Il viandante nella nebbia
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant' è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.
Io non so ben ridir com' i' v'intrai,
tant' era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m'avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de' raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m'era durata
la notte ch'i' passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l'acqua perigliosa e guata,
così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.
Temp' era dal principio del mattino,
e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch'a bene sperar m'era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l'ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test' alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l'aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch'uscia di sua vista,
ch'io perdei la speranza de l'altezza.
E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne 'l tempo che perder lo face,
che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove 'l sol tace.
Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d'Anchise che venne di Troia,
poi che 'l superbo Ilïón fu combusto.
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch'è principio e cagion di tutta gioia?».
«Or se' tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos' io lui con vergognosa fronte.
«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu' io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».
«A te convien tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo' campar d'esto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui s'ammoglia,
e più saranno ancora, infin che 'l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno,
là onde ‘nvidia prima dipartilla.
Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch'a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna,
perch' i' fu' ribellante a la sua legge,
non vuol che 'n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l'alto seggio:
oh felice colui cu' ivi elegge!».
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
a ciò ch'io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov' or dicesti,
sì ch'io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
La prima ragione del viaggio
Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m'apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch'io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s'ell' è possente,
prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l'avversario d'ogne male
cortese i fu, pensando l'alto effetto
ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale
non pare indegno ad omo d'intelletto;
ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero
ne l'empireo ciel per padre eletto:
la quale e 'l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u' siede il successor del maggior Piero.
Per quest' andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d'elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch'è principio a la via di salvazione.
Ma io, perché venirvi? o chi 'l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri 'l crede.
Per che, se del venire io m'abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono».
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec' ïo 'n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la 'mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.
«S'i' ho ben la parola tua intesa»,
rispuose del magnanimo quell' ombra,
«l'anima tua è da viltade offesa;
la qual molte fïate l'omo ingombra
sì che d'onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand' ombra.
Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto 'l mondo lontana,
l'amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt' è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
ch'io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c'ha mestieri al suo campare,
l'aiuta sì ch'i' ne sia consolata.
I' son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui".
La porta dell’Inferno
'Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e 'l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'.
Queste parole di colore oscuro
vid' ïo scritte al sommo d'una porta;
per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro».
Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov' i' t'ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto».
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond' io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l'aere sanza stelle,
per ch'io al cominciar ne lagrimai.
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant' è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.
Io non so ben ridir com' i' v'intrai,
tant' era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m'avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de' raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m'era durata
la notte ch'i' passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l'acqua perigliosa e guata,
così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.
Temp' era dal principio del mattino,
e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch'a bene sperar m'era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l'ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test' alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l'aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch'uscia di sua vista,
ch'io perdei la speranza de l'altezza.
E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne 'l tempo che perder lo face,
che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove 'l sol tace.
Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d'Anchise che venne di Troia,
poi che 'l superbo Ilïón fu combusto.
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch'è principio e cagion di tutta gioia?».
«Or se' tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos' io lui con vergognosa fronte.
«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu' io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».
«A te convien tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo' campar d'esto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui s'ammoglia,
e più saranno ancora, infin che 'l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno,
là onde ‘nvidia prima dipartilla.
Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch'a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna,
perch' i' fu' ribellante a la sua legge,
non vuol che 'n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l'alto seggio:
oh felice colui cu' ivi elegge!».
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
a ciò ch'io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov' or dicesti,
sì ch'io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
La prima ragione del viaggio
Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m'apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch'io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s'ell' è possente,
prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l'avversario d'ogne male
cortese i fu, pensando l'alto effetto
ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale
non pare indegno ad omo d'intelletto;
ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero
ne l'empireo ciel per padre eletto:
la quale e 'l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u' siede il successor del maggior Piero.
Per quest' andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d'elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch'è principio a la via di salvazione.
Ma io, perché venirvi? o chi 'l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri 'l crede.
Per che, se del venire io m'abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono».
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec' ïo 'n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la 'mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.
«S'i' ho ben la parola tua intesa»,
rispuose del magnanimo quell' ombra,
«l'anima tua è da viltade offesa;
la qual molte fïate l'omo ingombra
sì che d'onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand' ombra.
Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto 'l mondo lontana,
l'amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt' è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
ch'io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c'ha mestieri al suo campare,
l'aiuta sì ch'i' ne sia consolata.
I' son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui".
La porta dell’Inferno
'Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e 'l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'.
Queste parole di colore oscuro
vid' ïo scritte al sommo d'una porta;
per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro».
Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov' i' t'ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto».
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond' io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l'aere sanza stelle,
per ch'io al cominciar ne lagrimai.
Paolo e Francesca
I’ cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ‘nsieme vanno[1],
e paion sì al vento esser leggieri».
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor[2] che i
mena, ed ei verranno».
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega[3]!».
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere, dal voler portate;
cotali uscir[4] de la
schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido[5].
«O animal grazioso[6] e
benigno
che visitando vai per l’aere perso[7]
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ‘l vento, come fa, ci tace[8].
Siede la terra dove nata fui
su la marina[9] dove
‘l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende[10]
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo[11]
ancor m’offende.
Amor[12],
ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer[13] sì
forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte[14]:
Caina[15]
attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’io intesi quell’anime offense[16],
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ‘l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso[17],
quanti dolci pensier, quanto disio[18]
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio[19].
Ma dimmi: al tempo de’ dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri[20]?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa[21] ‘l
tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto[22],
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto[23] come
amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate[24] li
occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
Analisi del testo
Comprensione complessiva
Individua la struttura generale del brano, ponendo in
evidenza situazione iniziale, la complicazione, l’evoluzione della vicenda e la
conclusione della vicenda.
Individua il numero delle sequenze del brano,
classificandole secondo la loro natura, dando un titolo breve a ciascuna
macrosequenza infine per ogni sequenza scrivi un riassunto, costituito da un
periodo di non oltre 30 parole.
Contestualizzazione
Lo studente esponga
- le peregrinazioni di Dante esule in riferimento al suo soggiorno presso la signoria di Ravenna cui fa riferimento il testo.
- Le concezioni d’amore dell’epoca in cui il poeta
vive ed il condizionamento che la visione cortese dell’amore esercita su
Francesca in merito all’argomento ed al canto.
- Nel canto Dante mostra un aspetto comune della
poetica stilnovista, ossia lo scavo psicologico del sentimento: esponi
come esso viene scandagliato. Mostra tuttavia una profonda differenza
rispetto all’ideale stilnovista: individua e spiega i versi in cui l’amore
è stilnovisticamente concepito e dove esso è antitetico allo stilnovo
tanto da fare di Francesca una creatura viva e reale
Farinata
degli Uberti
«O Tosco[25] che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela[26] ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
a la qual forse fui troppo molesto».
Subitamente[27] questo suono uscìo
d'una de l'arche; però[28] m'accostai,
temendo, un poco più al duca mio.
Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s'è dritto:
da la cintola in sù tutto 'l vedrai».
Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s'ergea col petto e con la fronte
com'avesse l'inferno a gran dispitto[29].
E l'animose[30] man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte[31]».
Com'io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor[32] li maggior tui?».
Io ch'era d'ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel'apersi;
ond'ei levò le ciglia un poco in suso[33];
poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte[34],
sì che per due fiate li dispersi».
«S'ei[35] fur cacciati, ei tornar d'ogne parte»,
rispuos'io lui, «l'una e l'altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell'arte».
Allor surse a la vista scoperchiata[36]
un'ombra[37], lungo questa, infino al mento:
credo che s'era in ginocchie levata.
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s'altri era meco;
e poi che 'l sospecciar[38] fu tutto spento,
piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d'ingegno[39],
mio figlio ov'è? e perché non è teco?».
E io a lui: «Da me stesso non vegno[40]:
colui[41] ch'attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».
Le sue parole e 'l modo de la pena
m'avean di costui già letto[42] il nome;
però fu la risposta così piena[43].
Di subito drizzato gridò: «Come?
dicesti "elli ebbe"? non viv'elli ancora?
non fiere[44] li occhi suoi lo dolce lume?».
Quando s'accorse d'alcuna dimora[45]
ch'io facea dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
Ma quell'altro magnanimo, a cui posta[46]
restato m'era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa[47]:
e sé continuando al primo detto,
«S'elli han quell'arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto[48].
