Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

venerdì 29 aprile 2011

Miti e coscienza del Decadentismo italiano di Massimo Capuozzo

Miti e coscienza del Decadentismo italiano
Giovanni Pascoli
Il fanciullino e il poeta
Chi è il fanciullino se non colui che possiede la facoltà di scoprire la poesia insita nelle cose e di vedere il nuovo e il bello anche nelle realtà apparentemente più quotidiane e scialbe?
[Il fanciullino, I e III]
È dentro di noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano[1] che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi[2] suoi. Quando la nostra età è tuttavia[3] tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano[4] e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono[5], si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo,’ noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica[6] serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiano la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello[7]. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto[8] nell’età giovanile forse così come nella più matura, perché in quella, occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita[9], meno badiamo a quell’angolo d’anima donde esso risuona. E anche egli, l’invisibile fanciullo, si pèrita[10] vicino al giovane più che accanto all’uomo fatto e al vecchio, che più dissimile a sé vede quello che questi. Il giovane in vero di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo; che ne sdegna la conversazione, come chi si vergogni d’un passato ancor troppo recente. Ma l’uomo riposato ama parlare con lui e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave; e l’armonia di quelle voci è assai dolce ad ascoltare, come d’un usignuolo che gorgheggi presso un ruscello che mormora.

III

Ma è veramente in tutti il fanciullo musico? Che in qualcuno non sia, non vorrei credere né ad altri né a lui stesso: tanta a me parrebbe di lui la miseria e la solitudine. [...] In alcuni non pare che egli sia; alcuni non credono che sia in loro; e forse è apparenza e credenza falsa. Forse gli uomini aspettano da lui chi sa quali mirabili dimostrazioni e operazioni; e perché non le vedono, o in altri o in sé, giudicano che egli non ci sia. Ma i segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere[11]; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai[12]; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione[13]. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva[14]. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d’amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l’amore, perché accarezza esso come sorella (oh! il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve), accarezza e consola la bambina che è nella donna[15]. Egli nell’interno dell’uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell’uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare[16] di trombette e di pive[17], e in un cantuccio dell’anima di chi più non crede, vapora d’incenso l’altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora[18]. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, che ora vuoi vedere la cinciallegra che canta, ora vuoi cogliere il fiore che odora, ora vuoi toccare la selce che riluce[19]. E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente[20]. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose[21]. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare[22]. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola[23]. E a ogni modo da un segno, un suono, un colore, a cui[24] riconoscere sempre ciò che vide una volta. [...]

Gabriele D’Annunzio
L’effigie di un superuomo da Le vergini delle rocce[25]
Suggestionato dal fascino della filosofia di Nietzsche, Claudio Cantelmo protagonista del brano e del romanzo, ne rielabora il pensiero in chiave personale. Nasce così un personaggio dalle accese tinte nazionaliste, che, sprezzante della massa, si prepara al suo compito: trovare la donna da cui avere un figlio che sia un “uomo superiore”.

