa
interpretazione passò per essere una cosa scontata. La Chiesa era quella solida
struttura di sicurezza che l'uomo non riusciva più ad individuare nello Stato,
nell'Impero. L'esistenza terrena era perennemente in bilico ed era molto
lontana dall'assicurare la felicità. L'occidente si era separato dall'oriente.
Erano arrivati gli stranieri. Si era sviluppata "l'organizzazione
universale". Il mondo antico si era dissolto, lasciando spazio a una nuova
visione della vita.
T 6 il senso dell’editto di Milano
1. "...Quando noi, Costantino Augusto e Licinio
Augusto, felicemente ci incontrammo nei pressi di Milano e discutemmo di
tutto ciò che attiene al bene pubblico e alla pubblica sicurezza, questo era
quello che ci sembrava di maggior giovamento alla popolazione, soprattutto che
si dovessero regolare le cose concernenti il culto della divinità, e di
concedere anche ai cristiani, come a tutti, la libertà di seguire la religione
preferita, affinché qualsivoglia sia la divinità celeste possa esser benevola e
propizia nei nostri confronti e in quelli di tutti i nostri sudditi.
2. Ritenemmo
pertanto con questa salutare decisione e corretto giudizio, che non si debba
vietare a chicchessia la libera facoltà di aderire, vuoi alla fede dei
cristiani, vuoi a quella religione che ciascheduno reputi la più adatta a se
stesso. Così che la somma divinità, il cui culto osserviamo in piena libertà,
possa darci completamente il suo favore e la sua benevolenza.
3. Perciò è opportuno
che si sappia..., cosicché, abolite del tutto le precedenti disposizioni
imperiali concernenti i cristiani, ora, invece, in assoluta tranquillità, tutti
coloro che vogliano osservare la religione cristiana possano farlo senza alcun
timore o pericolo di molestie...”.
T 7 L’editto di Tessalonìca[12]
1. «Vogliamo che
tutte le nazioni che sono sotto nostro dominio, grazie alla nostra carità,
rimangano fedeli a questa religione, che è stata trasmessa da Dio a Pietro
apostolo, e che egli ha trasmesso personalmente ai
Romani, e che ovviamente (questa religione) è mantenuta dal Papa
Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria, persona
con la santità apostolica; cioè dobbiamo credere conformemente con
l'insegnamento apostolico e del Vangelo nell’unità
della natura divina di Padre, Figlio e Spirito Santo, che sono uguali nella
maestà e nella Santa Trinità.
2. Ordiniamo che il nome
di Cristiani Cattolici avranno coloro i quali non violino le affermazioni di
questa legge. Gli altri li consideriamo come persone senza intelletto e
ordiniamo di condannarli alla pena dell’infamia come eretici, e alle loro
riunioni non attribuiremo il nome di chiesa; costoro devono essere condannati
dalla vendetta divina prima, e poi dalle nostre pene, alle quali siamo stati
autorizzati dal Giudice Celeste.»
T 8
Se l’imperatore Valente avesse sconfitto i Visigoti ad Adrianopoli
Abbiamo ricordato nel testo l’importanza
della battaglia di Adrianopoli: la sconfitta dell’esercito dell’Impero
d’Oriente aprì le porte dell’Europa orientale all’avanzata dei barbari.
Fu una sconfitta inevitabile? Lo storico
americano Barry S. Strauss ha risposto di no.
«La catastrofe fu resa più dolorosa dalla
consapevolezza che avrebbe potuto essere evitata. Se l’imperatore avesse atteso
i rinforzi oppure attaccato il mattino seguente con truppe rifocillate e
riposate, l’esito sarebbe stato probabilmente diverso. Né si può sottovalutare
il ruolo del caso. La cavalleria visigota arrivò sul campo di battaglia solo
all’ultimo minuto; avesse ritardato, i Visigoti non avrebbero vinto».
Quali sarebbero potute essere le conseguenze
di una vittoria di Valente ad Adrianopoli? È ancora Strauss a illustrarle:
«E se l’Impero romano fosse sopravvissuto? E
se si fosse ripreso dalla crisi [...]? Con le risorse dell’Impero d’Occidente
ad aiutarlo, l’Impero romano d’Oriente o bizantino avrebbe potuto sconfiggere i
musulmani nel VII secolo, continuando a fare del Mediterraneo un lago
cristiano. I rivali germanici e slavi di Roma si sarebbero sviluppati al di là
del Reno e del Danubio o forse Roma avrebbe finito per conquistare anche loro.
