L’iconografia romanica
Se l'edificio romanico
più importante è la cattedrale, alla cui realizzazione contribuiva tutta la
cittadinanza, non meno importante per la sua funzionalità ad essa è la sua iconografia[1].
Sia nella scultura sia nella
pittura, l’iconografia, rappresentava scene tratte dalla Bibbia perchè in
questo modo i poveri e gli analfabeti, potevano capire il sacro libro guardando
le immagini. Per questo motivo le chiese avevano spesso le pareti decorate da
cicli scultorei e da affreschi: i temi iconografici più diffusi sono ispirati
alla storia sacra, alle visioni apocalittiche, ai mestieri e ai bestiari.
Per ciò che riguarda i
soggetti delle raffigurazioni, rispetto alle immagini del repertorio paleocristiano
– il Buon Pastore[2], l'Ultima Cena[3] –
sono ora predilette raffigurazioni che richiamano la severa posizione del
giudizio di Dio, assunta di fronte al peccato. Si narrano episodi della vita
dei Santi o della Bibbia, che mirano ad indurre i fedeli ad essere timorosi di
Dio. I temi riproposti sono spesso quelli della Creazione[4],
del Peccato originale, della Cacciata dal
Paradiso Terrestre[5],
di Caino e Abele[6], del Diluvio universale[7], del Giudizio finale[8], tutti per
indicare le punizioni derivanti dalla disobbedienza a Dio. Gli episodi prediletti
del Vangelo sono soprattutto quelli che si riferiscono alla Passione e alla Crocifissione[9], per sottolineare
il sacrificio del Cristo per salvare l'Umanità: ma tutto è pervaso da un gusto
narrativo che a volte sfiora il popolaresco.
nella scultura…
Sebbene non fossero
mancati in Italia durante l'alto Medioevo capolavori di arte plastica,
specialmente nel campo della metallurgia, solo dagli inizi del XII secolo, in
corrispondenza col pieno fiorire della civiltà romanica, si può parlare di una vera e propria scultura, intesa
come recupero ed affermazione di quei valori di volumetria che, in seguito alla
diffusione del gusto bizantino, erano andati perduti dopo l'antichità classica.
La scultura
romanica conobbe, infatti, un fenomeno dalle proporzioni imponenti: la
rinascita della scultura in pietra originalmente e monumentalmente elaborò modelli
tratti dall'arte tardoantica ed in particolare da quella romano-provinciale, nonché
dalle arti minori, come l'oreficeria e la miniatura.
Henri Focillon ha
sintetizzato in alcune regole o leggi
i principi che governavano l'organizzazione della scultura romanica:
- primato dell'architettura
per cui la decorazione scultorea, sottomettendosi alle necessità
dell'architettura, ne sottolineava i punti sensibili (capitelli, architravi, portali, pilastri, ecc.);
- legge della cornice, per cui la
figurazione scultorea non valicava i limiti del proprio campo;
- legge dei più numerosi contatti possibili, perciò
risentendo ancora dell'horror vacui[10] tipico dell'arte barbarica, la figurazione tendeva
a occupare tutto lo spazio disponibile;
- legge del formalismo interno,
per cui le forme si generavano le une dalle altre per analogia
metamorfica.
La
facciata della cattedrale romanica, col punto chiave dei grandi portali,
forniva ampio spazio alla scultura, che nell'illustrazione di temi del Vecchio
e del Nuovo Testamento svolgeva una funzione didattica ed edificante nei
confronti dei fedeli, mentre nelle parti decorative – capitelli, cornici, mensole
– figurazioni mostruose, libere derivazioni dall'antico ed intrecci metamorfici
si susseguivano con inesauribile fantasia, espressione di un libero gusto
fantastico e grottesco.
Anche gli
arredi liturgici, come cibori[11],
ceri pasquali e cattedre[12],
ebbero grande diffusione così come le porte e gli oggetti in bronzo,
specialmente nell’area centro-europea.
Anche la scultura,
strettamente legata all'architettura, creò forme di solida plasticità e di grande
senso figurativo.
Nei portali i rilievi si
dispongono nel grande pilastro centrale, nell'architrave e nel timpano[13],
occupato solitamente al centro dal Cristo
in Maestà[14].
Il capitello cubico
accoglie episodi sacri, scene fantastiche o quotidiane, dai mestieri e ai
bestiari.
Le statue e i gruppi collocati sugli altari erano
solitamente di legno policromo, la tecnica di fusione del bronzo rifiorì e si
realizzarono grandi porte a formelle.
In Italia, l'elemento caratterizzante della
scultura fu un vigoroso plasticismo[15] che
fondeva le ascendenze tardo-romane alle correnti barbariche e acquistava una
precisa autonomia rispetto all'architettura.
Si affermarono le prime personalità artistiche
chiaramente individuabili: Wiligelmo e Benedetto Antelami.
Wiligelmo, attivo
a Modena dalla fine dell’XI agli inizi del XII
secolo, fu il massimo scultore del cantiere del duomo di Modena: una lapide
sulla facciata con un'iscrizione retta da due profeti ne ricorda il nome e
l'opera dal 1099. Questa lapide con altre due, raffiguranti geni reggifiaccola,
fece forse parte dell'altare principale della chiesa. Fra il 1099 e il 1106, Wiligelmo sempre
nel duomo di Modena scolpì quattro grandi lastre
con le Storie della Genesi con
toni molto drammatici; di Wiligelmo sono anche
la decorazione floreale con figure e profeti nell'intradosso[16] del portale della facciata, con
relativa lunetta[17], e alcuni capitelli dell'abside e della facciata; l'attribuzione a lui
dell'Eterno nel
portale maggiore del duomo di Nonantola è ancora discussa, come tuttora
discussa è l’attribuzione a lui dei Profeti , inseriti
nel duomo di Cremona. Protagonista tra i maestri della prima scultura romanica, Wiligelmo fu
con ogni probabilità in rapporto con gli scultori di Moissac e di Tolosa;
tuttavia le scene e i personaggi da lui raffigurati hanno un valore narrativo,
drammatico e solenne che testimonia l'emergere di un nuovo linguaggio dove
l'uomo, dopo la lunga pausa dell'astrazione bizantina, è ripresentato nella sua natura corporea e nelle
sue umane sofferenze.
L’attività di Benedetto Antelami[18] può essere racchiusa fra due opere firmate: la Deposizione dalla Croce[19] del 1178, nel transetto destro del duomo di Parma, e l'Adorazione dei Magi[20] del 1196
nella lunetta del portale settentrionale del
battistero di Parma.