Non si può avere maggior signoria che
quella di sé medesimo.
leonardo da vinci

Domati i necessari! tumulti della prima giovinezza, battute le bramosie troppo veementi e discordi, posto un argine all’irrompere confuso e innumerevole delle sensazioni, nel momentaneo silenzio della mia coscienza io aveva investigato se per avventura la vita potesse divenire un esercizio diverso da quello consueto delle facoltà accomodative nel variar continuo dei casi; ciò è: se la mia volontà potesse per via di elezioni e di esclusioni trarre una sua nuova e decorosa opera dagli elementi che la vita aveva in me medesimo accumulati[26].
Mi assicurai, dopo qualche esame, che la mia coscienza era giunta all’arduo grado in cui è possibile comprendere questo troppo semplice assioma: - Il mondo è la rappresentazione della sensualità e del pensiero dì pochi uomini superiori, i quali lo hanno creato e quindi ampliato e ornato nel corso del tempo e andranno sempre più ampliandolo e ornandolo nel futuro. Il mondo, quale oggi appare, è un dono magnifico largito dai pochi ai molti, dai liberi agli schiavi: da coloro che pensano e sentono a coloro che debbono lavorare[27]. - E riconobbi quindi la più alta delle mie ambizioni nel desiderio di portare un qualche ornamento, di aggiungere un qualche valor nuovo a questo umano mondo che in eterno s’accresce di bellezza e di dolore.
Messomi al conspetto della mia propria anima, io ripensai quel sogno che più volte occorse a Socrate prendendo ciascuna volta una diversa figura ma persuadendolo sempre al medesimo officio[28]: - O Socrate, componi e coltiva musica[29]. -Allora appresi che l’officio dell’uomo nobile sia ben quello di trovare studiosamente nel corso della sua vita una sene di musiche le quali, pur essendo vane, sieno rette da un sol motivo dominante ed abbiano l’impronta d’un solo stile. Onde mi parve che da qui all’Antico - eccellentissimo nell’arte di elevare l’anima umana all’estremo grado del suo vigore - potesse anche oggi discendere un grande ed efficace insegnamento. [...]
Così l’Antico m’insegnò la commemorazione della morte in un modo consentaneo[30] alla mia natura, affinché io trovassi un pregio più raro e un significato più grave[31] nelle cose a me prossime. E m’insegnò a ricercare e discoprire nella mia natura le virtù sincere come i sinceri difetti[32] per disporre le une e gli altri secondo un disegno premeditato, per dare a questi con pazienti cure un’apparenza decorosa, per sollevar quelle verso la perfezione somma. E m’insegnò ad escludere tutto ciò che fosse difforme alla mia idea regolatrice, tutto ciò che potesse alterare le linee della mia imagine, rallentare o interrompere lo sviluppo ritmico del mio pensiero. E m’insegnò a riconoscere con sicuro intuito quelle anime su cui esercitare il beneficio e il predominio o da cui ottenere una qualche straordinaria rivelazione. E anche mi comunicò infine la sua fede nel demònico[33]; il quale non era se non la potenza misteriosamente significativa dello Stile non violabile da alcuno e neppur da lui medesimo nella sua persona mai[34]. Pieno di tale ammaestramento e solitario, io mi posi all’opera con la speranza di riuscire a determinar per un contorno preciso e forte quella effigie di me alla cui attualità avevan concorso tante cause remote, operanti da tempo immemorabile a traverso un’infinita serie di generazioni. La virtù di stirpe, quella che nella patria di Socrate nomavasi eugenèia[35], mi si rivelava più gagliardamente come più fiero diveniva il rigore della mia disciplina; e mi cresceva l’orgoglio insieme con la contentezza, poiché pensavo che troppe altre anime sotto la prova di quel fuoco avrebbero rivelato o prima o poi la loro essenza volgare. [...] Solo, senza consanguinei prossimi, senz’alcun legame comune, indipendente da ogni potestà familiare, padrone assoluto di me e del mio bene, io aveva allora profondissimo in quella solitudine - come in nessun altro tempo e in nessun altro luogo - il sentimento della mia progressiva e volontaria individuazione verso un ideai tipo latino. Io sentiva accrescersi e determinarsi il mio essere nei suoi caratteri proprii, nelle sue particolarità distinte, di giorno in giorno, sotto l’assiduo sforzo del meditare, dell’affermare e dell’escludere. L’aspetto della campagna, così preciso e sobrio nella sua membratura e nel suo colore, m’era di continuo esempio e di continuo stimolo, avendo pel mio intelletto l’efficacia di un insegnamen­to sentenziale[36]. Ciascuno sviluppo di linee, in fatti, s’inscriveva sul cielo col significato sommario di una sentenza incisiva e con l’impronta costante di un unico stile. [...]
Chiedevano intanto i poeti[37], scoraggiati e smarriti, dopo aver esausta la dovizia delle rime[38] nell’evocare imagini d’altri tempi, nel piangere le loro illusioni morte e nel numerare i colori delle foglie caduche; chiedevano, alcuni con ironia, altri pur senza: «Qual può essere oggi il nostro officio? Dobbiamo noi esaltare in senari doppi il suffragio universale? Dobbiamo noi affrettar con l’ansia dei decasillabi la caduta dei Re, l’avvento delle Repubbliche, l’accesso delle plebi al potere[39]? Non è in Roma, come già fu in Atene, un qualche demagogo Cleofonte[40] fabbricante di lire? Noi potremmo, per modesta merce­de[41], con i suoi stessi strumenti accordati da lui, persuadere gli increduli che nel gregge è la forza, il diritto, il pensiero, la saggezza, la luce...».
Ma nessuno tra loro, più generoso e più ardente, si levava a rispondere: «Difendete la Bellezza[42]! È questo il vostro unico officio. Difendete il sogno che è in voi! Poiché oggi non più i mortali tributano onore e riverenza ai cantori alunni della Musa[43] che li predilige, come diceva Odisseo, difendetevi con tutte le armi, e pur con le beffe se queste valgano meglio delle invettive[44]. Attendete ad inacerbire con i più acri veleni le punte del vostro scherno. Fate che i vostri sarcasmi abbiano tal virtù corrosiva che giungano sino alla midolla e la distruggano. Bollate voi sino all’osso le stupide fronti di coloro che vorrebbero mettere su ciascuna anima un marchio esatto come su un utensile sociale e fare le teste umane tutte simili come le teste dei chiodi sotto la percussione dei chiodaiuoli[45]. Le vostre risa frenetiche, per cui i fautori dei valori dell’uguaglianza e salgano fino al cielo, quando udite gli stallieri della Gran Bestia[46] vociferare nell’assemblea. Proclamate e dimostrate per la gloria dell’Intelligenza che le loro dicerie non sono men basse di quei suoni sconci con cui il villano manda fuori per la bocca il vento dal suo stomaco rimpinzato di legumi. Proclamate e dimostrate che le loro mani, a cui il vostro padre Dante darebbe l’epiteto medesimo ch’egli diede alle unghie di Taide[47], sono atte a raccattar lo stabbio[48] ma non degne di levarsi per sancire una legge nell’assemblea. Difendete il Pensiero ch’essi minacciano, la Bellezza ch’essi oltraggiano! Verrà un giorno in cui essi tenteranno di ardere i libri, di spezzare le statue, di lacerare le tele. Difendete l’antica liberale opera[49] dei vostri maestri e quella futura dei vostri discepoli, contro la rabbia degli schiavi ubriachi. Non disperate, essendo pochi. Voi possedete la suprema scienza e la suprema forza del mondo: il Verbo[50]. Un ordine di parole può vincere d’efficacia micidiale una formula chimica. Opponete risolutamente la di­struzione alla distruzione[51]!».

La disarmonia della realtà
Da L’umorismo[52] di Luigi Pirandello
L’immagine di una vecchia signora che, vestita e truccata come una giovinetta, induce il lettore al riso, fa da sfondo al discorso pirandelliano sull’umorismo.