Ci sarebbero stati, naturalmente, periodi di disordine, inevitabili invasioni
[...]. L’Impero, però, si sarebbe sempre ripreso e avrebbe potuto persino
espandersi, andando nel momento di massima espansione dalla Mesopotamia al
Marocco e dalla Britannia all’Elba, alla Vistola o addirittura, chissà, al
Dnepr»[13]
T 9 La tomba nel Busento[14]
Cupi a notte canti suonano
Da Cosenza su ‘l Busento,
cupo il fiume gli rimormora
dal suo gorgo sonnolento.
Su e giù pel fiume passano
E ripassano ombre lente:
Alarico i Goti piangono
Il gran morto di lor gente.
Ahi sì presto e da la patria
così lungi avrà il riposo,
mentre ancor bionda per gli omeri
va la chioma al poderoso!
Del Busento ecco si schierano
Su le sponde i Goti a prova,
e dal corso usato il piegano
dischiudendo una via nuova.
Dove l’onde pria muggivano,
cavan, cavano la terra;
e profondo il corpo calano,
a cavallo, armato in guerra.
Lui di terra anche ricoprono
E gli arnesi d’or lucenti;
de l’eroe crescan su l’umida
fossa l’erbe de i torrenti!
Poi ridotto ai noti tramiti,
il Busento lasciò l’onde
per l’antico letto valide
spumeggiar tra le due sponde.
Cantò allora un coro d’uomini:
"Dormi, o re, nella tua gloria!
Man romana mai non violi
La tua tomba e la memoria!"
Cantò, e lungo il canto uditasi
Per le schiere gote errare:
recal tu, Busento rapido,
recal tu da mare a mare.
d) Il
crollo dell’Impero d’Occidente – Morto Teodosio, unico imperatore dalla
morte di Graziano, gli succedettero i figli Arcadio a Oriente e Onorio ad
Occidente che, ancora giovani, furono affidati al generale di origine vandala
Stilicone.
I Goti,
controllati tramite concessioni di terre e denaro, divennero sempre più
esigenti e decisero di penetrare in Italia guidati da Alarico. Stilicone, nonostante li avesse sconfitti, patteggiò la
pace. Altri barbari premevano in Gallia e Spagna: Svevi, Alamanni e Vandali. La
classe dirigente, trasferita la capitale a Ravenna e fatto uccidere Stilicone,
cercò di affrontare gli invasori.
Alarico, nel
410, saccheggiò Roma; il suo successore, Ataulfo, fondò nelle Gallie il
primo Regno barbarico e sposò la sorella di Onorio. Nel frattempo, i Vandali di
Genserico conquistarono Cartagine, impadronendosi della provincia d’Africa nel
429.
Nel 430 l’Impero
d’Occidente era costituito dall’Italia, da parti della Gallia e da poche terre
nei Balcani. All’inizio del V secolo fecero irruzione in Europa, saccheggiando
molte città orientali, gli Unni, popolazione asiatica guidata dal feroce
Attila. Il generale romano Ezio, alleatosi con i Visigoti, li affrontò e
sconfisse ai Campi Catalaunici, nella Francia del nord nel 451.
Quando Attila
tornò in Italia, l’anno seguente, devastando il Veneto, gli andò incontro il papa
Leone I, per contrattare la pace. Colpiti dalla peste, gli Unni si
ritirarono e Attila morì nel 453 in Pannonia. Cessato il pericolo degli Unni,
l’Impero era ormai stremato. Capo effettivo, nonostante l’imperatore fosse
Valentiniano III, discendente di Teodosio, era il generale Ezio.
Morto
Valentiniano III nel 455 i Vandali devastarono Roma spogliandola di tutte le
sue ricchezze. Dopo un periodo in cui regnarono vari imperatori controllati dal
barbaro Ricimero, il patrizio Oreste fece proclamare imperatore il figlio
Romolo Augustolo.
