Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

venerdì 2 novembre 2012

L'iconografia romanica nella scultura e nella pittura di Massimo Capuozzo



L’iconografia romanica
Se l'edificio romanico più importante è la cattedrale, alla cui realizzazione contribuiva tutta la cittadinanza, non meno importante per la sua funzionalità ad essa è la sua iconografia[1].
Sia nella scultura sia nella pittura, l’iconografia, rappresentava scene tratte dalla Bibbia perchè in questo modo i poveri e gli analfabeti, potevano capire il sacro libro guardando le immagini. Per questo motivo le chiese avevano spesso le pareti decorate da cicli scultorei e da affreschi: i temi iconografici più diffusi sono ispirati alla storia sacra, alle visioni apocalittiche, ai mestieri e ai bestiari.
Per ciò che riguarda i soggetti delle raffigurazioni, rispetto alle immagini del repertorio paleocristiano – il Buon Pastore[2], l'Ultima Cena[3] – sono ora predilette raffigurazioni che richiamano la severa posizione del giudizio di Dio, assunta di fronte al peccato. Si narrano episodi della vita dei Santi o della Bibbia, che mirano ad indurre i fedeli ad essere timorosi di Dio. I temi riproposti sono spesso quelli della Creazione[4], del Peccato originale, della Cacciata dal Paradiso Terrestre[5], di Caino e Abele[6], del Diluvio universale[7], del Giudizio finale[8], tutti per indicare le punizioni derivanti dalla disobbedienza a Dio. Gli episodi prediletti del Vangelo sono soprattutto quelli che si riferiscono alla Passione e alla Crocifissione[9], per sottolineare il sacrificio del Cristo per salvare l'Umanità: ma tutto è pervaso da un gusto narrativo che a volte sfiora il popolaresco.

nella scultura…
Sebbene non fossero mancati in Italia durante l'alto Medioevo capolavori di arte plastica, specialmente nel campo della metallurgia, solo dagli inizi del XII secolo, in corrispondenza col pieno fiorire della civiltà romanica, si può parlare di una vera e propria scultura, intesa come recupero ed affermazione di quei valori di volumetria che, in seguito alla diffusione del gusto bizantino, erano andati perduti dopo l'antichità classica.
La scultura romanica conobbe, infatti, un fenomeno dalle proporzioni imponenti: la rinascita della scultura in pietra originalmente e monumentalmente elaborò modelli tratti dall'arte tardoantica ed in particolare da quella romano-provinciale, nonché dalle arti minori, come l'oreficeria e la miniatura.
Henri Focillon ha sintetizzato in alcune regole o leggi i principi che governavano l'organizzazione della scultura romanica:
  1. primato dell'architettura per cui la decorazione scultorea, sottomettendosi alle necessità dell'architettura, ne sottolineava i punti sensibili (capitelli,  architravi,  portali, pilastri, ecc.);
  2. legge della cornice, per cui la figurazione scultorea non valicava i limiti del proprio campo;
  3. legge dei più numerosi contatti possibili, perciò risentendo ancora dell'horror vacui[10] tipico dell'arte barbarica, la figurazione tendeva a occupare tutto lo spazio disponibile;
  4. legge del formalismo interno, per cui le forme si generavano le une dalle altre per analogia metamorfica.
La facciata della cattedrale romanica, col punto chiave dei grandi portali, forniva ampio spazio alla scultura, che nell'illustrazione di temi del Vecchio e del Nuovo Testamento svolgeva una funzione didattica ed edificante nei confronti dei fedeli, mentre nelle parti decorative – capitelli, cornici, mensole – figurazioni mostruose, libere derivazioni dall'antico ed intrecci metamorfici si susseguivano con inesauribile fantasia, espressione di un libero gusto fantastico e grottesco.
Anche gli arredi liturgici, come cibori[11], ceri pasquali e cattedre[12], ebbero grande diffusione così come le porte e gli oggetti in bronzo, specialmente nell’area centro-europea.
Anche la scultura, strettamente legata all'architettura, creò forme di solida plasticità e di grande senso figurativo.
Nei portali i rilievi si dispongono nel grande pilastro centrale, nell'architrave e nel timpano[13], occupato solitamente al centro dal Cristo in Maestà[14].
Il capitello cubico accoglie episodi sacri, scene fantastiche o quotidiane, dai mestieri e ai bestiari.
Le statue e i gruppi collocati sugli altari erano solitamente di legno policromo, la tecnica di fusione del bronzo rifiorì e si realizzarono grandi porte a formelle.
In Italia, l'elemento caratterizzante della scultura fu un vigoroso plasticismo[15] che fondeva le ascendenze tardo-romane alle correnti barbariche e acquistava una precisa autonomia rispetto all'architettura.
Si affermarono le prime personalità artistiche chiaramente individuabili: Wiligelmo e Benedetto Antelami.




Wiligelmo, attivo a Modena dalla fine dell’XI agli inizi del XII secolo, fu il massimo scultore del cantiere del duomo di Modena: una lapide sulla facciata con un'iscrizione retta da due profeti ne ricorda il nome e l'opera dal 1099. Questa lapide con altre due, raffiguranti geni reggifiaccola, fece forse parte dell'altare principale della chiesa. Fra il 1099 e il 1106, Wiligelmo sempre nel duomo di Modena scolpì quattro grandi lastre con le Storie della Genesi con toni molto drammatici; di Wiligelmo sono anche la decorazione floreale con figure e profeti nell'intradosso[16] del portale della facciata, con relativa lunetta[17], e alcuni capitelli dell'abside e della facciata; l'attribuzione a lui dell'Eterno nel portale maggiore del duomo di Nonantola è ancora discussa, come tuttora discussa è l’attribuzione a lui dei Profeti , inseriti nel duomo di Cremona. Protagonista tra i maestri della prima scultura romanica, Wiligelmo fu con ogni probabilità in rapporto con gli scultori di Moissac e di Tolosa; tuttavia le scene e i personaggi da lui raffigurati hanno un valore narrativo, drammatico e solenne che testimonia l'emergere di un nuovo linguaggio dove l'uomo, dopo la lunga pausa dell'astrazione bizantina, è ripresentato nella sua natura corporea e nelle sue umane sofferenze.
L’attività di Benedetto Antelami[18] può essere racchiusa fra due opere firmate: la Deposizione dalla Croce[19] del 1178, nel transetto destro del duomo di Parma, e l'Adorazione dei Magi[20] del 1196 nella lunetta del portale settentrionale del battistero di Parma.
La Deposizione dalla Croce mostra già tutte le particolarità e i caratteri propri del linguaggio plastico dell'artista: il modulo di composizione delle figure principali è di tipo bizantino, ma con influssi provenzali e reminiscenze classiche, mentre la concezione solida e rigorosa del rilievo si stacca nettamente dalla linea della tradizione della scultura romanica dell'Italia settentrionale. I diversi influssi sono validamente rielaborati in una sintesi compiuta, che esprime una coscienza artistica unitaria.
L'opera maggiore di Antelami rimane tuttavia il complesso architettonico e decorativo del battistero di Parma, iniziato nel 1196, a pianta ottagonale all'esterno e decaesagona all'interno, coperto a cupola ogivale. La decorazione plastica del battistero, svolta sia all'esterno sia all'interno, è un insieme eccezionale che non trova confronti, per complessità e rigore di concezione, nella scultura romanica italiana.