Ebbene, noi vedremo che nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira[53]; ma gli si pcjne innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene[54]; ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione[55], un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario[56].
Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca[57], e poi tutta goffamente imbellettata e parata[58] d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta[59] e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario[60]. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie[61], riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico[62].
[...] L’arte in genere astrae e concentra, coglie cioè e rappresenta così degli individui come delle cose, l’idealità essenziale e caratteristica. Ora pare all’umorista che tutto ciò semplifichi troppo la natura e tenda a rendere troppo ragionevole o almeno troppo coerente la vita[63]. Gli pare che delle cause, delle cause vere che muovono spesso questa povera anima umana agli atti più inconsulti assolutamente im­prevedibili, l’arte in genere non tenga quel conto che secondo lui dovrebbe. Per l’umorista le cause, nella vita, non sono mai così logiche, così ordinate, come nelle nostre comuni opere d’arte, in cui tutto è, in fondo, combinato, congegnato, ordinato ai fini che lo scrittore s’è proposto. L’ordine? la coerenza? Ma se noi abbiamo dentro quattro, cinque anime in lotta fra loro: l’anima istintiva, l’anima morale, l’anima affettiva, l’anima sociale[64]? E secondo che domina questa o quella, s’atteggia la nostra coscienza; e noi riteniamo valida e sincera quella interpretazione fittizia di noi medesimi, del nostro essere interiore che ignoriamo, perché non si manifesta mai tutt’intero, ma ora in un modo ora m un altro, come volgano i casi della vita[65].
Sì, un poeta epico o drammatico può rappresentare un suo eroe, in cui si mostrino m lotta elementi opposti e repugnanti; ma egli di questi elementi comporrà un carattere, e vorrà coglierlo coerente in ogni suo atto. Ebbene, l’umorista fa proprio l’inverso: egli scompone il carattere nei suoi elementi; e mentre quegli cura di coglierlo coerente in ogni atto, questi si diverte a rappresentarlo nelle sue incongruenze[66]. L’umorista non riconosce eroi; o meglio, lascia che li rappresentino gli altri, gli eroi; egli, per conto suo, sa che cosa è la leggenda e come si forma, che cosa è la storia e come si forma: composizioni tutte, più o meno ideali, e tanto più ideali forse, quanto più mostran pretesa di realtà: composizioni ch’egli si diverte a scomporre; né si può dir che sia un divertimento piacevole[67].

La non scelta dell’inetto
da Senilità[68] di Italo Svevo
Scritto fra il 1892 e il 1897, ‘Senilità’ viene pubblicato a, puntate sul quotidiano triestino «L’Indipendente» e nel 1898 esce presso l’editore Vram. Svevo da vita a un romanzo delicato ed elegante, pervaso da un’ambiguità sottile, non scevro da influssi autobiografici, il cui protagonista è Emilia Brentani, un impiegato di trentacinque anni.
Angiolina, una giovane prorompente e senza scrupoli, ed Emilio, un impiegatucolo con velleità letterarie avviato a una “senilità” psicologica, ossessionato dai “pericoli” della vita e incapace di abbandonarsi al “godimento”, sono i protagonisti di un rapporto complesso che si snoda lungo tutto il romanzo, anche quando la donna scomparirà dalla scena e dalla vita di Emilio.
Senilità segna l’allontanamento di Svevo dal Naturalismo e un ulte­riore passo verso lo scandaglio della vita psicologica e coscienziale dei personaggi. Cessa, infatti, con questo secondo romanzo, la tragedia dei rapporti sodali che in Una vita hanno imbrigliato e condizionato Alfonso; il dramma ora è invece tutto inferiore. Il protagonista, completamente lontano dai personaggi dei romanzi di Verga e di Zola, vive tutto nelle sue elucubrazioni mentali e nelle sue costruzioni ideali, vittima peraltro della sua inettitudine e della sua meschinità. L’inetto di Senilità si connota, ancor di più rispetto al romanzo precedente, come “contemplatore”, creando -per dirla con Eugenio Montale - un «quadrilateroperfetto» fra “contemplatori” (Emilio e Amalia) e “lottatori” (Balli e Angiolina). Quest’accentuazione della caduta nella “contemplazio­ne” fa dissolvere quell’aura romantica che Svevo ha creato in Una vita intorno al suicidio di Alfonso. Inettitudine, dunque, in questa nuova opera significa essere incapaci di dare il giusto spazio alle passioni e illudersi di poterle frenare. Emilio, infatti, le vorrebbe controllare e razionalizzare sia nella propria sfera personale sia nei riguardi di Angiolina: nei suoi confronti mette in atto un’inutile opera di “educazione” per frenare l’esplosione delle sue pulsioni erotiche. L’assurdo e l’imspiegabile fanno, in tal modo, la loro irruzione nella narrativa sveviana. Anche la malattia di Amalia si configura come l’allusione a un misterioso “male di vivere”.