Ma non cinquanta[49] volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell'arte pesa.
E se tu mai nel dolce mondo regge[50],
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr'a' miei in ciascuna sua legge?».
Ond'io a lui: «Lo strazio e 'l grande scempio
che fece l'Arbia[51] colorata in rosso,
tal orazion[52] fa far nel nostro tempio».
Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò[53] non fu' io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
Ma fu' io solo, là[54] dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto».
Analisi del testo
Comprensione complessiva
Individua la struttura generale del brano, ponendo in
evidenza situazione iniziale, la complicazione, l’evoluzione della vicenda e la
conclusione della vicenda.
Individua il numero delle sequenze del brano,
classificandole secondo la loro natura, dando un titolo breve a ciascuna
macrosequenza infine per ogni sequenza scrivi un riassunto, costituito da un
periodo di non oltre 30 parole.
Contestualizzazione
Lo studente esponga
- Le lotte fra guelfi e ghibellini nei comuni italiani, facendo particolare riferimento ai versi del canto.
- La vicenda politica di Dante e la sua posizione in merito all’argomento politico ed al canto.
Nel brano, dopo un alternarsi di battute cariche di
tensione, Farinata pronuncia una profezia sull'esilio di Dante individuala e
commentala alla luce delle tue conoscenze sull’esilio di Dante; inoltre in
entrambi i personaggi emerge il grande amore per il comune di Firenze. Il
comune fu palestra di democrazia o di odi insanabili? Spiega la posizione di
Dante in riferimento al canto ed al suo pensiero politico
Il viaggio di Ulisse
Lo maggior corno[55]
della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando
mi diparti' da Circe[56],
che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta[57],
prima che sì Enea la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta[58]
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dovea Penelopè[59]
far lieta,
vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore[60];
ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna[61]
picciola da la qual non fui diserto[62].
L'un lito[63]
e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola de' Sardi,
e l'altre che quel mare intorno bagna.
Io e ' compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov'Ercule segnò li suoi riguardi[64],
acciò che l'uom più oltre non si metta:
dalla man destra mi lasciai Sibilia[65],
dall'altra già m'avea lasciato Setta[66].
«O frati», dissi «che per cento milia
perigli[67]
siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia[68]
de' nostri sensi ch'è del rimanente,
non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol[69],
del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza[70]:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza».
Li miei compagni fec'io sì aguti[71],
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino[72],
dei remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino[73].
Tutte le stelle[74]
giù dell'altro polo
vedea la notte e 'l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte[75]
racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,
quando n'apparve una montagna[76],
bruna per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto[77].
Tre volte il fe' girar con tutte l'acque;
la quarta levar[78]
la poppa in suso
la prora ire in giù, com'altrui piacque[79],
infin che 'l mar fu sopra noi rinchiuso».
Analisi del testo
Comprensione complessiva
Individua la struttura generale del brano, ponendo in
evidenza situazione iniziale, la complicazione, l’evoluzione della vicenda e la
conclusione della vicenda.
Individua il numero delle sequenze del brano,
classificandole secondo la loro natura, dando un titolo breve a ciascuna
macrosequenza infine per ogni sequenza scrivi un riassunto, costituito da un
periodo di non oltre 30 parole.
Contestualizzazione
Lo studente
esponga
- Il valore della conoscenza in Dante
- Il viaggio di Ulisse come metafora dell’inesausto desiderio dell’uomo di conoscere facendo opportuno riferimento ai versi e commentandoli alla luce delle proprie esperienze
- Costanti e varianti fra il viaggio di Dante e quello di Ulisse, tenendo conto degli esiti dell’uno e di quelli dell’altro e spiegandone le ragioni di tali differenze
Il conte Ugolino
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola[80] a'
capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli[81]
disperato dolor che 'l cor mi preme
già pur pensando[82],
pria ch'io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien[83] seme
che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,
parlar e lagrimar[84]
vedrai insieme.
Io non so chi tu se' né per che modo
venuto se' qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand'io t'odo.
Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino[85],
e questi[86] è
l'arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal[87]
vicino.
Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri[88];
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s'e' m'ha offeso[89].