Dopo pochi mesi,
costui fu deposto da Odoacre, capo dell’esercito barbaro al servizio dell’Impero,
che accettò da Zenone, imperatore d’Oriente, di governare l’Italia. Di fatto
era la fine dell’Impero d’Occidente nel 476. Ma questa è un’altra Storia
T 10 Inno a
Roma
Ascolta, o regina, tu la più bella
del mondo su
cui signoreggi, o Roma,
o madre di dei,
per i tuoi templi
noi non siamo
lontani dal cielo:
te noi cantiamo
e canteremo sempre,
sino a che lo
concederanno i fati.
Nessun uomo,
sino a quando ha vita,
può
dimenticarsi di te.
Un colpevole
oblio annienti il sole
prima che
svanisca dal mio cuore
la venerazione
che ho per te.
Tu estendi
infatti i tuoi benefici,
simili a raggi sole,
per le terre
che sono circondate
dal fluttuante
Oceano.
Lo stesso Febo,
che il mondo intero
riveste e
rischiara di sua luce,
compie il suo
corso in tuo onore:
dalle tue terre
esso risorge,
nelle tue terre
tramonta.
La Libia dalle
infuocate arene
non ostacolò il
tuo cammino,
né ti respinge
l’Orsa,
sebbene armata
dal suo intenso gelo:
quanto le
plaghe abitate si estendono
verso i gelidi
poli, tanta terra
è al tuo valore
aperta.
Tu hai fatto per genti diverse
un’unica patria: fu gran fortuna
per genti barbare di essere annesse
al tuo dominio. Mentre tu offri ai vinti
di essere partecipi del tuo diritto,
hai fatto città
quello che prima era il mondo.
Laboratorio
Rileggi il Carmen saeculare di Orazio e
riassumilo strofa per strofa, leggi e parafrasa questi versi di Virgilio:
«Abbinsi
gli altri de l’altre arti il vanto;
Avvivino i colori e i bronzi e i marmi;
Muovano con la lingua i tribunali,
Mostrin con l’astrolabio e col quadrante
Meglio del ciel le stelle e i moti loro:
Chè ciò meglio sapran forse di voi:
Ma voi, Romani miei, reggete il mondo
Con l’imperio e con l’armi, e l’arti vostre
Sien l’esser giusti in pace, invitti in guerra;
Perdonare a’ soggetti, accòr gli umíli,
Debellare i superbi.»
Avvivino i colori e i bronzi e i marmi;
Muovano con la lingua i tribunali,
Mostrin con l’astrolabio e col quadrante
Meglio del ciel le stelle e i moti loro:
Chè ciò meglio sapran forse di voi:
Ma voi, Romani miei, reggete il mondo
Con l’imperio e con l’armi, e l’arti vostre
Sien l’esser giusti in pace, invitti in guerra;
Perdonare a’ soggetti, accòr gli umíli,
Debellare i superbi.»
Laboratorio
1. Istituisci un confronto fra i tre brani
letterari che parlano di Roma, individuando i punti comuni e le differenze.
2. Spiega le ragioni delle differnze dovute
alle epoche storiche nelle quali si contestualizzano i tre brani.
T 12 Il
sacco di Roma di San Girolamo
1. Mentre così vanno le cose a Gerusalemme,
dall’Occidente ci giunge la terribile notizia che Roma viene assediata, che si
compra a peso d’oro la incolumità dei cittadini, ma che dopo queste estorsioni
riprende l’assedio: a quelli che già sono stati privati dei beni si vuol
togliere anche la vita. Mi viene a mancare la voce, il pianto mi impedisce di
dettare.
2. La città che ha conquistato
tutto il mondo è conquistata: anzi cade per fame prima ancora che per l’impeto
delle armi, tanto che a stento vi si trova qualcuno da prendere prigioniero. La
disperata bramosia fa sì che ci si getti su cibi nefandi: gli affamati si
sbranano l’uno con l’altro, perfino la madre non risparmia il figlio lattante e
inghiotte nel suo ventre ciò che ha appena partorito.
[1] Ammiano Marcellino – Ammiano era nato ad Antiochia nel 330, da una famiglia greca. Militò nell'esercito romano sotto Costanzo II e di Guliano. Ritiratosi a vita privata nel 363, si stabilì a Roma dal 380 alla morte avvenuta intorno al 400. A Roma fu in contatto con i circoli pagani, e si dedicò all'attività di storico.