Essa comprende i tre portali adorni di lunette (l'Adorazione dei Magi, il Giudizio Finale e la Leggenda di Barlaam), grandi statue a tutto tondo (due Profeti,  Salomone e la Regina di Saba[21]), numerose formelle[22] e fregi decorativi. All'interno i soggetti delle sculture dei catini del primo ordine architettonico riprendono narrativamente quelli dei corrispondenti portali esterni. La collaborazione di aiuti è probabile nella splendida serie di rilievi raffiguranti i Mesi e le Stagioni.

Tutta la decorazione è integrata con tanta mirabile esattezza ed armonia alla struttura architettonica, che non possono più sussistere dubbi sul fatto che architetto e scultore siano stati la stessa persona. Il problema dell'attività architettonica di Antelami è tuttora vivo e incerto; sulla base dei caratteri stilistici del battistero di Parma sono stati attribuiti ad Antelami i progetti del duomo di Borgo San Donnino e della chiesa di S. Andrea a Vercelli: alcuni storici ritengono le tre opere legate da notevole unità stilistica, caratterizzata da una pronta e precoce assimilazione del gotico francese. La personalità eccezionale di Antelami aprì nella scultura italiana una nuova epoca stilistica, costituendo un'esperienza vitale che per tutto il Duecento diede vita a una fiorentissima scuola di artisti.
A Wiligelmo e ad Antelami si affianca l'attività dei Maestri Campionesi, scultori, lapicidi ed architetti lombardi, attivi in varie regioni in varie regioni nell'Italia settentrionale fra la seconda metà del sec. XII e la fine del XIV: diversamente dai Magistri Antelami, non costituirono una maestranza ufficialmente riconosciuta, ma furono in seguito accomunati per una visione dell'arte che si rifaceva a moduli di estrazione romanica.
Capolavori di originalità ed eleganza compositiva sono le porte bronzee di Bonanno Pisano per la Cattedrale di Pisa. Formatosi con Guglielmo, Bonanno subì però fortemente l'influsso dell'arte bizantina, che conobbe attraverso avori, bronzi, miniature, e dell'arte ultramontana, particolarmente tedesca. Secondo Vasari, sarebbe stato anche l'architetto del Campanile di Pisa. Come scultore eseguì nel 1180 le imposte per la porta maggiore del duomo pisano distrutte nel 1596 e le porte del duomo di Monreale del 1186. Nella cosiddetta porta di S. Ranieri, nel transetto del duomo di Pisa, con Storie della vita di Cristo, la squisita ricerca ritmica lo rivela sensibile agli influssi orientali, soprattutto siriani e cappadoci.


Il pulpito del duomo di Pisa scolpito da Guglielmo tra il 1159 e il 1165 e successivamente trasferito a Cagliari per lasciare il posto al nuovo pulpito di Giovanni Pisano, segna invece un punto di svolta nella scultura romanica della Toscana, avviando un processo di sviluppo che anticipa le soluzioni di Nicola Pisano.
Il suo stile rivela influssi provenzali. Gli studiosi riconoscono una vera e propria scuola di Guglielmo, influenzata dai modi e dalle forme dei sarcofagi romani. In particolare nei portali delle chiese, contrassegnati dalla firma dello scultore, lunette e architravi rivelano accenti stilistici classici. Fra questi è l'architrave del portale maggiore di Sant'Andrea a Pistoia, che un'iscrizione permette di attribuire a Gruamonte, affiancato dal fratello Adeodato o Deodato, e di datare al 1166.