Subito[69], con le prime parole che le rivolse[70], volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria. Parlò cioè a un dipresso[71] così: - T’amo molto e per il tuo bene[72] desidero ci si metta d’accordo di andare molto cauti. - La parola era tanto prudente ch’era difficile di crederla detta per amore altrui, e un po’ più franca avrebbe dovuto suonare così: - Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia[73].
La sua famiglia? Una sorella non ingombrante né fisicamente né moralmente, piccola e pallida, di qualche anno più giovane di lui, ma più vecchia per carattere o forse per destino[74]. Dei due, era lui l’egoista, il giovane; ella viveva per lui come una madre dimentica di se stessa, ma ciò non impediva a lui di parlarne come di un altro destino importante legato al suo e che pesava sul suo, e così, sentendosi le spalle gravate di tanta responsabilità, egli traversava la vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il godimento, la felicità[75].
A trentacinque anni si trovava nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l’amarezza di non averne goduto, e nel cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza.
La carriera di Emilio Brentani era più complicata perché intanto si componeva di due occupazioni e due scopi ben distinti. Da un impieguccio di poca importanza presso una società di assicurazioni, egli traeva giusto il denaro di cui la famigliuola abbisognava. L’altra carriera era letteraria e, all’infuori di una riputazioncella, - soddisfazione di vanità più che d’ambizione - non gli rendeva nulla, ma lo affaticava ancora meno. Da molti anni, dopo di aver pubblicato un romanzo lodatissimo dalla stampa cittadina, egli non aveva fatto nulla, per inerzia non per sfiducia[76]. Il romanzo, stampato su carta cattiva[77], era ingiallito nei magazzini del libraio, ma mentre alla sua pubblicazione Emilio era stato detto[78] soltanto una grande speranza per l’avvenire, ora veniva considerato come una specie di rispettabilità letteraria che contava nel piccolo bilancio artistico della città. La prima sentenza non era stata riformata, s’era evoluta. Per la chiarissima coscienza ch’egli aveva della nullità della propria opera, egli non si gloriava del passato, però, come nella vita così anche nell’arte, egli credeva di trovarsi ancora sempre nel periodo di prepa­razione, riguardandosi[79] nel suo più segreto interno come una potente macchina geniale in costruzione, non ancora in attività. Viveva sempre in un’aspettativa, non paziente, di qualche cosa che doveva venirgli dal cervello, l’arte, di qualche cosa che doveva venirgli[80] di fuori, la fortuna, il successo, come se l’età delle belle energie per lui non fosse tramontata.
Angiolina, una bionda dagli occhi azzurri grandi, alta e forte, ma snella e flessuosa, il volto illuminato dalla vita, un color giallo di ambra soffuso di rosa da una bella salute, camminava accanto a lui, la testa china da un lato come piegata dal peso del tanto oro che la fasciava, guardando il suolo ch’ella ad ogni passo toccava con l’elegante ombrellino come se avesse voluto farne scaturire un commento alle parole che udiva[81]. Quando credette di aver compreso disse: - Strano - timidamente guardandolo sottecchi[82].
-  Nessuno mi ha mai parlato così. - Non aveva compreso e si sentiva lusingata al vederlo assumere un ufficio[83] che a lui non spettava, di allontanare da lei il pericolo. L’affetto ch’egli le offriva ne ebbe l’aspetto di fraternamente dolce.
Fatte quelle premesse, l’altro si sentì tranquillo e ripigliò un tono più adatto alla circostanza. Fece piovere sulla bionda testa le dichiarazioni liriche[84] che nei lunghi anni il suo desiderio aveva maturate e affinate, ma facendole, egli stesso le sentiva rinnovellare[85] e ringiovanire come se fossero nate in quell’istante, al calore dell’occhio azzurro di Angiolina. Ebbe il sentimento che da tanti anni non aveva provato di comporre, di trarre dal proprio intimo idee e parole: un sollievo che dava a quel momento della sua vita non lieta, un aspetto strano, indimenticabile, di pausa, di pace. La donna vi entrava! Raggiante di gioventù e bellezza[86] ella doveva illuminarla tutta facendogli dimenticare il triste passato di desiderio e di solitudine e promettendogli la gioia per l’avvenire ch’ella, certo, non avrebbe compromesso. Egli s’era avvicinato a lei con l’idea di trovare un’avventura facile e breve, di quelle che egli aveva sentito descrivere tanto spesso e che a lui non erano toccate mai o mai degne di essere ricordate. Questa s’era annunziata proprio facile e breve. L’ombrellino era caduto m tempo per fornirgli un pretesto di avvicinarsi ed anzi - sembrava malizia! - impigliatosi nella vita trinata[87] della fanciulla, non se n’era voluto staccare che dopo spinte visibilissime. Ma poi, dinanzi a quel profilo sorprendentemente puro, a quella bella salute[88] - ai rétori[89] corruzione e salute sembrano inconciliabili - aveva allentato il suo slancio, timoroso di sbagliare e infine s’incantò ad ammirare una faccia misteriosa dalle linee precise e dolci, già soddisfatto, già felice[90].
Ella gli aveva raccontato poco di sé e per quella volta, tutto compreso del[91] proprio sentimento, egli non udì neppure quel poco[92]. Doveva essere povera, molto povera, ma per il momento — lo aveva dichiarato con una certa quale superbia – non aveva bisogno di lavorare per vivere. Ciò rendeva l’avventura anche più gradevole, perché la vicinanza della fame turba là dove ci si vuoi divertire. Le indagini di Emilio non furono dunque molto profonde ma egli credette che le sue conclusioni logiche, anche poggiate su tali basi, dovessero bastare a rassicurarlo. Se la fanciulla, come si sarebbe dovuto credere dal suo occhio limpido, era onesta, certo non sarebbe stato lui che si sarebbe esposto al pericolo di depravarla; se invece il profilo e l’occhio mentivano, tanto meglio[93]. C’era da divertirsi in ambedue i casi, da pericolare[94] in nessuno dei due. [...]


