La scultura greca arcaica – I più antichi esempi
di scultura greca in stile dedalico –
dal nome del leggendario artista cretese – risalgono al VII secolo a.C. e sono
caratterizzati da una rigida astrazione.
La scultura dedalica descrive lo stile particolare che le
figure umane assunsero nell'arte greca del VII
secolo e che ebbe diffusione uniforme in tutta la Grecia. In questo secolo di grandi
trasformazioni, la scultura dedalica corrisponde all'ultima fase del periodo
orientalizzante, che vide in Grecia la nascita di un'arte monumentale, il
superamento delle forme esuberanti del primo periodo e l'approdo ad un sistema
di proporzioni. Il bisogno di ordine e di contenimento fu alla base del mondo greco arcaico.
Importanti esempi di
scultura architettonica furono in Italia: le trentasei
metope della metà del VI secolo, attribuite al thesaurós,
della foce del Sele in cui sono
rappresentati, con fresco realismo, le Imprese di Eracle,
il Suicidio di Aiace, Sisifo, Ulisse
sulla tartaruga, episodi dell'Orestea ecc.; le dieci metope della facciata del
tempio C di Selinunte del Museo
archeologico di Palermo, anteriori al 550 a.C. scolpite
ad altorilievo erano incorniciate in alto e in basso da lastre piatte che ne
facevano risaltare il vigore plastico ed erano separate da triglifi fortemente
aggettanti rispetto al piano delle metope stesse. Ne sopravvivono integralmente
tre dove la presentazione dei soggetti (quadriga
trattata arditamente di fronte, Perseo e
Medusa che scaturiscono dal fondo della metopa, Eracle e i Cercopi che passano come su una scena) fa appello a
effetti teatrali che si accordano alla struttura architettonica del fregio.
Nella scultura
arcaica la figura, prima rigida e squadrata, passò dall'astrazione dedalica a
una maggiore aderenza alla realtà. La scultura era anche votiva, funeraria,
onoraria (statue di vincitori di gare atletiche; gruppo dei Tirannicidi).
La grande scultura in bronzo del VI secolo a.C. è perduta, ma restano molti
originali in pietra o marmo.
Pochi erano i tipi
della grande statuaria, tra cui anzitutto quello del kouros – statua maschile nuda, in piedi, con
la gamba sinistra avanzata – e della kore – statua femminile vestita, in
posizione analoga – documentati da numerosi esemplari trovati nella cosiddetta colmata persiana dell'Acropoli di Atene
e oggi al Museo dell'Acropoli (dalla metà del VI ai primi decenni del V secolo
a.C.), ma presenti in Attica e in altre località già alla fine del VII secolo;
in queste statuette è soprattutto evidente la progressiva conquista della
conoscenza dell'anatomia umana.
È un giovane uomo
nudo, in posizione stante (statica), raffigurato con la testa eretta, le
braccia stese lungo i fianchi, i pugni serrati e la gamba sinistra leggermente
avanzata, ad accennare un passo. Il termine kouros
identifica un giovane nel pieno e vigoroso splendore del suo sviluppo fisico e
morale (per i Greci alla bellezza esteriore
corrisponde quella
interiore). Nel kouros si riscontra una notevole somiglianza con le statue egizie
soprattutto nella gamba sinistra avanzata e nella rigida posizione delle
braccia con i pugni serrati attorno a due corti cilindri, simbolo di potere.
La
scultura greca arcaica si ispira, almeno nelle fasi iniziali, a quella egizia e
ciò è dovuto ai frequenti scambi commerciali nel Mediterraneo che avevano messo
in contatto gli artisti greci con statuette di provenienza egizia. Convenzionalmente si
distinguono tre stili: quello dorico,
proprio della Grecia continentale e del Peloponneso, piuttosto rigido e
pesante; quello ionico, proprio delle
isole egee, più ricercato e decorativo; quello attico, proprio di Atene che fonde la severità dorica con
l'eleganza ionica.
Uno
dei più importanti esempi di scultura arcaica ci è offerto da Kleobis e Biton, una coppia di sculture in marmo pario (h 216 cm, con la base h 235 cm)
risalenti al 585 a.C. circa, attribuite a Polimede di Argo e conservate nel Museo
archeologico di Delfi.
Si
tratta di uno degli esempi più antichi di statuaria
arcaica greca, alle origini dell'iconografia del Kouros. In questo caso si
tratta delle statue, tozze e rigide, dei fratelli Cleobi e Bitone, scolpiti in
posizione stante, con la muscolatura del petto messa in evidenza come il tipico
sorriso arcaico. I due eroi sono raffigurati eretti e completamente nudi. L'uso
di raffigurare personaggi nudi risale
forse all'abitudine degli atleti,
fin dal periodo arcaico, di gareggiare senza vesti.