Breve pertugio dentro da la Muda[90]
la qual per me[91] ha
'l titol de la fame,
e che conviene[92]
ancor ch'altrui si chiuda,
m'avea mostrato per lo suo forame
più lune[93] già,
quand'io feci 'l mal sonno
che del futuro mi squarciò 'l velame.
Questi[94]
pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ' lupicini al monte[95]
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studiose e conte[96]
Gualandi[97] con
Sismondi e con Lanfranchi
s'avea messi dinanzi da la fronte[98].
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ' figli, e con l'agute scane[99]
mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane[100],
pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli[101]
ch'eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se' crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava[102];
e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e l'ora s'appressava
che 'l cibo ne solea essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava[103];
e io senti' chiavar[104]
l'uscio di sotto
a l'orribile torre; ond'io guardai
nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.
Io non piangea, sì dentro impetrai[105]:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".
Perciò non lacrimai né rispuos'io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l'altro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per[106]
quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch'io 'l fessi[107] per
voglia
di manicar, di subito levorsi[108]
e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia".
Queta'mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l'altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t'apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
dicendo: ``Padre mio, ché non mi aiuti?''.
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid'io cascar li tre ad uno ad uno
tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond'io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che[109] fur
morti.
Poscia, più che 'l dolor[110],
poté 'l digiuno».
Quand'ebbe detto ciò, con li occhi torti[111]
riprese 'l teschio misero co'denti,
che furo a l'osso, come d'un can, forti.
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove 'l sì suona[112],
poi che i vicini[113] a
te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona[114],
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch'elli annieghi in te ogne persona!
Ché se 'l conte Ugolino aveva voce
d'aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea l'età novella,
novella Tebe[115],
Uguiccione e 'l Brigata
e li altri due che 'l canto suso appella.
Analisi del testo
Comprensione complessiva
Individua la struttura generale del brano, ponendo in
evidenza situazione iniziale, la complicazione, l’evoluzione della vicenda e la
conclusione della vicenda.
Individua il numero delle sequenze del brano,
classificandole secondo la loro natura, dando un titolo breve a ciascuna
macrosequenza infine per ogni sequenza scrivi un riassunto, costituito da un
periodo di non oltre 30 parole.
Contestualizzazione
Lo
studente esponga
- Le lotte fra guelfi e ghibellini nei comuni italiani, facendo particolare riferimento ai versi del canto.
- Le commistioni fra politica e religione e la posizione di Dante in merito all’argomento ed al canto.
- Nel poema, Ugolino afferma che più che il dolor poté il digiuno, con una doppia, ambigua interpretazione: in un caso, il conte ormai impazzito si ciba della progenie; nell'altro, resiste alla fame e lascia che sia la fame a dare il colpo di grazia a un uomo già distrutto dal dolore per la perdita dei figli. Indica quale interpretazione è secondo te più plausibile spiegandone le ragioni per cui le ritieni più valide ai fini della resa poetica del testo
Comprensione complessiva
Esponi a
parole tue il contenuto del testo. Qual è il tema centrale del componimento e com’è esposto? Quali sono, se ci sono, i temi
secondari e come sono esposti? Quali
sono i nessi di relazione fra il tema-centrale e gli eventuali temi secondari?
Analizza in
dettaglio, enunciandone però la trattazione, una situazione o un personaggio o qualche particolare immagine
presente nel brano, spiegandone la relazione con il tema centrale del componimento.
Analisi del testo: natura ed analisi formale.
A quale genere letterario appartiene il testo?
A quale sottogenere letterario appartiene il testo?
Rispetto alla definizione tradizionale del genere letterario o del sottogenere,
che cosa mantiene e che cosa trasforma?
Nel brano
l'autore fa ricorso a termini letterari, aulici, poetici? Se ce ne sono
individuarne qualcuno che ti sembra a tal fine più rilevante e spiegane
significato e valore.
Nel brano
l'autore fa ricorso ad espressioni quotidiane, tipiche del linguaggio parlato?
Se ce ne sono individua qualcuna che
ti sembra a tal fine più significativa e spiegane significato e valore.
Quali
sono nel testo le figure del significato (metafora,
similitudine, allegoria, metonimia, sineddoche, personificazione, antitesi,
ossimoro, litote, iperbole, sinestesia ed in quali versi compaiono?
