Preludio
·
La poesia
Preludio che apre la raccolta Penombre, costituisce il manifesto della poesia
scapigliata.
·
Praga vi
descrive la crisi esistenziale propria della generazione successiva al
Romanticismo, che ha esaurito la sua carica ideale e l’autore si fa interprete
della nuova generazione di poeti.
·
La poesia è
costituta da 8 quartine formate da tre endecasillabi e un settenario,
sostituito nelle strofe pari da un quinario. La rima è alternata secondo lo
schema ABAB, CDCD, ecc…
Noi
siamo figli dei padri ammalati[3];
aquile
al tempo di mutar le piume[4]
svolazziam
muti, attoniti[5],
affamati,
sull'agonia
di un nume[6].
Nebbia
remota è lo splendor dell'arca,
e
già all'idolo d'or torna l'umano,
e
dal vertice sacro il patriarca
s'attende
invano[7];
s'attende
invano dalla musa bianca
che
abitò venti secoli il Calvario[8],
e
invan l'esausta vergine s'abbranca
ai
lembi del Sudario[9]...
Casto
poeta che l'Italia adora[10],
vegliardo[11] in
sante visioni assorto,
tu puoi morir!... Degli Antecristi è l'ora!
Cristo
è rimorto[12]!
O
nemico lettor[13],
canto la Noia,
l'eredità
del dubbio e dell'ignoto,
il
tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia,
il
tuo cielo, e il tuo loto[14]!
Canto
litane[15] di
martire e d'empio;
canto
gli amori dei sette peccati[16]
che
mi stanno nel cor, come in un tempio,
inginocchiati.
Canto
l' ebrezze dei bagni d'azzurro[17],
e
l'Ideale che annega nel fango...
Non
irrider, fratello[18], al
mio sussurro,
se
qualche volta piango:
giacché
più del mio pallido demone[19],
odio
il minio e la maschera al pensiero[20],
giacchè
canto una misera canzone,
ma
canto il vero!
Congedo
·
Congedo è
l'ultima poesia delle Rime nuove.
·
Si divide
in tre parti. Nella prima (str. 1-3) Carducci dice ciò che
il poeta non è; nella seconda parte (str. 4-6) Carducci dice ciò che
invece il poeta è; nella terza parte (str. 7-fine) Carducci enumera i
motivi d'ispirazione del poeta-artiere, un miracolo, l'ispirazione, che
soltanto Dio conosce.
Il poeta, o vulgo sciocco,
un pitocco[23]
non è già[24], che a l'altrui mensa
via con lazzi[25] turpi e matti
porta i piatti
ed il pan ruba in dispensa.
non è già[24], che a l'altrui mensa
via con lazzi[25] turpi e matti
porta i piatti
ed il pan ruba in dispensa.
E né meno è un perdigiorno
che va intorno
dando il capo ne' cantoni[26],
e co 'l naso sempre a l'aria
gli occhi svaria[27]
dietro gli angeli e i rondoni.
che va intorno
dando il capo ne' cantoni[26],
e co 'l naso sempre a l'aria
gli occhi svaria[27]
dietro gli angeli e i rondoni.
E né meno è un giardiniero
che il sentiero
de la vita co 'l letame
utilizza, e cavolfiori
pe' signori
e viole ha per le dame.
che il sentiero
de la vita co 'l letame
utilizza, e cavolfiori
pe' signori
e viole ha per le dame.
Il poeta è un grande artiere[28],
che al mestiere
fece i muscoli d'acciaio:
capo ha fier, collo robusto,
nudo il busto,
duro il braccio, e l'occhio gaio[29].
che al mestiere
fece i muscoli d'acciaio:
capo ha fier, collo robusto,
nudo il busto,
duro il braccio, e l'occhio gaio[29].