[1] Cebes Tebano: Cebete di Tebe è un personaggio del dialogo platonico Fedone che, parlando con Socrate, ipotizza che in ognuno di noi vi sia un fanciullino che ha paura della mone.
[2] tripudi: gioie.
[3] tuttavia: ancora.
[4] ruzzano: fanno chiasso.
[5] temono ... piangono:  l’asindeto   esprime   a   livello morfologico il susseguirsi delle sensazioni che investono allo stesso tempo il fanciullo reale, colui che diverrà poi adulto, e quello interiore, che è lo stupore poetico che rimane intatto in ognuno di noi.
[6] antica: perché è presente in ognuno sin dal primo uomo sulla Terra.
[7] tinnulo ... campanello: nell’espressione onomatopeica (parola o gruppo di parole il cui suono richiama il loro signifi­cato), attraverso l’iterazione delle doppie n-l, si riproduce il richiamo squillante (tinnulo) del fanciullino.
[8] distinto: in maniera chiara.
[9] perorare ... vita: occuparci di cose che consideriamo di vitale importanza.
[10] si pèrita: sta in soggezione. Il fanciullino è più imbarazza­to nei riguardi del giovane che dell’uomo maturo o del vecchio, perché, come viene spiegato subito dopo, il giovane sembra vergognarsi del suo passato troppo recente, e non rie­sce quindi ad apprezzare questa fonte interiore di saggezza e di poesia; invece, l’uomo, l’uomo riposato, è giunto in un’età in cui ritrova la sua pace ulteriore, la sua serenità e, perciò, riesce a provare un vero piacere e a cogliere le emozioni che solo il fanciullino è capace di suscitargli.
[11] vede ... vedere: la sensibilità del fanciullino supera la real­tà visiva, cogliendo le sensazioni che sottostanno a essa.
[12] ricordando ... mai: la visione del fanciullino è quella di una realtà inedita, prenatale, che è antecedente a quella che egli sta vivendo. È evidente in queste affermazioni come per Pascoli l’infanzia sia il presupposto che consente di recuperare una condizione originaria, autentica, ormai perduta.
[13] Egli è quello ... ragione: egli percepisce la presenza di una realtà più profonda, che va oltre quella che tutti vedono.
[14] Egli è quello ... ci salva: è proprio quando precipitiamo nel più profondo dolore che il fanciullino emerge e ci salva dallo smarrimento nel quale ci porterebbe il nostro lato più cupo proprio perché adulto.
[15] Egli fa ... donna: il fanciullino rende umano l’amore per­ché lo nutre di delicata sensibilità e puro affetto, liberandolo della componente primitiva, sessuale. È opportuno sottolinea­re il rifiuto pascoliano per il sesso, visto come espressione impura di violenza, di quella cattiveria e di quella prevarica­zione che concerne esclusivamente il mondo degli adulti, definito appunto un mondo di belve che ruggiscono (bramire).
[16] fanfare: musiche composte per gli eroi.
[17] pive: cornamuse.
[18] e in un cantuccio ... da allora: il fanciullino continua ad alimentare, anche in chi non crede più, quella fede religiosa che aveva nutrito le sue speranze da bambino.
[19] Egli d fa perdere ... riluce: è rilevante la straordinaria modernità di quest’affermazione se si riflette sull’accelerazio­ne temporale che caratterizza oggi il mondo degli adulti e la conseguente incapacità di soffermarsi su quelle piccole cose che riescono a toccare l’io più profondo, come quando si era bambini.
[20] egli è l’Adamo ... sente: dal rimando al passo della Genesi (II, 19-20), in cui si dice che Adamo da il nome a tutte le cose, appare evidente come la voce poetica del fanciullino sia per Pascoli l’unica possibilità di ricreare la realtà e ridarle il suo autentico significato.
[21] Egli scopre ... ingegnose: si pensi alle misteriose “corri­spondenze” che, secondo Baudelaire, si creano tra le cose per dar vita a un significato “altro” rispetto a quello logico e reale; la poesia coglie, in tal modo, i rapporti analogici tra la realtà, gli oggetti e le sensazioni.
[22] Impicciolisce … ammirare: è racchiusa in questa espressione la poetica delle liriche pascoliane, nelle quali egli porta in primo piano le piccole cose, in quanto in esse si ritrova l’originaria freschezza e poeticità, lasciando poi sfumare sullo sfondo i paesaggi.
[23] Né il suo linguaggio … parola: il linguaggio poetico, essendo simbolico, arricchisce la realtà con molteplici significati e, suscitando sensazioni e immagini, lascia intendere più di quanto non dica.
[24] a cui: in base al quale.
[25] Le vergini delle rocce - Ideato dal 1893 e composto tra il 1894 e il 1895, il romanzo esce nel 1895, prima sulla rivista diretta da Adolfo De Bosis «Il convito» e poi in volume, pubblicato dalla casa editrice Treves.
Ad esso D’Annunzio affida il nuovo messaggio ideologico cui era approdato agli inizi degli anni Novanta, sotto le suggestioni della conoscenza del pensiero di Nietzsche. Il protagonista della vicenda, Claudio Cantelmo, è infatti un essere eccezionale, un superuomo; pieno di disprezzo nei confronti della massa e della mediocrità borghese, convinto di poter generare un figlio destinato a risollevare l’Italia dalla sua desolante condizione e salvarla. Apparentemente dunque Claudio non ha più le debolezze, i lati oscuri e incerti caratteristici di Andrea Sperelli e degli altri personaggi dannunziani; in concreto, tuttavia, anch’egli finirà con lo sperimentare l’immobilità e il fallimento, a conferma del fatto che nell’immaginario dello scrittore pure il più energico vitalismo è intrecciato ad un senso di sconfitta, di perdita, di morte.