La Deposizione
dalla Croce mostra
già tutte le particolarità e i caratteri propri del linguaggio plastico
dell'artista: il modulo di composizione delle figure principali è di tipo bizantino, ma con
influssi provenzali e reminiscenze classiche, mentre la concezione solida e
rigorosa del rilievo si stacca nettamente dalla linea della tradizione della scultura romanica dell'Italia settentrionale. I diversi
influssi sono validamente rielaborati in una sintesi compiuta, che esprime una
coscienza artistica unitaria.
L'opera maggiore di Antelami
rimane tuttavia il complesso architettonico e decorativo del battistero di
Parma, iniziato nel 1196, a pianta ottagonale all'esterno e decaesagona
all'interno, coperto a cupola ogivale. La decorazione plastica del battistero,
svolta sia all'esterno sia all'interno, è un insieme eccezionale che non trova
confronti, per complessità e rigore di concezione, nella scultura romanica
italiana.
Essa comprende i tre portali
adorni di lunette (l'Adorazione dei Magi, il Giudizio Finale e la Leggenda di Barlaam), grandi statue a tutto tondo (due Profeti, Salomone e
la Regina di Saba[21]),
numerose formelle[22] e fregi decorativi. All'interno i soggetti
delle sculture dei catini del primo ordine architettonico riprendono
narrativamente quelli dei corrispondenti portali esterni. La collaborazione di
aiuti è probabile nella splendida serie di rilievi raffiguranti i Mesi e le Stagioni.
Tutta la decorazione è
integrata con tanta mirabile esattezza ed armonia alla struttura
architettonica, che non possono più sussistere dubbi sul fatto che architetto e
scultore siano stati la stessa persona. Il problema dell'attività architettonica
di Antelami è tuttora vivo e incerto; sulla base dei caratteri stilistici del
battistero di Parma sono stati attribuiti ad Antelami i progetti del duomo di
Borgo San Donnino e della chiesa di S. Andrea a Vercelli: alcuni storici
ritengono le tre opere legate da notevole unità stilistica, caratterizzata da
una pronta e precoce assimilazione del gotico francese. La personalità eccezionale di Antelami
aprì nella scultura italiana una nuova epoca stilistica, costituendo
un'esperienza vitale che per tutto il Duecento diede vita a una fiorentissima
scuola di artisti.
A Wiligelmo e ad Antelami si affianca l'attività
dei Maestri Campionesi, scultori, lapicidi ed
architetti lombardi, attivi in varie regioni in varie regioni nell'Italia
settentrionale fra la seconda metà del sec. XII e la fine del XIV: diversamente
dai Magistri Antelami, non costituirono una maestranza
ufficialmente riconosciuta, ma furono in seguito accomunati per una visione
dell'arte che si rifaceva a moduli di estrazione romanica.
Capolavori di originalità ed eleganza
compositiva sono le porte bronzee di Bonanno Pisano per la Cattedrale
di Pisa. Formatosi con Guglielmo, Bonanno subì
però fortemente l'influsso dell'arte bizantina, che
conobbe attraverso avori, bronzi, miniature, e dell'arte ultramontana,
particolarmente tedesca. Secondo Vasari, sarebbe stato anche
l'architetto del Campanile di Pisa. Come scultore eseguì nel 1180 le imposte
per la porta maggiore del duomo pisano distrutte nel 1596 e le porte del duomo
di Monreale del 1186. Nella cosiddetta porta
di S. Ranieri, nel transetto del duomo di Pisa, con Storie della vita di Cristo,
la squisita ricerca ritmica lo rivela sensibile agli influssi orientali,
soprattutto siriani e cappadoci.
Il pulpito
del duomo di Pisa scolpito da Guglielmo tra il 1159 e il 1165 e
successivamente trasferito a Cagliari per lasciare il posto al nuovo pulpito di
Giovanni Pisano, segna invece un punto di svolta nella scultura romanica della
Toscana, avviando un processo di sviluppo che anticipa le soluzioni
di Nicola Pisano.
Il suo stile rivela influssi
provenzali. Gli
studiosi riconoscono una vera e propria scuola
di Guglielmo, influenzata dai modi e dalle forme dei sarcofagi romani. In
particolare nei portali delle chiese, contrassegnati dalla firma dello
scultore, lunette e architravi rivelano accenti stilistici classici. Fra questi
è l'architrave del portale maggiore di Sant'Andrea a Pistoia, che un'iscrizione
permette di attribuire a Gruamonte, affiancato dal fratello Adeodato o Deodato,
e di datare al 1166.
e nella
pittura
Ancora più che alla
scultura, alla pittura romanica fu assegnato il compito di illustrare e di
volgarizzare le verità della fede, sebbene nella pittura, più che in qualsiasi
altro campo dell’arte, il romanico abbia stentato ad affrancarsi dall’influsso
delle tradizioni colte: la pittura
romanica presenta infatti elementi derivanti sia dall'influenza delle forme
bizantine – caratterizzate dalla solennità aulica del disegno – sia dall'arte
ottoniana – caratterizzata dall’esasperazione del colore – sia caratteri
popolari, legati alle nascenti culture romanze.
Dall’armonizzazione dei
diversi contributi si determinarono caratteri di assoluta originalità: il
disegno ha contorni netti, colori decisi sia per i tratti del volto sia per il panneggio
delle vesti, il forte senso plastico delle figure è mantenuto al pari della scultura
e non mancano deformazioni per accentuare l'espressività, le stesse composizioni
sono caratterizzate da una forte rigidità, spesso dovuta alla rigorosa
simmetria ed alla ripetizione ritmica degli elementi figurativi.
Le
caratteristiche principali della pittura romanica si rintracciano nel grande
sviluppo dell'affresco[23], nell’esordio
della pittura su tavola[24]
e nella splendida fioritura dell'arte miniatoria, espressione più colta e
raffinata rispetto al gusto popolaresco e narrativo dell'affresco: tutti questi
aspetti sfociarono, senza soluzione di continuità, nel successivo periodo
gotico.
Come per l'architettura così
anche per la pittura sono ben distinguibili tratti locali. Le regioni
maggiormente interessate dallo svilupparsi di una pittura romanica furono la
Francia, la Catalogna e la Lombardia.
Nell'Italia settentrionale, si evidenziò maggiormente
un interesse verso un certo realismo, estraneo alla tradizione bizantina che
invece si ripropose come episodio imponente nei
mosaici dell'Italia meridionale.
