Alla base della società
greca primitiva intorno all'800 a.C. si collocavano le famiglie riunite in clan[1]
e in tribù[2].
Durante i secoli IX e X a.C., con l’espansione commerciale e coloniale, un gran
numero di Greci si era reso indipendente dai legami terrieri arcaici, segnando
l’inizio del declino della classe aristocratica.
Nel 630 a.C. ad Atene fu
suscitato un primo tentativo di tirannide da parte di Cilone che sfruttò una
condizione di malcontento popolare.
In un passato mitico il
primo sincretismo[3] politico, di natura
vagamente democratica, fu considerato attuato da Teseo. Teseo si configurò come
un basilèus cui fu
attribuito il ruolo di creatore di una prima democrazia, per aver ceduto almeno
una parte dei poteri al démos.
Il primo vero passo
verso la democrazia può essere considerato tuttavia l’opera attuata da Dracone
nel VII secolo a.C. che mise per iscritto le leggi di una tradizione orale, per
volere degli aristocratici.
Quando però l’Attica fu
scossa da una crisi agraria che causò disordini civili, fu nominato per la
città di Atene un aisymnetes (magistrato) affinché
regolasse la situazione politica e sociale.
Essendo stato nominato
Solone (ca.594/3 o 592/1 a.C.) per questa carica, dunque, si avviò il principio democratico,
ossia l'inizio evolutivo di questa forma di governo.
T 1 Elegia alle Muse
Di Solone[4]
La poesia di
Solone risente spesso del suo impegno politico.
Fra i testi a
lui attribuiti compaiono anche testi di carattere autobiografico, ma egli
trattò principalmente di politica e di morale.
La triade
concettuale da lui introdotta, fu fondamentale per la letteratura greca:
·
la ὕβρις (hýbris): il peccato di presunzione esso è il
male, inteso come tracotanza, ed è una scelta dell'uomo;
·
ἄτη (ate): è un
procedimento di degradazione (accecamento) a cui gli dei sottopongono chi si è
macchiato di ὕβρις;
·
δίκη (dike): è
il motore del processo di giustizia divina.
Nell’Elegia alle
muse raggiunge una consapevolezza maggiore: non sono le Muse a prendere
l’iniziativa di parlare all’uomo o di dare l’investitura, ma è l’uomo stesso
che si rivolge loro, non come servo, ma con un invito ad ascoltare la sua
richiesta di ottenere fama e celebrità e di poter trasmettere la verità con il
consenso di quelle depositarie della memoria e della verità collettiva. Le Muse
sono, infatti, le garanti della giusta relazione che s’instaura tra gli uomini.
O
di Mnemòsine[5]
figlie fulgenti e del Sire d’Olimpo,
Pièrie[6]
Muse, ascolto date a me che vi prego.
Fate
che felicità mi concedano i Numi, e ch’io goda
presso
i mortali fama perennemente buona,
ed
agli amici sia gradevole, amaro ai nemici,
esultino
a vedermi questi, e tremino quelli.
Ricchezza,
averne bramo, ma farne empio acquisto non bramo:
ché
sopraggiunse sempre, sia pur tarda, Giustizia.
Quanto
a Ricchezza, quella che i Numi concedono, salda
dalla
base alla cima rimane al possessore:
quella
che col Sopruso si lucra, non sa regolarsi,
anzi,
sedotta, i passi segue del Male Oprare,
sinché
piomba improvvisa su lei la Vendetta Divina.
Comincia
essa dal poco, come avviene pel fuoco:
debole
su le prime: ma niuno alla fin le resiste:
chè
Sopruso vantaggio non arreca ai mortali.
Ma
d’ogni cosa Zeus preordina il fine; e, improvviso,
come
subito vento primaverile sperde le nubi,
e
dal profondo sconvolge gl’innumeri[7]
flutti
del
mar che non si miete, poi della terra i campi
belli,
feraci di spelta[8],
distrugge, ed ascende alla sede
alta
dei Numi, al cielo torna sereno l’ètra.
E
su la pingue terra scintilla la forza del sole
bella,
né più si vede traccia di nube in cielo:
procede
la Vendetta di Zeus così; né lo sdegno
affila,
come gli uomini fanno, caso per caso;
ma
non le resta sempre nascosto chi cuore malvagio
chiude
nel seno; e tutto vien finalmente a luce.
E
questi lì per lì paga il fio[9],
quegli dopo; e se pure
gli
sfugge alcuno, e l’Ira dei Numi non lo coglie,
pure
il momento arriva: la colpa i figliuoli innocenti
per
lui scontano, oppure la più tarda progenie.
Tutti
noialtri mortali, sia buoni, sia tristi, nutriamo
opinione
grande di noi, sinché ci colga
qualche
malanno: allora son lagni[10];
ma fino a quel punto
ci
lusinghiam[11]
con vane speranze, a bocca aperta.
E
quegli ch’è schiacciato dal peso di gravi malanni,
s’illude
che fra poco godrà fior di salute:
un
altro, ch’è pusillo[12], s’immagina
d’essere un prode:
uno
di forme poco venuste, d’esser bello:
uno
senz’arte né parte, gravato d’eterna miseria,
spera
d’averne, quando che sia, ricchezza a iosa[13].
Tutti,
chi qua, chi là, si danno da fare. Va errando
questi
sul mar pescoso, ché nel suo legno[14]
deve
portare
a casa il lucro: lo sbattono i venti funesti:
pure,
egli alla sua vita non ha riguardo alcuno.
Serve
per tutto l’anno, scalzando la terra alberata,
un
altro, a cui la cura spetta dei curvi aratri.
Un
altro che d’Atèna, d’Efesto, maestro dell’arti,
l’opere
apprese, il pane con le braccia guadagna.
Un
altro, a cui le Muse d’Olimpo largirono[15]
il dono,
apprese
i modi tutti dell’amabil scienza.
Concesse
a un altro il Dio dell’arco[16]
il profetico dono,
e il mal da
lungi vede che contro un uomo avanzi,
quando lo
inviano i Numi; ma quello che vuole il Destino,
nessun augurio[17]
può schermir, nessuna offerta.
Chi
l’arte di Peòne[18],
maestro di farmachi, apprese,
è
medico; e pur egli non va mai sul sicuro;
sovente
si sviluppa da piccola doglia un gran male,
né
veruno[19]
curarlo può coi farmachi blandi;
ed
uno ch’è gravato da pena d’orribile morbo,
basta
su lui la mano porre, ed eccolo sano.
Reca
la Parca ai mortali malanni commisti a fortune,
né
può l’uomo schivare ciò che mandano i Numi.
In
ogni opera a tutti sovrasta pericolo: e niuno
sin
da principio sa quale sarà la fine.
(traduzione di
Ettore Romagnoli)
Dall’intermezzo
costituito dalla tirannide di Pisistrato (561 a.C.) che donò splendore
artistico alla città di Atene, si passò alla riforma di Clistene (508 a.C.) che
rappresentò solo una forma più popolare
rispetto a quella di Solone.
Il momento della
democrazia radicale fu contrassegnato dall'abbattimento dell'areopagocrazia,
periodo centrale e di equilibrio politico nella concezione aristotelica. L'avvento
di questa forma radicale della democrazia (462/1 a.C.) fu segnato dalle figure
di Efialte, promotore della riforma del 462 e di Pericle.
Efialte,
sfruttando l’emergere a ruolo politico della classe dei teti che si era emancipata con la
partecipazione agli equipaggi navali, i quali avevano dato ad Atene il ruolo di
potenza marittima, Efialte ridimensionò ulteriormente i poteri dell’Areopago, l’antica assemblea aristocratica,
alla quale furono lasciate solo competenze religiose e giudiziarie.
Efialte
fu assassinato pochi mesi dopo, ma la sua caduta portò alla ribalta Pericle, uno stratego della nobilissima
famiglia degli Alcmeonidi, il quale fece del rispetto delle
istituzioni democratiche una prerogativa della sua politica, fondata su un
grande carisma che non volle però mai dotarsi di un potere personale.
Le
due principali riforme attribuite a Pericle sono:
·
l’introduzione del misthós, cioè la pratica della
retribuzione ai cittadini occupati in incarichi pubblici, cosa che divenne
grande collante per la democrazia, pur introducendo elementi destabilizzanti
proprio perché dava potere ai meno abbienti, ma spesso anche ai meno istruiti ed
ai meno dotati, accusa questa mossagli da molti fra cui Platone.
·
l’attribuzione della cittadinanza ateniese ai soli figli di
padre e madre ateniesi,
mentre in passato sarebbe bastato essere figli di padre ateniese. Questa norma
ebbe conseguenze stabilizzanti sul piano sociale, ma ampliò il divario
esistente tra cittadini e non cittadini.
Qui ad Atene noi facciamo così
Da La guerra del Peloponneso
di Tucidide
·
Il brano è tratto
dal discorso di Pericle in commemorazione dei caduti del primo anno di guerra (431
a.C.), riportato (o ricostruito) da Tucidide nel libro II della Guerra del Peloponneso.
·
Vi si trova una
rappresentazione orgogliosa della città che esercita un’egemonia incontrastata
nel mondo greco. Pericle ne sottolinea la superiorità sul piano culturale e
politico, conferendole i titoli di merito che ne fanno la «maestra» dei greci,
e lasciando in ombra i motivi per cui la sua egemonia è diventata pesante e
minacciosa per molte pòleis.
