Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

venerdì 29 aprile 2011

L’Italia dei telefoni bianchi: ritratti di borghesia in nero di Massimo Capuozzo

L’Italia dei telefoni bianchi: ritratti di borghesia in nero
Del periodo fascista, molti scrittori si sono impegnati nel descriverne la borghesia, in tutto il suo declino e in tutta la sua putredine. Tra questi Alberto Moravia e Carlo Emilio Gadda, che hanno affrontato le problematiche intrinseche alla borghesia del tempo, indagando più che mettendo in luce le contraddizioni poste dal conflitto con la classe operaia e contadina. Freud e l’Esistenzialismo sono stati gli strumenti d’indagine privilegiati e la dimensione della contrapposizione politica di scontro fra classi sociali è rimasta sostanzialmente marginale nella letteratura: non c’è da meravigliarsi quindi se Gli Indifferenti ed Il conformista di Moravia, come Quer pasticciaccio brutto di via Merulana di Gadda, manchino di una volontà di denuncia politica, scoperta e sostenuta, se non ex post. Di fatto però ‘Gli indifferenti’, l’unica delle tre opere pubblicate durante il regime fascista, è considerato uno dei primi romanzi di denuncia politica del nuovo realismo, proprio perché, al di là della volontà dell’autore, la stessa descrizione della vita borghese suonò come una forte critica nei confronti di una classe ormai “vuota e inetta” o “senza qualità”. È il preludio alla stagione ‘dei telefoni bianchi’, un periodo storico pervaso da una grande euforia. L’Italia si avvia a diventare una potenza imperiale, in parte lo è diventata. Le commesse governative, gli incarichi dati dal Governo a particolari settori dell’imprenditoria, hanno moltiplicato gli introiti dell’industria meccanica, facendo sì che ci fosse un aumento della richiesta di mano d’opera disoccupata. In questo modo l’Italia borghese sembra non accorgersi di quanto stia accadendo in sé ed al di fuori di sé in Europa. Successivamente, l’entrata in vigore delle leggi razziali, il patto d’acciaio tra Mussolini e Hitler, la spartizione della Cecoslovacchia con la conferenza di Monaco, preannunciano i venti di guerra che tra breve spazzeranno l’Europa. L’itinerario seguito è quello dell’ambientazione storica, possibile per il Pasticciaccio di Gadda e per Il conformista di Moravia, in cui sono presenti specifici riferimenti temporali, mentre per Gli Indifferenti non esiste alcun riferimento, né è possibile alcuna deduzione, se non quella degli anni 1925-1929 che sono quelli della gestazione letteraria dell’opera: si può dedurre che la vicenda sia ambientata nei primi anni del Fascismo e si svolge in un arco di tempo estremamente unitario, appena quarantotto ore, e si dipana pressoché interamente nell’ambito di signorili «interni» borghesi.
Ne ‘Gli indifferenti’ c’è un motivo che non era stato delineato con altrettanta efficacia: l’analisi e la rappresentazione dell’ambiente borghese, visto nella sua crisi di trapasso da un’epoca all’altra, seguito da Moravia con abbondanza di esemplificazioni, fino a trarne una visione esistenzialistica, contraddistinta dalla sua ‘indifferenza’. Tale indifferenza si traduce in inerzia morale, incapacità a vivere la vita, superficialità con cui la società borghese si pone di fronte ai problemi dell’esistenza, ai valori più profondi e genuini dell’uomo. I personaggi del romanzo sono dunque colpiti da questa malattia morale, da una sorta di «debolezza della volontà» e versano in una condizione di annientamento, atta a far ritrovare nella distruzione di ogni valore, o nel male il senso dell’esistenza.
Moravia ci mostra un ambiente umano che rifiuta costantemente di riconoscersi e di giudicarsi, e che non possiede la capacità di autocoscienza, e di una figura consapevole ma debole sul piano vitale per questa sua oscura consapevolezza, e intanto, interiormente divisa.
La borghesia italiana, è per Moravia non innovativa e poco laica. Lo scandaglio critico della borghesia nasce già nell’ambiente familiare dello scrittore, un’atmosfera borghese, ma comunque avversa al Fascismo. Di qui l’ispirazione della sua opera prima, ‘Gli indifferenti’, un ‘caso letterario’, elaborato tra il 1925 ed il 1929, che, per il suo spirito polemico e realistico, pose Moravia in profondo contrasto con il regime fascista, che intravide in essa la scarnificazione della morale borghese su cui esso aveva basato i suoi valori, propagandandoli e sublimandoli.
In presa diretta e senza mai intervenire, l’autore descrive la crisi di valori che caratterizza la classe sociale borghese nel XX secolo: i personaggi sono espressione di una borghesia ammalata ed apatica, che agisce nella  totale mancanza di affetto e svuotata di qualunque ideale, mascherandosi di ipocrisia.
La sua descrizione è cruda e realistica concentrata su un mondo borghese ormai in declino, indifferente a tutto ciò che gli sta intorno ed agli eventi drammatici che si stanno verificando in Italia: emblematico è il fatto che l’atmosfera nella quale è immersa il romanzo non lascia permeare nulla delle drammatiche vicende che vanno dal delitto Matteotti alle leggi liberticide del Fascismo. Neppure un accenno, nonostante il periodo di gestazione dell’opera. Eppure è quella borghesia aveva nutrito il Liberalismo del secolo precedente, ma ridotta ad un’insulsa mascherata che conclude il romanzo, una mascherata vuota, ipocrita e perfino grottesca.
L’indifferenza ai valori morali, che avevano alimentato l’etica borghese, traspare come estrema degenerazione di quell’etica stessa, che ha superato perfino il limite dell’inettitudine dell’antieroe sveviano o pirandelliano e che ha colpito la borghesia italiana, è facilmente identificabile in Moravia nella borghesia italiana acquiescente al Fascista. Ma l’angolo di visuale, il punto di osservazione moraviano permette di guardare, attraverso il microcosmo della famiglia Ardengo, il macrocosmo dell’intera borghesia occidentale che si sta involvendo nelle spire dell’esistenzialismo, che pone la crisi dell’io, ormai non più ipertrofico come nell’Ottocento, di fronte ad un mondo corrotto e falso.
La crisi valoriale della borghesia fascista è caratterizzata anche dagli infiniti intrighi sessuali: è una borghesia disumanizzata dalla ricchezza, dal denaro, dalla produzione, dal lusso. L’unico mezzo di comunicazione per questa borghesia è il rapporto sessuale, che questa borghesia ha comunque danneggiato, svilendolo e confondendolo con la ricchezza e con le manie ossessive del possesso, del guadagno e del lusso.
In tal senso ‘Gli indifferenti’ rappresenta la decomposizione della borghesia moderna.
Il romanzo, ambientato in una Roma capitolina che si avvia a diventare la capitale di un impero da operetta, rappresenta personaggi-emblema della borghesia degli anni ’20. La famiglia Ardengo è molto indebitata e perciò Leo Merumeci, uno speculatore edilizio, amante di Mariagrazia Ardengo tenta di approfittare della situazione per impossessarsi di villa Ardengo. Leo seduce anche Carla, la figlia di Mariagrazia, mentre Michele, l’altro figlio di Mariagrazia, si accorge delle manovre ignobili di Leo e tenta di smascherarlo, ma proprio sua madre si oppone, pensando che Leo li possa aiutare. Entra in scena anche Lisa, amica di Mariagrazia, ma ex amante di Leo. Lisa non riesce a sedurre Michele e, per vendicarsi, gli rivela di aver visto abbracciati Carla e Leo. Michele, di conseguenza, tenta di uccidere Leo, ma la sua pistola è scarica.
Carla e Michele cedono all’indifferenza: Carla, infatti, sposa Leo, mentre Michele si trova inconsapevolmente ad essere l’amante di Lisa.
Leo, appartenente ad un mondo radicalmente corrotto, è uno dei tanti uomini che vivono di sola avidità e di solo desiderio sessuale, riducendo la propria vita al raggiungimento di soli due scopi: il sesso e il denaro. Egli è espressione della mentalità dell’uomo borghese, sicuro, tranquillo, noncurante dei bisogni altrui, ipocrita, bugiardo e calcolatore, privo di qualsiasi tipo di moralità. Egli inganna Mariagrazia, abbandonandola per Carla, una donna più giovane; è determinato nell’impossessarsi villa Ardengo; è determinato nel mirare ad avere un nuovo rapporto con Lisa.
In Leo si intrecciano l’ipocrisia ed il conformismo, aspetti che gli indifferenti Carla e Michele, anche se con poca e debole convinzione, provano a rovesciare, ma senza buon fine, rimanendo addirittura vittime della perversione e della maniacalità di Leo.
Mariagrazia rappresenta uno dei molteplici aspetti della decadenza della classe borghese: pur accorgendosi di affondare nei debiti, di andare alla deriva, non accenna ad alcuna reazione per impedire il fallimento; l’unico suo desiderio sono la ricchezza e l’agio che le permetterebbero di sopravvivere con spensieratezza e senza responsabilità. Ella non vuole accorgersi dello sfaldamento morale del mondo che la circonda; non si accorge di provocare rabbia, disgusto, ripugnanza nei figli con le sue scenate di gelosia; ma soprattutto non si accorge delle intenzioni ambigue di Leo, che la tradisce con la figlia. Mariagrazia è legata fondamentalmente all’idea del materiale e della ricchezza: ecco perché pone Leo al di sopra di tutto, concependolo come un grande uomo borghese che la salverà dal naufragio.
Michele, insieme a Carla, è la rappresentazione dell’indifferenza, la rappresentazione di colui che è stanco di questo mondo borghese mascherato e privo di valori morali, ma non fa nulla per uscire da ciò; anzi, egli rinuncia ad ogni tipo di resistenza e si abbandona alla noia. Quando tenta di ribellarsi, lo fa tiepidamente, senza convinzione. Nel luridume della borghesia, l’unica forma di resistenza per Michele è l’essere indifferente. Sa che, per essere ben integrato alla classe borghese dovrà abbandonarsi alla corruzione, al denaro, al sesso. Dovrà quindi negare tutti quei valori morali cui egli sembra aspirare. L’odio di Michele per Leo è fantasticato, è immaginato: il mancato assassinio attesta l’incapacità del giovane a odiarlo realmente, vedendo addirittura in esso un modello da seguire, perché capace di adattarsi al marcio mondo borghese.
Carla si accorge di essere diventata un’adolescente, ma l’impatto con il nuovo mondo non è dei migliori. Anche Carla, come Michele, vede questo mondo intriso di ipocrisia e di corruzione. Per fuggire a questo marciume, Carla decide di sposare Leo credendo di uscire da questa situazione, stando ai desideri sessuali ed alle manie ossessive dello speculatore. Anch’ella è come Michele: si lascia trasportare dalla noia e dall’indifferenza. È ormai stanca di mettersi in discussione in un mondo che non le appartiene.
Infine, c’è Lisa. Amica della famiglia Ardengo, è innamorata del giovane Michele che non la corrisponde. È la vecchia amante di Leo, il quale, in un momento di bisogno, si reca da lei. Leo, convinto che Lisa provi ancora un forte sentimento per lui, si rende conto in realtà che non è così. Dopo aver scoperto della storia clandestina tra Leo e la giovane Carla, Lisa decide di raccontare tutto a Michele.
Ambientato ancora una volta a Roma è ‘Quer pasticciaccio brutto de via Merulana’ di Gadda, in cui con orientamenti stilistici alquanto diversi rispetto a Moravia, è messa in luce la posizione della borghesia, con i suoi falsi miti e con le sue mistificazioni. Il romanzo ebbe una gestazione lunga e complessa; fu pubblicato a puntate nel 1947 sulla rivista ‘Letteratura’ ma fu cominciato a scrivere probabilmente negli anni 30.
Gadda ha una formazione non diversa da altri uomini della sua generazione anche se con specificità ben precise, egli  cresce in un ambiente  essenzialmente intriso di valori borghesi inizialmente negli anni 20 è un uomo d'ordine che guarda con una certa simpatia  anche a Mussolini, poi, come per molti, iniziò un’opera di vera e propria distruzione e di analisi critica della cultura borghese tra otto e novecento della crisi di valori; dalla famiglia alla possibilità di scrivere un romanzo di tipo ottocentesco alla percezione della fine di valori tradizionalmente condivisi dalla borghesia raccontata diversamente da Moravia che comunque segue i canoni naturalistici di tanti scrittori del XIX secolo quanto piuttosto nel dipanarsi dell'intreccio e nell'uso di un linguaggio composito espressionistico in cui sono presenti vari dialetti, citazioni di lingue straniere, citazioni letterarie in latino e in greco, linguaggi prestati dalla scienza, dalla tecnica, dalla filosofia. Per Gadda quello è il linguaggio del mondo contemporaneo  che egli altera  e sottolinea volutamente e ironicamente sino al parossismo come altera fino a caricaturare alcuni personaggi del romanzo quasi al rango di maschere di una moderna commedia dell’arte.
Siamo nel marzo 1927; ormai Mussolini è dittatore a pieno titolo, dopo aver definitivamente superato la crisi susseguente al delitto Matteotti ed aver concentrato in sé tutti i poteri. Il romanzo inizia con la presentazione del paesaggio umano nonché urbano nel quale si svolge la vicenda: ci troviamo a Roma, in via Merulana dove sorge lo stabile nel quale accadono eventi che rispecchiano la posizione di una classe che apparentemente sta vivendo un periodo felice. Il palazzo dell’oro o ‘de li Pescicani’, come veniva chiamato dai cittadini di quella zona, è abitato interamente da borghesi che non pensano altro che all’apparire per i propri beni che diventano dei ‘social simbol’.
Il ‘Pasticciaccio’ non può essere capito senza particolari riferimenti al contesto storico, perché l’intento di Gadda è di far emergere una più radicale omologia tra regime e delitto: l’assassinio Balducci, in cui si intravede la furia della ‘belva infinita’, è il doppio di quel più grande misfatto che è stato il Fascismo. Viene rappresentata la Roma del Ventennio; il fascismo, sul quale Gadda ironizza, satireggia, infierisce, fa da bieco sfondo all'intero intreccio narrativo. Il clima storico diventa dunque molto importante per cogliere il tono dell’opera: attraverso uno schema narrativo fluido e ricchissimo, dove anche gli elementi minimi, diventano il nodo di un sistema infinito di relazioni. Gli interrogatori che si susseguono, condotti dal commissario Ingravallo, diventano metafora del tentativo di comprendere l'esistenza che, più elementi si considerano, più diventa intricata e complessa, rappresentata nella sua totalità quindi il romanzo, da indagine su un omicidio, si fa investigazione sulla vita e sulla morte, sull'erotismo e l'interesse, sui ricchi borghesi e su "chi cerca sfangarsela in qualche modo, col primo espediente scogitato là pe llà, da tante tribolazioni del vivere".
La complessità del linguaggio impiegato e le frequenti digressioni rendono la lettura a volte faticosa ed esigente, ma a renderla più gradevole, a stemperare l'amarezza delle analisi, concorrono l'umorismo, l'ironia, la comicità, di cui il libro è impregnato. Sarcasmo, omologia e terreno di coltura sono, in sintesi, le dimensioni in cui si intersecano Fascismo e trama narrativa, producendo un sostanziale arricchimento di senso che si apre sui temi del male e del rapporto tra questo e società umana.
Il bersaglio contro cui Gadda si scaglia è la società rigida, ipocrita e crudelmente ottusa della borghesia fascista, mentalmente assente e vuota, con tutti i suoi miti roboanti quanto fasulli: l’efficientismo degli apparati burocratici, la fertilità come unica prerogativa femminile, la virilità ostentata e arrogante, una famiglia che, dietro all’apparente solidità, nasconde violenza e sopraffazione.
Anche la scelta del personaggio femminile principale è in linea con quanto appena detto: Liliana Balducci è una donna che non può avere figli e che a causa di questo handicap (in quanto lo stato fascista favoriva ed esaltava la fecondità) appare psicologicamente instabile tanto da dover sempre accogliere in casa giovani ragazze o giovani parenti per ovviare alla mancanza di una prole propria.
Un ulteriore motivo antitetico con l'opera moralizzatrice del nuovo governo è la scelta di sviluppare gli effetti di un delitto: appare chiaro come i giornali nazionali (pilotati dal regime) non potessero dare grande attenzione e importanza ai fatti di cronaca nera che avrebbero intaccato l'Italia nella sua immagine idillica ed eticamente perfetta quale il fascismo stava cercando di costruire.
Gadda vuole ricostruire la società del periodo fascista dal punto di vista del popolo semplice apparentemente ancora ‘incontaminato’ dalla falsa immagine che il nuovo Stato vuole dare all'Italia. I personaggi che appaiono non occupano gradi elevati della società altrimenti, se così fosse, si contribuirebbe ancor più alla causa fascista. Infatti in quelle rare volte che compaiono accenni ad alti funzionari di polizia si può osservare come questi uomini vivano in un mondo ‘altro’ rispetto a quello in cui si svolge la storia, un mondo distaccato dagli eventi concreti, un mondo posticcio in cui tutto sembra andare per il meglio e dove ogni fattaccio appare come insignificante e facilmente riconducibile alla normalità (i giornali infatti avevano dato poca importanza al delitto di Via Merulana). Il commissario Ingravallo, don Ciccio, ne è il ritratto.
I personaggi che maggiormente rispecchiano questo mondo borghese, fatto di vizi privati e di pubbliche virtù, sono la signora Menegazzi ed i coniugi Balducci. La prima, vittima di un furto subito da un garzone d’ un pizzicarolo, rappresenta quella borghesia che darebbe la propria vita per un gruzzoletto di denaro o di gioielli. I coniugi Balducci, invece, si rendono protagonisti all’interno del romanzo per il lusso sfarzoso nel quale vivono. Il tutto si evince da una folta schiera di domestiche che si sono susseguite nel tempo a casa Balducci. Ma dietro tutto questo si annidano i germi della dissoluzione e del disfacimento morale.
Il conte Balducci, rozzo e volgare, assiste al susseguirsi nel proprio appartamento di ragazze di campagna protette da sua moglie con la quali quest’ultima intreccia rapporti morbosi, imputabili alla sua mancata maternità. La propaganda vessatoria del Fascismo nei confronti della donna, ridotta al rango di fattrice, miete come vittima la fragile Liliana. Intorno a lei i ritratti dei personaggi si vanno configurando attraverso l’indagine del commissario Ingravallo, che diventa l’occhio attraverso il quale Gadda compie il suo lavoro di scavo sociopsicologico di quel mondo che ruota intorno al ‘palazzo dell’oro’.

Serata in famiglia
Da Gli indifferenti[1] di A. Moravia
·         Una tipica serata di una famiglia borghese: prima al cinema, poi a cena a casa, tutti insieme. Ma l’atmosfera che si respira è soffocante... La fissità dei ruoli, che sembra aver impregnato di sé anche gli oggetti e i mobili della casa, non turba Marìagrazia e Leo, che riescono ancora a aderire alla vita, ma incombe pesante sui due giovani Ardengo, Carla e Michele, irrimediabilmente "malati" di indifferenza.
·         Un angosciante chiaroscuro di gusto espressionistico apre il secondo capitolo del romanzo Gli indifferenti: nella sala da pranzo di casa Ardengo, quasi come in una sala operatoria, la luce bianca del lampadario impietosamente annulla la vivacità della tavola imbandita, creando un contrasto inquietante tra il blocco bianco della tavola e l'ombra nera dei mobili e delle pareti. Con tecnica teatrale, ad apertura di scena, Moravia presenta per qualche secondo una stanza immobile, priva di vita, con la sola presenza di Carla, simile a una statua di sale, cogli occhi attoniti fissi nel vapore che sale dalla minestra. La disperazione della ragazza è già tutta in quell'attesa senza impazienza, l'attesa di chi sa che niente deve accadere, che nulla mai interverrà a cambiare gli eventi di un destino ineluttabile. Il silenzio e l'immobilità vengono infranti dall'ingresso degli altri tre personaggi: Mariagrazia e Leo, che chiacchierano tra loro a voce alta, e Michele, fratello di Carla e a lei accomunato dalla sfiducia nella vita, dal disprezzo per l'ipocrisia di Leo e per il patetico sentimentalismo della madre, dall'angoscia per quella vita alla quale non sa partecipare. La contrapposizione tra i rappresentanti delle due generazioni è netta: gli adulti parlano, proclamano le loro certezze, agiscono, si adirano; i giovani non hanno niente da proclamare e sono schiacciati da un senso di nausea e di noia, che toglie loro anche la carica emotiva per esaltarsi, adirarsi, giudicare. Dall'analisi dei verbi risulta chiara questa differente posizione nei confronti della vita: Leo e Mariagrazia discutono, ribadiscono le proprie opinioni, gridano (dichiarando con voce ironica ed esaltata; gridò; ripetè... colla bocca piena; soggiunse versandosi da bere); Michele e Carla non pronunciano che qualche frase smozzicata («Infatti potrebbe andare meglio», ammise), e invece pensano a quello che dovrebbero o avrebbero dovuto fare, ma impietriti dall'indifferenza, non fanno (avrebbe voluto domandargli; si trattenne; bisognerebbe rispondergli; avrebbe voluto gridare). I due giovani quasi invidiano la volgare vitalità di Leo (non sapeva odiare un uomo che a malavoglia invidiava), che parla a bocca piena e a voce alta, che ironizza sulla passiva malinconia di Michele (quella faccia lunga come la quaresima), che ostenta la propria sicurezza e la propria capacità di affrontare in modo "sano" la vita (tengo ad affermare che tutto mi va bene), che laidamente fa delle avance a Carla, pur essendo l'amante di sua madre. Nei confronti del puerile e patetico sentimentalismo della madre, invece, Michele e Carla hanno un atteggiamento di disperato disgusto (La scena diventava sentimentale; Carla fremette e abbassò gli occhi; Michele sorrise dì disprezzo). Già conoscono il copione di quelle scenate di gelosia della donna, che non vuole cedere agli anni che passano, che crede di poter utilizzare ancora come esca d'amore i vezzosi atteggiamenti di un tempo («Crede Merumeci - domandò guardandosi vezzosamente le mani, - che sia così facile perdonare?»), mentre sente irreparabilmente sfuggire il suo amante. Il capitolo si chiude con nuovi silenzi e con l'uscita di scena dei quattro personaggi, come al termine di un atto di una rappresentazione teatrale.
·         Anche il linguaggio contribuisce a rendere un'atmosfera di angoscia opprimente, quasi un senso di claustrofobia. I periodi sono brevi, la parafassi non da respiro alla narrazione, la chiara lucidità delle descri­zioni e delle riflessioni non lascia via d'uscita in un mondo dal quale ci si può difendere solo con l'indifferenza. Ogni oggetto, ogni azione è accompagnata da un aggettivo o da un avverbio che non danno vivacità alla scena, ma la caricano di angoscia. L'uso dei modi verbali è assai significativo: mentre i verbi riferiti a Mariagrazia e Leo sono all'indicativo, il modo della realtà, delle cose che avvengono, per Michele e Carla spesso si fa uso del condizionale, il modo delle azioni che sarebbero potute accadere, di ciò che si sarebbe potuto fare e non si è fatto (avrebbe voluto domandargli; ora bisognerebbe rispondergli per le rime; avrebbe voluto gridare). Molte delle espressioni riferibili ai due personaggi più giovani sono inoltre di senso negativo (senza impazienza; non sapeva odiare un uomo che a malavoglia invidiava; si trattenne), poiché la loro caratteristica principale è l'inazione. Il fatto che la narrazione richiami la tecnica di un testo teatrale, con suggerimenti per l'allestimento della scena e per l'ingresso e i movimenti dei personaggi, è confermato dalle frequenti espressioni che afferiscono al campo semantico del teatro (ultima scena; volti… duri, plastici, incomprensivi; faccia dipinta della donna; gravemente buffonesco; fece una specie d'inchino sopra la tavola) e nel contempo svelano l'ipocrisia che regna nei rapporti borghesi.

Sotto il lampadario a tre braccia il blocco bianco della tavola scintillava di tre minute schegge di luce, i piatti, le caraffe[2], i bicchieri, come appunto un blocco di marmo appena scalfito dagli scalpellini[3]; c’erano delle macchie, il vino era rosso, il pane marrone, una minestra verde fumava dal fondo delle scodelle; ma quel candore le aboliva e splendeva immacolato tra quattro pareti su cui, per contrasto, tutto, mobili e quadri, si confondeva in una sola ombra nera; e già seduta al suo posto, cogli occhi attoniti fissi nel vapore della vivanda[4], Carla aspettava senza impazienza[5].
Prima dei tre entrò la madre, colla testa voltata verso Leo che la seguiva, dichiarando con voce ironica ed esaltata: «Non si vive per mangiare, ma si mangia per vivere… invece lei fa tutto l’opposto... beato lei».
«Ma no... ma no... - disse Leo entrando a sua volta e toccando con un gesto sfiduciato, per pura curiosità, il termosifone appena tiepido; - lei non mi ha capito...: io ho detto che quando si fa una cosa non bisogna pensare ad altro...; per esempio quando lavoro non penso che a lavorare... quando mangio non penso che a mangiare... e così di seguito... allora tutto va bene...».
«E quando rubi?» avrebbe voluto domandargli Michele che gli veniva dietro: ma non sapeva odiare un uomo che a malavoglia invidiava. «In fondo ha ragione - si disse andando al suo posto, - io penso troppo».
«Beato lei -, ripetè la madre sarcastica - invece a me tutto va male». Sedette, assunse un aspetto di triste dignità e cogli occhi bassi rimescolò col cucchiaio la minestra, affinchè si freddasse.
«E perché tutto va male?» domandò Leo sedendosi a sua volta. «Io al suo posto sarei felice: una graziosa figlia... un figlio intelligente e pieno di belle speranze... una bella casa... cosa si può desiderare di più[6]?».
«Eh lei mi capisce a volo» disse la madre con un mezzo sospiro.
«Io no, a rischio di passare per ignorante le confesso che non capisco nulla...». La minestra era finita, Leo posò il cucchiaio: «E del resto siete tutti malcontenti voi... non creda signora di esser la sola... vuoi vedere?... Dunque, tu Carla, di’ la verità, sei contenta tu?...».
La fanciulla alzò gli occhi; questo spinto giovanile e falsamente bonario inaspriva la sua impazienza: ecco, ella sedeva alla tavola familiare, come tante altre sere; c’erano i soliti discorsi, le solite cose, più forti del tempo, e soprattutto la solita luce senza illusioni e senza speranze[7], particolarmente abitudinaria, consumata dall’uso come la stoffa di un vestito e tanto inseparabile dalle loro facce, che qualche volta accendendola bruscamente sulla tavola vuota ella aveva avuto la netta impressione di vedere i loro quattro volti, della madre, del fratello, di Leo e di se stessa, là, sospesi in quel meschino alone[8]; c’erano dunque tutti gli oggetti della sua noia, e ciononostante Leo veniva a pungerla proprio dove tutta l’anima le doleva; ma si trattenne: «Infatti potrebbe andare meglio», ammise; e riabbassò la testa.
«Ecco -, gridò Leo trionfante, - glielo avevo detto... anche Carla... ma non basta... pure Michele, sicuro... Non è vero Michele che pure a te le cose vanno male?».
Anche il ragazzo prima di rispondere lo guardò. «Ecco - pensava - ora bisognerebbe rispondergli per le rime, ingiuriarlo, far nascere una bella questione e alfine rompere con lui»; ma non ne ebbe la sincerità; calma mortale; ironia; indifferenza. «E se tu la facessi finita! - disse tranquillamente[9]; - lo sai meglio di me come vanno le cose».
«Eh furbacchione... - gridò Leo - furbacchione di un Michele... vuoi evitare la risposta, vuoi passarci sopra... ma è chiaro che anche tu sei un malcontento, altrimenti non faresti quella faccia lunga come la quaresima». Si servì dal piatto che la cameriera gli porgeva; poi: «Ed io invece signori miei tengo ad affermare che tutto mi va bene, anzi benissimo e che sono contentissimo e soddisfattissimo e che se dovessi rinascere non vorrei rinascere che come sono e col mio nome: Leo Merumeci».
«Uomo felice! - esclamò Michele ironico; - ma almeno dicci come fai».
«Come faccio? - ripetè l’altro colla bocca piena; - così... ma volete sapere invece - egli soggiunse versandosi da bere, - perché voi tre non siete come me?».
«Perché?».
«Perché - egli disse - vi arrabbiate per delle cose che non meritano...». Tacque e bevve; seguì un minuto di silenzio; tutti e tre, Michele, Carla e la madre si sentivano offesi nel loro amor proprio; il ragazzo si vedeva com’era, miserabile, indifferente e sfiduciato, e si diceva: «Ah vorrei vederti in queste mie condizioni»; Carla pensava alla vita che non cambiava, a quelle insidie dell’uomo, e avrebbe voluto gridare: «Io ho delle vere ragioni»; ma per tutti e tre fu la madre impulsiva e loquace che parlò.
L’essere stata accomunata coi figli in quella generale tendenza al malcontento, per il gran concetto in cui ella si teneva, l’aveva ferita come un tradimento; l’amante non solamente l’abbandonava ma anche si burlava[10] di lei:
«Va bene -, disse alfine dopo quel silenzio, con la voce ironica e malevola di chi vuole attaccar briga; - ma io, caro lei, ho delle buone ragioni per non esser contenta».
«Non ne dubito» disse Leo tranquillamente.
«Non ne dubitiamo» ripetè Michele.
«Non sono più una bambina come Carla -, continuò la madre in tono risentito e commosso, - sono una donna che ha avuto delle esperienze, che ha avuto dei dolori, oh sì, molti dolori - ella ripetè eccitata dalle sue parole; - che è passata attraverso molte noie e molte difficoltà, e ciò nonostante ha saputo sempre serbare intatta la propria dignità e sempre mantenersi superiore a tutti, sì, caro Merumeci - ella proruppe amara e sarcastica; - a tutti quanti compreso lei[11]...».
«Non ho mai pensato che...» incominciò Leo; ora tutti comprendevano che la gelosia della madre aveva trovato una via e l’avrebbe percorsa per intero; tutti prevedevano con noia e disgusto la meschina tempesta che si addensava in quella luce tranquilla della cena:
«E lei caro Merumeci - continuò Mariagrazia fissando sull’amante gli occhi spiritati; - ha parlato poc’anzi molto leggermente[12]... io non sono una di quelle sue eleganti amiche senza tanti scrupoli per la testa, che non pensano che a divertirsi e a tirare avanti, oggi uno, domani un altro, alla meno peggio... no, lei s’inganna... io mi sento molto ma molto diversa da quelle signore...».
«Non ho voluto intendere questo...».
«Io sono una donna -, continuò la madre con crescente esaltazione - che potrebbe insegnare a vivere a lei e a tanti altri pari suoi, ma che ha la rara delicatezza o la stupidaggine di non mettersi in prima fila, di parlar poco di se stessa e perciò è quasi sempre misconosciuta e incompresa... ma non per questo - ella disse alzando la voce al diapason[13] più forte; - non perché sono troppo buona, troppo discreta, troppo generosa, non per questo, ripeto, ho meno delle altre il diritto di domandare di non venire insultata ad ogni momento da chicchessia...».
Diede un ultimo folgorante sguardo all’amante e poi abbassò gli occhi e si diede macchinalmente a cambiar di posto gli oggetti che le stavano davanti.
La più grande costernazione si dipinse su tutti i volti: «Ma io non ho mai pensato di insultarla - disse Leo con calma; - ho detto soltanto che tra tutti noi il solo che non sia malcontento sono io». «Eh, si capisce -, rispose la madre molto allusiva, - si capisce benissimo che lei non sia malcontento». «Vediamo mamma -, intervenne Carla - egli non ha detto nulla di insultante»: ora, dopo quest’ultima scena, un’atterrita disperazione possedeva la fanciulla: «finirla -, pensava guardando la madre puerile e matura[14] che a testa bassa pareva ruminare la propria gelosia; - finirla con tutto questo, cambiare ad ogni costo». Delle risoluzioni assurde passavano per la sua testa; andarsene, sparire, dileguarsi nel mondo, nell’aria. Si ricordò delle interessanti parole di Leo: «Tu hai bisogno di un uomo come me». Era la fine: «Lui o un altro...» pensò; la fine della sua pazienza, dalla faccia della madre i suoi occhi sofferenti passarono a quella di Leo: eccoli i volti della sua vita[15], duri, plastici, incomprensivi, allora riabbassò gli sguardi sul piatto dove il cibo si freddava nella cera coagulata dell’intingolo[16].
«Tu -, ordinò la madre - non dir nulla: non puoi capire». «Eh, mia cara signora -, protestò l’amante - anch’io non ho capito nulla».
«Lei - disse la madre calcando sulle parole e inarcando le sopracciglia, - mi ha capito fin troppo». «Sarà» incominciò Leo stringendosi nelle spalle.
«Ma taccia... taccia dunque - lo interruppe la donna con dispetto; - è meglio che lei non parli... al suo posto io tenterei di farmi dimenticare, di scomparire». Silenzio; la cameriera entrò e tolse via i piatti. «Ecco - pensò Michele vedendo quell’espressione adirata del volto della madre a poco a poco disten­dersi; - il temporale è passato, ora torna il bel tempo». Alzò la testa e: «Dico, - domandò senz’ombra di allegria - l’incidente è chiuso?».
«Chiusissimo - rispose Leo con sicurezza; - io e tua madre ci siamo riconciliati». Si volse verso Mariagrazia: «Non è vero signora che ci siamo riconciliati?». Un sorriso patetico esitava sulla faccia dipinta della donna; ella conosceva quella voce e quel tono insinuante dei tempi migliori, di quando ella era ancora giovane e l’amante era ancora fedele: «Crede Merumeci - domandò guardandosi vezzosamen­te le mani, - che sia così facile perdonare?».
La scena diventava sentimentale; Carla fremette e abbassò gli occhi; Michele sorrise di disprezzo. «Ecco - pensò - ci siamo, abbracciatevi e non se ne parli più».
«Perdonare - disse Leo gravemente buffonesco, - è dovere di ogni buon cristiano» («Che il diavolo se la porti - pensava intanto; - per fortuna che c’è la figlia a compensarmi della madre»). Osservò la fanciulla, impercettibilmente, senza voltar la testa; sensuale; più di sua madre; labbra rosse, carnose; certo disposta a cedere; dopo cena bisognava tentare; battere il ferro finché è caldo; il giorno dopo no[17]. «Allora - disse la madre del tutto rassicurata, - siamo cristiani e perdoniamo». Il sorriso, fin allora contenuto, s’allargò patetico e brillante su due file di denti d’una bianchezza dubbia; tutto il corpo disfatto palpitò: «E, a proposito - ella soggiunse con improvviso amor materno; - non bisogna dimen­ticarlo: domani è l’anniversario della nostra Carla». «Non si usa più, mamma» disse la fanciulla alzando la testa.
«E invece lo festeggeremo - rispose la madre, solenne, - e lei Merumeci si consideri già invitato per domani mattina».
Leo fece una specie d’inchino sopra la tavola: «obbligatissimo»; poi rivolgendosi verso Carla, «quanti anni?» domandò.
Si guardarono; la madre che sedeva in faccia alla fanciulla alzò due dita e compose la bocca come per dire «venti»; Carla vide, capì, esitò; poi un’improvvisa durezza devastò la sua anima: «Vuole - pensò - che io mi diminuisca gli anni per non invecchiar lei»; e disobbedì; «Ventiquattro» rispose senza arrossire. Un’espressione delusa passò sul volto della madre.
«Così vecchia?» esclamò Leo con scherzosa meraviglia; Carla assentì: «Così vecchia» ripetè.
«Ma non avresti dovuto dirlo - rimproverò la madre; l’arancia agra che stava mangiando aumentava l’acidità della sua espressione; - si ha sempre l’età che si mostra... Ora tu non mostri più di diciannove anni». Inghiottì l’ultimo spicchio, l’arancia era finita; Leo estrasse l’astuccio delle sigarette e ne offrì a tutti; il fumo azzurro salì sottile dalla tavola in disordine; per un istante stettero immobili guardandosi negli occhi, attoniti; poi la madre si alzò.
«Andiamo nel salotto» disse; e uno dopo l’altro uscirono tutti e quattro dalla sala da pranzo.
[…]


Un... vero amico
Da Gli Indifferenti di A. Moravia
·         Dopo cena, secondo un rituale che si ripropone quotidianamente con esasperante ripetitività, la famiglia Ardengo e Leo Merumeci passano nel salone, compiendo sempre i soliti gesti e dicendo sempre le solite frasi, tanto che anche i mobili sembrano intrisi di un'angosciante immobilità. Ma stavolta c'è un argomento nuovo di conversazione, che potrebbe far cadere le maschere, infrangere lo spesso strato di ipocrisia del gioco delle pani. Quando Michele denuncia la viscida falsità di Leo, che fredda­mente sta assistendo alla rovina degli Ardengo, sembra che finalmente la tragedia stia per scoppiare, ma...
·         La consueta atmosfera stagnante e opprimente, i silenzi improvvisi e angoscianti che sottolineano l'incomunicabilità che regna sovrana tra gli Ardengo questa sera sembra stiano per infrangersi. Michele, che abitualmente come tutti gli altri rispetta le regole del gioco fingendo di non accorgersi dell'ipocrisia dei rapporti familiari e mantenendo un delicato e insano equilibrio di vita borghese, questa volta improvvisamente fa scoppiare una bomba: Leo, l'amante di Mariagrazia, l'amico di vecchia data che finge di aver assunto quasi un ruolo di padre nella famiglia, sta per mandarli in rovina. Una luce improvvisa sembra che d'un tratto squarci il velo della finzione e metta a nudo i personaggi. Carla quasi non interviene; Mariagrazia, invece, lotta disperatamente per far rientrare tutto nella normalità, per continuare a fingere di non vedere la realtà dei fatti, e cioè che Leo non solo non l'ama più, ma addirittura sta tradendo lei e i suoi figli, approfittando della disastrosa situazione economica per sottrarre loro la villa. Quella paura vasta, che invade l'animo della donna, è la paura di chi ha sempre nascosto la testa sotto la sabbia e improvvisamente è costretto a prendere atto della rovina della propria vita. Ma pian piano tutto rientra: Leo, che inizialmente sembra voler finalmente calare la maschera («Quell'uomo ha detto la verità» disse alfine Leo senza alzare gli occhi}, nel corso della discussione riprende il suo ruolo e finge addirittura di essere risentito per la mancanza di fiducia che gli Ardengo gli dimostrano (ma che lei signora - soggiunse voltandosi alla madre - possa credere che io per una vendita qualsiasi abbandoni i miei migliori amici...). È l'ancora di salvezza che si aspettava per ricondurre tutto nei consueti, ipocriti schemi. Michele tenta ancora di provocare una scena, ma l'indifferenza con cui nonostante tutto vive quegli avveni­menti tragici non gli da la carica, l'odio necessario, per ingiuriare efficacemente Merumeci e Leo approfitta della debolezza del ragazzo per minimizzare la provocazione (Se tu fossi un uomo saprei come risponderti). A mettere fine alla vicenda e a far rientrare ognuno nel proprio personaggio è l'arrivo di Lisa, vecchia amica di Mariagrazia ed ex amante di Leo. La descrizione che Moravia fa della donna è spietata nella sua essen­zialità: uno sgargiante soprabito turchino avvolge pateticamente il suo corpo grasso, terminante con piedi minuscoli, mentre la testa appare ancora più piccola sulle spalle piene e sui fianchi floridi; maschera grot­tesca la sua, tutta imbellettata, immagine vivente dell'ipocrisia e della falsità. L'inattesa visita di Lisa è una boccata d'aria per Mariagrazia e anche per Leo, che approfittano dell'interru­zione per far sprofondare di nuovo la vita nella consueta voragine della finzione: Gli indifferenti è stato definito dallo stesso Moravia un romanzo in cui «la tragedia non era possibile».
·         Periodi brevi e diretti caratterizzano gli interventi di Michele e di Leo, che freddamente e razionalmente affrontano la situazione (Mi spiego; Il ragionamento non fa una grinza). I discorsi di Mariagrazia, invece, sono concitati, frantumati in mille frasi non terminate, guidati dalla paura e dall'emozione, non certo dalla razionalità. Il contrasto tra le parole aggressive e sarcastiche di Michele e l'indifferenza che sente nei confronti della situazione che sta vivendo è sottolineata dalle precisazioni aggiunte da Moravia ai pensieri e alle azioni del ragazzo («Quanto è falso» pensò Michele divertito; profferì senza convinzione). La scena, che diventa sempre più patetica, è scandita poi da quel Silenzio, che a inizio capoverso per ben quattro volte sottolinea i momenti più drammatici della discussione, quando una parola ancora potrebbe far scoppiare una tragedia che non ci sarà. Anche in questo passo, come in molti altri del romanzo, i frequenti aggettivi assumono un valore fortemente connotativo e contribuiscono a creare un'atmosfera angosciante (freddo oscuro salone; tende di velluto cupo; finestre serrate; luce mediocre; ombra nera) o a descrivere in modo impietoso un personaggio, come nel caso di Lisa (corpo grasso... piedi minuscoli... linee curve e gonfie).