I suoi Rerum Gestarum libri XXXI continuano le Storie di Tacito, narrano gli avvenimenti dalla morte di Domiziano nel 96 a quella di Valente nel 378. A noi rimangono solo gli ultimi 18 libri (353-378) relativi alle vicende contemporanee.
Nella sua storia, ancorata agli schemi classici e con ambizioni letterarie, mostra un verismo drammatico a volte minuzioso. Interpreta i fatti con sostanziale equilibrio, anche se il suo apprezzamento dei valori tradizionali della civiltà romana l'indussero a un certo distacco dai problemi contemporanei, come il cristianesimo e i barbari, mai trattati compiutamente. Sottolinea l'estraneità dei barbari e del cristianesimo alla tradizione romana, della quale Giuliano è presentato come l'esemplare difensore.
Le fonti, per le vicende contemporanee, sono di prima mano e solo raramente letterarie.
Il linguaggio, ricco di clausole ritmiche, è a volte oscuro ma intensamente espressivo.
[2] L’anarchia militare – Tra il 238 e il 284, periodo detto dagli storici anarchia militare, il potere passò tra le mani di 21 imperatori di cui 19 perirono assassinati. Lo Stato era vicino al tracollo: gruppi di Germani, tra cui i Goti varcavano i confini, a Oriente premeva la dinastia dei Sassanidi, discendenti dei Persiani.
Durante il regno di Gallieno (253-268), alcune regioni, organizzatesi autonomamente pur rimanendo fedeli all’Impero, riuscirono a contenere l’avanzata nemica. Le frontiere furono ristabilite al Reno e al Danubio.
L’anarchia militare di questo periodo fu arrestata dai cosiddetti imperatori illirici, tutti nativi della Dalmazia, i quali furono tutti valenti soldati, fautori della più rigida disciplina e fedeli all’ideale di Roma.
I principali fra essi furono Claudio II, soprannominato il Gotico (268-270) per le sue vittorie sui Goti e gli Alamanni, questi ultimi originariamente un'alleanza di tribù germaniche stanziate attorno alla parte superiore del fiume Meno.
Aureliano (270-275) che continuando l’operato del suo predecessore cinse Roma di una poderosa cerchia di Mura (Mura Aureliane).
Probo (276-282) e Caro (282-283) che continuarono a difendere l’Impero contro le sempre più frequenti irruzioni dei barbari.
[3] Massimiano, (250-310) di modesta famiglia, pervenne agli alti gradi dell'esercito: Diocleziano se lo associò nell'impero prima nel 285 come Cesare, poi nel 286 come Augusto, attribuendogli l'Occidente con residenza a Treviri. Combatté sui confini, contro Alamanni, Burgundi, Franchi e in Gallia represse moti insurrezionali; perseguitò i cristiani.
Dopo la creazione della tetrarchia, cedute a Costanzo Cloro la Britannia e la Gallia, passò a Milano e successivamente in Africa dove combatté i Mauretani insorti.
Abdicò con Diocleziano nel 305, ritirandosi in Lucania donde però fu riportato al potere l'anno dopo dal figlio Massenzio, contro il quale tuttavia si alleò successivamente con il genero Costantino.
In seguito Massimiano tramò contro quest'ultimo e, arrestato nei pressi di Marsiglia, si diede la morte (o forse fu ucciso).
[4] La battaglia di Ponte Milvio, fu un’importante battaglia nel corso della quale Costantino avrebbe avuto la visione della croce e del crisma cristiano e avrebbe udito queste parole: «In questo segno vincerai» Le truppe di Massenzio, figlio di Massimiano, Augusto d’Occidente durante l’Impero di Diocleziano, furono infatti sconfitte e Massenzio stesso morì annegato.
[5] La battaglia di Bouvines (27 luglio 1214) fu lo scontro decisivo del primo grande conflitto internazionale tra coalizioni di eserciti nazionali in Europa.
Nel gioco delle alleanze, orchestrato da papa Innocenzo III, Filippo Augusto di Francia inflisse ad Ottone IV di Germania e al conte Ferdinando di Fiandra una sconfitta così decisiva che Ottone venne deposto e sostituito da Federico II di Svevia.