In Italia, si possono riscontrare due filoni
principali:
- quello
che trae ispirazione dall'arte bizantina
- quello
dei grandi cicli affrescati.
I primi si realizzano soprattutto in area
veneziana, a Roma ed in Sicilia, mentre altrove si diffondono i secondi, grazie
all'opera di divulgazione da parte dei cluniacensi e dei benedettini, e
decorano le navate e i rilievi e si ritrovano sia all'interno sia sulla
facciata delle cattedrali. Le figure appaiono ancora rigide nei movimenti, ma,
rispetto al periodo precedente, sono caratterizzate anche dalla ricerca di
maggiore volumetria e di un più corposo rilievo.
Lo stile riferibile all'arte benedettina è particolarmente
semplice ed efficace: esso, espressivo e popolare, in qualche modo semplifica
il modo di proporsi che aveva avuto l'arte bizantina, rendendo i soggetti di
maggiore e di più diretta comprensione.
Cristo anche quando è crocifisso ripete il motivo ancora altomedioevale del Christus triunphans: Gesù è, infatti,
rappresentato rigido ed impassibile sulla croce, eroico, con il corpo
eretto e gli occhi aperti, vivo e superiore ad ogni
sofferenza, e quindi, nella sua divinità, trionfante
sulla morte, superiore ad ogni umana sofferenza; la Madonna stessa
appare sempre contenuta nei gesti anche quando deve esprimere il suo dolore.
Oltre agli affreschi si realizzano alcune
pitture a tempera su tavola e i paliotti[25]
d'altare: i soggetti più frequentemente raffigurati sono Madonne col bambino,
sedute su un trono e presentate quindi nel loro aspetto di regale divinità, da
cui prendono il nome di Maestà. L’iconografia
di tavole e paliotti ebbe lunga vita anche nei secoli successivi, pur trasformando
il gusto pittorico verso una maggiore umanità d'interpretazione. Sono frequenti
i Crocifissi dipinti ed infine le tavole raffiguranti un personaggio sacro –
Santi o Madonne – di notevole grandezza, in modo da impegnare tutta la zona
mediana della tavola, mentre sui due lati si sovrapponevano piccoli riquadri
che illustravano episodi relativi alla vita del personaggio centrale. Tali dipinti
che decoravano gli altari sono designati col termine di ancona o di pala d'altare. La tecnica impiegata era la
tempera ed il fondo era quasi sempre d'oro, secondo la consuetudine bizantina.
Nell'Italia settentrionale
gli affreschi notevolissimi di S. Vincenzo a Galliano e di S. Pietro al Monte a
Civate appaiono legati alla tradizione ottoniana. Nell'abside di S. Vincenzo a
Galliano (Como), gli affreschi, risalenti a poco prima del 1007, «sono
certamente il capolavoro risolutivo con cui l'arte d'Italia affronta il secondo
millennio» (Bologna). Anche qui è illustrato un soggetto apocalittico, la Majestas Domini adorata dai Profeti.
Questo ignoto Maestro
dell'abside di S. Vincenzo esercitò una larga influenza, riconoscibile in
successivi affreschi veneti e piemontesi, ma soprattutto in quelli di S. Pietro
al monte sopra Civate (Como). Si tratta di uno dei cicli meglio conservati che
siano giunti fino a noi dal secolo XI (da alcuni studiosi tuttavia è datato
verso la metà del sec. XII): rispetto agli esempi precedenti qui è
rintracciabile una certa assimilazione di modi bizantini; eppure l'effetto
conclusivo è originale, tanto nella Gerusalemme celeste affrescata sulla volta,
quanto nella Vittoria degli angeli sul
drago apocalittico, decorante una lunetta.
Nell'Italia
Centro-meridionale (esclusa la Toscana, che merita un discorso a sé) i maestri
di gusto innovatore si possono individuare soprattutto nei cicli di affreschi;
ma non mancano esempi di mosaico, specie a Roma e in Sicilia. Le manifestazioni
più precoci hanno luogo in alcuni conventi benedettini, dove talvolta
maestranze occidentali lavorano parallelamente ai pittori di stretta osservanza
bizantina. Se questi ultimi prevalevano nell'ormai distrutta Casa-madre di
Montecassino, per converso nella chiesa abbaziale di Sant’Angelo in Formis,
presso Capua, la navata è ricoperta di affreschi con Storie della Passione, infedeli ai modelli bizantini. La datazione
precede di qualche anno il 1087. La loro origine potrebbe essere indicata negli
Exultet miniati (rotuli di pergamena
illustranti fatti sacri, che erano mostrati al popolo dall'alto dei pulpiti) ed
in alcuni esempi campani di affreschi altomedioevali. Nell'esame delle singole
scene risulta comunque chiaro che l'ignoto pittore lavora su un 'telaio' di
origine bizantina, ma che al tempo stesso lo stravolge con il suo rude piglio
drammatico.
Anche uno dei maestri
che lavorano nella cripta del duomo di Anagni (Frosinone) punta sulla foga dei
gesti e su un elementare effetto di rilievo; ma il suo stile è più radicalmente
nuovo. Egli è chiamato Terzo Maestro perché altre due mani sono individuabili
nel complesso decorativo. Il tema da lui trattato è la leggenda di San Samuele.
Il suo stile ebbe certo ripercussioni nel Lazio e in Campania, dove nel
frattempo anche la miniatura - promossa in particolare da Federico II e da
Manfredi – si impegnava nella direzione di un racconto immediato ed efficace, rielaborando con ricca inventiva
moderna i suggerimenti della miniatura classica. Una delle non frequenti
pitture su tavola del Meridione si connette con tutta probabilità tanto allo
stile del Terzo Maestro di Anagni quanto alla cultura miniatoria sveva: si
tratta della splendida ancona con S.
Domenico e sue storie conservata oggi nella Pinacoteca di Capodimonte. Il rilievo della griglia rettilinea che riempie lo sfondo
delle piccole scene che fiancheggiano San Domenico in piedi ha le
caratteristiche di esecuzione vicine ad un atelier di Nicosia del tardo XIII
secolo. Questa grande ancona,
è stata attribuito da Ferdinando Bologna a Giovanni da Taranto, ed è databile
intorno al 1305.