[...] Entrarono nel freddo oscuro salone rettangolare che una specie di arco divideva in due parti disuguali e sedettero nell'angolo opposto alla porta; delle tende di velluto cupo nascondevano le finestre serrate, non c'era lampadario ma solamente dei lumi in forma di candelabri, infissi alle pareti a eguale distanza l'uno dall'altro; tre dei quali, accesi, diffusero una luce mediocre nella metà più piccola del salone; l'altra metà, oltre l'arco, rimase immersa in un'ombra nera in cui si distinguevano a malapena i riflessi degli specchi e la forma lunga del pianoforte.
Per un istante non parlarono; Leo fumava con compunzione, la madre considerava con una mesta dignità le sue mani dalle unghie smaltate, Carla quasi carponi tentava di accendere la lampada nell'angolo e Michele guardava Leo; poi la lampada si accese, Carla sedette e Michele parlò: «Sono stato dall'am­ministratore di Leo e mi ha fatto un monte di chiacchiere... il sugo della faccenda è poi questo: che a quel che pare tra una settimana scade l'ipoteca e perciò bisognerebbe andarsene e vendere la villa per pagare Merumeci[18]...».
La madre spalancò gli occhi: «Quell'uomo non sa quello che dice... ha agito di testa sua... l'ho sempre detto io che aveva qualche cosa contro di noi...».
Silenzio: «Quell'uomo ha detto la verità» disse alfine Leo senza alzare gli occhi. Tutti lo guardarono. «Ma vediamo, Merumeci - supplicò la madre giungendo le mani; - non vorrà mica mandarci via così su due piedi?... ci conceda una proroga...».
«Ne ho già concesse due - disse Leo - basta... tanto più che non servirebbe ad evitare la vendita...». «Come a non evitare?» domandò la madre.
Leo alzò finalmente gli occhi e la guardò: «Mi spiego: a meno che non riusciate a mettere insieme ottocentomila lire, non vedo come potreste pagare se non vendendo la villa...». La madre capì, una paura vasta le si aprì davanti agli occhi come una voragine; impallidì, guardò l'amante; ma Leo tutto assorto nella contemplazione del suo sigaro non la rassicurò: «Questo significa - disse Carla - che dovremmo lasciare la villa e andare ad abitare in un  appartamento di poche stanze?». «Già, - rispose Michele - proprio così».
Silenzio; la paura della madre ingigantiva; non aveva mai voluto sapere di poveri e neppure conoscerli di nome, non aveva mai voluto ammettere l'esistenza di gente dal lavoro faticoso e dalla vita squallida. «Vivono meglio di noi - aveva sempre detto; - noi abbiamo maggiore sensibilità e più grande intelligenza e perciò soffriamo più di loro...»; ed ora, ecco, improvvisamente, ella era costretta a mescolarsi, a ingrossare la turba[19] dei miserabili; quello stesso senso di ripugnanza, di umiliazione, di paura che aveva provato passando un giorno in un'automobile assai bassa attraverso una folla minacciosa e lurida di scioperanti, l'opprimeva; non l'atterrivano i disagi e le privazioni a cui andava incontro, ma invece il bruciore, il pensiero di come l'avreb­bero trattata, di quel che avrebbero detto le persone di sua conoscenza, tutta gente ricca, stimata ed elegante; ella si vedeva, ecco... povera, sola, con quei due figli, senza amicizie che tutti l'avrebbero abbandonata, senza divertimenti, balli, lumi, feste, conversazioni: oscurità completa, ignuda oscurità[20].
Il suo pallore aumentava: «Bisognerebbe che gli parlassi da sola a solo -, pensava attaccandosi all'idea della seduzione; - senza Michele e senza Carla... allora capirebbe».
Guardò l'amante. «Lei, Merumeci -, propose vagamente - ci conceda ancora una proroga, e noi il denaro lo si troverà m qualche modo[21]»,
«In che modo?» domandò l'uomo con un mezzo sorriso ironico, «Le banche...» arrischiò la madre.
Leo rise: «Oh, le banche». Si chinò e fissò in volto l'amante: «Le banche - sillabò - non prestano denaro che contro sicure garanzie e ora poi con questa penuria di quattrini che c'è in giro non ne prestano affatto[22]; ma ammettiamo che ne prestassero...: che specie di garanzia potrebbe lei dare, cara signora?». «Il ragionamento non fa una grinza» osservò Michele; avrebbe voluto appassionarsi a questa loro que­stione vitale, protestare: «Vediamo - pensava - si tratta della nostra esistenza... potremmo da un mo­mento all'altro non avere di che vivere materialmente»; ma per quanti sforzi facesse questa rovina gli restava estranea; era come vedere qualcheduno affogare, guardare e non muovere un dito. Tutt'altra era invece la madre: «Lei ci dia questa proroga -, ella disse con fierezza, ergendosi sul busto e staccando le parole; - e può star sicuro che alla data della scadenza lei avrà i suoi quattrini, non ne dubiti, fino all'ultimo centesimo».
Leo rise dolcemente chinando la testa: «Ne sono certo... ma allora a che serve la proroga?... Quei mezzi che lei adopererà tra un anno per ottenere denari perché non usarli ora e così pagarmi subito?». Quella faccia era così calma e sagace[23] che la madre ne ebbe timore; da Leo i suoi occhi irresoluti passarono a Michele, poi a Carla: eccoli là i suoi due figli deboli che avrebbero provato le angustie della povertà; le venne un esaltato amor materno: «Senta Merumeci -, incominciò con voce persuasiva - lei è un amico di famiglia, a lei posso dir tutto... non si tratta di me, non è per me che chiedo questa proroga, io sarei anche pronta ad andare a vivere m una soffitta...». Alzò gli occhi al ciclo e: «Dio sa se penso a me... ma io ho Carla da maritare... ora lei conosce il mondo... il giorno stesso che io lasciassi la villa e andassi a vivere in qualche appartamentino, tutti ci volterebbero le spalle... la gente è fatta così... e allora, me lo saluta lei il matrimonio di mia figlia?».
«Sua figlia - disse Leo con una falsa serietà, - ha una bellezza che troverà sempre pretendenti». Guardò Carla, e le ammiccò[24], ma una rabbia trattenuta e profonda possedeva la fanciulla: «Chi vuoi che mi sposi -, avrebbe voluto gridare alla madre - con questo uomo per casa e te in quelle condizioni?». L'offendeva, l'umiliava la disinvoltura con la quale la madre, che abitualmente non si curava affatto di lei, la tirava in ballo come un argomento favorevole ai suoi scopi; bisognava finirla, ella si sarebbe data a Leo, e così nessuno più l'avrebbe desiderata per moglie; guardò la madre negli occhi: «Non pensare a me, mamma - disse con fermezza; - io non c'entro né ci voglio entrare in tutto questo».
Fu in questo momento che una risata agra, falsa da allegare i denti[25] partì dall'angolo dove sedeva Michele; la madre si voltò: «Ma sai -, egli le disse tentando con sforzo di dare alla sua voce indifferente un'intonazione sarcastica; - chi sarà il primo ad abbandonarci se lasciamo la villa? Indovina».
«Mah, non so».
«Leo - egli proruppe additando l'uomo; - il nostro Leo».
Leo ebbe un gesto di protesta. «Ah, Merumeci?» ripetè la madre incerta e impressionata guardando l'amante come se avesse voluto leggergli in faccia se fosse stato capace di un simile tradimento; poi ad un tratto, con occhi e sorriso infiammati di patetico sarcasmo[26]: «Ma già... sicuro... e io stupida che non ci pensavo... sicuro Carla - soggiunse rivolgendosi alla figlia; - Michele ha ragione... il primo che fingerà di non averci conosciuto, dopo naturalmente che avrà intascato i quattrini, sarà Merumeci...: non protesti - ella continuò con un sorriso ingiurioso; - non è colpa sua, tutti gli uomini sono così... potrei giurarlo, passerà con una di quelle sue amiche tanto simpatiche e tanto eleganti e appena mi vedrà... volterà la testa dall'altra parte... sicuro... caro lei... ci metterei la mano sul fuoco...». Tacque per un istante. «E già -, concluse con amarezza e rassegnazione; - già... anche Cristo è stato tradito dai suoi migliori amici».
Soverchiato dal quel fiotto di accuse, Leo posò il sigaro: «Tu - disse voltandosi verso Michele - sei un ragazzo, e per questo non ti prendo in considerazione[27]...; ma che lei signora - soggiunse voltandosi alla madre - possa credere che io per una vendita qualsiasi abbandoni i miei migliori amici, ecco, questo non me l'aspettavo... no, proprio non me l'aspettavo».
Scosse la testa e riprese il sigaro. «Quanto è falso», pensò Michele divertito; poi bruscamente si ricordò di essere l'uomo derubato, can­zonato[28], oltraggiato, nel suo patrimonio, nella sua dignità, nella persona di sua madre: «Ingiuriarlo - pensò; - provocare una scena». Capì di aver lasciato passare in quella serata mille occasioni più favo­revoli ad un alterco[29], per esempio quando Leo aveva rifiutato di concedere una proroga; ma ormai era troppo tardi: «Non te l'aspettavi eh? - disse rovesciandosi nella poltrona e accavalciando le gambe; esitò, poi senza muoversi: - mascalzone».
Tutti si voltarono, la madre con sorpresa, l'uomo lentamente, togliendosi di bocca il sigaro: «Cosa hai detto?». «Voglio dire -, spiegò Michele aggrappandosi con le mani ai bracciuoli della poltrona e non ritrovando nella sua indifferenza le ragioni che lo avevano spinto a quell'ingiuria veemente; - che Leo... ci ha rovinati... e ora finge di esserci amico... ma non lo è».
Silenzio; disapprovazione: «Senti Michele -, disse Leo fissando sul ragazzo due occhi del tutto inespressivi; - mi sono già accorto da qualche minuto che tu questa sera vuoi attaccar briga, chi sa perché... mi dispiace ma ti dico subito che non attacca. Se tu fossi un uomo saprei come risponderti... ma sei un ragazzo senza responsabilità... per questo la migliore cosa che puoi fare è andare a letto e dormirci sopra». Tacque e riprese il sigaro: «E mi dici questo - soggiunse bruscamente - proprio quando stavo per proporvi le condizioni più favorevoli».
Silenzio: «Merumeci ha ragione - parlò a sua volta la madre - veramente, Michele, egli non ci ha rovinati e c'è stato sempre amico... perché ingiuriarlo in questo modo?...».
«Ah, ora lo difendi - pensò il ragazzo; un’irritazione torte contro se stesso e gli altri lo invase: - Se sapeste quanto tutto questo mi è indifferente», avrebbe voluto gridare loro: la madre eccitata e interes­sata, Leo falso, Carla stessa che attonita lo guardava, gli parvero in quel momento ridicoli eppure invidiabili appunto perché essi aderivano a questa realtà e consideravano veramente la parola «mascal­zone» come una ingiuria mentre per lui, gesti, parole, sentimenti, tutto era un giuoco vano di finzioni. Però volle andare fin al fondo della strada incominciata «Quel che ho detto è la pura verità» profferì senza convinzione[30].
Leo alzò con disgusto e malcontento le spalle: «Ma fammi il piacere - interruppe scuotendo con violenza la cenere del suo sigaro; - fammi il santissimo piacere...» e già la madre stava per sostenere l'amante, con un «hai torto marcio Michele», quando laggiù, in quella poca luce che vi arrivava dal loro angolo, la porta si aprì a metà, e una testa bionda di donna si affacciò:
«Si può?» domandò la testa; tutti si voltarono. «Oh, Lisa! - esclamò la madre - entra, entra pure». La porta si aprì del tutto e Lisa[31] entrò; un soprabito turchino avvolgeva il suo corpo grasso, e le arrivava fin quasi ai piedi minuscoli; la testa dal cappellino cilindrico, azzurro e argento, pareva ancora più piccola su quelle spalle piene che il panno invernale arrotondava; il soprabito era ampio, eppure il petto e i fianchi floridi vi si stampavano con abbondanza di linee curve e gonfie; invece le estremità di questo corpo meravigliavano per la loro esiguità e sotto la campana larga del mantello si distingueva con stupore la sottigliezza delle caviglie.
«Non disturbo? - domandò Lisa avvicinandosi - è tardi... lo so... ma ho cenato qui accanto e poiché passavo per la vostra strada non ho potuto resistere alla tentazione di farvi una visita e sono venuta...».
«Figurati - disse la madre; si alzò e andò incontro all'amica: - Non ti togli il soprabito?» le domandò[32].
«No -, rispose l'altra - resto un poco e poi scappo…, lo aprirò, ecco… per non aver troppo caldo».
Disfece la cintura rivelando un vistoso e lucido vestito di seta nera ornato di grossi fiori azzurrastri; salutò Carla: «Buonasera Carla» «Leo: ah c'è anche Merumeci... impossibile non trovarlo qui» «Michele: come va Michele?» e sedette sul divano accanto alla madre.
«Che bel vestito hai - disse questa allargando il soprabito; - ebbene quali novità mi racconti?».
«Nessuna - rispose Lisa guardandosi intorno; - ma... - soggiunse - che facce stralunate[33]... si direbbe che steste discutendo e io con la mia venuta abbia interrotto la vostra discussione».
«Ma no -, protestò Leo posando su Lisa, tra il fumo del suo sigaro, uno sguardo mistificatore[34] - ma no... La massima allegria ha regnato finora».
«Si parlava del più e del meno... ecco tutto - disse la madre; prese una scatola e la porse all'amica: -
Fumi?».
[…]


Dove va la mia vita?
Da Gli Indifferenti di A. Moravia
·         Dopo la discussione in salotto è diventato chiaro a tutti che Leo tiene ormai in pugno la famiglia Ardengo. L'uomo può adesso dare liberamente sfogo al suo desiderio libidinoso nei confronti della giovane figlia della sua amante: la spinge dietro una tenda e, senza paura di essere scoperto in flagrante, la bacia voluttuosamente. Carla non si oppone e si lascia estorcere la promessa di andare da lui l'indomani: diventerà dunque la sua nuova amante, ruberà il posto alla madre, si darà a un uomo che non ama, peccaminosamente... Finalmente sola, chiusa nella sua stanza, un senso di angoscia e insieme di insana voluttà la invade.
·         Carla e il suo doppio si fronteggiano nel chiuso spazio della stanza, comoda e intima, ma d'una intimità ambigua. Cosa spinge una donna a scegliere di ripercorrere le tracce di una vita che ha sempre criticato e disprezzato? Cos'è che fa diventare una figlia sempre più simile a una madre che non ama? Perché Carla decide di diventare la donna dell'amante di sua madre? Le risposte a queste domande devono essere tutte in quella stanza, la sua camera, invariata da quando era bambina, quasi un suo alter ego; devono essere in quelle bambole dall'aspetto ormai macabro e patetico, simbolo di un'infanzia di cui Carta non si è mai saputa liberare. La finestra ben serrata isola questo microcosmo dalla realtà esterna, creando un senso di protezione e insieme di angoscia e solitudine. Fuori forse è buio, ma Carla non vuole saperlo: lì, nel suo mondo, c'è una bianca luminosità, una purezza innocente, seppure assediata dalle brutture del mondo esterno. Lo specchio, al quale Carla appena entrata si accosta come un automa (subito macchinalmente andò a guardarsi nel grande specchio dell'armadio), diventa metafora della scissione interiore della ragazza: quell'immagine di sé, familiare eppure così inquietante, quegli occhi stanchi, segnati, eppure misteriosamente scintillanti la amma­liano e la turbano, come quelli di un'estranea. Un'immagine distante offre lo specchio, che riflette il corpo nudo e impacciato di Carla, dalla testa troppo grande e le spalle esigue. Quello specchio rivela la crisi di identità della ragazza, che si guarda il corpo e l'anima e non si riconosce, non sa più se è ancora la bambina innocente che gioca con le bambole o la donna spregiudicata che si darà a Leo, imbellettata e profumata, strappata alla propria innocenza da un erotismo che non ha nulla di romantico, ma è volgare come quelle due larghe giarrettiere rosee appese presso lo specchio ovale. Leo potrà ottenere con il denaro quel corpo che Carla osserva con curiosità quasi voyeristica, soffermandosi sui vari particolari come fossero pezzi separati (le gambe... il petto... il dorso). Pian piano la ragazza si convince che è venuto il momento di separarsi da quella stanza tranquilla, pura, e senza sospetto, come se si trattasse di chinarsi a un destino che l'ha designata a diventare la donna di Leo, a prendere il posto di Mariagrazia. Nel diventare donna, dunque, Carla non sa fare altro che adeguarsi al modello offerto dalla madre, ma la sua tragedia è che i valori di Mariagrazia lei non li possiede, non ha il suo patetico entusiasmo, non ha le sue convinzioni: Carla sa che imitandola andrà incontro alla rovina.
·         A Carla e alla sua vita interiore, dunque, è dedicato questo brano degli Indifferenti. E il discorso indiretto libero da una maggiore intimità al racconto e alle riflessioni della ragazza. La voce della madre, che sembra avere già da tempo chiaro l'itinerario di vita di sua figlia (ella si sarebbe sposata e avrebbe lasciato la casa) riecheggia nella mente di Carla, mentre osserva i mobili della sua camera, rimasti invariati da quando era bambina. Il senso di sicurezza che offre quella stanza protetta traspare dai pensieri quasi infantili che le si affollano nella mente, ricchi di ripetizioni, di affermazioni risolute, quasi che Carla, come una bambina, volesse convincere se stessa a non avere paura (sì non c'era dubbio... ella era nella sua stanza, nella sua casa; era probabile che fuori di quelle mura fosse la notte; ma ella ne era separata da quella luce, da quelle cose in modo che poteva ignorarla... e pensare di essere sola, sì, completamente sola e fuori del mondo). Accanto a queste sensazioni puerili, però, si fanno spazio anche pensieri da donna: osservando il proprio corpo Carla prova insieme ritegno e voluttà, sensazioni sottolineate da espressioni che rendono il senso di peccaminosa impurità e di infantile curiosità con cui la ragazza vive la propria sessualità (osservò chinandosi che anche i grossi seni si muovevano per conto loro; e il petto... il petto era troppo basso; se lo sollevò un poco, con le due mani; tentò di sbirciarsi il dorso). Il contrasto tra le due personalità che si fronteggiano in Carla viene sottolineato dalla frequenza degli ossimori (intimità ambigua, stupore tranquillo, piacevole e lievemente angoscioso, gioia triste), mentre i condizionali sottolineano l'inettitudine, quasi sveviana, di questa donna (dovrebbe incominciare una nuova vita; avrebbe voluto piangere e pregare).

Salirono insieme, la madre e la figlia, al piano superiore; nell'anticamera la madre che offesa da quello scherzo del vestibolo non aveva detto parola[35], domandò alla fanciulla cosa avrebbe fatto il giorno dopo. «Il tennis» rispose Carla; dopo di che senza abbracciarsi andarono ciascuna nella propria stanza. In quella di Carla, la lampada era accesa, ella aveva dimenticato di spegnerla, e in quella bianca lumi­nosità pareva che i mobili e tutte le altre cose stessero in attesa della sua venuta; ella entrò e subito macchinalmente andò a guardarsi nel grande specchio dell'armadio: nulla di anormale[36] nel suo volto, fuorché gli occhi stanchi, segnati, eppure misteriosamente scintillanti; un alone tra azzurro e nero li circondava, e i loro sguardi profondi, pieni di speranze e di illusioni la turbavano come se fossero partiti da un'altra persona[37]. Restò così per un istante con le mani appoggiate sullo specchio, poi se ne staccò e sedette sul letto; si guardò intorno: la stanza per molti aspetti pareva quella di una bambina di tre o quattro anni; i mobili erano bianchi, bassi, igienici, le pareti erano candide con fregi[38] azzurri, una fila di bambole dalle teste storte, dagli occhi capovolti, neglette e cenciose[39], sedevano su quel piccolo canapè[40] sotto la finestra; l'arredamento era quello della sua infanzia e la madre a corto di quattrini non aveva potuto sostituirlo con un altro, più addicente[41] alla sua maggiore età; e del resto, le aveva detto, che bisogno c'era di un nuovo mobilio? ella si sarebbe sposata e avrebbe lasciato la casa. Così Carla era cresciuta nella cornice angusta dei suoi anni più lontani; ma la stanza non era restata come allora, nuda e infantile, ogni sua età vi aveva lasciato una traccia, gingilli o cenci; ora la stanza era piena, comoda e intima, ma d'una intimità ambigua, a volte donnesca (per esempio la teletta[42] dai nastri sciupati, coi profumi, le ciprie, le pomate, i belletti[43], e quelle due larghe giarrettiere rosee appese presso lo specchio ovale) a volte puerile[44]; e un molle disordine, tutto femminile, fatto di panni abbandonati sulle sedie, di flaconi aperti, di scarpette rovesciate, complicava l'equivoco[45].
Carla guardava queste cose con uno stupore tranquillo; nessun pensiero passava attraverso la sua con­templazione: ella stava seduta sul suo letto, nella sua camera, la luce era accesa, ogni cosa era al suo posto come le altre sere, ecco tutto... Incominciò a spogliarsi, si tolse le scarpe, il vestito, le calze... tra questi atti abitudman osservava furtivamente intorno, vedeva ora una testa irsuta di bambola, ora l'attaccapanni carico di vestiti, ora la teletta, ora la lampada... e quella luce; quella luce speciale, tranquilla, familiare che a forza d'illuminarli pareva essere negli oggetti stessi della stanza, e che insieme con la finestra ben serrata e velata da certe mezze tendine molto candide dava un senso piacevole e lievemente angoscioso di sicurezza... sì non c'era dubbio... ella era nella sua stanza, nella sua casa; era probabile che fuori di quelle mura fosse la notte; ma ella ne era separata da quella luce, da quelle cose in modo che poteva ignorarla... e pensare di essere sola, sì, completamente sola e fuori del mondo[46]. Finì di spogliarsi, e tutta nuda, scrollando la grossa testa arruffata si alzò e andò all'armadio per pren­dervi un pigiama nuovo; fece quei pochi passi con leggerezza sulle punte dei piedi; aprì il cassetto e osservò chinandosi che anche i grossi seni si muovevano per conto loro, là, sotto i suoi occhi; nel rialzarsi si vide nello specchio; la colpì l'atteggiamento goffo, se non vergognoso, di tutto il corpo nudo e poi la sproporzione tra la testa troppo grande e le spalle esigue; forse a causa dei capelli; prese uno specchio dalla mensola dell'armadio e se lo passò dietro la nuca; erano lunghi: «Bisogna che io vada dal parrucchiere» pensò.
Si guardò ancora... ecco... le gambe erano un pò storte, oh appena! dai ginocchi in giù, e il petto... il petto era troppo basso; se lo sollevò un poco, con le due mani; «dovrebbe essere così» pensò; voltò la testa, tentò di sbirciarsi il dorso; allora mentre i suoi sguardi tentavano da sopra le spalle di abbracciare per intero quella sua altra immagine, l'assalì il senso del contrasto tra la futilità di questi suoi atteggia­menti e gli avvenimenti gravi occorsi[47] in quel giorno; Leo l'aveva baciata, si ricordò, pochi minuti prima; lasciò lo specchio e tornò al letto.
Sedette, per un istante restò immobile, cogli occhi fissi in terra. «Comincia proprio una nuova vita» pensò finalmente[48]; alzò la testa e, d'improvviso, le sembrò che quella stanza tranquilla, pura, e senza sospetto, e quelle sue abitudini tra meschine e sciocche, fossero tutta una cosa viva, una sola persona dalla figura definita a cui ella andasse, senza parer di nulla, preparando sottomano un tradimento inau­dito, «tra poco... arrivederci per sempre...» si ripetè con una gioia triste e nervosa e fece un gesto di saluto da quel suo letto agli oggetti circostanti, come da una nave in partenza; delle immaginazioni pazze, vaste, tristi passavano per la sua testa, le pareva che una concatenazione fatale legasse questi avvenimenti[49]: «Non è strano?» si diceva; «domani mi darò a Leo e così dovrebbe incominciare una nuova vita... e appunto domani è il giorno in cui sono nata»; si ricordò di sua madre; «ed è col tuo uomo» pensò «col tuo uomo, mamma, che andrò». Anche questa ignobile coincidenza, questa sua rivalità con la madre le piaceva; tutto doveva essere impuro, sudicio, basso, non doveva esserci né amore né simpatia, ma solamente un senso cupo di rovina: «Creare una situazione scandalosa, impossibile, piena di scene e di vergogne» pensava; «completamente rovinarmi...». Teneva la testa bassa e ad un certo punto alzando gli occhi si vide nello specchio dell'armadio e senza saper perché incominciò a tremare per tutto il corpo; avrebbe voluto piangere e pregare, le pareva che questi pensieri tristi l'avessero già perduta. «Dove va la mia vita?» si ripeteva guardando in terra; «dove va?».
Finalmente queste parole dolenti non ebbero più alcun significato, s'accorse di non pensar più nulla, di esser nuda, di star seduta sulla sponda del letto; la lampada brillava, intorno gli oggetti stavano al loro posto di tutte le sere; dell'esaltazione di poco prima non le restava che un'amarezza vuota; le pareva di essersi con sforzo avvicinata al centro puro del suo problema e poi di averlo inspiegabilmente perso di vista.
«Succederà quel che succederà» pensò; raccolse il pigiama, pigramente lo infilò; scivolò sotto le coltri[50], spense la luce; chiuse gli occhi.


L'angoscia di esistere
Da Gli Indifferenti di A. Moravia
·         Dopo l'ennesimo tentativo andato a vuoto di intentare una lite con l'amante della madre. Michele va via dall'albergo dove Leo e gli Ardendo stanno festeggiando il compleanno di Caria. È una serata piovosa e il ragazzo, come inebetito, cammina senza meta per le strade di Roma, affollate di gente e di auto, illuminate dalle insegne della pubblicità: l'angoscia, di cui ha imparato a riconoscere i sintomi, lo attanaglia m una morsa soffocante.
·         Quasi un incubo questo vagabondare di Michele per le strade di una piovosa notte romana. Tutto sembra surreale: come in un sogno d'angoscia non si sentono voci né rumori; le luci colorate dei negozi, dei cinema, della pubblicità con ritmo inquietante illuminano a tratti il buio fondo; file interminabili di auto sembrano esseri mostruosi dotati di vita propria (le automobili... aspettavano di sciogliersi e di balzare avanti). Non ci sono volti né sguardi: la presenza umana è solo in quelle centinaia di piedi scalpiccianti nella mota, che procedono con una sicurezza e una determinazione che Michele non ha mai posseduto. Ciò che da un senso di angoscia alla scena è il fatto che ogni elemento, animato o inanimato che sia, sembra separato dagli altri, non acquista un senso nel tutto in cui è immerso, ma nel suo isolamento si trasforma in simbolo inquietante. Michele, dunque, è circondato dalla vita, ma la osserva dal di fuori, la sente estranea e distante, come separata da sé da una spessa parete di cristallo. Da ciò il senso di inadeguatezza e la crisi di identità dalla quale il ragazzo si sente schiacciato (coso sono?perché non correre, non affrettarmi come tutta questa gente? perché non essere un uomo istintivo, sincero? perché non aver fede?). Mentre procede come un automa attraversando le strade affollate senza nemmeno cercare di ripararsi dalla pioggia, l'unica sensazione che lo invade è un disgusto per la vita, fatta solo di ipocrisia. E il disgusto presto cede il posto all'ansia, di cui Michele già conosce i sintomi: prima uno sfrenato desiderio di agire per sfuggire a un malessere repentino e immotivato; poi i disturbi più propriamente fisici (la gola secca, la bocca amara, gli occhi sbarrati] e nella testa il martellare insistente dì pensieri ossessivi e di domande che restano senza risposta. L'errare senza meta nella notte diventa metafora dell'esistenza di Michele, priva di qualsiasi finalità, di qualsiasi emozione. Ciò che vorrebbe più di ogni altra cosa è provare una sensazione forte, anche dolorosa, purché vera, come quella che per un attimo, come in un flash, gli si offre improvvisamente allo sguardo: in un'automobile che gli si ferma davanti Michele riesce ad afferrare l'immagine di un uomo che non si lascia intenerire dal dolore della sua donna, nonostante il fatto che lei disperatamente gli si aggrappi al collo per suscitarne se non l'amore almeno la pietà. Un'immagine fugace, di profonda tristezza, che per Michele rappresenta però il mondo che più desidera, dove si soffriva sinceramente, e si abbracciava delle spalle senza pietà, e si supplicava invano: emozioni e sentimenti sinceri, che potrebbero squarciare lo spesso strato di indifferenza con il quale il ragazzo si protegge dall'ipocrisia del mondo borghese, che lo circonda e lo opprime.
·         Tutto il brano a livello linguistico è giocato sul ripetersi delle negazioni (non gli riusciva d'interessarsi; Non staccava gli occhi da terra, i piedi non cessavano il loro movimento) e del condizionale (avrebbe voluto è la forma verbale più frequente), che sottolineano l'incapacità di Michele di partecipare alla vita e l'impotenza di chi vorrebbe agire, ma non riesce a trovare la spinta emotiva per farlo. L'angoscia che sale nell'animo del ragazzo viene resa attraverso periodi brevi e anafore martellanti (perché non... perché non...perché non...), mentre il disgusto che Michele prova per il mondo ipocrita che lo circonda traspare dalle immagini metaforiche che si ripetono nel brano e che suscitano sensazioni spiacevoli (la strada rigurgitava di veicoli; piedi scalpiccianti nella mota; il fango schizzava da sotto i tacchi).

I marciapiedi erano affollati, la strada rigurgitava[51] di veicoli, era il momento del massimo traffico; senza ombrello sotto la pioggia, Michele camminava con lentezza come se fosse stata una giornata di sole, guardando oziosamente le vetrine dei negozi, le donne, le réclames luminose sospese nell'oscurità; ma per quanti sforzi facesse non gli riusciva d'interessarsi a questo vecchio spettacolo della strada[52]; l'angoscia che l'aveva invaso senza ragione, mentre se ne andava attraverso i saloni vuoti dell'albergo[53], non lo lasciava; la propria immagine, quel che veramente era e non poteva dimenticar di essere, lo perseguitava; ecco, gli pareva di vedersi: solo, miserabile, indifferente.
Gli venne il desiderio di entrare in un cinematografo; ce n'era uno su quella strada, assai lussuoso, il quale sulla sua porta di marmo ostentava una girandola luminosa in continuo movimento. Michele si avvicinò, guardò le fotografie: roba cinese fatta in America; troppo stupido; accese una sigaretta, riprese il suo cammino senza fiducia, sotto la pioggia, tra la folla; poi buttò via la sigaretta: niente da fare[54]. Ma intanto l'angoscia aumentava, su questo non c'era dubbio; già ne conosceva la formazione: prima una vaga incertezza, un senso di sfiducia, di vanità, un bisogno di affaccendarsi, di appassionarsi; poi, pian piano, la gola secca, la bocca amara, gli occhi sbarrati, il ritorno insistente nella sua testa vuota di certe frasi assurde, insomma una disperazione furiosa e senza illusioni. Di questa angoscia, Michele aveva un timore doloroso: avrebbe voluto non pensarci, e come ogni altra persona, vivere minuto per minuto, senza preoccupazioni, in pace con se stesso e con gli altri; «essere un imbecille» sospirava qualche volta; ma quando meno se l'aspettava una parola, un'immagine, un pensiero lo richiamavano all'eterna questio­ne; allora la sua distrazione crollava, ogni sforzo era vano, bisognava pensare[55].
Quel giorno, mentre se ne andava passo passo lungo i marciapiedi affollati, lo colpì, guardando in terra alle centinaia di piedi scalpiccianti nella mota[56], la vanità del suo movimento: «Tutta questa gente» pensò, «sa dove va e cosa vuole, ha uno scopo, e per questo s'affretta, si tormenta, è triste, allegra, vive, io... io invece nulla... nessuno scopo... se non cammino sto seduto: fa lo stesso». Non staccava gli occhi da terra: c'era veramente in tutti quei piedi che calpestavano il fango davanti a lui una sicurezza, una fiducia che egli non aveva; guardava, e il disgusto che provava di se stesso aumentava; ecco, egli era dovunque così, sfaccendato, indifferente; questa strada piovosa era la sua vita stessa, percorsa senza fede e senza entusiasmo, con gli occhi affascinati dagli splendori fallaci[57] delle pubblicità luminose. «Fino a quando?». Alzò gli occhi verso il ciclo; le stupide girandole erano là, in quella nera oscurità superiore; una racco­mandava una pasta dentifricia, un'altra una vernice per le scarpe. Riabbassò la testa; i piedi non cessavano il loro movimento, il fango schizzava da sotto i tacchi, la folla camminava. «E io dove vado?» si domandò ancora; si passò un dito nel colletto: «cosa sono? perché non correre, non affrettarmi come tutta questa gente? perché non essere un uomo istintivo, sincero? perché non aver fede?». L'angoscia l'opprimeva: avrebbe voluto fermare uno di quei passanti, prenderlo per il bavero, domandargli dove andasse, perché corresse a quel modo; avrebbe voluto avere uno scopo qualsiasi, anche ingannevole, e non scalpicciare così, di strada in strada, fra la gente che ne aveva uno. «Dove vado?»; un tempo, a quel che pareva, gli uomini conoscevano il loro cammino dai primi fino agli ultimi passi; ora no[58]; la testa nel sacco; oscurità; cecità; ma bisognava pure andare in qualche luogo; dove? Michele pensò di andare a casa sua[59]. Gli venne una subita[60] fretta; ma la strada rigurgitava di veicoli, i quali, troppo numerosi, avanzavano lentamente lungo i marciapiedi; impossibile attraversare; sotto la pioggia diagonale, tra le facciate nere e illuminate delle case, le automobili, in due file opposte, l'una ascendente e l'altra discendente, aspet­tavano di sciogliersi e di balzare avanti; anch'egli aspettò. Allora tra le altre osservò una macchina più grande e più lussuosa; nell'interno di essa sedeva un uomo che si appoggiava rigidamente contro il fondo e aveva la testa nell'ombra; un braccio gli attraversava il petto, un braccio di donna, e si capiva che ella, sedutagli al lato, gli si era accasciata sulle ginocchia, aggrappandosi con la mano a quelle spalle, come chi vuole supplicare e non osa guardare in faccia; l'uomo immobile e la donna avvinghiata stettero per un istante davanti agli occhi di Michele nella luce bianca dei fanali[61]; poi il veicolo si mosse e avanzò scivolando come un cetaceo tra le altre automobili; egli non vide più che un lumettino rosso fissato sopra la targa dei numeri; pareva un richiamo; e anche questo segno sparì.
Gli restò da questa visione una tristezza nervosa e intollerabile; egli non conosceva quell'uomo e quella donna, doveva essere gente di tutt'altro ambiente che il suo, forse stranieri; eppure gli pareva che quella scena gli fosse uscita dall'animo e fosse una delle sue ansiose immaginazioni, incorporata e offerta ai suoi occhi da qualche superiore volontà; quello era il suo mondo dove si soffriva sinceramente, e si abbrac­ciava delle spalle senza pietà, e si supplicava invano, non questo limbo[62] pieno di fracassi assurdi, di sentimenti falsi, nel quale, figure storte e senza verità, si agitavano sua madre, Lisa, Carla, Leo, tutta la sua gente; egli avrebbe potuto odiar veramente quell'uomo, veramente amare quella donna; ma lo sapeva, era inutile sperare, quella terra promessa gli era proibita, né l'avrebbe mai raggiunta.