Identificane qualcuna ed esplicala evidenziando se le figure retoriche
utilizzate sono ricercate, letterarie, oppure fanno riferimento alla realtà
quotidiana della situazione descritta e sono caratterizzate dalla concretezza.
[1] che 'nsieme vanno: soli tra i peccatori trascinati
dalla bufera, Paolo e Francesca sono uniti per l'eternità. Francesca da
Polenta, moglie di Gianciotto Malatesta, signore di Rimini, uomo deforme e
zoppo, amò il fratello di questi, Paolo. Gianciotto vendicò il suo onore,
uccidendoli entrambi.
[2] per quello amor che i mena: in nome di quell'amore che
li ha perduti e che li conduce ancora uniti nella violenta bufera.
[3] s'altri nol niega: se l'imperscrutabile potenza divina
non lo vieta.
[4] cotali uscir: similmente uscirono dalla schiera ove è
Didone.
[5] l'affettuoso grido: il vocativo " O anime
affannate " del v. 80.
[6] O animal grazioso: o creatura cortese.
[7] perso: è un colore "misto di purpureo e di nero
ma vince lo nero, e da lui si dinomina" (Conv. IV, XX, 2).
[8] Ci tace: Paolo e Francesca si trovano momentaneamente
al di fuori della bufera infernale (cfr. v. 45 e n.).
[9] Su la marina: Francesca nacque a Ravenna, città sita
presso la foce ove sbocca il Po con i suoi affluenti (" seguaci sui
").
[10] Ratto s'apprende: fa rapida presa. È immagine
stilnovista, cara a Guinizelli e a Dante stesso (cfr. V.N. XX)
[11] e'l modo: la morte violenta che non le permise di
pentirsi.
[12] Amor: l'amore che non consente a nessuno che sia amato
di non riamare.
[13] Del costui piacer: della bellezza di questi.
[14] Ad une morte: a morire insieme.
[15] Caina: è la parte del nono cerchio dell'Inferno dove
sono dannati i traditori dei parenti.
[16] Offense: offese, cioè colpite prima dalla travolgente
passione, poi dalla fatale tragedia.
[17] Oh lasso: espressione di doloroso rammarico: ohimé!
[18] Quanto disìo: quanto desiderio condusse costoro al
tragico passaggio dalla vita alla morte eterna.
[19] Tristo e pio: mi rendono ("mi fanno") triste e pietoso, tanto da piangere ("a lagrimar").
[20] I dubbiosi disiri?: l'amore, che ancor non si era
rivelato.
[21] E ciò sa: anche Virgilio è passato dal "tempo
felice" all'infelicità ("miseria"); abita, infatti, il Limbo.
[22] Affetto: desiderio di conoscere il primo manifestarsi
("la prima radice"). Tutta l'espressione è d'ispirazione virgiliana
(cfr.
En., II, 10).
En., II, 10).
[23] Lancialotto: Lancillotto, cavaliere della Tavola
Rotonda, innamorato della regina Ginevra, moglie di re Artù, è il protagonista
del "Lancelot du Lac", romanzo francese del sec. XII: In esso si
legge che Ginevra fu indotta a baciare il suo cavaliere dal principe Galeotto,
che fungeva da mezzano. Ciò spiega il v.137.
[25] O Tosco: o toscano.
[26] Loquela: accento
[27] Subitamente : improvvisamente questa voce proruppe.
[28] però : perciò.
[29] a gran dispitto: in dispregio (cfr. c. IX, 91).
[30] l'animose : incoraggianti, soccorrevoli.
[31] conte: cognite, cioè chiare e non avventate (cfr. c.
III, 76).
[32] Chi fuor...?: da quali antenati discendi?
[33] in suso: in alto. Cioè corrugò la fronte, nell'atto di
ricordare.
[34] e a miei primi e a mia parte: ai miei antenati e al
mio partito, si che li cacciai per due volte ("due fiate"). Manente,
detto Farinata, appartenne alla famiglia fiorentina degli Uberti e fu il
baluardo del partito ghibellino; contribuì alla cacciata dei Guelfi nel 1248 e
nel 1260 (battaglia di Montaperti).
