Verso una nuova civiltà: la nuova società urbana.
Il Basso Medioevo (secoli XI - XV) –
Il secolo XI mostra una svolta nella storia d’Europa: ha inizio in quell’epoca
un progresso che – a differenza dei parziali e temporanei tentativi di
rinascita per opera di Giustiniano e di Carlo Magno, tentativi cui seguirono
nuovi periodi di declino – durò quasi ininterrottamente fino ai tempi moderni.
Nell’Alto Medioevo si possono distinguere nell’Europa
cinque aree culturali:
· bizantina
· musulmana
· scandinava
· slava
· europea.
Mentre il centro dell’iniziativa politica e di
propulsione della cultura europea dall’VIII all’XI secolo risiedeva nel regno
dei Franchi e nella Germania occidentale, dopo l’XI secolo, la nuova cultura si
esprime attraverso più centri e, diversamente da quella feudale, abbastanza omogenea,
si differenzia notevolmente.
Dall’XI secolo inizia il basso Medioevo in cui si
manifestano tanti segni di cambiamento radicale nella società, nell’economia,
nella cultura, nel modo di vivere e di pensare, che molti studiosi hanno
adottato l’espressione autunno del
Medioevo per indicare un lungo periodo che si presenta come il lento
tramonto dell’età medievale che si concluse molto dopo, con la nascita dell’Europa
moderna.
Per molti aspetti, infatti, il Medioevo non è finito:
· il sistema feudale, per quanto in crisi ed in
trasformazione, rimane alla base dell’organizzazione sociale, militare e
agricola;
· la cultura delle masse rimane ancorata alla visione
cristiana del mondo;
· molti valori ideali, morali, artistici che si sono
affermati nei secoli dopo la caduta dell’Impero romano restano costanti.
Altri fattori storici mostrano l’inizio di un’epoca più
dinamica, con mutamenti più rapidi:
· la crisi delle concezioni universalistiche, secondo le
quali il Papato e l’Impero sono le due entità politiche e spirituali in cui
tutti i cristiani hanno la loro collocazione naturale.
· lo sviluppo delle attività produttive di carattere
manifatturiero, dei commerci e dalla nascita di una grande attività bancaria,
sostituisce la chiusa economia medievale.
· le città diventano i motori della crescita, anche
demografica, dell’Europa.
Nei primi tre secoli del secondo millennio, le premesse
culturali, lentamente elaborate nell’alto Medioevo, danno in ogni campo i loro
frutti. Ne deriva una grande civiltà, articolata e coerente nelle sue varie
manifestazioni, dalle forme politico-sociali a quelle dell’arte e del pensiero.
Nel basso medioevo l’area culturale latina, la cosiddetta Cristianità, si ampliò
ulteriormente e sottrasse al dominio musulmano la Sicilia, gran parte della
penisola iberica e, per qualche tempo, anche Gerusalemme e la Terrasanta e il
centro di gravità di questo mondo culturale è costituito dalla Francia, dalla
Germania renana e dall’Inghilterra meridionale. Ivi si trovano i centri di
cultura più famosi, come Chartres, Parigi, Orléans, Oxford, Colonia. Ivi, per
oltre due secoli, si affermano i pensatori prima che altrove e la nuova poesia
in volgare.
Successivamente la nuova cultura si espresse attraverso
più centri e, diversamente da quella feudale, ancora abbastanza omogenea, andò
notevolmente differenziandosi soprattutto nel XIII e nel XIV secolo si
manifestarono tanti segni di cambiamento radicale nella società, nell’economia,
nella cultura, nel modo di vivere e di pensare, che molti studiosi hanno
adottato l’espressione autunno
del Medioevo per indicare il
lungo periodo che, partendo proprio dal Duecento, si presenta come il lento
tramonto dell’età medievale che si concluderà molto dopo con la nascita della
società moderna in Europa.
Occorre segnalare la crisi definitiva delle concezioni
universalistiche, cioè di quelle idee secondo le quali il Papato e l’Impero
potevano e dovevano costituire le due entità politiche e spirituali al cui
interno avevano la loro posizione naturale tutti i cristiani.
Nel corso del Trecento il Papato dovette rinunciare definitivamente ad
esercitare un controllo sul potere politico che, contemporaneamente, andava
assumendo un carattere nuovo e moderno negli Stati nazionali, retti da monarchie, che si formarono in Francia e
Inghilterra. Il nome di Impero sopravvisse, ma senza nessun carattere
universale, solo per indicare l’insieme di regni, di principati e di città dell’area
tedesca ed austriaca che riconoscevano il titolo di imperatore ad un principe
che era eletto.
L’altro fattore innovativo fu l’enorme sviluppo delle
attività produttive di carattere manifatturiero, dei commerci e dalla nascita
conseguente di una grande attività bancaria, segno che l’economia medievale non
era più un’economia chiusa, caratterizzata da uno scarso bisogno di moneta e
dalla sua limitata circolazione. Le città diventano i motori della crescita,
anche demografica, dell’Europa.
L’età compresa tra l’XI ed il XV secolo rappresenta per l’Italia,
più vistosamente nelle sue regioni centrosettentrionali, uno dei momenti di
maggior splendore, una delle sedi privilegiate, dove si manifestarono più
vigorosamente i cambiamenti economici e sociali che portarono all’emergere di
nuove istituzioni politiche, di nuove forme di attività commerciale, di vita
religiosa, di arte e letteratura: in questo periodo la letteratura italiana
nacque e fondò saldamente la propria tradizione; questo processo ebbe un punto
di svolta decisivo e del tutto eccezionale con la comparsa di tre grandi
autori, Dante, Petrarca e Boccaccio che, con le loro opere, superarono molto le
esperienze che li precedevano e crearono modelli tanto forti che è possibile
affermare che con loro nacque la tradizione letteraria italiana con i caratteri
che la distinguono dalle altre.
A metà del Trecento (1347-48) l’intera Europa fu
sconvolta da un’epidemia di peste che
falcidiò la popolazione, fino a dimezzarla in alcune regioni; questo
avvenimento spezzò in due il secolo XIV, determinando una crisi, oltre che
economica, anche morale, politica, religiosa.
La seconda parte del Trecento è un periodo in cui l’Europa,
dopo un momento di regresso, come stordita dal grave colpo subito,
faticosamente cominciò a risollevarsi, ma le condizioni erano talmente cambiate
che la ripresa dello sviluppo determinò la rottura degli equilibri precedenti e
il baricentro economico e finanziario, fino allora localizzato nell’Italia
centro-settentrionale, comincia a spostarsi lentamente verso i paesi del
centro-nord dell’Europa.
La crisi del sistema feudale e la riorganizzazione
politica dell’Europa – Gli
Stati attuali derivano dal processo di riorganizzazione dell’Europa che segue
al disfacimento del regime feudale. Si tratta di un’organizzazione molto
instabile, con guerre frequenti al suo interno e incapace di esprimere un’autorità
unica ed un ordine generale.
La massima autorità è l’Imperatore. Il territorio è
suddiviso in feudi, ciascuno dei quali è assegnato ad un feudatario, scelto
dall’Imperatore. Feudatario ed Imperatore sono legati soltanto da un vincolo
personale di fedeltà e lealtà, ma un simile legame è insufficiente a garantire
l’unità di potere politico su un territorio tanto vasto. Ciò spiega le
frequenti guerre dell’Imperatore contro i feudatari ribelli, per sottometterli
alla sua autorità, dei feudatari contro l’Imperatore, per acquistare
indipendenza, e dei feudatari fra loro stessi, per sopraffarsi a vicenda.
Inoltre, l’autorità imperiale è contestata dal Papa, che anch’egli
cercava di affermare la propria supremazia, nella secolare vicenda della lotta per le investiture [1].
La posta in gioco è il potere di scegliere i feudatari e quindi la loro
dipendenza dall’Imperatore o dal Papa.
L’Europa si sgretolava così in tanti poteri locali più o
meno indipendenti che, nel corso di più secoli e procedendo dal basso, danno un
nuovo ordine all’Europa.
L’assenza di un’autorità politica capace di garantire l’ordine
permetteva le scorrerie di bande violente che rendevano insicura la vita nelle
campagne e nei centri urbani. Allora, un capobanda imponeva con la forza il
proprio dominio su un territorio, garantendo la sicurezza e l’amministrazione
della giustizia. In cambio, però, esigeva obbedienza ed il pagamento di
tributi. In questo modo, si affermava un piccolo centro di potere, capace di
garantire quell’ordine che il regime feudale non è in grado di assicurare.
Tante signorie, nel corso dei secoli dal XIII al XV, nacquero così, da un
capobanda che si imponeva in una città o in contado. Affermata la sua autorità,
il nuovo signore contrattava la sua fedeltà con l’Imperatore, strappandogli l’investitura
feudale, insieme a poteri e privilegi. L’autorità dell’Imperatore è così
umiliata, dovendo egli subire il fatto compiuto.
La stessa cosa avvenne con altri poteri che si venivano
affermando localmente. Talora sono le città che si davano un proprio governo
libero, spesso dominato dalle corporazioni delle arti e dei mestieri o dei
mercanti, oppure sono i grandi monasteri che si arrogavano compiti da
feudatari.
L’Europa presentava così una miriade di situazioni
diverse, di signorie, di città, di monasteri, di corporazioni che formalmente
rispettavano l’Imperatore ma che, sostanzialmente, ne sono indipendenti.
Nel sistema feudale mancavano i tre caratteri propri dell’organizzazione
statale (sovranità, impersonalità e giuridicità):
· nessun potere sovrano è in grado di imporsi ai numerosi
poteri particolari;
· i rapporti di potere sono di tipo personale;
· sebbene esistesse un complicatissimo sistema di regole
giuridiche che determinavano la posizione dei feudatari rispetto all’Imperatore
e agli abitanti dei feudi, contavano di più i puri e semplici rapporti di
forza.
Proprio da questa situazione comincia la storia della
formazione dello Stato moderno. L’ordinamento feudale fu formalmente abolito
nel 1648 con la pace di Westfalia, quando fu sancita la fine dell’Impero e del
Papato, come autorità politiche europee, e si riconobbe l’autorità suprema dei
diversi sovrani nelle loro terre. Ma questa data è solo la presa d’atto di un
processo in corso già da molto tempo.
La ripresa dell’agricoltura – La rinascita dopo il Mille – l’anno del terrore per la
temuta fine del mondo – prende l’avvio da una decisa ripresa dell’agricoltura:
· ricerca di nuove terre da coltivare strappandole alle
selve e alle paludi;
· maggiore razionalità nelle colture, grazie anche ad una
maggior organicità ed efficienza dei grandi complessi fondiari, soprattutto
quelli dei monasteri e delle Chiese, ma anche quelli regi e quelli dei grandi
feudatari.