·
Il modello politico
e formativo qui delineato ha esercitato un fascino straordinario sulla cultura
umanistica occidentale. Nonostante si tratti evidentemente di
un’idealizzazione, ciò che Pericle dice sul senso della democrazia e sui valori
che costituiscono la persona umana ha fatto di Atene un mito che mantiene le
sue ragioni.
Abbiamo una costituzione che non emula[20] le leggi dei vicini, perché
noi siamo più d’esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo
che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è
chiamata democrazia: di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi
privati, a tutti spetta un piano di parità, mentre per quanto riguarda
l’amministrazione dello stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere
in un determinato campo, non per la provenienza da una classe sociale, ma più
che per quello che vale. E per quanto riguarda la povertà, se uno può fare
qualcosa di buono alla città, non ne è impedito dall’oscurità del suo rango
sociale.
Liberamente noi viviamo nei rapporti con la comunità, e in tutto quanto
riguarda il sospetto che sorge dai rapporti reciproci nelle abitudini giornaliere,
senza adirarci con il vicino se fa qualcosa secondo il suo piacere e senza
infliggerci a vicenda molestie che, sì, non sono dannose, ma pure sono
spiacevoli ai nostri occhi.
Senza danneggiarci esercitiamo reciprocamente i rapporti privati e, nella
vita pubblica, il rispetto soprattutto ci impedisce di violare le leggi, in
obbedienza a chi è nei posti di comando, e alle istituzioni, in particolare a
quelle poste a tutela di chi subisce ingiustizia o che, pur essendo non
scritte, portano a chi le infrange una vergogna da tutti riconosciuta. […]
Amiamo il bello, ma con semplicità, e ci dedichiamo al sapere, ma senza
debolezza; adoperiamo la ricchezza più per la possibilità di agire che essa
offre, che per sciocco vanto[21] di discorsi, e la povertà
non è vergognosa ad ammettersi per nessuno, mentre lo è assai più il non darsi
da fare per liberarsene.
Riuniamo in noi la cura degli affari pubblici insieme con quella degli
affari privati e, se anche ci dedichiamo ad altre attività, pure non manca in
noi la conoscenza degli interessi pubblici.
Siamo i soli, infatti, a considerare non già ozioso, ma inutile chi non se
ne interessa, e noi Ateniesi o giudichiamo o, almeno, pensiamo convenientemente
le varie questioni, senza pensare che il discutere sia un danno per l’agire, ma
che lo sia piuttosto il non essere informati dalle discussioni prima di entrare
in azione. E di certo noi possediamo anche questa qualità in modo differente
dagli altri, cioè noi siamo i medesimi e nell’osare e nel ponderare al massimo
grado quello che ci accingiamo a fare, mentre negli altri l’ignoranza produce
audacia e il calcolo incertezza. È giusto giudicare superiori per forza d’animo
coloro che distinguono chiaramente le miserie e i piaceri, ma non per questo si
lasciano spaventare dai pericoli.
E anche per quanto riguarda la nobiltà d’animo, noi ci comportiamo in modo
opposto a quello della maggioranza: ci procuriamo gli amici non già col
ricevere i benefici, ma col farli. Chi ha fatto il favore è un amico più
sicuro, perché è disposto con una continua benevolenza verso chi lo riceve a
tener vivo in lui il sentimento di gratitudine, mentre chi è debitore, è meno
pronto, sapendo che restituisce una nobile azione non per fare un piacere ma
per pagare un debito. E siamo i soli a beneficare qualcuno senza timore, non
tanto per aver calcolato l’utilità del beneficio, ma per la fiducia che abbiamo
negli uomini liberi.
Concludendo, affermo che tutta la città è la scuola della Grecia, e mi
sembra che ciascun uomo della nostra gente volga individualmente la propria
indipendente personalità a ogni genere di occupazione, e con la più grande
versatilità accompagnata da decoro.
E che questo non sia ora un vanto di parole più che una realtà di fatto, lo
indica la stessa potenza della città, potenza che ci siamo procurata grazie a
questo modo di vivere. Sola tra le città di adesso, infatti, essa affronta la
prova in modo superiore alla sua fama, e lei sola al nemico che la assale non
dà motivo d’irritazione quando costui considera da chi è vinto, né al suddito,
motivo di disprezzo, come se costui non fosse dominato da persone degne.
Noi spieghiamo a tutti la nostra potenza con importanti testimonianze e
molte prove, e saremo ammirati dagli uomini di ora e dai posteri senza bisogno
delle lodi di un Omero o di un altro, che nei versi può dilettare per il
momento presente, mentre la verità sminuisce poi le opinioni concepite sui
fatti, ma per aver costretto tutto il mare e la terra a divenire accessibili
alla nostra audacia, stabilendo ovunque monumenti eterni delle nostre imprese
fortunate o sfortunate.
Per una tale città combattendo, costoro, che nobilmente pretesero di non
esserne privati, sono morti, e ognuno dei sopravvissuti è giusto che sia
disposto ad affrontare sofferenze per lei.
Comprensione del testo
1) Quali sono le
caratteristiche e i vantaggi della democrazia, secondo Pericle?
2) Quali sono i valori
che ispirano la condotta di vita di un ateniese?
3) Che cosa
rappresenta Atene per i greci?
4) Come si è
guadagnata il rispetto dei nemici e dei sudditi, l’amore dei cittadini?
Analisi del testo
1) Ricostruisci
l’elogio della democrazia fatto da Pericle, mettendo in evidenza il rapporto
tra uguaglianza e merito, il rispetto delle leggi, da un lato, della libertà
individuale, dall’altro.
2) Prova a fare un
ritratto dell’ateniese secondo i valori guida indicati da Pericle per la
formazione e la vita sociale.
3) Spiega come Pericle
fornisca una giustificazione indiretta alla guerra che si sta combattendo,
sostenendo le ragioni dell’egemonia ateniese.
Contestualizzazione
Svolgi una ricerca
per comprendere meglio il contesto del discorso di Pericle, riassumendo, da un
lato, la storia della democrazia e delle guerre di Atene, e attingendo,
dall’altro, alla storia dell’arte le informazioni sui monumenti che rendono
bella la città nel periodo della sua egemonia.
Il dialogo dei Meli
Da
La
guerra del Peloponneso di Tucidide
·
Estate del 416
a.C. nell’ambito della guerra del Peloponneso (che oppone Atene e Sparta come
città egemoni in un gioco di alleanze che investe tutto il mondo greco) a Melo,
isoletta delle Cicladi legata a Sparta da vincoli di stirpe, Atene ingiunge
formalmente di accettare la propria egemonia pagando un tributo. Melo si trova
davanti a un’alternativa: accettare il dominio e salvarsi, o resistere, cosa
che avrebbe causato l’assedio, la conquista e la distruzione della città.
·
Il rifiuto dei
melii dà luogo a una punizione esemplare, uno degli episodi più tragici della
guerra: la distruzione della città, l’uccisione di tutti gli uomini e la
deportazione come schiavi di donne e bambini. Lo Tucidide presenta come
antefatto il dialogo che gli ateniesi e gli ambasciatori dei melii avrebbero
avuto per discutere un accordo. Nel brano, la difesa dei melii del loro diritto
alla neutralità si fonda su criteri di giustizia condivisa, che comprendono il
riconoscimento reciproco di autonomia tra le pòleis; gli ateniesi oppongono
invece ragioni strategiche, ma soprattutto negano il valore di qualunque regola
o patto che non tenga conto della disparità di forze.
·
Nella narrazione
di Tucidide, l’episodio segnala il prevalere di una logica di guerra nei
rapporti tra greci: l’affermazione del diritto del più forte su qualunque
criterio di giustizia, equità, accordo.
Poi
gli Ateniesi mossero anche contro l'isola di Melo con trenta navi loro, sei di
Chio e due di Lesbo: vi erano imbarcati 1200 opliti ateniesi, 300 arcieri a
piedi e venti arcieri a cavallo; inoltre circa 1500 opliti forniti dagli
alleati e dagli abitanti delle isole. I Meli, che sono coloni spartani, non
volevano assoggettarsi, come facevano gli abitanti delle altre isole, al
predominio di Atene; ma, dapprima, se ne stavano tranquilli, senza schierarsi
né con gli uni né con gli altri; poi, siccome gli Ateniesi ve li costringevano
tormentando il loro territorio, erano venuti a guerra aperta.
Or
dunque i generali ateniesi Cleomede, figlio di Licomede, e Tisia, figlio di
Tisimaco, accampatisi nell'isola con le forze di cui si è parlato, prima di
mettere a ferro e a fuoco il paese, mandarono un'ambasceria per intavolare
trattative.
I
Meli, però, non li condussero davanti al consiglio popolare e li invitarono
invece a esporre lo scopo della loro venuta alla presenza dei magistrati e dei
maggiorenti.
Allora
gli inviati di Atene parlarono così: "Poiché non volete che noi esponiamo
le nostre ragioni davanti al popolo, per timore che esso si lasci ingannare una
volta che abbia sentito le nostre argomentazioni serrate, persuasive e che non
ammettono replica (infatti, è per tale scopo, lo comprendiamo che ci avete
condotti davanti a questo ristretto consiglio), voi che qui siete adunati
garantitevi una sicurezza ancor maggiore. Non aspettate nemmeno voi di dare una
risposta unica e conclusiva; ma vagliate ciò che noi diciamo punto per punto e
replicate subito se qualche affermazione vi pare poco opportuna. E, tanto per
cominciare, diteci se la nostra proposta incontra il vostro favore.”.