[35] S'ei: se essi furono cacciati, tornarono però dopo
entrambe le sconfitte: e cioè nel 1251 e nel 1266. Ma i Ghibellini ("i
vostri") non riuscirono a tornare più: infatti, dopo la Pasqua del 1267
persero ogni autorità politica e gli Uberti non furono più riammessi in città,
neppure dopo la pacificazione del 1280.
[36] A la vista scoperchiata: all'apertura della tomba il
cui coperchio era sollevato. "Vista" equivale a finestra (cfr. Purg.
c. IX, 67).
[37] Un'ombra: è lo spirito di Cavalcante Cavalcanti, padre
di Guido, poeta e amico di Dante.
[38] 'l sospecciar: il sospettare, nel senso etimologico di
guardare dal basso in alto (cfr. lat. subspicere).
[39] per altezza d'ingegno: per meriti intellettuali.
[40] Da me stesso non vegno : non vengo per mio merito; c'è
stato, infatti, l'intervento delle tre donne benedette.
[41] Colui: Virgilio rappresenta la ragione umana
illuminata dalla verità rivelata. E la Rivelazione, invece, disdegnò Guido
Cavalcanti che, come il padre, aveva fama di epicureo.
[42] Letto: rivelato.
[43] Piena: decisa.
[44] Fiere: ferisce, colpisce i suoi occhi la dolce luce
("dolce lume") del sole?
[45] Dimora: indugio, esitazione.
[46] A cui posta: a richiesta del quale mi ero arrestato
(cfr. v. 22 e segg.).
[47] Costa: fianco.
[48] letto: giaciglio, costituito dalla tomba.
[49] Ma non cinquanta: Ma non cinquanta volte tornerà a
risplendere la faccia della regina infernale...; la regina (cfr. c. IX, 44) è
Proserpina, la quale si identifica con Diana, in terra, e con la Luna, in
cielo. Tutta la frase vale: non passeranno cinquanta lunazioni, cioè mesi;
perciò quattro anni e due mesi. E' un'allusione all'esilio di Dante, decretato
nell'estate 1304, cioè dopo cinquanta mesi dall'aprile 1300, in cui inizia il
viaggio oltremondano.
[50] 82. regge: ritorni, con valore ottativo (cfr. lat.
redeas).
[51] L'Arbia: fiume presso Montaperti, dove il 4 settembre
1280 avvenne la battaglia sanguinosa vinta dai Ghibellini di Farinata.
[52] Tal orazion: tali deliberazioni; per conseguenza
"tempio" va inteso come città.
[53] A ciò: allo " strazio " e al " grande
scempio".
[54] Là: là dove da ciascuno fu tollerato di distruggere
Firenze; Farinata allude al concilio di Empoli, riunitosi dopo Montaperti,nel
quale egli solo, si oppose ai colleghi ghibellini contro il progetto di
distruggere Firenze.
[56] Circe:
figlia del Sole, esercitava i suoi incantesimi sui malcapitati stranieri,
trasformandoli in animali. Trattenne per oltre un anno Ulisse il quale,
ripartito, non tornò, afferma Dante, contrariamente alla tradizione omerica,
nella sua Itaca, ma volle vivere l'esperienza "del mondo sanza
gente".
[57] Gaeta: il
monte Circello, poi chiamato Gaeta dal nome della nutrice di Enea, Caieta, che
vi fu sepolta.
[59] Penelopè: Penelope, la sposa di Ulisse.
[62] Diserto: abbandonato.
[63] L'un lito: le coste europee e quelle
d'Africa ("Morrocco").
[68] Vigilia: veglia dei sensi che precede il
sonno della morte.
[69] di retro al sol: seguendo l'apparente
moto del sole da oriente ad occidente.
[70] Semenza: natura.
[71] Aguti: disposti favorevolmente.
[74] Tutte le stelle: la notte mostrava già tutte le stelle del polo antartico mentre il polo
artico ("'l nostro") non si levava al di sopra dell'orizzonte. Cioè
era stato oltrepassato l'equatore.
[75] Cinque volte: il lume della luna si era riacceso e spento ("casso") cinque
volte, cioè erano passati cinque mesi da quando ci eravamo posti in viaggio.
[82] già pur pensando: al solo pensarci, prima ancor che ne
parli.
[83] dien: devono essere ragione ("seme")
d'infamia.