La grande contesa per la terra, scatenatasi tra i signori
secolari e tra questi e i vescovi e gli abati non contrasta questo risveglio,
anzi lo favorisce: la perdita di alcune proprietà spesso spingeva a compensare
guadagnando nuove terre alle colture.
La crescita demografica, che ne è a sua volta favorita,
contribuisce inoltre ad accelerare il fenomeno: si tratta sia di un aumento
assoluto di popolazione che crea nuovi insediamenti in terre già incolte, sia
di spostamenti o concentrazioni.
L’aumento della popolazione ed il migliore tenore di vita
nelle curtes signorili e nei monasteri
favorirono lo sviluppo della produzione di manufatti e la formazione di schiere
più numerose e diversificate di artigiani, cui spettava il compito di fornire
prodotti più raffinati e più funzionali alla vita dei castelli, delle abbazie e
dei vescovadi; artigiani alla cui opera è tra l’altro affidata la costruzione,
l’arredamento e l’abbellimento delle nuove dimore e delle chiese.
I mercanti - Uno dei
segni del cambiamento economico-sociale è l’emergere, a metà dell’XI secolo, di
una nuova classe, i mercanti che occuparono nella società un posto sempre più
rilevante. Inizialmente sono soprattutto negozianti girovaghi che vanno a
rifornirsi della merce dov’è abbondante, per portarla dove sapevano di trovarne
l’acquirente. Successivamente i mercanti preferiscono appoggiarsi alle fiere
che si tenevano periodicamente, quasi sempre in concomitanza con ricorrenze
religiose presso monasteri e città.
L’attività del mercante è molto remunerativa, ma gravosa
e rischiosa. Per questo i mercanti si univano in gruppi, viaggiavano in
carovane, mettevano in comune dei capitali. Si tratta dapprima di associazioni
temporanee, che successivamente danno luogo a istituzioni stabili: nel Nord le gilde e le anse,
in Italia le corporazioni.
La ripresa della città - Sotto lo stimolo della generale ripresa economica e di
quella degli scambi commerciali che si sono manifestate nella società rurale
alla fine del millennio rinasce la città grazie:
· ad una maggiore disponibilità di beni;
· ad una maggiore sicurezza e facilità di trasporti e
comunicazioni;
· ad una maggiore circolazione monetaria.
Il processo di fuga, che porta al disperdersi della
scarsa popolazione in isolati centri nelle campagne, nei pressi delle abbazie e
dei castelli, si inverte.
Le città che hanno ricostruito le mura per far fronte
alle razzie degli Ungari, diventano un ricercato luogo di rifugio. I contadini
che vi accorrevano vi trovavano inoltre anche la possibilità di un’elevazione
sociale ed economica: l’esercizio di un mestiere, oltre a liberarli dalla
servitù della gleba, permetteva loro di acquistare benessere e ricchezze. Anche
i nobili feudali, principalmente i minori, i valvassori, lasciano i castelli
per cercare nella città una forma di vita più confortevole, una partecipazione
più diretta alla vita politica, e, nell’associazione con i propri consorti,
una più forte capacità di resistenza alle richieste dei vassalli maggiori.
La chiusa economia curtense, fondata quasi esclusivamente
sul baratto, cede il posto ad un’economia più varia e ricca, caratterizzata
dallo scambio mercantile, in base alla quale si produce non più solo per
consumare, ma per vendere, e dalla presenza del denaro. Tutto ciò si ripercuote
favorevolmente sulle città, che diventano sempre più popolose e più ricche.
Diversamente dalla città romana occidentale, la città medioevale, è un attivo
centro di produzione e di commercio e il suo governo è funzionale alle esigenze
che ne derivano ed alle quali sono subordinate quelle della campagna.
La ripresa economica riporta la città al centro dell’iniziativa
politica.
La società urbana - La rivoluzione economica, conseguente ad una più
consistente produzione di beni e ad un commercio sempre più esteso ed
articolato, mette in crisi l’ordinamento sociale preesistente, lo sconvolge,
per dar luogo ad una nuova composizione sociale.
La società cittadina è molto più articolata di quella
feudale:
· i nobili,
riuniti in consorterie;
· il popolo
grasso, al di sotto dei nobili, raccolti attorno al vescovo come suo
consiglio, costituiva la ricca borghesia, organizzato in arti maggiori che ben
presto, sommergendo la vecchia classe feudale, prese nelle sue mani il governo
della città per realizzare una politica espansionistica che garantisca la
sicurezza delle vie commerciali. I nobili e il popolo grasso sono designati,
nel loro insieme, come i magnati;
· il popolo
minuto degli artigiani e dei
bottegai, riunito nelle arti minori che raramente partecipa alla vita politica
della città;
· i nullatenenti,
i salariati che restano sempre esclusi da ogni attività politica.
Una nuova istituzione politica: il Comune - I cittadini, divenuti più numerosi, più ricchi, più
istruiti, non accettano più di essere soggetti al vescovo-conte o al feudatario
nel cui territorio la città sorge: vogliono prendere il governo nelle loro
mani.
Per difendere gli interessi comuni contro le pretese del
vescovo o del feudatario, si riuniscono in una società giurata, il Comune.
I modi in cui nasce e si sviluppa questa istituzione politica,
questa nuova forma di governo repubblicano della città, sono quanto mai vari.
In generale, però, il Comune nasce quale organizzazione
privata, quale società giurata, ad opera di nobili minori – i valvassori – che
si raccolgono attorno al vescovo-conte, dapprima per coadiuvarlo e
successivamente per sostituirlo nel governo della città. È un’associazione che
si propone la difesa degli interessi comuni contro le pretese del signore
feudale, ricorrendo, se necessario, anche alle armi.
Più tardi entrarono a far parte della società anche i
borghesi, a cominciare dai più influenti – commercianti, mercanti, banchieri,
notai, medici e speziali, ecc. – e l’istituzione si ampliò a poco a poco,
assumendosi la responsabilità degli interessi di tutta la città, in nome anche
di coloro che, di fatto, non partecipavano al governo.
Come uno Stato, il comune si arroga ed esercita i diritti
sovrani:
· fare guerra e pace;
· battere moneta;
· amministrare la giustizia;
· arruolare uomini;
· riscuotere imposte.
Sono diritti che spettavano all’Imperatore che però è
troppo lontano e troppo debole per impedirne l’usurpazione.
Le istituzioni comunali si presentarono dapprima nelle città marinare, dove la vita economica
rifiorì prima che altrove: Venezia, Genova, Pisa, Amalfi; poi, dalla prima
metà del secolo XI, nelle città della Lombardia, del Veneto e della Toscana.
In Italia il Comune restò sempre un’istituzione propria
del settentrione e del centro. Nel Meridione, tranne rare eccezioni, la forza
del feudalesimo normanno prima e angioino poi non le lasciò spazio per
svilupparsi.
a) Le
Corporazioni medioevali -
Col nome di Arti si indicarono nel Medioevo le Corporazioni[2] degli artigiani, dei mercanti e in
genere di lavoratori raggruppati per categorie.
Sorte attorno alla metà del XII secolo all’interno dei
Comuni, le Corporazioni, sono associazioni che riuniscono le varie categorie di
artigiani o di borghesi in un solo corpo, dapprima come espressione economica e
giuridica di coloro che esercitano le arti e i mestieri, successivamente come
strumento politico per esprimere e tutelare i loro interessi nel governo della
città. I cittadini, infatti, partecipano alla vita del Comune e alla sua
direzione politica non individualmente, ma tramite l’arte di cui sono membri.
Le Arti si davano costituzioni o statuti [3] che
regolano:
· l’esercizio di un’arte o mestiere
· la produzione dei beni, i prezzi, le ore di lavoro, i
salari, la qualità dei prodotti,
· l’ascesa, all’interno della stessa arte, dai livelli
più bassi (apprendista, garzone) al più elevato (maestro),
· le norme sulle caratteristiche del prodotto e ne
fissano il prezzo.
Esse hanno propri magistrati, che facevano da arbitri
nelle controversie fra i soci e talvolta rappresentano l’Arte nel governo cittadino.
Quasi sempre le norme delle costituzioni hanno finalità
di difesa degli interessi di tutta la Corporazione costituiti a danno di quelli
emergenti, e mirano ad ostacolare la concorrenza, creando situazioni di
monopolio [4].
Chiunque voglia esercitare un mestiere deve registrarsi
alla relativa Corporazione, prima come apprendista per imparare il mestiere;
poi come socio del padrone dell’azienda; e infine come maestro, ovvero padrone
di un’azienda sua personale.
Solitamente le arti si distinguono in
· arti
maggiori che raccolgono la
cosiddetta borghesia grassa: industriali, ricchi mercanti, banchieri, giudici,
notai, medici;
· arti
minori costituite da semplici
artigiani.
In alcune città le arti maggiori hanno presto parte e
privilegi nel governo del Comune, ma in seguito acquistano influenza anche le
arti minori, che in alcuni casi, come a Milano alla fine del secolo XII e a
Firenze negli ultimi decenni del XIII, rimuovono dal potere le arti maggiori.
Le corporazioni medioevali non sono un fenomeno esclusivamente
italiano: esse, infatti, si trovano, con nomi diversi (ad esempio gilde, anse) in tutti i Paesi europei
che hanno raggiunto un alto sviluppo economico.
b) Le magistrature comunali - Il Comune dà luogo ad una sua
struttura politica che, pur diversificandosi nei particolari da città a città,
può essere così schematizzata:
· il potere
esecutivo è nelle mani dei consoli – che variano di numero a seconda
della città – cui compete il fare pace o guerra e lo stipulare alleanze e
trattati;
· il potere
legislativo tocca ai consigli, costituiti dai
cittadini più autorevoli, e, di solito sono due, il consiglio maggiore o generale per gli affari generali e il consiglio minore o di credenza per gli affari riservati;
· il parlamento
o arengo, l’assemblea generale di
tutti i cittadini, ha il compito di eleggere i magistrati, tra cui i consoli e
i consiglieri, e di ratificare le decisioni dei consoli.
Questa struttura originaria si evolve nel senso di
ridurre l’importanza dell’assemblea dei cittadini che finisce con lo sparire,
lasciando le sue competenze al consiglio maggiore, e di aumentare il numero dei
consigli e, in ogni consiglio, dei consiglieri.
La vita dei Comuni è travagliata da perenni lotte interne
tra nobili, popolo grasso e popolo minuto, e anche da lotte tra le famiglie più
potenti strette in consorterie tra loro nemiche che si appoggiano all’una
o all’altra classe. Per mettere fine a queste lotte, ai consoli si sostituisce
un podestà, un cittadino
chiamato da altra città perché sia al di sopra delle fazioni. Più tardi gli si
affianca un capitano del
popolo, col compito di tener testa ai nobili e di tutelare gli interessi
dei popolani, o, per essere più precisi, delle arti maggiori che ne riuniscono
la parte più ricca, il popolo grasso.