[6] La battaglia di Azincourt si svolse presso Azincourt il 25 ottobre 1415 nell'ambito della Guerra dei cent'anni, e vide scontrarsi le forze del Regno di Francia di Carlo VI contro quelle del Regno d'Inghilterra di Enrico V.
In virtù della decisiva vittoria riportata dagli inglesi è considerata uno dei momenti più cupi della storia della Francia e al contrario uno dei più fulgidi della storia dell'Inghilterra.
[7] La battaglia di Verdun fu l'unica grande offensiva tedesca, avvenuta tra la prima battaglia della Marna del 1914 e l'ultima offensiva del generale Ludendorff nella primavera del 1918.
Fu una delle più violente e sanguinose battaglie di tutto il fronte occidentale della prima guerra mondiale.
Questa spaventosa battaglia divenne una sacra leggenda nazionale in Francia, sinonimo di forza, eroismo e sofferenza, i cui effetti e ricordi perdurano ancora oggi; la battaglia coinvolse quasi i tre quarti delle armate francesi, e benché nella storia, e nella stessa prima guerra mondiale, ci siano state battaglie anche più cruente, Verdun detiene probabilmente il primato di campo di battaglia con il maggior numero di morti per metro quadro.
[8] Ilya Prigogine (Mosca, 25 gennaio 1917 – Bruxelles, 28 maggio 2003) è stato un chimico e fisico russo naturalizzato belga, molto noto per le sue teorie sulle strutture dissipative, i sistemi complessi e l'irreversibilità.
[9] Lo staurogramma è un monogramma, ottenuto sovrapponendo due lettere greche maiuscole, tau (T) e rho (P). Poichè il rho è scritto con un carattere più alto del tau, il simbolo risultante è una croce latina, in cui il braccio verticale superiore è dotato anche dell'occhiello del rho.
[10] MAT Costantino privato - Nerone ha ucciso sua madre ed è passato alla storia come un mostro. Costantino ha cucinato sua moglie nell’acqua bollente ed è stato fatto santo. Strano caso davvero quello di Costantino (274-337 d.C.), signore dell’impero romano per oltre trent’anni, dal 306 alla morte. Più si leggono i testi antichi e più la sua figura appare inafferrabile. Da un lato, c’è l’eroe della leggenda cristiana, il campione della fede che trionfa in battaglia esibendo il simbolo della Croce («In hoc signo vinces», con questo segno vincerai). Dall’altro, c’è l’usurpatore violento e assetato di potere che conquista il trono massacrando i rivali, l’imperatore vizioso e debosciato, il politico cinico che si serve furbescamente del cristianesimo per puntellare il suo regime tirannico.
L’illustre storico settecentesco Edward Gibbon confessò di avere dato alle fiamme più di cinquanta fogli del suo Declino e caduta dell’impero romano perché non sapeva come raccontare Costantino.
[…] Per esempio, il lettore comune crede di sapere che l’imperatore inaugurò la stagione della tolleranza verso il cristianesimo con l’editto di Milano, promulgato nel 313. Poi uno legge il libro di Barbero e scopre che l’editto non fu promulgato a Milano, anzi non fu neppure un editto ma una semplice lettera circolare, per di più pubblicata non da Costantino ma dal suo collega-rivale Licinio. Anche la leggenda della visione miracolosa che, prima della battaglia contro Massenzio al Ponte Milvio, induce l’imperatore a schierare l’esercito sotto un’insegna cristiana, è raccontata in modi spesso contradditori. La celebre frase «In hoc signo vinces» è evocata solo nella Vita di Costantino di Eusebio, solerte biografo di corte. Peraltro Eusebio, che scrive in greco, non usa il futuro («vincerai») ma l’imperativo («vinci»). Quasi il comando divino fosse un urlo da stadio: «vinci» (níka) era infatti un grido che i tifosi usavano durante le gare dei carri negli ippodromi.
Ma come si concilia il Costantino folgorato dalla visione cristiana con quello a cui, pochi anni prima, appare invece il dio Apollo, che l’imperatore avrebbe incontrato faccia a faccia nel 310 in un tempio della Gallia? E come spiegare che sull’Arco di Costantino, eretto nel 315 a Roma per celebrare la vittoria su Massenzio, di segni cristiani non ci sia traccia? Le legioni, anzi, vi sono raffigurate mentre marciano esibendo statuette della Vittoria e del Sole. E Costantino continuerà per anni a farsi rappresentare sulle monete portando sul capo il simbolo solare della corona radiata.