Non a pena l'augel pia[30]
e giulía[31]
ride l'alba a la collina,
ei co 'l mantice[32] ridesta
fiamma e festa
e lavor ne la fucina[33]:
e giulía[31]
ride l'alba a la collina,
ei co 'l mantice[32] ridesta
fiamma e festa
e lavor ne la fucina[33]:
E la fiamma guizza e brilla
e sfavilla
e rosseggia balda audace,
e poi sibila e poi rugge
e poi fugge[34]
scoppiettando da la brace.
e sfavilla
e rosseggia balda audace,
e poi sibila e poi rugge
e poi fugge[34]
scoppiettando da la brace.
Che sia ciò, non lo so io;
lo sa Dio
che sorride al grande artiero.
lo sa Dio
che sorride al grande artiero.
Ne le fiamme così ardenti
gli elementi
de l'amore e del pensiero
gli elementi
de l'amore e del pensiero
egli gitta, e le memorie
e le glorie
de' suoi padri e di sua gente.
Il passato e l'avvenire
a fluire[35]
va nel masso incandescente.
e le glorie
de' suoi padri e di sua gente.
Il passato e l'avvenire
a fluire[35]
va nel masso incandescente.
Ei l'afferra, e poi del maglio
co 'l travaglio
ei lo doma su l'incude.
Picchia e canta. Il sole ascende,
e risplende
su la fronte e l'opra rude.
co 'l travaglio
ei lo doma su l'incude.
Picchia e canta. Il sole ascende,
e risplende
su la fronte e l'opra rude.
Picchia. E per la libertade
ecco spade,
ecco scudi di fortezza:
ecco serti[36] di vittoria
per la gloria,
e diademi[37] a la bellezza.
ecco spade,
ecco scudi di fortezza:
ecco serti[36] di vittoria
per la gloria,
e diademi[37] a la bellezza.
Picchia. Ed ecco istoriati
a i penati[38]
tabernacoli ed al rito:
ecco tripodi ed altari[39],
ecco rari
fregi e vasi pe 'l convito[40].
Per sé il pover manuale
fa uno strale[41]
d'oro, e il[42] lancia contro 'l sole:
guarda come in alto ascenda[43]
e risplenda,
guarda e gode, e più non vuole.
a i penati[38]
tabernacoli ed al rito:
ecco tripodi ed altari[39],
ecco rari
fregi e vasi pe 'l convito[40].
Per sé il pover manuale
fa uno strale[41]
d'oro, e il[42] lancia contro 'l sole:
guarda come in alto ascenda[43]
e risplenda,
guarda e gode, e più non vuole.
Presentazione
da La scapigliatura milanese
di Cletto
Arrighi
Quando una parola nuova o sconosciuta
risponde perfettamente ad un’idea, ad una condizione, ad un caso qualunque
della vita sociale, che non si potrebbe esprimere altrimenti che con una
perifrasi, la fortuna di questa parola dovrebbe essere certa.
In Francia succede infatti così. Ogni
mese, si può dire, fa capolino un neologismo, e quantunque l’Accademia, gli
faccia il viso dell’arme, esso viene accettato a braccia aperte dal buon senso
popolare, ed entra di balzo nella lingua viva appena sia riconosciuto
necessario o di buona lega.
Demi-monde? per dirne uno. Trovatemi, di
grazia, demi-monde sul vocabolario.
Ma qui da noi gli è un altro pajo di
maniche. Da noi, senza ripetere le solite fastidiose canzoni, ognun sa quanto
sia pericoloso e difficile l’osare, e tanto più per uno scrittoruccio di primo
pelo, come sono io.
Avvenne che, un bel giorno, dovendo pur
trovare un titolo - oh! lettori, il titolo d’un libro! Dio vi tenga ben lontani
dal cercare un titolo... finchè durano queste condizioni!! - mi trovai nella
necessità, o di coniare un neologismo o di andar a pescare nel codice della
lingua qualche parola vecchia che rendesse pressapoco il concetto del mio
qualsiasi romanzo.
Prima dunque di osare, consultai sua
maestà il Vocabolario, se mai nella sua infinita sapienza avesse saputo
additarmi un mezzo di salvezza. Cerca e ricerca, finalmente trovai una parola
acconcia al caso mio; perchè, s’ha un bel dire, ma la nostra lingua, per chi la
vuol frugare un po’ a fondo, non manca proprio di nulla, e sa dar a un bisogno
parole vecchie anche per idee nuove, nello stesso modo che i Francesi sanno
fabbricar parole nuove per idee che hanno tanto di barba.