In alcuni casi, come a Firenze, esautorati tanto il podestà che il capitano del popolo, il governo
è assunto direttamente dalle arti attraverso un collegio di rappresentanti
delle organizzazioni artigiane, i priori
delle arti.
La risposta dell’Occidente all’Islam: le Crociate - Lo sviluppo economico ed in particolare commerciale
delle città e, con esso, lo sviluppo delle nuove istituzioni comunali, sono
favoriti da un’importante impresa che segna anche un’estrema occasione per il
mondo feudale cavalleresco di conquistare gloria, ricchezza e potere: le
Crociate.
Esse sono una tra le più vistose manifestazioni della
ripresa del mondo cristiano, che è stato asserragliato in ristretto territorio
dall’avanzata araba e che ora, dopo averla bloccata – in Oriente a Costantinopoli
nel 718 ed in Francia a Poitiers nel 732 – passava al contrattacco
contro l’Islam, rappresentato dai Turchi sostituitisi agli Arabi; e, nel contempo,
favorirono esse stesse questa ripresa, dando incremento ai commerci.
Ne
traggono profitto, in particolare, le città marinare italiane: Venezia, Genova,
e, sia pure in misura minore, Amalfi, nel frattempo inglobata nel Regno
normanno e Pisa. Quando, infatti, i crociati vittoriosi dei Turchi
costituiscono in Terra Santa degli stati feudali, le città marinare hanno l’opportunità
di stabilirvi eccellenti basi commerciali.
Tutto
ciò non deve far dimenticare che le Crociate sono anche l’espressione di un
vivo sentimento religioso che fanatizza intere folle, spingendole ad affrontare
fatiche immani e rischi. Col procedere del tempo la componente religiosa va
scemando e prevalgono gli interessi commerciali e politici.
La
più importante delle Crociate è indubbiamente la prima (1096-1099). Essa è
bandita da Papa Urbano II per liberare il Santo Sepolcro, l’accesso al quale è
divenuto difficile per i pellegrini a causa dell’intolleranza dei Turchi che,
nel 1076, si sono sostituiti agli Arabi in Gerusalemme. Alla Crociata
partecipano, sotto la guida di Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena,
alcuni grandi feudatari ed uno stuolo di feudatari minori. Sconfitti i Turchi
in un seguito di battaglie in Asia Minore, i crociati, nel 1099, liberano
Gerusalemme, e fondano nei territori conquistati una serie di stati feudali. La
ripresa dei Turchi, che riescono a strappare progressivamente i territori
conquistati dai Cristiani, giungendo a rioccupare Gerusalemme nel 1187, dà
luogo alle successive Crociate.
Le crociate
fallirono il loro scopo originario, la liberazione
dei Luoghi Santi dai musulmani. Restano tuttavia un fenomeno
storico della massima rilevanza non solo religiosa, ma politica,
economico-sociale, culturale.
Politicamente,
impegnarono i musulmani contenendone e ritardandone l’avanzata in Europa, e ciò
permise lo sviluppo degli Stati centro-occidentali. L’Impero bizantino, a sua
volta, pur avendo ostacolato, e non senza ragioni, le crociate, grazie ad esse
poté sopravvivere più a lungo, in quanto i Turchi erano il nemico comune suo e
dei crociati.
Dal punto di
vista sociale, le crociate offrirono infinite occasioni di affermazione ad una
feudalità, specialmente minore, che in Occidente tendeva a esaurirsi in una
vita angusta e rissosa, senza prospettive di migliori posizioni materiali e
spirituali: la cavalleria trovò in Oriente il suo più severo e valido banco di
prova. La borghesia, infine, e con essa i ceti più modesti, vide aprirsi dalle
armi dei crociati gli orizzonti di un’attività commerciale e di un
arricchimento senza precedenti, che costituirono le basi della sua potenza
politica. La borghesia delle Repubbliche marinare italiane fu tra tutte la
maggior beneficiaria delle crociate: Pisani, Genovesi, Veneziani si
assicurarono basi commerciali, privilegi, monopoli e quartieri, logge e
fondachi in tutto l’Oriente sempre meno controllato da Bisanzio; fieramente rivali
tra loro, si divisero in certo modo le rispettive zone d’influenza, ma non
esitarono mai a violarle, in vista del predominio assoluto.
Ai rapporti
militari e commerciali si accompagnavano naturalmente i rapporti culturali in
senso lato: con le merci (soprattutto merci pregiate: spezie, seterie, metalli
preziosi, gemme) passarono dall’Oriente bizantino e musulmano all’Occidente
anche codici di classici greci e testi arabi, sia originali, sia derivati da
antichi testi greci che in Europa erano sconosciuti o erano andati perduti.
Anche nel campo
religioso, gli incontri tra fedi diverse contribuirono a un’apertura più larga
e predisposero alla reciproca comprensione e alla tolleranza. E pure rilevanti
furono l’allargamento delle conoscenze geografiche e l’ambizione di
accrescerle, con nuove e imprevedibili esperienze. Per questi motivi
fondamentali, e per molti altri ancora, le crociate, al di là delle intenzioni
dei loro protagonisti, furono portatrici di stimoli fecondi allo sviluppo della
civiltà europea nel suo complesso e costituiscono quindi una componente
essenziale della sua storia.
I
Normanni nel Mezzogiorno – L’unificazione
del Meridione, che è politicamente diviso tra Bizantini – Calabria, Basilicata
e Puglia – Longobardi – ducato di Benevento, poi frazionato nei due principati
di Benevento e Salerno e nella contea di Capua – ed Arabi – Sicilia occupata
dall’827 al 902, e stanziamenti temporanei in Puglia –, è opera dei Normanni,
che, chiamati come truppe mercenarie nelle contese fra i vari stati, nel giro
di cento anni (1030-1130), dopo essersi costituito un proprio feudo, riescono
ad unificare l’Italia meridionale e la Sicilia, prima in due regni distinti, e
infine, con Ruggero II, in un unico regno detto Regno di Sicilia nel 1130.
Nel 1030 il capo normanno Rainolfo Drengot ottenne dal duca di Napoli, per il
quale aveva combattuto, la signoria di Aversa, cui si aggiunse quella di Gaeta.
Roberto il
Guiscardo, della famiglia degli
Hauteville (Altavilla), dopo un periodo di lotta con il Papato, culminato nella
vittoria di Civitate nel 1056, ne divenne il principale alleato, sostenendolo
militarmente nella lotta per le investiture contro l’Impero. Roberto il
Guiscardo conquistò Puglia, Calabria e Campania, mentre il fratello Ruggero, al
termine di una guerra durata dal 1061 al 1091, tolse la Sicilia agli emirati
arabi di Palermo. Fallì invece il suo tentativo di espansione verso l’Impero
bizantino poiché, sbarcato a Corfù e a Durazzo, fu costretto a tornare in
Italia per domare una rivolta scoppiata in Puglia e per salvare il papa
Gregorio VII da Enrico IV nel 1084.
Nel 1130, ad opera di Ruggero II (1095-1154), nipote
del Guiscardo, fu costituito il Regno di Sicilia, che riuniva tutto il
Mezzogiorno nelle mani dei Normanni.
Ruggero II emanò una legislazione valida per tutto il
territorio, rispettando però anche le norme locali. Il Regno fu diviso in
diverse circoscrizioni (giustizierati), ognuna retta da due funzionari (un
giustiziere e un camerario) di nomina regia. I maggiori dignitari del Regno, con
funzioni di giurisdizione, si riunirono attorno al re nella Magna Curia, primo nucleo
di un’amministrazione centrale.
Alla morte del re Guglielmo II nel 1189, alla
dinastia normanna subentrò quella sveva, quando l’Imperatore Enrico VI, figlio
di Federico Barbarossa e padre di Federico II, sposò l’erede dei Normanni,
Costanza d’Altavilla (1146-1198).
I
Comuni e l’Impero – Il risveglio delle città ed il costituirsi dei
liberi Comuni è stato favorito dalla debolezza dell’Impero di nazionalità
germanica dopo la morte di Ottone III nel 1002 ed è stato rafforzato dalla
crisi in cui precipitò la Germania che, fu lacerata da un’aspra contesa fra due
opposte fazioni a sostegno di due casate rivali.
Si
chiamavano Ghibellini i fautori della Casa di Svevia, essi si proclamavano
difensori dell’onore dell’Impero perché affermavano la superiorità dell’imperatore
sul Papa, sostenuta dal Privilegium Othonis.
Si chiamavano Guelfi i sostenitori della Casa di Baviera,
fautori della libertà della Chiesa romana, e quindi favorevoli al Concordato di
Worms.
a)
Federico Barbarossa - Quando, nel
1152, è eletto re di Germania Federico I della casa di Svevia, detto il
Barbarossa, il suo programma di restaurazione dell’autorità imperiale trova un
ostacolo proprio nei Comuni italiani, gelosi delle autonomie conquistate.
Ristabilita
la pace in Germania, Federico decide di ripristinare l’autorità imperiale in
Italia, infatti, le difficoltà dell’Impero avevano consentito ai comuni
italiani di sottrarsi, di fatto, al controllo politico dell’Imperatore.
Nel 1154 scese
in Italia per farsi incoronare imperatore e convocò la Dieta di Roncaglia per condannare la rivendicazione di sovranità
dei comuni. È naturale che i Comuni trovino appoggio nel Papato, che vede nell’Impero
l’antagonista di cui deve contenere la potenza per mantenere la propria
supremazia. Nel 1158 Federico scende una seconda volta e distrugge Crema e
Milano che si erano ribellate. Con la distruzione di Milano, dopo un duro
assedio nel 1162, i Comuni lombardi si coalizzano a Pontida nel 1167 nella Lega Lombarda, insieme di 36
città che nella battaglia di Legnano
del 1176 sconfiggono il Barbarossa. Con la pace
di Costanza nel 1183 tra l’Imperatore da una parte ed il Papa ed i Comuni
della lega lombarda dall’altra, sono i momenti cruciali di questa vicenda: i Comuni
videro riconosciuta la loro sovranità.
b) Federico II – La lotta tra Papato e
Comuni da una parte, ed Impero dall’altra, si ripresenta con Federico II,
nipote del Barbarossa. È l’ultimo tentativo di restaurazione imperiale: i
Comuni, costituitisi in una nuova Lega lombarda, sono dapprima battuti
nel 1237 a Cortenuova, poi sconfissero a loro volta le truppe imperiali
a Parma nel 1248 e a Fossalta nel 1249, dove è catturato lo
stesso figlio di Federico, Enzo.