A Roma la tradizione
locale palesa già nel secolo XI una forza innovatrice rispetto ai disseccati
manierismi bizantini che avevano prevalso durante l'Alto Medioevo: nelle
Leggende di S. Alessio, S. Clemente e S. Cirillo che decorano la basilica di S.
Clemente, questa tecnica consente anzi l'affermarsi di un gusto tonale del
colore, tenero e luminoso, e rinnova l'antico uso pompeiano dei tondi rossi e
delle esili architetture. Questa precoce fioritura del romanico in Roma subì
tuttavia un profondo mutamento nel XII secolo. Ritroviamo, infatti, fin dal
1130, il mosaico assunto di nuovo agli onori della decorazione nell'abside
della stessa basilica di S. Clemente; si tratta in realtà di un ritorno alle
tradizioni paleocristiane e alla loro ancor classica monumentalità. Anche
nell'abside di S. Maria in Trastevere, quasi coeva, piccole tessere di un
colore brillante, ma docile alle esigenze del chiaroscuro, costruiscono le
forme corpose e compassate di Cristo e la vergine in trono, modello tipico di
uno stile che sarà coltivato dagli artisti locali per più di un secolo e che
solo nel tardo Duecento l'opera del Cavallini riuscirà a riscattare della sua
inerzia accademica.
A partire da una data
orientativa, come il 1260 – parallelamente ai grandi fatti della scultura e
dell'architettura gotica – assistiamo al definitivo maturarsi della pittura
romanica. Gli ultimi decenni del secolo sono dominati da tre grandi
personalità: il fiorentino Cimabue, il romano Pietro Cavallini, il senese
Duccio di Buoninsegna, i quali trovano ciascuno uno stile personale, ma al
tempo stesso hanno frequenti occasioni di stimolanti incontri reciproci. Non si
tratta peraltro soltanto di 'scambi' a livello personale; gli stessi ambienti
culturali, nei quali i maestri si formano, sono caratterizzati nel secondo
Duecento da una vivacità di rapporti che si traduce in un continuo
arricchimento creativo.
Il risultato più
cospicuo ed esemplare di questi incontri e scambi culturali è rappresentato dal
primo ciclo di decorazioni della Basilica di San Francesco ad Assisi, iniziata
verso il 1278 e affidata tanto a Cimabue e scolari quanto a maestri romani e a
maestri senesi.
Questa prima fase dei
lavori assisiati, conclusa entro il 1285, costituisce inoltre la premessa alla
seconda, importantissima fase, nella quale opereranno con gusto gotico tanto il
fiorentino Giotto quanto i senesi Simone Martini e Pietro Lorenzetti.
Precisate queste linee
di una trama essenziale, è in ogni modo necessario, ai fini di una maggiore
chiarezza, esaminare la situazione dei singoli centri dove, nel corso di due
generazioni, si opera l'effettivo rinnovamento romanico.
[1] Iconografia
– L'iconografia è un metodo ed ramo della storia dell'arte che si occupa della
·
descrizione,
·
classificazione
·
interpretazione
di quanto raffigurato nelle opere d'arte.
L'iconografia può riferirsi a personaggi o avvenimenti storici, così come a
ricerche su temi mitologici o religiosi.
[2] Il
buon pastore – Immagine frequente nel repertorio mitologico artistico
romano, auspicio di pace per i defunti. Entrato nel simbolismo cristiano fu
molto utilizzato nella pittura dei cubicoli, nei sarcofagi e anche nelle
epigrafi, segno dell’anima portata nella pace, da Cristo pastore puro. Divenne
presto l’immagine del Buon Pastore (o "Bel Pastore" secondo l’originale
greco) che va in cerca della pecorella smarrita, usata da Gesù stesso nella
parabola per esprimere il suo amore di Salvatore.
Sia nella
pittura che nella scultura del cristianesimo delle origini, il Buon Pastore è
stato presentato, secondo il modulo classico, nello splendore della giovinezza.
Il capo è leggermente volto da un lato, vestito di una corta tunica che gli
scende sino alle ginocchia, stretta ai fianchi da una cintura; la spalla destra
completamente nuda mentre i piedi sono coperti da alti calzari. Porta a
tracolla la bisaccia per le provviste e regge sulle spalle la pecora che tiene
ben salda per le gambe; ai lati due agnelli alzano fiduciosi lo sguardo verso
di lui. Il simbolismo è chiaro: nella figura del Buon pastore, è rappresentato
Gesù salvatore e nella pecora si allude all’anima salvata
dall’amore. Talvolta il Pastore appare isolato con la pecorella sulle
spalle, ma nella maggioranza dei casi - come immagine della beatitudine celeste
- è rappresentato insieme al gregge (le anime beate) in un giardino (il
paradiso) ricco di alberi e di fiori e allietato dal canto degli uccelli
[3] L’ultima
cena – L'episodio dell'Ultima
Cena di Cristo con gli apostoli è, dal punto di vista
drammatico e simbolico, uno degli eventi culminanti del Vangelo. Da un lato Gesù
annuncia l’imminente tradimento di Giuda, cioè la propria morte («Uno di voi mi
tradirà»), dall’altro, spezzando il pane e condividendo il vino con gli
apostoli, istituisce l’eucaristia, sacramento centrale della Chiesa («Questo è
il mio corpo»). I due episodi sono narrati nei vangeli sinottici, mentre
Giovanni descrive il momento del tradimento, senza fare alcun cenno alla cena
eucaristica. Come scenario dell’ultima cena, Marco e Luca descrivono un
ambiente ricercato, una grande stanza addobbata con tappeti e su questa base
gli artisti hanno prevalentemente dato alla sala del Cenacolo un aspetto
elegante o addirittura lussuoso.
I diversi aspetti iconografici
che la tradizione artistica ha elaborato, ha privilegiato di volta in volta ora
l'uno ora l'altro particolare dell'episodio, fino a giungere alla grande
sintesi operata da Leonardo nell'Ultima Cena, dipinta nel refettorio dei frati
domenicani osservanti di S. Maria delle Grazie a Milano.
Mentre l’arte orientale pone l’accento sul
singolo tema della comunione, in Occidente si preferisce puntare l’attenzione
sull’annuncio del tradimento; solo dopo il concilio di Trento l’arte della
Controriforma si sforza di recuperare la formula bizantina, preoccupandosi di
glorificare il sacramento dell’eucaristia e rappresentando l’ultima cena come
la prima delle messe. Successivamente il modello più comune vede riuniti i due
momenti e soltanto Gesù e Giuda sono individuati in modo più evidente dalle
azioni svolte.