Lo ucciderò!
Da Gli Indifferenti di A. Moravia
·         Lisa, divenuta l'amante di Michele, rivela al ragazzo di aver sorpreso Leo e Carla abbracciati. La giovane, dunque, ha ceduto al desiderio libidinoso dell'amante della madre: Michele dovrebbe sentirsi indignato e invece, in cuor suo, la cosa lo diverte e lo incuriosisce per quanto è straordinaria. Nemmeno questa rivelazione riesce a provocargli un sincero moto di collera. Turbato dalla propria freddezza, il ragazzo decide di fingersi sdegnato e adirato e promette all'incredula Lisa di uccidere Leo, quella serti stessa.
·         Michele ha acquistato una rivoltella, ha immaginato il delitto e perfino il proprio processo: ora, però, si tratta di agire davvero, deve uccidere Leo, l'amante segreto di sua madre, l'uomo che ha sedotto sua sorella e sta mandando in rovina l'intera famiglia. Ma nei suoi confronti, nonostante tutto, egli non prova altro che indifferenza. Michele stabilisce comunque che è necessario recitare la parte dell'uomo indignato (Bisogna ucciderlo; bisogna essere sdegnati, furiosi...; Bisogna montarsi), anche se l'unica cosa che vorrebbe davvero è che gli eventi accadessero senza coinvolgimento da parte sua (senza accorgersene). A mano a mano che si avvicina il momento dell'azione, l'ansia inizia ad assalirlo: il ritmo dei pensieri diventa un ossessivo martellio, la gola gli si secca, la paura e la disperazione si impadroniscono di lui. Sono sensazioni che Michele conosce già per averle più volte provate, che saprebbe descrivere nei minimi parti­colari, che accompagnano ogni momento cruciale della sua vita, quando si sente obbligato a sfuggire dalla propria indifferenza. Lentamente si è avvicinato alla casa di Leo, ma una volta riconosciuta la strada la flemma lascia il posto ad una corsa sempre più frenetica (Affrettò il passo; più presto, più presto...; improv­visamente si mise a correre; Fece di corsa due rampe): Michele non vuole più pensare, vuole precipitarsi nel baratro che il destino gli ha spalancato davanti, prima che il coraggio lo abbandoni. Di fronte a Leo, che con fare sonnolento apre la porta, appare un Michele insolitamente risoluto (diede una spinta alla porta ed entrò: «No» disse con voce ferma e turbata, «no, oggi stesso ho da parlarti...ora»). Il sarcasmo del ragazzo che ha intuito che con Leo, di là, c'è Carla, non turba affatto il suo rivale, che con la flemma arrogante di un uomo sicuro di sé precede il ragazzo in salotto. Finalmente l'odio si impossessa di Michele e lui spara. Ma la pistola è scarica: ancora una volta la tragedia non si è compiuta. Il più arduo tentativo di vincere la propria indifferenza è stato per Michele un ennesimo fallimento, e ne ha rivelato ancora una volta l'inettitudine davanti al suo nemico. Quando cala la tensione un desiderio di pianto e di dimenticate carezze materne lo prende all'improvviso: un bisogno di regressione infantile che lo rende ancora più spregevole agli occhi di Leo.
·         La martellante angoscia che si ingigantisce nella mente di Michele si riflette a livello linguistico nel ritmo ossessivo creato dalla ripetizione delle stesse espressioni (poca gente passava; mise la mano in tasca; senza troppo rumore; mia sorella...posseduta; bisognava ucciderlo). Questa scelta stilistica, che ha procurato a Moravia non poche accuse di sciatteria formale, rende invece con grande efficacia la scarsa lucidità del personaggio, l'ansia crescente che si impossessa di lui. E la distanza, l'estraneità con cui Michele avverte la realtà che lo circonda dopo il fallimento del tentativo di uccidere Leo è resa bene da quel vide Leo urlare o, più avanti, vedeva Leo dritto, immobile nel mezzo della stanza: Michele, che per un attimo era riuscito a diventare protagonista della sua vita, ritorna nell'ombra, spettatore di una realtà che continua a sentire estranea.

[...] Un freddo mortale disagio gli gelò il sangue; «Ecco, ci siamo» pensò. La strada era veramente quella che cercava[63], case nuove, candide, giardini ancor vuoti, qua e là costruzioni cariche d'impalcature, mar­ciapiedi senza selciato[64]; la campagna non doveva esser lontana; poca gente passava; nessuno si voltava per guardarlo, nessuno l'osservava.
«Eppure vado ad uccidere un uomo» pensò; frase inverosimile; mise la mano in tasca, toccò la rivoltella; uccider Leo significava ucciderlo veramente[65], toglierlo dal numero dei vivi, farne scorrere il sangue: «Bisogna ucciderlo» pensò febbrilmente, «ucciderlo... così... senza troppo rumore... così... ecco: mirare al petto... egli cade... cade in terra... mi chino, senza far rumore, con lentezza, lo finisco». La scena che doveva essere fulminea, gli appariva lunghissima, disgregata nei suoi gesti, silenziosa; un mortale malessere lo vinceva: «Bisognerebbe ucciderlo senza accorgersene» pensò; «allora sì, rutto andrebbe bene».
Il ciclo era grigio; poca gente passava; una automobile; ville; giardini; la rivoltella in fondo alla tasca; il grilletto; il calcio[66]. Si fermò un istante a guardare il numero del portone: in quei momento la propria tranquillità lo spaventò: «Se continuo con questa calma» pensò atterrito «non se ne fa nulla...: bisogna essere sdegnati, furiosi..,». Riprese il cammino, il numero ottantatré era più lontano. «Bisogna montarsi» pensò febbrilmente, «vediamo... vediamo le ragioni che ho di odiare Leo... mia madre... mia sorella... era pura pochi giorni fa... ora in quello stesso letto... nuda... perduta... Leo l'ha presa... posseduta... mia sorella... posseduta... mia sorella... posseduta... mia sorella... posseduta... mia sorella... mia sorel­la... trattata come una donnaccia... distesa in quel sudicio letto... orribile, orribile... nuda tra quelle braccia... la mia anima freme al solo pensiero... piegata al vizio di quell'uomo... mia sorella... orribile[67]».
Si passò una mano sul collo, si sentiva la gola secca. «Al diavolo mia sorella» pensò disperato ritrovan­dosi nella stessa calma di prima; tutte quelle fantasie non l'avevano scosso; guardò un portone; era già il numero sessantacinque; un'atroce paura l'invase di non sapere agire, mise la mano in tasca, strinse nervosamente la rivoltella: «Al diavolo tutti... cosa importano le ragioni... ho deciso di ucciderlo e lo ucciderò». Affrettò il passo, le case sfilavano, una dopo l'altra, più presto, più presto... bisognava ucciderlo e l'avrebbe ucciso... ecco tutto; il numero settantacinque, settantasei, una strada, settantasette, settantotto; improvvisamente si mise a correre, la rivoltella gli sbatteva contro la coscia; osservò sul marciapiede una bambina forse di dieci anni che tenendo per mano un bimbo più piccolo gli veniva incontro[68]; pensò d'incrociarli; ma raggiunse prima di loro il portone di Leo, ed entrò col rimpianto di non averli almeno sfiorati. «E ora» pensò arrampicandosi su per la scala «il più bello sarebbe non trovarlo in casa». Fece di corsa due rampe, al secondo pianerottolo, a destra, trovò la porta del suo nemico; una targa di ottone portava la scritta: Cav. Leo Merumeci.
Non suonò; voleva entrare col respiro tranquillo ed era ansante; aspettò dritto, immobile, davanti quella porta chiusa, che l'ansito[69] e i battiti del cuore si fossero calmati; ma non si calmavano; il cuore pulsava, saltava con fracasso nel suo petto, i polmoni gli si sollevavano contro volontà in un respiro doloroso. «O cuore, o respiro» pensò con un dispetto triste e nervoso, «anche voi vi mettete contro di me?». Premette con una mano il fianco, tentò di dominarsi; quanto tempo sarebbe stato necessario perché il corpo fosse stato pronto come la sua anima? Contò da uno a sessanta, ridicolmente, immobile contro quella porta silenziosa; ricominciò... finalmente, stanco, s'interruppe e suonò.
Udì il campanello echeggiare nell'appartamento vuoto; silenzio; immobilità: «non è in casa» pensò con una gioia e un sollievo profondi. «Suonerò ancora una volta per scrupolo... e poi me ne andrò» e già, apprestandosi a premere di nuovo il bottone, già immaginava di ridiscendere nella strada, andarsene per la città, libero, distrarsi; già dimenticava i suoi propositi di vendetta, quando dei passi pesanti risuona­rono sul pavimento, al di là dalla porta; poi questa si aprì e Leo apparve.
Indossava una veste da camera, aveva la testa arruffata e il petto nudo[70]; squadrò dall'alto in basso il ragazzo.
«Tu qui» esclamò con faccia e voce assonnate, senza invitarlo ad entrare; «e cosa vuoi?». Si guardarono: «Cosa voglio?» avrebbe voluto gridare Michele. «Lo sai bene, spudorato, cosa voglio». Ma si trattenne:
«Nulla» disse in un soffio, che ora il respiro di nuovo gli mancava; «soltanto parlarti». Leo alzò gli occhi; un'espressione impudente[71] e stupida gli passò sul volto: «Oh bella, parlare? a me? a quest'ora?» disse con stupore esagerato[72]; si teneva sempre nel mezzo della soglia: «E cosa vuoi dir­mi?... Senti, senti caro» soggiunse cominciando a chiudere la porta, «non sarebbe meglio un altro giorno? Stavo dormendo, non ho la testa abbastanza chiara... per esempio domani». La porta si chiudeva. «Non è vero che stavi dormendo» pensò Michele, e ad un tratto gli scaturì quest'idea: «Carla è di là... in camera sua», e gli parve di vederla nuda, seduta sul bordo del letto, in atto di ascoltare ansiosamente questo dialogo tra l'amante e lo sconosciuto visitatore; diede una spinta alla porta ed entrò: «No» disse con voce ferma e turbata, «no, oggi stesso ho da parlarti... ora».
Un'esitazione: «E sia» profferì l'altro come chi è al termine della sua pazienza; Michele entrò: «Carla è di là» pensava e un turbamento straordinario[73] lo possedeva.
«Di' la verità» profferì alfine con sforzo mentre quello chiudeva la porta, posandogli una mano sulla spalla; «di' la verità, che ho turbato qualche dolce colloquio... c'è qualcheduno di là non è vero?... eh, eh!... qualche bella ragazza[74]...». Vide l'uomo voltarsi e schermirsi con un sorriso odioso di malcelata[75] vanità: «Assolutamente nessuno... dormivo». Capì di aver colto nel segno.
Mise la mano in tasca e strinse la rivoltella; «Dormivo proprio» ripetè Leo senza voltarsi, precedendolo nell'anticamera; «dormivo profondamente e facevo dei sogni bellissimi[76]».
«Ah, sì?».
«Sì... e tu sei venuto a destarmi».
«No, colpirlo alle spalle no» pensò Michele; trasse di tasca la rivoltella e tenendo la mano contro il fianco la puntò nella direzione di Leo... appena questi si sarebbe voltato, avrebbe sparato.
Leo entrò per primo nel salotto, andò alla tavola, accese una sigaretta; avvolto nella veste da camera, come un lottatore, a gambe larghe, con la testa, arruffata e tozza, china verso l'invisibile fiammifero, egli dava l'impressione di un uomo sicuro di sé e della sua vita; poi si voltò; allora, non senza odio[77], Michele alzò la mano e sparò.
Non ci fu né fumo né fracasso; alla vista della rivoltella Leo spaventassimo si era gettato con una specie di muggito[78] dietro una sedia; poi il rumore secco del grilletto. «S'è inceppata» pensò il ragazzo; vide Leo urlare «Sei matto!» e alzare una sedia in aria mostrando tutto il corpo: si protese in avanti e sparò daccapo; nuovo rumore del grilletto. «È scarica» comprese alfine atterrito, «e le palle le ho in tasca io».
Fece un salto da parte, per evitare la seggiola di Leo, corse all'angolo opposto; la testa gli girava, aveva la gola secca, il cuore in tumulto: «Una palla» pensò disperatamente, «soltanto una palla». Frugò, arraffò con le dita febbrili alcuni proiettili, alzò la testa, tentando, curvo colle mani impazzate[79], di aprire il tamburo[80] e cacciarvi la carica; ma Leo scorse il suo gesto ed egli ricevette di sbieco un colpo di seggiola sulle mani e sulle ginocchia, così forte che la rivoltella cadde in terra; dal dolore chiuse gli occhi, poi una rabbia indicibile lo invase; si gettò su Leo tentando di stringerlo al collo; ma fu preso, scagliato prima a destra poi a sinistra, e alfine respinto con tanta violenza che dopo aver ciecamente urtato e rovesciato una sedia, cadde sul divano... L'altro gli fu subito sopra e lo prese per i polsi.
Silenzio; si guardarono; rosso, ansante, costretto in malo modo dentro il divano, Michele fece uno sforzo per liberarsi; Leo gli rispose torcendogli i polsi; altro sforzo; altra torsione; alfine il dolore e la rabbia vinsero il ragazzo: gli parve oscuramente che la vita non fosse mai stata così aspra come in questo momento nel quale, così brutalmente oppresso, gli tornava un lamentoso desiderio di certe lontanissime carezze materne; gli occhi gli si empirono di lacrime; allentò i muscoli doloranti, si abbandonò. Per un istante l'uomo lo guardò: la veste da camera era aperta, il petto nudo e peloso gli si sollevava in un respiro che ogni tanto si sfogava per le narici frementi in una specie di soffio fermo: guardava, guardava e tutta la sua persona esprimeva un minaccioso furore a stento trattenuto[81].
«Sei matto!» profferì alfine con forza scrollando la testa; e lo liberò.
Michele si alzò fregandosi i polsi indolenziti: vedeva Leo dritto, immobile nel mezzo della stanza, la sedia rovesciata e là, nell'angolo, quella cosa nera, la rivoltella... veramente tutto era finito... tutto era, stato fatto... ma non gli riusciva di capire... non sapeva se doveva mostrarsi ancora indignato o invece timoroso... guardava Leo e macchinalmente continuava a fregarsi i polsi.
«E ora» disse alfine l'uomo voltandosi verso la porta, «ora fammi il santissimo piacere di andartene». Avrebbe voluto profferire qualche violenza ma si trattenne. «E di questa tua sciocchezza» soggiunse «parlerò con tua madre[82]».
Ma Michele non si mosse: «Non mi rimprovera, non si sfoga, ha fretta ch'io me ne vada» pensò «perché teme ch'io scopra Carla... Carla è di là... nella stanza attigua». Guardava la seconda porta e quasi si meravigliava di vederla così comune ed eguale a tutte le altre, e che la presenza della sorella non vi si rivelasse in qualche modo, per esempio con un lembo di veste rimastovi serrato nel momento che precipitosamente era stata chiusa. [...]


Tutto è così... semplice!
Da Gli Indifferenti di A. Moravia
·         Il  brano è tratto dal capitolo conclusivo del romanzo: dopo il fallito tentativo di uccidere Leo, Michele, se ne torna a casa con Carla, che proprio quella sera ha deciso di sposare l'ex amante di sua madre. : sarà la sua vita futura? La ragazza continua a pensarci: reciterà la parte di donna spudorata, setta -moglie invidiata e infelice di un uomo che non ama. La malinconica maschera di Pierrot con cui parte­ciperà quella sera al ballo in casa dì amici la accompagnerà per tutta la vita.
·         Due persone svuotate e sconfitte, Michele e Carla: lui perché non è riuscito a uccidere Leo nell'estremo e disperato tentativo di uscire dall'indifferenza che lo avvinghia, sua sorella perché ha deciso di gettarsi a capofitto in una vita che sarà la sua rovina. Nel taxi che sfreccia ciecamente nell'oscurità, metafora della sua esistenza, in un angosciante susseguirsi di immagini staccate, Carla immagina il proprio futuro da donna, quando diventerà la moglie di Leo. Il passaggio all'età adulta le si presenta come qualcosa di impuro, di falso e disperato: la ragazza immagina di doversi costruire un personaggio di donna fatale, splendida ma fredda agli occhi degli altri, elegante e invidiata, statuaria e impenetrabile (Bella, donna bella ma cattiva... non sorride mai... ha gli occhi duri... sembra una statua... chissà a che cosa pensa). La signora Merumeci, quella donna che le è così estranea e con la quale dovrà imparare a convivere (signora Merumeci, strano, signora Merumeci..), condurrà una vita lussuosa, frequenterà un ambiente snob e altolocato. Ma dal momento che Leo avrà potuto averla per denaro, allora tutto dovrà essere torbido; dall'aspetto di lei dovrà trasparire la sensualità lasciva di una donna che si è lasciata comprare da un uomo più vecchio di lei, che non ama (tiene le ginocchio accavalciate, fuma... effetto di gambe, il vestito è succinto, la scollatura è profonda...): ma i suoi sguardi pieni d'indifferenza raggeleranno la bramosìa degli altri uomini. Dietro quella facciata da donna fatale, però, non potrà scomparire del tutto la purezza infantile: tra le braccia di un amante per qualche ora Carla potrà ritornare bambina, potrà gustare la gioia di una stanza dalla luce bianca, come quella della sua camera nella casa paterna, dove si sentiva al sicuro dalle brutture del mondo esterno. Di nuovo, dunque, nell'animo di Carla si fronteggiano due realtà: quella del suo mondo interiore, illuminato dalla purezza dell'infanzia, e quella falsa e sconcia del mondo esterno dal quale bisogna difendersi inventandosi un personaggio, indossando una maschera per recitare come gli altri, rispettando le regole del gioco. E con un ballo in maschera termina appunto il romanzo. Carla e Mariagrazia escono insieme da villa Ardengo per partecipare a una serata in casa di amici, i cui nomignoli vezzosi (Pippo, Mary e Fanny) sottolineano la leziosa ipocrisia di questo mondo borghese. Mariagrazia ha scelto un vestito da spagnola, tentando pateti­camente dì esaltare una sensualità che le cascanti forme senili ormai le negano; Carla sì traveste da Pierrot, malinconica maschera dell'innamorato sentimentale e sfortunato.
·         Frasi brevi organizzate in una fredda costruzione paratattica rendono ancora più soffocante l'atmosfera cupa di un paesaggio che diventa specchio dello stato d'animo dei due protagonisti. Gli aggettivi, che insistono sul freddo squallore della strada solitaria e buia lungo la quale sfreccia l'automobile (giardini fradici di pioggia; scarsi i fanali, larghi e deserti i marciapiedi; l'aria era fredda e nebbiosa; un vento umido agitava senza posa Il fogliame cupo dei giardini), rendono la scena malinconica, stagnante, desolatamente priva di vita. Nel silenzio circostante, i pensieri si affollano nella mente eccitata e stanca di Carla. Prive di coerenza sintattica, le frasi si susseguono a ritmo incalzante e dipingono il quadro desolante della sua vita futura: la monotonia quotidiana, sottolineata dalla ripetitività dei costrutti (dormire insieme, mangiare insieme, uscire insieme), diventa ossessiva nel ripetersi inesorabile delle azioni, seccamente elencate in una successione di verbi privi di ogni commento, come se tutto fosse già previsto e determinato (qualcheduno entra nel salotto; ella le viene incontro... prendono il té insieme, poi escono; la sua macchina le aspetta alla porta; salgono; partono...; suo marito la segue; si seggono, prendono il té, ballano). La maldicenza borghese si concretizza nell'incalzante mormorio che si avverte da più parti al suo ingresso in società accanto all'ex amante di sua madre: molti la guardano; Altri in piedi, laggiù presso le colonne della sala mormorano tra di loro; Tutti mormorano, pensano, la guardano; tutti l'osservano con bramosìa. Nella parte finale del brano, quando ormai tutti hanno deciso di recitare la propria parte, i verbi sottolineano la meccanicità dei gesti (si tolse il pastrano e il cappello; Ella lo guardò; Passarono nel corridoio), le frasi smozzicate che i fratelli sì scambiano sono così scarne e banali che sottolineano la lontananza e l'incomunicabilità che si è creata tra i due. Nella gelida atmosfera della serata, un doloroso e stridente contrasto è creato dalla descrizione di Mariagrazia travestita da spagnola, in cui gli aggettivi “impietosi” (faccia molle, lussureggiante belletto, guance accese, labbra vermiglie, spalle grasse) colgono ogni particolare patetico di quella maschera grottesca.

[...] La corsa dell'automobile volgeva alla fine[83]; le strade si allargavano, si spopolavano; non più case, ma ville chiare e cupi giardini fradici di pioggia; scarsi i fanali, larghi e deserti i marciapiedi. Carla seguiva attentamente la corsa e con quella stessa velocità i pensieri turbinavano nella sua mente eccitata e stanca; l'automobile era la sua vita, lanciata ciecamente nell'oscurità[84]. Avrebbe sposato Leo... vita in comune, dormire insieme, mangiare insieme, uscire insieme, viaggi, sofferenze, gioie... avrebbero avuto una bella casa, un bell'appartamento in un quartiere elegante della città... qualcheduno entra nel salotto arredato con lusso e buon gusto, è una signora sua amica, ella le viene incontro... prendono il té insieme, poi escono; la sua macchina le aspetta alla porta; salgono; partono... Ella si sarebbe chiamata signora, signora Merumeci, strano, signora Merumeci... Le pareva di vedersi[85], un pò più alta, più grande, le gambe ingrossate, i fianchi più larghi, il matrimonio ingrassa, dei gioielli al collo e sulle dita, ai polsi; più dura, più fredda, splendida ma fredda, come se avesse avuto, là, dietro quei suoi occhi rigidi, un segreto, e per conservarlo nascosto, avesse ucciso nella sua anima ogni sentimento. Così atteggiata, vestita elegantemente, eccola entrare nella sala affollata di un albergo; suo marito la segue, Leo, un pò più calvo, un pò più grasso, ma non molto cambiato[86]; si seggono, prendono il té, ballano, molti la guardano e pensano; «Bella, donna bella ma cattiva... non sorride mai... ha gli occhi duri... sembra una statua.,, chissà a che cosa pensa», Altri in piedi, laggiù presso le colonne della sala mormorano tra di loro: «Ha sposato l'amico di sua madre... un uomo più vecchio di lei... non lo ama e certamente deve avere un amante». Tutti mormorano, pensano, la guardano; ella sta seduta accanto a quel suo marito[87], tiene le ginocchia accavalciate[88], fuma... effetto di gambe, il vestito è succinto[89], la scollatura è profonda... tutti l'osservano con bramosia[90] come se volessero morderla; ella risponde loro con sguardi pieni d'in­differenza... Una camera… ecco: la signora Merumeci, m ritardo per qualche visita di obbligo, corre incontro al suo amante; tra quelle braccia perde quella sua durezza di statua, queste donne rigide sono sempre le più ardenti, ridiventa fanciulla, piange, ride, balbetta, è come una prigioniera liberata che rivede alfine la luce... la sua gioia è la purezza, ritrovata. Poi, quando vien l'ora, stanca e felice, torna alla casa coniugale e ricompone sul suo volto l'abituale freddezza... La sua vita continua così per degli anni... molti la invidiano... ella è ricca, si diverte, viaggia, ha un amante, che più? tutto quel che può avere una donna lo ha... L'automobile si fermò; discesero; non pioveva più; l'aria era fredda e nebbiosa; un vento umido agitava senza posa il fogliame cupo dei giardini. Carla saltò agilmente la larga pozza che si frapponeva fra il marciapiede e la via, e dritta, in piedi sotto un fanale, aspettò che il fratello avesse pagato; allora osservò, arenata[91] sull'orlo della strada, come un cetaceo lasciato lì dall'alluvione, una forma nera e lunga, una grande automobile[92]; il cofano brillava; col berretto calato sugli occhi, incastrato sul suo sedile, il conduttore dormiva. «La macchina di Berardi» ella pensò stupita, e ad un tratto si ricordò di quell'invito per il ballo mascherato. «Michele» disse al fratello che le veniva incontro scavalcando con precauzione le pozze del fossato; «la macchina dei Berardi».
«Già» egli osservò con rapida occhiata all'automobile: «saranno venuti a prenderci».
Entrarono nel parco; l'attraversarono in silenzio, guardando con cautela dove mettevano i piedi; rumore della ghiaia calpestata; umidità; ombre cupe e fantastiche contro il cielo nebbioso; vasto fruscio oceanico dei grandi alberi; senso di tregua; non pioveva più[93].
Nel vestibolo caldo e illuminato Michele si tolse il pastrano[94] e il cappello: «Carla» disse alfine alla sorella che sulla soglia della porta lo aspettava: «quando parlerai a mamma di questo matrimonio?». Ella lo guardò: «Domani» rispose tranquillamente[95].
Passarono nel corridoio; un rumore di voci e di risa arrivava dal salotto; la fanciulla si avvicinò alle tende che nascondevano quella porta, le allargò con precauzione, spiò per un istante: «Sono tutti là» disse voltandosi; «tutt'e tre... Pippo, Mary e Fanny».
Salirono la scala; nell'anticamera vennero loro incontro la madre e Lisa; la madre si era già travestita da spagnuola: aveva la faccia molle e patetica tutta impiastricciata di un lussureggiante belletto[96], guance accese e punteggiate di nei, labbra vermiglie[97], occhi affogati in una languida tintura nera; il costume da spagnuola, lungo e tutto nero, le ondeggiava intorno ad ogni dondolìo dei fianchi, con una molle abbondanza di pieghe; un sontuoso velo ricamato a giorno le ricadeva dal largo pettine di tartaruga sulle spalle grasse, sulle braccia larghe, tra le mani un ventaglio di piume di struzzo, sorrideva stupidamente e come paurosa di turbare con qualche movimento l'equilibrio della sua acconciatura, camminava con la testa dritta e rigida; al suo fianco, come il giorno accanto alla notte, stava Lisa, biondiccia, di una bianchezza farinosa[98], tutta vestita di chiaro. Appena vide Carla e Michele la madre venne loro incontro: «E tardi» gridò prima ancora che avessero finito di salire. «I Berardi aspettano già da un quarto d'ora».


Don Ciccio Ingravallo
Da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana[99] di Carlo Emilio Gadda
·         Il romanzo si apre con la presentazione del protagonista, il dottor Francesco Ingravallo, commissario della, squadra mobile. Già il cognome un po' buffo e poco elegante ci fa inquadrare il tipo. Don Ciccio, come tutti oramai lo chiamavano, sembra un paesanotto: tozzo, bruno di capelli, dall'aspetto e dai modi un po' ‘grossier’, dal linguaggio colorito e ruspante, un misto di napoletano, molisano e romanesco. Don Ciccio con la sua fronte bassa e ricoperta da una capigliatura folta e lucida farebbe pensare a una persona rozza; il suo aspetto sonnolento parrebbe indice di un'intelli­genza torbida e lenta. Invece Ingravallo è un uomo colto, acuto, con una sua teoria sulla realtà alquanto sofisticata, una teoria infallibile, che gli permette di districare i casi più ‘tenebrosi’.
·         È la teoria dello gnommero, del gomitolo, come lui stesso la definisce. La realtà, secondo don Ciccio, non va interpretata secondo la relazione lineare di causa-effetto, poiché ogni evento non è la conseguenza di una sola causa, ma di un groviglio di cause, anche lontane: alcuni fattori, che apparentemente sembrerebbero ininfluenti per spiegare un evento, si rivelano a ben guadare illuminanti, riescono a far rintracciare il bandolo della matassa (La causale apparente, la causale principe, era si, una. Ma il fattaccio era l'effetto di tutta una rosa di cause!). Un assioma fondamentale da cui partire per don Ciccio è quello di ricercare sempre, tra la rosa delle cause, il movente erotico (un certo «quanto di erotta»), e quindi di cercare sempre le donne (I' femmene se retroveno addo' ni vuò truvà), perché molto spesso sono loro il movente dei delitti, anche di quelli che sembrerebbero causati solo da interessi economici. È chiaro che questa teoria ha molto di freudiano, infatti Sigmund Freud (1856-1939), fondatore della psicoanalisi, affermava che nell' inconscio si agitano tendenze erotiche ("complessi") che la coscienza cerca di celare e che si manifestano solo in modo indiretto attraverso i sogni, le opere d'arte, i riti religiosi, i lapsus. Da questa lotta tra inconscio e coscienza possono derivare le "nevrosi", turbamenti dei comportamenti che la psicoanalisi ritiene di poter curare svelandone l'origine. E dalla nevrosi può nascere il delitto. Come succede nel caso della contessa Liliana Balducci. La famiglia Balducci è composta dal conte, una persona menefreghista, un caprone, come ce lo presenta don Ciccio, del quale certo non gode la simpatia, e dalla moglie, la contessa Liliana, una donna raffinata e gentile, una vera signora, dalla voce melodiosa. E in casa Balducci, come in ogni casa signorile che si rispetti, non poteva mancare l'odiosissima cagnetta (la Lulù, la canina pechinese), che richiama immediatamente la «vergine cuccia» di pariniana memoria. Eppure, dopo l'efferato delitto di cui la contessa è vittima, Ingravallo suo malgrado dovrà rassegnarsi nel corso delle indagini a rimestare in un pasticciaccio brutto: la contessa, infatti, accoglieva in casa ragazze del popolo che faceva passare per nipotine, le riempiva di doni come per fare opera di carità, ma in effetti aveva con loro un rapporto lesbico. A casa Balducci, dunque, le ragazze si avvicendavano continuamente: una di loro, una vera bellezza campagnola, Ingravallo l'aveva conosciuta all'ultimo pranzo al quale era stato invitato (pareva una sposa di campagna, coronata di trecce nere, forte, ampia, da tener lei tutto il letto: ceni occhi! Un davanti! Un didietro! Da sognarseli di notte, commenta don Ciccio); Ora, invece, ne trova un'altra, molto più giovine, appena uscita dall'infanzia... una ragazzina co la treccia a pennolone, che armava a scoia da le maniche.
·         Trentacinquenne, bruno, tarchiato, con la fronte bassa e una gran massa di capelli neri, lucidi e crespi: è il commissario Francesco Ingravallo, Don Ciccio, per intenderci. Molisano di origine, di primo accinto sembrerebbe un contadinotto, anche per quel suo modo di parlare cosi particolare, colorito, un misto di romanesco, napoletano e molisano. Eppure, basandosi su una sua teoria tutta particolare, don Ciccio riesce a risolvere con improvvise illuminazioni anche i casi più complessi. Come quello dell’ omicidio della contessa Liliana Balducci, in via Merulana.

Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio[100]. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile[101]: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo[102] ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po' tozzo, di capelli neri e folti e cresputi[103] che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d'Italia[104], aveva un'aria un po' assonnata, un'andatura greve e dinoccolata[105], un fare un po' tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario[106] statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d'olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana. Una certa praticacela del mondo, del nostro mondo detto «latino[107]», benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne[108]. La sua padrona di casa lo venerava, a non dire adorava: in ragione di e nonostante quell'arruffio strano d'ogni trillo[109] e d'ogni busta gialla imprevista, e di chiamate notturne e d'ore senza pace, che formavano il tormentato contesto del di lui tempo[110]. «Non ha orario, non ha orario! Ieri mi è tornato[111] che faceva giorno!». Era, per lei lo «statale distintissimo» lungamente sognato, preceduto da cinque A sulla inserzione del Messaggero[112], evocato, pompato fuori dall'assortimento infinito degli statali con quell'esca della «bella assolata affittasi[113]» e nonostante la pe­rentoria intimazione in chiusura: «Escluse donne»: che nel gergo delle inserzioni del Messaggero offre, com'è noto, una duplice possibilità d'interpretazione[114]. E poi era riuscito a far chiudere un occhio alla questura su quella ridicola storia dell'ammenda... sì, della multa per la mancata richiesta della licenza di locazione... che se la dividevano a metà, la multa, tra governatorato e questura[115]. «Una signora come me! Vedova del commendatore Antonini! Che si può dire che tutta Roma lo conosceva: e quanti lo cono­scevano, lo portavano tutti in palma de mano, non dico perché fosse mio marito, bon' anima! E mo me prendono per un'affittacamere! Io affittacamere? Madonna santa, piuttosto me butto a fiume[116]». Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d'agnello d'Astrakan[117], nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s'intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. Così quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improv­viso d'uno zolfanello illuminatore[118], rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. «Già!» riconosceva l'interessato: «il dottor Ingravallo me l'aveva pur detto». Sosteneva, fra l'altro che le inopinate[119] catastrofi non sono mai la conseguenza o l'effetto che dir si voglia d'un unico motivo, d'una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti[120]. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo[121]. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente[122] di bocca: quasi contro sua voglia. L'opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa[123]» quale avevamo dai filosofi da Aristotele[124] o da Emmanuele Kant[125], e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceo della parrucca. Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno!... Già. Si me chiammeno a me... può sta ssicure ch'è nu guaio: quacche gliuommero... de sberretà[126]...» diceva contaminando napolitano, molisano e italiano.
La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l'effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti[127] quando s'avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo». Come si storce il collo a un pollo. E poi soleva dire, ma questo un po' stancamente, «ch'i' femmene se retroveno addo' n'i vuò truvà[128]». Una tarda riedizione italica del vieto «cherchez la femme[129]». E poi pareva pentirsi, come d'aver calunniato 'e femmene, e voler mutare idea. Ma allora si sarebbe andati nel difficile. Sicché taceva pensieroso, come temendo d'aver detto troppo. Voleva significare che un certo movente affettivo, un tanto o, direste oggi, un quanto di affettività, un certo «quanto di erotica[130]», si mescolava anche ai «casi d'interesse», ai delitti apparentemente più lontani dalle tempeste d'amore. Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più edotto dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano che leggesse dei libri strani: da cui cavava tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari. Erano questioni un po' da manicomio: una termino­logia da medici dei matti[131]. Per la pratica ci vuoi altro! I fumi e le filosoficherie son da lasciare ai trattatisti: la pratica dei commissari e della squadra mobile è tutt'un altro affare: ci vuole della gran pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a posto: e, quando non traballi tutta la baracca dei taliani, senso di responsabilità e decisione sicura, moderazione civile; già: già: e polso fermo[132]. Di queste obiezioni così giuste lui, don Ciccio, non se ne dava per inteso: seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta[133], regolarmente spenta. Per il 20 febbraio, domenica, Sant'Eleuterio, i Balducci lo avevano invitato a pranzo: «Alle tredici e mezzo, se le è comodo». Era, disse la signora, «il genetliaco di Remo[134]»: e infatti Remo, all'anagrafe, era stato inscritto come Remo Eleuterio, e poi battezzato per tale a San Martino ai Monti, così da rammen­tare il natalizio[135]. «Due nomi poco graditi a chelli 'rrecchie», pensò don Ciccio, «sia l'uno che l'altro». Per un menefreghista di quel calibro erano addirittura sprecati[136]. L'invito, comme Tata vota, gli era stato fatto per telefono due giorni avanti, con una chiamata «dall'esterno» al Collegio Romano, cioè a Santo Stefano del Cacco[137]. Prima, una voce melodiosa, gli aveva parlato la signora: «Sono Liliana Balducci»: era poi subentrato il caprone, il Balducci uomo, a rincalzo. Don Ciccio, dopo aver santificato la festa dal barbiere, portò una bottiglia d'uoglie alla signora[138]. Il pranzo domenicale fu lieto, nella luce d'un meraviglioso pomeriggio, rimasti al marciapiede i coriandoli e qualche gentile bautta[139], quacche trombetta, qualche azzurra. Cenerentola o nerovellutato diavoletto. Parlarono di caccia: di battute e di cani: di fucili: poi di Petrolini[140]: poi dei vari nomi che danno al mùgine lungo il litorale tirrenico, da Ventimiglia al Capo Lilibeo[141]: poi dello scandalo del giorno, la contessina Pappalòdoli: ch'era scappata di casa con un violinista: polacco, naturalmente. A diciassett'anni. Una storia che non finiva più. Al suo entrare, la Lulù, la canina pechinese, un gomitolo, aveva abbaiato: con molta stizza, anche: be', lasciati i ringhi, gli aveva fiutato a lungo le scarpe. La vitalità di questi mostriciattoli è una cosa incre­dibile. Verrebbe voglia di accarezzarli, poi di acciaccarli[142]. A tavola eran quattro: lui don Ciccio, i coniugi e la nipote. La nipote, però, non era quella dell'ultima volta, cioè del giorno di San Francesco, ma molto più giovine: appena uscita dall'infanzia. Quella dell'ultima volta, cioè a San Francesco, era una nipote per modo di dire; pareva una sposa di campagna, coronata di trecce nere, forte, ampia, da tener lei tutto il letto: certi occhi! un davanti! un didietro! Da sognarseli di notte. Questa qui era una ragazzina co la treccia appennolone[143], che annava a scola da le moniche. [...]


