Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

venerdì 29 marzo 2013

La scultura e la ceramica arcaiche di Massimo Capuozzo


La scultura greca arcaica – I più antichi esempi di scultura greca in stile dedalico – dal nome del leggendario artista cretese – risalgono al VII secolo a.C. e sono caratterizzati da una rigida astrazione.
La scultura dedalica descrive lo stile particolare che le figure umane assunsero nell'arte greca del VII secolo e che ebbe diffusione uniforme in tutta la Grecia. In questo secolo di grandi trasformazioni, la scultura dedalica corrisponde all'ultima fase del periodo orientalizzante, che vide in Grecia la nascita di un'arte monumentale, il superamento delle forme esuberanti del primo periodo e l'approdo ad un sistema di proporzioni. Il bisogno di ordine e di contenimento fu alla base del mondo greco arcaico.
Importanti esempi di scultura architettonica furono in Italia: le trentasei metope della metà del VI secolo, attribuite al thesaurós, della foce del Sele in cui sono rappresentati, con fresco realismo, le Imprese di Eracle, il Suicidio di Aiace, Sisifo, Ulisse sulla tartaruga, episodi dell'Orestea ecc.; le dieci metope della facciata del tempio C di Selinunte del Museo archeologico di Palermo, anteriori al 550 a.C. scolpite ad altorilievo erano incorniciate in alto e in basso da lastre piatte che ne facevano risaltare il vigore plastico ed erano separate da triglifi fortemente aggettanti rispetto al piano delle metope stesse. Ne sopravvivono integralmente tre dove la presentazione dei soggetti (quadriga trattata arditamente di fronte, Perseo e Medusa che scaturiscono dal fondo della metopa, Eracle e i Cercopi che passano come su una scena) fa appello a effetti teatrali che si accordano alla struttura architettonica del fregio.
Nella scultura arcaica la figura, prima rigida e squadrata, passò dall'astrazione dedalica a una maggiore aderenza alla realtà. La scultura era anche votiva, funeraria, onoraria (statue di vincitori di gare atletiche; gruppo dei Tirannicidi). La grande scultura in bronzo del VI secolo a.C. è perduta, ma restano molti originali in pietra o marmo.
Pochi erano i tipi della grande statuaria, tra cui anzitutto quello del kouros – statua maschile nuda, in piedi, con la gamba sinistra avanzata – e della kore – statua femminile vestita, in posizione analoga – documentati da numerosi esemplari trovati nella cosiddetta colmata persiana dell'Acropoli di Atene e oggi al Museo dell'Acropoli (dalla metà del VI ai primi decenni del V secolo a.C.), ma presenti in Attica e in altre località già alla fine del VII secolo; in queste statuette è soprattutto evidente la progressiva conquista della conoscenza dell'anatomia umana.
È un giovane uomo nudo, in posizione stante (statica), raffigurato con la testa eretta, le braccia stese lungo i fianchi, i pugni serrati e la gamba sinistra leggermente avanzata, ad accennare un passo. Il termine kouros identifica un giovane nel pieno e vigoroso splendore del suo sviluppo fisico e morale (per i Greci alla bellezza esteriore
corrisponde quella interiore). Nel kouros si riscontra una notevole somiglianza con le statue egizie soprattutto nella gamba sinistra avanzata e nella rigida posizione delle braccia con i pugni serrati attorno a due corti cilindri, simbolo di potere.
La scultura greca arcaica si ispira, almeno nelle fasi iniziali, a quella egizia e ciò è dovuto ai frequenti scambi commerciali nel Mediterraneo che avevano messo in contatto gli artisti greci con statuette di provenienza egizia. Convenzionalmente si distinguono tre stili: quello dorico, proprio della Grecia continentale e del Peloponneso, piuttosto rigido e pesante; quello ionico, proprio delle isole egee, più ricercato e decorativo; quello attico, proprio di Atene che fonde la severità dorica con l'eleganza ionica.
Uno dei più importanti esempi di scultura arcaica ci è offerto da Kleobis e Biton, una coppia di sculture in marmo pario (h 216 cm, con la base h 235 cm) risalenti al 585 a.C. circa, attribuite a Polimede di Argo e conservate nel Museo archeologico di Delfi.
Si tratta di uno degli esempi più antichi di statuaria arcaica greca, alle origini dell'iconografia del Kouros. In questo caso si tratta delle statue, tozze e rigide, dei fratelli Cleobi e Bitone, scolpiti in posizione stante, con la muscolatura del petto messa in evidenza come il tipico sorriso arcaico. I due eroi sono raffigurati eretti e completamente nudi. L'uso di raffigurare personaggi nudi risale forse all'abitudine degli atleti, fin dal periodo arcaico, di gareggiare senza vesti.
Le membra di Kleobis e di Biton hanno una straordinaria robustezza, con un'anatomia possente che ricorda blocchi di pietra accostati. Gli artisti greci si impegnano nella rappresentazione del corpo nudo maschile, che ritenevano più bello rispetto a quello femminile, in quanto era l’esaltazione del vigore e della forza acquisiti con l’esercizio atletico.
Esemplare è anche l'Hera di Samo è una scultura in marmo (h. 192 cm), databile al secondo quarto del VI secolo a.C. e conservata  a Parigi nel Museo del Louvre. Si tratta di una delle sculture greche più antiche, dedicata alla dea Hera nel santuario di Samo: l'iscrizione incisa lungo il bordo del velo ci informa che era un ex voto del ricco Cheramyes, un membro dell'aristocrazia ionica.

