Da La Murtoleide di Gian Battista Marino
Vuo' dar una mentita per la
gola
a qualunque uom ardisca d'affermare
che il Murtola non sa ben poetare,
e ch'ha bisogno di tornar a scuola.
a qualunque uom ardisca d'affermare
che il Murtola non sa ben poetare,
e ch'ha bisogno di tornar a scuola.
E mi viene una stizza mariola
quando sento ch'alcun lo vuol biasmare;
perché‚ nessuno fa meravigliare
come fa egli in ogni sua parola.
quando sento ch'alcun lo vuol biasmare;
perché‚ nessuno fa meravigliare
come fa egli in ogni sua parola.
È del poeta il fin la meraviglia
(parlo de l'eccellente, non del goffo):
chi non sa far stupir, vada a la striglia.
(parlo de l'eccellente, non del goffo):
chi non sa far stupir, vada a la striglia.
Io mai non leggo il cavolo e
'l carcioffo,
che non inarchi per stupor le ciglia,
com'esser possa un uom tanto gaglioffo.
che non inarchi per stupor le ciglia,
com'esser possa un uom tanto gaglioffo.
Alla Musa
di Ugo Foscolo
Pur tu copia versavi alma di canto
su le mie labbra un tempo, Aonia Diva,
quando de’ miei fiorenti anni fuggiva
la stagion prima, e dietro erale intanto
questa, che meco per la via del pianto
scende di Lete ver la muta riva:
non udito or t’invoco; ohimè! soltanto
una favilla del tuo spirto è viva.
E tu fuggisti in compagnia dell’ore,
o Dea! tu pur mi lasci alle pensose
membranze, e del futuro al timor cieco.
Però mi accorgo, e mel ridice amore,
che mal ponno sfogar rade, operose
rime il dolor che deve albergar meco.
su le mie labbra un tempo, Aonia Diva,
quando de’ miei fiorenti anni fuggiva
la stagion prima, e dietro erale intanto
questa, che meco per la via del pianto
scende di Lete ver la muta riva:
non udito or t’invoco; ohimè! soltanto
una favilla del tuo spirto è viva.
E tu fuggisti in compagnia dell’ore,
o Dea! tu pur mi lasci alle pensose
membranze, e del futuro al timor cieco.
Però mi accorgo, e mel ridice amore,
che mal ponno sfogar rade, operose
rime il dolor che deve albergar meco.
Alla Musa
di Alessandro Manzoni
Novo intatto sentier segnami,
o Musa,
onde non stia tua fiamma in me sepolta.
È forse a somma gloria ogni via chiusa,
che ancor non sia d’altri vestigi folta!
onde non stia tua fiamma in me sepolta.
È forse a somma gloria ogni via chiusa,
che ancor non sia d’altri vestigi folta!
Dante ha la tromba, e il
cigno di Valchiusa
la dolce lira; e dietro han turba molta.
Flora ad Ascra agguagliosse; e Orobbia incolta
Emulò Smirna, o vinse Siracusa.
la dolce lira; e dietro han turba molta.
Flora ad Ascra agguagliosse; e Orobbia incolta
Emulò Smirna, o vinse Siracusa.
Primo signor de l’italo
coturno,
te vanta il secol nostro, o te cui dièo
venosa il plettro, o chi il flagello audace?
te vanta il secol nostro, o te cui dièo
venosa il plettro, o chi il flagello audace?
Clio, che tratti la tromba e
il plettro eburno,
deh! fa che, s’io cadrò sul calle Ascreo,
deh! fa che, s’io cadrò sul calle Ascreo,
dicasi almen: Su l’orma
propria ei giace!
Congedo
Da
Rime nuove di Giosuè CarducciIl poeta, o vulgo
sciocco,
un pitocco
non è già, che a l'altrui mensa
via con lazzi turpi e matti
porta i piatti
ed il pan ruba in dispensa.
non è già, che a l'altrui mensa
via con lazzi turpi e matti
porta i piatti
ed il pan ruba in dispensa.
E né meno è un perdigiorno
che va intorno
dando il capo ne' cantoni,
e co 'l naso sempre a l'aria
gli occhi svaria
dietro gli angeli e i rondoni.
che va intorno
dando il capo ne' cantoni,
e co 'l naso sempre a l'aria
gli occhi svaria
dietro gli angeli e i rondoni.