86.
I consiglieri dei Meli risposero così: "Sull’opportunità che i vari punti
siano vicendevolmente chiariti in tutta tranquillità, non c'è nulla da
obiettare sennonché, la guerra ormai è alle porte; non è solo una minaccia e
questo, pare, non si accorda con quanto proponete. Noi vediamo, infatti, che
siete venuti in veste di giudici di ciò che si dirà e che, alla conclusione,
questo colloquio porterà a noi la guerra se com'è naturale, forti del nostro
diritto, non cederemo; se invece accetteremo, avremo la schiavitù".
87.
Ateniesi: "Se, dunque, siete convenuti per fare sospettose supposizioni
riguardo al futuro o per altre ragioni, piuttosto che per esaminare la
situazione concreta che avete sotto gli occhi e prendere una decisione che
comporta la salvezza della vostra città, possiamo far punto; se, invece,
quest'ultimo è lo scopo del convegno, noi siamo pronti a continuare il
discorso".
88.
Meli: "È naturale, e merita anche scusa, che quando ci si trova in simili
frangenti si volgano parole e pensieri in mille parti: tuttavia, questa
riunione ha come primo intento la salvezza: e il colloquio si svolga pure, se
vi pare; nel modo da voi suggerito".
89.
Ateniesi: "Da parte nostra, non faremo ricorso a frasi sonanti; non diremo
fino alla noia che è giusta la nostra posizione di predominio perché abbiamo
debellato i Persiani e che ora marciamo contro di voi per rintuzzare offese
ricevute: discorsi lunghi e che non fanno che suscitare diffidenze. Però
riteniamo che nemmeno voi vi dobbiate illudere di convincerci col dire che non
vi siete schierati al nostro fianco perché eravate coloni di Sparta e che,
infine, non ci avete fatto torto alcuno. Bisogna che da una parte e dall'altra
si faccia risolutamente ciò che è nella possibilità di ciascuno e che risulta
da un'esatta valutazione della realtà. Poiché voi sapete tanto bene quanto noi
che, nei ragionamenti umani, si tiene conto della giustizia quando la necessità
incombe con pari forze su ambo le parti; in caso diverso, i più forti
esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano".
90.
Meli: "Orbene, a nostro giudizio almeno, l'utilità stessa (poiché di
utilità si deve parlare, secondo il vostro invito, rinunciando in tal modo alla
giustizia) richiede che non distruggiate quello che è un bene di cui tutti
possono godere; ma quando qualcuno si trova nel pericolo, non gli sia negato
ciò che gli spetta ed è giusto; e anche, per quanto deboli siano le sue
ragioni, possa egli trarne qualche vantaggio, convincendone gli avversari.
Questa politica sarà soprattutto utile per voi, poiché, in caso di insuccesso,
servirete agli altri d'esempio per l'atroce castigo".
91.
Ateniesi: "Non siamo preoccupati, anche se il nostro impero dovesse
crollare, per la sua fine: poiché, per i vinti, non sono tanto pericolosi i
popoli avvezzi al dominio sugli altri, come ad esempio, gli Spartani (d'altra
parte, ora, noi non siamo in guerra con Sparta), quanto piuttosto fanno paura i
sudditi, se mai, assalendo i loro dominatori, riescano a vincerli. Ma, se è per
questo, ci si lasci pure al nostro rischio. Siamo ora qui, e ve lo
dimostreremo, per consolidare il nostro impero e avanzeremo proposte atte a
salvare la vostra città, poiché noi vogliamo estendere il nostro dominio su di
voi senza correre rischi e nello stesso tempo salvarvi dalla rovina, per
l'interesse di entrambe le parti".
92.
Meli: "E come potremmo avere lo stesso interesse noi a divenire schiavi e
voi ad essere padroni?".
93.
Ateniesi: "Poiché voi avrete interesse a fare atto di sottomissione prima
di subire i più gravi malanni e noi avremo il nostro guadagno a non
distruggervi completamente".
94.
Meli: "Sicché non accettereste che noi fossimo, in buona pace, amici
anziché nemici, conservando intatta la nostra neutralità?".
95.
Ateniesi: "No, perché ci danneggia di più la vostra amicizia, che non
l'ostilità aperta: quella, infatti, agli occhi dei nostri sudditi, sarebbe
prova manifesta di debolezza, mentre il vostro odio sarebbe testimonianza della
nostra potenza".
96.
Meli: "E i vostri sudditi sono così ciechi nel valutare ciò che è giusto,
da porre sullo stesso piano le città che non hanno con voi alcun legame e
quelle che, per lo più vostre colonie, e alcune addirittura ribelli, sono state
ridotte al dovere?".
97.
Ateniesi: "Essi pensano che, tanto agli uni che agli altri, non mancano
motivi plausibili per difendere la loro causa; ma ritengono che alcuni siano
liberi perché sono forti e noi non li attacchiamo perché abbiamo paura. Sicché,
senza contare che il nostro dominio ne risulterà più vasto, la vostra
sottomissione ci procurerà maggior sicurezza; tanto più se non si potrà dire
che voi, isolani e meno potenti di altri, avete resistito vittoriosamente ai
padroni del mare".
98.
Meli: "E con l'altra politica, non pensate di provvedere alla vostra
sicurezza? Poiché voi, distogliendoci dal fare appello alla giustizia, ci
volete indurre a servire alla vostra utilità, bisogna pure che noi, qui, a
nostra volta, cerchiamo di persuadervi, dimostrando qual è il nostro interesse
e se per caso non venga esso a coincidere anche con il vostro. Or dunque tutti
quelli che ora sono neutrali non ve li renderete nemici, quando, osservando
questo vostro modo di agire, si faranno la convinzione che un giorno voi
andrete anche contro di loro? E in questo modo, che altro farete voi se non
accrescere i nemici che già avete e trascinare al loro fianco, pur contro
voglia, coloro che fino ad ora non ne avevano avuto nemmeno
l'intenzione?".
99.
Ateniesi: "No, perché non riteniamo per noi pericolosi quei popoli che
abitano sul continente e che, per la libertà che godono, ci vorrà del tempo
prima che facciano a noi il viso dell'armi; sono piuttosto gli abitanti delle
isole che ci fanno paura; quelli che, qua e là, come voi, non sono sottomessi
ad alcuno; e quelli che mal si rassegnano ormai ad una dominazione imposta
dalla necessità. Costoro, infatti, molto spesso affidandosi ad inconsulte
speranze, possono trascinare se stessi in manifesti pericoli e noi con
loro".
100.
Meli: "Or dunque, se voi affrontate cosi gravi rischi per non perdere il
vostro predominio e quelli che ormai sono vostri schiavi tanti ne affrontano
per liberarsi di voi, non sarebbe una grande viltà e vergogna per noi, che
siamo ancora liberi, se non tentassimo ogni via per evitare la
schiavitù?".
101.
Ateniesi: "No; almeno se voi deliberate con prudenza: poiché questa non è
una gara di valore tra voi e noi, a condizione di parità, per evitare il
disonore; ma si tratta, piuttosto, della vostra salvezza, perché non abbiate ad
affrontare avversari che sono di voi molto più potenti".
102.
Meli: "Ma sappiamo pure che le vicende della guerra prendono talvolta
degli sviluppi più semplici che non lasci prevedere la sproporzione di forze
fra le due parti. Ad ogni modo, per noi cedere subito significa dire addio a
ogni speranza: se, invece, ci affidiamo all'azione, possiamo ancora sperare che
la nostra resistenza abbia successo".
103.
Ateniesi: "La speranza, che tanto conforta nel pericolo, a chi le affida solo
il superfluo porterà magari danno, ma non completa rovina. Ma quelli che a un
tratto di dado affidano tutto ciò che hanno (poiché la speranza è, per natura,
prodiga) ne riconoscono la vanità solo quando il disastro è avvenuto; e,
scoperto che sia il suo gioco, non resta più alcun mezzo per potersene guardare
in futuro. Perciò, voi che non siete forti e avete una sola carta da giocare,
non vogliate cadere in questo errore. Non fate anche voi come i più che, mentre
potrebbero ancora salvarsi con mezzi umani, abbandonati sotto il peso del male
i motivi naturali e concreti di sperare, fondano la loro fiducia su ragioni
oscure: predizioni, vaticini, e altre cose del genere, che incoraggiano a
sperare, ma poi traggono alla rovina".
104.
Meli: "Anche noi (e potete ben crederlo) consideriamo molto difficile
cimentarci con la potenza vostra e contro la sorte, se non sarà ad entrambi
ugualmente amica. Tuttavia abbiamo ferma fiducia che, per quanto riguarda la
fortuna che procede dagli dei, non dovremmo avere la peggio, perché, fedeli
alla legge divina, insorgiamo in armi contro l'ingiusto sopruso; quanto all'inferiorità
delle nostre forze, ci assisterà l'alleanza di Sparta, che sarà indotta a
portarci aiuto, se non altro, per il vincolo dell'origine comune e per il
sentimento d'onore. Non è, dunque, al tutto priva di ragione la nostra
audacia".
105.