e nella pittura
Ancora più che alla scultura, alla pittura romanica fu assegnato il compito di illustrare e di volgarizzare le verità della fede, sebbene nella pittura, più che in qualsiasi altro campo dell’arte, il romanico abbia stentato ad affrancarsi dall’influsso delle tradizioni colte: la pittura romanica presenta infatti elementi derivanti sia dall'influenza delle forme bizantine – caratterizzate dalla solennità aulica del disegno – sia dall'arte ottoniana – caratterizzata dall’esasperazione del colore – sia caratteri popolari, legati alle nascenti culture romanze.
Dall’armonizzazione dei diversi contributi si determinarono caratteri di assoluta originalità: il disegno ha contorni netti, colori decisi sia per i tratti del volto sia per il panneggio delle vesti, il forte senso plastico delle figure è mantenuto al pari della scultura e non mancano deformazioni per accentuare l'espressività, le stesse composizioni sono caratterizzate da una forte rigidità, spesso dovuta alla rigorosa simmetria ed alla ripetizione ritmica degli elementi figurativi.
Le caratteristiche principali della pittura romanica si rintracciano nel grande sviluppo dell'affresco[23], nell’esordio della pittura su tavola[24] e nella splendida fioritura dell'arte miniatoria, espressione più colta e raffinata rispetto al gusto popolaresco e narrativo dell'affresco: tutti questi aspetti sfociarono, senza soluzione di continuità, nel successivo periodo gotico.
Come per l'architettura così anche per la pittura sono ben distinguibili tratti locali. Le regioni maggiormente interessate dallo svilupparsi di una pittura romanica furono la Francia, la Catalogna e la Lombardia.
Nell'Italia settentrionale, si evidenziò maggiormente un interesse verso un certo realismo, estraneo alla tradizione bizantina che invece si ripropose come episodio imponente nei mosaici dell'Italia meridionale.
In Italia, si possono riscontrare due filoni principali:
  1. quello che trae ispirazione dall'arte bizantina
  2. quello dei grandi cicli affrescati.
I primi si realizzano soprattutto in area veneziana, a Roma ed in Sicilia, mentre altrove si diffondono i secondi, grazie all'opera di divulgazione da parte dei cluniacensi e dei benedettini, e decorano le navate e i rilievi e si ritrovano sia all'interno sia sulla facciata delle cattedrali. Le figure appaiono ancora rigide nei movimenti, ma, rispetto al periodo precedente, sono caratterizzate anche dalla ricerca di maggiore volumetria e di un più corposo rilievo.
Lo stile riferibile all'arte benedettina è particolarmente semplice ed efficace: esso, espressivo e popolare, in qualche modo semplifica il modo di proporsi che aveva avuto l'arte bizantina, rendendo i soggetti di maggiore e di più diretta comprensione.
Cristo anche quando è crocifisso ripete il motivo ancora altomedioevale del Christus triunphans: Gesù è, infatti, rappresentato rigido ed impassibile sulla croce, eroico, con il corpo eretto e gli occhi aperti, vivo e superiore ad ogni sofferenza, e quindi, nella sua divinità, trionfante sulla morte, superiore ad ogni umana sofferenza; la Madonna stessa appare sempre contenuta nei gesti anche quando deve esprimere il suo dolore.
Oltre agli affreschi si realizzano alcune pitture a tempera su tavola e i paliotti[25] d'altare: i soggetti più frequentemente raffigurati sono Madonne col bambino, sedute su un trono e presentate quindi nel loro aspetto di regale divinità, da cui prendono il nome di Maestà. L’iconografia di tavole e paliotti ebbe lunga vita anche nei secoli successivi, pur trasformando il gusto pittorico verso una maggiore umanità d'interpretazione. Sono frequenti i Crocifissi dipinti ed infine le tavole raffiguranti un personaggio sacro – Santi o Madonne – di notevole grandezza, in modo da impegnare tutta la zona mediana della tavola, mentre sui due lati si sovrapponevano piccoli riquadri che illustravano episodi relativi alla vita del personaggio centrale. Tali dipinti che decoravano gli altari sono designati col termine di ancona o di pala d'altare. La tecnica impiegata era la tempera ed il fondo era quasi sempre d'oro, secondo la consuetudine bizantina.
Nell'Italia settentrionale gli affreschi notevolissimi di S. Vincenzo a Galliano e di S. Pietro al Monte a Civate appaiono legati alla tradizione ottoniana. Nell'abside di S. Vincenzo a Galliano (Como), gli affreschi, risalenti a poco prima del 1007, «sono certamente il capolavoro risolutivo con cui l'arte d'Italia affronta il secondo millennio» (Bologna). Anche qui è illustrato un soggetto apocalittico, la Majestas Domini adorata dai Profeti.

Questo ignoto Maestro dell'abside di S. Vincenzo esercitò una larga influenza, riconoscibile in successivi affreschi veneti e piemontesi, ma soprattutto in quelli di S. Pietro al monte sopra Civate (Como). Si tratta di uno dei cicli meglio conservati che siano giunti fino a noi dal secolo XI (da alcuni studiosi tuttavia è datato verso la metà del sec. XII): rispetto agli esempi precedenti qui è rintracciabile una certa assimilazione di modi bizantini; eppure l'effetto conclusivo è originale, tanto nella Gerusalemme celeste affrescata sulla volta, quanto nella Vittoria degli angeli sul drago apocalittico, decorante una lunetta.

Nell'Italia Centro-meridionale (esclusa la Toscana, che merita un discorso a sé) i maestri di gusto innovatore si possono individuare soprattutto nei cicli di affreschi; ma non mancano esempi di mosaico, specie a Roma e in Sicilia. Le manifestazioni più precoci hanno luogo in alcuni conventi benedettini, dove talvolta maestranze occidentali lavorano parallelamente ai pittori di stretta osservanza bizantina. Se questi ultimi prevalevano nell'ormai distrutta Casa-madre di Montecassino, per converso nella chiesa abbaziale di Sant’Angelo in Formis, presso Capua, la navata è ricoperta di affreschi con Storie della Passione, infedeli ai modelli bizantini. La datazione precede di qualche anno il 1087. La loro origine potrebbe essere indicata negli Exultet miniati (rotuli di pergamena illustranti fatti sacri, che erano mostrati al popolo dall'alto dei pulpiti) ed in alcuni esempi campani di affreschi altomedioevali. Nell'esame delle singole scene risulta comunque chiaro che l'ignoto pittore lavora su un 'telaio' di origine bizantina, ma che al tempo stesso lo stravolge con il suo rude piglio drammatico.
Anche uno dei maestri che lavorano nella cripta del duomo di Anagni (Frosinone) punta sulla foga dei gesti e su un elementare effetto di rilievo; ma il suo stile è più radicalmente nuovo. Egli è chiamato Terzo Maestro perché altre due mani sono individuabili nel complesso decorativo. Il tema da lui trattato è la leggenda di San Samuele. Il suo stile ebbe certo ripercussioni nel Lazio e in Campania, dove nel frattempo anche la miniatura - promossa in particolare da Federico II e da Manfredi – si impegnava nella direzione di un racconto immediato ed efficace, rielaborando con ricca inventiva moderna i suggerimenti della miniatura classica. Una delle non frequenti pitture su tavola del Meridione si connette con tutta probabilità tanto allo stile del Terzo Maestro di Anagni quanto alla cultura miniatoria sveva: si tratta della splendida ancona con S. Domenico e sue storie conservata oggi nella Pinacoteca di Capodimonte. Il rilievo della griglia rettilinea che riempie lo sfondo delle piccole scene che fiancheggiano San Domenico in piedi ha le caratteristiche di esecuzione vicine ad un atelier di Nicosia del tardo XIII secolo. Questa grande ancona, è stata attribuito da Ferdinando Bologna a Giovanni da Taranto, ed è databile intorno al 1305.