E né meno è un giardiniero
che il sentiero
de la vita co 'l letame
utilizza, e cavolfiori
pe' signori
e viole ha per le dame.
che il sentiero
de la vita co 'l letame
utilizza, e cavolfiori
pe' signori
e viole ha per le dame.
Il poeta è un grande artiere,
che al mestiere
fece i muscoli d'acciaio:
capo ha fier, collo robusto,
nudo il busto,
duro il braccio, e l'occhio gaio.
che al mestiere
fece i muscoli d'acciaio:
capo ha fier, collo robusto,
nudo il busto,
duro il braccio, e l'occhio gaio.
Non a pena l'augel pia
e giulía
ride l'alba a la collina,
ei co 'l mantice ridesta
fiamma e festa
e lavor ne la fucina:
e giulía
ride l'alba a la collina,
ei co 'l mantice ridesta
fiamma e festa
e lavor ne la fucina:
E la fiamma guizza e brilla
e sfavilla
e rosseggia balda audace,
e poi sibila e poi rugge
e poi fugge
scoppiettando da la brace.
e sfavilla
e rosseggia balda audace,
e poi sibila e poi rugge
e poi fugge
scoppiettando da la brace.
Che sia ciò, non lo so io;
lo sa Dio
che sorride al grande artiero.
ne le fiamme cosí ardenti
gli elementi
de l'amore e del pensiero
lo sa Dio
che sorride al grande artiero.
ne le fiamme cosí ardenti
gli elementi
de l'amore e del pensiero
egli gitta, e le memorie
e le glorie
de' suoi padri e di sua gente.
Il passato e l'avvenire
a fluire
va nel masso incandescente.
e le glorie
de' suoi padri e di sua gente.
Il passato e l'avvenire
a fluire
va nel masso incandescente.
Ei l'afferra, e poi del
maglio
co 'l travaglio
ei lo doma su l'incude.
Picchia e canta. Il sole ascende,
e risplende
su la fronte e l'opra rude.
co 'l travaglio
ei lo doma su l'incude.
Picchia e canta. Il sole ascende,
e risplende
su la fronte e l'opra rude.
Picchia. E per la libertade
ecco spade,
ecco scudi di fortezza:
ecco serti di vittoria
per la gloria,
e diademi a la bellezza.
ecco spade,
ecco scudi di fortezza:
ecco serti di vittoria
per la gloria,
e diademi a la bellezza.
Picchia. Ed ecco istoriati
a i penati
tabernacoli ed al rito:
ecco tripodi ed altari,
ecco rari
fregi e vasi pe 'l convito.
a i penati
tabernacoli ed al rito:
ecco tripodi ed altari,
ecco rari
fregi e vasi pe 'l convito.
Per sé il pover manuale
fa uno strale
d'oro, e il lancia contro 'l sole:
guarda come in alto ascenda
e risplenda,
guarda e gode, e più non vuole.
fa uno strale
d'oro, e il lancia contro 'l sole:
guarda come in alto ascenda
e risplenda,
guarda e gode, e più non vuole.
Preludio
da Penombre di Emilio Praga
Noi siamo figli dei padri
ammalati;
aquile al tempo di mutar le
piume
svolazziam muti, attoniti,
affamati,
sull'agonia di un nume.
Nebbia remota è lo splendor
dell'arca,
e già all'idolo d'or torna
l'umano,
e dal vertice sacro il
patriarca
s'attende invano;
s'attende invano dalla musa
bianca
che abitò venti secoli il
Calvario,
e invan l'esausta vergine
s'abbranca
ai lembi del Sudario...
Casto poeta che l'Italia
adora,
vegliardo in sante visioni
assorto,
tu puoi morir!... Degli Antecristi è
l'ora!
Cristo è rimorto!
O nemico lettor, canto la
Noia,
l'eredità del dubbio e
dell'ignoto,
il tuo re, il tuo pontefice,
il tuo boia,
il tuo cielo, e il tuo loto!
Canto litane di martire e
d'empio;
canto gli amori dei sette
peccati
che mi stanno nel cor, come
in un tempio,
inginocchiati.
Canto l'ebrezze dei bagni
d'azzurro,
e l'Ideale che annega nel
fango...
Non irrider, fratello, al mio
sussurro,
se qualche volta piango:
giacché più del mio pallido
demone,
odio il minio e la maschera
al pensiero,
giacchè canto una misera
canzone,
ma canto il vero!