Ateniesi: "Se è per la benevolenza degli dèi, neppure noi abbiamo paura di
essere da essi trascurati; poiché nulla noi pretendiamo, nulla facciamo che non
s'accordi con quello che degli dei pensano gli uomini e che gli uomini stessi
pretendono per sé. Gli dèi, infatti, secondo il concetto che ne abbiamo, e gli
uomini, come chiaramente si vede, tendono sempre, per necessità di natura, a
dominare ovunque prevalgano per forze. Questa legge non l'abbiamo istituita noi,
non siamo nemmeno stati i primi ad applicarla; così, come l'abbiamo ricevuta e
come la lasceremo ai tempi futuri e per sempre, ce ne serviamo, convinti che
anche voi, come gli altri, se aveste la nostra potenza, fareste altrettanto. Da
parte degli dèi, dunque, com'è naturale, non temiamo di essere in posizione di
inferiorità rispetto a voi. Per quel che riguarda l'opinione che avete degli
Spartani, e sulla quale basate la vostra fiducia che essi accorreranno in vostro
aiuto per non tradire l'onore, noi vi complimentiamo per la vostra ingenuità,
ma non possiamo invidiare la vostra stoltezza. Gli Spartani, infatti, quando si
tratta di propri interessi e delle patrie istituzioni, sono più che mai seguaci
della virtù; ma sui loro rapporti con gli altri popoli, molto ci sarebbe da
dire: per riassumere in breve, si può con molta verità dichiarare che essi, più
sfacciatamente di tutti i popoli che conosciamo, considerano virtù ciò che
piace a loro e giustizia ciò che loro è utile: un tal modo di pensare, dunque,
non si accorda con la vostra stolta speranza di salvezza.
106.
Meli: Anzi, è proprio questa la ragione che ci infonde la massima fiducia in
quello che è un effettivo interesse loro: non vorranno essi, tradendo i Meli
che sono loro coloni, suscitare il sospetto fra i Greci amici e favorire in tal
modo i loro nemici".
107.
Ateniesi: "Voi, dunque, non siete convinti che l'interesse di un popolo s’identifichi
con la sua sicurezza, mentre giustizia e onestà si servono a rischio di
pericoli: e questo è un coraggio che, di solito, gli Spartani assolutamente non
dimostrano".
108.
Meli: "Eppure noi siamo sicuri che, per la causa nostra, essi
affronteranno più volentieri anche i pericoli e meno gravi li giudicheranno in
confronto agli altri; perché, come campo di azione, siamo vicini al Peloponneso
e, per disposizione d'animo, data la comune origine, diamo una garanzia di
fedeltà maggiore degli altri". 109. Ateniesi: "Non è tanto la
simpatia di coloro che invocano l'aiuto che garantisce la sicurezza di chi si
accinge a portarlo, quanto, piuttosto, la superiorità effettiva delle loro
forze: a questo gli Spartani badano anche più degli altri (non si fidano, si
vede, della propria potenza e, per marciare contro i vicini, hanno bisogno
dell'appoggio di molti alleati); sicché non c’è da pensare che essi facciano
uno sbarco in un'isola, quando siamo noi i padroni del mare".
110.
Meli: "Potrebbero, però, incaricare altri dell'impresa: è vasto il mare di
Creta, e sarà meno facile ai padroni del mare intercettare i convogli nemici,
che a questi mettersi in salvo se vogliono non farsi scorgere. E se anche qui
dovessero fallire, potrebbero volgersi contro il vostro paese e contro quello
dei vostri alleati che non sono stati attaccati da Brasida[22];
e così voi dovreste combattere non tanto per un paese estraneo, quanto per
difendere i vostri alleati e il vostro stesso paese".
111.
Ateniesi: "In tal caso non si tratterebbe di un’esperienza nuova, nemmeno
per voi, che ben sapete come gli Ateniesi non si siano mai ritirati da alcun
assedio, per paura d'altri. Osserviamo, invece, che, mentre dicevate di voler
deliberare per la vostra salvezza, nulla in così lungo colloquio avete ancora
detto, che possa giustificare in un popolo la fiducia e la certezza che esso sarà
salvato dalla rovina: la vostra massima sicurezza è affidata a speranze che si
volgono al futuro; le forze di cui al momento disponete non sono sufficienti a
garantirvi la vittoria su quelle che, già ora, vi sono contrapposte. Darete,
quindi, prova di grande stoltezza di mente, se anche dopo che ci avrete congedato,
non prenderete qualche altra decisione che sia più saggia di queste. Poiché non
dovrete lasciarvi fuorviare dal punto d'onore che tanto spesso porta gli uomini
alla rovina tra pericoli inevitabili e senza gloria. Molti, infatti, che pur
vedevano ancor chiaramente a quale sorte correvano, furono attirati da quello
che noi chiamiamo sentimento d'onore, dalla suggestione di un nome pieno di
lusinghe; sicché, soggiogati da quella parola, in effetto piombarono ad occhi
aperti in mali senza rimedio, attirandosi un disonore più grave di quello che
volevano fuggire, perché frutto della loro stoltezza, non imposto dalla sorte.
Da questo errore voi vi guarderete, se intendete prendere una buona decisione;
e converrete che non ha nulla di infamante il riconoscere la superiorità della
città più potente di Grecia, che ha propositi di moderazione; diventarne
alleati e tributari, conservando la sovranità nel vostro paese. Dato che vi si
offre la scelta tra la guerra e la vostra sicurezza, non ostinatevi nel partito
peggiore: il massimo successo arriderà sempre a quelli che s’impongono a chi ha
forze uguali, mentre con i più forti si comportano onorevolmente e quelli più
deboli trattano con moderazione e giustizia. Riflettete, dunque, anche quando
noi ci ritireremo; ripetetevi spesso che è per la patria vostra che deliberate;
che la patria è una sola, e la sua sorte da una sola deliberazione sarà decisa,
di salvezza o di rovina".
112.
Gli Ateniesi si ritirarono dalla sala del convegno; e i Meli, restati soli, costatato
che il loro punto di vista rimaneva presso a poco quale l'avevano esposto,
formularono questa risposta: "Noi, o Ateniesi, non la pensiamo
diversamente da prima; né mai ci indurremo a privare della sua libertà, in
pochi momenti, una città che ha già 700 anni di vita, ma, fidando nella buona
sorte che fino ad oggi, con l'aiuto degli dei, l’ha salvata e nell'appoggio
degli uomini, specie di Sparta, faremo di tutto per conservarla. Vi proponiamo
la nostra amicizia e neutralità, a patto che vi ritiriate dal nostro paese,
dopo aver concluso degli accordi che diano garanzia di tutelare gli interessi
di entrambe le parti".
113.
Tale fu la risposta dei Meli; e gli Ateniesi, mettendo fine ormai al colloquio,
dissero: "A quanto pare, dunque, da queste decisioni, voi siete i soli a
considerare i beni futuri come più evidenti di quelli che avete davanti agli
occhi; mentre con il desiderio voi vedete già tradotto in realtà ciò che ancora
è incerto e oscuro. Orbene, poiché vi siete affidati agli Spartani, alla
fortuna e alla speranza, e in essi avete riposto la fiducia più completa,
altrettanto completa sarà pure la vostra rovina".
114.
Gli inviati di Atene se ne tornarono, quindi, all'accampamento; e i generali
allora, vedendo che i Meli non volevano sentir ragione, subito si accinsero ad
atti di guerra, e, ripartitisi per città i vari settori, costruirono un muro
tutto intorno ai nemici. Poi gli Ateniesi lasciarono in terra e sul mare un
presidio formato di soldati loro e alleati; quindi, con la maggior parte delle
truppe si ritirarono. La guarigione rimasta sul posto continuò l'assedio.
115.
Nello stesso periodo, gli Argivi fecero irruzione nel territorio di Fliunte[23];
ma, sorpresi in un'imboscata dai Fliasii, che erano rinforzati dagli esuli di
Argo, lasciarono sul terreno circa ottanta uomini. Gli Ateniesi, rientrati da
Pilo, avevano portato un ricco bottino degli Spartani; questi, però, anche così
rifiutarono di rompere la tregua e far guerra aperta; tuttavia fecero
proclamare per mezzo di araldi che autorizzavano chiunque volesse dei loro a
depredare gli Ateniesi; i Corinzi per delle divergenze particolari dichiararono
guerra ad Atene: tutto il resto del Peloponneso se ne stava tranquillo. Una
notte i Meli attaccarono quella parte del muro degli Ateniesi che guardava la
piazza del mercato e l'espugnarono: uccisero alcuni difensori, introdussero in
città viveri e tutto quanto poterono trovare di generi utili, quindi si
ritirarono e stettero all'erta. Gli Ateniesi, in seguito, provvidero a
migliorare il servizio di guardia. Intanto anche l'estate volgeva al termine.
116.
Nell'inverno seguente gli Spartani fecero i preparativi per un’irruzione
nell'Argolide; ma, siccome i sacrifici fatti sui confini per il successo della
spedizione non erano stati favorevoli, si ritirarono. Gli Argivi allora, in
seguito a questo tentativo, sospettarono di complicità alcuni dei loro
concittadini: qualcuno fu arrestato, qualche altro si diede alla fuga. Nella
stessa epoca, i Meli con un nuovo assalto espugnarono un'altra parte del muro
ateniese, approfittando che le guardie non erano numerose. Ma più tardi,
siccome questi tentativi si ripetevano, venne da Atene una seconda spedizione,
al comando di Filocrate, figlio di Demeo; sicché, stretti ormai da un assedio
molto rigoroso, ed essendosi anche presentato il tradimento, i Meli si arresero
senza condizioni agli Ateniesi. Questi passarono per le armi tutti gli adulti
caduti nelle loro mani e resero schiavi i ragazzi e le donne: quindi occuparono
essi stessi l'isola e più tardi vi mandarono 500 coloni.