L’imperatore non
rinunciò a preparare la propria rivincita, ma morì improvvisamente proprio
mentre stava riunendo un grande esercito in Puglia nel 1250.
c) Guelfi
e ghibellini – Alle
lotte tra i Comuni e l’Impero si intrecciano, a creare uno stato quasi
permanente di guerra, le lotte per assicurarsi le vie di traffico e il
monopolio dei mercati. A queste lotte esterne si accompagnarono, a rendere più
inquieta e turbolenta la vita cittadina, le contese interne tra opposte
fazioni, rappresentanti di interessi diversi: nobili e cives (= mercanti, borghesi), magnati e arti
minori, ceti privilegiati e popolani esclusi dal governo.
La
lotta tra Papato e Impero fornisce alle parti avverse la possibilità di
scegliersi un alleato tra i due grandi contendenti per prevalere sugli
avversari. Questo è l’effettivo significato della contrapposizione tra guelfi (sostenitori del Papa) e ghibellini (sostenitori dell’Impero)
che caratterizza le lotte del XIII e XIV secolo.
La
scomparsa di Federico II non riportò la pace, in quanto la lunga lotta tra
impero e Comuni aveva esasperato i contrasti tra le città e tra le opposte
fazioni dei guelfi e dei ghibellini, che continuarono a
combattersi, cercando l’appoggio ora del papato, ora dell’impero.
d) La crisi dell’Impero – I tempi sono cambiati: quando, 60
anni dopo la morte di Federico II, Dante auspica la restaurazione dell’Impero
ad opera di Enrico VII, «il grande Arrigo», esso in realtà è finito per sempre:
l’unità politica europea su cui si fondava la pretesa di universalità dell’Impero
cede il posto ad una pluralità di forti Stati nazionali, che vanno
costituendosi sotto la guida di monarchie assolute come Francia, Spagna e
Inghilterra.
Il fallimento
dell’impresa di Enrico VII, sceso in Italia nel 1308 per porre pace e
restaurarvi l’autorità imperiale e la sua morte nel 1313, sono l’espressione
concreta del definitivo declino di questa istituzione medioevale, che tuttavia
durerà, almeno formalmente, fino al 1806.
La
teocrazia di Innocenzo III – Nella lotta con l’Impero, il Papato ha
rafforzato la sua posizione politica: lo Stato della Chiesa, che ha avuto le
sue modeste origini dalla donazione di Liutprando,
è divenuto un vasto territorio che tagliava a metà la penisola, estendendosi
dall’Adriatico al Tirreno.
a)
Innocenzo III – Con l’ascesa al
soglio papale di Innocenzo III (1160-1216) riafferma
il potere papale, affermandosi come teorico della teocrazia pontificia, in
linea con le idee di Gregorio VII che voleva il
papato al di sopra di qualsiasi autorità politica esistente. Promosse la IV Crociata nel 1202, stimolò la cristianizzazione
nei Paesi baltici, favorì la riscossa degli Stati cristiani della Spagna.
Condusse una politica di arbitrato della Chiesa in
Francia con Filippo II Augusto, in Spagna, Portogallo, Polonia,
Ungheria, Bulgaria, Svezia e Danimarca. In Germania riconobbe imperatore Ottone di Brunswick, ma
in seguito lo scomunicò, dichiarandolo deposto dalla sua carica ed eleggendo al
suo posto il pupillo Federico, figlio del defunto imperatore Enrico VI. Scomunicò
anche Giovanni Senza Terra, re
d’Inghilterra, alleato di Ottone, ma in seguito lo investì del trono inglese
come di un feudo papale.
In campo religioso iniziò la riforma della Curia
romana, curò la formazione dei vescovi e ne rafforzò l’autorità, promosse la
riforma dei monasteri, favorì il sorgere di nuovi ordini dediti alla cura dei
poveri e dei malati e seguì con favorevole interesse il sorgere dell’ordine
domenicano e dell’ordine francescano, promulgò una vasta e importante
legislazione canonica. Fu anche autore dell’importante trattatello mistico De contemptu mundi,
dello scritto De sacro altaris mysterio e di numerosi Sermones.
b)
Le nuove eresie medievali – Al
rafforzamento politico del Papato si accompagna un’azione decisa contro le
eresie che possono minare l’unità del mondo cattolico. Innocenzo III si mostra inflessibile verso i movimenti ereticali, lottò
in Francia contro i valdesi, i catari, gli albigesi (1208) contro i quali bandì una crudele
crociata.
Gli
Albigesi, diffusi in Provenza,
che sono oggetto di una vera e propria Crociata che porta, fra il 1209 ed il
1229, distruzione e morte in quel fiorente paese. Lo stesso Innocenzo III si
avvale, per combattere gli eretici, dell’Inquisizione, un tribunale
ecclesiastico che, per la crudeltà dei mezzi adottati, è rimasto tristemente
famoso.
Nel 1215 convocò a Roma il IV Concilio Lateranense
(XII Ecumenico), che condannò il catarismo e precisò la dottrina dei
sacramenti.
c) I nuovi ordini religiosi – Con altri
mezzi, più consoni allo spirito religioso, cercano di reagire alle eresie e
contribuiscono al rafforzamento della fede i fondatori di due ordini religiosi, San Francesco d’Assisi (1182-1226) e San Domenico di Guzmàn in Spagna (1170-1222), che, con la
predicazione e l’esempio di una vita cristiana improntata all’amore per il
prossimo, cercano di fronteggiare la violenza che insanguinava le città,
travagliate da continue guerre e da lotte intestine.
d) I domenicani
– L’ordine di frati predicatori (Ordo Praedicatorum)
fu fondato da San Domenico nel 1206. I domenicani si posero fin
dall’inizio come compiti principali quelli della predicazione e dello studio;
la loro attività culturale e d’insegnamento è stata ed è accuratamente
organizzata e di notevole livello. Approvato da papa Onorio III nel 1216, l’ordine prese forma
definita in due Capitoli Generali (supremo organo legislativo dell’ordine)
tenutisi a Bologna nel 1220 e 1221; rapidamente le comunità domenicane si
moltiplicarono in tutta Europa, estendendosi presto anche all’Asia. Durante il
Medioevo l’ordine, organizzatosi presso la maggioranza delle università, fornì molti fra i maggiori
pensatori europei; l’adattamento delle dottrine di Aristotele alla
filosofia cristiana fu compito svolto in misura notevole dai domenicani, e
particolarmente da Sant’Alberto Magno e San Tommaso d’Aquino.
Il papato affidò ai domenicani compiti di grande rilievo, come la predicazione
delle Crociate, la riscossione dei tributi, il compimento di
missioni diplomatiche; generalmente erano membri dell’ordine a formare i
tribunali della Inquisizione.
e) I francescani
– Ordine religioso mendicante (Ordo fratrum minorum,
abbreviazione O.F.M.), fu fondato nel 1209 da Francesco d’Assisi che
dettò per esso una breve regola, approvata verbalmente nel 1210 da papa Innocenzo III e ufficialmente da Onorio III nel 1223. A questo primo ordine si
affiancarono contemporaneamente il secondo ordine femminile delle clarisse e il terzo ordine dei laici, o terziari francescani. Il fondamento ideale dell’ordine
era costituito dalla vocazione a una vita di povertà evangelica e di
predicazione, secondo il modello di Gesù e degli apostoli: non solo ogni
singolo membro dell’Ordine dei Frati Minori Francescani doveva essere povero,
ma, a differenza dei più antichi ordini monastici, l’ordine stesso nel suo
complesso doveva rinunciare a ogni possesso. Una stabile organizzazione venne
elaborata secondo un rigido schema gerarchico: un generale (minister generalis, eletto ogni 12 anni) alla guida
dell’ordine; alle sue dipendenze i provinciali (ministri provinciales,
sovrintendenti alle province) e sotto di questi i custodi (sovrintendenti alle
custodie, in cui si ripartirono le province) e i guardiani (superiori dei
conventi). Resa stabile da una tale saldezza organizzativa, la diffusione dei
francescani fu molto rapida in ogni parte d’Europa: nel 1217 già erano presenti
in Francia e dal 1221 in Germania, mentre, con l’avvento dell’età moderna,
presero parte in misura assai rilevante alle missioni cattoliche. Tipico della
diffusione dell’Ordine dei Frati Minori Francescani fu, a differenza dei
precedenti ordini monastici, l’insediamento prevalentemente urbano. Altro
fenomeno importante fu la presenza francescana nel mondo della cultura
medievale, in specie nelle maggiori università europee, come quelle di Parigi e
di Oxford: tra il sec. XIII ed il XIV si svilupparono scuole teologiche
francescane cui spetta un posto di grandissimo rilievo nella storia della
filosofia scolastica, e che ebbero quali esponenti del proprio pensiero filosofi
come Alessandro di Hales, Bonaventura di Bagnoregio, Ruggero Bacone, Giovanni Duns Scoto, Guglielmo di Occam.
Il
declino del Papato - Dopo la
morte di Federico II nel 1250, il Papa, favorendo il fratello del re di
Francia, Carlo d’Angiò, nella conquista del regno di Sicilia nel 1266, regno
che comprendeva anche l’Italia meridionale, sventa il rinnovarsi del pericolo
che ha rappresentato per lo Stato pontificio l’unione della corona imperiale e
di quella di Sicilia nella persona di Federico II.
Nonostante
questo successo politico, anche il Papato, come già l’Impero, vede declinare la
supremazia che sembrava aver conseguito ai tempi di Gregorio VII (1073-1085) ed Innocenzo
III (1198-1216). Inutilmente Bonifacio
VIII Caetani (1294-1303) riafferma la supremazia del pontefice nella Bolla Unam Sanctam.
La
stessa ragione che ha portato al declino dell’Impero segna quello del Papato:
il costituirsi di nuove forze politiche, le monarchie nazionali, alle quali le
due istituzioni che hanno dominato la scena nel Medioevo non sono più in grado
di tener testa.
a) Bonifacio
VIII – Bonifacio VIII fu un intransigente sostenitore del primato
spirituale e temporale dei papi alle soglie di un periodo che avrebbe segnato
al contrario la decadenza della Chiesa medievale. Alle aspirazioni di
rinnovamento religioso delle correnti escatologico-spiritualistiche oppose
dapprima una politica di repressione e quindi di integrazione. In Italia sostenne
la propria supremazia con diverse intromissioni nei conflitti che agitavano
Stati e città della penisola, interventi destinati comunque al fallimento o ad
effimeri successi.