La poesia
da
Canti di Castelvecchio di
Giovanni Pascoli
I
Io sono una lampada ch'arda
soave!
la lampada, forse, che
guarda,
pendendo alla fumida trave,
la veglia che fila;
e ascolta novelle e ragioni
da bocche
celate nell'ombra, ai
cantoni,
là dietro le soffici rócche
che albeggiano in fila:
ragioni, novelle, e saluti
d'amore, all'orecchio,
confusi:
gli assidui bisbigli perduti
nel sibilo assiduo dei fusi;
le vecchie parole sentite
da presso con palpiti nuovi,
tra il sordo rimastico mite
dei bovi:
II
la lampada, forse, che a cena
raduna;
che sboccia sul bianco, e
serena
su l'ampia tovaglia sta, luna
su prato di neve;
e arride al giocondo convito;
poi cenna,
d'un tratto, ad un piccolo
dito,
là, nero tuttor della penna
che corre e che beve:
ma lascia nell'ombra, alla
mensa,
la madre, nel tempo
ch'esplora
la figlia più grande che
pensa
guardando il mio raggio
d'aurora:
rapita nell'aurea mia fiamma
non sente lo sguardo tuo
vano;
già fugge, è già, povera
mamma,
lontano!
III
Se già non la lampada io sia,
che oscilla
davanti a una dolce Maria,
vivendo dell'umile stilla
di cento capanne:
raccolgo l'uguale tributo
d'ulivo
da tutta la villa, e il
saluto
del colle sassoso e del rivo
sonante di canne:
e incende, il mio raggio, di
sera,
tra l'ombra di mesta viola,
nel ciglio che prega e
dispera,
la povera lagrima sola;
e muore, nei lucidi albori,
tremando, il mio pallido
raggio,
tra cori di vergini e fiori
di maggio:
IV
o quella, velata, che al
fianco
t'addita
la donna più bianca del
bianco
lenzuolo, che in grembo,
assopita,
matura il tuo seme;
o quella che irraggia una
cuna
- la barca
che, alzando il fanal di
fortuna,
nel mare dell'essere varca,
si dondola, e geme -;
o quella che illumina tacita
tombe profonde - con visi
scarniti di vecchi; tenaci
di vergini bionde sorrisi;
tua madre!... nell'ombra
senz'ore,
per te, dal suo triste
riposo,
congiunge le mani al suo
cuore
già róso! -
V
Io sono la lampada ch'arde
soave!
nell'ore più sole e più
tarde,
nell'ombra più mesta, più
grave,
più buona, o fratello!
Ch'io penda sul capo a
fanciulla
che pensa,
su madre che prega, su culla
che piange, su garrula mensa,
su tacito avello;
lontano risplende l'ardore
mio casto all'errante che
trita
notturno, piangendo nel
cuore,
la pallida via della vita:
s'arresta; ma vede il mio
raggio,
che gli arde nell'anima
blando:
riprende l'oscuro viaggio
cantando.
Canta la gioia
da Canto novo di Gabriele D’Annunzio
Canta la gioia! Io voglio
cingerti
di tutti i fiori perchè tu celebri
la gioia la gioia la gioia,
questa magnifica donatrice!
di tutti i fiori perchè tu celebri
la gioia la gioia la gioia,
questa magnifica donatrice!
Canta l'immensa gioia di
vivere,
d'essere forte, d'essere giovine,
di mordere i frutti terrestri
con saldi e bianchi denti voraci,
d'essere forte, d'essere giovine,
di mordere i frutti terrestri
con saldi e bianchi denti voraci,
di por le mani audaci e
cupide
su ogni dolce cosa tangibile,
di tendere l'arco su ogni
preda novella che il desìo miri,
su ogni dolce cosa tangibile,
di tendere l'arco su ogni
preda novella che il desìo miri,
e di ascoltar tutte le
musiche,
e di guardar con occhi fiammei
il volto divino del mondo
come l'amante guarda l'amata,
e di guardar con occhi fiammei
il volto divino del mondo
come l'amante guarda l'amata,
e di adorare ogni fuggevole
forma,ogni segno vago, ogni immagine
vanente, ogni grazia caduca,
ogni apparenza ne l'ora breve.
forma,ogni segno vago, ogni immagine
vanente, ogni grazia caduca,
ogni apparenza ne l'ora breve.