Però, in quella maniera che potrei star
garante che scapigliatura non è una parola nuova, sarei in un bell’imbarazzo se
volessi persuadervi che la è molto usata e conosciuta.
Infatti fra le tante persone a cui
domandai che cosa intendessero per scapigliatura, parte inarcò le ciglia, come
a dire: non l’ho mai sentita a menzionare, e parte mi rispose così a tentoni,
chi: l’atto dello scapigliarsi, chi: una chioma arruffata, e chi, finalmente -
e costui fu un letterato - una vita da debauchè; definizioni tutte o false o
inesatte e, in ogni modo, lontane le mille miglia da quel significato in cui
m’ero proposto di adoperarla io.
Quell’io che credevo di aver rubato il
lardo alla gatta, da quelle risposte n’ebbi una delusione che mi afflisse
moltissimo - ben inteso, per quanto può affliggere una delusione filologica - e
avrei messo il cuore in pace, e lasciato nel dimenticatojo la povera
incompresa, se una certa rincalzante smania di spuntar le cose un po’ difficili
- confesso un uno debole - non mi ci avesse incaponito sopra.
Ed ecco lettori, se il permettete, ch’io
la prendo per mano e ve la presento.
In tutte le grandi e ricche città del
mondo incivilito esiste una certa quantità di individui d’ambo i sessi v’è chi
direbbe: una certa razza di gente - fra i venti e i trentacinque anni non più;
pieni d’ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo; indipendenti come
l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; inquieti, travagliati,
turbolenti - i quali - e per certe contraddizioni terribili fra la loro
condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa, e ciò che
hanno in tasca, e per una loro particolare maniera eccentrica e disordinata di
vivere, e per... mille e mille altre cause e mille altri effetti il cui studio
formerà appunto lo scopo e la morale del mio romanzo - meritano di essere
classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia
civile, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte
quante le altre.
Questa casta o classe - che sarà meglio
detto - vero pandemonio del secolo, personificazione della storditaggine e
della follia, serbatojo del disordine, dello spirito d’indipendenza e di
opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più
che altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta
parola italiana, l’ho battezzata appunto: la Scapigliatura Milanese.
Se tale parola non andasse a genio de’
miei lettori me ne dorrebbe moltissimo, perchè io la trovo assolutamente bella.
E posso ripeterlo con franchezza perché appunto non l’ho inventata io. Ed è per
me tanto più bella, in quanto che essa mi rende, quasi a capello, il concetto
di questa parte della popolazione Milanese tanto diversa dall’altra per i suoi
misteri, le sue miserie, i suoi dolori, le sue speranze, i suoi traviamenti,
sconosciuti ai giovani morigerati e dabbene, ed agli adulti gravi e posati, che
della vita hanno preso la strada maestra, comoda, ombreggiata, senza emozioni,
come senza pericoli.
La Scapigliatura Milanese è composta da
individui di ogni ceto, di ogni condizione, di ogni grado possibile della scala
sociale. Plebe, medio ceto e aristocrazia; foro, letteratura e commercio;
celibato e matrimonio, ciascuno vi porta il suo tributo, ciascuno vi conta
qualche membro d’ambo i sessi; ed essa li accoglie tutti in un amplesso
amoroso, e li lega in una specie di mistica consorteria, forse per quella forza
simpatica che nell’ordine dell’universo attrae fra di loro le sostanze
consimili.
La speranza nell’avvenire è la sua
religione; la povertà il suo carattere
essenziale. Non la povertà del mendico che stende per Dio la mano
all’elemosina, ma la povertà di un Duca a cui tocca di licenziare una dozzina
di servitori, vendere molte coppie di cavalli, e ridurre a quattro le portate
della sua tavola, perchè, fatti i conti coll’intendente, ha trovato di non aver
più che cinquantamila lire di rendita.