Molti, insomma, restano gli aspetti oscuri e contraddittori della vita e dell’opera di Costantino. A partire dall’episodio morboso che coinvolge Crispo, suo figlio di primo letto. Si narrava che la nuova moglie di Costantino, Fausta, avesse sviluppato una passione incestuosa per il figliastro. Rifiutata, avrebbe accusato Crispo di stupro. L’imperatore mandò quindi a morte il figlio ma poi, scoperta la calunnia, avrebbe punito Fausta facendola cuocere nell’acqua bollente (o, secondo altri, buttandola nuda in pasto alle belve feroci). La vicenda, messa in questi termini, ha un sapore fiabesco e rimanda al mito greco di Fedra. Ma che Costantino abbia ucciso suo figlio e sua moglie è un fatto storico.
Costantino, insomma, era «pari a un apostolo» (isapóstolos, come scriveva Eusebio) o era un tiranno sanguinario? Giuliano l’Apostata, suo discendente e successore, lo considerava soprattutto un debosciato. In un’operetta satirica, I Cesari, Giuliano immagina un bizzarro concorso che si svolge nell’Aldilà: gli imperatori del passato fanno a gara davanti agli dèi dell’Olimpo per stabilire chi di loro sia stato il più grande di tutti i tempi. Partecipa anche Costantino ma solo, si spiega, perché ci vuole qualcuno che rappresenti «gli amanti dei piaceri». Certo, Giuliano, restauratore del paganesimo, non poteva apprezzare Costantino. Ma il ritratto resta impressionante.
E culmina nell’immagine di Costantino che, truccato e vestito di abiti multicolori, corre dietro a Gesù, sperando di potersi purificare dai suoi crimini con un po’ di acqua benedetta.
Dopo Giuliano, la «leggenda nera» di Costantino viaggerà attraverso i secoli accanto alla favola cristiana. A Voltaire, l’imperatore apparirà come un «tiranno superstizioso» che solo «gli adulatori clericali» («flatteurs ecclésiastiques») possono considerare un grand’uomo. Difficile oggi sottoscrivere un giudizio così drastico.
[11] Costantino così commentò l’editto, scrivendo a un suo corrispondente che chiedeva chiarimenti sui veri motivi dell'editto. Inoltre si ordinava la restituzione ai Cristiani dei beni confiscati.
Costantino così credette opportuno di non negare a nessuno la facoltà di libera professione religiosa tanto per i Cristiani che per tutti gli altri, qualunque fosse il loro culto. E concludeva dicendo che aveva ritenuto opportuno abrogare le precedenti leggi contro i Cristiani perché le riteneva odiose e del tutto contrarie alla sua mansuetudine, lasciando così liberamente e semplicemente a tutti quelli che volevano seguire la nuova fede di praticarla senza molestie o impedimento alcuno.
In questo editto veniva riconfermato quanto era stato detto in quello del 311; in più si ordinava la restituzione ai Cristiani dei beni confiscati, e il Cristianesimo veniva messo alla pari delle altre religioni. Nell'editto, inoltre, c'era una professione di fede monoteistica, parlando di Divinità anziché di Dèi, a questa Divinità si invocava il favore per i monarchi e per i sudditi.
[12] Teodosio fu nominato augusto nel gennaio del 379 ed elesse come sede del suo quartier generale una delle diocesi che Graziano gli aveva affidato oltre l'Oriente, e cioè Tessalonìca, in Macedonia. Teodosio, il 27 febbraio del 380, emana il celebre editto di Tessalonìca, in cui ordina ai popoli a lui sottomessi di abbracciare la fede che era stata un tempo dell'apostolo Pietro, e li esorta a riconoscere la massima autorità nelle figure del papa ortodosso Dàmaso e del vescovo di Alessandria Pietro.
L'intento di Teodosio è sicuramente di natura politica, intuendo egli quanto inammissibile e pericoloso si rivelasse il continuare delle divisioni religiose in oriente fra ariani ed antiariani.
Ovviamente questa è la linea che il vescovo di Milano, Ambrogio, aveva sempre cercato di perseguire fin dalla sua elezione all'episcopato nel 374: una consonanza di posizioni. Un simile editto viene ripetuto da Teodosio nel 381, dopo essere guarito da una malattia che lo aveva portato in fin di vita.