Comprensione
del testo
1. Con quali argomentazioni gli ateniesi chiedono ai
melii di sottomettersi?
2. Quali argomenti invocano i melii a difesa della loro
autonomia? Elencali, annotando quando lo fanno in nome del giusto o dell’utile.
3. Come giustificano i melii la decisione di non
arrendersi?
4. Come rifiutano gli ateniesi l’accusa di mettersi
contro la divinità e la giustizia?
5. Ricostruisci l’analisi strategica degli ateniesi che
giustifica l’esigenza di ottenere sottomissione e non amicizia dai melii.
6. Spiega quali valori, secondo i melii, andrebbero
completamente persi se si accettasse la logica del dominio e della sottomissione.
7.
Il dialogo
rivela un’irriducibile divergenza tra gli ateniesi e i melii. Pensi che ciò sia
frutto della differente posizione nei rapporti di potere o di una diversità di
principi?
Analisi
del testo
1. La forza giustifica il dominio?
2. Che cosa dà il diritto ad una popolazione di dominare altre popolazioni, se
a trarne vantaggio sono soprattutto, se non solamente, i dominatori?
3. Qual è l’inquietante risposta di
Tucidide.
4. Quali sono i punti salienti del dialogo e quali
sono le argomentazioni?
5. Vale la legge del più forte?
Approfondimenti
1.
Ragioni
strategiche e principi di giustizia sono spesso in conflitto nella politica
internazionale. Con l’aiuto dell’insegnante, puoi svolgere una ricerca
sull’argomento dei diritti umani, a partire dall’articolo 11 della Costituzione
italiana.
Mat 1 Il testo
argomentativo
Il testo argomentativo è un testo in cui l'autore esprime le proprie
opinioni o tesi su un determinato problema.
Questo tipo di testo serve a convincere il destinatario che il proprio
punto di vista è corretto. I testi argomentativi sono, le prediche in chiesa, i
discorsi politici, i discorsi degli avvocati, gli articoli culturali o di
fondo, i saggi, i testi pubblicitari, le recensioni di un avvenimento artistico e culturale, un tema
scolastico su un problema di attualità.
Per scrivere un testo argomentativo si usano delle argomentazioni cioè dei
ragionamenti per dimostrare che la tesi può essere condivisa.
Il testo argomentativo è formato dai seguenti elementi:
• Un problema da
discutere
• La tesi in cui l'autore esprime la
propria idea.
• Uno o più argomenti per convincere il
destinatario e eventualmente demolire le ipotesi contrarie (antitesi) attraverso dei ragionamenti
logici.
• Nelle argomentazioni
si può far riferimento a persone autorevoli (Il
premio Nobel Rita Levi Montalcini ha dichiarato…), enti o Istituti (Il
WWF ha confermato…; secondo le ricerche statistiche dell'ISTAT…) per dare
più forza alle proprie opinioni sul problema trattato.
Di solito il lessico è
semplice e comprensibile, tranne quando il testo argomentativo è destinato a
riviste scientifiche o testi specialistici.
L'emittente può
presentare la tesi in due modi:
• esplicitamente (Secondo me, il buco nell'ozono è dovuto all'effetto
serra);
• affermando semplicemente (Il buco nell'ozono è dovuto all'effetto
serra).
Il discorso alterna
coordinate e subordinate. Si usano spesso degli avverbi, delle congiunzioni e
delle locuzioni per collegare le frasi e le parti delle argomentazioni:
• legami di causa-conseguenza (quindi, perciò, dal momento che,
pertanto, di conseguenza);
• con valore dimostrativo (in realtà, in effetti, insomma, in
conclusione);
• con valore avversativo (ma, nonostante, tuttavia, mentre, invece);
• con valore additivo (anche,
allo stesso modo, ancora, inoltre, infine).
Dopo
Pericle iniziò il declino, che sfociò nel IV secolo in una crisi delle
istituzioni democratiche.
Le
avvisaglie c’erano già state prima, quando il partito oligarchico aveva
denunciato la pericolosità di un sistema che coinvolgesse tutti, anche i meno
dotati. Ci furono episodi di instabilità politica che ebbero ripercussioni sul
piano militare, che a loro volta portarono a ripetuti tentativi di
restaurazione oligarchica, compreso quello ben riuscito imposto da Sparta nel 404 con il regime dei Trenta
tiranni.
I
successivi tentativi di restaurazione democratica non poterono poi fare a meno
di agire sul diritto di cittadinanza, ripristinando in merito la legge di Pericle, così come dal 403 a.C. dovette
essere introdotta la procedura legislativa della nomothesía, cioè la differenziazione tra le leggi (nómoi), approvate dalla commissione
dei nomoteti, ed i decreti approvati invece dal démos, ai
quali fu attribuito un peso minore e sui quali si cercò di convogliare le
questioni meno importanti, proprio per evitare i pericoli della volubilità
popolare.
Altro
elemento di degradazione democratica fu l’estensione della pratica del misthòs,
la retribuzione per le cariche pubbliche, per bloccare l’assenteismo ed evitare
la paralisi.
Circa mezzo secolo più tardi (nel
411 a.C.) si arrivò al secondo grande trauma della democrazia, di segno opposto
al precedente: il governo dei Quattrocento, favorito dai sostenitori
della pátrios politeía,
una posizione moderata e centrista che proponeva l'accostamento
Clistene/Solone, tipico di una concezione politica che voleva salvare i tratti
più moderati e conservatori della costituzione democratica. In forme assai più
aspre si presentò il colpo di Stato dei Trenta tiranni, che da un lato ripeté,
dall'altro aggravò, in senso negativo, l'esperienza dei Quattrocento.
La teoria costituzionale della
democrazia ateniese è molto semplice: il popolo è sovrano (kurios). Sieda nell’Assemblea o nei
tribunali, è il sovrano assoluto di tutto ciò che concerne la città e i
cittadini sono liberi e uguali sotto l’egida della legge.
La riflessione filosofica del V-IV
secolo a.C. fu però generalmente ostile alla democrazia.
Quando la filosofia, con Socrate,
Platone e, sia pure in misura meno radicale, con Aristotele, iniziò a
riflettere sistematicamente sui fondamenti della democrazia, assunse un
atteggiamento critico e polemico.
Non mancarono tuttavia, soprattutto
in ambiente sofistico, tentativi di legittimare teoreticamente la prassi
democratica. Il più interessante di questi tentativi fu compiuto da Protagora
di Abdera, uno degli intellettuali più prestigiosi e celebri, attivi ad Atene
nella seconda metà del V secolo.
Protagora racconta il mito di Prometeo
·
Nel Protagora Platone fa esporre al sofista il mito
sull'origine della civiltà.
·
In base al racconto di Protagora nella distribuzione
originaria delle capacità, che Zeus affidò al poco previdente Epimeteo, gli
uomini restarono privi di dotazioni naturali, cioè senza forza, velocità,
robustezza, ecc., e di conseguenza non erano in grado di sopravvivere di fronte
alla soverchiante forza degli altri esseri viventi. Per supplire a questa
carenza, Prometeo donò agli uomini la sapienza tecnica, cioè la competenza
artigianale (demiourgikè techne) sotto forma
di fuoco.
·
Per Protagora, tuttavia, il possesso di una competenza
tecnico-artigianale non è ancora sufficiente a garantire la sopravvivenza,
perché gli uomini sono naturalmente portati a sopraffarsi a vicenda e, sulla
base della sola dotazione tecnica, non risultano orientati ad associarsi tra
loro e a dare vita a forme di collaborazione e a nuclei associativi.
·
Per questa ragione intervenne direttamente Zeus, donando la
tecnica politica (politikè techne),
la quale si costituisce di due principi: il rispetto (aidòs),
cioè una forma di riconoscimento reciproco, e il senso di giustizia (dike).
·
A differenza delle dotazioni naturali e delle singole
competenze artigianali, la tecnica politica fu distribuita a tutti gli uomini,
i quali risultano così legittimati ad assumere le decisioni che riguardano la
vita della comunità.
·
Il mito di Protagora viene considerato il ‘manifesto’
dell'ideologia democratica perché in esso trova giustificazione una certa forma
di uguaglianza tra gli uomini, i quali sono tutti, almeno potenzialmente, in
possesso della virtù politica, cioè sia di una dotazione minima di competenze
utili a governare la città, sia di un'autonomia decisionale, che rinvia a una
soggettività autonoma e trasparente. In altre parole, Protagora sembra fondare
la tesi fondamentale dell'ideologia democratica, che stabilisce che i membri di
un gruppo chiamati a discutere, a deliberare e a istituire norme valide per
tutti, sono liberi e consapevoli, cioè perfettamente in grado di stipulare un
patto negoziale.
Ci fu un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali. Quando
giunse anche per queste il momento fatale della nascita, gli dei le plasmarono
nel cuore della terra, mescolando terra, fuoco e tutto ciò che si amalgama con
terra e fuoco. Quando le stirpi mortali stavano per nascere, gli dei ordinarono
a Prometeo e a Epimeteo[26] di dare con misura e
distribuire in modo opportuno a ciascuno le facoltà naturali.
Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione:
"Dopo che avrò distribuito - disse - tu controllerai".
Così, persuaso Prometeo, iniziò a distribuire. Nella distribuzione, ad
alcuni dava forza senza velocità, mentre donava velocità ai più deboli; alcuni
forniva di armi, mentre per altri, privi di difese naturali, escogitava diversi
espedienti per la sopravvivenza.