A Roma la tradizione locale palesa già nel secolo XI una forza innovatrice rispetto ai disseccati manierismi bizantini che avevano prevalso durante l'Alto Medioevo: nelle Leggende di S. Alessio, S. Clemente e S. Cirillo che decorano la basilica di S. Clemente, questa tecnica consente anzi l'affermarsi di un gusto tonale del colore, tenero e luminoso, e rinnova l'antico uso pompeiano dei tondi rossi e delle esili architetture. Questa precoce fioritura del romanico in Roma subì tuttavia un profondo mutamento nel XII secolo. Ritroviamo, infatti, fin dal 1130, il mosaico assunto di nuovo agli onori della decorazione nell'abside della stessa basilica di S. Clemente; si tratta in realtà di un ritorno alle tradizioni paleocristiane e alla loro ancor classica monumentalità. Anche nell'abside di S. Maria in Trastevere, quasi coeva, piccole tessere di un colore brillante, ma docile alle esigenze del chiaroscuro, costruiscono le forme corpose e compassate di Cristo e la vergine in trono, modello tipico di uno stile che sarà coltivato dagli artisti locali per più di un secolo e che solo nel tardo Duecento l'opera del Cavallini riuscirà a riscattare della sua inerzia accademica.
A partire da una data orientativa, come il 1260 – parallelamente ai grandi fatti della scultura e dell'architettura gotica – assistiamo al definitivo maturarsi della pittura romanica. Gli ultimi decenni del secolo sono dominati da tre grandi personalità: il fiorentino Cimabue, il romano Pietro Cavallini, il senese Duccio di Buoninsegna, i quali trovano ciascuno uno stile personale, ma al tempo stesso hanno frequenti occasioni di stimolanti incontri reciproci. Non si tratta peraltro soltanto di 'scambi' a livello personale; gli stessi ambienti culturali, nei quali i maestri si formano, sono caratterizzati nel secondo Duecento da una vivacità di rapporti che si traduce in un continuo arricchimento creativo.
Il risultato più cospicuo ed esemplare di questi incontri e scambi culturali è rappresentato dal primo ciclo di decorazioni della Basilica di San Francesco ad Assisi, iniziata verso il 1278 e affidata tanto a Cimabue e scolari quanto a maestri romani e a maestri senesi.
Questa prima fase dei lavori assisiati, conclusa entro il 1285, costituisce inoltre la premessa alla seconda, importantissima fase, nella quale opereranno con gusto gotico tanto il fiorentino Giotto quanto i senesi Simone Martini e Pietro Lorenzetti.
Precisate queste linee di una trama essenziale, è in ogni modo necessario, ai fini di una maggiore chiarezza, esaminare la situazione dei singoli centri dove, nel corso di due generazioni, si opera l'effettivo rinnovamento romanico.