Ritratto della borghesia fascista
da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda
·         Siamo nel marzo 1927. Mussolini, dopo aver definitivamente superato la crisi susseguente al delitto Matteotti ed aver concentrato in sé tutti i poteri, ha affermato uno stato totalitario. Senza questi particolari riferimenti al contesto storico, vanno perdute essenziali stratificazioni interpretative del romanzo, nel quale Gadda vuole far emergere una più radicale omologia tra regime e delitto: l’assassinio Balducci, in cui si intravede la furia della ‘belva infinita’, è la metafora del grande misfatto del Fascismo.
·         Sarcasmo, omologia, terreno di coltura sono le dimensioni in cui si intersecano Fascismo, la grande storia, e trama narrativa, la piccola storia, producendo un sostanziale arricchimento di senso che si apre sui temi del male e del rapporto tra questo e la  società umana.
·         Il clima storico è fondamentale per cogliere il tono dell’opera: attraverso uno schema narrativo fluido e ricco, anche un elemento minimo, apparentemente casuali e trascurabili diventano il nodo di un sistema di relazioni, un pretesto per divagare tra le innumerevoli possibilità offerte dal mondo della conoscenza. Gadda, con la sua esuberanza linguistica, si scaglia contro la società rigida, ipocrita ed ottusa della borghesia fascista, con tutti i suoi miti fasulli: l’efficientismo degli apparati burocratici, la fertilità come unica prerogativa femminile, la virilità ostentata e arrogante, una famiglia che, dietro l’apparente solidità, nasconde violenza e sopraffazione. Anche la scelta del personaggio femminile principale è in linea con questo: Liliana Balducci è una donna che non può avere figli e che a causa di questo handicap, in quanto lo stato fascista favoriva ed esaltava la fecondità, appare psicologicamente instabile tanto da dover sempre accogliere in casa giovani ragazze o giovani parenti per ovviare alla mancanza di una prole propria. Un altro motivo antitetico con l'opera moralizzatrice del nuovo governo è la scelta di sviluppare gli effetti di un delitto: i giornali nazionali pilotati dal regime, non potessero dare grande attenzione ed importanza ai fatti di cronaca nera che avrebbero intaccato l'Italia nella sua immagine idillica ed eticamente perfetta, che il Fascismo stava cercando di costruire.
·         Gadda ricostruisce la società del periodo fascista dal punto di vista del popolo semplice che sembra ancora ‘incontaminato’ dalla falsa immagine che il nuovo Stato vuole dare all'Italia. I personaggi che appaiono non occupano gradi elevati della società altrimenti, se così fosse, si contribuirebbe ancor più alla causa fascista. Quando raramente Gadda accenna ad alti funzionari di polizia si può osservare come questi uomini vivano in un mondo ‘altro’ rispetto a quello in cui si svolge la storia, un mondo distaccato dagli eventi concreti, un mondo fittizio in cui tutto sembra andare per il meglio e dove ogni fattaccio appare come insignificante e facilmente riconducibile alla normalità (i giornali infatti avevano dato poca importanza al delitto di Via Merulana).
·         Gadda vuole fare col ‘Pasticciaccio’ un'attenta analisi della realtà umana. Egli pone su due strade parallele l' intreccio del racconto e la ricerca della verità: da una parte l'indagine per scovare il colpevole dei misfatti accaduti a via Merulana, dall'altra, l'uomo che cerca di capire che cosa sia davvero il mondo in cui vive, con tutte le incertezze e le complicazioni che nascono man mano che va avanti con questa duplice ricerca, la quale muove sia all'infuori dell'individuo che al suo interno senza avere mai fine. Da ciò deriva l'esigenza di non porre termine al libro, ma di lasciarlo in sospeso su un'illuminazione improvvisa del protagonista: Ingravallo avrà per caso scoperto l'artefice dei reati? L'uomo scoprirà la chiara e unica verità circa se stesso e la realtà che lo circonda? Non lo sappiamo e, di certo, l'autore non illude nessuno di saperlo, quindi non si assume la responsabilità di trarre delle conclusioni al riguardo. Certo, vista nell'ottica di un romanzo questa decisione è discutibile, però da un  punto di vista più profondo ciò è completamente accettabile, anzi rende l'opera ancora più completa. Nel Pasticciaccio gli uomini appaiono così, come sono, costruzioni complicate, perverse, fallaci, la cui ragione è debilitata per un motivo semplicissimo: gli uomini sono imperfetti. Perché il mondo è imperfetto? Perché non vi è una sola causa che genera il vivere (e l'omicidio) ma un groviglio di cause concatenate: se le cose della vita fossero perfette, allora non sarebbe vita e noi non saremmo uomini.

All’annuncio un pò canoro e un pò pecoraro dell’Assunta[144]: «C’è er signorino Giuliano[145]», gli pareva, all’Ingravallo[146], ch’ella avesse come trasalito[147]: o arrossito, anche: d’un rossore «sottocutaneo», impercettibilmente.
Quando i due agenti gli dissero: «Se so’ sparati a via Merulana: ar ducentodicinnove: su le scale: ner palazzo de li pescicani...», un fiotto[148] di sangue incuriosito, forse angosciato, gli inondò il ventricolo di destra. «Ducentodiciannove?» non po­té a meno di chiedere: pure, in tono distratto. E ricadde subi­to in quella tale specie di sonnolenza lontana, ch’era, in lui, la maschera del senso d’ufficio, Intanto gli entrò nella stanza il capo della investigativa. Aveva il Messaggero ancora indelibato[149] e un petalo, un solo petalo bianco all’occhiello. «Sciure ‘e màndurlo,» pensò Ingravallo interrogando il superiore con gli occhi. «Il primo della stagione. Mo ce pàveno pure ll’ammennole.»
«Ci andate voi, Ingravallo, a via Merulana? Vedete nu poco. Na fesseria, m’hanno detto. E stamattina, con chell’ata storia della marchesa dì viale Liegi... e poi ‘o pasticcio ccà vi­cino, alle Botteghe Oscure: e poi chillo buche ‘e violette: ‘e ddoje cugnate e ‘e ttre nepote: e poi avimmo de pelà la coda dell’affare nuosto: e poi, e poi,» si portò una mano alla fronte, «mo ce vo, chella scocciatura d’ ‘o sottosegretario. Fin a ‘ncoppa a ‘a capa, ve dico. Sicché faciteme ‘o favore, jàtece vuje. »
«Jàmmoce,» disse Ingravallo, e poi borbottò: «Jamecenne», e prese giù, dal piolo[150], il cappello. Il male infitto cavicchio[151] si disincastrò e cadde al suolo, come ogni volta, indi rotolò per un pezzetto; lui lo raccolse, rificcò la radichetta[152] mencia[153] den­tro al buco: e con la manica dell’avambraccio, quasi fosse una spazzola, diede una lisciatina al cappello nero, così, lungo il nastro. I due agenti gli andaron dietro, quasi per un tacito or­dine del commissario-capo: erano Gaudenzio, noto alla malavita come er Biondone, e Pompeo, detto invece lo Sgranfia.
Saliti sul PV[154] e discesi appunto al Viminale, presero il tram di San Giovanni. Sicché in una ventina di minuti raggiunsero il civico ducentodicinnove.
Il palazzo dell’Oro, o dei pescicani che fusse, era là: cinque piani, più il mezzanino, intignazzato e grigio. A giudicare da quel tetro alloggio, e dalla coorte delle finestre, gli squali do­vevano essere una miriade: pescecanucoli di stomaco ardente, quest’è certo, ma di facile contentatura estetica. Vivendo sott’acqua d’appetito e di sensazioni fagiche[155] in genere, il grigiore o certa opalescenza[156] superna[157] del giorno era luce, per loro: quel po’ di luce di cui avevano necessità. Quanto all’oro, be’, sì, poteva darsi benissimo ci avesse l’oro e l’argento. Una di quel­le grandi case dei primi del secolo che t’infondono, solo a ve­derle, un senso d’uggia[158] e di canarinizzata contrizione: be’, il contrapposto netto del color di Roma, del cielo e del fulgido sole di Roma. Ingravallo, si può dire, la conosceva col cuore: e difatti un lieve batticuore lo prese, ad avvicinare coi due agen­ti la ben nota architettura, investito di tanta e tanto risolutiva autorità.
Davanti al casermone color pidocchio, una folla: circonfusa d’una rete protettiva di biciclette. Donne, sporte[159], e sedani[160]: qualche esercente d’un negozio di là, col grembiule bianco: un «uomo di fatica» e questo col grembiule rigato, e col naso in veste e in colore d’un meraviglioso peperone: portinaie, domestiche, ragazzine delle portinaie che strillavano «a Peppì!», maschietti col cerchio, un attendente saturo d’arance, prese in una sua gran rete, con in cima i ciuffetti di due finocchi, e di pacchi: due o tre funzionari grossi, che in quell’ora matura agli alti gradi avevano appena disciolto le vele: diretti, ciascu­no, al suo ministero: e un dodici o quindici tra perdigiorno e vagabondi vari, diretti in nessun luogo. Un portalettere in istato di estrema gravidanza, più curioso di tutti, dava, della sua borsa colma, in culo a tutti: che borbottavano mannaggia, e poi ancora mannaggia, mannaggia, uno dopo l’altro, man mano che la borsona perveniva ad urtarli nel didietro. Un monello, con serietà tiberina[161], disse: «Sto palazzo, drento c’è più oro che monnezza.» Tutt’attorno, la fascia delle ruote delle biciclette, come un derma sui generis[162], pareva rendere impene­trabile quella polpa collettiva.
Aiutato e quasi preceduto dai due agenti, Ingravallo si fece largo. «‘A polizzia,» disse qualcuno. «Fa’ passa lo Sgranfia, a maschiè... Addio, Pompè! Che, l’hai agguantato, er ladro?... Mo c’è er bionno...» Il portone socchiuso era guardato da un brigadiere di pubblica sicurezza del commissariato San Giovanni. La portinaia, vistolo «transitare», lo aveva chiamato al soccorso: poco dopo il fatto, e poco avanti il sopravvenire dei due della mobile, cioè Gaudenzio e Pompeo: lo conosceva da un pezzetto, per via delle denunce di locazione e del registro degli inquilini. Il fattaccio era occorso un’ora prima, ch’era poco dopo le dieci: n un’ora incredibbile! Nell’andito[163] e in por­tineria un’altra piccola folla, inquilini dello stabile: il cicalec­cio[164] delle donne, Ingravallo, seguito dalla portinaia e dai due, e dai commenti di tutti, «‘a polizzia, ‘a polizzia», salì al terzo piano, scala A, dove abitava la derubata. Giù seguitò la gran ciarla[165]: le voci spiegate o addirittura canore delle femmine, emulate[166] da qualche trombone maschio, a quando a quando ne venivano addirittura sopraffatte: come le cervici[167] chine delle vacche dalle gran corna del toro: la ragione della folla racco­glieva i trefoli[168] delle testimonianze iniziali, dei «giuro che l’ho visto»: principiava a intortigliarli in un epos[169]. Si trattava di un furto, più precisamente di una rapina a domicilio, manu ar­mata.
Una cosa piuttosto grave, per vero. La signora Menegazzi[170], poco dopo lo spavento, era anche svenuta. La signora Liliana[171] si era «sentita male» a sua volta, appena uscita dal bagno. Don Ciccio raccolse e verbalizzò sui due piedi quanto potè raccogliere, del fiotto irrompente, da quel primo testimoniale: principiò dalla portinaia, concedendo alla Menegazzi il tempo di pettinarsi e agghindarsi[172] un poco: in suo onore, si sarebbe detto. Aveva carta e stilografica, omise i: «Gesù, Gesù mio bello! Sor commissario mio!» e altre interiezioni-invocazioni di cui la «signora» Manuela Pettacchioni[173] non tralasciava d’in­zeppare il suo referto: un drammatico racconto. Il portiere coniuge, fattorino alla «Centrolatte Fontanelli», sarebbe rinca­sato alle sedici.
«Gesummaria! Prima aveva sonato alla sora Liliana...» «Chi?» «Ma l’assassino...» «Ma qua’ assassine si nun ce sta ‘o muorto?» La sora Liliana (Ingravallo trepidò), sola in casa, non aveva aperto, «Era nel bagno... si... stava facendo il ba­gno. » Don Ciccio, senza volerlo, si passò una mano sugli oc­chi, quasi a schermirsi[174] d’un fulgore troppo vivo. La donna di servizio, l’Assunta, era partita alcuni giorni prima per casa sua: aveva il padre malato come hanno spesso le donne di servizio, «tanto più a questi lumi di luna». La Gina[175] era a scuola tutto il giorno: ar Sacro Gore, da le moniche: dove ci faceva colazione e anche merenda, alle volte. Allora, «si vede», come nessuno rispondeva, «è chiaro... certo», il malvivente aveva sonato alla Menegazzi: sì, lì, proprio lì, sullo stesso piano, di­rimpetto a quello dei Balducci: l’uscio di faccia. Oh! don Ciccio conosceva bene quel piano, e quell’altro uscio!
La Menegazzi, ravviati i capelli, entrò di nuovo in scena, tossendo leggermente. Un gran foulard lillà attorno al collo, che sul davanti appariva scarno e appassito: un tono languido di tutta la traumatizzata persona. Un négligé[176] un po’ imprevi­sto, tra giapponese e madrileno[177], tra la mantiglia[178] e il chimono. Un baffo bleu sul volto piuttosto vizzo[179], la pelle pallida, come d’un geco infarinato, le labbra fatte di due cuori congiunti smaltate in un rosso fragola dei più procaci, le conferivano l’a­spetto e il prestigio formale momentaneo d’una tenutaria o ex-frequentatrice d’una qualche casa d’appuntamenti un po’ scaduta di rango: non fosse stato invece quel tanto di neovirginale[180] e di rasciutto, e la tipica sollecitudine-devozione delle indelibate[181], a collocarla senza preventivo sospetto nel romanti­co elenco delle disponibili, oltreché donne per bene. Era vedova. La mantiglia-vestaglia si soprapponeva al foulard, ai foulards anzi, non uno ma due, incipriati[182] loro pure e vagamen­te modulati nei toni, che sfumavano il primo nel secondo e il secondo nei tenui pètali, o forse farfalle, di quel chimono un tantino castigliano. Accavallò il suo referto a quello della por­tinaia, dirizzando, precisando. Interloquiva con un tremito nella voce, nella povera voce, con una speranza negli occhi. Non forse la speranza di riavere i suoi ori, ma la certezza... di usufruire della protezione della legge, così validamente imper­sonata da Ingravallo. Al sentir sonare, la Menegazzi aveva emesso il solito «chi è?»: rifece il verso, tra preoccupato e lamentoso, che faceva ogni volta al primo trillare del campanel­lo. Poi aveva aperto. L’assassino era un giovane alto col ber­retto, in tuta grigia da meccanico, almeno le parve, scuro in viso, con una sciarpa di lana verde-bruno. Un bel giovane, sì, un toso franco[183]. Ma un tipo che incuteva subito una impressio­ne di paura. «Com’era il berretto?» chiese don Ciccio segui­tando a scrivere. «Cera... Veramente, gnomo, gnomo, no me ricordo ben come che gera[184], no savaria dirghe[185]. » «E voi?» fece alla portinaia: «Quando è scappato, che v’è corso via sotto agli occhi? non l’avete visto, voi? non mi potete dire com’era, sto berretto?...»
«Ma, sor commissario mio... un’emozzione così! Chi ce pensa, ar beretto, in queli momenti? Che ve pare?... Diteme voi, quanno che spareno tutti sti còrpi, si ve pare che una si­gnora pò pensà ar beretto... »
«Era solo?» «Solo, solo,» fecero le due donne all’unisono. «Ah! signor commissario,» implorò la Menegazzi, «ci aiuti lei: lu ch’el pol giutarne[186]. Ci aiuti lei, per carità, Maria Vergi­ne. Una vedova! Sola in casa, Maria Vergine! Che brutto mondo ch’el xe questo! Questi no i xe manco omini, questi i xe diavoli! Anime de bruti diavoli che i ne torna indrìo[187] da l’in­ferno...»
La Menegazzi, come tutte le donne sole in casa, trascorreva le ore in uno stato di angustia[188] o per lo meno di dubitosa e tor­mentata aspettativa. Da un po’ di tempo quel suo perenne pavore nei confronti del trillo del campanello s’era intellettualiz­zato in un complesso di immagini e di figurazioni ossedenti[189]: uomini mascherati, in primo piano, e con le suole di feltro[190] ai piedi; repentine[191] per quanto tacite irruzioni in anticamera; martellate in capo o strangolamento a mano, o mediante ap­propriata cordicella, eventualmente preceduto da «servizzie»: idea o parola, questa, che la riempiva di un orgasmo indicibi­le. Angosce e fantasie miste: con il commento, magari, d’un batticuore improvviso, per un improvviso crac, nel buio, di un qualche armadio più stagionato degli altri: comunque, antici­pate cupidamente all’evento. Il quale, dai e dai, non potè a meno, alfine, di arrivare davvero anche lui. La lunga attesa dell’aggressione a domicilio, pensò Ingravallo, era divenuta coazione[192]: non tanto a lei e a’ suoi atti e pensieri, di vittima già ipotecata, quanto coazione al destino, al «campo di forze» del destino. La prefigurazione d’ ‘o fattacce s’era dovuta evolvere a predisposizione storica: aveva agito: non pure sulla psiche della derubanda-iugulanda-sevizianda[193], quando anche sul «campo» ambiente, sul campo delle tensioni psichiche ester­ne.
Perché Ingravallo, similmente a certi nostri filosofi, attri­buiva un’anima, anzi un’animaccia porca, a quel sistema di forze e di probabilità che circonda ogni creatura umana, e che si suoi chiamare destino. In parole povere, la gran paura le aveva portato scarogna, alla Menegazzi. Il pensiero dominan­te, a ogni trillo, soleva coagularsi in quel «chi è?», belato[194] o ra­glio[195] abituale d’ogni reclusa che i mesti lari[196] non arrivino a pro­teggere. In lei era una gemebonda[197] antifona[198] al trillo, alle più casalinghe istanze del campanello.
Risultò che il giovanotto, appena la signora Teresina[199] si ri­solvette a sganciare la catenella ed aprì, si disse incaricato, dall’amministrazione dello stabile, di una visita ai termosifo­ni: che doveva ispezionare uno a uno. C’era stata difatti, gior­ni prima, una questione dei termosifoni, che alla fine ufficiale dell’inverno con riscaldamento erano ancora più tepidi (verso il freddo) della voglia di spendere degli inquilini.
La fiamma d’ogni eventuale impianto termico, a Roma, si estingueva a marzo alle idi[200], ma talora invece a le none[201] o addi­rittura a le calende[202]. Negli inverni doppi ad epilogo protratto, come fu quello del ventisette, la si alimentò per tutto il mese e la si lasciò smorire d’un prolungato languore[203] non senza acca­demia e diatriba[204] fra i casigliani opinanti[205], roboanti in propor­zione dell’evento: fra i volenti e i nolenti, gli squattrinati e i quattrinosi, i migragnosi[206] e i mingenti in gloria e in letizia[207]. Quanto alle camere dei piani alti del ducentodiciannove, esse figuravano senza dubbio tra le più romanamente assolate di Roma: ragion per cui, siccome a quella prima primavera stava nevicando-piovendo, ci si bubbolava dal freddo.
Il meccanico non aveva con sé né borsa né involto: i ferri del caso pel momento non gli occorrevano. Si trattava di una semplice ispezione. Aggiunse la signora Teresina, ma questo don Ciccio non lo verbalizzò, che lei era sicura che quel giova­ne... sì, insomma, l’assassino, il meccanico... era certa, e avrebbe potuto giurarlo anche in tribunale, era sicura che quel toso l’aveva ipnotizzata (don Ciccio stette a sentire a bocca aperta, con un fare da addormentato) perché a un certo pun­to, ancora in anticamera, l’aveva guardata fisso. «Fisso!» ri­peté quasi declamando, entusiasta della dirittura e della fissità di quello sguardo: «gera uno sguardo implacabile, du oci fermi», di sotto al berretto, «come un serpente». E lei, allora, s’era sentita mancar le forze. Disse anzi che in quel momento, qualunque cosa il giovane le avesse chiesto od imposto, in quel punto lei lo avrebbe fatto, gli avrebbe senz’altro ubbidito: «come un autòma», (Così disse.)
«Maria Vergine! El me gaveva ipnotisà[208]...» Don Ciccio, dentro di sé, non potè a meno di verbalizzare: «Chesti femmene!»
Così era avvenuto che quello, ‘o meccaneche, potesse fare il giro dell’appartamento. In camera da letto, adocchiati al­cuni ori sul cassettone, sul marmo, ne aveva fatto una mana­ta sola, allargandoci sotto con l’altra mano, come una sec­chia, la gran tasca di cui disponeva sul fianco, del pantalone della tuta.
«Cosa che falò?» gli aveva garrito[209] la Menegazzi, non total­mente impedita dallo stato ipnotico. Lui, rivòltosi, le aveva puntato una pistola sulla faccia: «Azzittete, befana, sinnò te brucio.» Misurato il dì lei terrore, aveva aperto il cassetto, quello in alto, dove ce stava la chiave... E aveva indovinato. C’era tutto l’oro, e le gioie: in un cofano di pelle. C’era il de­naro. «Quanto?» chiese Ingravallo. «No savaria zusto[210]. Quatromila setesiento, me par.» lì denaro in un vecchio portafo­glio secco, da uomo: del suo povero marito. (Gli occhi le si inumidirono.) Quello, neanche un baleno, aveva già involtato il cofano dentro una sorta di suo fazzolettaccio sudicio, o for­se un cencio, fu fu fu, con la febbre alle dita: il portafoglio se l’era bell’e mandato a scivolare in tasca, con una lestezza! Ma­ria Vergine. «In tasca qua,..»: e la signora si battè la mano sulla coscia.
«I xe diavoli, mi no so come che i fasa, i xe diavoli! Dia­voli.»
«Zitta, mo,» le aveva detto il giovane in un tono cupo di minaccia, guatandola ancora, andandole quasi col viso sotto il viso. Parevano d’una tigre, ora, quegli occhi: l’anima deteneva la sua preda: l’avrebbe difesa a qualunque patto. Se l’era svignata senza alcun intoppo, com’ombra. «Zitta! », la terribi­le intesa. Ma lei, invece, appena lo ebbe visto uscire, s’era buttata subito alla finestra, sì quella lì, proprio, che dava sul cortile, apertala aveva gridato, gridato, i casigliani dicevano anzi strillato disperatamente: «Al ladro! Al ladro! Aiuto! Al ladro! » Poi - Avrebbe voluto seguirne subito i passi: ma si era sentita male, più male ancora di prima. Era caduta o si era buttata sul «suo» letto: lì. E lo additò.
Il ducentodiciannove, cinque piani a strada più l’attico e le due scale A e B, con alcuni uffici sulla B, al mezzanino, era un porto di mare. Le scale, agiate tutte e due, l’una più buia del­l’altra. La A più tranquilla della consorella: tutti signori au­tentici da quella parte, du còte de chez madame[211].
Dai congiunti e accavallati referti della portinaia e d’altre inquiline delle più precipiti a favola, che Ingravallo interrogò di fuori senza scrivere, indi nell’atrio da basso, dietro al por­tone e al portello piantonati dal brigadiere, poi da un agente, si potè alfine ricostruire l’accaduto. E appurare un’altra circo­stanza, e alquanto curiosa, per vero. Il delinquente era stato audacemente rincorso. «Ah!» fece Ingravallo. «Sì»: troppo audacemente, forse. Perché a rincorrerlo, o a fingere di rin­correrlo giù per le scale e nell’andito, prima ancora del signor Bottafavi[212] der quarto piano che poi l’aveva inseguito anche lui, col revolver, primo di tutti era stato un giovane, «sì, un giova­notto», «no, un giovanotto: un maschietto...», «che ma­schietto! tanto alto, era»: pareva il garzone d’un pizzicarolo[213], co la parannanza tutta intorcinata intorno a la vita, ciaveva li carzoni sportivi però, coi calzettoni verdi. «Che verdi!» Era saettato fuori attraverso l’androne poco dopo che s’erano sentiti i due colpi, le due revolverate sulla scala. E nessuno l’avea visto più. «Io sì! Sul marciapiede! Venivo da Santa Maria Maggiore! Lui è scappato via...» Il patema[214] testimoniale, ap­piccato il foco alle anime, deflagrava[215] ad epos. Parlavano tutte in una volta. Era una confusione di voci e di aspetti: serve, pa­drone, broccoli: enormi foglie di un broccolo uscivano da una sporta rigonfia, tumefatta[216]. Vocine acri o infantili aggiungeva­no dinieghi[217] o conferme. Torno torno, un barboncino bianco scodinzolava eccitato e de tanto in tanto abbaiava puro lui: il più autorevolmente possibile.
Ingravallo si sentiva soffocare, stritolato dalle relatrici e dalla relazione.
Dopo le grida della signora Menegazzi, i due Bottafavi di sopra, marito e moglie, erano usciti sulle scale in ciabatte gri­dando pure loro, un bel duetto nuziale baritono-soprano: «Al ladro! Al ladro!» Esigevano ora adeguato riconoscimento del loro coraggio, della loro prontezza di spirito. Il Bottafavi, an­zi, con un grosso pistolone a revolver: che volle esibire al com­missario, quindi agli astanti[218]: le donne si fecero un po’ indie­tro: «Mbè, adesso nun ce spari a noi»: i ragazzini allungarono il collo, ammiratissimi. Ne ebbero, da quel momento in poi, una grande opinione, der sor Botta e Fava, come dicevano. Lui seguitò a recitare, col revolver in mano, scarico però: can­na in aria. Rievocò i fatti con una grande precisione. Là per là, per quanto avesse tentato, non gli era riuscito di spararlo. Per­ché c’era il fermo, un’asticciuola nel settimo buco del tambu­ro. E lui, in tanti anni di assoluta inazione di quella macchina, s’era scordato che i veri revolver, com’era appunto il suo, han­no quel diavolo d’un fermo! che quando c’è giù lui, li impedi­sce di sparare. Sicché, sul più bello, il ladro se l’era svignata a tutta gamba. «Ma le due revulverate l’avite sparate vuje?» fe­ce Ingravallo. «Che le pare, sor commissario! che so’ un regazzino?... da spara così a casaccio?» «Ma avevate tentato.» «Tentato: tentato è una parola. Er revòrvere mio nun è come quello de li delinquenti... che spareno sur serio. Questo, sor commissario, è et revòrvere d’un galantomo. Io... so’ stato guardia giurata, da giovinetto: e me pare che l’arme le so trat­ta mejo de tanti artri. Io... io so’ padrone de li nervi mia... » II ladro aveva tagliato la corda, Per un pelo: «Ma un’artra vorta nun ce la fa. »
«E che cosa poteva dire del garzone?» «Quale garzone?» «Er garzone der pizzicarolo,» fecero le donne. «Nen avite sentite ellisse brave femmene? Ne stanno parlando da un’o­ra...» disse Ingravallo.
«Mbè, io nun m’interesso de pizzicaroli: pe ste cose... ce pensa mi’ moje,» rispose con tono d’importanza. I garzoni dei salumai, evidentemente, non potevano competere con il suo revolver.
No, non aveva veduto nessun garzone: né di pizzicarolo, né d’altri negozi: né der macellaro, né der fornaro.
Eppure la sora Manuela lo aveva visto, ben visto, che usci­va di corsa dall’andito, dietro il ladro.
«Macché! » fece la Bot­tafavi a sostegno del marito. «Ecché macché! Macché un ca­volo, sora Teresa mia! Che ci avrò l’occhi pe nun vedecce?... Staressimo bene... co tutto sto viavai der palazzo...» La professoressa Bertela smentì la negativa dei Bottafavi: e corresse, a un tempo, l’affermativa della portinaia. Stava rincasando: il mercoledì non aveva che un’ora, dalle otto alle nove. Stava per infilare il portone quando vide uscire, che quasi la investì, quel serafino[219] spaurito con una zazzera da non si credere: col viso stravolto, coi labbri bianchi... gli tremavano i labbri, ne era certa.
L’aveva perso di vista perché subito dopo vide usci­re «quel giovinastro», il meccanico in tuta grigia, ma era una tuta sui generis, gonfia, e con un involto: «insomma l’assassi­no in persona... » «E com’era il berretto?» fece Ingravallo. «Il berretto... veramente... il berretto... » «Com’era? lo dica lei. » «Veramente non zaprei, non potrei propio dire, signor com­missario. » Poco prima, sì, sì, questo sì, aveva udito pure lei i due colpi: due tonfi, che venivano fuori dal portone.
La portinaia la rimbeccò a sua volta. I due colpi sì, prima di tutto i due colpi:... d’accordo. Poi aveva visto come una saet­ta grigia nell’atrio, un topo in fuga... «Me pareva come un sorcio quanno scappeno, quanno je corro appresso co la sco­pa...» E poi, dietro lui, il garzone. Poteva giurarlo.
Quando era passato il garzone tutto vestito bianco, salvo i carzoni, se sa, mbè, l’assassino era già passato. Le revolverate? Sì, cer­to... Un momento prima quer fijo d’una bona donna aveva sparato du còrpi. Ancora su la scala, ch’ereno rintronati come du bombe. «Bum! Bum! Ve dico, sor commissario mio, che me so’ presa una parpitazzione de core... »
La Bertela[220] volle replicare. Tra le due donne si accese un battibecco. La signora Liliana, intanto, non s’era vista: e don Ciccio ne fu felice: lei! mescolarsi in un mercato del genere!
Non gli parve logico di perder tempo a voler cercare i proiettili, o i segni dei proiettili. Che si trattasse di una Beretta 6,5 o di una Glisenti di ordinanza 7,65 non gli importava gran che: una pistola si fa presto a farla sparire per qualche tempo, lo sapeva per pratica: basta affidarla a un socio, a un amico.
Licenziò inquilini e inquiline, serve e sporte; senz’addarsene acciaccò un piede ar barboncino, che sbottò in un diavolìo di caì caì da doverlo udire il Papa a palazzo. Fece chiudere del tutto il portone, lasciando a guardia del portello quell’agente che aveva sostituito il brigadiere. Salì, per un altro breve so­praluogo, dalla Menegazzi: Pompeo, ch’era con lui, gli andò dietro: Gaudenzio non era nemmanco disceso. Chiese e ricer­cò se vi fossero tracce o, meglio, impronte dell’assassino. Le maniglie, il marmo del canterano: il pavimento lucido.
La signora Liliana apparve infine a sua volta, molto bella: escluse di poter fare delle congetture[221]: ebbe delle buone parole per la Menegazzi, le offrì d’ospitarla: confermò, dietro do­manda, che un po’ prima dei due colpi di pistola il suo campa­nello aveva sonato pure lui, alquanto timidamente, per altro. Era nel bagno, Non aveva potuto aprire: forse, nemmeno avrebbe aperto. In quel torno di tempo i giornali avevano molto parlato del « tenebroso » delitto di via Valadier, poi di quell’altro, ancor più «fosco», di via Montebello. Lei non sa­peva togliersi di mente quanto aveva letto. E poi... una signo­ra sola.., ha sempre un po’ paura ad aprire. Si accomiatò. Sol­tanto allora Ingravallo pensò alla sua cravatta verdolina (quel­la coi trifogliolini neri a quinconce[222]): e alla sua barba molisana di trentasei trentott’ore. Ma l’apparizione lo aveva beatifi­cato.
Domandò di nuovo alla vedova Menegazzi, alla signora Zabalà, se lei, riflettendoci bene, avesse magari qualche idea, qualche sospetto, sul conto di qualcheduno. Non poteva for­nire un indizio? Gente di casa, no? Pratici delle sue abitudini e della casa dovevano di certo essere, a giudicare dalla disin­voltura. Domandò ancora se fossero rimaste delle tracce... o impronte, o altro.,, dell’assassino.
(Quel termine della collet­tività tabulante[223] gli si era ormai annidato nei timpani: gli forzò la lingua a un errore.) No, nessuna traccia.
Da Pompeo e da Gaudenzio fece rimuovere il canterano[224]. Polvere, un filo giallo di scopa. Un biglietto azzurrino, quasi appallottolato, der tramme. Si chinò, lo raccattò, lo spiegò molto cautamente, col faccione chino su quel nulla: che appar­ve logoro[225], quasi. Tranvie de li Castelli.
Bucato alla data del dì avanti, bucato, forse (c’era uno strappo), al nome di... di... «Tot... Tor…Mannaggia! la fermata prima di... Due Santi.»
«E il ‘Porraccio,» disse allora Gaudenzio, allungato il collo dietro le spalle di don Ciccio. «È vostro?» chiese don Ciccio alla spaurita Menegazzi, «Gnornò, no el xe mio[226].» No, non aveva ricevuto visite, il giorno avanti. La domestica, la Cencia, una vecchietta un pò gobba, veniva solo a mezzo servizio, alle due: con suo gran disappunto: (suo, cioè, della Menegazzi). Perciò la sua camera da letto se la riordinava lei, per quanto... i suoi poveri nervi, ah! signor commissario! Era già in ordine, anzi, quando, rompendo tutt’a un tratto il silenzio, «quel terribile campanello» s’era fatto inopinatamente[227] senti­re. In camera da letto, poi, Maria Vergine! come potevano pensare? In quel sacrario di memorie no, no, non riceveva nessuno, mai, assolutamente nessuno.
Don Ciccio lo credeva bene: ma lei ebbe un tono e un «Ma­ria Vergine! », come ammettendo di poter essere sospettata del contrario. No, la servente no la gera de Marino, no la gera dei Castelli Romanni... Abitava difatti, da epoca immemora­bile, in una catapecchiucola delle più tignose a via de’ Querceti, a metà, soto el dedrìo dei Santi Quattro, con una sorella, una gemella, un poco più piccina di lei, poco poco. Del rima­nente, lo credesse, pie donne. Le piaceva lo zucchero, giusto: e anche il caffè: molto dolce, anche. Ma toccare... no, no... non avrebbe toccato senza chiedere. Soffriva di geloni, ai pie­di e alle mani, sior sì: non poteva lavare i piatti, certe volte, da tanto le bruciavano, le mani: soffriva molto, sior sì. Non in quell’inverno, però, se pur tremendo, sior no: l’inverno prima. Molto, molto pia: tutto il giorno col rosario in mano: con una speciale devozione per San Giuseppe. Anche don Corpi[228] avrebbe potuto dare informazioni, don Lorenzo, non lo conosceva?... Ah! che sant’uomo! propio: dei Santi Quattro Coro­nati: sì, perché si confessava da lui: qualche volta faceva servi­zio anche da lui: come rincalzo alla Rosa, la servente in titolo.
Ingravallo era stato ad ascoltare a bocca aperta. «Allora? Stu bigliette? Stu bigliette? Chi ce lo pò avé lassate? Diteme. L’assassine?...» Pareva che la Menegazzi si ricusasse alla dili­genza e alla pertinacia[229] dell’inchiesta, non volendo far fatica a riflettere: tutta trepida, tutta rorida[230] di speranze in ritardo, nel sogno e nel carisma delle ahimè rasentate ma non patite servizzie. Una policromatica[231] sventatezza vaporava dai suoi foulards color lillà, dal suo baffo bleu, dal chimono tutto gor­gheggiato di uccellini (non erano petali, erano strani volatili, tra gli uccelli e le farfalle), dai capelli giallastri con tendenza a un Tiziano scarruffato[232], dal nastro viola che li raccoglieva qua­si in un cespo di gloria: sopra i vagotonici[233] abbandoni dell’epigastro[234] e del volto vizzo, e i sospiri della scampata ahimè brutalizzazione ma non rubalizio degli ori. Non voleva riflettere, non voleva ricordare: ossia, avrebbe voluto ricordare quel che s’era guardato bene dall’accadere. Lo spavento, la «disgra­zia», le avevano scompaginato il cervello, quel tanto di sua persona che poteva prender nome di cervello. Aveva quarantanove anni, per quanto ne dimostrasse cinquanta. La disgra­zia era venuta doppia: ai suoi ori quella eccezionale patente... di stima indefettibile: a lei, col titolo di befana, la canna... della pistola. «Una volta no ti geri così lazaron, » fu indotta a pensare: del suo angelo custode. No, non sapeva, non voleva: era sconvolta: non si teneva in carreggiata. Chi tuttavia la ob­bligava in discorso era Ingravallo, come si afferra con le buone molle uno stizzo che frigge, spara, fa fumo, fa piangere. Tal­ché finì, esausta, col confermargli che il toso[235], già, sì, quel malvivente, aveva levato la pistola di tasca o di dove ce l’aveva, sì, proprio lì, davanti al comò, poi quel fazzolettone sporco, o un cencio[236] da meccanico, forse, da involtare la scatola di pel­le... delle gioie, quando l’aveva tolta fuori dal cassetto. Con la pistola gli era uscito insieme qualcos’altro, come un fazzolet­to, un gomitolo, o carte, probabilmente. No, no, non ricorda­va, lo spavento era stato troppo, Maria Vergine! per poter ri­cordare... Delle carte? Quel toso, già, era probabile, s’era chi­nato a raccattarle. Rivedeva la scena confusamente: a raccat­tar che? il fazzoletto?... se era il fazzoletto. Come si può aver memoria... a tanti particolari... quando si provano certi spa­venti?
Ingravallo adagiò il biglietto in un portafogli, ridiscese, ch’erano appena trascorsi come una quindicina di minuti. Buie le scale. Da basso, chiaro l’andito: anche col portone co­sì, aveva luce da una vetrata sul cortile. Gaudenzio e Pompeo lo seguivano. Cercò ancora la portiera, ch’era là: e stava a baccajà con quarcuno.
Siccome poi il novanta per cento degli inquilini e inquiline s’erano allontanati al suo invito, ma di pochi passi, e con gli orecchi ritti, non gli riuscì difficile di giuntare all’inchiesta un supplemento d’inchiesta relativo al misterioso garzoncello: ri­convocandosi tacitamente nell’andito il già disciolto groppo o cespo di umani e di vegetables (verdure) di che lui doveva spremer notizia de’ fatti, ed eventuali referenze della persona. Risultò che nessun inquilino dello stabile, né a scala A né a scala B, aveva ricevuto nulla né doveva ricevere nulla, quella mattina, da nessun pizzicarolo dell’Urbe.
Nessuno aveva aperto a garzoni co la parannanza bianca[237], in quell’ora. «Tutta una commedia,» suggerì accalorandosi un’amica della Bottafavi, per quanto poco amica della Menegazzi, e inquilina del 5°. «Se sa che quanno uno va pe rubbà, lì de fora c’è quello che je fa da palo... Quelli, dateme retta, sor commissario, quelli... ereno d’accordo...»
«Garzoni di fornitori non ne avete mai visto in questa ca­sa? » fece Ingravallo, in un tono di autorità consapevole, e tut­tavia fastidito. Dal tedio[238] e dalla gravezza abituale ritirò le pal­pebre: gli occhi ebbero allora una luce, una sicurezza pene­trante. «E come no?» fece la Pettacchioni, «co sto porto de mare der palazzo?... Qua ce stanno fior de signori, gente de commercio, che se crede, sor commissario?» tutti sorrisero: «de quelli che poco je piace de magna l’indivia.» «E per chi venivano? Non ricordate?... Chi è che gli portavano la mozza­rella a domicilio?» «Mbè, sor commissario, veniveno un po’ per tutti...» chinò il capo, portò l’indice sinistro all’angolo della bocca: «me ce facci pensa.» Tutti ora annaspavano[239] gar­zoni con la mozzarella: un subito fervore[240] d’ipotesi, discussio­ni, ricordi: panieri di vimini e grembiuli bianchi. «Giusto... er sor Filippo, qui,» lo cercò d’un’occhiata: fece come lo presen­tasse: «er commendator Angeloni: der Ministero dell’Econo­mia Nazzionale», e lo indicò, nel gruppo. Gli altri allora si scansarono e il designato s’inchinò, leggermente: «Commen­dator Angeloni,» proferì di se stesso. «Ingravallo,» fece Ingravallo, che ancora non era neppure cavaliere, toccandosi con due diti l’ala del cappello. In onore dell’Economia.
Er sor Filippo, alto, scuro a soprabito, co la panza un po’ a pera e le spalle incartocchiate e un tantinello pioventi, di viso tra impaurito e malinconico, e al mezzo un nasone alla timo­niera[241] da prevosto pesce che doveva fare le gran trombe der Giudizio, a soffiallo, aveva l’aria, per quanto commendatorile e ministeriale, sì, però, più che altro, un non so che... una tri­stezza, una insicurezza e insieme anche una tal quale reticenza negli occhi, al sogguardare il dottore, il dottor Ingravallo, quasi che temesse di perdere un appiglio[242]... alla prossima cadu­ta del ministero: non caduco, viceversa, fino alli 25 luglio del ‘43. Uno strano corbacchione[243], dio birbo[244], infagottato in quel suo bavero e in quella ciarpa[245] elegiaca[246]: un chiericone del cata­sto di quelli neri neri, che annidano di preferenza tra San Lui­gi de’ Francesi e la Minerva. Impercepiti dal passante distrat­to e da quello che va de prescia, a ora d’agio, un piede appres­so l’altro, sogliono deambulare le loro dilette stradicce, dall’arco de Sant’Agostino e da la Scrofa, pe via de le Coppelle o pel Pozzo de le Cornacchie, fin su, a Santa Maria in Aquiro. Alle rare occasioni si avventurano chiane chiane per via Co­lonna o s’inoltrano agorafobici[247] su li serci[248] de piazza, de Pietra, non senza disdegnare la fojetta, e la pizza snobistica der napo­letano: e poi pe quer budello de via de Pietra arriveno magari a sfociar sul Corso, ma sabato grasso ha da essere, dirimpetto all’Enciclopedia Treccani, ai più invitanti orologi del gioiellie­re Catellani. Di quaresima, luttuosi[249] e boffici[250], si contentano lungheggiar Santa Chiara, sotto ai due globi de’ due alberghi, fino all’elefante e al suo gentile obelisco, e alle vetrine dei rosari e delle madonne: passo passo, oppure, passo passo, riscen­dono: schivata per un pelo una bicicletta, imboccheno la Palommella e sfioreno er dedietro ar Panteone, già oramai però sulla via del ritorno, e come un po’ delusi del crepuscolo.
Da qualche anno il commendator Angeloni s’era trasferito a via Merulana, in seguito alle demolizioni di via del Parlamen­to-Campo Marzio. Là ci aveva abitato da sempre. Doveva es­sere un buongustaio: a giudicare almeno dai pacchetti, dai tartufetti... Pacchetti che per solito li inoltrava lui a se stesso, con gran riguardo e con ogni venerazione, tenendoli orizzon­tali e in sul davanti, come gli desse il latte: di quelli dei salu­mai di lusso, pieni di galantina[251] o di paté, con il cordino cele­ste. E qualche volta, del resto, glie li mandavano anche a casa ar ducentodicinnove su in cima; glie li porgevano, come si di­ce a Firenze. (Carciofini all’olio, vitel tonnato.)
«Er sor Filippo, qui,» ripetè la sora Manuela. «Mbè, a voi quarche vorta v’è venuto, ma sì un maschietto co li pacchi, co la parannanza bianca. Nun l’ho mai visto in faccia: sicché, propio com’era nun me n’aricordo. Ma, suppergiù, mo che ce penso, quello de stammattina poteva esse er vostro. Una sera, che je corsi appresso, me strillò da le scale che saliva su da voi, che v’aveva da porta er presciutto. »
Tutti gli sguardi si puntarono sul commendator Angeloni. Il nominato si confuse:
«Io? Garzoni?... Che presciutto?»
«Sor commendatore mio,» implorò la sora Manuela, «nun me vorrete fa sta partaccia de dimme che nun è vero in faccia ar commissario... Voi sete solo...»
«Solo?» ribattè il sor Filippo, come se il viver solo fosse una colpa.
«E che ce sta forse quarcuno co voi? Manco er gatto...»
«E che volete dì, che so’ solo?»
«Dico che quarchiduno che ve porti da magna a casa, quanno che piove, la sera, ce pò esse puro, no?... no?... nun ve pa­re?» Ebbe un tono conciliante, quasi ad ammiccargli: «ma che me vai combinanno, a cojone!»
In apparenza, un pasticcio. La confusione der sor Filippo era evidente: quel balbettare, quel trascolorare: quegli sguardi così pieni di incertezza, a non credere d’angoscia. Un sospeso interesse era in tutti: tutti i casigliani[252] lo guardavano a bocca aperta: lui, la portinaia, il commissario.
Il fatto certo, si disse Ingravallo, era che la portinaia nem­meno stavolta aveva veduto in viso il garzone: se garzone era. Gli aveva veduto i tacchi, e anche il... diciamo la schiena: questo sì. La professoressa Bertela, sì, che lo aveva veduto in faccia: era bianco: coi labbri bianchi: ma non lo aveva veduto altre volte. Non poteva dir nulla nemmen lei.
Anche l’assassino... La sora Manuela finì per dover ammet­tere che neanche quello sarebbe stata in grado di riconoscere. No. Mai prima d’allora non lo aveva visto. Mai. Un furmine!
E i due colpi di rivoltella, in quel buio della scala, boh, chis­sà dove diavolo erano andati a sbattere.
Il dottor Ingravallo tagliò corto. Furono invitate in questu­ra la sora Manuela Pettacchioni portiera e la signora Teresina Zabalà vedova Menegazzi, per accoglierne a verbale, semmai, le ulteriori deposizioni: la seconda, soprattutto, per sporgere denuncia del fatto. Il danno era piuttosto forte: il caso era piuttosto serio. Si trattava di rapina aggravata, e per un valo­re, se non per un importo, alquanto rilevante: trentamila lire giuppersù, tra ori e preziosi (un filo di perle, un grosso topa­zio, fra l’altro): e un quattromilasettecento circa in denaro, nel vecchio portafoglio, «Il portafoglio del mio povero Egidio!» singhiozzò la Menegazzi al sentirsi convocata.
Il commendator Angeloni fu pregato, con ogni riguardo, di volersi tenere a disposizione della polizia, per ulteriori chiari­menti. Un bell’eufemismo[253] anche questo. «Tenersi a disposi­zione» significò, in pratica, accompagnare don Ciccio sul sali­scendi vario dei tramme, degli autobus, fino a Santo Stefano del Cacco. Fra l’altro gli toccò saltare la colazione.
«Nun me sento, grazie, » diceva tristemente a Pompeo, che gli propose di romper l’inquietudine con un par de pagnottelle imbottite. «Non ne ho voglia, non è il momento.» «Come ve pare, commendatore, In ogni caso, quanno che volete, er Maccheronaro, qui a via der Gesù, ce sta apposta. Ce conosce tutti, che semo boni clienti. Er rosbiffe ar sangue è la speciali­tà de Peppì.» La sora Manuela, spicciato[254] sul tavolo di don Ciccio quell’orribile e interminabile garbuglio della firma reverita[255] sua, Manuella Petachoni, attraversando la stanzaccia di attesa volle accomiatarsi[256] dall’imbacuccato[257]: e salutò giovial­mente, popolana e canora come non mai: «Arrivedella, sor commendatò...» Tutti lo affisarono. «Se facci coraggio che nun è gnente... E più presto fatto che detto. » E uscì pe pijà er PV-1 tutta de prescia, smovenno er culo come una quaja e tic­chettando in difficile equilibrio sui tacchi de gli scarpini boni che parevano du trampoli, come una scrofona su queli zoccoletti che cianno. «Co tutte ste buggere[258], oggi, manco ciavrà fantasia de magna li carciofini... Manco un zeppo se magna, povero sor Filippo... A Santo Stefano der Cacco avemio da capita. Brutti posti!»
Il commendatore non si dava pace. Quel tic tac del male­detto orologio della stanza, di tocco in tocco gli aveva scavato le orbite: da parer quelle d’un dissepolto. A interrogarlo, nel primo pomeriggio, fu lo stesso Ingravallo, che alternò blandi­zie[259] e amabilità varie a fasi un po’ più grevi: col cader preda, a tratti, di quel certo «sopore d’ufficio» che gli appiombava co­sì utilmente le palpebre. Momenti di vivacità e d’ironia: scatti come di repentina impazienza: tedio come se le scartoffie lo annegassero: duri incisi. Raccontò poi il Deviti, il Gaudenzio, che presenziava l’interrogatorio senza averne l’aria da un ta­volino in un angolo, col testone sulle paperazze[260] del giorno, raccontò come alle prime battute del duetto il travagliato e in­timidito Angeloni avesse già completamente perso le staffe. E una cosa che capita ai galantuomini, ai signori seri, a quelli che si ostinano a mostrarsi tali, in certe situazioni poco adatte per loro. Una incredibile angoscia pareva essersi impadronita del commendatore. Andò a finire che soffiò il naso: occhi ros­si, trombettò come una vedova. Sostenne di non saper nulla, di non creder nulla, di non essere in grado di immaginar nulla, di quel fattorino. Insisteva penosamente, contro ogni prela­zione[261] d’uso, a forbirsi[262] i labbri con quella parola fattorino. Più Ingravallo si buttava al folklore, tra Tevere e Biferno, più lo pizzicava dicendo pizzicarolo e guaglione, più lui si ritraeva come una lumaca in guscio nel sussiego della terminologia uf­ficiale: che non c’entrava nulla però, in quel clima di generica diffidenza questurinesca, di brisàvola[263] e di carciofini all’olio. Via Venti Settembre, co’ suoi fattorini, i suoi uscieri, gli do­vette sembrare in quell’ora implacabile un paradiso più peri­colante che mai: un lontano Olimpo, soprastato da un Quirino Commendatore, anzi Grand’Ufficiale, ma ahimè, poco at­to a soccorrerlo. Che? le carte magiche della dolce inanità bu­rocratica, addio? I tepori dell’amministrazione centrale? I «cospicui» incrementi del diagramma della pesca... delle sar­delle? Le franchigie[264] di salagione[265]? Il temporalesco e pur diletto borbottìo della Finanza, il santo riverbero della Corte dei Conti? Addio? Solo, seduto sur una scranna[266] della questura, con addosso tutte le sofisticherie della squadra mobile (così pensava), gli si velarono gli occhi. La sua povera faccia, di po­veruomo che desidera che non lo guardino, con quel nasazzo al mezzo che non dava licenza un minuto alle inespresse opi­nioni d’ogni interlocutore, la sua faccia parve, a Ingravallo, una muta disperata protesta contro la disumanità, la crudeltà d’ogni inquisizione organizzata.
Altre volte, sì, gli avevano mandato a casa del presciutto. Chi! Chi. Una parola. Nossignore, non poteva precisarlo. Manco se ne ricordava, forse, a distanza di tempo. Lui... era solo. Non aveva fornitori fissi. Comprava qua e là: oggi da uno e domani da quell’altro. Pe tutte le botteghe de Roma un po’. Un po’ per una, se pò dì. Così! Dove capita, capita. Quanno che vedeva che c’era convenienza, o ch’era robba bo­na. Magari solo quarche pasticcetto, tante vorte. Giusto pe le­vasse na svojatura... Un po’ d’anguilla marinata, magari, un po’ de galantina. Ma più che antro, si soffiò il naso, quarche barattolo de conserva: pe fa un po’ de scorta a casa. Quarche riserva a casa pò fa commodo de tenéccela. E chi je portava sta robba, se sa, ereno li fattorini de li negozzi...
Alzò le spalle, distese le sopracciglia, come a significare: «Che c’è di più ovvio?»
«Alla portiera avete detto, una volta» (don Ciccio sbadi­gliò), «che compravate il prosciutto magro a via Panisperna,..»
«Ah, già, ora che me ce fa pensà, me n’aricordo puro io, che una vorta.,. me so’ comprato un presciuttino sano: un presciuttino de montagna de pochi chili. » Pareva che nel poco peso di quel prosciutto egli intravedesse una singolare atte­nuante. «Giusto me lo so’ fatto manna a casa. Dar salumaro de via Panisperna, già, in fonno in fonno, quasi all’angolo de li Serpenti... E un bolognese.»
Il povero interrogato boccheggiava. Fu spedito Gaudenzio a via Panisperna.