Le
membra di Kleobis e di Biton
hanno una straordinaria robustezza, con un'anatomia possente che ricorda
blocchi di pietra accostati. Gli artisti greci si impegnano nella
rappresentazione del corpo nudo maschile, che ritenevano più bello rispetto a
quello femminile, in quanto era l’esaltazione del vigore e della forza
acquisiti con l’esercizio atletico.
Esemplare
è anche l'Hera di Samo è una scultura in marmo (h. 192 cm), databile al secondo
quarto del VI secolo a.C. e conservata a Parigi nel Museo
del Louvre. Si tratta di una delle sculture greche più antiche, dedicata alla dea Hera nel
santuario di Samo: l'iscrizione incisa lungo il bordo del velo ci informa che era
un ex voto del ricco Cheramyes, un membro dell'aristocrazia ionica.
Non si tratta di una
dea ma di una kòre, interamente
coperta da un lungo chitone che si allarga in una fitta trama di pieghe
verticali e perfettamente parallele fra loro. Il mantello copre la spalla
destra e il petto, movimentando con l’obliquità del suo largo panneggio la
rigida verticalità della statua. Le pesanti vesti lasciano scoperti solo la
punta dei piedi e l’avambraccio destro disteso lungo il fianco, trasmettendo un
senso di insondabile mistero. L’altro braccio, andato perduto, era
presumibilmente portato sul seno e poteva reggere il melograno, attribuito a
Hera.
La scultura prende il
nome dall’isola del Mar Egeo dove è stata rinvenuta, all’interno del tempio
dedicato ad Hera.
Il Moskophoros è
una scultura in marmo dell'Imetto di età
arcaica (570-560 a.C. circa),
alta 165 cm e conservata nel Museo dell'Acropoli ad Atene.
Il corpo viene
maggiormente armonizzato per conseguire un effetto di maggior equilibrio. È un
kouros che sorregge un vitellino sulle spalle in atto di portarlo in offerta al
tempi, il tutto con simmetria compositiva. Il Moschophoros non è nudo, ma indossa una corta tunica che costituiva
il principale capo di abbigliamento. La sua testa di forma ovoidale è incorniciata
da un'acconciatura di capelli ondulati; una barba fitta, priva di baffi gli
orna il volto. Vi è uno studio del dettaglio con una certa accuratezza.
Il kouros di Anavyssos, in Attica, è stato
collegato ad una base che conserva il nome di Kroisos, un guerriero morto in
battaglia. Si tratta quindi di una statua funeraria le cui caratteristiche
anatomiche sembrano dovute, oltre all'influsso delle morbidezze e rotondità
ioniche, a caratteristiche particolari e individuali volutamente perseguite.
La ceramica greca arcaica – Anche la ceramica
figurata ebbe nel periodo arcaico una grandissima fioritura, ciò che compensa
solo in parte la quasi totale scomparsa della pittura.
Oltre alla decorativa
ceramica corinzia (che terminò alla metà del VI secolo a.C.), fabbriche di vasi
figurati furono attive tra i secoli VII e il VI a.C. in diverse località
greche. Il VI secolo fu dominato però dalla ceramica attica, prima a figure
nere e poi, dal 530 a.C., a figure rosse. Diversi artisti firmarono i loro vasi.
Per le figure nere è
famoso Exechìas, pittore e fabbricante di vasi attici, attivo tra il
550 e il 525 a. C. Considerato il più grande pittore dello stile a figure nere,
di lui restano una trentina di vasi e una serie di tavolette dipinte (pínakes); due vasi
sono firmati come vasaio e come pittore. I soggetti trattati sono per lo più
episodi mitici, duelli, battaglie e, sui pínakes, scene di
contenuto funerario, resi sempre con uno stile elevato e austero,
caratterizzato dalla raffinatezza dei particolari, dal pacato ritmo compositivo
e dalla solennità delle figure. Famose l'anfora dei Musei Vaticani con Achille e Aiace che giocano ai dadi su un lato e
Tindaro e Castore con un cavallo sull'altro, quella di
Boulogne con il suicidio di Aiace, la
coppa di Monaco con la nave di Dioniso.
Per
le figure rosse si ricordano tra i molti Eufronio
ed Eutimide.