Non si tratta di una dea ma di una kòre, interamente coperta da un lungo chitone che si allarga in una fitta trama di pieghe verticali e perfettamente parallele fra loro. Il mantello copre la spalla destra e il petto, movimentando con l’obliquità del suo largo panneggio la rigida verticalità della statua. Le pesanti vesti lasciano scoperti solo la punta dei piedi e l’avambraccio destro disteso lungo il fianco, trasmettendo un senso di insondabile mistero. L’altro braccio, andato perduto, era presumibilmente portato sul seno e poteva reggere il melograno, attribuito a Hera.
La scultura prende il nome dall’isola del Mar Egeo dove è stata rinvenuta, all’interno del tempio dedicato ad Hera.
Il Moskophoros è una scultura in marmo dell'Imetto di età arcaica (570-560 a.C. circa), alta 165 cm e conservata nel Museo dell'Acropoli ad Atene.
Il corpo viene maggiormente armonizzato per conseguire un effetto di maggior equilibrio. È un kouros che sorregge un vitellino sulle spalle in atto di portarlo in offerta al tempi, il tutto con simmetria compositiva. Il Moschophoros non è nudo, ma indossa una corta tunica che costituiva il principale capo di abbigliamento. La sua testa di forma ovoidale è incorniciata da un'acconciatura di capelli ondulati; una barba fitta, priva di baffi gli orna il volto. Vi è uno studio del dettaglio con una certa accuratezza.
Il kouros di Anavyssos, in Attica, è stato collegato ad una base che conserva il nome di Kroisos, un guerriero morto in battaglia. Si tratta quindi di una statua funeraria le cui caratteristiche anatomiche sembrano dovute, oltre all'influsso delle morbidezze e rotondità ioniche, a caratteristiche particolari e individuali volutamente perseguite.

La ceramica greca arcaica – Anche la ceramica figurata ebbe nel periodo arcaico una grandissima fioritura, ciò che compensa solo in parte la quasi totale scomparsa della pittura.
Oltre alla decorativa ceramica corinzia (che terminò alla metà del VI secolo a.C.), fabbriche di vasi figurati furono attive tra i secoli VII e il VI a.C. in diverse località greche. Il VI secolo fu dominato però dalla ceramica attica, prima a figure nere e poi, dal 530 a.C., a figure rosse. Diversi artisti firmarono i loro vasi.
Per le figure nere è famoso Exechìas, pittore e fabbricante di vasi attici, attivo tra il 550 e il 525 a. C. Considerato il più grande pittore dello stile a figure nere, di lui restano una trentina di vasi e una serie di tavolette dipinte (pínakes); due vasi sono firmati come vasaio e come pittore. I soggetti trattati sono per lo più episodi mitici, duelli, battaglie e, sui pínakes, scene di contenuto funerario, resi sempre con uno stile elevato e austero, caratterizzato dalla raffinatezza dei particolari, dal pacato ritmo compositivo e dalla solennità delle figure. Famose l'anfora dei Musei Vaticani con Achille e Aiace che giocano ai dadi su un lato e Tindaro e Castore con un cavallo sull'altro, quella di Boulogne con il suicidio di Aiace, la coppa di Monaco con la nave di Dioniso.
Per le figure rosse si ricordano tra i molti Eufronio ed Eutimide.
Eufronio fu un ceramista attico della tecnica a figure rosse, attivo dal 520 al 470 a. C. Forse il più insigne maestro dello stile severo si distinse per l'eccezionale abilità disegnativa unita a un rigoroso ritmo compositivo e a delicate ricerche coloristiche. Dapprima dipinse vasi per le officine di Cacrilione ed Eussiteo; in seguito, divenuto a sua volta proprietario di officina, ne firmò come vasaio alcuni che furono poi dipinti da altri. Tra le diverse opere firmate da Eufronio come pittore si ricordano: la tazza da Vulci con il giovane cavaliere Leagros e all'esterno la lotta tra Eracle e Gerione, dell’Antikensammlungen di Monaco; il cratere a calice da Cere con la lotta tra Eracle e Anteo del Louvre a Parigi; lo psyktèr da Cere con quattro etere dell’Ermitage di San Pietroburgo; il cratere a calice proveniente dall'Etruria, con Morte e Sonno che sollevano il corpo di Sarpedonte del Metropolitan Museum di New York. La sua firma come vasaio compare fra l'altro sulla kýlix da Cere con la visita di Teseo ad Anfitrite in presenza di Atena, le cui pitture, da alcuni riferite al Pittore di Panaitios, sono da altri attribuite allo stesso Eufronio.
Eutimide, pittore di vasi attici a figure rosse, attivo verso la fine del sec. VI a. C., fu uno dei maestri dello stile arcaico e dipinse soprattutto vasi di grandi dimensioni, spesso in concorrenza con Eufronio. Tra le opere attribuitegli sono da ricordare due anfore del museo di Monaco con le scene di Ettore che si arma e di Teseo che rapisce la giovinetta Koronis.