Alle cinque e tre quarti, secondo interrogatorio. Riapparve­ro la sora Manuela con la Menegazzi, riconvocate d’urgenza, oltreché la professoressa Bertela, pallida, corsa da vaghi brivi­di. Il giovanotto che Gaudenzio era pervenuto a racimolare a li Serpenti fu introdotto a sua volta.
Piuttosto franco, ma d’a­spetto non del tutto limpido, capelli neri, straunti e stralucidi, interrogò con gli occhi il commissario, poi rapidamente gli astanti.
«E questo il vostro tipo?» chiese don Ciccio alla Bertela.
«Che!» fece la professoressa con un sussulto, indignata di quel «vostro». Don Ciccio si voltò alla portiera: «‘O recanuscete? è chillo ‘e stammattina?»
«No, non è lui. Quello de stammatina... io non l’ho veduto in faccia: quante vorte ve l’ho da dì, sor commissario? Era un regazzino, in confronto a questo.»
Don Ciccio si rivolse allora al commendatore Angeloni:
«È lui che v’aveva portato il prosciutto?»
«Sissignore.»
«E voi?» fece al giovine. «Avete qualche cosa da dire?» «Io?» il giovane alzò le spalle, guardò gli astanti facendo il giro delle facce. «Che ne so, io, quello che vo da me?» Don Ciccio, duro, aggrottò le sopracciglia.
«Parlate con più rispetto, giovanotto. Siete stato invitato a comparire a sensi di legge.» Cantarellò, quasi: «Articolo 229 del codice di procedura. Ammettete di conoscere il commen­datore qui presente?» e col mento significò l’Angeloni.
«E venuto a bottega l’anno passato, quarche vorta: poi nun s’è più visto. Una vorta j’ho portato a casa un presciutto de montagna, fino su, a via Merulana. Pioveva forte, che me so’ fracicato.»
«Ci siete stato una volta, o più volte? Conoscete la casa?» «Io?... la casa? Ce so’ annate due o tre vorte quanno che c’è stato quarche cosa da porta.» La risposta fu pronta, e imba­razzata ad un tempo. Una certa ansia d’arrivare in fondo. «E voi, signor commendatore?»
«Confermo. E venuto due o tre volte, difatti.» Fece uno sforzo, era chiaro: voleva apparire più sereno. «J’ho dato puro la mancia...»
«Ah! Gli avete dato la mancia,» don Ciccio spianò la fron­te: parve congratularsi del fatto: eppure con una inspiegabile ironia. Si riconcentrò. Chinò il capo sui verbali. Scartoffiò un poco. Interpellò di nuovo la Pettacchioni, accennando al com­messo: «È lu giovane che m’avite detto che v’ha gridato chella vota... da ‘ n coppa a le scale? »
«No, no, nemmeno quello. So’ sicura. Quello poteva esse quello de stammatina... ch’erano tutti dua più regazzini de questo qui. Quello, sor commissario, ciaveva una voce più gentile: e ciaveva li carzoni corti puro lui, si nun era lo stesso...»
«Anche questo ha i calzoni corti. »
«Sor commissario!... ma questi so’ sportivi. Quello era più sbarbatello[267], ve dico. Questo è bono p’annà a fa er sordato. E poi, e poi, quann’è ch’è venuto, questo qui, a via Merulana? Un anno fa? Quello che dich’io saranno dua o tre mesi, pe dì tanto. Era poco doppo li morti. »
Ingravallo tirò un fiato, come a voler concludere.
«Per il momento potete andarvene,» fermò gli occhi sul giovane. «Ricordatevi però... che qui nenn’ è aria... de fa ‘o guappo...» Quello uscì, seguito da una lenta, persistente oc­chiata commissariale. Radunate le sue carte e insieme le fila delle risultanze, Ingravallo principiò:
«La signora Pettacchioni qui presente, se aggio capito, atte­sta d’aver veduto un altro garzone venire su da voi e’ ‘o presutte... parecchie vote, d’aspetto più giovane, a quanto pare, voglio dire ch’arrassomiglia di più a chillo d’ ‘o garzone di stammatina... che la professoressa,» e indicò, « ha potuto ve­dere in faccia, ed è quindi in grado di riconoscere. Non è ve­ro, signora Bettola?» Quella annuì.
L’Angeloni rifiatò. Si atteggiò un attimo a descrittore del costume.
«Mbè, la sora Manuela è la portiera. Lei... »
«Lei che?» fece la titolare del portierato, minacciosa. L’An­geloni si ritirò di nuovo nel suo guscio, come la lumaca, la­sciando fuori solo il naso: fuori dalla coccia[268] dell’anima. Inten­deva dire, torse, che lei, come portiera, il suo mandato era ap­punto quello di spiar la gente al passaggio.
«Voglio dire...» si confuse; parlava col tono un po’ nasale d’una trombetta di cartone, «Insomma ve l’ho già detto, si­gnor commissario. So’ uno che compra dove capita. Può darsi benissimo quello che lei dice. Anche l’altro ieri m’hanno man­dato a casa della roba. Me l’ha portata la donna de servizio d’un mio collega, del Ministero dell’Economia. »
«La donna de servizio? Una bella serva, finalmente!» bron­tolò Ingravallo. Rassettò i verbali, brontolò ancora un poco. Le tre madame vennero così licenziate.
«Che, poterne annà?» chiese allora la Bertola, pallida.
« Sissignore. S’accomodi.»
Donna Manuela, con un tremolìo de zinne che j’abbottaveno tutta la camicetta, liberò merulani sorrisi: «Mbè, arrivedella, dottò. J’arriccomanno, qua, er nostro sor Filippo. M’oo tratti bene,»
Don Ciccio, muto, rimase all’impiedi, verbali a tavolo, a tu per tu cor soggetto: come uno scuro laniero[269] ad ali mezzo aper­te, non anco artigliata la preda.
Ma insisteva tuttavia, sotto quel pelo da can barbone nero che ciaveva in testa: e duro de capoccia com’era.
Il commendatore si barricò dietro «l’esperienza de sto monno ».
«Quelle,» piagnucolò, «pe mettece una bona parola. » Ave­va l’ansimo[270], a tratti, il respiro breve: e l’orbite ch’erano come due caverne, sfinito.
«Che intendete dire? Qua’ sarebbe sta bona parola che vi disturba tanto? Sentimme nu poco. Che è che ve fa sta male? Ditelo. Su, confidatevi...»
«Nella mia condizione, signor commissario, che? Potevo annà in giro pe Roma co un presciutto in collo? Me pare una cattiveria bella e bona de volé sofistica si quello ch’ha sparato è un garzone o nun è un garzone, o j’ha fatto er palo a quell’artro o nun je l’ha fatto. Io che ne so? Che je pare? Se metta un po’ ne li panni mia. Pe sentì dì da la gente: avemo visto er commendator Angeloni a via Panisperna che arrancava co un caciocavallo in collo? co du fiaschi uno de qua uno de là? che pareveno du gemelli, incollo a la balia...?»
Ingravallo altalenò[271] il capo su e giù legando lo sguardo ai verbali. Sembrò che perdesse la pazienza. Alzò la voce, spiccò le parole e le sillabe: «La portiera sostiene che: pure quell’al­tro garzone è venuto parecchie volte da voi: chille chiù gua­glione, me spiego? Due o tre mesi fa, che è molto meno dell’e­ternità, se vi pare. E siccome è nu tipe che m’interessa, in quanto che mi giurano che arrassomiglia tutto a quest’altro, chisto ‘e stammattina, me spiego? così, se non vi dispiace…»
«Capisco, capisco,» mugolò il commendatore.
«Oh! allora, pecchè nun me facite ‘a finezza?... con tanta voglia che ho di conoscerlo anch’io, sto maschietto. »
Era scritto che il ducentodiciannove de via Merulana, il pa­lazzo dell’Oro, o dei pescicani che fosse, era scritto: che dove­va fiorire anche lui un bel fiore, come tant’altri fabbricati ‘e sto munno, del resto. Il garofolone[272] scarlatto del «guarda un po’ che roba!» Con gran sussurro dei casigliani e dei colleghi dell’Economia, della sora Manuela poi non parliamone, il commendator Angeloni fu trattenuto fino alle nove della sera.

Un interrogatorio rivelatore
·         E questo un brano importante del romanzo: dalle parole del marito della vittima si evince il ritratto della contessa Liliana, donna tormentata dal cruccio insostenibile di non aver potuto avere figli e quindi affascinata e insieme profondamente turbata atta vista di uomini e donne che panano in sé la vita in potenza o in atto. Mentre i suoi anni e la sua bellezza sfioriscono, inutili...

[...] Furono accenni (e meglio che accenni) «di carattere intimo[273]» quelli espediti dal Balducci: parte spontaneamente, si direbbe a scivolo, abbandonatosi il cacciatore-viaggiatore a quella tale specie di logorrea cui si danno vinte certe anime m pena, o un po' ripentite magari de' trascorsi loro, non appena sopravvenga la fase di addolcimento, come il livido suole sopravvenire alla botta: di cicatrizzazione post-traumatica: allorché sentono che li raggiunge intanto il perdono, e di Cristo e degli uomini[274], parte, invece, tiratigli col più soave spago di bocca da una civile dialessi[275] da un appassionato perorare[276] da un vivido volger d'occhi, da una traente maieutica[277] e dalla caritatevole papaverina-eroina e della parlata e del gesto, del Golfo e del Vomero[278]: con azione blanda a un tempo e suasiva, tatràc! da cavadenti di tipo amabile[279]. Ed ecco il dente. Liliana, ormai, s'era fitta in capo che dar marito... non le verrebbero pupi: lo giudicava un buon marito, certo, «sotto tutti gli aspetti»: ma d'un bebé in viaggio, che! neanche il presagio. In dieci anni de matrimonio, a momenti, che, che! manco l’ispirazzione: e aveva sposato a ventuno[280]. I medici aveveno parlato chiaro: o lei, o lui. O tutt'e due. Lei? p'esclude che la colpa fosse sua avrebbe dovuto prova con un artro[281]. Glie lo aveva detto anche il professor D'Andrea. Per modo che da quelle delusioni continuate, da quei dieci anni, o quasi, dove aveveno messo così tormentate radici.
Il dolore, l'umiliazione, la disperazione, il pianto[282], da quegli anni inutili della sua bellezza datavano pure quei sospiri, quei mah! quelle lunghe guardate a ogni donna, a quelle piene, poi!... chi dice ma, cuore contento, non ha[283]... ai bambini, a le belle serve tutte fronzute de sélleri[284] e de spinaci, in della sporta, quanno veniveno da piazza Vittorio, la mattina: o cor mappamondo in aria, inchinate a soffia er naso a un pupetto, o a toccallo, si s'è bagnato fuori ora[285]: ch'è propio allora che je se vede er mejo, a la serva, tutta la salute, tutte le cosce, de dietro: dar momento ch'è de moda che cianno la mutanne corte corte, si pure ce l'hanno[286]. Guardava le ragazze, ricambiava d'un lampo, come una profonda malinconica nota, le guardate ardite dei giovani: una carezza, o una benevola franchia[287], mentalmente largite ai futuri largitori della vita[288]: a qualunque le paresse portare in sé la certezza, la verità germile[289], gheriglio del segreto divenire. Era il limpido assenso di un'anima fraterna: a chi delineava il disegno della vita. Ma precipitavano gli anni, l'uno dopo l'altro, dalla loro buia stalla nel nulla. Da quegli anni, operando la coercizione del costume[290], il primo palesarsi indi il graduale esasperarsi d'un delirio di solitudine: «raro int' a femmena», interloquì pianamente il dottor Fumi: «int' 'a femmena romana, poi...»: «semo de compagnia, noi romani,» consentì Balducci: e quel bisogno, tutt'al contrario, di appoggiarsi con l'animo all'altrui fisica immagine, e alla vivida genesia[291] delle genti e dei poveri: quella mania... di regalar lenzuoli doppi alle serve, de faje la dote pe forza[292], d'incoraggia ar matrimonio chi nun aspettava de mejo: quela fantasia de volé piagne, poi, e de soffiasse er naso, che je pijava pe giornate sane, povera Liliana, si davero.


La stanza della malattia
Da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda
·         La manipolazione delle risorse della lingua a scopo espressivo dà vita ad un testo narrativo caratterizzato da una straordinaria ricchezza verbale ottenuta attraverso la commistione di più registri e livelli espressivi e, naturalmente, finalizzata a scopi ben precisi.
·         Carlo Emilio Gadda è lo scrittore italiano novecentesco più rappresentativo di questi elaborati impasti linguistico-stilistici. Sul piano linguistico-stilistico il ‘Pasticciaccio’ presenta a volte difficoltà di lettura e di interpretazione legate alla complessità stilistica e lessicale della scrittura di Gadda. La molteplicità dei lessici a cui lo scrittore attinge è catalogabile secondo una serie di direttrici: 1) la direttrice verticale, come i registri, va da un livello aulico, di parole rare, ad un livello triviale/plebeo orizzontale (come i dialetti e le lingue): 2) la direttrice orizzontale che si estende dalle espressioni straniere alle voci gergali di cui il romanesco è il veicolo espressivo di tanti personaggi ed imbeve di sé l’intero canovaccio linguistico del romanzo, ma accanto al romanesco, compaiono il veneziano della contessa Menegazzi, il napoletano del dottor Fumi, il miscuglio molisano-romanesco di Ingravallo, frequenti toscanismi ed taluni lombardismi; la direttrice storica, come le accezioni passate di moda, i latinismi ed i grecismi, e quella settoriale come i linguaggi tecnici e specifici, a cui Gadda presta particolare attenzione, da cui il ricorso a voci ormai cadute. Infine, per lo scrittore è fondamentale l’apporto espressivo dei linguaggi tecnici. Tecnico assume per Gadda una valenza amplissima: è tale qualsiasi campo dell’attività umana che produca un proprio lessico specifico. La lingua perde in tal modo ogni linearità classicistica per diventare uno straordinario strumento di analisi, di mimesi dall’ interno: lo scrittore si tuffa nella realtà senza frapporre alcuno schermo protettivo, ne assorbe ogni voce, ogni inflessione, ogni dissonanza, e ciò che ne nasce è un impressionante impasto linguistico che si riversa su fatti, cose e personaggi con mutevole elasticità.
·         Nel brano, sono accostati, anche all'interno della medesima frase, espressioni dialettali e costruzioni latineggianti, termini di plebeo realismo ed elementi lessicali preziosi, pa­role specialistiche e citazioni ironiche della retorica fascista, immagini cru­damente realistiche e immagini baroccheggianti, la confusione stilistica non si configura come un gioco fine a se stesso bensì come lo strumento per riflettere ed esprimere una realtà che appare al narratore angosciosamen­te disordinata e distorta.

Ingravallo[293] [...] pigiò sull'uscio, con una certa caritatevole prudenza. Entrò, seguito dalla Tina e dal Di Pietrantonio[294], in una grande stanza. Un lezzo, ivi[295], di panni sudici o di persone poco lavabili e poco lavate nel male[296], o sudate all'opere che la campagna, senza remissione, col novo tempo domanda[297]: o anzi, in più, di feci male accantonate presso la degenza[298], così bi­sognosa di riparo[299]. Due lunghi ceri pitturati nei colori vivi, blu, rossi, oro, d'una tradizione coloristica non intermessa[300] negli anni, pendevano a muro[301] da due chiodi ai due lati d'un letto: l'olivo secco, un'oleografia[302], la Madon­na blu con la corona d'oro, in una cornice nera di legno. Alcune seggiole di paglia. Un gatto di gesso, con un nastrino al collo, scarlatto, sul comò, fra bottiglie, scodelle.
Accanto al male[303] era seduta una vecchia, la gonna dì rigatino a metà le tibie[304], con du scarpe de pezza[305] senza lacci (e, den­tro, lì piedi) che teneva appoggiate sulla traversina della sedia, aperte a pantofola. Nel letto, ampio, sotto coperte lise e verdastre tegumentale[306] in par­te da una buona[307] (e tepida, e chiara: dono di Liliana[308], argomentò[309] Ingravallo) un corpiciattolo disteso, come un gatto secco[310], in un sacco adagia­to a terra: una faccia ossuta e cachettica[311] posava nel cuscino, immota, d'un giallo-bruno da museo egizio: non fosse stato, invece, l'albore vetroso[312] della barba, che ne denunciò la pertinenza a non egizio catalo­go, a un'era della storia umana sciaguratamente prossima, e, per l'Ingravallo di quei giorni, addirittura attuale[313].
Tutto tacque. Non si capiva s'era un vivo o s'era un morto: s'era un orno o una donna, cui nel procedere fra le consolazioni della prole e della zappa[314] in un turbinio di zanzare verso le nozze d'oro, le[315] fosse spuntata quella barba: maschia barba, come so­leva dire, anche delle barbe femminili, il fondatore dell'impero quinquen­nale[316]. I due ceri, de qua e de là, sembravano attendere di venire infitti in adeguati candelai, appicciati da un pròspero che misericorde mano governasse[317]. Insofferente 'e chillo novo imbruoglio del genitore moribondo e tuttavia peritosa e pietosa[318], la immaginativa[319] del dottor Ingravallo scal­ciò, sgroppò[320], galoppò[321], udì e vide: vedeva e già già liquidava[322] la bara sen­za drappo...