Lo scacco della politica di Bonifacio VIII apparve
evidente e definitivo sulla scena internazionale, in particolare nella lotta
che lo oppose a Filippo IV di Francia: al divieto di tassare gli
ecclesiastici imposto dal papa, Filippo rispose con un rifiuto e, al rinnovato
appello del papa all’obbedienza, il re francese oppose la deliberazione degli Stati Generali per la prima volta riuniti nel 1302
che negarono la supremazia pontificia sulla monarchia. La bolla Unam sanctam del 1302 di Bonifacio VIII, dove è tra
l’altro affermata la necessità della soggezione al papa per l’ottenimento della
salvezza, fu l’ultimo, vano tentativo di ristabilire l’assoluta supremazia
temporale del papato: nel 1303 Guglielmo di Nogaret, inviato di Filippo, arrestò di Bonifacio
VIII ad Anagni e, per quanto una sollevazione popolare ottenesse l’immediata
liberazione del papa, che un mese dopo moriva, questo episodio segnò l’effettiva
sconfitta delle pretese di Bonifacio VIII e, con esse, dell’ideologia teocratica medievale ormai superata dall’affermarsi
della nuova realtà degli Stati nazionali.
b)
La Cattività avignonese – La
subordinazione del pontefice al re di Francia e il trasporto della sede pontificia da Roma ad Avignone con Clemente V de Got nel 1305, per
sottrarla ai disordini che travagliavano la città, sono l’espressione più
vistosa di questo declino.
La Cattività avignonese dura fino al 1377. I sette
papi di questo lasso di tempo furono tutti francesi. Nel 1367, Urbano V riportò
la sede papale a Roma, ma solo per un breve lasso di tempo. Tre anni dopo si
era di nuovo ad Avignone. Fu eletto Gregorio XI. Gregorio fu l’ultimo papa
francese e avignonese: con lui il 17 gennaio del 1377 la sede papale tornò
stabilmente a Roma.
c) Il Grande
scisma d’occidente – Alla morte di Gregorio, ebbe luogo il Grande scisma d’occidente:
mentre in Francia il papa era Clemente VII, a Roma c’era Urbano VI. Nei
successivi concili, il problema non fu risolto; e anzi, dopo quello del 1409 di
Pisa, i papi diventarono addirittura tre. Solo al termine del concilio di
Costanza (1414-1418) in cui furono ritenuti non validi i tre papi esistenti, e
durante il quale sarà eletto Martino V nel 1417 si avrà un papa solo per tutta
la cristianità, e non più due o tre.
Il
Mezzogiorno angioino – L’instaurarsi
della dinastia angioina nel Sud segna sulla distanza il declino del Mezzogiorno,
che, sotto gli Arabi, i Normanni e gli Svevi, ha conosciuto momenti di grande
floridezza e splendore.
Palermo,
che Federico II ha scelto come sede della sua corte, è, come già sotto la
dominazione araba, una delle città più ricche e colte d’Europa.
Nel
1250 muore Federico II lasciando erede dell’impero, del Regno di Sicilia e di
Gerusalemme il figlio Corrado IV; vicario in Sicilia e in Italia il figlio
naturale Manfredi. Essendo Corrado IV impegnato in Germania nel tentativo di
farsi riconoscere imperatore, Manfredi amministrò l’Italia in modo autonomo ed
alla morte di Corrado IV nel 1254 e alla notizia falsa, della morte dell’erede
al trono Corradino, si fece proclamare re di Sicilia nel 1258).
Il
26 febbraio 1266 Manfredi fu sconfitto a Benevento da Carlo d’Angiò che, s’impadronì
di tutto il Mezzogiorno e vi insediò feudatari francesi. Incoronato re di
Napoli Carlo d’Angiò spostò la capitale da Palermo a Napoli la vecchia capitale
sarebbe stata per lui troppo decentrata.
Carlo d’Angiò sempre assillato dal bisogno di danaro fu
costretto ad imporre imposte e balzelli. Essendo esenti dalle nuove imposte
nobili, provenzali ed ecclesiastici, il peso di questo regime fiscale finiva
col cadere quasi completamente sulle spalle del ceto medio e del popolo
generando malcontento e causando tumulti come la rivolta dei Vespri
siciliani del 1282 e la
guerra ventennale che ne segue, la Sicilia passa alla casa d’Aragona, restando
l’Italia meridionale agli Angioini con la pace
di Caltabellotta del 1302.
A
Carlo I successe Carlo II, e a questi il figlio Roberto che fu chiamato “il più
saggio tra i cristiani” e il “pacificatore d’Italia”. Roberto, capo del partito
guelfo ebbe interessi nel campo letterario ed artistico che lo spinsero a
contornarsi delle migliori menti del suo tempo ed a chiamare a Napoli gli
artisti più quotati, i letterati e gli scienziati più famosi per lo Studio
Generale.
L’egemonia in
Italia della casa d’Angiò guidò anche la politica del re Roberto d’Angiò
(1309-1343) che si presentò come il sostenitore delle forze nazionali contro le
interferenze tedesche, come il pacificatore della penisola, ottenendo il
consenso di artisti, poeti e studiosi. La corte di Napoli divenne sotto di lui,
uomo sensibile e colto, un fiorente centro di attività intellettuale. Vi si
formò un’importante scuola giuridica, vi operarono pittori come Giotto e Simone
Martini, vi soggiornarono poeti e scrittori come Petrarca e Boccaccio.
Questa fastosa
apparenza tuttavia celava una grave crisi interna. Il potere della corona era
limitato dalle tendenze anarchiche dei baroni, tendenze che Roberto d’Angiò si
sforzò di contrastare concedendo altre terre, detratte dal patrimonio
demaniale, e altri privilegi, con il risultato di diminuire le entrate e le
prerogative della monarchia.
D’altronde
questa non aveva la possibilità di appoggiarsi sul ceto borghese, debole
economicamente e compresso nei privilegi della nobiltà e del clero. Nel regno
di Napoli avveniva allora un processo inverso a quello che era in atto negli
stati europei: la corona anziché combattere la nobiltà con l’aiuto della
borghesia aveva scelto la via del compromesso; in questo modo fra il XIV secolo
e la fine del XV secolo la feudalità ben lungi dall’essere un’articolazione
periferica del potere statale, come era al Nord, era una classe potente e
ricca, che deteneva nelle proprie mani la vita economica di paesi e villaggi.
Un altro motivo
di crisi del Regno era rappresentato dalla massiccia presenza nella sua vita
economica di forestieri, in particolare Fiorentini e Catalani, che si
accaparrarono ogni tipo di posti e di favori, facendo spesso prevalere
interessi estranei a quelli locali.
Una rigida
struttura feudale, importata dalla Francia invece di creare condizioni adatte
all’affermarsi di attività mercantili e finanziarie e dello svilupparsi della
borghesia, andava soffocando e spegnendo quei centri e quelle correnti di
attività commerciale e marinara che dal tempo delle repubbliche marinare, fino
in pratica all’insediamento degli Angioini avevano assicurato al Mezzogiorno
della penisola una notevole prosperità economica. Questo processo di diffusione
del feudalesimo sotto il dominio angioino avveniva proprio nel periodo in cui
le città dell’Italia centrale e settentrionale erano le protagoniste del grande
sviluppo commerciale e finanziario realizzato dall’Europa centro-occidentale.
Si creava così una situazione di arretratezza della parte meridionale della
penisola italiana rispetto a quella centrale e settentrionale, una frattura fra
questa e quella, nello sviluppo economico e politico che si sarebbe sempre più
definita ed aggravata nei secoli successivi.
La crisi del
Regno di Napoli si manifestò pienamente alla morte di Roberto d’Angiò cui
successe la nipote Giovanna. Fu sotto il regno di Giovanna I (1343-1382) che lo
stato napoletano apparve in piena disgregazione in balìa di forze e sovrani
stranieri, lacerato dai contrasti e dall’anarchismo della feudalità. Per lunghi
anni arse un’aspra guerra tra Angioini e Durazzeschi. Nella guerra entrò a far
parte ad un certo momento Alfonso V d’Aragona, re di Aragona, Sardegna e
Sicilia.
Le Signorie – Nella seconda metà del
XIII secolo quasi ovunque gli ordinamenti comunali si trasformarono in
signorie, cioè l’effettivo esercizio del potere passò nelle mani di un solo
individuo (il dominus o signore)
che inizialmente fu il rappresentante delle forze borghesi che si erano
affermate vittoriosamente. Il passaggio al regime signorile si attuò
diversamente nelle varie realtà cittadine italiane ed in alcune non rappresentò
che un episodio saltuario.
Le Signorie
fecero la loro comparsa dapprima nell’Italia settentrionale, e precisamente
nel Veneto e nella Lombardia, dove più precoce e ricca era stata la fioritura dei
Comuni.
a) Il
sorgere delle Signorie – Le lotte intestine tra fazioni
opposte (nobili-popolani; guelfi-ghibellini), che dilaniavano quasi
ininterrottamente le città, portarono alla morte delle istituzioni comunali e
della libertà.
Il desiderio di
ordine e di pace favorisce l’ascesa di uno dei nobili appartenenti alle
famiglie con maggior seguito, al quale si affidò il governo, la Signoria, della
città, dapprima per un tempo determinato (di solito per un anno, a volte anche
per cinque), poi a vita.
Si
sostituiva così, ad una repubblica corporativa, una dittatura personale, anche
se in più casi continuavano a sopravvivere formalmente intatte le magistrature
comunali, che il signore affidava ai suoi fedeli, ed il cui compito si riduceva
alla ratifica dì quanto egli ha già deciso.
b) La
Signoria e lo Stato moderno – La Signoria, se può essere
considerata un’involuzione perché segna la scomparsa della partecipazione dei
cittadini al governo, rappresentò senz’altro un progresso per più versi. La
concentrazione dei poteri in mano di un solo pose fine alle lotte intestine con
vantaggio della prosperità economica. È favorita, per la stessa ragione, la
capacità espansionistica degli stati cittadini più forti, che riescono così a
costituire degli stati regionali in grado di fronteggiare, almeno inizialmente,
le monarchie nazionali che si vanno formando fuori d’Italia. Infine, mentre nel
Comune i cittadini godevano di una diversa capacità politica secondo la classe
o la corporazione di appartenenza, di fronte al signore essi sono tutti
eguali, benché tutti sudditi sprovvisti di potere politico. Il signore è, in
ultima analisi, un sovrano assoluto che assomma nelle sue mani tutto il potere
e la cui volontà è la fonte di tutte le leggi.