[1] Iconografia – L'iconografia è un metodo ed ramo della storia dell'arte che si occupa della
·         descrizione,
·         classificazione
·         interpretazione
di quanto raffigurato nelle opere d'arte. L'iconografia può riferirsi a personaggi o avvenimenti storici, così come a ricerche su temi mitologici o religiosi.
[2] Il buon pastore – Immagine frequente nel repertorio mitologico artistico romano, auspicio di pace per i defunti. Entrato nel simbolismo cristiano fu molto utilizzato nella pittura dei cubicoli, nei sarcofagi e anche nelle epigrafi, segno dell’anima portata nella pace, da Cristo pastore puro. Divenne presto l’immagine del Buon Pastore (o "Bel Pastore" secondo l’originale greco) che va in cerca della pecorella smarrita, usata da Gesù stesso nella parabola per esprimere il suo amore di Salvatore.
Sia nella pittura che nella scultura del cristianesimo delle origini, il Buon Pastore è stato presentato, secondo il modulo classico, nello splendore della giovinezza. Il capo è leggermente volto da un lato, vestito di una corta tunica che gli scende sino alle ginocchia, stretta ai fianchi da una cintura; la spalla destra completamente nuda mentre i piedi sono coperti da alti calzari. Porta a tracolla la bisaccia per le provviste e regge sulle spalle la pecora che tiene ben salda per le gambe; ai lati due agnelli alzano fiduciosi lo sguardo verso di lui. Il simbolismo è chiaro: nella figura del Buon pastore, è rappresentato Gesù salvatore e nella pecora si allude all’anima salvata dall’amore. Talvolta il Pastore appare isolato con la pecorella sulle spalle, ma nella maggioranza dei casi - come immagine della beatitudine celeste - è rappresentato insieme al gregge (le anime beate) in un giardino (il paradiso) ricco di alberi e di fiori e allietato dal canto degli uccelli
[3] L’ultima cena – L'episodio dell'Ultima Cena di Cristo con gli apostoli è, dal punto di vista drammatico e simbolico, uno degli eventi culminanti del Vangelo. Da un lato Gesù annuncia l’imminente tradimento di Giuda, cioè la propria morte («Uno di voi mi tradirà»), dall’altro, spezzando il pane e condividendo il vino con gli apostoli, istituisce l’eucaristia, sacramento centrale della Chiesa («Questo è il mio corpo»). I due episodi sono narrati nei vangeli sinottici, mentre Giovanni descrive il momento del tradimento, senza fare alcun cenno alla cena eucaristica. Come scenario dell’ultima cena, Marco e Luca descrivono un ambiente ricercato, una grande stanza addobbata con tappeti e su questa base gli artisti hanno prevalentemente dato alla sala del Cenacolo un aspetto elegante o addirittura lussuoso.
I diversi aspetti iconografici che la tradizione artistica ha elaborato, ha privilegiato di volta in volta ora l'uno ora l'altro particolare dell'episodio, fino a giungere alla grande sintesi operata da Leonardo nell'Ultima Cena, dipinta nel refettorio dei frati domenicani osservanti di S. Maria delle Grazie a Milano.
Mentre l’arte orientale pone l’accento sul singolo tema della comunione, in Occidente si preferisce puntare l’attenzione sull’annuncio del tradimento; solo dopo il concilio di Trento l’arte della Controriforma si sforza di recuperare la formula bizantina, preoccupandosi di glorificare il sacramento dell’eucaristia e rappresentando l’ultima cena come la prima delle messe. Successivamente il modello più comune vede riuniti i due momenti e soltanto Gesù e Giuda sono individuati in modo più evidente dalle azioni svolte.
[4] La creazione - Il mito della creazione dell’uomo acquista nuova importanza nell’arte cristiana, dove, secondo la tradizione medioevale, Adamo viene visto come una prefigurazione di Cristo. Il corpo dell’uomo, il cui colore indica l’origine della creta, prende vita grazie allo spirito divino. Il raggio che collega il volto di Dio con quello di Adamo esprime anche la somiglianza che, sulla base delle parole bibliche, lega il primo uomo al Creatore. 
[5] La cacciata dei progenitori – Durante il Medioevo le figure di Adamo ed Eva sono rappresentate frequentemente, talvolta isolate, più spesso negli episodi della Genesi. I soggetti non hanno un tipo iconografico fisso, per cui gli artisti possono raffigurarli liberamente. I vari episodi e le figure stesse di Adamo ed Eva erano interpretati generalmente in relazione a episodi dei Vangeli (il matrimonio di Adamo ed Eva prefigura l'unione di Cristo con la Chiesa; la tentazione si contrappone all'Annunciazione, la cacciata, fra l'altro, si contrappone al perdono al buon ladrone; Adamo è una delle prefigurazioni del Cristo ed Eva della Vergine, quando non le viene invece contrapposta, come colei che ha introdotto il peccato nel mondo, ecc.).
Le raffigurazioni medievali sono soprattutto scultoree: rilievi di Wiligelmo sulla facciata del duomo di Modena.
[6] Caino e Abele – Con Caino ed Abele si rappresenta la contrapposizione tra il giusto e il malvagio. Non a caso, nella tradizione cristiana, Abele è accostato a Cristo e Caino a Giuda. 
[7] Diluvio universale – L’arca di Noè è paragonata alla chiesa, che offre ai fedeli una via di scampo e li conduce alla salvezza. Nel diluvio l’arca galleggia in mezzo alle acque, con gli animali sul ponte o affacciati alle finestre. Dopo il diluvio, Noè inventa il vino e in uno stato di ebbrezza il figlio Cam lo vede mentre giace nudo nella sua tenda. I fratelli Sem e Jafet coprono la sua nudità con un mantello. L’episodio viene da molti interpretato come una violazione da parte di Cam con un incesto della sfera privata del padre. 
[8] Giudizio finale – Il Giudizio universale nell’iconografia del medioevo rappresenta la visione trionfale di Dio alla fine dei tempi, seguita dalla resurrezione dei morti, dal loro giudizio e dalla definitiva separazione degli uomini in due gruppi, gli eletti e i dannati. La felicità dei giusti e l’eterna dannazione dei malvagi occupava nel pensiero e nella spiritualità medievale un posto di primaria importanza.
Normalmente questo tema veniva collocato sulla controfacciata della chiesa, di modo che servisse da monito a coloro che lasciavano l’edificio.
[9] CrocifissioneLa Crocifissione è il simbolo per antonomasia del Cristianesimo: essa occupa un posto centrale nella produzione dell'arte sacra. L’iconografia della Crocifissione mostra la varietà di sistemi di senso attribuiti alla sofferenza ed alla morte di Cristo ed alla promessa di salvezza per gli uomini. Nell'Italia centrale del XII secolo nacque la tradizione delle croci dipinte, destinate ad essere appese nell'arco trionfale delle chiese o al di sopra dell'iconostasi, ovvero la zona che separava la navata adibita ai laici dal presbiterio adibito al clero. In esse il Cristo è in posizione frontale con la testa eretta e gli occhi aperti, vivo sulla croce e ritratto come trionfatore sulla morte (Christus triumphans), attorniato da scene tratte dalla Passione, e poteva presentare agli estremi dei bracci della croce figurine di contorno, che a partire dalla seconda metà del XIII secolo divennero le figure a mezzobusto della Vergine e di San Giovanni evangelista in posizione di compianto. Talvolta si incontrano anche i simboli degli evangelisti e, nel braccio superiore (la cimasa), un Cristo in maestà.