Marcello riceve un incarico dal Ministero
da Il conformista[323] di Alberto Moravia
·         Marcello è un funzionario del regime fascista che è inviato in missione a Parigi, per arrestare un certo signor Quadri, il quale rappresentava una seria minaccia per il regime, perché era capace di coinvolgere con il suo carisma e con i suoi discorsi le masse, affinché si ribellassero al regime. Marcello, che, doveva sposarsi fra pochi giorni  pensò di camuffare la missione con la scusa del viaggio di nozze. Il brano è importante per la comprensione del romanzo, ma soprattutto per capire fino a che punto il Fascismo era capace di riuscire a spingersi  per non perdere il controllo delle masse. Inoltre ci fa capire il sistema burocratico del regime, molto ben organizzato ma fatto di idee tutt’altro che condivise. Il periodo in cui è collocato il romanzo sono gli anni trenta-quaranta, ed  è ambientato in una Società condizionata dai continui avvenimenti storici.   
·         Ormai sono quasi dieci anni che Marcello lavora al ministero degli interni e come di consueto, terminata una missione, si dirige in ufficio per ricevere un nuovo incarico. Come ogni mattina la sede del ministero è affollata, e Marcello rapidamente prende le scale e si dirige verso il corridoio che porta alla stanza del Colonnello. Lì attende  pochi minuti prima che l’usciere lo chiami per entrare. In quel frattempo vaga per il corridoio e si ferma ad osservare da una porta rimasta socchiusa. Ad un certo punto scorge un uomo che stringeva  una donna e la baciava, allora un po’ imbarazzato decide di andare via. In seguito, chiamato dall’usciere  velocemente entra nella stanza. Lì lo attende il colonnello ed il segretario, e poco dopo si aggiunse anche il ministro. Quest’ultimo è riconosciuto da Marcello, poiché era la persona che aveva visto in compagnia della donna pochi minuti prima. Intanto, il colonnello presenta la missione a Marcello, che insieme agli altri studia una strategia valida per non farsi scoprire; Il  problema è risolto dallo stesso Marcello che pensa di usare il viaggio di nozze, come alibi sulla sua visita al professore. Così, ricevuto l’incarico Marcello saluta i suoi colleghi e si dirige a casa della sua fidanzata.
·         Il tema principale del brano è l’inganno, e si presenta nel momento in cui  personaggi di alto rango nell’apparato  scelgono come esca Marcello, approfittando del fatto che egli era  una  vecchia conoscenza del Quadri. Il tema secondario del brano è la disponibilità di Marcello, e viene esposto quando Marcello si assume l’incarico  della missione, non mostrandosi mai in disaccordo con i suoi superiori. Tra l’altro questa caratteristica di Marcello lo rende uno degli elementi migliori a disposizione del regime. Il nesso di relazione tra i due temi è il lavoro , infatti è questo che spinge sia  il protagonista che il ministero ad escogitare il sistema migliore  per catturare il sig. Quadri.
·         La vicenda è narrata da un narratore esterno, che è informato dei fatti. Egli ci espone la vita lavorativa di un funzionario statale  alle prese con continue missioni da svolgere, per ordine del ministero. I personaggi principali della vicenda sono Marcello, il segretario, il colonnello ed il ministro. Il narratore non si sofferma molto sulle caratteristiche fisiche dei personaggi, ma si dedica soprattutto a rappresentare la discussione sulle strategie della missione. I personaggi secondari del brano sono l’usciere,  una compagna del ministro e le persone che si trovano al ministero. Anche in questo caso l’autore non si sofferma molto sulle caratteristiche fisiche, ma in poche circostanze ci descrive il loro vestiario.
·         Il brano è tratto da ‘Il Conformista’, un romanzo ambientato negli anni trenta-quaranta, durante il regime fascista. L’autore usa un  registro linguistico medio, per far capire meglio le condizioni politiche di quel tempo,  utilizza frasi di media lunghezza ed fa uso prevalentemente del passato remoto, per permettere di comprendere meglio l’evolversi di ogni vicenda. L’autore fa uso di una tipologia di frasi medie e utilizza prevalentemente il passato remoto, per permettere di capire meglio l’evolversi di ogni vicenda.

“Clerici[324],” gridò la voce dell’usciere. Egli trasalì e si levò in piedi. “La prima scala a destra.” Senza voltarsi si avviò verso il luogo designato.
Salì un larghissimo scalone in mezzo al quale serpeggiava un tappeto rosso e si trovò, dopo la seconda rampa, in un va­sto pianerottolo sul quale davano tre grandi porte a due bat­tenti. Andò a quella di mezzo, l’aprì e si trovò in un salone in penombra. C’era una lunga tavola massiccia, e, sulla tavola, nel mezzo, un mappamondo. Marcello girò un poco per questo salone che era probabilmente in disuso come attestavano le im­poste accostate delle finestre e le fodere che ricoprivano i canapè allineati contro le pareti; quindi aprì una delle tante porte, affacciandosi in un corridoio buio e angusto, tra due file di scaffali a vetri. In fondo al corridoio si intravedeva una porta socchiusa da cui filtrava un po’ di luce. Marcello si avvi­cinò, esitò e poi, pian piano, spinse un poco la porta. Non lo guidava la curiosità bensì il desiderio di trovare un usciere dal quale farsi indicare la stanza che cercava. Mettendo l’occhio alla fessura si accorse che il suo sospetto di aver sbagliato luogo non era infondato. Davanti a lui si stendeva una lunga e stretta stanza, illuminata blandamente da una finestra velata di giallo. Davanti alla finestra c’era una tavola e seduto alla tavola, le spalle alla finestra, di profilo, un uomo giovane, dal viso largo e massiccio, dalla persona corpulenta. In piedi con­tro il tavolo, il dorso verso di lui, Marcello vide una donna vestita di un abito leggero a grandi fiori neri su fondo bianco, un largo cappello nero di trine e di velo sul capo. Era molto alta e molto snella alla vita, ma larga di spalle e di fianchi, con gambe lunghe dalle magre caviglie. Ella si chinava verso il tavolo e parlava piano all’uomo che l’ascoltava seduto, fermo, di profilo, guardando non a lei ma alla propria mano che, sul piano del tavolo, si gingillava con una matita. Poi ella venne a mettersi a fianco della poltrona, incontro all’uomo, il dorso appoggiato al tavolo, faccia alla finestra, in atteggiamento più confidenziale; ma il cappello nero inclinato sull’occhio impedì che Marcello ne distinguesse il viso. Ella esitò, poi si chinò di sbieco e con un gesto goffo, levando una gamba, come ci si piega sotto una fontana per riceverne in bocca lo zampillo, cercò con le sue le labbra dell’uomo, che si lasciò baciare senza muoversi né dare a vedere per alcun segno che il bacio gli fosse gradito. Ella sì rovesciava indietro, nascondendo il proprio viso e quello dell’uomo con la larga tesa del cappello, poi vacillò e avrebbe perso l’equilibrio se l’uomo non l’avesse trattenuta cingendole la vita con un braccio. Adesso ella era in piedi, nascondendo con la persona l’uomo seduto, forse gli carezzava il capo. Il braccio dell’uomo le circondava tuttora la vita, quindi parve allentare la stretta e la mano spessa e tozza, come tirata giù dal suo peso, scivolò sulla natica della donna e vi rimase aperta, con le dita larghe, simile a un granchio o ad un ragno posato su una superficie liscia e sferica che ne respingeva la presa. Marcello riaccostò la porta.
Tornò indietro, per il corridoio, nel salone del mappamondo. Quanto aveva veduto confermava la fama di libertino del mi­nistro, poiché era appunto il ministro l’uomo seduto intravvisto nella stanza e Marcello l’aveva subito riconosciuto; ma stranamente, nonostante la sua inclinazione al moralismo, non intaccava affatto il fondo delle sue convinzioni. Marcello non provava  alcuna simpatia per quel ministro mondano e donnaiolo, anzi gli era antipatico; e l’intrusione della vita erotica in quella dell’ufficio gli pareva in sommo grado sconveniente. Ma tutto questo non intaccava neppure minimamente la sua credenza politica. Era come quando gli veniva detto, da persone degne di fede, che altri personaggi importanti rubavano o erano incompetenti o si giovavano delle influenze politiche per fini personali. Egli registrava queste notizie con un senso quasi tetro di indifferenza come cose che non lo riguardavano, dal momento che egli aveva fatto una volta per tutte la sua scelta e non intendeva cambiarla. Sentiva pure che tali cose non lo stupivano perché, in certo senso, le aveva scontate, da tempo immemorabile, con la sua precoce conoscenza dei caratteri meno amabili dell’uomo. Ma, soprattutto, avvertiva che tra la fedeltà al regime e il moralismo assai rigido che informava la propria condotta, non poteva esserci alcun rapporto: le ragioni di quella fedeltà avevano origini più profonde di qualsiasi criterio morale e non parevano essere scosse da una mano che palpeggiasse un fianco femminile in un ufficio di stato o da un furto o da qualsiasi delitto o errore. Quali poi altro fossero queste origini, non avrebbe saputo dirlo con precisione; tra esse e il suo pensiero si frapponeva il diaframma smorto e opaco della sua pervicace malinconia.
Impassibile, calmo, impaziente, andò ad un’altra porta del salone, intravvide un altro corridoio, si ritirò, provò una terza porta e si affacciò finalmente nell’anticamera che cercava. Gente seduta sui canapè torno torno le pareti, uscieri gallonati sta­vano in piedi presso le soglie. Egli comunicò a bassa voce ad uno di questi uscieri il nome del funzionario che desiderava visitare e poi andò a sedersi su uno dei canapè. Per ingannare l’attesa, spiegò di nuovo il giornale. La notizia della vittoria in Spagna[325] era stampata su tutte le colonne e questo, come si accorse, gli dava fastidio come un eccesso di dubbio gusto. Lesse di nuovo il dispaccio in neretto che annunziava la vitto­ria e poi passò ad una lunga corrispondenza in corsivo ma la lasciò quasi subito perché l’irritava lo stile manierato e falsa­mente soldatesco dell’inviato speciale. Indugiò un momento a domandarsi come avrebbe scritto lui stesso quell’articolo; e si sorprese a pensare che, se fosse dipeso da lui, non soltanto l’articolo dalla Spagna ma anche tutti gli altri aspetti del re­gime, dai meno importanti ai più vistosi, sarebbero stati com­pletamente diversi. In realtà, pensò, non c’era quasi nulla nel regime che non gli dispiacesse profondamente; e tuttavia que­sta era la sua strada e ad essa doveva restare fedele. Aprì di nuovo il giornale e leggicchiò qualche altra notizia, evitando con cura gli articoli patriottici e di propaganda. Finalmente levò gli occhi dal giornale e si guardò intorno.
Nel salone, in quel momento, non era restato che un vec­chio signore, dalla testa rotonda e canuta, e dal viso rubizzo improntato ad un’espressione insieme sfrontata, cupida e fur­ba. Vestito di chiaro, di una giubba sportiva e giovanile spac­cata sul dorso, certe grosse scarpe con la suola di gomma ai piedi, una cravatta vivace sul petto, costui si dava l’aria di esser di casa nel ministero, camminando in su e in giù per il salone, e interpellando con disinvoltura e scherzosa impazienza gli uscieri ossequienti fermi sulle soglie delle porte. Poi una delle porte si aprì e ne uscì un uomo di mezza età, calvo, magro salvo che per il ventre prominente, svuotato e giallo in viso, gli occhi perduti in fondo a larghe occhiaie nere, una espressione pronta, scettica e spiritosa sui tratti aguzzi. Il vec­chio gli andò subito incontro con un’esclamazione di giocosa protesta, l’altro gli fece un saluto cerimonioso e deferente e poi il vecchio, con gesto confidenziale, prese l’uomo dal viso giallo non per un braccio ma addirittura per la vita, come una donna, e camminandogli accanto attraverso il salone, incominciò a parlargli a bassissima voce, in tono sussurrato e urgente. Marcello aveva seguito la scena con occhio indifferente; quindi, tutto ad un tratto, si accorse con sorpresa di provare un odio forsennato contro il vecchio, non sapeva neppure lui perché. Marcello non ignorava che in qualsiasi momento e per i più diversi motivi, imprevisto come un mostro che emerga da un mare immobile, poteva affiorare, sulla morta superficie della sua consueta apatia, uno di questi eccessi di odio; ma ogni volta si stupiva come dì fronte ad un aspetto sconosciuto del proprio carattere che smentiva tutti gli altri noti e sicuri. Quel vecchio, per esempio, sentiva che avrebbe potuto ucci­derlo o farlo uccidere facilmente; anzi, che desiderava ucci­derlo. Perché? Forse, pensò, perché lo scetticismo, il difetto che odiava di più, era così chiaramente dipinto su quel viso ru­bicondo. O perché la giubba aveva lo spacco dietro e il vecchio, tenendo la .mano in tasca, ne sollevava un lembo scoprendo la parte posteriore dei pantaloni, floscia e troppo ampia così da dare un senso ripugnante di manichino da vetrina di sarto. Comunque l’odiava e con tanta e così insoffribile intensità che preferì alla fine abbassare di nuovo gli occhi sul giornale. Quando li rialzò, dopo un lungo momento, il vecchio e il suo compagno erano scomparsi e il salone era deserto.
Di lì a poco, uno degli uscieri venne a sussurrargli che poteva passare e Marcello si alzò e lo seguì. L’usciere aprì una delle porte e lo lasciò passare. Marcello si trovò in una vasta stanza dal soffitto e dalle pareti affrescate, in fondo alla quale era una tavola sparsa di carte. Dietro la tavola sedeva l’uomo dal viso giallo, già intravvisto nel salone; di lato, un altro uomo che Marcello conosceva bene, il suo immediato superiore al Servizio Segreto. All’apparire di Marcello l’uomo dal viso giallo[326], che era uno dei segretari del ministro, si levò in piedi; l’altro, invece, rimase seduto salutandolo con un cenno del capo. Quest’ultimo, un vecchio magro dall’aspetto militaresco, scarlatto e legnoso in viso, con due baffi di una nerezza e di un’ispidezza posticcia di maschera, formava, come pensò, un contrasto completo con il segretario. Era, infatti, come sapeva, un uomo ligio, rigido, onesto, avvezzo a servire senza discutere, ponendo quello che considerava il proprio dovere al diso­pra di tutto, perfino della coscienza; mentre il segretario[327], per quanto ricordava, era un uomo di specie più recente e tutta diversa: ambizioso e scettico, mondano, con il gusto dell’intrigo spinto fino all’efferatezza, fuori di ogni obbligo professionale e di ogni limite di coscienza. Al vecchio andava naturalmente tutta la simpatia di Marcello, anche perché gli pareva di ravvi­sare in quel viso rosso e sciupato la stessa oscura malinconia che l’opprimeva così sovente. Forse, come lui, il colonnello Baudino[328] avvertiva il contrasto tra una fedeltà immobile e quasi stregata che non aveva nulla di razionale e gli aspetti troppo spesso deplorevoli della realtà quotidiana. Ma forse, pensò ancora guardando il vecchio, era soltanto un’illusione; e lui, come avviene, prestava al superiore i propri sentimenti per simpatia, quasi sperando di non esser solo a provarli.
Il colonnello disse seccamente, senza guardare Marcello né il segretario: “Questo è il dottor Clerici di cui ebbi a parlarvi qualche tempo fa,” e il segretario con una prontezza cerimo­niosa e quasi ironica, sporgendosi sulla tavola, gli tese la mano e l’invitò a sedersi. Marcello sedette, il segretario sedette a sua volta, prese una scatola di sigarette e l’offrì prima al colon­nello, che rifiutò, e poi a Marcello che accettò. Quindi, dopo aver acceso anche lui una sigaretta, disse: “Clerici, mi fa molto piacere conoscervi... il colonnello, qui, non fa che cantare le vostre lodi... a quanto pare siete, come si dice, un asso.” Egli sottolineò il “come si dice” con un sorriso e poi proseguì: “Ab­biamo esaminato insieme con il ministro il vostro piano e l’abbiamo giudicato senz’altro ottimo... voi conoscete bene il Quadri[329]?”
“Sì,”  disse Marcello, “era mio professore all’università.”
“E siete sicuro che il Quadri ignora la vostra qualità di funzionario?”
“Lo credo.”
“La vostra idea di simulare una conversione politica allo scopo di ispirare fiducia ed entrare nella loro organizzazione e magari farvi affidare un incarico in Italia,” proseguì il se­gretario abbassando gli occhi verso la tavola, su un punto che aveva davanti a sé, “è buona... anche il ministro è d’accordo che qualche cosa del genere va tentato senza indugio.., quando ve la sentireste di partire, Clerici?” “Appena sarà necessario.”
“Molto bene,” disse il segretario, un po’ sorpreso tuttavia, come se si fosse aspettato una risposta diversa, “benissimo... tuttavia c’è un punto che occorre chiarire... voi vi accingete a portare a termine una missione, diciamo così, piuttosto deli­cata e pericolosa... si diceva qui col colonnello che per non dare nell’occhio dovreste trovare, escogitare, inventare qualche pretesto plausibile per la vostra presenza a Parigi... non dico che sappiano chi siete né che siano in grado di scoprirlo... ma, insomma, le precauzioni non sono mai troppe... tanto più che il Quadri, come ci dite nella vostra relazione, non ignorava a suo tempo i vostri sentimenti di lealtà verso il regime...” “Se non ci fossero questi sentimenti,” disse Marcello asciut­to, “non potrebbe però neppure esserci la conversione...”
“Giusto, giustissimo... ma non si va apposta a Parigi per presentarsi da Quadri e dirgli: eccomi qui... bisogna invece che diate l’impressione di trovarvi a Parigi per motivi privati, non politici, insomma... e di approfittare dell’occasione per rivelare a Quadri la vostra crisi spirituale... bisogna,” concluse ad un tratto il segretario levando gli occhi verso Marcello, “che abbiniate la missione con qualche cosa di personale, di non ufficiale.” Il segretario si voltò verso il colonnello e sog­giunse: “Non vi pare, colonnello?”
“È anche il mio parere,” disse il colonnello senza levare gli occhi. E soggiunse dopo un momento: “Ma soltanto il dottor Clerici può trovare il pretesto che gli conviene.”
Marcello chinò il capo senza pensar nulla. Gli pareva che non ci fosse nulla da rispondere, per il momento, perché un tal pretesto andava studiato con calma. Stava per rispondere: “Datemi due o tre giorni di tempo e intanto ci penserò,” quando, improvvisamente, la lingua gli parlò quasi suo malgrado: “Io mi sposo tra una settimana... si potrebbe abbinare la missione al viaggio di nozze.”
Questa volta, la sorpresa del segretario, seppure subito ri­coperta da un pronto entusiasmo, fu evidente e profonda. Del tutto impassibile, come se Marcello non avesse parlato, rimase, invece, il colonnello. “Molto bene... benissimo,” escla­mo il segretario con aria sconcertata, “voi vi sposate... non si poteva trovare un pretesto migliore... il classico viaggio di nozze a Parigi.”
“Sì,” disse Marcello senza sorridere, “il classico viaggio di nozze a Parigi.”
Il segretario temette di averlo offeso. “Volevo dire che Pa­rigi è proprio il luogo adatto per un viaggio di nozze... pur­troppo, non sono sposato... ma se dovessi sposarmi, credo che anch’io andrei a Parigi...”
Marcello questa volta non parlò. Gli avveniva spesso di ri­spondere in questo modo a coloro che gli riuscivano antipatici: con un silenzio completo. Il segretario, per rinfrancarsi, si voltò verso il colonnello: “Avete ragione voi colonnello... soltanto il dottor Clerici poteva trovare un simile pretesto... noi, anche se l’avessimo trovato, non avremmo potuto sugge­rirglielo.”
Questa frase, pronunziata in tono ambiguo e semiserio, era, come pensò Marcello, a doppio, taglio:  poteva essere davvero una lode, seppure un po’ ironica, come dire: “Diavolo, che fanatismo!” e poteva invece essere l’espressione di un senti­mento di stupido disprezzo: “Che servilità... non rispetta nep­pure le proprie nozze.” Probabilmente, come pensò, era ambe­due le cose, poiché era chiaro che per il segretario stesso il confine tra fanatismo e servilità non era segnato con preci­sione: ambedue mezzi di cui, volta per volta, si serviva, per raggiungere sempre gli stessi fini. Notò con compiacimento che anche il colonnello rifiutava al segretario il sorriso che colui sembrava impetrare con la sua frase a doppio senso. Seguì un momento di silenzio. Adesso Marcello guardava fisso negli occhi al segretario, con una immobilità e una mancanza di soggezione che sapeva e voleva sconcertanti. E, infatti, il segre­tario non resse lo sguardo, e tutto. ad un tratto, appoggian­dosi con le due mani sul piano della tavola, si levò in piedi. “Bene... allora voi colonnello vi metterete d’accordo con il dottor Clerici per le modalità della missione... voi,” egli pro­seguì volgendosi a Marcello, “dovete però sapere che avete tutto l’appoggio del ministro e mio... anzi,”  egli soggiunse con affettata casualità, “il ministro ha esternato il desiderio di conoscervi personalmente.”
Anche questa volta Marcello non aprì bocca, limitandosi a levarsi in piedi e a fare un leggero inchino deferente. Il segretario, che si era forse aspettato parole di gratitudine, ebbe un nuovo movimento di sorpresa, subito represso:   “Restate, Clerici... il ministro mi ha ordinato di portarvi direttamente da lui,”
Il colonnello si alzò e disse: “Clerici, voi sapete dove tro­varmi.” Egli tese la mano al segretario, ma costui volle a tutti i costi accompagnarlo fino alla porta, con una cerimonio­sità premurosa e ossequiente. Marcello li vide stringersi la mano e poi il colonnello scomparve e il segretario tornò verso di lui: “Venite, Clerici,., il ministro è occupatissimo, cionono­stante tiene assolutamente a vedervi e a manifestarvi il suo compiacimento... è la prima volta, nevvero, che siete intro­dotto dal ministro?” Queste parole furono pronunziate attra­verso una minore anticamera attigua alla stanza del segretario. Il quale andò ad una porta, l’aprì, scomparve facendogli cenno di aspettare e poi, quasi subito, si riaffacciò invitandolo a se­guirlo,
Apparve a Marcello, entrando, la stessa stanza lunga e stretta che poco prima aveva osservato attraverso la fessura delia porta; soltanto adesso, la stanza si presentava ai suoi sguardi per largo con la tavola di fronte a lui. Dietro la tavola, sedeva l’uomo dalla faccia larga e massiccia e dalla persona corpulenta che egli aveva spiato mentre si lasciava baciare dalla donna dal grande cappello nero. Notò che la tavola era sgombra, lucida da specchiarvisi, senza carte, con un grande calamaio di bronzo e una cartella chiusa di cuoio scuro. “Ec­cellenza, questo è il dottor Clerici...” disse il segretario.
Il ministro si levò in piedi tendendo la mano a Marcello, con una cordialità premurosa ancor più spiccata di quella del segretario, ma priva affatto di amenità, anzi decisamente auto­ritaria. “Come state Clerici?” Parlava pronunziando con cura e lentezza le parole, imperiosamente, come se fossero state piene di un significato particolare. “Mi è stato parlato di voi in termini elogiativi…il regime ha bisogno di uomini come voi.”
Adesso il ministro si era riseduto, e, toltosi il fazzoletto di tasca, si soffiava il naso, pur esaminando certe carte che il segretario gli sottoponeva. Per discrezione, Marcello si ritirò verso l’angolo più lontano della stanza. Il ministro[330] guardava le carte mentre il segretario gli sussurrava piano nell’orecchio quindi guardò il fazzoletto e Marcello vide che il fazzoletto di lino bianco era macchiato di rosso e ricordò che, al momento di entrare, la bocca del ministro gli era sembrata più rossa del naturale: il rossetto della donna dal cappello nero. Pur conti­nuando ad esaminare le carte che il segretario gli mostrava, senza scomporsi né preoccuparsi di essere osservato, il ministro prese a fregarsi fortemente la bocca con il fazzoletto, guardandolo ogni tanto, per vedere se il rossetto resistesse ancora. Finalmente l’esame delle carte e quello del fazzoletto finirono insieme, e il ministro si levò in piedi e tese di nuovo la mano a Marcello. “Arrivederci Clerici, come vi avrà già detto il mio segretario, la missione alla quale vi accingete ha il mio appoggio incondizionato, completo.”
Marcello si inchinò, strinse la mano spessa e corta, e seguì il segretario fuori della stanza.
Tornarono nella stanza del segretario. Costui posò sulla ta­vola le carte esaminate dal ministro e poi accompagnò Marcello alla porta. “Allora, Clerici, in bocca al lupo,” egli disse con un sorriso, “e auguri per le nozze.” Marcello ringraziò con un cenno del capo, un inchino e una frase indistinta. Il segretario, con un ultimo sorriso, gli strinse la mano. Quindi la porta si chiuse.


Marcello contatta il sig. Quadri e fissa un appuntamento
·         Marcello pochi giorni dopo aver ricevuto la missione dal ministero, sposa la giovane Giulia e parte in viaggio di nozze verso Parigi.  A Parigi il giovane dovrà assumere sia la veste di novello sposo  sia quella di agente segreto fascista. Da questo insieme di situazioni ne verrà fuori un bellissimo intreccio che è appunto il corpo centrale del romanzo. Il brano è molto importante per la comprensione del romanzo perché ci evidenzia la fedeltà e l’ubbidienza tenuta degli agenti del regime nel momento in cui ricevono ordini dai superiori. Il romanzo è collocato negli anni quaranta, quando l’Italia veniva sconvolta dalla seconda guerra mondiale.
·         Marcello arrivato a Parigi trovò alloggio in un albergo del centro. Passata la notte, il giovane   verso mezzogiorno scende in portineria e chiede se è possibile contattare un certo sig. Quadri. Nell’ attesa in salotto Marcello ripensò all’ultima volta che andò a casa Quadri, e ricordava quella enorme mole di libri che circondava la stanza, ma soprattutto l’aspetto fisico dell’uomo. Trascorsi circa dieci minuti in salotto, la voce dell’usciere lo chiamò. Marcello si diresse al telefono, e alzò subito la cornetta . La voce era della segretaria che informava dei numerosi impegni del dottore, e gli riferì  di dover ancora attendere qualche minuto. Così Marcello dopo poco riuscì a parlare con il Quadri. Marcello si presentò e il professore si ricordò vagamente  di lui, ci fu una breve conversazione dopodiché Marcello riuscì con molta facilità a fissare un appuntamento nel pomeriggio. Marcello salutò il Prof. Quadri e riagganciò. Un istante dopo fu subito richiamato al telefono, e  quasi impaurito, l’uomo alzò di nuovo la cornetta. Questa volta era Orlando, il funzionario del regime che lo aveva seguito in missione, e gli domandava se fosse possibile incontrarlo al bar all’angolo, per informarlo sulla situazione. Marcello rispose che non c’era problema e i due si diedero appuntamento mezz’ora dopo. L’uomo lasciò la cabina ma fu richiamato per la terza volta al telefono, questa volta era sua moglie, che gli chiese di aspettarla prima di andare via.
·         Il tema principale del brano è l’ingenuità. Esso viene esposto nel momento in cui il Prof. Quadri pur ricordandosi vagamente di Marcello accetta l’appuntamento. Anche in questo brano il narratore è esterno, ed è informato di tutta la vicenda. Egli si sofferma molto sulla descrizione del ricordo di Marcello del sig. Quadri, ma non si sofferma molto sui personaggi secondari, come il portiere o il servitore dell’albergo.  
·         Il brano è tratto da “Il Conformista”, un romanzo ambientato negli anni trenta-quaranta,durante il regime fascista. L’autore usa un registro linguistico medio, per far capire meglio le condizioni politiche di quel tempo,utilizza frasi di media lunghezza ed fa uso prevalentemente del passato remoto, per permettere di capire meglio l’evolversi di ogni vicenda. L’autore fa uso di una tipologia di frasi medie ed utilizza prevalentemente il passato remoto, per permettere di capire meglio l’evolversi di ogni vicenda.

Dopo avere incaricato il portiere dell’albergo di chiamargli il numero di Quadri[331], Marcello andò a sedersi in un angolo del­l’atrio. Era un albergo grande e l’atrio era molto vasto, con colonne che ne sostenevano le volte, gruppi di poltrone, vetri­ne in cui erano esposti manufatti di lusso, scrivanie e tavoli; molta gente andava e veniva dall’ingresso alla gabbia del­l’ascensore, dal banco del portiere a quello della direzione, dall’uscio del ristorante ai salotti che si aprivano oltre le co­lonne. Marcello avrebbe voluto distrarsi, nell’attesa, con lo spettacolo di quest’atrio così allegro e popolato, ma come ti­rato giù verso il fondo della memoria dall’angoscia presente, il pensiero gli si volse, quasi suo malgrado, alla prima e sola vi­sita che aveva fatto a Quadri molti anni prima. Marcello era allora studente e Quadri era il suo professore: egli si era recato alla casa di Quadri, un vecchio palazzo
rosso nei pressi della stazione, per consultarlo sulla tesi di laurea. Appena entrato, Marcello era stato colpito dall’enorme quantità di libri accu­mulati in ogni angolo dell’appartamento. Già nell’anticamera, aveva notato certe vecchie tende che parevano nascondere usci; ma, scostandole, aveva scoperto file e file di libri allinea­ti dentro rientranze delle pareti. La cameriera l’aveva preceduto per un lunghissimo e tortuoso corridoio che sembrava girare intorno il cortile del palazzo e anche il corridoio, da ambo le parti, era ingombrato da scaffali pieni di libri e di carte. Finalmente, introdotto nello studio di Quadri, Marcello si era trovato tra quattro pareti anch’esse fittamente gremite di libri, dal pavimento fino al soffitto. Altri libri erano sulla scrivania, disposti l’uno sull’altro in due cataste ordinate, tra le quali, come ad una feritoia, si affacciava il viso barbuto del professore. Marcello aveva subito notato che Quadri aveva un viso curiosamente piatto e asimmetrico, simile ad una ma­schera di cartapesta dagli occhi orlati di rosso e dal naso triangolare, alla quale, sulla parte inferiore, fossero stati in­collati in maniera sommaria una barba e un paio di baffi po­sticci. Anche sulla fronte, i capelli troppo neri e come madidi suggerivano l’idea di una parrucca male applicata. Tra i baffi a spazzola e la barba a scopette, ambedue di una nerezza sospetta, si intravvedeva una bocca molto rossa, dalle labbra informi; e Marcello non aveva potuto fare a meno di pensare che tutto quel pelo maldistribuito nascondesse qualche defor­mità come, per esempio, una completa mancanza di mento oppure una spaventosa cicatrice. Era, insomma, un viso in cui non c’era nulla di sicuro e di vero, tutto falso, proprio una maschera. Il professore sì era alzato per accogliere Marcello e in questo gesto aveva rivelato la sua piccola statura e la gob­ba o, meglio, la deformazione della spalla sinistra, che aggiungeva un’aria dolorosa alla eccessiva dolcezza e affettuosità dei modi. Stringendogli la mano attraverso i libri, Quadri, con gesto di miope, aveva guardato il visitatore al disopra delle forti lenti; così che per un momento Marcello aveva avuto l’impressione di essere scrutato non da due ma da quattro occhi. Aveva anche notato lo stile antiquato del vestito di Quadri: giacca da finanziere, nera, con risvolti di seta, pantalo­ni a righe neri anch’essi, camicia bianca col collo e i polsini inamidati, catena d’oro sul panciotto. Marcello non aveva al­cuna simpatia per Quadri: lo sapeva antifascista e, nella sua mente l’antifascismo di Quadri, il suo aspetto imbelle, malsano e laido, la sua erudizione, i suoi libri, tutto insomma, gli pa­reva che contribuisse a formare l’immagine convenzionale e continuamente additata al disprezzo dalla propaganda del par­tito, dell’intellettuale negativo e impotente. D’altra parte, la straordinaria dolcezza di Quadri ripugnava a Marcello come un tratto di falsità: gli pareva impossibile che un uomo potesse essere così dolce senza menzogna e senza secondi fini.
Quadri aveva accolto Marcello con le solite espressioni di affettuosità quasi smancerosa. Spesso intercalando parole co­me: “caro figliuolo” “figliuolo mio,” “figliuolo caro,” agitan­do sopra i libri le piccole mani bianche, gli aveva mosso una quantità di domande prima sulla sua famiglia e poi su di lui personalmente. Alla notizia che il padre di Marcello era rico­verato in una clinica per malattie mentali, aveva esclamato: “Oh povero figliuolo, non lo sapevo, che sventura, che terri­bile sventura, e la scienza non può far nulla per ricondurlo alla ragione?” Ma non aveva ascoltato la risposta di Marcello ed era passato subito ad un altro argomento. Aveva una voce di gola, modulata e armoniosa, dolcissima, piena di apprensiva sollecitudine. Curiosamente, però, attraverso questa sollecitudi­ne così svenevole e dichiarata, come una filigrana nella traspa­renza di una carta, Marcello aveva creduto di indovinare una completa indifferenza: Quadri, nonché interessarsi veramente a lui, forse non lo vedeva neppure. Marcello era stato anche colpito dalla mancanza di sfumature e di sbalzi del tono di Quadri: parlava sempre con lo stesso accento uniformemente affettuoso e sentimentale, si trattasse di cose che richiedevano quest’accento come di altre che non lo richiedevano affatto. Quadri, a conclusione delle numerose domande, si era final­mente informato se Marcello fosse fascista; e avutane una ri­sposta affermativa, senza cambiar tono né dare a vedere alcuna reazione, aveva spiegato in maniera quasi casuale quanto fosse difficile per lui i cui sentimenti antifascisti erano ben noti, continuare in un regime come quello fascista l’insegnamento di materie quali la filosofia e la storia. A questo punto Mar­cello, imbarazzato, aveva cercato di portare il discorso sul mo­tivo della sua visita. Ma Quadri l’aveva subito interrotto: “Forse lei si domanderà perché mai io le dica tutte queste cose... caro figliuolo, gliele dico non oziosamente né per sfogo personale... non mi permetterei di farle perdere il tempo che deve dedicare agli studi... gliele dico per giustificare in qualche modo il fatto che non potrò occuparmi né di lei né della sua tesi: lascio l’insegnamento.”
“Lei lascia l’insegnamento,” aveva ripetuto Marcello sor­preso.
“Sì,” aveva confermato Quadri stropicciandosi con gesto abituale una mano sulla bocca e sui baffi. “Sebbene con dolore, con vero dolore perché sinora avevo dedicato tutta la mia vita a voialtri, mi vedo costretto a lasciare la scuola.” Dopo un incruento, senza enfasi, con un sospiro, il professore aveva sog­giunto: “Eh, sì, ho deciso di passare dal pensiero all’azione... forse la frase non le sembrerà nuova, ma rispecchia fedelmen­te la mia situazione.”
Lì per lì, Marcello aveva quasi sorriso. Gli era sembrato, infatti, comico questo professor Quadri, questo piccolo uomo in finanziera, gobbo, miope, barbuto, che tra le cataste dei suoi libri, seduto in poltrona, gli dichiarava che aveva deciso di passare dal pensiero all’azione. Il senso della frase, tuttavia, non era dubbio: Quadri, dopo esser stato per anni oppositore passivo, chiuso nei suoi pensieri e nella sua professione, aveva deciso di passare alla politica attiva, forse di darsi alla cospirazione. Marcello, con subitaneo soprassalto di antipatia, non aveva potuto fare a meno di avvertire, con freddezza minaccio­sa: “Lei fa male a dirlo a me... io sono fascista e potrei anche denunziarla.”
Ma Quadri gli aveva risposto, con estrema dolcezza, passan­do dal lei al tu: “So che sei un buono, caro figliuolo, un onesto e bravo figliuolo e so che non faresti mai una cosa di questo genere.”
“Che il diavolo se lo porti,” aveva pensato Marcello indi­spettito. E, con sincerità, aveva risposto: “Potrei anche farlo... l’onestà, per noi fascisti, consiste appunto, nel denunziare e mettere nell’impossibilità di nuocere persone come lei.”
Il professore aveva scosso la testa: “Caro figliuolo, tu sai, mentre parli, che ciò che dici non è vero... lo sai, o meglio lo sa il tuo cuore... e infatti tu, da quel giovane onesto che sei, hai voluto avvertirmi... un altro, sai che avrebbe fatto, un vero delatore? Avrebbe finto di approvarmi e poi, una volta che mi fossi compromesso con qualche dichiarazione veramente im­prudente, mi avrebbe denunziato... ma tu mi hai avvertito.” “L’ho avvertita,” aveva risposto con durezza Marcello, “perché credo che lei non sia capace di ciò che chiama azione... perché non si contenta di fare il professore?... Di quale azione parla?”
“L’azione... non importa dir quale,” aveva risposto Quadri sogguardandolo fissamente. Marcello, a queste parole, non aveva potuto fare a meno di levare gli occhi verso le pareti agli scaffali pieni di libri. Quadri aveva colto a volo quello sguardo e, sempre dolcissimamente, aveva soggiunto: “Ti pare strano, nevvero, che io parli d’azione?... Tra tutti questi libri?... Tu in questo momento pensi: ‘ma di che azione va cianciando questo piccolo uomo gobbo, storto, miope, barbuto?’ di’ la verità, è questo quello che pensi... i giornaletti del tuo partito ti hanno tante volte descritto l’uomo che non sa e non può agire, l’intellettuale, e ti vien fatto di sorridere con compassione, riconoscendomi in quell’immagine... non è così?”
Sorpreso da tanto acume, Marcello aveva esclamato: “Come ha fatto a capirlo?”
“Oh, mio caro figliuolo,” aveva risposto Quadri alzandosi in piedi, “mio caro figliuolo, l’ho capito subito... ma non è detto che per agire bisogna avere un’aquila d’oro sul berretto e dei galloni sulle maniche... arrivederci, ad ogni modo, arri­vederci, arrivederci e buona fortuna... arrivederci.” Così di­cendo, dolcemente, implacabilmente, aveva spinto Marcello verso la porta.
Adesso Marcello, ripensando a quell’incontro, si rendeva conto che nel suo avventato disprezzo per Quadri gobbo, bar­buto e pedante, erano entrate molta impazienza e inesperienza giovanili. Quadri stesso, d’altronde, gli aveva dimostrato coi fatti il suo errore: fuggito, pochi mesi dopo il loro colloquio, a Parigi, vi era diventato ben presto uno dei capi dell’anti­fascismo, forse il più abile, il più preparato, il più aggressivo. La sua specialità, a quanto sembrava, era l’apostolato. Giovan­dosi dell’esperienza didattica e della conoscenza della mentali­tà giovanile, riusciva spesso a convertire giovani indifferenti o anche di sentimenti contrari e poi a spingerli a imprese ardite, pericolose e quasi sempre disastrose se non per lui che ne era l’ispiratore, per loro che ne erano i candidi esecutori. Egli non pareva provare, tuttavia, gettando questi suoi adepti nella lotta cospirativa, alcuna di quelle preoccupazioni umanitarie che, dato il suo carattere, si sarebbe stati tentati di attribuirgli; anzi li sacrificava con disinvoltura in azioni disperate che si potevano giustificare soltanto in piani a lunghissima scadenza e comportanti, appunto, per necessità, una crudele indifferenza per la vita umana. Quadri, insomma, aveva alcune delle rare qualità dei veri uomini politici o per lo meno di una certa categoria di costoro: era astuto e al tempo stesso entusiasta, intellettuale e al tempo stesso attivo, candido e al tempo stesso cinico, riflessivo e al tempo stesso imprudente. Marcello, per obbligo di ufficio, si era spesso occupato di Quadri, dalle rela­zioni della polizia definito elemento pericolosissimo, ed era sempre rimasto colpito dalla capacità dell’uomo di accozzare.
Insieme tante qualità contrastanti in un solo carattere profondo e ambiguo. Così, pian piano, attraverso quanto gli era riuscito di apprendere a distanza e per mezzo di informazioni non sem­pre precise, aveva cambiato il primo disprezzo in una indispettita considerazione. Ferma, tuttavia, restando l’originaria an­tipatia; perché era convinto che a Quadri, tra tante qualità, mancasse quella del coraggio, come gli pareva dimostrato dal fatto che, pur spingendo i suoi seguaci in pericoli mortali, mai si esponeva personalmente.
Trasalì tra questi pensieri alla voce di un servitore dell’al­bergo che, passando rapido per l’atrio, gridava ad alta voce il suo nome. Per un .momento quasi pensò che fosse il nome di un altro, aiutato io questa illusione dalla pronunzia francese del servitore. Ma questo “Monsieur Clerici” era pur tuttavia lui, come si rese conto con una specie di nausea quando, fin­gendo a se stesso di credere davvero che fosse un altro, cercò di immaginare come potesse essere: lui, con il suo viso, la sua persona, i suoi panni. Intanto il servitore si allontanava in direzione della sala di scrittura, sempre chiamandolo. Mar­cello si alzò e andò direttamente alla cabina del telefono.
Prese il ricevitore posato sopra la mensola e lo portò all’orec­chio. Una voce femminile, limpida e un po’ cantante, domandò in francese chi fosse all’apparecchio. Marcello rispose nella stessa lingua: “Sono un italiano... Clerici, Marcello Clerici... e vorrei parlare al professor Quadri.”
“È molto occupato,.. non so se potrà venire... avete detto che vi chiamate Clerici?” ‘Sì, Clerici.”
“Aspettate un momento.”
Ci fu il rumore del ricevitore deposto sopra una tavola, poi quello dei passi che si allontanavano e finalmente il silenzio. Marcello aspettò, a lungo, prevedendo che altro rumore di passi avrebbe annunziato il ritorno della donna oppure l’arrivo del professate. Invece, tutto ad un tratto, risuonò la voce di Qua­dri, scaturendo senza preavvisi da quel profondissimo silen­zio: “Pronto, Quadri... chi parla?”
Marcello spiegò in fretta: “Mi chiamo Marcello Clerici... ero un suo studente, di quando lei insegnava a Roma... desidererei vederla.”
“Clerici,” ripetè Quadri dubbiosamente. E poi, dopo un mo­mento, con decisione: “Clerici: non conosco.”
“Ma sì, professore,” insistette Marcello, “venni a trovarla pochi giorni prima che lei lasciasse l’insegnamento... volevo sottoporle un progetto di tesi.”
“Un momento, Clerici,” disse Quadri, “io non ricordo affat­to il suo nome... ma questo non toglie che lei possa aver ra­gione... e lei vuoi vedermi?”
“Sì.”
“Perché?”
“Per nessun motivo,” rispose Marcello, “siccome ero suo al­lievo e poi ho sentito in questi ultimi tempi molto parlare di lei... volevo vederla, ecco tutto.”
“Ebbene,” disse Quadri in tono arrendevole, “venga a tro­varmi a casa mia.”
“Quando?”
“Anche oggi... nel pomeriggio... dopo colazione, venga a prendere il caffè... verso le tre.”
“Debbo dirle,” proferì Marcello “che sono in viaggio di nozze... potrei portare mia moglie?”
“Ma si capisce... naturalmente... a più tardi.”‘
Il telefono fu abbassato e anche Marcello, dopo un istante di riflessione, rimise a posto il ricevitore. Ma non fece a tempo a uscire dalla cabina perché quello stesso servitore che poco prima aveva chiamato il suo nome per l’atrio, si affacciò dicendogli: “Vi desiderano al telefono.”
“Ho già parlato,” disse Marcello facendo per uscire.
“No, vi desidera un’altra persona.”
Meccanicamente, rientrò nella cabina, staccò di nuovo il ri­cevitore. Subito una grossa voce bonaria e festosa gli gridò nell’orecchio: “Siete voi, dottor Clerici?”
Marcello riconobbe la voce dell’agente Orlando[332] e rispose con voce calma. “Sì, sono io.”
“Avete fatto buon viaggio, dottore?”
“Sì ottimo.”
“La signora sta bene?”
“Benissimo.”
“E di Parigi che ne dite?”
“Non sono ancora uscito dall’albergo,” rispose Marcello un po’ spazientito da questa familiarità.
“Vedrete... Parigi è Parigi... allora, dottore, vogliamo in­contrarci?”
“Certamente Orlando... ditemi voi dove.”
“Voi non conoscete Parigi, dottore... vi do l’appuntamento in un luogo facile a trovarsi... il caffè che fa angolo con piazza della Maddalena... non vi sbagliate, a sinistra venendo da Rue Royale... ha tutti i tavolini fuori... ma io vi aspetto dentro... non ci sarà nessuno dentro.” “Va bene... a che ora?”
“Ci sono già al caffè... ma aspetto quanto volete...” “Tra mezz’ora.”
“A meraviglia dottore... tra mezz’ora.” Marcello uscì dalla cabina e si avviò verso l’ascensore. Men­tre entrava nella cabina, udì per la terza volta il solito ser­vitore chiamare ad alta voce il suo nome e questa volta si meravigliò veramente. Gli venne quasi la speranza di un inter­vento sovraumano, come se servendosi del corno di ebanite nera del telefono, la voce di un oracolo fosse per dirgli una parola decisiva sulla sua vita. Con cuore sospeso, tornò sui suoi passi, penetrò per là terza volta nella cabina.
“Sei tu Marcello?” domandò la voce carezzevole, languida della moglie[333].
“Ah, sei tu,” egli non potè fare a meno di esclamare, non sapeva se con delusione o con sollievo. “Sì, si capisce... chi credevi che fosse?” “Niente... siccome aspettavo una telefonata...”
“Che fai?” ella domandò con un’inflessione di tenerezza struggente.
“Nulla... stavo appunto venendo su, per avvertirti che usci­vo e sarei rientrato tra un’ora.”
“No, non venir su., sto per andare nel bagno... va bene, allora ti aspetto tra un’ora, nell’atrio dell’albergo.” “Anche un’ora e mezza.”
“Un’ora e mezza, va bene... ma non tardare, ti prego.” “L’ho detto per non farti aspettare... ma vedrai che sarà un’ora.”
Ella disse in fretta, come temendo che Marcello se ne an­dasse:  “Mi vuoi bene?”
“Ma si capisce, perché me lo domandi?”
“Così... se ora tu fossi presso di me, mi daresti un bacio?”
“Certo... vuoi che salgo?”
“No, no, non salire... e dimmi...”
“Che cosa?”
“Dimmi, ti piacevo stanotte?”
“Che domande Giulia,” egli esclamò un po’ vergognoso. Ella soggiunse subito: “Perdonami... non so neppure io quel che mi dico... allora mi vuoi bene?”
“Ti ho già detto di sì.”
“Perdonami... allora, siamo intesi, ti aspetto tra un’ora e mezzo... arrivederci, amore.”
Questa volta, come pensò riattaccando, il ricevitore, non po­teva aspettarsi più alcuna telefonata. Andò alla porta, e spingendo il tamburo di mogano e di cristallo, uscì nella strada.