Eufronio fu
un ceramista attico della tecnica a figure rosse, attivo dal 520 al 470 a. C. Forse
il più insigne maestro dello stile severo si distinse per l'eccezionale abilità
disegnativa unita a un rigoroso ritmo compositivo e a delicate ricerche
coloristiche. Dapprima dipinse vasi per le officine di Cacrilione ed Eussiteo; in seguito, divenuto a sua volta proprietario di
officina, ne firmò come vasaio alcuni che furono poi dipinti da altri. Tra le
diverse opere firmate da Eufronio come pittore si ricordano: la tazza da Vulci con il giovane cavaliere
Leagros e all'esterno la lotta tra Eracle
e Gerione, dell’Antikensammlungen
di Monaco; il cratere a calice da Cere
con la lotta tra Eracle e Anteo del Louvre
a Parigi; lo psyktèr da
Cere con quattro etere dell’Ermitage
di San Pietroburgo; il cratere a calice proveniente dall'Etruria, con Morte e Sonno che sollevano il corpo di
Sarpedonte del Metropolitan Museum
di New York. La sua firma come vasaio compare fra l'altro sulla kýlix da
Cere con la visita di Teseo ad Anfitrite
in presenza di Atena, le cui pitture, da alcuni riferite al Pittore di
Panaitios, sono da altri attribuite allo stesso Eufronio.
Eutimide, pittore di vasi attici a figure rosse, attivo verso la
fine del sec. VI a. C., fu uno dei maestri dello stile arcaico e dipinse
soprattutto vasi di grandi dimensioni, spesso in concorrenza con Eufronio. Tra le opere
attribuitegli sono da ricordare due anfore del museo di Monaco con le scene di Ettore che si
arma e di Teseo che rapisce la giovinetta Koronis.
L’età orientalizzante
ed arcaica in Italia
– Nell'età orientalizzante ed arcaica (VII-VI secolo a.C.) il traffico
culturale aumentò di intensità in tutta la penisola italica attraverso le
normali vie di comunicazione, vallate e valichi appenninici, o su nuove
vie come la strada che costeggia gran parte dell'Adriatico e le rotte marittime
locali.
Dal
geometrico iapigio, i Micenei, attinsero un deciso e netto schema decorativo,
nel campo della ceramica, resistente agli agenti atmosferici e al tempo.
Nella
Peucezia, le celebri tombe principesche
di Conversano e Noicattaro lasciano capire l'accumulo delle raccolte di
beni artistici di valore più che l'autonomo rimaneggiamento. I Messapi, in un
saldo rapporto di scambi culturali con gli artisti greci, incominciano ad
imitare fedelmente le immagini scure (generalmente nere) nella ceramica,
assimilano le loro religioni e realizzano strutture architettoniche
monumentali.
L’arte
etrusca – L’arte etrusca costituisce un importante elemento di
ricostruzione storica; sintesi di elementi greci, fenici e di caratteri propri,
fu un punto di riferimento anche per l'arte romana.
Al VI secolo a.C. risalgono alcune delle più belle tombe
ricche di dipinti.
Tra gli elementi scultorei risaltano il sarcofago degli sposi, oggi
conservato al museo di Villa Giulia a Roma, l'Apollo, opera di Vulca,
l'unico artista di cui si conosca il nome, la lupa
capitolina, copia medievale
realizzata da un originale antico etrusco italico, e la chimera d'Arezzo, quasi
certamente attribuibile a un'officina magnogreca che avrebbe lavorato per
committenti etruschi.
Il Sarcofago degli Sposi è
un'urna funeraria in terracotta dipinta (114x190 cm) del tardo VI secolo a.C., conservata nel Museo nazionale etrusco di Villa
Giulia a Roma. La scultura raffigura una coppia di sposi sdraiata
in un triclinio a un banchetto nell'atto di versarsi
del profumo sulle mani. Entrambe le figure hanno i
capelli lunghi e gli occhi allungati e il sorriso arcaico. I due coniugi sono
raffigurati semidistesi su un klìne (letto di bronzo ricoperto di stoffe e
cuscini, sopra il quale gli ospiti si adagiavano durante le feste) in posizione
di perfetta parità, come se partecipassero ad un banchetto; questa consuetudine
fu ripresa dai Romani, che molto amavano le conversazioni conviviali. Gli
etruschi attribuivano, infatti, grande importanza al culto dei morti, anche
perché era un mezzo per l'affermazione del prestigio e della potenza di una
famiglia.
Il
marito appoggia affettuosamente il braccio destro sulla spalla della consorte.