In
questo senso esso è la prima apparizione in Europa dello stato moderno, cioè
dello stato che non riconosce al di sopra di sé nessun’altra volontà o
condizionamento, a differenza dello stato feudale in cui il sovrano è limitato
dal potere superiore della Chiesa e dalle immunità dei feudatari.
c) Milano
– Dopo la battaglia di Cortenuova a Milano si affermò Pagano della Torre, feudatario
appartenente a una famiglia da tempo residente nella città. L’arcivescovo Ottone Visconti, che guidava l’opposizione
nobiliare ghibellina, sconfisse i Della Torre in battaglia nel 1277 e si fece
proclamare signore. Il nipote Matteo (1250-1322) estese i domini milanesi al
Monferrato aprendo nuove possibilità ai mercanti e agli artigiani e
trasformando Milano in una grande città manifatturiera e commerciale.
Il
potere fu ripreso dai Della Torre nel 1302 e i Visconti lo riconquistarono
stabilmente nel 1329 e primeggiarono nelle figure dell’arcivescovo Giovanni (1290-1354)
e di Gian Galeazzo (1347-1402). Nella prima metà del
XIV secolo cominciò l’espansionismo della Signoria viscontea. Dopo la lotta
contro Mastino della Scala, i Visconti ottennero Brescia che si aggiunse ai
domini su Como, Vercelli, Pavia, Lodi, Piacenza, Cremona, Crema e
Bergamo. Giovanni Visconti (1349-1354) si impadronì di Parma,
Alessandria, Tortona, Bologna e Genova. I suoi nipoti Galeazzo, Bernabò e
Matteo persero Genova e Bologna.
d)
Firenze – Nel XIII sec. Firenze era uno dei
maggiori centri economici italiani ed europei i cui mercanti esercitavano
soprattutto il commercio della lana ma erano spesso impegnati anche in attività
bancarie (nel 1252 fu coniato il fiorino d’oro, che si affermò come moneta per
i mercati internazionali). In campo amministrativo assunse importanza sempre
maggiore la borghesia delle arti (vi erano 7 arti maggiori, 5 medie e 9
minori). Nel 1282 si costituì il governo dei Priori
delle arti, formato da sei priori che affiancarono e poi
sostituirono i magistrati precedenti. Nel 1292 gli Ordinamenti di giustizia,
voluti da Giano della Bella,
esclusero i magnati dal governo riservando le magistrature e i consigli solo
agli appartenenti alle arti minori o mediane. In seguito fu concesso ai magnati
di partecipare all’amministrazione cittadina purché si iscrivessero a un’arte
(fu il caso di Dante Alighieri che si iscrisse all’arte dei medici e speziali).
Tra
il XIII e il XIV sec. i regimi signorili furono soltanto transitori.
Firenze fu percorsa da lotte intestine tra famiglie
rivali, ordinate negli schieramenti guelfo e ghibellino. Dopo transitori
periodi di regime signorile Firenze entrò in conflitto con lo Stato Pontificio
per non aver aderito alla Lega antiviscontea, conflitto che ebbe ripercussione
sulla vita civile, portando al cosiddetto tumulto
dei ciompi (dal nome
dei cardatori di lana detti ciompi) nel 1378. I ciompi (scardassatori e
lavoratori dell’industria laniera) si sollevarono contro la borghesia e
nominarono un loro gonfaloniere, Michele di Lando. La
classe dirigente dovette costituire nuove arti (tintori, farsettai, ciompi) ed
ammettere al governo i loro rappresentanti. Indeboliti internamente dalla
defezione dei tintori e dei farsettai e abbandonati da Michele di Lando, i
ciompi furono estromessi dal potere che passò nelle mani di poche famiglie di
grandi commercianti e banchieri, come gli Albizzi e gli Strozzi, per passare
nella seconda metà del XV sec. in quelle della famiglia de’ Medici.
e) Venezia – Diversamente che a Firenze, a
Venezia le arti non ebbero mai funzione politica; inoltre non era mai esistita
nemmeno una nobiltà feudale che potesse contrastare i mercanti. Il problema dei
mercanti veneziani fu quello di limitare i poteri del doge, il magistrato di origine
bizantina, e nello stesso tempo di impedire l’ascesa di nuove classi. Dopo aver
creato organi che limitavano il potere del doge ed eliminato l’assemblea
popolare, nel 1297 (la cosiddetta “serrata
del Maggior Consiglio”) fu stabilito che potessero fare parte del Maggior
Consiglio (l’organo che dal 1172 eleggeva il doge e aveva funzioni legislative)
solo coloro che vi avevano fatto parte negli ultimi 4 anni o appartenessero a
famiglie i cui membri ne avessero fatto parte (l’aggregazione di nuove famiglie
fu permessa secondo rigide norme di procedura). Due tentativi di instaurare la
Signoria furono facilmente stroncati e si istituì il “Consiglio dei Dieci”, col compito di prevenire ogni attentato all’oligarchia.
f)
Altre
Signorie – Nelle
altre città italiane alcune Signorie si formarono su base podestarile, altre
come vicariato imperiale, altre ancora per dedizione a un signore forestiero.
Le principali sorsero a Verona (Della Scala), a Padova (da Carrara), a Ferrara
(d’Este), a Mantova (Gonzaga), a Treviso (da Camino), a Ravenna (da Polenta), a
Urbino (da Montefeltro).
g) Le
compagnie di ventura –
L’ascesa del signore, che di norma si appoggiava alle forze popolari per
contrastare e spazzare l’opposizione dei nobili suoi avversari, gelosi delle
proprie prerogative, è favorita dall’uso invalso di ricorrere a soldati
mercenari, le cosiddette compagnie di ventura, per combattere le continue
guerre, alle quali i cittadini cercavano di sottrarsi. Per svolgere
indisturbati le proprie attività produttive, per non correre i rischi del
combattimento e per sottrarsi alle fatiche e ai disagi della vita militare,
essi preferivano pagare un tributo, con il quale il Comune prima e il signore
poi assoldavano milizie mercenarie.
Queste,
in mano al signore, costituiscono un potente strumento per realizzare una
politica indipendente dal consenso dei cittadini e, per fronteggiare la loro
eventuale opposizione e tenere a freno i malcontenti.
Nei confronti delle compagnie di ventura, considerata
una delle piaghe del tempo, si levarono voci di politici e anche di poeti,
come Petrarca.
h) La
polverizzazione politica della penisola – In Piemonte non
sorsero Signorie di rilievo: è il campo di espansione dei Visconti, mentre si
protraevano forme feudali di governo grazie alla potenza dei Savoia che
hanno incominciato ad estendere i loro domini in Italia, e dei marchesi
di Saluzzo e del Monferrato.
Nelle
città marinare le forme di governo comunale si mantennero più a lungo.
Nell’Italia
centrale, mentre Firenze si manteneva a Comune sino a quando, nel 1434, Cosimo
de’ Medici ne divenne di fatto il signore, pur senza modificare l’ordinamento
preesistente, si costituiscono numerose piccole Signorie, quando la lontananza
del pontefice, rifugiatosi ad Avignone, favorisce il disgregarsi dello Stato
pontificio.
È
una situazione di vera e propria polverizzazione politica cui
si sottraeva soltanto il Meridione che manteneva ancora una certa unità, anche
dopo il distacco della Sicilia dal regno di Napoli.
Tale
condizione di frazionamento è aggravata dal fatto che anche le Signorie o le
Repubbliche maggiori, come Milano e Firenze, non presentavano un’unità
territoriale, e spesso le città soggette passavano da un signore all’altro
nella ricerca di una migliore difesa dei loro interessi o in connessione con il
prevalere di una fazione politica al loro interno. Ne conseguiva uno stato
permanente di guerra, in cui i fronti e le alleanze mutavano continuamente.
Le
monarchie nazionali - Mentre in Italia si sviluppavano gli Stati
cittadini comunali che, evolvendosi in principati, davano luogo
a Stati regionali con la conseguente divisione politica della
penisola, in Francia, Spagna ed Inghilterra si
costruivano forti monarchie che crearono Stati nazionali unitari.
Ciò costituì un elemento di forza che consentì loro dì assumere quella
posizione di preminenza politica sino ad allora tenuta dagli Stati italiani.
In Francia l’unificazione
nazionale è opera della monarchia capetingia, iniziata nel 987, e è il
risultato di un lungo processo di smantellamento della grande feudalità
francese. La lotta tra monarchia e feudatari è resa più difficile dal fatto che
il maggiore dei grandi feudatari è lo stesso re d’Inghilterra, vassallo del re
di Francia in quanto duca di Normandia. I sovrani che maggiormente portarono
avanti il processo di unificazione sono Filippo II, che a Bouvines nel
1214 sconfisse il re d’Inghilterra Giovanni Senza Terra, e Luigi IX il
Santo.
La
Francia corse il pericolo maggiore quando, all’estinzione del ramo primogenito dei Capetingi (1328), il re d’Inghilterra
Edoardo VIII vantò diritti sul trono francese. Ne segue la guerra dei Cento anni (1337-1453) che, dopo
alterne vicende, in cui la monarchia francese si vede sull’orlo della sconfitta
nella battaglia di Azincourt, del 1415, si concluse con l’integrale
riscatto del territorio nazionale, ad eccezione di Calais rimasta in mano agli
Inglesi. Nel momento più grave della lotta è risolutivo a risollevare gli animi
dei francesi e le sorti della nazione l’intervento di Giovanna d’Arco,
una pastorella che, cinte le armi e dicendosi chiamata da Dio, riuscì a battere
gli Inglesi. Fatta da loro prigioniera, è condannata e arsa come eretica.
Il
processo di unificazione è portato avanti poi da Luigi XI (1461-1483) e
da Carlo VIII (1470-1498). Sotto quest’ultimo re, la Francia è
lo Stato più forte dell’Europa del tempo.
Lo Stato
unitario spagnolo è il risultato della lotta dei regni cristiani di
Spagna contro i Mori, la cosiddetta Reconquista. L’atto finale dell’unificazione
è il matrimonio di Isabella, regina di Castiglia, con Ferdinando
II il Cattolico, re d’Aragona, che, uniti, hanno ragione dell’ultima
resistenza musulmana a Granada nel 1492.
Dall’unificazione
della penisola iberica restava escluso il regno del Portogallo.
Lo Stato
unitario inglese ha le sue origini nella conquista dell’Inghilterra ad
opera di Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia (1066). Si è
già detto delle lotte dei re d’Inghilterra contro i re di Francia di cui sono
vassalli. La sconfitta subita da Giovanni Senza Terra a Bouvines dà
forza alla nobiltà feudale inglese che riuscì a strappare al re un insieme di
limitazioni del potere regio fissate nel documento noto come Magna
charta libertatum (1215). Questa concessione sarà il punto di partenza
per la conquista di quelle libertà che portarono successivamente alla
costituzione di un Parlamento diviso in Camera dei Lord, i
rappresentanti della nobiltà feudale, e Camera dei Comuni, i
rappresentanti delle città.
È
la prima apparizione, sia pure in forme limitate, di una monarchia
costituzionale, cioè dì una monarchia in cui il potere del sovrano è
condizionato da quello dei rappresentanti dei sudditi.