L’età orientalizzante ed arcaica in Italia – Nell'età orientalizzante ed arcaica (VII-VI secolo a.C.) il traffico culturale aumentò di intensità in tutta la penisola italica attraverso le normali vie di comunicazione,  vallate e valichi appenninici, o su nuove vie come la strada che costeggia gran parte dell'Adriatico e le rotte marittime locali.
Dal geometrico iapigio, i Micenei,  attinsero un deciso e netto schema decorativo, nel campo della ceramica, resistente agli agenti atmosferici e al tempo.
Nella Peucezia, le celebri tombe principesche di Conversano e Noicattaro lasciano capire l'accumulo delle raccolte di beni artistici di valore più che l'autonomo rimaneggiamento. I Messapi, in un saldo rapporto di scambi culturali con gli artisti greci, incominciano ad imitare fedelmente le immagini scure (generalmente nere) nella ceramica, assimilano le loro religioni e realizzano strutture architettoniche monumentali.

L’arte etrusca – L’arte etrusca costituisce un importante elemento di ricostruzione storica; sintesi di elementi greci, fenici e di caratteri propri, fu un punto di riferimento anche per l'arte romana.
Al VI secolo a.C. risalgono alcune delle più belle tombe ricche di dipinti.

Tra gli elementi scultorei risaltano il sarcofago degli sposi, oggi conservato al museo di Villa Giulia a Roma, l'Apollo, opera di Vulca, l'unico artista di cui si conosca il nome, la lupa capitolina, copia medievale realizzata da un originale antico etrusco italico, e la chimera d'Arezzo, quasi certamente attribuibile a un'officina magnogreca che avrebbe lavorato per committenti etruschi.
Il Sarcofago degli Sposi è un'urna funeraria in terracotta dipinta (114x190 cm) del tardo VI secolo a.C., conservata nel Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma. La scultura raffigura una coppia di sposi sdraiata in un triclinio a un banchetto nell'atto di versarsi del profumo sulle mani. Entrambe le figure hanno i capelli lunghi e gli occhi allungati e il sorriso arcaico. I due coniugi sono raffigurati semidistesi su un klìne (letto di bronzo ricoperto di stoffe e cuscini, sopra il quale gli ospiti si adagiavano durante le feste) in posizione di perfetta parità, come se partecipassero ad un banchetto; questa consuetudine fu ripresa dai Romani, che molto amavano le conversazioni conviviali. Gli etruschi attribuivano, infatti, grande importanza al culto dei morti, anche perché era un mezzo per l'affermazione del prestigio e della potenza di una famiglia.
Il marito appoggia affettuosamente il braccio destro sulla spalla della consorte. I movimenti delle loro mani si intrecciano in un gioco prezioso: le espressioni serene dei volti, i gesti calmi, ci parlano di un reciproco amore e, soprattutto, di un profondo rispetto. L’atteggiamento dell’uomo rileva la considerazione ed il rispetto che godeva la donna nella società etrusca. Gli occhi allungati e obliqui dei coniugi non riproducono una caratteristica etnica, ma rispecchiano lo stile arcaico. L'influenza greco-orientale è evidente. Sono visibili elementi di derivazione ionica che dimostrano i continui contatti che l'Etruria aveva con il mondo greco, come ad esempio il sorriso, l'acconciatura dei capelli, le superfici levigate e la sottigliezza dei volti. Le dimensioni dei corpi rivelano la maestria raggiunta dagli etruschi nel modellare e nel cuocere l’argilla. La ricchezza delle decorazioni di superficie, l’attenzione alla resa delle figure con piani morbidi e sfuggenti, tutto parla della raffinatezza dell’arte etrusca dell’epoca, che aveva saputo quindi accogliere le conquiste anatomiche e spaziali greche, facendole proprie ed esaltandole con una più spiccata attenzione naturalistica.
L’Apollo di Veio, in terracotta policroma, è uno dei capolavori dell’arte etrusca, della fine del VI secolo a.C. Insieme ad altre statue, tutte a grandezze superiori o pari al vero, ornava la trave di colmo del tempio di Veio, dedicato a Minerva, uno dei più importanti d’Etruria.