I movimenti delle loro mani si intrecciano in un gioco prezioso: le espressioni
serene dei volti, i gesti calmi, ci parlano di un reciproco amore e,
soprattutto, di un profondo rispetto. L’atteggiamento dell’uomo rileva la
considerazione ed il rispetto che godeva la donna nella società etrusca. Gli
occhi allungati e obliqui dei coniugi non riproducono una caratteristica
etnica, ma rispecchiano lo stile arcaico. L'influenza greco-orientale è
evidente. Sono visibili elementi di derivazione ionica che dimostrano i
continui contatti che l'Etruria aveva con il mondo greco, come ad esempio il
sorriso, l'acconciatura dei capelli, le superfici levigate e la sottigliezza
dei volti. Le dimensioni dei corpi rivelano la maestria raggiunta dagli
etruschi nel modellare e nel cuocere l’argilla. La ricchezza delle decorazioni
di superficie, l’attenzione alla resa delle figure con piani morbidi e
sfuggenti, tutto parla della raffinatezza dell’arte etrusca dell’epoca, che
aveva saputo quindi accogliere le conquiste anatomiche e spaziali greche,
facendole proprie ed esaltandole con una più spiccata attenzione naturalistica.
L’Apollo di Veio, in terracotta policroma,
è uno dei capolavori dell’arte etrusca, della fine del VI secolo a.C. Insieme
ad altre statue, tutte a grandezze superiori o pari al vero, ornava la trave di
colmo del tempio di Veio, dedicato a Minerva, uno dei più importanti d’Etruria.
Alloggiate
su alte basi a zoccolo, variamente dipinte, le statue forse dodici, molte delle
quali giunte a noi solo frammentariamente, si ergevano in funzione di acroteri
a circa dodici metri di altezza. Anche se realizzate isolatamente illustravano,
in sequenza di due o tre, eventi mitici greci, almeno in parte collegati con il
dio Apollo. La statua formava con quella di Eracle (Ercole) un gruppo
raffigurante il mito, piuttosto raro anche in Grecia, della contesa tra il dio
e l’eroe per la cerva dalle corna d’oro, sacra ad Artemide (sorella di Apollo).
Apollo, vestito di una tunica e di un
corto mantello, avanza verso sinistra con il braccio destro proteso e piegato
(il sinistro scendeva verso il basso, forse impugnando con la mano l’arco);
Eracle, con la cerva legata tra le gambe, è proteso verso destra, piegato in
avanti per brandire la clava mostrando il torace in una curva violenta.
Collegata al gruppo doveva essere
anche la statua di Hermes (Mercurio) di cui restano la splendida testa e forse
parte del corpo: il dio, come messaggero di Zeus, interviene per sedare i
contendenti.
Il gruppo è concepito per un’unica
visione laterale, corrispondente al lato del tempio ove correva la strada di
accesso al santuario. La salda volumetria delle figure unita alle sottili dissimmetrie
riscontrabili sia nell’Apollo (cassa toracica, volto) sia nel torso dell’Eracle
indicano che il coroplasta – modellatore di
vasi, statuette e altri oggetti di terracotta – aveva piena conoscenza
delle deformazioni ottiche in scultura che dovevano essere visibili da grande
distanza e con forti angolature. Si spiegano così la creazione di volumi
grandiosi e l’insistenza nell’incidere in profondità e nel rilevare senza
risparmio i dettagli, in modo da ricostruire corretta la necessaria unità
visiva della composizione.
La formazione del maestro che plasmò
le statue è certamente ionica. Di grande talento, è identificabile con il
“Veiente esperto di coroplastica” cui Tarquinio il Superbo commissionò la
quadriga acroteriale del tempio di Giove Capitolino. Si tratta certamente del
massimo rappresentante della celebre bottega di cloroplasti veienti fondata da
Vulca, il maestro chiamato a Roma da Tarquinio Prisco verso il 580 a.C. per
eseguire il simulacro dello stesso Giove Capitolino.
Resti di ceramiche di
fattura greca, cofanetti, pettini, monili d'avorio, braccialetti, testimoniano
i contatti con il mondo greco e fenicio. Il bucchero fu invece un prodotto tipico
dell'artigianato locale, una ceramica di impasto scuro con cui si facevano
oggetti diversi.
La più importante novità in campo architettonico, assimilata
anche dai Romani, fu l'introduzione dell'arco tra il III e il II sec. a.C., il
cui elemento portante era la pietra a
cuneo funzionante come chiave di volta per ottenere l'equilibrio di tutti
gli elementi.
La
Campania fu fortemente influenzata dalla cultura etrusca, a causa del
predominio di quella popolazione, che si spinge fino alla valle del Sele.
Intorno alla fine del VI secolo a.C., nelle zone dell'entroterra meridionale,
ha origine e rimane punto di diffusione il procedimento ellenico con le
coperture in terracotta con sime e antefisse figurate, insieme alla coroplastica
votiva. Cuma ebbe una fortissima influenza in tutto il meridione, raggiungendo
perfino le zone di Roma.
Massimo Capuozzo
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