Agli inizi del XIII secolo compare una nuova tipologia, quella del Cristo morto, l'iconografia deriva dal Christus patiens d’ispirazione bizantina, ma anche dalla coeva predicazione francescana. Il Cristo sofferente ha la testa reclinata sulla spalla e gli occhi chiusi e il corpo incurvato in uno spasimo di dolore. Uno dei primi a recepire questa novità iconografica fu Giunta Pisano, dove il corpo del Cristo è inarcato sulla sinistra, invadendo il tabellone laterale, da dove spariscono quindi le scene della Passione. Tra Giunta e Cimabue irrompe Coppo di Marcovaldo. La recessione stilistica era già alle spalle da qui l'importanza di Coppo come pittore di "frontiera", forme riprese da Cimabue nel Crocifisso di Arezzo del 1270 circa e sviluppate ulteriormente nel Crocifisso di Santa Croce del 1280 circa.
Nel braccio più alto si diffusero nuove immagini tra cui quella del Padre Eterno, altre volte il simbolo del pellicano, che si sacrifica per nutrire i suoi figli, o altre immagini cristologiche; una analoga varietà di icone può essere posta ai piedi di Cristo, nel suppedaneo (la Maddalena, il teschio di Adamo, un santo protettore, o il committente).
Giotto fu il primo a rinnovare questa iconografia in pittura nell'ultimo decennio del XIII secolo, prendendo spunto dai traguardi nel frattempo raggiunti dalla scultura gotica, in particolare da Nicola Pisano, già dal 1260. Egli compose il Cristo come realmente doveva mostrarsi sotto il peso del corpo, abolendo l'inarcatura e piegando le gambe, che venivano fermate da un unico chiodo.
[10] Horror vacui – L'horror vacui è uno stato di disagio dettato da una perdita di punti di riferimento provocata dalla paura degli spazi deserti, siano questi fisici o mentali. Il termine è utilizzato anche nella critica d'arte per descrivere, analogamente, l'attitudine, propria di autori ed epoche diverse, a riempire con figure o segni volontari la superficie dell'opera, con dei particolari finemente dettagliati. non concependo dunque la presenza del vuoto come spazio possibile di relazione tra una figura e l'altra, tra un segno e l'altro, ma piuttosto come un'area da colmare.
[11] Ciborio - Il ciborio è un elemento architettonico a forma di baldacchino che sovrasta l'altare nelle chiese. Poggia generalmente su quattro supporti verticali raccordati mediante archi e reggenti una volta piana o cupoletta, destinata a custodire la pisside contenente le ostie consacrate.
[12] CattedraSedile, di solito massiccio e solenne, destinato per lo più a personaggi autorevoli. In particolare, seggio coperto da un baldacchino, su cui siedono il pontefice o i vescovi quando assistono alle funzioni religiose.
[13] Timpano – spazio triangolare o mistilineo compreso tra la cornice e i due rampanti del frontone.
[14] Cristo in Maestà - Nell'iconografia cristiana, immagine, rappresentata frontalmente, di Cristo in trono, benedicente e recante gli attributi della sua potenza, per lo più circondato da angeli, dagli Evangelisti o dai loro simboli, dai 24 vegliardi dell'Apocalisse. Il motivo iconografico del Cristo in maestà o in gloria (Maiestas Domini) risale al sec. IV ed ebbe grande diffusione nel periodo carolingio (miniature e mosaici) e in quello romanico (miniature, affreschi, rilievi su timpani di cattedrali, ecc.).
Per analogia è detta Maestà anche la rappresentazione della Madonna col Bambino in trono, adorata da angeli e santi, tema particolarmente frequente nella pittura medievale. Esempi famosi ne sono la Maestà di Duccio di Buoninsegna (1311; Siena, Museo dell'Opera del Duomo) e quella affrescata da Simone Martini nel Palazzo Pubblico di Siena.
[15] Plasticismo – Ricerca di effetti di rilievo e profondità nelle opere pittoriche e scultoree, o di concretezza ed espressività in quelle letterarie.
[16] Intradosso –Superficie interna di un arco o di una volta, detta anche imbotte, delimitata dalle linee d'imposta.
[17] Lunetta – In architettura, porzione della superficie di una parete compresa tra le linee determinate dall'intersezione di una volta e del suo piano di imposta. Presentando spesso una decorazione pittorica o scultorea, sono così detti anche l'affresco o il rilievo che la ornano e, per estensione, la parte superiore, semicircolare, di un'ancona e qualunque dipinto o bassorilievo a forma di mezzaluna.
[18] Benedetto Antelami - scultore e architetto italiano (ca. 1150-1230/1233). Tranne le opere pervenuteci, nulla si sa di preciso né sulla sua vita né sulla sua formazione: appare tuttavia attendibile l'ipotesi di una presenza giovanile in Provenza e in particolare ad Arles, dove gli viene attribuito un capitello nell'annesso chiostro. Anche il suo cognome sembra essere un appellativo generico, riferito ai Magistri Antelami, lapicidi e muratori dell'Italia settentrionale, originari della val d'Intelvi.
[19] Deposizione - La rappresentazione iconografica della deposizione di Cristo appare per la prima volta in una miniatura del Codex Egberti (ca. 980; Treviri, Stadtbibliothek), nella quale compaiono solo le figure di Giuseppe d'Arimatea e di Nicodemo, che staccano il corpo di Cristo morto dalla croce.
Successivamente (sec. XI) a questi personaggi si aggiungono la Vergine, le pie donne e San Giovanni Evangelista (B. Antelami, 1178, duomo di Parma; deposizioni lignee di Tivoli e di Volterra, sec. XIII).
Dal Quattrocento la composizione diviene più complessa; nel gruppo si inseriscono altre figure, tra cui quella della Maddalena; accanto alla croce, molto alta, sono collocate due scale, su cui stanno due uomini che aiutano Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo a schiodare Cristo (Beato Angelico, convento di S. Marco, Firenze; Rosso Fiorentino, Volterra, Pinacoteca; Rubens, cattedrale di Anversa; Rembrandt, Monaco, Pinacoteca).
[20] Adorazione dei magi – Le prime rappresentazioni di questo soggetto si trovano nelle catacombe romane oppure sui sarcofaghi marmorei già nel II secolo. Essi raffigurano la sapienza che riconosce il re bambino. Secondo una tesi suggestiva, l'immagine dei Magi o di uno di essi, inginocchiati davanti alla Madonna e al Bambino, deriva dalla tradizione imperiale romana che raffigurava i barbari vinti nell'atto di rendere omaggio all'imperatore vittorioso.
Il valore simbolico dei doni recati dai Magi, ossia l'Oro (simbolo dell'omaggio), l'Incenso (simbolo del sacrificio) e la Mirra (simbolo della morte), è stato specificato da sant'Ireneo vissuto nel II secolo.