Canta la gioia! Lungi da
l'anima
nostra il dolore, veste cinerea.
E' un misero schiavo colui
che del dolore fa sua veste.
nostra il dolore, veste cinerea.
E' un misero schiavo colui
che del dolore fa sua veste.
A te la gioia, Ospite! Io
voglio
vestirti da la più rossa porpora
s'io debba pur tingere il tuo
bisso nel sangue de le mie vene.
vestirti da la più rossa porpora
s'io debba pur tingere il tuo
bisso nel sangue de le mie vene.
Di tutti i fiori io voglio
cingerti
trasfigurata perchè tu celebri
la gioia la gioia la gioia,
questa invincibile creatrice!
trasfigurata perchè tu celebri
la gioia la gioia la gioia,
questa invincibile creatrice!
Desolazione del povero poeta sentimentale
Dal Piccolo libro inutile di
Sergio Corazzini
I
Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo
fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime
da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?
II
Le mie tristezze sono povere
tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io
dovessi confessarle a te
arrossirei.
Oggi io penso a morire.
III
Io voglio morire, solamente,
perché sono stanco;
solamente perché i grandi
angioli
su le vetrate delle catedrali
mi fanno tremare d'amore e di
angoscia;
solamente perché, io sono,
oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio
melanconico.
Vedi che io non sono un
poeta:
sono un fanciullo triste che
ha voglia di morire.
IV
Oh, non maravigliarti della
mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che
parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere
come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero
l'aria
di sgranare un rosario di
tristezza
davanti alla mia anima sette
volte dolente
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un
dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare,
così, come canta e come dorme.
V
Io mi comunico del silenzio,
cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio
sono i romori,
poi che senza di essi io non
avrei cercato e trovato il Dio.
VI
Questa notte ho dormito con
le mani in croce.
Mi sembrò di essere un
piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli
umani,
povera tenera preda del primo
venuto;
e desiderai di essere
venduto,
di essere battuto
di essere costretto a
digiunare
per potermi mettere a
piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.
VII
Io amo la vita semplice delle
cose.
Quante passioni vidi
sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne
andava!
Ma tu non mi comprendi e
sorridi.
E pensi che io sia malato.
VIII
Oh, io sono, veramente
malato!
E muoio, un poco, ogni
giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto:
poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che
morire.
Amen.
Chi sono?
Da Poesie di Aldo Palazzeschi
Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
follia.
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
follia.
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
malinconia.
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
malinconia.
Un musico, allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
nostalgia.
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
nostalgia.
Son dunque... che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.
Italia
Il saltimbanco dell’anima mia.
Italia
Da
l’Allegria di Giuseppe Ungaretti
Locvizza, l'1 ottobre 1916
Sono un poeta
un grido unanime
sono un grumo di sogni
Sono un frutto
d'innumerevoli contrasti d'innesti
maturato in una serra
Ma il tuo popolo è portato
dalla stessa terra
che mi porta
Italia
E in questa uniforme
di tuo soldato
mi riposo
come fosse la culla
di mio padre
un grido unanime
sono un grumo di sogni
Sono un frutto
d'innumerevoli contrasti d'innesti
maturato in una serra
Ma il tuo popolo è portato
dalla stessa terra
che mi porta
Italia
E in questa uniforme
di tuo soldato
mi riposo
come fosse la culla
di mio padre
Non chiederci la parola
Da Ossi di seppia di Eugenio Montale
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Il poeta
Da Canzoniere
di Umberto Saba
Il poeta ha le sue giornatecontate,
come tutti gli uomini; ma quanto,
quanto variate!
L’ore del giorno e le quattro stagioni,
un po’ meno di sole o più di vento,
sono lo svago e l’accompagnamento
sempre diverso per le sue passioni
sempre le stesse; ed il tempo che fa
quando si leva, è il grande avvenimento
del giorno, la sua gioia appena desto.
Sovra ogni aspetto lo rallegra questo
d’avverse luci, le belle giornate
movimentate
come la folla in una lunga istoria,
dove azzurro e tempesta poco dura,
e si alternano messi di sventura
e di vittoria.
Con un rosso di sera fa ritorno,
e con le nubi cangia di colore
la sua felicità,
se non cangia il suo cuore.
Il poeta ha le sue giornate
contate,
come tutti gli uomini; ma quanto,
quanto beate!
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