[4] La
creazione
- Il mito della
creazione dell’uomo acquista nuova importanza nell’arte cristiana, dove,
secondo la tradizione medioevale, Adamo viene visto come una prefigurazione di
Cristo. Il corpo dell’uomo, il cui colore indica l’origine della creta, prende
vita grazie allo spirito divino. Il raggio che collega il volto di Dio con
quello di Adamo esprime anche la somiglianza che, sulla base delle parole
bibliche, lega il primo uomo al Creatore.
[5] La
cacciata dei progenitori – Durante il
Medioevo le figure di Adamo ed Eva sono rappresentate frequentemente, talvolta
isolate, più spesso negli episodi della Genesi. I soggetti non
hanno un tipo iconografico fisso, per cui gli artisti possono raffigurarli
liberamente. I vari episodi e le figure stesse di Adamo ed Eva erano
interpretati generalmente in relazione a episodi dei Vangeli (il matrimonio di
Adamo ed Eva prefigura l'unione di Cristo con la Chiesa; la tentazione si
contrappone all'Annunciazione, la cacciata, fra l'altro, si contrappone al
perdono al buon ladrone; Adamo è una delle prefigurazioni del Cristo ed Eva
della Vergine, quando non le viene invece contrapposta, come colei che ha
introdotto il peccato nel mondo, ecc.).
Le raffigurazioni medievali sono
soprattutto scultoree: rilievi di Wiligelmo sulla
facciata del duomo di Modena.
[6] Caino
e Abele – Con Caino ed Abele si rappresenta la
contrapposizione tra il giusto e il malvagio. Non a caso, nella tradizione
cristiana, Abele è accostato a Cristo e Caino a Giuda.
[7] Diluvio
universale – L’arca di Noè è paragonata alla
chiesa, che offre ai fedeli una via di scampo e li conduce alla salvezza. Nel
diluvio l’arca galleggia in mezzo alle acque, con gli animali sul ponte o
affacciati alle finestre. Dopo il diluvio, Noè inventa il vino e in uno stato
di ebbrezza il figlio Cam lo vede mentre giace nudo nella sua tenda. I fratelli
Sem e Jafet coprono la sua nudità con un mantello. L’episodio viene da molti
interpretato come una violazione da parte di Cam con un incesto della sfera
privata del padre.
[8] Giudizio
finale – Il Giudizio universale nell’iconografia del medioevo rappresenta
la visione trionfale di Dio alla fine dei tempi, seguita dalla resurrezione dei
morti, dal loro giudizio e dalla definitiva separazione degli uomini in due
gruppi, gli eletti e i dannati. La felicità dei giusti e l’eterna dannazione
dei malvagi occupava nel pensiero e nella spiritualità medievale un posto di
primaria importanza.
Normalmente questo tema veniva collocato sulla
controfacciata della chiesa, di modo che servisse da monito a coloro che
lasciavano l’edificio.
[9] Crocifissione
– La Crocifissione è il simbolo per antonomasia del
Cristianesimo: essa occupa un posto centrale nella produzione dell'arte sacra.
L’iconografia della Crocifissione mostra
la varietà di sistemi di senso attribuiti alla sofferenza ed alla morte di Cristo ed alla promessa di salvezza per gli
uomini. Nell'Italia centrale del XII secolo nacque la tradizione
delle croci dipinte, destinate ad essere appese nell'arco trionfale delle
chiese o al di sopra dell'iconostasi, ovvero la zona che separava la navata adibita
ai laici dal presbiterio adibito al clero. In esse il Cristo è in
posizione frontale con la testa eretta e gli occhi aperti, vivo sulla croce e
ritratto come trionfatore sulla morte (Christus
triumphans), attorniato da scene tratte dalla Passione, e poteva
presentare agli estremi dei bracci della croce figurine di contorno, che a
partire dalla seconda metà del XIII secolo divennero le figure a
mezzobusto della Vergine e di San Giovanni evangelista in
posizione di compianto. Talvolta si incontrano anche i simboli degli
evangelisti e, nel braccio superiore (la cimasa), un Cristo in
maestà.
Agli inizi del XIII secolo compare
una nuova tipologia, quella del Cristo morto, l'iconografia deriva dal Christus patiens d’ispirazione
bizantina, ma anche dalla coeva predicazione francescana. Il Cristo sofferente
ha la testa reclinata sulla spalla e gli occhi chiusi e il corpo incurvato in
uno spasimo di dolore. Uno dei primi a recepire questa novità iconografica
fu Giunta Pisano, dove il corpo del Cristo è
inarcato sulla sinistra, invadendo il tabellone laterale, da dove spariscono
quindi le scene della Passione. Tra Giunta e Cimabue irrompe Coppo di
Marcovaldo. La recessione stilistica era già alle spalle da qui l'importanza di
Coppo come pittore di "frontiera", forme riprese da Cimabue nel
Crocifisso di Arezzo del 1270 circa e
sviluppate ulteriormente nel Crocifisso di Santa Croce del 1280 circa.
Nel braccio più alto si diffusero nuove
immagini tra cui quella del Padre Eterno, altre volte il simbolo del pellicano,
che si sacrifica per nutrire i suoi figli, o altre immagini cristologiche; una
analoga varietà di icone può essere posta ai piedi di Cristo, nel suppedaneo (la
Maddalena, il teschio di Adamo, un santo protettore, o il committente).
Giotto fu il primo a rinnovare
questa iconografia in pittura nell'ultimo decennio del XIII secolo, prendendo
spunto dai traguardi nel frattempo raggiunti dalla scultura gotica, in
particolare da Nicola Pisano, già dal 1260. Egli compose il Cristo
come realmente doveva mostrarsi sotto il peso del corpo, abolendo l'inarcatura
e piegando le gambe, che venivano fermate da un unico chiodo.
[10] Horror vacui – L'horror vacui è uno stato di disagio dettato da una perdita di
punti di riferimento provocata dalla paura degli spazi deserti, siano
questi fisici o mentali. Il termine è utilizzato anche nella critica
d'arte per descrivere, analogamente, l'attitudine, propria di autori ed
epoche diverse, a riempire con figure o segni volontari la superficie
dell'opera, con dei particolari finemente
dettagliati. non concependo dunque la presenza del vuoto come spazio
possibile di relazione tra una figura e l'altra, tra un segno e l'altro, ma
piuttosto come un'area da colmare.