Essa è figlia soprattutto di un’epoca non
lontana e fatale; figlia generosa, giacché, chi ha traveduto il cielo, è un
imbecille od un santo se si rassegna a vivere di nuovo contento e felice sulla
terra.
Nè voglio dire con ciò che prima di
quell’epoca non ci fossero scapigliati a Milano....... Dio me ne guardi!
Strano paese sarebbe stato questo in cui
la gioventù avesse avuto nelle vene tanta pacatezza, e tanto senno in cervello
per soffrire con calma e senza riluttanza l’ozio forzoso e la vita monotona e
indecorosa che vi si conduceva.....
Come il Mefistofele del Nipote essa ha
dunque due aspetti, la Scapigliatura: il buono ed il cattivo.
Da un lato un profilo più Italiano che
Meneghino pieno di brio, di speranza e di amore, e rappresenta il lato
simpatico e forte di questa numerosa classe, inconscia delle proprie forze,
anzi della propria esistenza, propagatrice delle brillanti utopie, focolare
delle idee generose, anima di tutti gli elementi geniali, artistici e politici
del proprio paese, che ogni causa o grande o folle fa balzar d’entusiasmo, che
conosce della gioja la sfumatura arguta del sorriso, e lo scroscio franco e
prolungato, ed ha le lagrime del fanciullo sul ciglio e le memorie feconde nel
cuore.
Dall’altro invece un volto smunto,
solcato, cadaverico, su cui stanno le impronte delle notti passate nello
stravizzo e nel giuoco, su cui si adombra il segreto del dolore infinito, e i
sogni tentatori d’una felicità inarrivabile, e le lagrime di sangue, e le
tremende sfiducie e la finale disperazione.
Presa in complesso dunque, la Scapigliatura
è tutt’altro che disonesta.
Se non che, come accade di tutti i partiti
estremi, che accolgono nel loro seno i rifiuti di tutti gli altri, anch’essa
conta un buon numero di persone tutt’altro che oneste, le quali finiscono collo
screditare la classe intera. Ma cotesti signori sono come nel ferro le scorie,
nel demolito il marame; e c’è per essi un nome abbastanza conosciuto senza
ricorrere alla scapigliatura; e anch’io sarei tentato di chiamarli cavalieri
d’industria e birbanti, se l’educazione di moda non mi vietasse di chiamar
chicchessia col suo vero nome. Ma, appunto come tali, essi non hanno una
fisionomia particolare e si perdono in quella putrida vegetazione comune a
tutti i paesi del mondo come i ladri, e le spie... gente nata per lo più dal fango,
e vivente nel fango del proprio mestiere, senza perdono e senza poesia
possibile.
Però la Scapigliatura li fugge per la
prima e li rinnegherebbe ad alta voce, se ella avesse la coscienza della
propria esistenza.
Giacchè la vera... la mia Scapigliatura
potrà pentirsi qualche volta de’ fatti proprii, arrossirne giammai.
L’amante di Gramigna
da Vita dei campi (1880)
Questo è un documento nato come momento di scambio d’opinione con un amico
letterato, in cui Verga definisce i suoi orientamenti e le sue scelte e ci fornisce
indirettamente la strada per arrivare alla definizione dei suoi princìpi teorici.
È la Prefazione a ‘L’amante di
Gramigna’, nota anche come ‘Lettera
a Salvatore Farina’ perché è in forma epistolare. È
un documento di estrema importanza, che contiene tutti gli elementi fondamentali della poetica verista. La lettera ha anche un intento argomentativo, perché Farina si oppone alle nuove tendenze della letteratura verista.
A
Salvatore Farina.
Caro
Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà
il merito di essere brevissimo, e di esser storico - un documento umano, come
dicono oggi - interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel
gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli
dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della
narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col
fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro,
attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare
sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere,
delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso
processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono
nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano
contradditori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel
fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna
si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti
dirò soltanto il punto di partenza e quello d’arrivo; e per te basterà, - e un
giorno forse basterà per tutti.
Noi
rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi,
con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri
l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e
dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma
non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di
cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte
dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle
passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo
interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte,
svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che
nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?