Claudio, giovane di origini nobili, nutre un profondo disgusto per la società italiana contemporanea, che gli appare sopraffatta dagli squallidi interessi borghesi per l’apparenza e il denaro, e sogna la conquista di Roma e la costituzione di un nuovo Stato. Si persuade che solo un figlio da lui generato potrà compiere questa straordinaria impresa. E allora, abbandonata Roma, ritorna nella sua terra natale, l’Abruzzo, dove si mette alla ricerca di una donna che sia degna di diventare sua moglie e madre di suo figlio. Le sue mire ricadono su tre fanciulle, appartenenti alla famiglia aristocratica dei Capece Montaga; Violante, Anatolia e Massimilla. Ma nessuna delle tre diventerà sua sposa; Claudio, infatti, non riesce a decidere quale sia la prescelta, mentre le tre vergini e la loro famiglia vengono avvolte da un destino di disfacimento e di morte.
[26] Domati ... accumulati: a parlare è il protagonista Claudio Cantelmo, che esprime le sue considerazioni sul superuomo, il nuovo eroe dannunziano che riesce con la volontà a domi­nare le energie vitali della prima giovinezza e a convogliarle in un’attività nuova e decorosa.
[27] Il mondo ... lavorare: è espressa qui la nuova fede di Cantelmo-D’Annunzio nel superuomo, l’eroe-intellettuale che supera la crisi dell’uomo decadente e si eleva sulla mediocrità del mondo borghese per affermare la sua sensibilità e la sua volontà.
[28] Officio: compito, dovere (latinismo).
[29] Socrate ... musica: così come Socrate considerò la filo­sofia la musica del mondo, D’Annunzio riscontra nella poesia la virtù sublime di sentire e cantare la musica.
[30] consentaneo: conforme.
[31] grave: profondo.
[32] le virtù ... difetti: il chiasmo (figura retorica che consiste nella disposizione in modo incrociato e speculare dei membri corrispondenti di una o più frasi) sottolinea l’importanza per il superuomo di unificare le sue virtù e i suoi difetti al fine di canalizzarli in un’unica fonte di energia positiva per realizzare le azioni eroiche.
[33] demònico: è il dàimon che Socrate sente dentro di sé, ossia la manifestazione della presenza del divino nell’uomo.
[34] il quale ... mai: D’Annunzio avverte il dàimon come il genio artistico, presenza dionisiaca che gli consente di realizzare una poesia potente, elevata.
[35] nomavasi eugenèia: si nominava (enclisi) eugenèia; il ter­mine eughèneia (è questa la corretta traslitterazione dal greco) significa proprio «nobiltà di stirpe» (letteralmente «di buona stirpe»). Il concetto rientra in quello di superuomo che genera una poesia nobile.
[36] sentenziale: composto di verità e precetti.
[37] Chiedevano intanto i poeti: D’Annunzio si interroga qui sul ruolo che debbano avere i poeti in una società nella quale hanno perso il loro prestigio.
[38] dopo... rime: dopo aver esaurito l’abbondanza delle rime. Viene qui tratteggiata la figura dell’intellettuale romantico e decadente, che reclama la bellezza antica.
[39] Dobbiamo... potere?: le domande, chiaramente ironiche, descrivono il poeta che esalta la vita democratica con il metro adoperato per le odi civili (senarii doppii ... decasillabi.
[40] Cleofonte: demagogo ateniese del V secolo a.C.; fu il fautore della guerra contro Sparta, ma, mancatogli il consenso popolare, venne accusato di tradimento dal partito oli­garchico.
[41] mercede: ricompensa.
[42] Difendete la Bellezza!: gli imperativi che da ora innanzi si susseguono impetuosi mostrano l’appello di D’Annunzio agli intellettuali a difendere l’aristocrazia della bellezza dalla volgarità del mondo.
[43] cantori ... Musa: i poeti.
[44] difendetevi... invettive: la tutela della bellezza deve esse­re attuata anche attraverso la satira dei valori borghesi.
[45] coloro ... chiodaiuoli: la similitudine enfatizza il pensiero di D’Annunzio della democrazia vogliono uniformare gli uomini così come il chiodaio uniforma le teste dei chiodi.
[46] stallieri della. Gran Bestia: i rappresentanti del popolo, riuniti in Parlamento, vengono qui assimilati agli stallieri (ser­vi delle stalle). L’espressione Gran Bestia deriva dall’Apocalisse e fu ripresa da Nietzsche per indicare la folla agitata nelle sue adunanze.
[47] a cui ... Taide: Taide era un’antica prostituta del mondo greco, che Dante, nel XVIII canto dell’Inferno, presenta im­mersa nello sterco a grattarsi: «...quella sozza e scapigliata fante / che là si graffia con l’unghie merdose» (w. 130-131).
[48] stabbio: letame.
[49] l’antica liberale opera: la poesia, prodotto di libertà.
[50] il Verbo: la Parola è vista da D’Annunzio come uno strumento di potere, per cui la poesia si coniuga con l’azione in un programma di predominio sulla massa da parte di pochi e nobili intellettuali capaci di trasformare la società con il pote­re della Parola, della cultura.
[51] Opponete ... distruzione!: ogni mezzo è lecito per il pre­valere della Bellezza, anche la distruzione della democrazia come risposta al tentativo di distruzione della Bellezza.
[52] L’umorismo - Pirandello spiega in questo saggio come la disgregazione dell’Io e l’indecifrabilità della realtà mettano in crisi i criterì portanti dell’arte tradizionale. Il quadro compatto e ordinato della rappresentazione naturalista si frantuma sotto l’urto della coscienza, che impone alle forme la sua soggettività disintegrata e caotica: per l’umorista le cause, nella vita, non sono mai così ordinate, come nelle nostre comuni opere d’arte, in cui tutto è in fondo combinato, congegna­to, ordinato ai fini che lo scrittore s’è proposto. L’ordine? la coerenza? Ma se noi abbiamo dentro di noi quattro, cinque anime in lotta fra loro.