[11] Ciborio
- Il ciborio è un elemento architettonico a forma
di baldacchino che sovrasta l'altare nelle chiese. Poggia
generalmente su quattro supporti verticali raccordati
mediante archi e reggenti una volta piana o cupoletta,
destinata a custodire la pisside contenente
le ostie consacrate.
[12] Cattedra
– Sedile, di solito massiccio e solenne,
destinato per lo più a personaggi autorevoli. In particolare, seggio coperto da
un baldacchino, su cui siedono il pontefice o i vescovi quando assistono alle
funzioni religiose.
[13] Timpano
– spazio triangolare o mistilineo compreso tra la cornice e i due rampanti del
frontone.
[14] Cristo
in Maestà - Nell'iconografia cristiana,
immagine, rappresentata frontalmente, di Cristo in trono, benedicente e recante
gli attributi della sua potenza, per lo più circondato da angeli, dagli
Evangelisti o dai loro simboli, dai 24 vegliardi dell'Apocalisse. Il motivo
iconografico del Cristo in maestà o in gloria (Maiestas Domini)
risale al sec. IV ed ebbe grande diffusione nel periodo carolingio (miniature e
mosaici) e in quello romanico (miniature, affreschi, rilievi su timpani di
cattedrali, ecc.).
Per analogia è detta Maestà anche la
rappresentazione della Madonna col Bambino in trono, adorata da angeli e santi,
tema particolarmente frequente nella pittura medievale. Esempi famosi ne sono
la Maestà di Duccio di Buoninsegna (1311;
Siena, Museo dell'Opera del Duomo) e quella affrescata da Simone Martini nel Palazzo Pubblico di Siena.
[15] Plasticismo
– Ricerca di effetti di rilievo e profondità nelle opere pittoriche e
scultoree, o di concretezza ed espressività in quelle letterarie.
[16] Intradosso
–Superficie interna di un arco o di una
volta, detta anche imbotte, delimitata dalle linee d'imposta.
[17] Lunetta
– In architettura, porzione della superficie
di una parete compresa tra le linee determinate dall'intersezione di una volta
e del suo piano di imposta. Presentando spesso una decorazione pittorica o
scultorea, sono così detti anche l'affresco o il rilievo che
la ornano e, per estensione, la parte superiore, semicircolare, di un'ancona e
qualunque dipinto o bassorilievo a forma di mezzaluna.
[18] Benedetto
Antelami - scultore e architetto italiano
(ca. 1150-1230/1233). Tranne le opere pervenuteci, nulla si sa di preciso né
sulla sua vita né sulla sua formazione: appare tuttavia attendibile l'ipotesi
di una presenza giovanile in Provenza e in
particolare ad Arles, dove gli viene attribuito un capitello nell'annesso
chiostro. Anche il suo cognome sembra essere un appellativo generico, riferito
ai Magistri Antelami,
lapicidi e muratori dell'Italia settentrionale, originari della val d'Intelvi.
[19] Deposizione
- La rappresentazione iconografica della
deposizione di Cristo appare per la prima volta in una miniatura del Codex Egberti (ca.
980; Treviri, Stadtbibliothek), nella quale compaiono solo le figure di
Giuseppe d'Arimatea e di Nicodemo, che staccano il corpo di Cristo morto dalla
croce.
Successivamente (sec. XI) a questi
personaggi si aggiungono la Vergine, le pie donne e San Giovanni Evangelista (B. Antelami, 1178, duomo
di Parma; deposizioni lignee di Tivoli e di Volterra, sec. XIII).
Dal Quattrocento la composizione diviene
più complessa; nel gruppo si inseriscono altre figure, tra cui quella della Maddalena; accanto alla
croce, molto alta, sono collocate due scale, su cui stanno due uomini che
aiutano Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo a schiodare Cristo (Beato Angelico, convento di S. Marco, Firenze; Rosso Fiorentino,
Volterra, Pinacoteca; Rubens, cattedrale di Anversa; Rembrandt, Monaco,
Pinacoteca).
[20] Adorazione
dei magi – Le prime rappresentazioni di questo soggetto si trovano nelle
catacombe romane oppure sui sarcofaghi marmorei già nel II secolo. Essi
raffigurano la sapienza che riconosce il re bambino. Secondo una tesi
suggestiva, l'immagine dei Magi o di uno di essi, inginocchiati davanti alla
Madonna e al Bambino, deriva dalla tradizione imperiale romana che raffigurava
i barbari vinti nell'atto di rendere omaggio all'imperatore vittorioso.
Il valore simbolico dei doni recati dai Magi, ossia l'Oro
(simbolo dell'omaggio), l'Incenso (simbolo del sacrificio) e la Mirra (simbolo
della morte), è stato specificato da sant'Ireneo vissuto nel II secolo.
Le raffigurazioni più antiche mostrano i tre personaggi in
fila indiana – con in testa un berretto frigio che accrediterebbe la loro
provenienza persiana. Si trovano in questa posizione nel celebre mosaico in
sant'Apollinare Nuova a Ravenna, risalente alla seconda metà del IV secolo.
Sempre a Ravenna, ma in San Vitale, essi sono raffigurati
sia in un rilievo che adorna un sarcofago marmoreo del V secolo, sia -
sganciati da qualunque contesto - sulla balza del vestito di Teodora nei
mosaici del catino absidale del VI secolo, riprendendo, presumibilmente, il
fregio marmoreo di cui si è appena detto.
Nei secoli successivi, fino al XII circa, troviamo i tre
Magi intenti a rendere omaggio alla Madonna con il Bambino, spesso seduta in trono.
Le varie rappresentazioni ce li mostrano spesso come
cortigiani devoti all'Imperatore, quasi delle figure pagane, piuttosto che i
personaggi che siamo abituati a considerare. L'umanizzazione dell'arte portata
dal Gotico fa sì che Giotto sia uno dei primi a rappresentare i Magi come noi
li conosciamo.
Più tardi, i Magi iniziarono ad essere interpretati e
raffigurati come le personificazioni delle tre parti del mondo allora
conosciuto: Gaspare, quello più anziano, l'Europa, Baldassarre l'Asia e
Melchiorre, raffigurato come un giovane uomo di colore, l'Africa.
Solo durante il Rinascimento si evidenzia la maestà dei
Magi, rappresentati con vesti sontuose e in genere accompagnati da un folto
seguito di persone e animali.
Il soggetto dei Magi è ancora popolare durante il Seicento,
ma viene quasi abbandonato del tutto nei secolo successivi.