Quando
nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che
il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle
passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità
della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così
necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora
avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi
fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto
naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia
del peccato d’origine.
Introduzione
da
I Malavoglia
Questo
racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono
nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel
benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta
sino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell’ignoto, l’accorgersi
che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.
Il
movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui
alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo
delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e
potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue
tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta
ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche
ad elevarsi e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia
non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca
diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro don
Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di
provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il
disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa
de Leyra; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all’Uomo
di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte coteste vanità,
tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue,
e ne è consunto. A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il
congegno della passione va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno
originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri
l’educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella
civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di
tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola
onde dar rilievo all’idea, in un’epoca che impone come regola di buon gusto un
eguale formalismo per mascherare un’uniformità di sentimenti e d’idee. Perché la
produzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire
scrupolosamente le norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la
verità, giacché la forma è così inerente al soggetto, quanto ogni parte del
soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell’argomento generale.
Il
cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per
raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto
nell’insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguandosi le
irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si
trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le
contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario
copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li
giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo
cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorìo
universale, dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate ambizioni, è
legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del
movimento incessante; e quando si conosce dove vada quest’immensa corrente
dell’attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l’osservatore,
travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi intorno, ha il diritto di
interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano
sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate,
e piegano il capo sotto il piede brutale dei sovravvegnenti, i vincitori
d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno
sorpassati domani.
I Malavoglia,
Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l’Onorevole Scipioni,
l’Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla
riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato,
che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più
umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel
benessere, per l’ambizione - dall’umile pescatore al nuovo arricchito - alla
intrusa nelle alte classi - all’uomo dall’ingegno e dalle volontà robuste, il
quale si sente la forza di dominare gli altri uomini, di prendersi da sé quella
parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua
nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge - all’artista
che crede di seguire il suo ideale seguendo un’altra forma dell’ambizione. Chi
osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se
riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza
passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la
rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.
[1] Penombre
– Il maledettismo predomina nella raccolta, Penombre del 1864, ma il poeta cerca anche il conforto nella
sanità della Natura e nel mondo familiare. Il linguaggio diventa
volutamente esasperato, con l'uso di termini brutalmente realistici: la
raccolta scandalizzò il pubblico, soprattutto quello dei salotti, contro cui
Praga si scagliava spesso.
Le
liriche di questa raccolta segnano il momento più scapigliato e anticonformista
di Praga, toccando infatti tutti i temi caratteristici della corrente
milanese: il rifiuto della società contemporanea attraverso la consapevole
distruzione di se stesso, l'anticlericalismo, il gusto del macabro, le
deviazioni sessuali, la profanazione del sentimento d'amore romantico e
dell'immagine femminile idealizzata.
Il
linguaggio si fa più tormentato, meno comune e più aperto a termini brutalmente
realistici.
Assai forte è l'influsso
di Baudelaire, apprezzato da Praga come un modello di rivolta alla
tradizione e, contemporaneamente, di aspirazione alla perfezione artistica.
[2] Emilio Praga - Nato a Gorla nel 1839 da
un'agiata famiglia industriale, la sua condizione sociale gli permise, tra
il 1857 e il 1859, di compiere numerosi viaggi in Europa,
durante i quali trascorse lunghi soggiorni a Parigi e si dedicò allo
studio di Baudelaire, Victor Hugo, Alfred de Musset e Heinrich
Heine. A Parigi iniziò anche a dipingere.
Tornato
a Milano, cominciò a frequentare gli ambienti della Scapigliatura, movimento culturale
sviluppatosi nell'Italia settentrionale dagli anni sessanta dell'Ottocento, e ne divenne
uno dei maggiori esponenti.
Nel 1862 pubblicò la raccolta Tavolozza.
Nel 1864 una
seconda raccolta Penombre.