Anche nella creazione artistica per Pirandello, in polemica con Croce, assume un ruolo deter­minante la ragione, che attraverso il sentimento del contrario rovescia il senso abituale delle cose, sconvolgendo proporzioni, armonie, simmetrìe naturali o artificiali. L’arte umorìstica ri­nuncia al compito tradizionale di idealizzare la realtà o di rappresentarla nella sua apparenza immediata e tende invece a far emergere le contraddizioni e i contrasti della vita. Con un’azio­ne eversiva essa denuncia le piatte convenzionalità e le forme standardizzate dell’esistenza e s’accanisce a smascherare le rassicuranti illusioni dietro cui l’uomo moderno s’affanna a nascon­dere le proprie lacerazioni inferiori. E lo fa con un accanimento, con una tensione emotiva che assume a tratti le forme della violenza e dell’inquisizione persecutoria, che si ripercuote come una vibrazione sismica su tutti gli elementi dell’universo narrativo, arrivando a frantumarne le strutture tradizionali, che si conservano nel racconto solo come scheletri vuoti. Cosi lo spazio diventa la proiezione esterna detta vita psichica, animandosi di segni e valori simbolici, spesso minacciosamente allusivi a ima condizione carceraria,; il tempo, liberato dalle leggi meccaniche, si assolutezza e spazializza nell’eterno presente della coscienza; i corpi si deformano e si alterano manifestando all’esterno la condizione di alienazione e di angoscia esistenziale degli uomini; i fatti perdono la loro statica obiettività, immersi nel fluire caotico della vita e nella selva inestri­cabile delle interpretazioni individuali; le azioni, perduta ogni deterministica necessità, divenute orfane della legge della causalità, finiscono in balia dell’imprevedibile caprìccio del caso e ten­dono a mostrare il loro carattere velleitario e inconcludente.
[53] nella concezione ... si rimira: nell’opera umoristica la riflessione non si limita a un ruolo passivo nella creazione.
[54] ma gli si ... spassionandosene: la ragione sottopone il sentimento ad analisi lucida e distaccata.
[55] ne scompone... scomposizione: l’azione della ragione rompe l’apparente unità dell’immagine sorta dal sentimento.
[56] sentimento del contrario: con quest’espressione Pirandello indica la nuova visione della realtà, prodotta dalla frantumazione del sentimento a opera della ragione.
[57] manteca: unguento
[58] imbellettata e parata: truccata e vestita.
[59] a prima giunta: a prima vista.
[60] avvenimento del contrario: per Pirandello il comico nasce automaticamente dalla percezione di un’immagine difforme dalle aspettative comuni.
[61] la canizie: il grigiore dei capelli.
[62] Ed è... umoristico: la differenza consiste nella compresenza, nell’umorismo, di pietà e riso.
[63] L’arte... vita: l’arte tradizionale rappresentando l’universale e il caratteristico tradisce la natura molteplice e variabile della vita.
[64] Ma se noi... sociale?: le molteplici personalità presenti nella coscienza di ogni individuo rendono impossibile la rap­presentazione unitaria di un personaggio.
[65] E... vita: gli uomini sono portati a riconoscersi per interi in quella parte della loro personalità che si afferma temporanea­mente sulle altre in base alle circostanze.
[66] l’umorista... incongruenze: l’arte umoristica si pone il compito di andare oltre le apparenze e cogliere il carattere contraddittorio delle cose.
[67] composizioni ch’egli... piacevole: l’arte umoristica rivela le incertezze e il disorientamento dell’uomo.
[68] Senilità – Emilio Brentani, alimentando i suoi sogni di gloria letteraria, trascorre la sua vita piatta, e monotona insieme alla sorella Amalia, una zitella invecchiata anzitempo, che gli fa quasi da madre. Il momento dell’evasione da questo mondo grigio sembra venire da una donna, Angiolina, che gli offre l’idea allettante di un’avventura facile e breve. Ma verso questa donna Emilio ha un atteggiamento ambiguo. Nelle sue fantasticherie, per una sdolcinata sentimentalità di letterato, egli la indica fra sé e sé con il nome di Ange, vezzeggiativo di Angela. E, dopo il primo appuntamento in cui ella gli rivela la sua precedente storia d’amore, egli decide di educarla: vivendo con lei in una Trieste policroma tra mare e monti, egli è disposto a sacrificare tutto per questo suo travolgente amore. Un aspetto del tutto diverso di questa donna emerge dall’altro nome che Emilio le dà: la chiama, infatti, Giolona per indicare la sua sensualità, quando ne parla con il suo amico, lo scultore Stefano Balli, un fortunato dongiovanni. Una sera una terribile rivelazione sconvolge Emilio: entrato nella stanza di Angiolina, vede esposte tutte le foto degli uomini con cui ella ha avuto precedentemente delle relazioni. Viene così travolto da sensazioni diverse e contrastanti: la gelosia verso la donna, la forza comunque persistente della passione, la consapevolezza di aver ingannato gli altri sull’importanza della sua relazione con lei. Un altro elemento si aggiunge a complicare la situazione psicologica di Emilio: egli scopre che la donna sta per sposare Volpini, un sarto, che l’avrebbe fatta sua garantendole un contratto notarile. Ora Angiolina gli appare una donna che si vende agli altri; l’uomo si ferma dunque a osservarla: ogni suo gesto è un civettare costante e fastidioso, manifestazione di un’insaziabile volontà e voluttà di piacere. Addirittura Emilio avverte quasi come una colpa la sua soggezione alla donna, ancora da lui fortemente amata. Invoca, perciò, l’aiuto di Stefano Balli, il cui inserimento tra Emilio da una pane e Angiolina e Amalia dall’altra sortisce degli esiti imprevisti e disastrasi. Entrambe le donne, infatti, si innamorano di Stefano: Angiolina, che gli fa da modella, viene presa da improvvisa passione per lui, mentre Amalia, segretamente ma vanamente innamorata di lui, ricorre come droga all’etere profumato per dimenticare la delu­sione amorosa, contraendo una grave polmonite.