[21] Salomone
e la regina di Saba – Il tema iconografico della Regina di Saba è soggetto
prezioso e poco frequente nell’iconografia cristiana occidentale; nasce nel
Medioevo e affonda le sue radici nelle fonti bibliche dell’Antico Testamento,
anche se gran parte della sua fortuna è probabilmente da attribuire alla
citazione che Gesù stesso ne fa in due dei Vangeli sinottici.
Il
ruolo della regina dalla provenienza esotica e dal sontuoso corteo è legato
indissolubilmente alla figura del re Salomone, il sapiente per eccellenza, che
la accolse, sciolse i suoi enigmi, e forse se ne innamorò.
Il
passo evangelico che la menziona, invece, mette esplicitamente in relazione
l’incredulità e mancanza di fede dei contemporanei di Gesù con l’atteggiamento
dell’antica sovrana: «La regina del sud si leverà a giudicare questa
generazione e la condannerà, perché essa venne dall'estremità della terra per
ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c'è più di Salomone!».
Secondo
l’interpretazione patristica ed esegetica, la visita della Regina simboleggia
le mistiche Nozze di Cristo e della Chiesa, oltre che prefigurare la
conversione a Cristo di tutti i popoli della terra.
Sulla
provenienza, le fonti sono imprecise: Etiopia, Yemen, Arabia felix ? Per la
tradizione etiope, il Kebra Nagast, il suo nome era Makeda, mentre alcune fonti
arabe la chiamano 'Bilqis'.
Leggende
ebraiche si soffermano sulla relazione amorosa di Salomone con la Regina di Saba
e indagano sugli enigmi da lei elaborati per mettere alla prova la saggezza del
re. Ma la tradizione che più ha inciso sulla formazione dell’iconografia
occidentale è quella riportata nella Legenda Aurea, ossia l’Inventio della vera
Croce: un angelo avrebbe dato a Seth un ramo dell’albero dell’Eden, l’albero
della conoscenza, chiamandolo 'legno della misericordia'; Seth avrebbe piantato
il ramo sulla tomba del padre Adamo, dove sarebbe divenuto un grande albero,
vissuto fino al tempo di Salomone. Quest’ultimo poi lo avrebbe fatto tagliare
per utilizzarlo nel palazzo, ma senza trovare per esso un posto adatto: sempre
troppo lungo o troppo corto, sarebbe stato infine gettato dagli operai su uno
specchio d’acqua come passerella. Quando poi la Regina sarebbe stata sul punto
di attraversarlo, avrebbe visto in spirito che il Salvatore del mondo sarebbe
stato appeso a quel legno, e dunque non l’avrebbe calpestato, ma adorato.
Le
prime raffigurazioni della Regina di Saba si trovano sui codici minati biblici
a partire dal sec. XII (1180), come tipo della Chiesa sposa di Cristo; una
preziosa incisione è inserita nel Paliotto smaltato di Klosterneuburg a Vienna
(1181), opera dell’orafo Nicola di Verdun. Dal sec. XII e nel XIII la sovrana
appare spesso con un volume di sentenze, insieme a Salomone, come
prefigurazione della Chiesa, ed è inserita nei cicli a rilievo dei portali dei
grandi edifici di culto, insieme a santi e beati (Corbeil, Dijon, Chartres). Le
rappresentazioni sui timpani dei portali sono probabilmente legate anche al
ruolo della Regina come giudice nei tempi ultimi a fianco dei giusti d’Israele,
significativamente connessa alle più usuali composizioni nelle lunette
romaniche: Giudizio Universale, Parousia, Trionfo dei Giusti.
Il
grande scultore Benedetto Antelami realizza due monumentali statue raffiguranti
Salomone e la Regina di Saba per il Battistero di Parma (1216), oggi al Museo
Diocesano, mentre il Ghiberti inserisce il loro Sposalizio nella Porta del
Paradiso del Battistero a Firenze (1437), servendosi della nuova sensibilità
umanistica e prospettica.
Ma
il ciclo più celebre è quello della 'Leggenda della Vera Croce', affrescata da
Piero della Francesca ad Arezzo, nella Cappella Bacci di San Francesco (1452 -
1466 ca.). Nell’Adorazione del Sacro Legno e incontro della Regina di Saba con
Salomone l’impianto geometrico e quello prospettico sono elementi simbolici per
rappresentare la dimensione dell’Assoluto, di cui è specchio la realtà
sensibile, dove agiscono i personaggi. A sinistra, la Regina adora il Sacro
Legno, mentre gli staffieri coi cavalli rimangono discosti; a destra, entro un
ordine di colonne corinzie 'divinamente misurate' (Vasari), sta Salomone che
accoglie la Regina.
Nelle
raffigurazioni di sec. XVI appare quasi solo la scena dell’omaggio, talvolta
inserita nei cicli veterotestamentari, come nelle Logge Vaticane di Raffaello
(1517-’19).
Più
ampia trattazione del tema si trova nel repertorio del Barocco (per esempio, in
Rubens), dove prevale l’interpretazione retorico-amorosa, quella nostalgico-lirica
ed un crescente fascino per l’ambientazione esotica (Lorrain). Nell’Ottocento
sarà il sentimento romantico a prevalere su ogni altro, e lo stesso tema
sapienziale sarà accompagnato da suggestioni estetiche e, talvolta, esoteriche.
Il
fascino della figura della Regina che reca tesori da paesi lontani si presta
nei secoli a diverse chiavi di lettura, fino alle più raffinate dell’esegesi
cristologica e profetica, poichè essa è legata simbolicamente all’amore per la
sapienza, che è 'splendida e incorruttibile', tale che Salomone afferma:
'La preferii agli scettri ed ai troni e stimai le ricchezze un nulla di fronte
a lei, a cui non paragonai la pietra più preziosa' (Sap 6, 12; 7, 8-9).
[22] Formelle
– Elemento costituito da una lastra di marmo, laterizio, ceramica, ecc., di forma
varia ma regolare (per esempio quadrangolare, circolare, a losanga), decorata
con svariate figurazioni a mosaico, a tarsia o
scolpite. Come elemento decorativo, la formella fu particolarmente usata nell'architettura gotica,
in quella romanica e durante tutto il Quattrocento.
[23] Affresco
– La tecnica dell’affresco consiste nello
stendere i colori su uno strato d'intonaco ancora fresco. Su un primo strato di malta – miscela di uno o più leganti
(cemento, gesso, calce con sabbia ed acqua – steso sulla muratura, detto
arriccio – composto di calce spenta e
sabbia di fiume – si traccia, quando è asciutto, il disegno preparatorio della
composizione.