[84] parlar e lagrimar: si ricordi il c. V, 126.
[85] conte Ugolino: è Ugolino della Gherardesca, conte di
Donoratico. L'arcivescovo è Ruggieri degli Ubaldini, nipote del cardinale
Ottaviano (cfr. c. X, 120 e n.119).
[86] questi: è il cranio spolpato, il "fiero
pasto".
[87] tal: simile, così fatto.
[88] 18. dir nón è mestieri: non è
necessario dire che io fui preso e ucciso, fidandomi di lui, in conseguenza dei
suoi malvagi pensieri. La storia, alquanto incerta, è questa: il conte Ugolino
apparteneva a famiglia pisana di parte ghibellina ma, accordatosi col genero
Giovanni Visconti, tradì i suoi e contribuì all'instaurazione del governo
guelfo in Pisa. Esiliato, riuscì a tornare nella sua città, nel 1278, sorretto
dalle armi dei Guelfi; in seguito divenne capo della flotta sconfitta dai
Genovesi alla Meloria nel 1284. Fatto podestà di Pisa nel tempo in cui Genova
strinse alleanza con Firenze e Lucca contro la sua città, Ugolino, per
incrinare, come sembra, quella alleanza, cedette alle due città toscane alcuni
castelli pisani, il che gli fu imputato a tradimento (cfr. vv. 85-86).
Tornato a prevalere in Pisa il partito ghibellino, dopo
il 1288, Ugolino tentò un riaccostamento ai suoi antichi compagni, ma
l'arcivescovo Ruggieri, acceso ghibellino, fingendo di essergli amico, dopo
averlo chiamato a Pisa, gli suscitò contro l'odio popolare, sfruttando la voce
del tradimento operato con la cessione dei castelli; in conseguenza di ciò,
Ugolino fu arrestato e imprigionato con due figli e due nipoti finché, dopo otto
mesi, nel febbraio 1289 fu lasciato morire di fame. Ugolino è punito
nell'Antenora per il tradimento verso i Guelfi e l'arcivescovo per quello verso
Ugolino.
[92] e che conviene: e in cui sarebbe bene rinchiudere
anche altri più di me colpevoli.
[93] più lune: diversi mesi.
[94] Questi: l'arcivescovo Ruggieri, nel sogno, mi appariva
come direttore ("maestro") e signore ("donno") della
caccia.
[95] al monte: il monte San Giuliano, per il cui ostacolo i
Pisani non possono vedere Lucca.
[96] studiose e conte: bramose e ben ammaestrate.
[97] Gualandi: con i Sismondi e i Lanfranchi era tra le più
influenti famiglie ghibelline.
[102] s'annunziava: presagiva a sè stesso
[107] 'l fessi: lo facessi per desiderio di mangiare
("manicar").
[108] levorsi: si levarono.
[109] poi che: dopo che.
[110] più che 'l dolor: mentre il dolore non mi aveva
ucciso, il lungo digiuno ebbe ragione delle mie forze residue. Ma l'oscuro
verso non respinge una diversa chiosa esegetica: "poi, sull'angoscia,
ebbe il sopravvento la fame", cioè "finii per cibarmi dei
cadaveri di figli e nipoti".
[111] torti: biechi.
[112] 'l sì suona: il paese ove si afferma col sì è
l'Italia.
[113] i vicini: i Fiorentini e i Lucchesi.
[114] la Capraia e la Gorgona: sono due isolette poste alla
foce dell'Arno, fiume che attraversa Pisa.
[115] novella Tebe: nell'antichità Tebe fu famosa per le
tragiche vicende della stirpe di Cadmo (elr. c. XXVI, n. 54 e c. XXX, n. 1).
Riassunto poesia: Canto la gioia di D'Annunzio
RispondiEliminaD'Annunzio dice che la poesia celebra la gioia e per questo egli vuole circondarla di tutti fiori, la poesia che canta la grande gioia di vivere, di essere giovane e di guardare con occhi infuocati il viso divino del Mondo.
Il dolore veste il colore grigio della cenere ed è un povero schiavo colui che dal dolore fa i suoi indumenti. Vuole vestire l'ospite con la rossa porpora anche se deve tingere la tela nel sangue delle sue vene.
Vincenzo Matrone e Vittorio Saggese II B