Le raffigurazioni più antiche mostrano i tre personaggi in fila indiana – con in testa un berretto frigio che accrediterebbe la loro provenienza persiana. Si trovano in questa posizione nel celebre mosaico in sant'Apollinare Nuova a Ravenna, risalente alla seconda metà del IV secolo.
Sempre a Ravenna, ma in San Vitale, essi sono raffigurati sia in un rilievo che adorna un sarcofago marmoreo del V secolo, sia - sganciati da qualunque contesto - sulla balza del vestito di Teodora nei mosaici del catino absidale del VI secolo, riprendendo, presumibilmente, il fregio marmoreo di cui si è appena detto.
Nei secoli successivi, fino al XII circa, troviamo i tre Magi intenti a rendere omaggio alla Madonna con il Bambino, spesso seduta in trono.
Le varie rappresentazioni ce li mostrano spesso come cortigiani devoti all'Imperatore, quasi delle figure pagane, piuttosto che i personaggi che siamo abituati a considerare. L'umanizzazione dell'arte portata dal Gotico fa sì che Giotto sia uno dei primi a rappresentare i Magi come noi li conosciamo.
Più tardi, i Magi iniziarono ad essere interpretati e raffigurati come le personificazioni delle tre parti del mondo allora conosciuto: Gaspare, quello più anziano, l'Europa, Baldassarre l'Asia e Melchiorre, raffigurato come un giovane uomo di colore, l'Africa.
Solo durante il Rinascimento si evidenzia la maestà dei Magi, rappresentati con vesti sontuose e in genere accompagnati da un folto seguito di persone e animali.
Il soggetto dei Magi è ancora popolare durante il Seicento, ma viene quasi abbandonato del tutto nei secolo successivi.
[21] Salomone e la regina di Saba – Il tema iconografico della Regina di Saba è soggetto prezioso e poco frequente nell’iconografia cristiana occidentale; nasce nel Medioevo e affonda le sue radici nelle fonti bibliche dell’Antico Testamento, anche se gran parte della sua fortuna è probabilmente da attribuire alla citazione che Gesù stesso ne fa in due dei Vangeli sinottici.
Il ruolo della regina dalla provenienza esotica e dal sontuoso corteo è legato indissolubilmente alla figura del re Salomone, il sapiente per eccellenza, che la accolse, sciolse i suoi enigmi, e forse se ne innamorò.
Il passo evangelico che la menziona, invece, mette esplicitamente in relazione l’incredulità e mancanza di fede dei contemporanei di Gesù con l’atteggiamento dell’antica sovrana: «La regina del sud si leverà a giudicare questa generazione e la condannerà, perché essa venne dall'estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c'è più di Salomone!».
Secondo l’interpretazione patristica ed esegetica, la visita della Regina simboleggia le mistiche Nozze di Cristo e della Chiesa, oltre che prefigurare la conversione a Cristo di tutti i popoli della terra.
Sulla provenienza, le fonti sono imprecise: Etiopia, Yemen, Arabia felix ? Per la tradizione etiope, il Kebra Nagast, il suo nome era Makeda, mentre alcune fonti arabe la chiamano 'Bilqis'.
Leggende ebraiche si soffermano sulla relazione amorosa di Salomone con la Regina di Saba e indagano sugli enigmi da lei elaborati per mettere alla prova la saggezza del re. Ma la tradizione che più ha inciso sulla formazione dell’iconografia occidentale è quella riportata nella Legenda Aurea, ossia l’Inventio della vera Croce: un angelo avrebbe dato a Seth un ramo dell’albero dell’Eden, l’albero della conoscenza, chiamandolo 'legno della misericordia'; Seth avrebbe piantato il ramo sulla tomba del padre Adamo, dove sarebbe divenuto un grande albero, vissuto fino al tempo di Salomone. Quest’ultimo poi lo avrebbe fatto tagliare per utilizzarlo nel palazzo, ma senza trovare per esso un posto adatto: sempre troppo lungo o troppo corto, sarebbe stato infine gettato dagli operai su uno specchio d’acqua come passerella. Quando poi la Regina sarebbe stata sul punto di attraversarlo, avrebbe visto in spirito che il Salvatore del mondo sarebbe stato appeso a quel legno, e dunque non l’avrebbe calpestato, ma adorato.
Le prime raffigurazioni della Regina di Saba si trovano sui codici minati biblici a partire dal sec. XII (1180), come tipo della Chiesa sposa di Cristo; una preziosa incisione è inserita nel Paliotto smaltato di Klosterneuburg a Vienna (1181), opera dell’orafo Nicola di Verdun. Dal sec. XII e nel XIII la sovrana appare spesso con un volume di sentenze, insieme a Salomone, come prefigurazione della Chiesa, ed è inserita nei cicli a rilievo dei portali dei grandi edifici di culto, insieme a santi e beati (Corbeil, Dijon, Chartres). Le rappresentazioni sui timpani dei portali sono probabilmente legate anche al ruolo della Regina come giudice nei tempi ultimi a fianco dei giusti d’Israele, significativamente connessa alle più usuali composizioni nelle lunette romaniche: Giudizio Universale, Parousia, Trionfo dei Giusti.
Il grande scultore Benedetto Antelami realizza due monumentali statue raffiguranti Salomone e la Regina di Saba per il Battistero di Parma (1216), oggi al Museo Diocesano, mentre il Ghiberti inserisce il loro Sposalizio nella Porta del Paradiso del Battistero a Firenze (1437), servendosi della nuova sensibilità umanistica e prospettica.
Ma il ciclo più celebre è quello della 'Leggenda della Vera Croce', affrescata da Piero della Francesca ad Arezzo, nella Cappella Bacci di San Francesco (1452 - 1466 ca.). Nell’Adorazione del Sacro Legno e incontro della Regina di Saba con Salomone l’impianto geometrico e quello prospettico sono elementi simbolici per rappresentare la dimensione dell’Assoluto, di cui è specchio la realtà sensibile, dove agiscono i personaggi. A sinistra, la Regina adora il Sacro Legno, mentre gli staffieri coi cavalli rimangono discosti; a destra, entro un ordine di colonne corinzie 'divinamente misurate' (Vasari), sta Salomone che accoglie la Regina.
Nelle raffigurazioni di sec. XVI appare quasi solo la scena dell’omaggio, talvolta inserita nei cicli veterotestamentari, come nelle Logge Vaticane di Raffaello (1517-’19).
Più ampia trattazione del tema si trova nel repertorio del Barocco (per esempio, in Rubens), dove prevale l’interpretazione retorico-amorosa, quella nostalgico-lirica ed un crescente fascino per l’ambientazione esotica (Lorrain). Nell’Ottocento sarà il sentimento romantico a prevalere su ogni altro, e lo stesso tema sapienziale sarà accompagnato da suggestioni estetiche e, talvolta, esoteriche.
Il fascino della figura della Regina che reca tesori da paesi lontani si presta nei secoli a diverse chiavi di lettura, fino alle più raffinate dell’esegesi cristologica e profetica, poichè essa è legata simbolicamente all’amore per la sapienza, che è 'splendida e incorruttibile', tale che  Salomone afferma: 'La preferii agli scettri ed ai troni e stimai le ricchezze un nulla di fronte a lei, a cui non paragonai la pietra più preziosa' (Sap 6, 12; 7, 8-9).