La guerra
delle Due Rose che contrappose per ragioni di successione la casa
di York alla casa dei Lancaster con i rispettivi
sostenitori, dissanguò la nobiltà feudale e rese possibile una svolta
assolutistica con la dinastia dei Tudor. Il processo di liberalizzazione
riprenderà soltanto nel secolo XVII.
L’Austria,
sorta sulle rovine del Sacro Romano Impero di nazionalità germanica cui
si è cercato di porre fine con la riforma dell’Impero, è un altro Stato che, alla fine del
Medioevo, acquistò un ruolo di primaria importanza a fianco di Francia, Spagna
ed Inghilterra. La sua comparsa nel numero delle grandi potenze si ha con Massimiliano
d’Asburgo, arciduca d’Austria e Imperatore del Sacro Romano Impero
(1493-1519).
L’invenzione della polvere da
sparo e della stampa – La vivacità della vita intellettuale e l’ampliarsi
degli orizzonti dell’uomo europeo in questo periodo sono testimoniati anche da
alcune invenzioni destinate ad avere una straordinaria importanza nel futuro: l’invenzione
della polvere da sparo e quella della stampa.
L’invenzione
della polvere da sparo è dovuta a un monaco tedesco, Bertoldo
Schwartz, e risale ai primi anni del XIV secolo. In realtà la polvere, una
miscela detonante di zolfo, carbone e salnitro, è già nota ai Cinesi e agli
Arabi, che l’usavano, i primi per i fuochi d’artificio, i secondi per spaccare
le rocce. L’invenzione consistette nella costruzione di armi appositamente
progettate per lanciare, grazie alla forza dirompente di tale miscela, dei
grossi proiettili a grande distanza. L’efficacia di queste armi tardò a farsi
sentire; ma quando, nel secolo XVI, esse divennero più precise e sicure,
portarono alla scomparsa della cavalleria feudale pesantemente armata per
lasciare posto a fanterie armate d’archibugio e alla cavalleria leggera. Le
innovazioni introdotte dalle armi da fuoco favorirono le monarchie assolute
nelle loro lotte contro la nobiltà feudale, perché possono disporre dei
maggiori mezzi finanziari richiesti dalla costruzione delle artiglierie e dal
mantenimento dei reparti che dovevano usarle. Pertanto la scoperta delle armi
da fuoco contribuì, alla lunga, ad accelerare la decadenza politica del mondo
feudale.
L’invenzione
della stampa risale al tedesco Giovanni Gutenberg che,
verso il 1454, pubblicò a Magonza dei volumi stampati per la prima volta
con caratteri mobili. Questo procedimento facilitava e rendeva più
economica la stampa e permetteva di sfruttare meglio, per la riproduzione in
molteplici esemplari, la carta che già dal secolo XII ha cominciato a
fabbricarsi anche in Europa, portatavi dagli Arabi che ne hanno appresa la
tecnica dai Cinesi. La combinazione di queste due invenzioni, la carta e la
stampa a caratteri mobili, facilitò la diffusione della cultura: i libri non
sono più il privilegio dei conventi, degli ecclesiastici e dei principi, ma
poterono essere acquistati anche dalla borghesia, rafforzando il processo già
in atto della laicizzazione della cultura e contribuendo alla circolazione
delle idee.
Le
scoperte geografiche - In questo periodo la conoscenza che l’uomo
europeo ha della Terra si amplia con eccezionale rapidità. Fino alla fine del
secolo XIII si può dire che per l’uomo europeo la terra abitata andava dal
lontano, nebuloso e quasi mitico Catai, la Cina, o dal Cipango,
il Giappone, di cui ha avuto notizia da alcuni missionari o mercanti (Giovanni
dal Pian del Carpine tra i primi, Marco Polo tra i secondi), allo stretto di
Gibilterra.
La
stessa Africa, al di là delle coste settentrionali, è sconosciuta. La spinta
ad ampliare la conoscenza del mondo non venne, come si poteva pensare e come l’episodio
dell’Ulisse dantesco suggeriva, da un desiderio di pura conoscenza, ma dall’esigenza
dei mercanti europei di trovare una via per l’Oriente (indicato genericamente
col nome di Indie) che non soggiacesse al monopolio degli
Arabi, che controllavano le grandi strade carovaniere attraverso l’Asia Minore.
I
primi progetti in questo senso consistettero nella ricerca di una via che
circumnavigasse l’Africa. Su questa strada si sono messi i genovesi fratelli
Vivaldi che hanno oltrepassato lo stretto di Gibilterra nel 1291 ed altri
navigatori genovesi che, nel secolo successivo, sono giunti sino alle Canarie e
alle Azzorre. Però le iniziative più organiche sono opera di Portoghesi, sotto
lo stimolo del loro re Enrico il Navigatore(1426-1460). Sullo
slancio delle prime spedizioni in questa direzione, Bartolomeo Diaz doppiò
il Capo di Buona Speranza nel 1486, e Vasco de Gama arrivò
a Calcutta nel 1498.
Però
quest’ultimo successo parve allora sminuito dal fatto che sei anni prima (12
ottobre 1492) Cristoforo Colombo, al servizio dei re di Spagna,
ritenne di essere pervenuto alle Indie per una via totalmente diversa: la via
d’Occidente. Convinto della sfericità della Terra grazie agli studi di un
geografo italiano, Paolo Toscanelli, egli ha pensato che, veleggiando verso
occidente attraverso l’Atlantico, sarebbe giunto al Catai. E
quando, dopo un viaggio di circa dieci settimane arrivò all’isola di
Guanahànì, nei Caraibi, egli ritenne di essere giunto nell’arcipelago del
Giappone; in realtà ha scoperto un nuovo continente, come dimostrarono i
viaggi successivi di Giovanni Caboto, di Vasco Nunez de
Balboa e di Amerigo Vespucci dal quale il nuovo
continente prese il nome di America (terra Americi, come scrisse
allora un cartografo tedesco sul suo atlante).
Già
con questi ultimi viaggi, alla spinta originaria (ricerca della via per le
Indie) ne è subentrata un’altra: quella di esplorare le nuove terre e di
fondarvi colonie, cioè scali commerciali e punti di raccolta delle materie
prime. Presto seguirà il disegno di conquistare vasti territori per
assoggettarli alla madrepatria europea: nasceranno così i grandi imperi
coloniali.
Il
desiderio di esplorazione guidò alcuni anni più tardi (1519-22) Ferdinando
Magellano in un viaggio di circumnavigazione del globo. In poco più di
120 anni l’uomo europeo ha superato le vietate colonne d’Ercole, e
acquisito la conoscenza di quasi tutta la Terra.
La
scoperta dei nuovi continenti da parte delle potenze europee – dapprima Spagna
e Portogallo, poi Olanda, Inghilterra e Francia – deve avere conseguenze di
eccezionale portata nella storia successiva.
L’europeizzazione
del mondo, con la compressione o addirittura la scomparsa delle altre
civiltà, ne è una delle più vistose. Le ricchezze che le potenze europee
traggono dalle colonie consentirono loro di rafforzare il dominio sulle
popolazioni extraeuropee riducendole a quelle condizioni di sudditanza e di
subalternità che ancora ai nostri giorni non sono state del tutto rimosse. Il
processo di decolonizzazione è stato il primo momento di tale rimozione.
Per
l’Italia la scoperta di nuovi continenti segna la fine della posizione di
centralità di cui ha goduto fino ad allora.
La
rottura dell’unità del mondo cristiano: la Riforma - Frutto dello
spirito critico caratterizzante questo periodo è anche la Riforma
protestante, il vasto e profondo movimento religioso che staccò dalla
Chiesa di Roma le popolazioni germaniche e anglosassoni. Con ciò venne meno un
altro dei fondamentali caratteri del Medioevo: l’unità del mondo cristiano.
Il
movimento di ribellione partì da un monaco agostiniano tedesco, Martin
Lutero (1483-1545), il quale rivendicò al credente il diritto di
interpretare le Sacre Scritture secondo coscienza e non secondo i dettami
della gerarchia ecclesiastica.
La
predicazione di Martin Lutero potè avere successo e portare al distacco di mezza Europa
dalla Chiesa di Roma perché ha l’appoggio dei principi tedeschi. Essi vi
trovarono l’occasione politica per contrapporsi all’Imperatore, nei cui
confronti volevano affermare la propria autonomia, e, nel contempo, un pretesto
per incamerare i grandi beni degli ordini religiosi che sono soppressi; e
infine un modo per interrompere il flusso di denaro che lasciava i loro Stati
diretto a Roma, sotto forma di decime e di acquisto di indulgenze.
Il
popolo segue i principi e i riformatori perché vede nella riforma l’affermazione
della nazionalità germanica contro quella latina, e perché sperava che il
rinnovamento religioso comportasse un rinnovamento sociale, con la costituzione
di una società più giusta.
È
questa la base della rivolta dei cavalieri (lo strato più basso della classe
nobiliare) e di quella dei contadini, rivolte che sono entrambe duramente
represse dai principi, con l’approvazione di Lutero.
Al
distacco della Germania da Roma per opera di Lutero seguirono il distacco della
Danimarca, quello della Svezia, della Norvegia e dei Paesi Bassi, e, ad opera
di Zwingli e di Calvino, di buona parte della
Svizzera, e infine dell’Inghilterra ad opera del suo re Enrico VIII.
È
da rilevare che si staccarono dal cattolicesimo proprio alcune nazioni, come l’Inghilterra
e i Paesi Bassi, che, per un concorrere di circostanze favorevoli, svolgeranno
un ruolo di primo piano nella storia moderna e in quella contemporanea, mentre
alcune tra le nazioni rimaste cattoliche, come ad esempio la Spagna e l’Italia,
sono destinate a conoscere nel futuro un periodo di declino.
Di
particolare importanza sarà il fatto che la colonizzazione inglese, che darà
origine agli Stati Uniti d’America, avverrà ad opera di riformati.