Ad esempio, agli esseri di piccole dimensioni forniva una possibilità di
fuga attraverso il volo o una dimora sotterranea; a quelli di grandi
dimensioni, invece, assegnava proprio la grandezza come mezzo di salvezza.
Secondo questo stesso criterio distribuiva tutto il resto, con equilibrio.
Escogitava mezzi di salvezza in modo tale che nessuna specie potesse
estinguersi. Procurò agli esseri viventi possibilità di fuga dalle reciproche
minacce e poi escogitò per loro facili espedienti contro le intemperie
stagionali che provengono da Zeus. Li avvolse, infatti, di folti peli e di dure
pelli, per difenderli dal freddo e dal caldo eccessivo. Peli e pelli
costituivano inoltre una naturale coperta per ciascuno, al momento di andare a dormire.
Sotto i piedi di alcuni mise poi zoccoli, sotto altri unghie e pelli dure e
prive di sangue.
In seguito procurò agli animali vari tipi di nutrimento, per alcuni erba,
per altri frutti degli alberi, per altri radici. Alcuni fece in modo che si nutrissero
di altri animali: concesse loro, però, scarsa prolificità, che diede invece in
abbondanza alle loro prede, offrendo così un mezzo di sopravvivenza alla
specie.
Ma Epimeteo non si rivelò bravo fino in fondo: senza accorgersene aveva
consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione. Il genere umano era
rimasto dunque senza mezzi, e lui non sapeva cosa fare.
In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide
gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era
nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi. Intanto era giunto il giorno
fatale, in cui anche l’uomo doveva nascere.
Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo,
rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco - infatti, era
impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco - e li donò all’uomo.
All’uomo fu concessa in tal modo la perizia tecnica necessaria per la vita, ma
non la virtù politica. Questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era più
possibile accedere all’Acropoli, la dimora di Zeus, protetta da temibili
guardie.
Entrò allora di nascosto nella casa comune di Atena ed Efesto, dove i due
lavoravano insieme. Rubò quindi la scienza del fuoco di Efesto e la perizia
tecnica di Atena e le donò all’uomo. Da questo dono derivò all’uomo abbondanza
di risorse per la vita, ma, come si narra, in seguito la pena del furto colpì
Prometeo, per colpa di Epimeteo.
Quando l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la
parentela con gli dei, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in
loro, e innalzò altari e statue di dei. Poi subito, attraverso la tecnica,
articolò la voce con parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e
l’agricoltura.
Con questi mezzi in origine gli uomini vivevano sparsi qua e là, non
c’erano città; perciò erano preda di animali selvatici, essendo in tutto più
deboli di loro. La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il
cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve (infatti, gli uomini non
possedevano ancora l’arte politica, che comprende anche quella bellica).
Cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che
stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non
conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano.
Zeus dunque, temendo che la nostra specie si estinguesse del tutto, inviò
Ermes per portare agli uomini rispetto e giustizia, affinché fossero fondamenti
dell’ordine delle città e vincoli d’amicizia.
Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire rispetto e giustizia
agli uomini: «Devo distribuirli come sono state distribuite le arti? Per
queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta
per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi
devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a
tutti gli uomini?»
«A tutti - rispose Zeus - e tutti ne siano partecipi; infatti, non
esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come
succede per le arti. Istituisci inoltre a nome mio una legge in base alla quale
si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e
giustizia».
Per questo motivo, Socrate, gli Ateniesi e tutti gli altri, quando si
discute di architettura o di qualche altra attività artigianale, ritengono che
spetti a pochi la facoltà di dare pareri e non tollerano, come tu dici -
naturalmente, dico io - se qualche profano vuole intromettersi. Quando invece
deliberano sulla virtù politica - che deve basarsi tutta su giustizia e
saggezza - ascoltano il parere di chiunque, convinti che tutti siano partecipi
di questa virtù, altrimenti non ci sarebbero città.
Questa è la spiegazione, Socrate. Ti dimostro che non ti sto ingannando:
eccoti un’ulteriore prova di come in realtà gli uomini ritengano che la
giustizia e gli altri aspetti della virtù politica spettino a tutti. Si tratta
di questo. Riguardo alle altre arti, come tu dici, se qualcuno afferma di
essere un buon auleta o esperto in qualcos'altro e poi dimostri di non esserlo,
viene deriso e disprezzato; i familiari, accostandosi a lui, lo rimproverano
come se fosse pazzo. Riguardo alla giustizia, invece, e agli altri aspetti
della virtù politica, quand’anche si sappia che qualcuno è ingiusto, se costui
spontaneamente, a suo danno, lo ammette pubblicamente, ciò che nell’altra
situazione ritenevano fosse saggezza - dire la verità - in questo caso la
considerano una follia: dicono che è necessario che tutti diano l’impressione
di essere giusti, che lo siano o no, e che è pazzo chi non finge di essere
giusto. Secondo loro è inevitabile che ognuno in qualche modo sia partecipe
della giustizia, oppure non appartiene al genere umano. Dunque gli uomini
accettano che chiunque deliberi riguardo alla virtù politica, poiché ritengono
che ognuno ne sia partecipe.
Ora tenterò di dimostrarti che essi pensano che questa virtù non derivi né
dalla natura né dal caso, ma che sia frutto di insegnamento e di impegno in
colui nel quale sia presente. Nessuno disprezza né rimprovera né ammaestra né
punisce, affinché cambino, coloro che hanno difetti che, secondo gli uomini,
derivano dalla natura o dal caso. Tutti provano compassione verso queste
persone: chi è così folle da voler punire persone brutte, piccole, deboli?
Infatti, io credo, si sa che le caratteristiche degli uomini derivano dalla
natura o dal caso, sia le buone qualità, sia i vizi contrari a queste. Se
invece qualcuno non possiede quelle qualità che si sviluppano negli uomini con
lo studio, l’esercizio, l’insegnamento, mentre ha i vizi opposti, è biasimato,
punito, rimproverato.
MAT 2 I miti in Platone
Gli studiosi hanno individuato le risonanze ed i
legami tra i poemi mitici ed i primi filosofi, i presocratici, che scrivono
anch’essi poemi, di cui abbiamo solo frammenti, intitolati "Περί φύσεος" (sulla natura). Ma con Platone ci troviamo ad una situazione paradossale: egli rifiuta
la poesia ed il mito, fonti di pura fantasia e di falsità, ma che nei suoi
dialoghi ricorre a spunti poetici e soprattutto a miti (gli studiosi ne hanno conteggiati ventitré).
Dunque per un verso Platone rappresenta il passaggio
definitivo dal μύθος, racconto favolistico, al trionfo del pensiero razionale,
al λόγος e sembra con le sue affermazioni dar ragione allo schema dal mito al
logos razionale. Ma poi qualcosa non funziona, questo schema che egli stesso
presenta non corrisponde del tutto a quello che troviamo poi nei suoi dialoghi.
In effetti, pur
attaccando il valore conoscitivo dei miti, poi li dissemina nella sua intera
opera di conoscenza. Ma allora i
miti non sono del tutto estranei a questa finalità conoscitiva. Non c’è quella
frattura totale tra mito e pensiero razionale. I miti in realtà hanno funzioni
diverse nei differenti dialoghi platonici. Essi sono di volta in volta:
1.
un semplice
espediente didattico-espositivo di cui Platone fa uso per comunicare in maniera
più accessibile e intuitiva le sue dottrine.
2.
Un mezzo per
superare quei limiti oltre i quali l'indagine razionale non può andare,
diventando un vero e proprio strumento di verità, una "via
alternativa" al solo pensiero
filosofico, grazie alla sua capacità di armonizzare unitariamente gli
argomenti.
3.
Un momento in cui
Platone esprime la bellezza della verità
filosofica, in cui questa si manifesta anche con immagini e figure sensibili, e
di fronte alla quale i discorsi razionali sono insufficienti Platone ha un
atteggiamento diverso nei confronti del mito, che ritiene vada rivalutato
perché utile, e anzi necessario, alla comprensione.
Il mito va inteso come esposizione di un pensiero ancora
nella forma di racconto, quindi non come ragionamento puro e rigoroso.
Esso ha una funzione allegorica e didascalica,
presenta cioè una serie di concetti attraverso immagini che facilitano il
significato di un discorso piuttosto complesso, cercando di renderne
comprensibili i problemi, e creando nel lettore una nuova tensione
intellettuale, un atteggiamento positivo nei confronti dello sviluppo della
riflessione.
La
degenerazione deriva dalla democrazia
da La Repubblica[27]
di Platone.
·
La parola demokratia è in sé stessa una
parola di rottura, in quanto esprime
la prevalenza di una parte e non, invece, la partecipazione di
tutti coloro che sono dotati di cittadinanza alla gestione della politeia.
·
Tra le definizioni
teoriche della democrazia antica vale la pena di prendere in considerazione
quella di Platone, secondo
la quale la democrazia nasce dalla violenza popolare, che induce il demos, dopo la vittoria politica, a
infierire penalmente (con l'esilio) e per via di fatto sui ricchi.
·
Lo stesso ostracismo,
che nasce per prevenire tentativi di accentramento del potere da parte di
individui dotati di eccessivo prestigio politico, può essere pensato come una
forma di repressione basata sul sospetto, sull'illazione o sull'inganno da parte
di una parte politica che alimenta la "cattiva stampa" di cui gode
l'avversario più in vista; queste osservazioni, tra l'altro, non perdono di
significato anche qualora si consideri l'ostracismo o qualsiasi altra forma di
controllo poliziesco come un prodotto inevitabile della vita in una comunità
ristretta, in cui ciascun membro ha l'effettiva possibilità di avere
quotidianamente dei contatti significativi coi concittadini.