Dopo
la morte del padre ed il conseguente dissesto finanziario dell'azienda
familiare, Praga non seppe adattarsi ad un lavoro regolare e si diede
all'alcool, abbandonandosi ad una vita disordinata, costellata spesso dall'uso
di sostanze stupefacenti. In questo, tra gli scapigliati, fu quello che
visse più autenticamente il modello del maledettismo incarnato da
Baudelaire.
La
separazione dalla moglie e poi il litigio con il figlio Marco nel
1873 accentuarono il suo malessere: morì in miseria, nel 1875, a soli 36
anni, distrutto dai propri vizi.
Postumi
furono pubblicati Trasparenze nel 1878 ed il romanzo Memorie
del presbiterio, che restò incompiuto ma fu successivamente completato
dall'amico Roberto Sacchetti:
l'opera, uscita a puntate su Il
Pungolo tra giugno e novembre
del 1877, e in volume nel 1881.
[3] figli… ammalati: gli eredi della
generazione romantica e di una cultura in crisi.
[4] aquile... piume: le aquile sono capaci
di spiccare il volo ma nel periodo della muta sono incerte e timorose. Fuor di
metafora, il poeta vuol dire che gli scapigliati desiderano staccarsi dalla
tradizione, ma non sono capaci di individuare una meta precisa, un percorso autonomo
e originale.
[5] attoniti: sgomenti; affamati:
desiderosi di ideali nuovi.
[6] sull’agonia di un nume: mentre agonizza
una divinità, che rappresenta gli ideali dell’età precedente. Può essere un
accenno a Manzoni (definito al v. 13 il casto poeta) o allo spegnersi della
fede in Dio.
[7] Nebbia... invano: la metafora, con i
riferimenti alla storia ebraica, indica l’allontanamento dell’uomo dai valori
religiosi in nome della logica economica: la condizione del poeta è come quella
degli Ebrei nel deserto, per i quali l’Arca santa con le Tavole delle leggi
date da Dio a Mosè è avvolta come in una nebbia; così gli uomini si sono dati
ad adorare il vitello d’oro (simbolo di denaro e di corruzione), e invano si
attende dalla vetta del Sinai il ritorno del profeta.
[8] dalla musa... Calvario: da parte della
musa (la poesia religiosa, cristiana) che ha abitato per venti secoli il colle
dove fu innalzata la croce di Cristo.
[9] invan... Sudario: la Musa, ormai stanca
(esausta), si aggrappa inutilmente ai lembi del Sudario, il lenzuolo in cui fu
avvolto il corpo di Cristo. L’espressione, dal tono polemico, significa che è
inutile aggrapparsi ai simboli della civiltà cristiana: la società si allontana
sempre più dalla fede.
[10] Casto poeta: Manzoni, definito casto per la sua religiosità e i suoi
valori morali.
[11] vegliardo: è un’indicazione oggettiva
(Manzoni all’epoca era quasi ottantenne); l’età avanzata conferisce al poeta
autorevolezza e venerazione come maestro di poesia cristiana e patriottica.
[12] degli anticristi... rimorto: la società
contemporanea è anticristiana: poiché Cristo è morto per la seconda volta
(condannato dalla religione del profitto) è il momento dei nuovi scrittori
atei. Nell’Apocalisse di Giovanni l’anticristo è la personificazione del
diavolo che alla fine della storia dell’umanità combatterà contro Cristo e la
Chiesa.
[13] nemico lettor: il lettore è definito nemico perché appartiene a quel ceto
borghese incapace di comprendere la nuova poesia degli scapigliati.
[14] Noja... loto: l’ennui o spleen, cioè il
senso angoscioso di vuoto, è uno dei temi di Baudelaire. La noia deriva
(eredità) dal dubbio e dalla perdita di certezze, essa domina (re… pontefice) e
al tempo stesso tormenta (boja) il poeta e lo spinge sia verso mete elevate
(cielo) sia verso la degradazione (loto
[15] litane... d’empio: il poeta canta sia
le preghiere (litane significa letteralmente “litanie”) dei martiri (perché
tormentato dal bisogno di ideali) sia quelle dei bestemmiatori (perché nega
ogni fede).
[16] sette peccati: i sette peccati capitali
della dottrina cattolica (superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira,
accidia).