[1] Gli Indifferenti - Opera prima e grande successo di Moravia, il romanzo Gli indifferenti è composto tra. il 1925 e il 1929 (anno di pubblicazione), mentre in Italia, dopo la marcia su Roma e il tragico caso del delitto Matteotti, si andavano affermando con sempre maggior vigore il fascismo e l’ideologia di regime. L’opera ha una struttura narrativa e le caratteristiche tipiche di un dramma, in quanto la vicenda si svolge in conformità alle regole aristoteliche di unità di tempo, luogo e azione, proprie delle tragedie antiche: solo cinque i personaggi; pochissimi i luoghi, e per lo più chiusi; unico l’argomento, che si svolge in due giorni. Si tratta, dunque, di un romanzo in forma di tragedia, dal momento che l’autore ha constatato «l’impossibilità della tragedia in un mondo nel quale i valori non materiali parevano non avere diritto di esistenza e la coscienza morale si era incallita fino al punto in cui gli uomini, muovendosi per solo appetito, tendono sempre più a rassomigliare ad automi».
La vicenda è ambientata a Roma, negli anni Venti. Leo Merumeci, un affarista sicuro di sé, ipocrita e arrogante, è l’amante di Mariagrazia Ardengo, vedova, di estrazione alto-borghese, madre di Michele e Carla, poco più che ventenni. La famiglia si trova in condizioni economiche disastrose e Leo, che finge di fare da padre ai due giovani, approfitta invece della situazione, cercando di impossessarsi della villa degli Ardengo, indebitati con lui. Forte della sua posizione, Leo tenta inoltre di sedurre Carla, contando anche sul fatto che la ragazza è oppressa dalla mediocrità e dalla monotonia della sua esistenza, nella quale non riesce a provare alcuna emozione. Michele, un ragazzo senza polso e incapace di partecipare alla vita, tenta più volte di smascherare Leo e di attaccare lite con lui, ma ogni suo tentativo va a vuoto, ostacolato com’è da Mariagrazia, che non vuole assolutamente accettare l’idea che il suo amante la stia sfruttando e tradendo; da Leo stesso, che non ha nessun interesse a che le cose si chiariscano pubblicamente; ma specialmente dalla sua stessa "indifferenza", dal fatto di non riuscire a provare un vero odio nei confronti dell’ipocrita amico di famiglia, e quindi di non riuscire ad agire in modo risolutivo. Anche quando Lisa, un’amica di Mariagrazia ed ex amante di Leo, per vendicarsi del fallito tentativo di seduzione nei confronti di Michele, gli rivela di aver visto Carla e Leo abbracciati, il ragazzo non riesce a provare una vera indignazione e il suo gesto forzato di andare immediatamente da Leo e di ucciderlo si trasforma in una scena patetica: preme più volte il grilletto, ma la pistola è scarica. Dopo questi deboli e vani tentativi di liberarsi dall’opprimente ipocrisia che li circonda, i due giovani si arrenderan­no definitivamente, accettando di rivestire il ruolo cui la società li ha destinati: Carla sposerà Leo, divenendo la ricca e misteriosa signora Merumeci; Michele, pur senza desiderarlo, si ritroverà a essere l’amante di Lisa, con la quale imparerà a fingere, come tutti gli altri. Nei due giorni in cui si svolge la vicenda, dunque, non è successo niente che abbia potuto sconvol­gere la fitta rete di ipocrisia che avviluppa i rapporti all’interno della società borghese, e anzi chi tentava di ribellarsi ha ceduto rassegnato.
L’analisi lucida e spietata della società borghese è realizzata attraverso la contrapposizione tra due generazioni: quella di Leo, Mariagrazia e Lisa, e quella dei giovani, Michele e Carla. Mentre gli adulti rispettano ancora le regole del gioco e si appas­sionano veramente, nel bene e nel male, alle vicende della vita, i due giovani non hanno più la capacità di aggrapparsi agli atteggiamenti esteriori e insulsi per salvarsi dal naufragio cui li sta, portando la propria indifferenza e provano solo un senso di stanchezza e di disgusto per un mondo in cui i valori morali vanno inesorabilmente alla deriva.
Leo è il vero vincitore in questa società: cinico, cupido e libidinoso, egli accoglie in pieno e condivide i princìpi della società borghese, per cui, tra tutti, è l’unico "sano", privo di ogni valore che non siano il sesso o il denaro. Merumeci si rende lucidamente conto della falsità dei rapporti umani, ma non ne è affatto turbato: con furbizia, invece, riesce a sfruttare chi gli sta intorno, facendo leva sulle debolezze di ciascuno, sempre sicuro delle sue scelte. Con Mariagrazia, che pateticamente si ostina a non voler vedere lo sfacelo in cui è caduta come donna e come madre, Leo finge che nulla sia cambiato, continuando a rivestire ipocritamente il ruolo di amico e amante; quando cerca di sedurre Carla, con la stessa pervicacia con cui ha tentato un nuovo approccio con Lisa, Leo ha ben presente lo stato di prostrazione in cui si trova la ragazza, sa che, pur di mettere fine all’apatia che la opprime, è disposta a rovinare tutto, a naufragare nella perdizione più impura, visto che la purezza dell’infanzia è ormai lontana e irrecuperabile; ai tentativi tiepidi e deboli di Michele di smascherare la finzione, di strappare le maschere ai volti duri e patetici della sua vita, Leo reagisce con noncuranza, trattandolo come se fosse ancora un bambino incosciente, e quindi smontando quel residuo di volontà sul quale il ragazzo ha dovuto faticosamente far leva per agire.
Il senso di angoscia e di oppressione claustrofobica che domina il romanzo è accentuato dal fatto che le vicende si svolgono m ambienti chiusi (pochissime le scene per strada), e in particolare in villa Ardengo, cupa, immobile, silenziosa, angosciarle, arredata con mobili scuri e con enormi specchi, che riflettono all’infinito i volti dei personaggi, insistentemente presen­tati con pochi tratti essenziali, come fossero appunto delle maschere.
Il senso di teatralità è accentuato, inoltre, dal fatto che ogni capitolo si apre con l’ingresso m scena dei personaggi e si chiude con La loro uscita.
La narrazione, compiuta in terza persona come nei romanzi ottocenteschi, pro­cede con equilibrata alternanza di descrizioni e dialoghi. Il lessico, secco ed essenziale, è spesso convenzionale e ripetitivo per rendere la falsità dei luoghi comuni borghesi e l’iterazione quasi rituale di gesti e parole, divenuti formule prive di vero significato. L’impossibilità della tragedia, continuamente elusa, è resa dalla ripetizione ossessiva del quasi che diventa anche metaforicamente la parola chiave del romanzo.
[2] caraffe: recipiente panciuto per liquidi, usato specialmente per servire bevande a tavola.
[3] scalpellini: marmista, scultore privo di abilità.
[4] vivanda: cibo preparato per essere mangiato.
[5] e già... impazienza: senza impazienza è una litote (negare il centrano di ciò che si vuole affermare, attenuandone il significa­to). Questa figura retorica ben si addice al personaggio di Carla, che non riesce a provare, o almeno a estrinsecare, forti emozioni.
[6] Io... più?: la viscida falsità di questo personaggio lo indu­ce a prendersi gioco subdolamente della sua amante. Leo, infatti, sa bene che c’è poco da essere felici: Carla non sarà la gioia di sua madre, ma anzi la soppianterà e diventerà la sua nuova amante; Michele non è certo un ragazzo pieno dì belle speranze, ma piuttosto un inetto disperato; infine, i dissesti finanziari della famiglia Ardengo faranno sì che ben resto quella bella, casa passi a lui.
[7] c’erano... speranze: nota l’anafora (i soliti discorsi, le solite cose... la solita luce) che rende bene il senso di opprimente angoscia che Carla avverte nella sua vita.
[8] qualche... alone: quasi come in un incubo, i fantasmi della sua noia appaiono inquietanti e avvolgono tutto in un alone di meschinità.
[9] tranquillamente: l’ostentata tranquillità nasconde, invece, un profondo malessere: non solo Michele non sa gridare in faccia all’amante della madre il proprio disprezzo, ma addirittura non riesce, suo malgrado, a provare un tale sentimento.
[10] burlava: fare oggetto di una burla, beffare.
[11] Non sono... lei: Mariagrazia si commuove alle sue stesse parole e finisce per credere davvero di essere ciò che non è: una donna solida e forte che ha affrontato con dignità e coraggio le situazioni più difficili.
[12] molto leggermente: con molta leggerezza, superficialità.
[13] diapason: estensione dei suoni che una voce o uno strumento può percorrere dal tono più alto al più basso.
[14] puerile e matura: quasi un ossimoro l’accostamento di questi due aggettivi, che dipingono il ritratto della madre, non più giovane, ma ancora pateticamente puerile nei modi.
[15] i volti della sua vita: sineddoche (parte per il tutto). Carla intorno a sé non vede persone, ma solo volti, maschere irrigidite di personaggi che le sono sostanzialmente estranei.
[16] intingolo: salsa o sugo con cui viene cucinata o condita una vivanda.
[17] dopo cena... no: dal discorso indiretto libero con cui vengono riportate le riflessioni di Leo traspaiono la libidinosa volgarità, l’arroganza e la determinazione di questo personaggio.
[18] Sono stato... Merumeci: Leo aveva prestato dei soldi agli non erano stati restituiti in tempo, bisognava vendere la villa Ardengo mettendo un'ipoteca sulla casa, ma poiché i soldi per saldare il debito.
[19] turba: insieme di persone raccolte nello stesso luogo, specialmente in modo caotico e disordinato.
[20] oscurità... oscurità: un chiasmo chiude il turbine dei pen­sieri che si affollano nella mente di Mariagrazia e rende solen­ne e inevitabile la terribile visione del futuro che si spalanca davanti agli occhi della donna.
[21] Lei... modo: un anacoluto (cambiamento improvviso del soggetto) sottolinea l'agitazione e l'angoscia di cui è preda Mariagrazia.
[22] con questa... affatto: Gli indifferenti è del 1929, l'anno del terribile crollo di Wall Street.
[23] sagace: dall'intelligenza pronta (dal latino sagax, «che ha buon fiuto»).
[24] le ammiccò: le fece un cenno d'intesa. Leo diventa sempre più audace nel corteggiare Carla anche davanti agli altri componenti della famiglia: sa che può permetterselo, perché con il suo denaro tiene in pugno gli Ardengo.
[25] da allegare i denti: è quella sensazione aspra e sgradevole che si avverte quando si mangia della frutta acerba, per cui i denti sembrano legati tra loro.
[26] sarcasmo: ironia amara e pungente rivolta contro qualcuno, dettata da animosità e insoddisfazione e tesa a ferire l’oggetto di tale sdegno.
[27] Tu ... considerazione: Leo capisce bene che con Michele non può fingere, per cui mostra di non prenderlo affatto in considerazione, come se fosse un bambino.
[28] canzonato: che è stato messo in ridicolo, che è stato preso in giro.
[29] alterco: discussione violenta, litigio.
[30] profferì senza convinzione: quasi un ossimoro (accostamento di due parole con significato opposto) questa espressione, dal momento che «profferire» significa «affermare qualcosa con una certa solennità».
[31] Lisa: è una vecchia amica di Mariagrazia e una ex amante di Leo.
[32] Non disturbo... domandò: i banali e ipocriti convenevoli che si scambiano le due donne riportano la conversazione su di un piano di falsità borghese in cui tutti si attengono alle regole del gioco.
[33] stralunate: sconvolte, stravolte, profondamente turbate.
[34] mistificatore: che altera la verità con astuzia e malafede. È l'atteggiamento che abitualmente hanno i tre personaggi adulti, proprio quello che Carla e Michele aborriscono.
[35] nell'anticamera... parola: Leo e Carla avevano mentito spudoratamente a Mariagrazia, che li stava cercando, mentre erano nascosti dietro la tenda dell'ingresso (vestibolo) a baciarsi.
[36] nulla di anormale: la litote (affermare qualcosa negando il contrario) è una figura retorica che ben si addice a Carla: nella propria immagine riflessa allo specchio non è tutto normale, ma non c'è nemmeno niente di diverso dal solito.
[37] la turbavano... persona: è la stessa sensazione che aveva provato Michele durante il litigio con Leo nel capitolo precedente.
[38] fregi: ornamento, decorazione.
[39] una fila... cenciose: c'è qualcosa di macabro e di inquietante in queste bambole mezze rotte, trascurate (neglette), con gli abiti vecchi e logori (cenciose).
[40] canapè: divanetto imbottito con spalliera.
[41] più addicente: più adeguato.
[42] teletta: è una variante letteraria per «toeletta», un mobiletto con specchio e piano d'appoggio per profumi, spazzole e belletti, usato dalle donne per truccarsi. Spesso era ornato da merletti e balze ricamate, da cui il nome (dal francese toilette, «piccola tela»).
[43] belletti: creme usate dalle donne per colorirsi il viso.
[44] puerile: dei fanciulli, che riguarda i fanciulli.
[45] equivoco: l'equivoco è tra la donna e la bambina, che in una intimità ambigua si fondevano in Carla.
[46] sì non c'era... mondo: il discorso indiretto libero permette di osservare le cose dal punto di vista di Carla, in modo diretto, con i suoi occhi.
[47] occorsi: accaduti.
[48] finalmente: infine (dal francese enfin).
[49] le pareva... avvenimenti: è come se Carla "subisse" le proprie scelte, come se non fosse lei a decidere, ma piuttosto un fato inevitabile e imperscrutabile (una concatenazione fatale).
[50] coltri: coperte.
[51] rigurgitava: era sovraffollata. Il verbo ha propriamente il significato di «vomitare» e quindi è utilizzato qui con funzio­ne connotativa, come se l'immagine della strada affollata pro­vocasse un senso di nausea.
[52] ma... strada: Michele cammina passivo sotto la pioggia, assolutamente disinteressato a ciò che avviene in strada, allo spettacolo consueto (vecchio spettacolo) della vita quotidiana. Ancora una volta Moravia ricorre m queste situazioni alla metafora del teatro.
[53] i saloni vuoti dell'albergo: dove era scoppiata la nuova lite tra Michele e Leo.
[54] Gli venne... fare: né il cinema né la sigaretta riescono a procurargli alcun piacere: non c'è rimedio alla sua indifferenza.
[55] avrebbe voluto... pensare: già durante la cena in famiglia Michele si era rimproverato di pensare troppo; d'altro canto, le uniche cose che gli riesce di fare sono osservare e pensare, così come appunto accade durante quest'angosciante notte di pioggia.
[56] mota: fango che si forma nelle strade sterrate quando piove.
[57] fallaci: effimeri, ingannevoli perché promettono una felicità che poi non concedono.
[58] un tempo… ora no: è la crisi dell'uomo contemporaneo, al quale sono crollate tutte le certezze, che non ha più valori in cui credere e quindi non ha un percorso da seguire.
[59] pensò… sua: l'unica soluzione che Michele sa trovare è quella di rinchiudersi nel suo guscio, di tornare a casa, dove potrà continuare a. vivere nella sua dolorosa indifferenza.
[60] subita: improvvisa.
[61] ma la strada... fanali: nota i chiaroscuri che aggiungono drammaticità alla scena (facciate nere e illuminate delle case: aveva la testa nell'ombra; nella luce bianca dei fanali).
[62] limbo: nella concezione cristiana è i! luogo dove le anime   non subiscono pena, ma non godono nemmeno della beata contemplazione di Dio; metaforicamente, dunque, e il luogo in cui non si prova alcuna emozione, il simbolo di una vita priva di azione, vissuta in una larvale incertezza.
[63] La strada... cercava: Michele quasi si stupisce delle proprie azioni, come se non fosse la sua persona a compierle: sta andando veramente a uccidere Leo, lui che per quell'uomo non prova né odio né rancore.
[64] selciato: pavimentato con pietre, con lastre di pietra.
[65] veramente: forse per la prima volta in vita sua Michele si rende conto che sta per fare qualcosa di vero (La strada era veramente quella che cercava; uccider Leo significava ucciderlo veramente), eppure niente gli sembra più inverosimile.
[66] il caldo: l'impugnatura della pistola.
[67] Bisogna... orribile: Michele tenta in tutti i modi di caricarsi (Bisogna montarsi): si ripete ossessivamente tutti i motivi per cui dovrebbe odiare Leo, immagina Carla nuda nello stesso letto in cui Leo aveva posseduto sua madre... Ma non c'è niente da fare, non riesce a provare nessun rancore, solo la disperata calma di sempre.
[68] Osservò... incontro: l'immagine di due bambini che si tengono per mano è come un lampo di innocenza nella sordida vita che circonda Michele.
[69] ansito: respiro affannoso.
[70] Indossava... nudo: Leo si presenta ad aprire in abbigliamento discinto, che ne sottolinea la volgare sciatteria e l'implicita arroganza.
[71] impudente: provocatoria.
[72] con stupore esagerato: Carla è di là, nella stanza da letto, e quindi Leo pensa che Michele sia venuto a casa sua a quell'ora per coglierli in flagrante.
[73] straordinario: l'aggettivo è qui usato in senso etimologico, cioè «fuori dell'ordinario», «inconsueto».
[74] Di' la verità... ragazza: Michele tenta di comportarsi come avrebbe fatto Leo, fingendo sarcasticamente la complicità tipica di un discorso tra uomini: il risultato, però, è patetico.
[75] malcelata: di sentimento, stato d’animo, non ben dissimulato, lasciato trapelare più o meno chiaramente.
[76] dormivo... bellissimi: Leo non si trattiene dal fare addirittura della volgare ironia sulla situazione con un doppio senso abbastanza esplicito da poter essere facilmente colto da Michele; l'uomo sa di potersi permettere tutto con quel ragazze inetto.
[77] non senza odio: la litote (dire una cosa negandone il contrario) affievolisce l'affermazione: nonostante tutto, l'odio di Michele non è ancora pieno e non si scatena, come dovrebbe,          in tutta la sua violenza.
[78] con una specie di muggito: la metafora sottolinea l'aspetto               animalesco di Leo.
[79] Frugò... impazzate: la concitazione dei gesti è resa dai movimenti convulsi con cui Michele cerca disperatamente di non perdere quest'ultima occasione di agire davvero.
[80] tamburo: la parte della rivoltella in cui si inseriscono i proiettili.
[81] la veste... trattenuto: ancora una volta la violenza e la vitalità di Leo lo fanno apparire come una bestia feroce (il petto nudo e peloso... le narici frementi in una specie di soffio ferino... esprimeva un minaccioso furore a stento trattenuto).
[82] E ora… madre: Leo sa come fare a mortificare Michele: come già altre volte, alla sua violenza non risponde con violenza, ma piuttosto minimizza e lo rimprovera come fosse un bambino, con la superiorità di chi ha a che fare con una persona molto più debole di lui, contro la quale non vale la pena scagliarsi.
[83] La corsa... fine: un taxi riporta a casa i due fratelli dopo il fallimentare tentativo di Michele di uccidere Leo.
[84] l'automobile... nell'oscurità: la corsa nella notte dell'automobile diventa metafora della nuova vita di Carla, nella quale la ragazza ha deciso di gettarsi a capofitto, lasciandosi travol­gere dagli eventi, come se ormai tutto per lei fosse stabilito da un oscuro destino di perdizione.
[85] Le pareva di vedersi: ancora una volta Carla è come se guardasse se stessa dall'esterno, come se si vedesse vivere.
[86] Così... cambiato: immaginando se stessa dopo il matrimo­nio, Carla si vede cambiata sia nel corpo che nello spirito. Leo, invece, pur un po' invecchiato, non appare diverso da quel che era sempre stato, avendo fatto una scelta perfettamente coerente con tutte le altre della sua vita.
[87] a quel suo marito: nell'espressione c'è tutta l'estraneità che Carla immagina di provare nei confronti dell'uomo che avrà sposato.
[88] le ginocchia accavalciate: le gambe accavallate.
[89] succinto: fermato con una cintura in vita, in modo da consentire maggiore libertà di movimenti.
[90] bramosia: desiderio ardente.
[91] arenata: incagliata.
[92] allora... automobile: una grande automobile nera parcheggiata ai margini della strada, nell'immaginazione della ragazza, di­venta una grande balena rimasta arenata sulla spiaggia dopo una tempesta: visione fiabesca e fantasiosa, dalla quale traspare, in contrasto con i turbamenti precedenti, l'indole infantile di Carla.
[93] Entrarono... più: il paesaggio sembra rispecchiare lo stato d'animo dei due fratelli: dopo la tempesta, ciò che è rimasto è una cupa malinconia, un vuoto senza fine, come quel vasto fruscio oceanico dei grandi alberi.
[94] pastrano: cappotto, specialmente quello indossato dai militari.
[95] tranquillamente: spaventosa la tranquillità di Carla, che nasconde invece una paura e un senso di smarrimento sconfinato, mascherati dalla solita indifferenza.
[96] lussureggiante belletto: trucco molto carico.
[97] vermiglie: di colore rosso intenso, acceso.
[98] farinosa: che ha aspetto o consistenza di farina.
[99] Quer pasticciaccio brutto de via Merulana: L’intreccio del giallo ruota attorno a due delitti avvenuti a distanza di pochi giorni nello stesso stabile romano di via Merulana 219. L’aggressione all’ aristocratica veneta Menegazzi da parte di un robusto giovane che le ruba una quantità di gioielli, e l’omicidio dell’ancor più ricca Liliana Balducci. Delle indagini è incaricato il commissario Francesco Ingravallo che, conoscente dei coniugi Balducci, meno di un mese prima aveva pranzato a casa loro, trovando modo di ammirare la bellezza malinconica di Liliana, donna tormentata dall’assenza di prole. I primi sospettai sono il Commendator Angeloni, il quale è noto alla polizia per i suoi rapporti sospetti con certi garzoni di macelleria, tra i quali potrebbe esservi l’autore del furto, e soprattutto il giovane rappresentante di commercio Giuliano Valdarena, cugino di Liliana e primo scopritore del suo cadavere, nel cui appartamento si rinvengono banconote e gioielli appartenuti alla defunta. Valdarena sostiene che la cugina gli aveva fatto questi regali in vista delle sue nozze. Il sacerdote Lorenzo Corpi, nel frattempo, rivela l’esistenza di un testamento, con il quale Liliana divide in numerose donazioni il suo cospicuo patrimonio, per lo più alle giovani figliocce che di volta in volta si sono alternate in casa Balducci. Ingravallo ricorda bene la domestica che aveva conosciuto durante il pranzo a casa Balducci, Assunta, la quale era stata preceduta da Virginia. Dalle testimonianze i don Corpi e del marito, ottenute dal dottor Fumi, emergono ambigui rapporti tra Liliana e le sue protette. Intanto l’autore della rapina Menegazzi viene identificato in tale Enea Metalli. Le indagini si spostano ormai nell’ambiente delle figliocce, tutte provenienti dal circondario della città. Al momento del delitto l’Assunta si era allontanata per assistere il padre moribondo nella sua casa a Tor di Gheppio. Il 22 Marzo viene fermata per prostituzione l’ultima delle figliocce, Ines Cionini, che viene interrogata a lungo ed alla fine svela agli investigatori l’attività ambigua del laboratorio gestito da Zamira Pàcori. Infine si capisce che il fratello di Diomede, Ascanio, ha fatto da palo durante il furto Menegazzi. La mattina dopo il brigadiere Pestalozzi si dirige verso il laboratorio di Zamira su un sidecar. Al laboratorio Pestalozzi interroga Zamira e scopre alla mano di una delle sue lavoranti, Lavinia Mattonari, un anello con il topazio della Menegazzi. Lo stesso 23 Marzo Ingravallo si reca a Tor di Gheppio per interrogare Assunta. Il commissario stringe d’assedio l’Assunta, vuole il nome dell’assassino di Liliana, ed alla ragazza sfugge un lapsus forse rivelatore. Egli non intese ciò che la sua anima voleva intendere, il volto bianchissimo della ragazza lo paralizzò, lo indusse a riflettere: pentirsi quasi. 
[100] Tutti... don Ciccio: nell'incipit del romanzo il narratore intro­duce immediatamente il protagonista della vicenda, con una chia­ra parodia di Manzoni che nei Promessi sposi presenta Renzo ai lettori in modo del tutto simile («Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo»). Questo diminutivo con cui si fa chiamare il dottor Ingravallo denota già un tratto del suo carattere: pur essendo un giovane e brillante commissario, è una persona semplice, a cui non interessano le formalità, che non tiene gli altri a distanza.
[101] Comandato alla mobile: utilizzato (comandato) in uno spe­ciale reparto di polizia giudiziaria (mobile).
[102] Ubiquo: significa avere la capacità di trovarsi contemporaneamente in più luoghi (dal latino ubique, «in ogni luogo»). In questo caso il narratore vuole sottolineare la solerzia di don Ciccio, in particolare quando si tratta di casi tenebrosi, i suoi preferiti.
[103] Di capelli ...  cresputi: i tre aggettivi, uniti da polisindeto (e... e...), attirano l'attenzione del lettore su questo particolare un po' animalesco di don Ciccio, che non si può certo definire una persona raffinata nell'aspetto, ma che ce lo rende già particolarmente simpatico.
[104] Quasi a riparargli ... d'Italia: come se quella gran massa di capelli dovesse fornirgli una sorta di parasole alle due protuberanze della fronte: in alcune persone,  infatti, sopra le arcate sopraccigliati l'osso crea una sporgenza che conferisce al volto un aspetto un po' scimmiesco. I due bernoccoli sono metafisici perché si trovano sulla fronte, vicino al cervello, sede del pensiero.
[105] Un'andatura greve e dinoccolata: anche il modo di camminare non si potrebbe definire elegante: don Ciccio avanza con passo pesante (greve) e, dondolandosi con le braccia ciondoloni (dinoccolata).
[106] Onorario: stipendio.
[107] Una certa ... latino: evidentemente don Ciccio, così come Gadda, conoscendo il mondo, se ne era fatta un'idea non particolarmente romantica: per questo il dispregiativo (praticacela) e l'ironia sarcastica su chi, in particolare nel pe­riodo fascista, in modo altisonante voleva riecheggiare gli splendori dell'antica Roma (latino).
[108] Una certa ... donne: il ruolo delle donne assume un peso determinante in questo mondo non certo glorioso che don Ciccio ha imparato a conoscere, pur essendo ancora piuttosto giovane. Nota qui, come ancora più avanti nel testo, la posi­zione enfatica a fine periodo riservata alle donne (e anche delle donne), gentil sesso che Gadda non ama di certo: appena può, infatti, ne mette in evidenza lo sfrenato desiderio di ses­so, che determina un comportamento irrazionale e indecente.
[109] In ragione di... trillo: la padrona di casa adorava don Ciccio nonostante il caos che le creava in casa (^'arruffio è «lo scompi­glio»), e anzi proprio a causa (in ragione) di questa sua vitalità, che movimentava un po' la vita monotona della vecchia vedova.
[110] Il tormentato ... tempo: nota come il modo inusuale e un po' farraginoso di costruire la frase (del di lui tempo) contribuisca a rendere l'idea della vita complicata del giovane commissario.
[111] Mi è tornato: il mi è quello che in latino si definisce dativo etico, che aggiunge una nota affettuosa alla frase (come una mamma che dice del suo bambino: «Andrea oggi non mi ha mangiato la pappa»).
[112] Preceduto ... Messaggero: per lar sì che il proprio annun­cio sia tra i primi nell'elenco lo si fa precedere da una sene di A (AAA), qui addirittura cinque, «Il Messaggero» era ed è ancora oggi il più diffuso quotidiano di Roma.
[113] Evocato... affittasi: per cercare di accaparrarsi il migliore tra l'assortimento infinito di impiegati in cerca di appartamenti da affittare, sull'inserzione si mettono in evidenza le qualità della casa (bella assolata).
[114] Nonostante ... interpretazione: nonostante l'imperioso (perentoria) divieto di ingresso alle donne, sia come locatane, sia come amiche del locatario.
[115] E poi era ... questura: la vedova Antonini, la proprietaria di casa, aveva pure un altro motivo per adorare il suo inqui­lino: don Ciccio, infatti, le aveva risolto un problema per una mancata richiesta di licenza di locazione. Ma la signora minimizza il suo torto, definisce ridicola la cosa, e d'altro canto sostiene che, se avesse pagato, i soldi certamente se li sarebbero divisi i poliziotti (tra governatorato e questura). Dal personaggio della vedova Antonini inizia a trasparire la società falsa e corrotta contro la quale Gadda si scaglia in questa come in tante altre sue opere.
[116] Una signora ... fiume: la vecchia vedova, che si pregia di essere una signora perbene, ha fatto un'illegalità, ritiene corrotti i funzionari della polizia e ora si rizela perché viene trattata come un' affittacamere, mestiere che lei, vedova del commendator Antonini, non farebbe mai e poi mai (piuttosto me butto a fiume). Ma m effetti è proprio questo ciò che fa: mette annunci sul giornale e affitta camere della sua casa. Ancora una frecciata all'ipocrisia della società, al desiderio di apparire diversi da quello che si è, di affannarsi nella scalata sociale. Nel vivace discorso di protesta della signora Antonucci viene usato per la prima volta nei romanzo quel misto di italiano e dialetto che rende così caratteristica e innovativa la prosa di Gadda.
[117] La giungla nera ... Astrakan: ancora metafore (giungla nera) e similitudini per un primo piano sulla capigliatura di don Ciccio. Astrakan è una città della Russia meridionale, zona in cui si alleva una particolare razza di agnelli dal pelame lucido, nero e ricciuto, da cui si ricava una pregiata pelliccia che dalla città russa prende il nome.
[118] Quei rapidi... illuminatore: Ingravallo procede nelle inda­gini non a piccoli passi, ma con improvvise illuminazioni, che comunica agli altri in modo repentino, come lo scoppiettio vivace e brevissimo di un fiammifero (zolfanello illuminatore) che si accende.
[119] Inopinate: impreviste.
[120] Un punto ... convergenti: le catastrofi sono come il punto più interno di un ciclone, vorticoso e difficile da esaminare, ricettacolo di tutta una serie di cause (molteplicità di causali) che convergono proprio in quel punto.
[121] Diceva ... gomitolo: è la famosa teoria gaddiana che sosti­tuisce il concetto lineare di causa-effetto con un garbuglio di cause (uno gnommero, appunto) che bisogna districare per raggiungere la verità. Senonché, andando a ricercare a fondo nelle cose, si scopre tutto il marcio del mondo e della società, poiché si squarcia la facciata dorata di perbenismo borghese che può ingannare solo chi vuole mantenersi in superficie.
[122] Preferentemente: è un termine coniato da Gadda sta per «preferibilmente».
[123] Categoria di causa: nella dottrina aristotelica le "categorie" (dal verbo greco kalemiréo, «asserire, attribuire») sono quei predicati ultimi, quelle essenze universali ed eterne al di là delle quali non è possibile pensare altre universalità. Così le spiega lo stesso Aristotele: «Orbene, per esprimerci concreta­mente, sostanza è, ad esempio, uomo, cavallo; quantità è lun­ghezza di        cubiti, lunghezza di tre cubiti; qualità è bianco, grammatico; relazione è doppio, maggiore; luogo !• nel Liceo, in piazza; tempo è ieri, l'anno scorso; essere in una situazione è si trova disteso, sta seduto; avere è porta le scarpe, si è armato; agire è tagliare, bruciare; patire è venir tagliato, venir bruciato» (Categorie, Ib 25-2 a 10).
[124] Aristotele: uno dei più grandi filosofi greci (384 a.C - 322 a.C.). Allievo e critico di Platone, oppone alla visione dualistica del maestro una visione unitaria della realtà, che prevede però la sintesi di un elemento attivo («forma») e uno passivo («materia»). Questa sintesi scaturisce dal moto impresso all'universo dal Primo Motore Immobile (Dio).
[125] Emmanuele Kant: Immanuel Kant, grande filosofo tede­sco (1724-1804), fondatore del criticismo. Anche Kant riprende il concetto di "categorie", intendendo quelle forme logiche che, insieme alle forme intuitive ("spazio" e "tempo"), con­sentono all'uomo di conoscere, cioè di organizzare, ciò che accade sotto i suoi sensi, il fenomeno; inconoscibile, invece, resta il noumeno, cioè la nozione delle cose in sé, del reale inteso come indipendente dal soggetto conoscente.
[126] Quacche gliuommero: de sberretà: qualche gomitolo... da sbrogliare.
[127] rosa dei venti: configurazione grafica (a forma di stella a 16 o a 32 punte sovrapposte) delle varie direzioni da cui possono soffiare i venti.