Emilio, dopo aver rotto la relazione con la donna poiché si accorge dei suoi tradimenti, assiste alla morte della sorella. Il romanzo si conclude con la solitudine del protagonista, ossessionato da un assurdo sogno alimentato dalla perdita delle due donne: la notizia che la sua Ange è fuggita da Trieste con uno dei suoi tanti amanti gli dà l’impressione che sia fuggita da lui la vita stessa. Egli guarda alla sua esistenza passata come un vecchio fa con la sua giovinezza; nel suo ricordo deformato e allucinato da una senilità fisica, e mentale vede entrambe le donne mesco­late fra loro e vagheggia un’unica ideale, ma irreale, creatura femminile: bella e giovane come Angiolina e sensibile come Amalia. In realtà la conciliazione fra le due figure è solo fittizia, frutto della sua mente di letterato ozioso. La sorella, infatti, è come se fosse morta per la seconda volta; Angiolina, invece, gli appare mentre pensa e piange: pensa come se avesse capito il mistero dell’universo e piange come se il mondo si fosse chiuso ai suoi desideri.
[69] Subito: l’incipit è indice della modernità della tecnica narrativa sveviana, che fa iniziare il romanzo in medias res, senza preamboli.
[70] che le rivolse: il protagonista Emilio Brentani parla ad Angiolma Zarn, donna con la quale intreccia una relazione sentimentale.
[71] a un dipresso: pressappoco.
[72] per il tuo bene: espressione che fa trasparire il comporta­mento contorto, non spontaneo del protagonista, che si crea un alibi per la sua inettitudine.
[73] La parola .,. famiglia: il narratore mette a nudo l’autoinganno di Emilio.
[74] più vecchia ...  destino: emerge qui il tema di fondo del romanzo: la senilità, che caratterizza i due fratelli, come disposizione dello spirito più che vera e propria vecchiaia fisica.
[75] Dei due ...la felicità: il rapporto con la sorella si presenta ambiguo sin dall’inizio: da un lato, infatti, ella è rappresentata come una figura materna che lo protegge (più vecchia...madre dimentica di se stessa); dall’altro lato, egli ne sente la respon­sabilità paterna (piccola e pallida.. .destino impanante legato al suo e che pesava sul suo), avvertita, però, nel contempo come alibi e ostacolo a vivere pienamente la propria vita.
[76] Da un impieguccio ... sfiducia: il grigiore della vita di Emilio è espresso chiaramente dalla presenza dei tre diminutivi (impieguccio, famigliuola, riputazioncella), che connotano la condizione del personaggio. Il contrasto che essi creano con il successivo superlativo lodatissimo pone, inoltre, in rilievo l’inerzia di Emilio.
[77] carta cattiva: carta non pregiata.
[78] detto: definito.
[79] riguardandosi: preservandosi.
[80] di qualche cosa che doveva venirgli: l’iterazione della lo­cuzione esprime il senso di attesa tipico dell’inetto, incapace di agire.
[81] Angiolina ...  udiva: da notare come la descrizione di Angiolina sia in forte contrasto con quella precedente della sorella Amalia sia per l’imponenza fisica (nonché caratteriale) della prima rispetto alla gracilità della seconda sia per la carica vitale che emerge dagli svariati accenti cromatici (bionda dagli occhi azzurri...un color giallo di ambra soffuso di rosa...tanto oro che la fasciava), espressioni di bella salute e di sensualità. Sono questi colori topici che connotano l’aspetto della donna seducente sin dalle origini della letteratura.
[82] sottecchi: di nascosto.
[83] ufficio: ruolo
[84] liriche: poetiche.
[85] rinnovellare: rinnovarsi.
[86] Raggiante di gioventù e bellezza: Angiolina rappresenta la donna ispiratrice, capace di risvegliare nel letterato Emile entusiasmo e vitalità; ma ella ha anche quel che a Emilio manca,la gioventù e la bellezza, qualità che scaturiscono soprattutto da una forte energia vitale.
[87] trinata: ornata di merletti.
[88] bella salute: ritorna l’epiteto, già incontrato prima, con cui il narratore connota Angiolina, attraverso il punto di vista ossessivo di Emilio.
[89] rètori: cultori delle parole, letterati (Emilio si ritiene tale).
[90] e infine ... felice: Emilio che, mortificato nei suoi desideri e spinte vitali, traversava Li vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il godimento, la felicità, si sente felice e appagato per la sola contemplazione di Angiolina.
[91] compreso del: preso dal.
[92] egli non ... poco: ancora una volta, in Emilio come in Alfonso (protagonista di Una vita), emerge questa assenza di ascolto, come elemento distintivo dell’inetto sveviano.
[93] Se la fanciulla ... meglio: Emilio si accontenta sia se Angiolina è onesta, in quanto comunque egli non la infastidìrebbe, sia se è già “depravata”, m quanto allora intesserebbe con lei, come egli desidera, una stona facile, non troppo sena
[94] pericolare: correre dei pericoli. Ancora una volta, quindi, evitando di attuare scelte, Emilio non si espone, così da non correre rischi e trovando validi alibi alla propria impotenza a vivere.

Nessun commento:

Posta un commento