[17] bagni d’azzurro: gli
slanci verso l’ideale, di cui il cielo è simbolo.
[18] fratello: il lettore prima nemico (v.
17) ora è fratello, nel senso che la borghesia vive la stessa crisi di certezze
del poeta, ma la nega ipocritamente (invece il poeta le si ribella).
[19] mio… demone: è il demone del dubbio e del tormento interiore.
[20] il minio…
pensiero: il poeta, ancor più del
demone della noia, odia il belletto (minio) e la maschera, ossia le ipocrisie e
le convenzioni sociali, che impediscono di osservare la realtà nel suo vero
aspetto.
[21] Rime
Nuove – Rime nuove è la più
importante e significativa raccolta di Carducci.
Il
libro, pubblicato nel 1887, comprende centocinque poesie, composte tra il 1861
e il 1887 e distribuite in nove libri ed in esso Carducci fissò un'immagine
ideale di sé e della propria arte, offrendo con essa una compiuta sintesi
poetica dalle origini giovanili fino agli esiti più maturi.
Tra
i filoni tematici più importanti della raccolta, il primo è quello della poesia
storica: in queste liriche, Carducci indossa i panni del poeta vate, maestro e
guida della nazione, per riproporre episodi del Medioevo italiano – Il comune rustico, La leggenda di Teodorico, Su
i campi di Marengo, Faida di comune.
Le sue ricostruzioni storiche sono rigorose e riescono a penetrare e far
rivivere lo spirito dei fati narrati. Talvolta la celebrazione investe la
storia recente: è il caso dei dodici sonetti di Ca ira, dedicati alla vittoria dei francesi a Valmy nel 1792 contro
gli austro prussiani.
Un
secondo filone è quello intimistico e autobiografico, che si sviluppa tra
memoria, natura e immaginazione poetica. A poesie di tipo nostalgico – Visione e Nostalgia – si accompagnano testi ambientati nella vita della
campagna, con i suoi umili quadri di vita animale e vegetale – Il bove e San Martino.
L'ispirazione
più sincera si rivela nei testi della trilogia maremmana – Traversando la Maremma toscana, Idillio
maremmano, Davanti San Guido – e
nelle due liriche ispirate alla morte del figlioletto Dante – Pianto antico e Funere mersit acerbo.
Altre
liriche sono dedicate alla celebrazione della bellezza classica: è la linea che
ispira le tre bellissime odi delle Primavere
elleniche tra le più felici dell'intera produzione di Carducci.
Molte liriche delle Rime nuove nascono da un motivo comune:
l'opposizione tra l'esaltazione della vita e il pensiero o sentimento della
morte, della caducità e fragilità di ogni esistenza terrena. I due motivi sono
complementari, poiché l'amore per ciò che vive rende più forte la coscienza
dell'ineluttabilità della fine; in tal modo ogni gioia dell'ora presente è
incrinata da note di dolore e da tristi presentimenti. È precisamente questa
dialettica che ispira la parte più suggestiva della poesia carducciana.
[22] Giosuè Carducci – La tradizione classicista ha
un momento di rinascita e di rinnovamento nell’opera di Giosuè Carducci, che
la rivitalizzò riproponendo la missione etico-civile del poeta e l’esaltazione
del lavoro rigoroso sulla forma. Carducci, che scriveva negli stessi anni di
Baudelaire, fu maestro di una tendenza che ebbe un peso rilevante nella
cultura del tempo ed ebbe i seguaci più illustri in Severino Ferrari, Enrico Panzacchi,
Giovanni Marradi.
Nessun poeta ebbe la fama di Giosuè Carducci, il più noto
letterato di fine Ottocento, artefice di una reazione al
Romanticismo, ma nella direzione di un recupero del Classicismo[22]. Egli fu il primo italiano a ricevere il premio Nobel per la
letteratura nel 1906.
Figlio
di un medico condotto affiliato alla carboneria, Carducci nacque a
Valdicastello, Lucca, presso Pietrasanta nel 1835, trascorse l'infanzia in
Versilia e in Maremma, il cui passaggio fece rivivere in tante sue poesie; adolescente
si recò con la famiglia a Firenze e a Pisa, laureandosi in lettere con una tesi
sulla poesia cavalleresca nel 1856.