[22] Formelle – Elemento costituito da una lastra di marmo, laterizio, ceramica, ecc., di forma varia ma regolare (per esempio quadrangolare, circolare, a losanga), decorata con svariate figurazioni a mosaico, a tarsia o scolpite. Come elemento decorativo, la formella fu particolarmente usata nell'architettura gotica, in quella romanica e durante tutto il Quattrocento.
[23] AffrescoLa tecnica dell’affresco consiste nello stendere i colori su uno strato d'intonaco ancora fresco. Su un primo strato di malta – miscela di uno o più leganti (cemento, gesso, calce con sabbia ed acqua – steso sulla muratura, detto arriccio – composto di calce spenta e sabbia di fiume – si traccia, quando è asciutto, il disegno preparatorio della composizione.
Nel Trecento e nel Quattrocento il disegno era tracciato direttamente a monocromo sull'arriccio la cosiddetta sinopia, impiegata per tratteggiare il disegno preparatorio sul primo strato d'intonaco steso per eseguire l’affresco; dalla fine del Quattrocento si preferì l'uso del cartone, il cui disegno era riportato a spolvero sull'intonaco. Sull'arriccio si stende poi una malta più fine di sabbia silicea, calce spenta e talora polvere di marmo, detta intonaco.
Poiché l'affresco deve essere eseguito sull'intonaco ancora umido, questo è preparato soltanto su quella parte di superficie che si presume sarà dipinta in un giorno (“giornata”). Una volta dato l'intonaco, si riapplica il cartone, facendolo combaciare con la parte di disegno preparatorio rimasta scoperta, e si ripassa il disegno con una punta dura, prima di stendere i colori. Da rilevare, infine, che sotto l'azione dell'anidride carbonica dell'atmosfera la calce contenuta nell'intonaco forma una pellicola che fissa stabilmente i colori, normalmente a base minerale e diluiti in acqua. È questa la ragione per cui nella pittura murale del Trecento soprattutto (ma talvolta anche in quella successiva), sono visibili le giunture dell'intonaco, corrispondenti alle varie giornate di lavoro. Il procedimento ora descritto corrisponde alla conclusione di un lungo periodo di formazione e perfezionamento della tecnica, giunta a pienezza nel periodo prerinascimentale: gli esempi di epoca precedente e dell'antichità rientrano solo in parte in questo processo, tuttavia essi sono considerati come all'origine della storia artistica dell'affresco.
[24] Tavola – La pittura su tavola è stato il principale supporto delle opere pittoriche europee dall'antichità al XVI secolo, prima di venire quasi completamente sostituita dalla pittura su tela.
La produzione più tipica della pittura su tavola medievale è il polittico (o trittico o dittico), usato per decorare gli altari delle chiese. Con il passare del tempo essi si arricchirono di sempre più scomparti e cornici sempre più complesse.
La tavola era di solito preparata scegliendo alcune assi di legno stagionato alcuni anni: occorreva evitare legni che contenessero difetti come nodi o alte quantità di tannino, una sostanza contenuta in molte specie vegetali che talvolta rifioriva anche sulle tavole stagionate macchiando di nero lo strato preparatorio o addirittura la pellicola pittorica. Le tavole erano assembrate in genere in file verticali, tenute insieme da cerniere estraibili sul retro.
Il legno, una volta piallato e levigato, era impregnato con una o più mani di colla naturale, la cosiddetta colla di spicchi, ottenuta facendo bollire e restringere ritagli di pelle animale. Poi si procedeva a fasciare le tavole con una tela morbida, preferibilmente tela vecchia, che era poi impresso con almeno due strati di gesso: uno ruvido, per livellare, ed uno fine per creare la base pittorica su cui si procedeva disegnando coi carboncini. Il disegno poteva avvenire a mano libera da parte del maestro oppure, nelle botteghe più attrezzate, era eseguito su un pezzo di carta e poi riportato con la tecnica dello spolvero. Per cancellare si usava la gomma pane oppure si spolverava via la polvere di carbone con penne di gallina.
Se l'opera prevedeva la doratura si stendeva sulla parte da dorare uno strato di bolo, cioè un'argilla rossastra sciolta con acqua e chiara d'uovo. Esiste anche una preparazione in terra verde, usata per esempio nel Nord-Italia. La foglia d'oro era poi applicata per rettangoli che erano "soffiati" su un pennello. La foglia applicata sulla tavola era poi schiacciata con il brunitore, una sorta di pennello con una pietra d'agata appiattita e levigata all'estremità, e poi si procedeva a rimuovere le parti in eccesso, che bastava tagliare via con un coltellino non essendo tenute dal bolo sottostante. Spesso l'oro era poi inciso, soprattutto nelle aureole, con rotelle e punzoni.
A questo punto si iniziava a stendere il colore. I colori a tempera erano di tre categorie: vegetali, derivati da pietre dure macinate o derivati da sintesi chimiche, spessa ossidazione di metalli. Alla prima categoria appartenevano le tinte come il giallo zafferano, l'indaco, la cocciniglia o le terre e il nero carbone; alla seconda i preziosi blu come l'oltremare di lapislazzuli o la più economica azzurrite; alla terza il bianco di biacca o il bianco di San Giovanni, usato a Firenze. Le tempere erano solitamente sciolte con il tuorlo d'uovo.
La tecnica pittorica nell'arte medievale italiana di solito prevedeva la stesura di velature partendo da quella più scura. Ad esempio per i corpi si partiva da un verde-terra che veniva via via brunito per sovrapposizione fino ad arrivare alle tinte chiare del bianco e del rosa carnicino, che era il cinabrese.
A volte restauri sbagliati ottocenteschi per ridare chiarore alle tavole hanno eroso con la soda caustica proprio quegli stati superficiali più chiari, andando ben oltre la velatura della polvere e ottenendo l'effetto contrario di scoprire le velature scure sottostanti.
La pittura avveniva di solito stendendo il dipinto in orizzontale o leggermente inclinato, comunque era un elemento che dipendeva dall'uso dell'artista e dalla grandezza del dipinto da eseguire.
Dopo la fase di pittura le opere erano messe ad asciugare all'aperto, dopodiché si passava alla verniciatura: dopo aver spolverato il tutto si stendeva un velo di gommalacca (ottenuta da una resina vegetale, ma non sulle parti dorate, che altrimenti sarebbero diventate opache.
[25] Paliotto – Il paliotto è un pannello decorativo usato in alcune chiese come rivestimento della parte anteriore dell’altare. Esso può essere di stoffa, d'avorio, a mosaico, oppure lavorato con metalli preziosi, come, ad esempio, l'argento.

1 commento:

  1. Signor Capuozzo,
    mi potrebbe per favore dirmi dove posso trovare notizie su le Caratteristiche dell´ Architettura Romanica nella Provincia di Roma?
    Grazie e cordiali saluti

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