Quando
la città retta a democrazia si ubriaca di libertà, confondendola con la licenza[28],
con l’aiuto di cattivi coppieri costretti a comprarsi l’immunità[29]
con dosi sempre massicce d’indulgenza verso ogni sorta di illegalità e di
soperchieria; quando questa città si copre di fango, accettando di farsi serva
di uomini di fango, per continuare a vivere e ad ingrassare nel fango; quando
il padre si abbassa al livello del figlio e si mette, bamboleggiando, a
copiarlo perché ha paura del figlio; quando il figlio si mette alla pari del
padre e, lungi da rispettarlo, impara a disprezzarlo per la sua pavidità;
quando il cittadino accetta che, di dovunque venga, chiunque gli capiti in
casa, possa acquistarvi gli stessi diritti di chi l’ha costruita e ci è nato;
quando i capi tollerano tutto questo per guadagnare voti e consensi in nome di
una libertà che divora e corrompe ogni regola ed ordine; c’è da meravigliarsi
che l’arbitrio si estenda a tutto e che dappertutto nasca l’anarchia e penetri
nelle dimore private e perfino nelle stalle?
In
un ambiente siffatto, in cui il maestro teme ed adula gli scolari e gli scolari
non tengono in alcun conto i maestri; in cui tutto si mescola e si confonde; in
cui chi comanda finge, per comandare sempre di più, di mettersi al servizio di
chi è comandato e ne lusinga, per sfruttarli, tutti i vizi; in cui i rapporti
tra gli uni e gli altri sono regolati soltanto dalle reciproche convenienze
nelle reciproche tolleranze; in cui la demagogia dell’uguaglianza rende
impraticabile qualsiasi selezione, ed anzi costringe tutti a misurare il passo
delle gambe su chi le ha più corte; in cui l’unico rimedio contro il
favoritismo consiste nella molteplicità e moltiplicazione dei favori; in cui
tutto è concesso a tutti in modo che tutti ne diventino complici; in un
ambiente siffatto, quando raggiunge il culmine dell’anarchia e nessuno è più
sicuro di nulla e nessuno è più padrone di qualcosa perché tutti lo sono, anche
del suo letto e della sua madia[30]
a parità di diritti con lui e i rifiuti si ammonticchiano per le strade, perché
nessuno può comandare a nessuno di sgombrarli; in un ambiente siffatto, dico,
pensi tu che il cittadino accorrerebbe a difendere la libertà, quella libertà,
dal pericolo dell’autoritarismo?
Ecco,
secondo me, come nascono le dittature. Esse hanno due madri.
Una
è l’oligarchia quando degenera, per le sue lotte interne, in satrapia. L’altra
è la democrazia quando, per sete di libertà e per l’inettitudine dei suoi capi,
precipita nella corruzione e nella paralisi.
Allora
la gente si separa da coloro cui fa la colpa di averla condotta a tale disastro
e si prepara a rinnegarla prima coi sarcasmi, poi con la violenza che della
dittatura è pronuba e levatrice.
Così
la democrazia muore: per abuso di se stessa.
E
prima che nel sangue, nel ridicolo.
I limiti della democrazia
Dalla Politica
(VI, 2) di Aristotele
·
Nel II libro della Politica Aristotele fa la famosa
distinzione tra le forme "buone" di governo dello Stato (monarchia,
aristocrazia e politeia) e le tre forme degenerate (tirannia, oligarchia e democrazia).
Ciò che Aristotele definiva politeia è quella che oggi noi chiameremmo
democrazia mentre quella che egli chiama democrazia (degenerazione della
politeia) è quella che oggi chiameremmo demagogia (nella prima governa il démos,
il popolo, nella seconda il potere è dell'oklos, la folla, la plebaglia guidata
dal primo capopopolo di turno. Per Aristotele la migliore forma di governo è
proprio la politeia quindi quella aristotelica è più una democrazia
"aristocratica".
·
Secondo Aristotele l'aspetto caratterizzante della democrazia è che in
essa il criterio del numero prevale su quello del giusto: i poveri perciò
prevalgono sui ricchi. Il fatto che poi, com’è tipico della democrazia
ateniese, le magistrature siano sorteggiate, va a discapito della competenza.
Base della costituzione democratica è la libertà (così si è soliti dire, quasi che in questa sola costituzione gli uomini partecipino di libertà, perché è questo, dicono, il fine di ogni democrazia).
Una prova della libertà consiste
nell'essere governati e nel governare a turno: in realtà, il giusto, in senso
democratico, consiste nell'avere uguaglianza in rapporto al numero e non al
merito, ed essendo questo il concetto di giusto, di necessità la massa è
sovrana e quel che i più decidono ha valore di fine ed è questo il giusto: in
effetti dicono che ogni cittadino deve avere parti uguali. Di conseguenza
succede che nelle democrazie i poveri siano più potenti dei ricchi perché sono
di più e la decisione della maggioranza è sovrana.
E questo, dunque, un segno della libertà
che tutti i fautori della democrazia stabiliscono come nota distintiva della
costituzione.
Un altro è di vivere ciascuno come vuole,
perché questo, dicono, è opera della libertà, in quanto che è proprio di chi è
schiavo vivere non come vuole. Ecco quindi la seconda nota distintiva della
democrazia; di qui è venuta la pretesa di essere preferibilmente sotto nessun
governo o, se no, di governare e di essere governati a turno: per questa via
contribuisce alla libertà fondata sull'uguaglianza.
Posti questi fondamenti e tale essendo la
natura del governo democratico, le seguenti istituzioni sono democratiche: i
magistrati li eleggono tutti tra tutti; tutti comandano su ciascuno e ciascuno
a turno su tutti: le magistrature sono sorteggiate o tutte o quante non
richiedono esperienza e abilità; le magistrature non dipendono da censo alcuno
o minimo; lo stesso individuo non può coprire due volte nessuna carica o
raramente o poche, a eccezione di quelle militari[31]; le cariche sono di breve
durata o tutte o quante è possibile; le funzioni di giudice sono esercitate da
tutti.
[1] Gruppo sociale intermedio tra la famiglia in senso ampio e la
tribù, il cui carattere fondamentale è dato dall’esogamia, e l’appartenenza al
quale si acquista per discendenza paterna o materna; i membri del clan si
considerano discendenti da un comune progenitore che ha per lo più carattere
mitico, e di conseguenza seguono regole di comportamento sociale simili a
quelle in uso fra consanguinei.
[2] La tribù indicava un raggruppamento sociale di carattere antropologico che più tardi ebbe un carattere politico.
[3] Fusione di dottrine di origine diversa, sia nella sfera delle
credenze religiose sia in quella delle concezioni filosofiche.
[4] Solone di Atene fu un grande
legislatore, che credeva in quello che faceva, e ciò che c’è giunto sotto il
suo nome c’è giunto testimonia della sua volontà di trasmettere ai suoi
concittadini le sue idee e la saggezza acquisita nella sua attività politica,
l'ispirazione morale delle sue riforme.
Solone nacque ad
Atene nel 640 da una famiglia aristocratica. Si era già segnalato come poeta
con una celebre elegia per la conquista di Salamina intorno al 600, quando fu
nominato arconte con poteri straordinari nel 594: gli aristocratici al potere
ebbero la paura di perdere il potere per cui nominarono lui. Solone respinse la
richiesta popolare di una ridistribuzione delle terre, ma sancì
retroattivamente l'abolizione delle ipoteche sui terreni dei contadini e
decretò l'illegalità della schiavitù per debiti. I suoi provvedimenti (legge
sull'eredità, riforma monetaria, legge sulla tutela statale degli orfani ecc.) fornirono
la base costituzionale alla repubblica ateniese.
La
sua opera poetica è il primo documento letterario di Atene. Restano frammenti
di elegie politiche e morali (intera c’è giunta la cosiddetta Elegia alle Muse, una specie di
repertorio delle sue idee).
Solone
è poeta della giustizia: su questa divinità fonda il benessere e la pace
sociale della città; basa la convivenza sulla legge. Le sue idee, familiari fin
dall'infanzia a tutti gli ateniesi, furono alla base della grandezza civile di
Atene.
[5] Nella
mitologia greca, Mnemosine (dea della memoria) è figlia di Gea, dea della
terra, e di Urano, il cielo stellato.
Il mito vuole che all’inizio fosse
solo il caos, una massa enorme e confusa che comprendeva in sé tutti gli
elementi, senza ordine né distinzione. Dal Caos nacque, un giorno, Gea, la
Terra ed essa generò l’Erebo (la notte), l’Etere (il giorno), Urano (il cielo
stellato), l’Oceano e i Monti.
Unendosi poi con Urano, Gea creò a
Mnemosine, dea della Memoria, di cui si invaghì Zeus.
Il re dell’Olimpo s’intrattenne con
Mnemosine per nove notti, generandone le nove Muse, protettrici delle arti.
Attribuire carattere divino alla figurazione astratta della memoria distingue
la concezione greca di memoria da quella di altre civiltà antiche. La presenza
di un Dio a sovrintendere alla memoria, significa ed implica la consapevolezza
della funzione fondamentale del ricordare come fattore di cultura e garanzia
della storia dell’uomo che è posta sotto il volere della divinità.