Insegnò
in un ginnasio, esperienza, questa, che sarebbe confluita nelle autobiografiche
Risorse di San Miniato nel 1863.
Il
suo interesse per la filosofia lo indusse a fondare, nel 1859, la rivista Il Poliziano, che tuttavia ebbe vita
breve.
All’insegnamento,
dal quale era stato sospeso per tre anni a causa delle sue idee
filorepubblicane, tornò a dedicarsi tra il 1860 e il 1904, quando, su nomina
del ministro Terenzio Mamiani, fu titolare della cattedra di letteratura
italiana nell'Università di Bologna, cattedra che tenne fin quasi alla morte,
facendo fiorire intorno a sé una «scuola» numerosa e seria. In politica
combatté il papato e la monarchia, ma a questa si riavvicinò verso la fine
degli anni ’70 e, in seguito, nominato senatore nel 1890, si schierò con il
governo conservatore di Francesco Crispi.
Carducci
morì a Bologna nel 1907.
La
sua vasta produzione poetica costituisce le raccolte:
- Juvenilia (1850-1857)
e Levia Gravia (1857-1870) esprimono le concezioni laiche e
repubblicane di Carducci, e costituiscono un complesso apprendistato
poetico, in cui egli sperimentò molte forme della tradizione lirica
italiana.
- Giambi ed epodi (1882), che comprendeva componimenti già pubblicati
nella raccolta Poesie (1871), prevalsero i tomi polemici.
- Rime nuove (1861-1887) sono
probabilmente la raccolta migliore, quella in cui Carducci seppe alternare
con maggiore ricchezza l’ispirazione intima e privata alla poesia storica
e politica. Questo doppio registro caratterizza anche, sia pure con minore
felicità espressiva, l’ultima raccolta di versi, Rime e ritmi (1898).
- Odi barbare (1877-1893) cercano di
riprodurre in versi italiani i metri della lirica greco-latina.
- Rime e ritmi (1898)
Carducci
fu anche autore di scritti in prosa di tono lirico-autobiografico e fu inoltre
critico, oratore, polemista. Grande influenza ebbe il magistero carducciano
nel campo della critica. Suoi allievi furono Giovanni Pascoli, Severino
Ferrari, Renato Serra, Manara Valgimigli, e, se la sua lezione si iscrive entro
i confini storici del positivismo, l’attenzione ai valori testuali evidente
negli studi su Petrarca, Poliziano, Parini fa di Carducci un precursore della
critica stilistica. Lo sterminato, vivace ed estroso epistolario, contribuì a
rendere meno paludata la figura di un poeta stretto nella propria ufficialità.
[26] dando … cantoni: sbattendo la
testa contro le cantonate.
[28] Artiere: artigiano.
[29] Nudo… gaio: notare i chiasmi
[31] Giulìa: sta per giuliva e si concorda con l’alba
[32] Mantice: Apparecchio di forma varia
mediante il quale si aspira aria in una sacca per poi soffiarla con forza, al
fine di attivare la fiamma
[33] Fucina: officina
[34] E …. fugge: notare l’anafora
[35] Fluire: colare concordato con va
quindi cola
[36] Serti: corone
[37] Diademi: corone
[38] La poesia che celebra la storia patria oggettivata negli altari dedicati al
culto e ai penati
[39] La poesia celebrativa in genere i tripodi e gli altari vanno bene per
ogni cerimonia
[40] La più raffinata celebrazione di eventi del presente [i vasi e gli
ornamenti per il convito
[42] Il: poetico sta per lo pronome
[43] Ascenda: salga
è in corso a Pavia "Tranquillo Cremona e la Scapigliatura", una mostra non solo di pittura, ma anche "un racconto musicale e letterario che andrà ad approfondire i principali scritti degli autori della Scapigliatura."
RispondiEliminahttp://www.artonweb.it/eventimostre/articolo253.html