Alloggiate su alte basi a zoccolo, variamente dipinte, le statue forse dodici, molte delle quali giunte a noi solo frammentariamente, si ergevano in funzione di acroteri a circa dodici metri di altezza. Anche se realizzate isolatamente illustravano, in sequenza di due o tre, eventi mitici greci, almeno in parte collegati con il dio Apollo. La statua formava con quella di Eracle (Ercole) un gruppo raffigurante il mito, piuttosto raro anche in Grecia, della contesa tra il dio e l’eroe per la cerva dalle corna d’oro, sacra ad Artemide (sorella di Apollo).
Apollo, vestito di una tunica e di un corto mantello, avanza verso sinistra con il braccio destro proteso e piegato (il sinistro scendeva verso il basso, forse impugnando con la mano l’arco); Eracle, con la cerva legata tra le gambe, è proteso verso destra, piegato in avanti per brandire la clava mostrando il torace in una curva violenta.
Collegata al gruppo doveva essere anche la statua di Hermes (Mercurio) di cui restano la splendida testa e forse parte del corpo: il dio, come messaggero di Zeus, interviene per sedare i contendenti.
Il gruppo è concepito per un’unica visione laterale, corrispondente al lato del tempio ove correva la strada di accesso al santuario. La salda volumetria delle figure unita alle sottili dissimmetrie riscontrabili sia nell’Apollo (cassa toracica, volto) sia nel torso dell’Eracle indicano che il coroplasta – modellatore di vasi, statuette e altri oggetti di terracotta – aveva piena conoscenza delle deformazioni ottiche in scultura che dovevano essere visibili da grande distanza e con forti angolature. Si spiegano così la creazione di volumi grandiosi e l’insistenza nell’incidere in profondità e nel rilevare senza risparmio i dettagli, in modo da ricostruire corretta la necessaria unità visiva della composizione.
La formazione del maestro che plasmò le statue è certamente ionica. Di grande talento, è identificabile con il “Veiente esperto di coroplastica” cui Tarquinio il Superbo commissionò la quadriga acroteriale del tempio di Giove Capitolino. Si tratta certamente del massimo rappresentante della celebre bottega di cloroplasti veienti fondata da Vulca, il maestro chiamato a Roma da Tarquinio Prisco verso il 580 a.C. per eseguire il simulacro dello stesso Giove Capitolino.
Resti di ceramiche di fattura greca, cofanetti, pettini, monili d'avorio, braccialetti, testimoniano i contatti con il mondo greco e fenicio. Il bucchero fu invece un prodotto tipico dell'artigianato locale, una ceramica di impasto scuro con cui si facevano oggetti diversi.
La più importante novità in campo architettonico, assimilata anche dai Romani, fu l'introduzione dell'arco tra il III e il II sec. a.C., il cui elemento portante era la pietra a cuneo funzionante come chiave di volta per ottenere l'equilibrio di tutti gli elementi.
La Campania fu fortemente influenzata dalla cultura etrusca, a causa del predominio di quella popolazione, che si spinge fino alla valle del Sele. Intorno alla fine del VI secolo a.C., nelle zone dell'entroterra meridionale, ha origine e rimane punto di diffusione il procedimento ellenico con le coperture in terracotta con sime e antefisse figurate, insieme alla coroplastica votiva. Cuma ebbe una fortissima influenza in tutto il meridione, raggiungendo perfino le zone di Roma.
Massimo Capuozzo

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