[6] lett. Della
Pieria, regione della Grecia, o del monte Pierio, sacro ad Apollo e alle Muse
[7] innumerevoli
[8] farro
[9] lett. Castigo, pena || pagare il fio, subire la giusta punizione
[10] Lamento provocato da sofferenza
[11] Illudiamo da lusingarsi
[12] servo
[13] In abbondanza
[14] Nave || per sineddoche
[15] Sta per elargirono.
[16] Apollo
[17] profezia
[18] Mitico medico degli dei
[19] Pron. e agg. Indefinito|| Alcuno, nessuno
[20] Imita
[21] millanteria
[22] militare spartano, protagonista della prima fase della guerra del Peloponneso.
[23] Fliunte o Flio era una città situata nella parte nord
orientale del Peloponneso, il cui territorio denominato Fliàsia era
indipendente e limitato a nord da Sicione, a ovest dall'Arcadia, a est da
Cleone, a sud dall'Argolide
[24] Protagora (o Dei Sofisti) è un dialogo di Platone. Interlocutori
sono Socrate, Ippia di Elide,Prodico di Ceo, Callia, Alcibiade e Protagora.
Apre la discussione Protagora, che
afferma essere la sofistica la
base del progresso umano e l'unica scienza capace d'insegnare la virtù politica
(l'arte di convivere assieme).
Socrate avanza dubbi su
quest'ultima affermazione e Protagora, per salvare la sua tesi, introduce un
mito: Giove diede agli uomini la giustizia e il pudore, fondamento della virtù
politica. Questa è quindi una virtù innata e quando la si insegna ai giovani si
cerca di farla armonizzare con la virtù in senso generale.
Socrate allora chiede se le singole
virtù fanno parte della virtù così intesa oppure se ognuna di esse fa parte a
sé. Protagora si dichiara per l'indipendenza delle varie virtù. Intervengono
gli altri presenti; Callia si schiera con Protagora, Alcibiade con Socrate. Ora
l'interrogante è Protagora, che però si slancia in un lungo excursus sulla
differenza fra la “difficoltà di diventar buoni” e la “difficoltà di essere
buoni”.
Socrate, usando le stesse arti di
Protagora, gli rivolta il discorso e gli dimostra che “nessuno fa il male
volontariamente”; quindi riprende le sue domande e chiede a Protagora se
rimanga del parere di prima.
Protagora ammette che le varie
virtù sono simili fra loro, ma che da esse si differenzia il coraggio.
Socrate incalza osservando che
anche il coraggio, se non è folle temerarietà, si riconduce alla saggezza con
cui l'uomo coraggioso disciplina le sue forze. Quindi la virtù è una e come
tale si deve insegnare.
[25] Platone – Platone nacque ad Atene nel
428 a. C. da nobile famiglia, discendente per parte di madre da Solone; secondo Aristotele si familiarizzò con la dottrina
eraclitea. Ma in questo primo periodo la sua attività fu rivolta a composizioni
letterarie, epiche e tragiche. A vent'anni conobbe Socrate, che lo guidò a
un contatto fecondo con la filosofia. A Socrate Platone si mantenne fedele per
tutta la vita, avendo visto in lui l'incarnazione del filosofare; l'intera sua
produzione fu un continuo approfondimento interpretativo della personalità di
Socrate, l'interlocutore principale di molti dialoghi e portavoce della
filosofia originale di Platone.
Il pensiero storico di Socrate è
pertanto trasceso e allo stesso tempo rimane connesso alla sua ispirazione
fondamentale. Già dalla giovinezza parve a Platone che la caratteristica prima
del filosofo, il rapporto con la verità, potesse manifestarsi nella vita
storica, fecondando e alimentando la politica, che riguarda la vita comune degli uomini.
Inizialmente Platone fu tentato di
partecipare alla vita politica della sua città, ma ne fu distolto prima dalle
delusioni provocategli dal governo dei Trenta tiranni, poi dalla restaurata democrazia che se lo
alienò del tutto per aver messo a morte Socrate.
Da allora a Platone fu chiaro che
solo un governo guidato dai filosofi poteva essere degno di venir detto buono.
Dopo la morte di Socrate, Platone
intraprese svariati viaggi, di cui uno forse in Egitto. Significativi per il
rapporto con la politica sono i tre viaggi in Magna Grecia. A Siracusa, dove
divenne amico di Dione, zio di Dionisio il Giovane, Platone tentò di attuare la sua idea
del governante illuminato dal filosofo. Ma Dionisio il Vecchio, allora tiranno della città,
preoccupato dei suoi progetti, lo fece allontanare.
Ritornato ad Atene, Platone
costituì l'Accademia, società culturale, alla quale diede la struttura
di un'associazione religiosa. Quando Dionisio il Giovane succedette al padre,
Platone tornò a Siracusa per riprendere il suo progetto, ma Dionisio deluse
Platone che se ne tornò ad Atene. Una terza volta egli tornò a Siracusa, ma ancora
fallì il suo tentativo di instaurare un governo retto dalla filosofia.
Platone morì ad Atene nel 347.
I dialoghi vengono ordinati in base
a vari criteri stilistici e di contenuto e raggruppati come segue:
1.
I periodo, scritti giovanili socratici, Apologia di Socrate, Critone, Ione, Alcibiade I, Lachete, Liside, Carmide, Eutifrone;
2. II periodo, di
trapasso, Eutidemo, Ippia Minore, Cratilo, Ippia Maggiore, Menesseno, Gorgia, Repubblica I, Protagora, Menone;
3.
III periodo, dottrina delle idee, Fedone, Simposio, Repubblica II-X, Fedro;
4.
IV periodo, autocritica fase finale, Parmenide, Teeteto,Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Le leggi.
A questi dialoghi vanno aggiunte 13 Lettere, di cui la
VII e l'VIII sono in genere date per autentiche. Il carattere dialogico degli
scritti di Platone rappresenta la sostanza stessa della sua filosofia. Il
dialogo platonico è sempre costituito da una tesi aperta, che nel
contraddittorio viene esplicandosi, mentre l'interlocutore-contraddittore
sposta di continuo le sue opposizioni di volta in volta che una verità va
affermandosi.
È lui stesso adeguatamente
sollecitato a riconoscere la verità. Notevole è il cambiamento di stile da un
dialogo all'altro: i dialoghi giovanili sono caratterizzati da interventi brevi
e vivaci da parte dei partecipanti e conservano intatta la loro natura
dialogica; gli ultimi sono appesantiti da lunghi interventi, che svisano
l'andamento del dialogo e ne fanno quasi un trattato. Socrate è quasi sempre il
protagonista, ma negli ultimi dialoghi la sua figura è sempre più sfocata o
addirittura scompare.
[26]
Prometeo, il previdente (il
nome in greco significa “colui che pensa prima”), e suo fratello Epimeteo, lo
stolto (“colui che pensa dopo”), erano Titani,
[27] La Repubblica - Il dialogo dei dieci
libri della Repubblica si svolge tra il 420 ed il 425 a.C.
Socrate si reca presso la casa del
ricco meteco Cefalo, proprietario di una manifattura produttrice di scudi,
durante le feste della dea tracia Bendis, e si avvia il dialogo cui partecipano
il figlio di Cefalo Polemarco ed i fratelli di Platone, Glaucone ed Adimanto.
Nella Repubblica si affrontano tre domande sulla
polis:
1.
qual
è lo scopo?
2.
chi
la deve governare?
3.
Ma
soprattutto qual è il fondamento di questa comunità?
Rispetto alla prima domanda lo
scopo è la coesione
sociale, detto in termini moderni l’equilibrio tra diverse classi, che
devono tutte praticare le virtù per garantire tale coesione.
Le diverse classi riflettono la
prevalenza di una parte dell’anima sulle altre: la parte razionale, la
irascibile, la concupiscibile.
I governanti assumono la parte
razionale e quindi devono essere i filosofi, i guerrieri la parte irascibile, i
produttori la parte concupiscibile, e ad ognuna corrisponde una virtù:
saggezza, coraggio, temperanza che deve essere propria non solo dei produttori
ma anche degli altri gruppi della società.
Ma c’è una virtù che sintetizza
tutte le altre ed è la stella
polare della polis per garantire il bene: la giustizia, che trova il
suo compimento nelle leggi della polis. Ma dove cercare la giustizia? Inoltre,
questo è il fondamento reale e praticato della polis in quanto è proponibile
che la giustizia sia il vero riferimento dei comportamenti umani? Questo è un
tema su cui la discussione sarà più prolungata ed accanita, in quanto Socrate
si troverà isolato e in difficoltà rispetto ai suoi interlocutori, molto
irruenti nelle loro argomentazioni contro una concezione che attribuisce vero valore etico alla pratica
della giustizia. Su questo punto si giocherà una partita filosofica
decisiva per tutta la teoria della polis sostenuta in questo dialogo e, più in
generale, per l’edificio teorico edificato da Platone. Infatti, considerando il
primo libro della Repubblica semplicemente introduttivo all’intera opera, il
tema verrà posto subito all’inizio del secondo libro e le sorti della
discussione saranno determinanti per quelli successivi.
[28] Abuso,
eccesso di libertà || Sregolatezza di costumi
[29]
privilegi
[31] Aristotele si riferisce alla carica di stratego che non era sottoposta ai
normali vincoli delle altre magistrature
Ma scusa ma in questo sito ci sono già le risposte
RispondiElimina