[128] Ch’i’ 'femmene ... truvà: die le termini!: si trovano dove non le vuoi trovare, cioè che anche quando non sembrerebbe, la causa dei fatti più incresciosi sono sempre le donne.
[129] Vieto… femme: usuale e per questo logoro (dal latino vetus, «vecchio») detto: «cercate la donna»
[130] Un certo «quanto di erotica»: un pizzico di motivazione erotica. Il quanto in fisica è la quantità minima indivisibile.
[131] Sostenevano ...  matti: il riferimento è chiaramente agli scritti di psicoanalisi (libri strani, questioni un po' da manico­mio, terminologia da medici dei matti) di cui don Ciccio, come Gadda, è appassionato. Evidentemente l'uso del lessico psicoanalitico da parte di don Ciccio ha sui suoi colleghi ignoranti lo stesso effetto che aveva il «latinorum» di don Abbondio o di Azzeccagarbugli su Renzo: tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma. servono come non altre ad accileccare (abbindolare) gli sprovveduti, gli ignari.
[132] Per la pratica ... fermo: in questo discorso indiretto libero in cui i colleghi criticano Ingravallo che continua a filosofeggiare, si mette ironicamente in rilievo l'invidia che rode i più anziani: è l'esperienza (la pratica dei commisti e della squadra mobile) che conta, altro che la filosofia, e il giovane commissario di esperienza non ne può avere! Intanto, però, i casi più difficili vengono affidati a don Ciccio, che li risolve sempre brillantemente con le sue illuminazioni folgo­ranti e con i fumi e le filosoficherie, lasciando tutti a bocca aperta! Taliani sta per «italiani», per aferesi (caduta della vo­cale iniziale, dal verbo greco aphairéo, «sottraggo»).
[133] Sigheretta: è la voce di don Ciccio che sentiamo nell'uso di questo termine dialettale.
[134] Il genetliaco di Remo: troppo banale e plebeo utilizzare il termine «compleanno»: genetliaco, invece, fa più chic! Remo è il marito della contessa Liliana Balducci, che sarà assassinata qualche giorno dopo.
[135] E infatti ... natalizio: tutto questo complicato giro di parole per dire che al nome di Remo era stato aggiunto quello di Eleuterio, perché era nato proprio il giorno di san Eleuterio.
[136] Due nomi ... sprecati: il Balducci aveva due nomi altisonanti: Remo, che secondo la leggenda avrebbe gettato le fondamenta di Roma insieme con il fratello Romolo, dal quale fu poi ucciso; Eleuterio, che richiama l'ideale di libertà (eleuterìa in greco). Questi grandi nomi, secondo don Ciccio, erano addirittura sprecati per quell'uomo meschino e menefreghista.
[137] Collegio Romano ...  Cacco: sede della squadra mobile.
[138] Don Ciccio ... signora: per l'occasione don Ciccio va dal barbiere e porta come omaggio alla signora una bottiglia d'olio (d' uoglie).
[139] Bautta: mascherina che ricopre solo la parte superiore del volto, lasciando libera la bocca.
[140] Petrolini: Ettore Petrolini (1886-1936), famoso attore co­mico romano.
[141] Poi dei vari nomi ... Lilibeo: insomma a tavola si chiac­chiera del più e del meno. Il musmè è un pesce chiamato anche cefalo. Ventimiglia e una località ligure di mare, al con­fine tra Italia e Pralina; Capo Lilibeo si trova in provincia di Trapani: le due località, quindi, indicano i due capi dell'Italia.
[142] Acciaccarli: schiacciarli.
[143] A pennolone: appesa, ciondolante.
[144] Assunta: È la domestica dei coniugi Balducci, residenti nel palazzo di via Merulana.
[145] Giuliano Valdarena: Cugino della signora Liliana Balducci.
[146] Francesco Ingravallo: Tutti ormai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani (trentacinquenne) e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un pò tozzo, di capelli neri e folti e crespati che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana.
[147] Trasalire:  Sussultare per una forte ed improvvisa emozione.
[148] Fiotto: Quantità di liquido che esce in una volta e d’ improvviso.
[149] Indelibato: intatto.
[150] Piolo: Legnetto o pezzo di metallo cilindrico aguzzo ad un’estremità, che si conficca in terra, nel muro, in travi o in altre strutture, per legare, appendere o bloccare qualcuno.
[151] Cavicchio: Piolo di legno fissato a una parete per appendervi qualcosa.
[152] Radichetta: Radice secondaria che si stacca da quella principale.
[153] Mencia: Floscio, vizzo, cascante.
[154] PV: Mezzo pubblico di locomozione.
[155] Fagiche: di stomaco
[156] Opalescenza: Aspetto latteo, talvolta anche iridescente, di una sostanza solida o liquida.
[157] Superna: suprema
[158] Uggia: Noia, tedio.
[159] Sporta: Cesto di vimini usato un tempo per trasportare prodotti agricoli o generi alimentari.
[160] Sedano: Ortaggio dalle grosse costole commestibili usato in tutto il mondo a scopo alimentare per il suo forte sapore aromatico.
[161] Tiberina: della regione bagnata dal Tevere.
[162] Derma sui generis: Lat: una pelle del suo proprio genere.
[163] Andito: Corridoio breve e stretto.
[164] Cicaleccio: Chiacchiericcio di più persone su argomenti futili.
[165] Ciarla: Notizia non vera, pettegolezzo.
[166] Emulare: Sforzarsi di eguagliare o superare qualcuno o qualcosa.
[167] Cervice: Parte posteriore del collo; nuca.
[168] Trefolo: Nei cavi d’acciaio, ciascuna delle funi elementari a sezione circolare, ottenute avvolgendo a spirale un certo numero di fili.
[169] Epos: Leggenda epica.
[170] La signora Menegazzi: inquilina del palazzo di via Merulana.
[171] La signora Liliana: inquilina del palazzo di via Merulana. Vive con il marito, il signor Balducci.
[172] Agghindare: Vestire, ornare, con particolare cura e ricercatezza.
[173] Manuela Pettacchioni: portinaia del palazzo di via Merulana, denominata pettoruta sora Manuela, ma anche, spregiativamente, petecchia.
[174] Schermire: Difendere, riparare.
[175] Gina: una delle tante domestiche che il Balducci assumeva.
[176] Négligé: Vestaglia femminile da casa o da camera.
[177] Madrileno: Di Madrid.
[178] Mantiglia: Sciarpa di merletto che si porta sul capo, tipica del costume femminile spagnolo.
[179] Vizzo: Che non è più fresco e sodo.
[180] Neovirginale: Giovane vergine.
[181] Indelibate: vergini.
[182] Incipriare: Spargere di cipria.
[183] Toso franco: ragazzo sincero.
[184] Gera: C’era.
[185] No savaria dirghe: Non saprei dirle.
[186] Lu ch’el pol giutarne: Ella che può aiutarci.
[187] Indrìo: Indietro.
[188] Angusta: Mancanza o scarsità di spazio.
[189] Ossedenti: che assediano.
[190] Feltro: Falda di lana o di altri peli animali, ottenuta senza tessitura, usufruendo della capacità adesiva delle fibre opportunamente trattate.
[191] Repentine: Che accade, si manifesta, all’improvviso.
[192] Coazione: Tendenza a comportamenti o pensieri ossessivi.
[193] Derubanda-iugulanda-sevizianda: donna che deve essere derubata, sgozzata e seviziata.
[194] Belato: Piagnisteo.
[195] Raglio: Canto sgradevole.
[196] Lare: Antica divinità romana, protettrice del focolare domestico, identificata con l’anima di un antenato defunto.
[197] Gemebonda: Che geme e si lamenta.
[198] Antifona: Discorso noioso.
[199] La signora Teresina Zabalà: inquilina del palazzo di via Merulana, vedova del signor Menegazzi.
[200] Idi: Nel calendario romano, quindicesimo giorno dei mesi di marzo, maggio, luglio, ottobre e tredicesimo degli altri.
[201] None: Nell’ antico calendario romano, quinto giorno del mese, eccetto quelli di marzo, maggio, luglio e ottobre, in cui era il settimo giorno.
[202] Calende: Primo giorno del mese secondo il calendario romano antico.
[203] Languore: Debolezza, prostrazione.
[204] Diatriba: Discorso violento pieno di accuse.
[205] Casigliani opinanti: i coinquilini pensanti
[206] Migragnosi: avari.
[207] Letizia: Sentimento di intima gioia e di serenità spirituale.
[208] El me gaveva ipnotisà: Ella mi voleva ipnotizzare.
[209] Garrire: Emettere un verso aspro e stridulo di alcuni animali, specialmente di uccelli.
[210] No savaria zusto: Non sarebbe giusto.
[211] Du còte de chez madame: Affianco alla signora.
[212] Il signor Bottafavi: inquilino del quarto piano del palazzo di via Merulana.
[213] Pizzicarolo: salumiere termine romanesco
[214] Patema: Sofferenza morale, afflizione.
[215] Deflagrare: Bruciare molto rapidamente, detto degli esplosivi da lancio.
[216] Tumefazione: Aumento patologico di volume di un tessuto, di un organo o di una parte del corpo.
[217] Diniego: Negazione, rifiuto.
[218] Astante: Chi è presente.
[219] Serafino: Nella teologia cattolica, ciascuno degli angeli che formano il primo coro della prima gerarchia.
[220] La signora Bertela: una delle testimoni della fuga del garzone del pizzicarolo.
[221] Congettura: Opinione, ipotesi, fondata su indizi, apparenze, deduzioni personali.
[222] Quinconce: Moneta di bronzo dell’Italia antica del valore di cinque once e contrassegnata da cinque globetti disposti come i punti sui dadi.
[223] Tabulante: che dispone dati in forma di tabella.
[224] Canterano: Cassettone a quattro o più cassetti sovrapposti.
[225] Logoro: Consunto, sciupato.
[226] Gnornò, no el xe mio: no signore, non è mio
[227] Inopinatamente: Che avviene in modo improvviso e inatteso.
[228] Don Corpi: il gagliardo consigliere spirituale di Liliana, dalle decise sembianze virili.
[229] Pertinacia: Grande tenacia e perseveranza in atteggiamenti, comportamenti, propositi.
[230] Rorida: Bagnato di rugiada.
[231] Policromatico: Policromo, multicolore.
[232] Scarruffare: Scarmigliare, spettinare.
[233] Vagotonia: Prevalenza funzionale del sistema nervoso vegetativo.
[234] Epigastro: Regione centrale della metà superiore dell’addome, corrispondente all’incirca allo stomaco.
[235] Toso: Voce dialettale veneta per indicare giovane.
[236] Cencio: Brandelli e ritagli di stoffa usati nell’industria tessile e cartaria.
[237] Parannanza bianca: grembiule bianco dei salumai
[238] Tedio: Sensazione di tormentosa stanchezza interiore e disinteresse nei confronti della vita propria ed altrui.
[239] Annaspare: Avvolgere.
[240] Fervore: Intensa partecipazione affettiva, passione, ardore.
[241] Timoniera: Cabina con ampie vetrate in cui sono sistemati il timone, la bussola e gli altri strumenti per il governo della nave.
[242] Appiglio: Sporgenza, anche minima, a cui appendere qualcosa o attaccarsi; sostegno, appoggio.
[243] Corbacchione: Persona astuta e scaltra.
[244] Birbo: Scaltro, furbo.
[245] Ciarpa: Sciarpa, fusciacca.
[246] Elegiaca: che tende alla malinconia e alla meditazione
[247] Agorafobici: Chi è affetto da una paura morbosa di attraversare uno spazio aperto.
[248] Serci: pietre
[249] Luttuoso: Che si riferisce al lutto, alla morte, che è cagione di lutto, di morte o di sventure.
[250] Boffici: soffice, morbido
[251] Galantina: Lessato e servito con gelatina.
[252] Casigliano: Coinquilino, vicino di casa.
[253] Eufemismo: Figura retorica che consiste nel sostituire un’espressione volgare o troppo cruda con un’altra meno esplicita.
[254] Spicciare: Rimettere in ordine, rassettare.
[255] Riverita: Salutare con particolare deferenza.
[256] Accomiatare: Salutare.
[257] Imbacuccare: Coprire bene con indumenti caldi e pesanti, anche senza badare all’eleganza.
[258] Buggere: sciocchezze
[259] Blandizia: Lusinga, allettamento.
[260] Paperazze: ultime notizie del giorno
[261] Prelazione: Preferenza che si accorda a una persona o a una cosa operando una scelta fra più elementi.
[262] Forbirsi: pulirsi
[263] Brisàvola: bresaola
[264] Franchigia: Esenzione da un pagamento concessa per legge.
[265] Salagione: Salatura di carni fresche per assicurarne la conservazione, usata specialmente per il pesce.
[266] Scranna: Sedia, specialmente con braccioli e schienale alto, riservato in passato a personalità importanti, e perciò simbolo di eminenza o del luogo in cui è posta o della funzione che vi si esercita.
[267] Sbarbatello: Giovane inesperto che cerca di comportarsi come un adulto, specialmente ostentando un’esperienza che non possiede.
[268] Coccia: Nelle antiche armature, parte dell’elmo che proteggeva la parte superiore della testa.
[269] Laniero: il laniere - Nell’antica falconeria, di falcone, adatto alla caccia ma selvatico e difficile da addomesticare.
[270] Ansimare:  Respirare affannosamente, con difficoltà.
[271] Altalenò: Scosse.
[272] Garofolone: grande garofano
[273] Di carattere intimo: immediatamente l'interrogatorio scivola sull'aspetto intimo, punto dolente del rapporto tra i Balducci.
[274] Abbandonatosi ... uomini: Remo Balducci, come in uno sfogo liberatorio, di sua spontanea volontà racconta in preda a una eccessiva loquacità (logorrea, dal greco logos, «parola» e reo, «scorro») la sua vita matrimoniale, quasi come chi si pente delle proprie colpe e voglia disfarsene parlandone, per ottenerne il perdono. Il Balducci viene definito cacciatore-viag­giatore poiché era un viaggiatore di commercio, che per dilet­to si da alla caccia... e non solo di lepri.
[275] Parte ...  dialessi: al monologo spontaneo di Balducci si aggiunge ciò che il dottor Fumi e Ingravallo riescono a strap­pargli durante l'interrogatorio, condotto con argomentazioni logiche e persuasive, la civile dialessi, come dice Gadda utilizzando un termine filosofico.
[276] Appassionato perorare: anche qui un termine tecnico, stavol­ta tratto dal linguaggio forense; perorare significa sostenere con impegno la difesa in una causa (dal latino per, utilizzato come rafforzativo, e orare, «pregare, parlare»).
[277] Traente maieutica: ancora un termine filosofico: la maieutica nell'ambito della filosofia socratico-platonica è quella tecnica che permette di pervenire alla verità sollecitando il soggetto pensante a trarla fuori da se stesso (dal greco maieutiké tékhne, «arte ostetrica»).
[278] Del Golfo e del Vomero: il dottor Fumi, collaboratore di Ingravallo, è napoletano (il Golfo è dunque quello partenopeo e il Vòmero e un famoso quartiere di Napoli situato in collina).
[279] Da cavadenti di tipo amabile: un dentista (cavadenti) dai modi amabili, ma pur sempre impegnato a cavare denti: in questo modo il dottor Fumi conduce l'interrogatorio di Remo Balducci.
[280] E aveva sposato a ventuno: la povera Liliana si era anche sposata giovane, a ventun anni, nel pieno dell'età fertile.
[281] Un artro: un altro.
[282] Il dolore ... il pianto: questo climax ascendente rende bene il progressivo tormento di Liliana, che con il passare degli anni diventa sempre più disperato.
[283] Chi dice ... ha: è un detto popolare, qui utilizzato a com­mento dei sospiri (quei mah!) di Liliana.
[284] Sélleri: voce dialettale per «sedani».
[285] O cor mappamondo ... ora: graziose scenette di popolane dalle forme posteriori abbondanti (cor mappamondo in aria) che si prendono cura del proprio pupetto. Immagini piacevoli per chiunque, ma non certo per Liliana, che guarda con invidia a quelle donne tutte indaffarate nel loro compito di madri.
[286] Ch'è propio ... l' hanno: queste popolane sprizzano salute e vitalità da tutti i pori, e Liliana a guardarle non può non provare un'invidia crescente per quelle madri. Propio sta per «proprio».
[287] Franchia: un permesso accordato (dal gergo marinaresco).
[288] Futuri largitori della vita: ogni maschio diventa agli occhi di Liliana un possibile elargitore di vita, e proprio per questo rispettabile e desiderabile.
[289] La verità germile: cioè la capacità di riprodursi.
[290] Ma precipitavano ... costume: da un lato, dunque, Liliana si sente fortemente attratta da ogni maschio per la sua virile fecondità, ma dall'altra lascia trascorrere gli anni (Ma precipitavano gli anni... nel nulla) costringendosi alla fedeltà coniugale per non eludere gli obblighi morali (la coercizione del costume).
[291] Genesia: capacità di generare (è un neologismo di Gadda).
[292] Quella mania ... forza: l'abitudine di regalare biancheria come dote alle serve è immediatamente presentata come una mania, non certo come gesto di generosità; ed è anche immediatamente collegata a quella depressione che aveva spinto Liliana a isolarsi in una sempre maggiore solitudine, a mano a mano che passavano gli anni e che sempre più remota si faceva la possibilità di avere un figlio.
[293] Ingravallo: Ciccio Ingravallo, il funzionario della polizia di Roma che sta indagando sull'omicidio di una donna. Poiché sospetta di Ti­na, un tempo domestica della vittima, si è recato da lei per inter­rogarla e forse arrestarla.
[294] Tina.. Di Pietrantonio: rispetti­vamente, la donna sospettata dei delitto e il maresciallo dei carabi­nieri che collabora con Ingraval­lo all'inchiesta.
[295] Un lezzo, ivi...: inizia qui una lunga e particolareggiatissima de­scrizione d'ambiente, condotta nei modi espressivi, esuberanti e multilinguistici, tipici dello scrittore.
[296] Nel male: a causa della malat­tia. Nella stanza giace infatti il padre di Tina, gravemente amma­lato.
[297] Sudate all'opere... domanda: su­date per i lavori che la campagna richiede in primavera («col novo tempo»), senza che sia possibile rimandarli («senza remissione»). Per alludere alla fatica dei campi, il narratore adotta un registro linguistico decisamente elevato, con ironica allusione all'idealizzazione del lavoro contadino operata dal­la tradizione letteraria.
[298] La degenza: il narratore usa il termine astratto in luogo di quel­lo concreto ("il degente", "il ma­lato"), con una scelta espressiva rara e preziosa, più tipica della poesia che della prosa.
[299] Male... riparo: a torto lasciate («male accantonate») presso il ma­lato («la degenza»), che dovrebbe invece essere protetto da ogni di­sagio.
[300] Tradizione... intermessa: di uno stile pittorico tradizionale, che si è tramandato sempre uguale di generazione in generazione.
[301] A muro: sul muro.
[302] Un'oleografia: la riproduzione di un quadro eseguita in modo da imitare la pittura a olio.
[303] Al male: al malato. Un altro esempio di uso poetico della lingua, del tipo di «degenza» per de­gente: l'astratto per il concreto.
[304] La gonna... a metà le tibie: con una gonna di cotone a righe mi­nute lunga fino a metà polpaccio.
[305] Du scarpe de pezza: il lessico prezioso e letterario delle righe precedenti cede il posto improvvisamente a un'espressione della parlata romanesca.
[306] Tegumentale: nascoste. Termi­ne di uso molto raro, appartenen­te al linguaggio specialistico del­la biologia.
[307] Una buona: una coperta di buona qualità, in contrasto con quelle «lise e verdastre» su cui è distesa.
[308] Liliana: Liliana Balducci, la donna assassinata.
[309] Argomentò: pensò.
[310] Secco: morto stecchito. L'e­spressione appartiene evidente­mente al registro basso della lingua e con la sua presenza aumenta la varietà dei linguaggi presenti nel testo.
[311] Cachettica: estremamente de­perita. Questa volta il termine appartiene al linguaggio specialisti­co della medicina.
[312] L'albore vetroso: il biancore che ricordava la trasparenza del vetro.
[313] Ne denunciò... attuale: la barba rivela che il volto non è quello di una mummia da inserire nel catalogo di un museo egizio, bensì di una persona che appartiene a un'epoca storica purtroppo molto vicina e per Ingravallo addirittu­ra contemporanea, come è appun­to l'epoca fascista, in cui il roman­zo è ambientato. Nel periodo, sintatticamente molto elaborato, il narratore dissemina, oltre al rife­rimento polemico di ordine poli­tico, espressioni tipiche del lin­guaggio burocratico.
[314] Fra le consolazioni della prole e della zappa: fra le gioie dei figli e quelle del lavoro contadino.
[315] Le: il pronome personale si aggiunge a quello relativo, dando luogo a una ridondanza che è in contrasto con le norme gramma­ticali ma che risulta molto efficace sul piano espressivo.
[316] Il fondatore... quinquennale: Mussolini, che nell'epoca in cui si collocano le vicende del roman­zo (1927) è al potere da cinque anni (la sua marcia su Roma risa­le infatti al 1922). Il narratore met­te in ridicolo il regime attraverso un uso parodistico delle sue espressioni stereotipate.
[317] 1 due ceri... governasse: i due ceri sembravano, tanto erano pal­lidi e macilenti, in attesa di esse­re infilati in candelabri adatti e ac­cesi («appicciati») da un fiammifero («pròspero») che fosse mano­vrato da una persona compassio­nevole. L'immagine, di per sé baroccheggiante, è costruita lugubremente sull'accostamento di più stili e registri: termini della parla­ta romanesca («de qua e de là», «appicciati», «pròspero») sono se­guiti da una proposizione di regi­stro decisamente letterario per scelte lessicali e costruzione sin­tattica.
[318] Insofferente... pietosa: irritato per il nuovo imbroglio del padre moribondo e tuttavia trattenuto da un senso di riguardo («perito­sa») e di pietà. Le parole, che illustrano la reazione di Ingravallo di fronte al fatto che la donna che vorrebbe arrestare ha il padre mo­ribondo, sono registrate attraver­so un inserto in dialetto meridio­nale, per coerenza con l'origine molisana del commissario.
[319] La immaginativa: l'immaginazione.
[320] Sgroppò: inarcò la groppa.
[321] Scalciò, sgroppò, galoppò: per dire che, di fronte «'e chillo novo imbruoglio», Ingravallo si irrita, prova un senso di ribellione e poi precorre i tempi, rappresentando­si nella mente i funerali del vecchio, il narratore ricorre a una
metafora.
[322] Liquidava: mandava al cimite­ro, si toglieva di torno.
[323] Il conformista - Marcello Clerici è un bambino speciale, come speciali sono spesso i bambini che nascono nelle case di una classe superiore, nelle quali aleggia la decadenza di una stirpe in disfacimento: il padre di Marcello è uno schizoide impazzito d'amore per la moglie infedele e frivola, che ama il suo bambino solo distrattamente.
In mancanza di una guida valida, in una fase delicata dello sviluppo, Marcello crea un collegamento tra la propria estraneità ai compagni e l'infantile transitoria crudeltà dei suoi giochi solitari. Innamorato delle armi fin da ragazzo, integrato nella generale vitalità della natura, Marcello scopre un giorno di essere diverso dai suoi coetanei, anormale per crudeltà e vigore, ai quali si uniscono un’eccitazione ed un turbamento anche fisici.
In casa e a scuola, Marcello sperimenta questa sua anormalità con una morbosità quasi ossessiva, fino a giungere alla conclusione di ritenersi veramente diverso dagli altri, angosciandosi per il suo avvenire, che prevede contrassegnato da un tragico destino.
A suggello di tale apprensione, un fatto sconvolgente lo conferma in questa scoperta: all'uscita dalla scuola, in un viale solitario, Marcello viene avvicinato da un autista omosessuale, di nome Lino, che lo invita a salire sulla sua auto e, promettendogli in regalo una pistola, lo conduce in una villa deserta: eccitato e sconvolto, rivela al ragazzo i suoi turpi desideri. Marcello tenta di liberarsi, di fuggire, ma scopre che la porta è chiusa a chiave. Con la pistola che gli è stata appena regalata spara e uccide l'uomo. Poi fugge.
Questo drammatico avvenimento costituisce per Marcello il punto di partenza su cui costruire la sua vita futura, improntata a una convenzionalità rasserenante.
Dopo diciassette anni, è divenuto un uomo maturo perfettamente sicuro di sé, calmo, di gusti severi, ordinato, controllato, freddo, quasi privo di immaginazione. Per un fermo proposito di normalità si conforma, senza fede, all'idea politica del Fascismo, divenendo funzionario del Servizio Segreto per la repressione dell'antifascismo. L'infanzia torbida è ormai cancellata: Marcello è entrato nelle vesti del conformista, dell'uomo normale. Il lavoro al ministero (funzionario di polizia con incarichi speciali), una fidanzata piccolo-borghese (che prima di divenire sua moglie è stata l'amante di un vecchio amico di famiglia, oltre ad aver avuto rapporti lesbici con una donna), con una casa piccolo-borghese.
Giulia e Marcello si avviano a un matrimonio piccolo-borghese, con tutto l'abbigliamento, il menù, la lista di anonimi e grigi ospiti piccolo-borghesi e la cerimonia in una chiesa, dedicata ad un santo della controriforma.
Ma il classico viaggio di nozze a Parigi è lo schermo dietro cui si nasconde la missione affidatagli dal Servizio Segreto: rintracciare e uccidere un suo vecchio professore d'Università, pericoloso antifascista, che in Francia complotta contro il regime.
Accompagnato da un sicario, Marcello porta a compimento il suo delitto, uccidendo il professore Quadri e sua moglie Lina.
Ma a Parigi Marcello scopre che la sua normalità non è altro che un’illusoria invenzione: Marcello prima avrà rapporti con Lina, la moglie del professore, tradendo cosí Giulia e sconfessando il suo conformismo, poi con uno sconosciuto col quale ripete l'esperienza avuta con l'autista.
Alla caduta del regime fascista Marcello avvertirà il suo gesto omicida come vuoto e futile, un delitto inutile e inopportuno.
Tutto il castello di purezza, d'innocenza e di perbenismo crolla rovinosamente: e la crisi è ancor piú aggravata dal suo ritorno a Roma con Giulia; a Villa Borghese tenta di avere con la moglie un amplesso naturale che lo immerga in uno stato di completo abbandono, ma un fatto nuovo interviene a turbare le sue illusioni di normalità: Lino, l'autista che Marcello credeva d'aver ucciso, gli si para davanti nelle vesti di guardia notturna del parco. Ed ecco l'epilogo in chiave redentrice: Marcello e Giulia, con la figlia Lucilla, nella fuga da Roma verso l'Abruzzo, trovano la morte sotto un mitragliamento.
La storia si dipana dagli anni venti fino alla caduta del Fascismo. Lo stile, chiaro e asciutto, in questo romanzo appare forse meno arido, meno da Codice Civile e, soprattutto nel racconto dell’infanzia di Marcello e in alcune descrizioni centrali dell’opera, sembra ammorbidirsi e addolcirsi. L’autore si accanisce a volte su certi personaggi con un piacere che lascia trasparire la personale insofferenza dell'autore per questa normalità da operetta, che ritrae così magistralmente.
E quasi da un angolo della Comédie Humaine, sembra a tratti ritagliarsi la personalità complessa e sfaccettata del protagonista: la sua affannata ricerca di una normalità che lo riscatti dalla follia del padre, dall’influsso negativo della madre, e dalla sua propria deviazione interiore, che lo spinge alla violenza, vera o presunta.
Normalità significa, per Marcello, non avere idee quasi su niente o l’impossibilità di provare altri sentimenti se non l’orrore, il ribrezzo verso l’anormalità e tutto ciò che in qualche modo può rammentargliene la presenza nel suo stesso passato, o la malinconia che sembra accompagnare qualsiasi riflessione.
Perfino il breve attimo di confusione amorosa per Lina - la donna del professore che Marcello dovrà uccidere a Parigi - conclusosi davanti al traumatizzante spettacolo degli ambigui, disperati comportamenti di lei, non potrà che disperdersi in un’amara e generica considerazione sull’assenza d’amore tra gli esseri umani, comune fattore di vacuità, e cioè di normalità universale.
Il finale, corposo, risolutore, non lascia spazio ad aperture verso altre soluzioni, che non siano quelle che Marcello stesso propone.
[324] Clerici  – Marcello Clerici è il protagonista del romanzo. Egli è un funzionario del regime fascista, e lavora presso il Ministero della Difesa. Marcello è il protagonista del romanzo.
La sua vita è raccontata fin da bambino, momento in cui la sua esistenza è segnata da un fatto che sconvolgerà tutta la sua vita. Appartiene ad una famiglia borghese, infatti, inizialmente non va a scuola ma ha un'insegnante privata. I suoi genitori non vanno d'accordo: il padre è pazzo e picchia la moglie e la donna ha un amante quasi fin da quando è nato Marcello. Egli è figlio unico e i genitori non si occupano quasi mai di lui, presi come sono dalla vita mondana. Il ragazzino in questo periodo della sua vita vivrà un episodio drammatico: l'uccisione di un uomo, che lo farà vivere tutta la vita con il desiderio di riscattarsi. Tutta la sua vita seguente sarà una ricerca della normalità, come tutti gli altri, cosa che secondo lui egli non era mai stato possibile fino a quel momento.
[325] La … Spagna: Siamo negli anni della guerra di Spagna, Marcello ha trovato nel regime quell’ordine rassicurante che andava cercando. Del Fascismo è un fanatico sostenitore, al punto che, funzionario del ministero degli interni, si propone, d’accordo con le autorità, di avvicinare a Parigi un importante fuoriuscito, Edmondo Quadri, fingendosi desideroso di convertirsi alle sue idee, così da acquistare la sua fiducia e divenire in tal modo una spia fascista.
[326] L’uomo… giallo: L’uomo dal viso giallo è una persona che Marcello aveva visto nel salone d’aspetto. Si ricordava  perché gli colpì molto  il suo vestiario ed il suo atteggiamento così disinvolto e impaziente, da parer esser di casa al Ministero.
[327] Il segretario: Il diretto superiore di Marcello è il segretario, un uomo ambizioso e scettico, mondano, con il gusto dell’intrigo spinto fino all’efferatezza.
[328] Il… Baudino: Il colonnello Baudini  partecipa alla discussione e giudica il piano di Marcello ottimo. Egli è un uomo  ligio, rigido, onesto e fatto di un gran senso del dovere. Ha un aspetto militaresco, scarlatto e legnoso in viso, con due baffi neri  di un ispidezza, che sembrano messi lì quasi per mascherarlo.
[329] Quadri: Quadri è la persona che Marcello dovrà catturare nella missione di Parigi. Il Professor Quadri è un vecchio professore di Marcello dell'università. È sempre stato contro il regime: è stato rimosso dall'insegnamento per questo e costretto a trasferirsi a Parigi per sfuggire alle persecuzioni. Quadri e Marcello sono sempre stati l'uno contro l'altro per quanto riguarda la politica e proprio durante il suo viaggio di nozze a Parigi, il protagonista deve svolgere una missione per conto del regime, di cui è uno degli agenti. Il compito è di favorire il riconoscimento del professore per poi farlo uccidere da altri agenti. Con questo delitto di cui è complice anche se indirettamente, Marcello vuole riscattare l'omicidio compiuto in fanciullezza, infatti, questa volta la morte è giustificata da dei principi in cui il protagonista crede.
[330] Il ministro è un personaggio che compare alla fine del brano, accogliendo cordialmente e con parole elogiative Marcello nel suo studio. Egli è una persona corpulenta fatto di una faccia larga e massiccia. Egli è la persona che Marcello  aveva visto insieme alla donna in una stanza pochi minuti prima.
[331] Quadri: Il professor Quadri è la persona che Marcello deve catturare nella missione di Parigi. Il ritratto col quale li lettore fa la conoscenza del professore è splendido Edmondo Quadri (“gobbo, storto, miope, barbuto”; esule a Parigi “vi era diventato ben presto uno dei capi dell’antifascismo, forse il più abile, il più preparato, il più aggressivo.”), di cui vale riportare un breve passaggio: “Quadri aveva un viso curiosamente piatto e asimmetrico, simile ad una maschera di cartapesta dagli occhi orlati di rosso e dal naso triangolare, alla quale, sulla parte inferiore, fossero stati incollati in maniera sommaria una barba e un paio di baffi posticci. Anche sulla fronte, i capelli troppo neri e come madidi suggerivano l’idea di una parrucca male applicata. Tra i baffi a spazzola e la barba a scopetto, ambedue di una nerezza sospetta, si intravvedeva una bocca molto rossa, dalle labbra informi”.
[332] Orlando:  Orlando è anch’egli un funzionario del ministero e a Parigi  faceva da supporto a Marcello.
[333] la moglie: Giulia è la sposa di Marcello, e per lei quel soggiorno a Parigi è dovuto al viaggio di nozze. Appartenente ad una famiglia normale la ragazza ama Marcello sinceramente, mentre l'uomo inizialmente non è molto convinto, ma non vuole tirarsi indietro, neppure quando si profila il matrimonio, proprio per il suo desiderio di essere considerato normale: avere una moglie normale, una casa normale, un lavoro normale, dei figli e così via.

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