Nel Trecento e nel
Quattrocento il disegno era tracciato direttamente a monocromo sull'arriccio la
cosiddetta sinopia, impiegata per tratteggiare il disegno preparatorio
sul primo strato d'intonaco steso per eseguire l’affresco; dalla fine del
Quattrocento si preferì l'uso del cartone, il cui disegno era riportato a spolvero
sull'intonaco. Sull'arriccio si stende poi una malta più fine di sabbia
silicea, calce spenta e talora polvere di marmo, detta intonaco.
Poiché l'affresco deve
essere eseguito sull'intonaco ancora umido, questo è preparato soltanto su
quella parte di superficie che si presume sarà dipinta in un giorno
(“giornata”). Una volta dato l'intonaco, si riapplica il cartone, facendolo
combaciare con la parte di disegno preparatorio rimasta scoperta, e si ripassa
il disegno con una punta dura, prima di stendere i colori. Da rilevare, infine,
che sotto l'azione dell'anidride carbonica dell'atmosfera la calce contenuta
nell'intonaco forma una pellicola che fissa stabilmente i colori, normalmente a
base minerale e diluiti in acqua. È questa la ragione per cui nella pittura
murale del Trecento soprattutto (ma talvolta anche in quella successiva), sono
visibili le giunture dell'intonaco, corrispondenti alle varie giornate di
lavoro. Il procedimento ora descritto corrisponde alla conclusione di un lungo
periodo di formazione e perfezionamento della tecnica, giunta a pienezza nel
periodo prerinascimentale: gli esempi di epoca precedente e dell'antichità
rientrano solo in parte in questo processo, tuttavia essi sono considerati come
all'origine della storia artistica dell'affresco.
[24] Tavola
– La pittura su tavola è
stato il principale supporto delle opere pittoriche europee dall'antichità al
XVI secolo, prima di venire quasi completamente sostituita dalla pittura su tela.
La produzione più tipica della pittura su tavola medievale è
il polittico (o trittico
o dittico), usato per decorare
gli altari delle chiese. Con il passare del tempo essi si arricchirono di
sempre più scomparti e cornici sempre più complesse.
La tavola era di
solito preparata scegliendo alcune assi di legno stagionato alcuni anni:
occorreva evitare legni che contenessero difetti come nodi o alte quantità
di tannino, una sostanza contenuta in molte specie vegetali che talvolta
rifioriva anche sulle tavole stagionate macchiando di nero lo strato
preparatorio o addirittura la pellicola pittorica. Le tavole erano assembrate
in genere in file verticali, tenute insieme da cerniere estraibili sul retro.
Il
legno, una volta piallato e levigato, era impregnato con una o più mani di
colla naturale, la cosiddetta colla di
spicchi, ottenuta facendo bollire e restringere ritagli di pelle animale.
Poi si procedeva a fasciare le tavole con una tela morbida, preferibilmente
tela vecchia, che era poi impresso con almeno due strati di gesso: uno ruvido,
per livellare, ed uno fine per creare la base pittorica su cui si procedeva
disegnando coi carboncini. Il disegno poteva avvenire a mano libera da parte
del maestro oppure, nelle botteghe più attrezzate, era eseguito su un pezzo di
carta e poi riportato con la tecnica dello spolvero. Per cancellare si
usava la gomma pane oppure si spolverava via la polvere di carbone
con penne di gallina.
Se
l'opera prevedeva la doratura si stendeva sulla parte da dorare uno strato
di bolo, cioè un'argilla rossastra sciolta con acqua e chiara d'uovo.
Esiste anche una preparazione in terra verde, usata per esempio nel
Nord-Italia. La foglia d'oro era poi applicata per rettangoli che
erano "soffiati" su un pennello. La foglia applicata sulla tavola era
poi schiacciata con il brunitore, una sorta di pennello con una pietra
d'agata appiattita e levigata all'estremità, e poi si procedeva a
rimuovere le parti in eccesso, che bastava tagliare via con un coltellino non
essendo tenute dal bolo sottostante. Spesso l'oro era poi inciso, soprattutto
nelle aureole, con rotelle e punzoni.
A
questo punto si iniziava a stendere il colore. I colori a tempera erano di tre
categorie: vegetali, derivati da pietre dure macinate o derivati da sintesi
chimiche, spessa ossidazione di metalli. Alla prima categoria
appartenevano le tinte come il giallo zafferano, l'indaco,
la cocciniglia o le terre e il nero carbone; alla seconda i
preziosi blu come l'oltremare di lapislazzuli o la più economica
azzurrite; alla terza il bianco di biacca o il bianco di San
Giovanni, usato a Firenze. Le tempere erano solitamente sciolte con
il tuorlo d'uovo.
La
tecnica pittorica nell'arte medievale italiana di solito prevedeva la stesura
di velature partendo da quella più scura. Ad esempio per i corpi si partiva da
un verde-terra che veniva via via brunito per sovrapposizione fino ad arrivare
alle tinte chiare del bianco e del rosa carnicino, che era il cinabrese.
A
volte restauri sbagliati ottocenteschi per ridare chiarore alle tavole hanno
eroso con la soda caustica proprio quegli stati superficiali più chiari, andando
ben oltre la velatura della polvere e ottenendo l'effetto contrario di scoprire
le velature scure sottostanti.
La
pittura avveniva di solito stendendo il dipinto in orizzontale o leggermente
inclinato, comunque era un elemento che dipendeva dall'uso dell'artista e dalla
grandezza del dipinto da eseguire.
Dopo
la fase di pittura le opere erano messe ad asciugare all'aperto, dopodiché si
passava alla verniciatura: dopo aver spolverato il tutto si stendeva un velo
di gommalacca (ottenuta da una resina vegetale, ma non sulle parti
dorate, che altrimenti sarebbero diventate opache.
[25] Paliotto
– Il paliotto è un
pannello decorativo usato in alcune chiese come rivestimento della parte
anteriore dell’altare. Esso può essere di stoffa, d'avorio, a mosaico, oppure lavorato con metalli preziosi, come, ad esempio,
l'argento.
Signor Capuozzo,
RispondiEliminami potrebbe per favore dirmi dove posso trovare notizie su le Caratteristiche dell´ Architettura Romanica nella Provincia di Roma?
Grazie e cordiali saluti