L'editto di Tessalonìca, firmato anche dagli imperatori Graziano e Valentiniano II, dichiara il Cristianesimo religione ufficiale dell'impero e proibisce i culti pagani. Contro gli eretici, egli esige da tutti i cristiani la confessione di fede conforme alle deliberazioni del concilio di Nicea.
Il suo testo venne preparato dalla cancelleria di Teodosio I. Successivamente venne incluso nel codice Teodosiano.
[13] . AA.VV., La storia fatta con i se, a cura di Cowley, Rizzoli, Milano 2001 La storia con i «se» 1/1 Lepre, Petraccone, Voci dell’Antichità, © Zanichelli editore 2010
[14] Il sacco di Roma – Nella notte del 24 agosto del 410 Alarico, Re dei Visigoti, entrò con il suo esercito in Roma, passando per Porta Salaria. Seguirono tre giorni di saccheggi e violenze, anche se pare che fosse stato impartito l'ordine di non sacrificare vite umane e di risparmiare le chiese.
Dopo queste tre giornate, che resteranno impresse a lungo negli occhi dei cittadini di Roma, i barbari abbandonarono l’Urbe e si diressero verso il Sud della penisola, con l’intenzione di raggiungere le coste africane per nuove invasioni e conquiste. Ma ecco l’imprevisto: Alarico, allora quarantenne, colto da improvvisa malattia, morì nei pressi dello Stretto.
Narra la leggenda che i Visigoti, per evitare che mani romani potessero violare la tomba del loro re, deviarono il fiume Busento, nei pressi di Cosenza, e seppellirono nel suo letto Alarico in armi, insieme al suo cavallo ed al suo tesoro e successivamente ripristinarono il normale corso delle acque. Infine, gli schiavi utilizzati per deviare temporaneamente il corso del fiume vennero ammazzati, perché non rivelassero il segreto.
La ballata è grave, cupa, come l’episodio che rievoca, vissuto anch’esso in uno dei periodi più cupi della decadenza dell’impero.
E’ interessante notare che la caduta di Roma in mano ai barbari, dopo tanti secoli di gloria, fece un’impressione enorme nei contemporanei (mai un barbaro aveva osato tanto dai tempi di Brenno), tanto che vi fu chi presagì la prossima fine del mondo, e l’uomo che di tale sbigottimento era stato il principale artefice, fu considerato, almeno dalla sua gente, un grande eroe. Anche così si spiega il mistero con cui vollero circondare la sua sepoltura.
Il poeta ha reso l’atmosfera da leggenda di questo episodio con molta efficacia.
L’inconsueta opera che i compagni di Alarico compiono per nascondere per sempre la salma del loro re, assume, nella solitudine della morte e del luogo, una maestosa grandezza; le voci e i pianti dei guerrieri risuonano cadenzati e gravi risvegliando nel nostro cuore una lunga e misteriosa eco.
[15] Il De reditu suo è un poema scritto da Claudio Rutilio Namaziano sulla decadenza dell'impero romano d'occidente nel V secolo.
De reditu suo significa letteralmente "Sul proprio ritorno": Namaziano stava infatti facendo ritorno da Roma alla sua terra d'origine, la Gallia. Durante il viaggio descrive un impero in decadenza, influenzato dalle numerose popolazioni barbare ormai infilitratesi in esso, narrandone le passate e ormai perdute bellezze.
[16] Claudio Rutilio Namaziano nacque forse a Tolosa, fu præfectus urbi di Roma nel 414. L'anno seguente o poco dopo fu costretto a lasciare Roma per far ritorno nei suoi possedimenti in Gallia devastata dall'invasione dei Vandali.
Tale viaggio — condotto per mare e con numerose soste, perché le strade consolari erano impraticabili e insicure dopo l'invasione dei Goti — venne descritto nel De reditu suo, l'unica opera certamente sua rimastaci seppur incompleta.
Namaziano è, cronologicamente, l'ultimo autore del mondo letterario latino e pagano. Dal punto di vista ideologico, è un aristocratico pagano che non accetta i tempi nuovi, rifiutando i culti cristiani, da lui considerati estranei alla tradizione di Roma.