La fine della libertà italiana – Le Guerre
d’Italia furono una serie di otto conflitti, combattuti
prevalentemente in Italia dal 1494 al 1559, che avevano come
obiettivo finale la supremazia in Europa. Furono inizialmente avviate da
alcuni sovrani francesi, calati in Italia, per far valere i loro
diritti ereditari sul Regno di Napoli e poi sul Ducato di
Milano. Da locali le guerre divennero in breve tempo di scala europea,
coinvolgendo oltre alla Francia, soprattutto la Spagna e
il Sacro Romano Impero. Al termine delle guerre la Spagna si affermò come
la principale potenza continentale, ponendo gran parte della penisola italiana
sotto la sua dominazione diretta (Regno di Napoli, Ducato di
Milano, Stato dei Presidii) o indiretta; gli unici stati italiani che
seppero mantenere una certa autonomia furono la Repubblica di
Venezia e il Ducato di Savoia (legato alla Francia), mentre
il Papato, pur autonomo, risultava perlopiù legato alla Spagna dalla
comune politica di far prevalere in Europa la Controriforma cattolica.
a) La calata
dei Francesi di Carlo VIII – Nel 1492, con la morte di Lorenzo il
Magnifico, venne meno il delicato equilibrio politico che egli aveva saputo
abilmente conservare tra gli Stati italiani. Ludovico il Moro, resosi di fatto
signore di Milano, cercò fuori d’Italia un appoggio militare contro Ferrante d’Aragona,
re di Napoli, che minacciava di reintegrare con la forza nei suoi diritti Gian
Galeazzo, sposo di una sua nipote ed erede legittimo del ducato di Milano.
E
precisamente a Carlo VIII di Francia si rivolse Ludovico il Moro, poiché questo
ambiziosissimo sovrano, come erede degli Angiò, poteva vantare qualche pretesa
sul regno di Napoli.
Assicuratosi,
con ampie concessioni territoriali, la neutralità di Spagna, Inghilterra e dell’impero
germanico, nel 1494 Carlo VIII varcò le Alpi con un esercito forte di 30.000
uomini e attraversò, senza alcuna opposizione, tutta la penisola: a Firenze
addirittura Piero II Medici consegnò al re straniero le chiavi della città.
Giunto nell’Italia meridionale, Carlo non trovò neppure qui alcuna resistenza e
si impadronì del regno di Napoli, mentre il re Ferrante II fuggiva.
Solo a questo punto gli Stati italiani parvero
rendersi conto del pericolo: si formò una lega alla quale
aderirono lo stesso Ludovico il Moro, il papa, Venezia, l’imperatore e il re di Spagna. Il piano
era di sbarrare la via alle milizie francesi, impedendone il ritorno in patria:
l’esercito della lega affrontò i Francesi nel 1495, mentre stavano valicando l’Appennino,
a Fornovo, sul fiume
Taro. In questa sanguinosa battaglia, la prima in cui si impiegarono largamente le artiglierie, Carlo VIII subì gravi perdite,
ma riuscì ugualmente a fuggire e
a raggiungere, con gran parte del suo esercito, attraverso le Alpi, la Francia.
b) Francesi e
Spagnoli si contendono l’Italia – L’iniziativa
del sovrano francese era dunque fallita. Ma per l’assoluta mancanza di
un’organizzazione politica e statale unitaria del nostro paese, l’impresa di Carlo VIII era destinata a ripetersi.
Nel 1499, infatti, il suo successore sul trono di
Francia, Luigi XII (1498-1515), calò in Italia, questa volta
avanzando pretese sul ducato di Milano, dato che tra i suoi diretti antenati vi
era una principessa della casa dei Visconti.
Di fronte alle pretese di Luigi XII e al suo
esercito, Ludovico il Moro, abbandonato
da tutti gli altri Stati italiani preoccupati di non compromettersi con
un rivale tanto forte, fu costretto alla fuga.
Impadronitosi del ducato di Milano, Luigi XII si
accordò con il re di Spagna Ferdinando
il Cattolico per la conquista e
la spartizione dell’Italia meridionale; i due potenti eserciti stranieri
dilagarono nei territori del regno di Napoli,
che cadde interamente nelle loro mani. A vittoria ottenuta, si accese però
tra le due potenze, circa la divisione dei territori, un conflitto che durò dal 1501 al 1503 e terminò con la vittoria degli
Spagnoli, che si assicurarono così
il possesso di tutto il regno di Napoli.
Agli inizi del Cinquecento, due dei maggiori Stati
italiani, il ducato di Milano a nord e il regno di Napoli a sud della penisola,
cadevano dunque sotto la dominazione straniera.
c) Francesco I
- Quando Luigi XII morì, nel
1515, gli succedette sul trono di Francia il giovane Francesco I, il quale si mise subito
in luce per il suo coraggio e per le sue capacità militari.
Appena incoronato, egli scese in Italia,
dirigendosi rapidamente alla volta della Lombardia, dove gli Svizzeri, cacciato Luigi XII, erano rimasti a
difesa del ducato; a Marignano, in un’accanita
battaglia durata due giorni e due notti, gli Svizzeri furono sconfitti e
costretti a ritirarsi, ma sulla via
del ritorno si impadronirono di un lembo del ducato di Milano, e precisamente del territorio denominato Canton
Ticino, che da allora in poi fece
parte della Confederazione. Forte di questa vittoria, Francesco I strinse patti di pace con i suoi avversari: in
particolare, accogliendo una richiesta di papa Leone X dei Medici si
impegnò a non contrastare la signoria dei Medici che intanto era
stata restaurata a Firenze; con la Spagna, sua principale avversaria, Francesco I concluse nel 1516 il trattato
di Noyon, che confermava
il possesso della Lombardia ai Francesi e del regno di Napoli agli Spagnoli.
d) Carlo V – Per una felice combinazione di eredità, intanto,
si preparava un avvenimento che
avrebbe cambiato il volto dell’Europa e avrebbe infranto l’equilibrio che s’era
venuto a creare tra Francia e Spagna, confermato dal trattato di Noyon. Nel 1516 moriva Ferdinando il Cattolico, lasciando
la corona di Spagna, con gli
sterminati possedimenti americani ed i regni di Napoli, Sicilia e Sardegna, al
nipote Carlo d’Asburgo, che già aveva ricevuto dal padre
Filippo il Bello i Paesi Bassi, cioè il territorio attualmente diviso tra
Belgio, Olanda e Lussemburgo, e la
Franca Contea.
Tre anni dopo, nel 1519, per la morte dell’imperatore
Massimiliano, suo nonno paterno, Carlo ereditava anche le terre degli
Asburgo e i diritti alla corona imperiale, che cinse col nome di Carlo
V.
La concentrazione di domini così vasti nelle mani
di Carlo V sconvolse l’equilibrio
politico europeo e allarmò le altre potenze: più di tutte la Francia, che trovatasi
completamente circondata dai possedimenti dell’imperatore, sentì minacciata la
sua stessa sicurezza e indipendenza.
L’unica
possibilità che aveva la Francia di rompere l’accerchiamento era la guerra: essa si protrasse tra alterne vicende per
quasi quarant’anni e all’inizio fu
combattuta soprattutto in Italia.
e) La guerra fra
Francesco I e Carlo V – Le
ostilità furono aperte nel 1521 da Francesco I; ma Carlo V, respinti gli attacchi dell’avversario, riuscì ad impadronirsi
del ducato di Milano, il cui possesso
gli permetteva di unire la Germania alla Spagna attraverso il porto di
Genova. Accorso in Italia con il suo esercito, Francesco I fu sconfitto a Pavia nel 1525 e fatto prigioniero.
Tradotto in Spagna, fu liberato l’anno seguente solo dopo aver rinunciato a ogni pretesa sul ducato di Milano.
Ma appena tornato libero, il re francese rinnegò l’accordo.
Stretta un’alleanza, lega santa di Cognac, con il papa Clemente VII dei
Medici, con Venezia e
con i Medici, preoccupati di perdere la propria indipendenza di fronte al dilagare della potenza spagnola in Italia, Francesco
I tentò la rivincita; ma Carlo V
inviò in Italia un forte esercito, che, oltre a valorosissimi soldati spagnoli, comprendeva i lanzichenecchi,
mercenari tedeschi avidi di saccheggio. Sbaragliate, presso Mantova, le forze
della lega comandate da Giovanni dalle Bande Nere, nel 1527 l’esercito imperiale prese d’assalto Roma e la mise a sacco. Il pontefice si salvò rifugiandosi in Castel
Sant’Angelo e subito dopo si ritirò
dalla lotta, seguito in questo da tutti gli altri Stati italiani.
La guerra continuò ancora per altri due anni tra
Francesi ed imperiali fino a quando,
nel 1529, preoccupato per la situazione creatasi in Germania a causa della
Riforma di Lutero e per l’avanzata turca nei Balcani, l’imperatore decise di
accordarsi con Francesco I con la pace di
Cambrai.
Carlo
V si riconciliò poi anche con il Papa dal quale ottenne la promessa dell’incoronazione
imperiale; in cambio si impegnò a restaurare a Firenze la Signoria dei Medici abbattuta dal popolo nel 1527,
approfittando della situazione di debolezza in cui era venuta a trovarsi la
famiglia medicea, alla notizia del sacco di Roma.
Carlo
V poteva così scendere in Italia per raccogliere il frutto delle sue vittorie e, dopo aver ricevuto l’atto di
sottomissione di tutti gli Stati italiani, si faceva incoronare imperatore a
Bologna a febbraio del 1530.
Di
fatto la pace di Cambrai fu solo una tregua di sei anni, dopo di che le
ostilità tra Francia e Spagna ricominciarono e si protrassero quasi
ininterrottamente sino al 1544.
Dopo
che Carlo V ebbe domato l’Italia, la guerra tra Francia e Spagna si allargò. I conflitti di questo periodo
furono caratterizzati dal coinvolgimento di altre potenze che diedero loro una
portata europea. Francesco I,
re cristiano, riuscì ad
avere come alleati i Turchi – che con la
loro flotta infestavano il Mediterraneo,
spargendo il terrore tra gli abitanti delle coste spagnole e italiane – ed
i principi tedeschi della Lega di Smalcalda
– alleanza conclusa durante l’omonimo congresso tra sette principi e undici
città protestanti della Germania, sotto la guida di Giovanni di Sassonia e di Filippo d’Assia. L’alleanza
con i Turchi e quella con i principi tedeschi, luterani dimostrò come il
Medioevo, con la sua idea unitaria di cristianità, fosse definitivamente
tramontato.
Nel
1544, con la pace di Crépy, si concluse questo periodo di lotte;
tre anni dopo Francesco I morì, dopo
una vita spesa nell’impegno di opporsi al dilagare della potenza spagnola.
Gli succedette sul trono il figlio Enrico
II, ma siccome le
condizioni della Francia continuavano ad essere quelle di una potenza chiusa in
una morsa dai domini di Carlo V, Enrico II riprese la politica del padre, alleandosi, come già aveva fatto il padre, con
i Turchi e i principi protestanti
dell’impero. Anche questa volta le ostilità tra la Francia e Carlo V si
intrecciarono con la lotta dei principi tedeschi, ribellatisi all’imperatore
per difendere la loro libertà religiosa.
La guerra si trascinò ancora per alcuni anni senza che tuttavia una parte o l’altra
riuscisse a trionfare definitivamente.
Alla
pace si giunse per la decisione di Carlo V di accordarsi coi principi luterani,
concedendo loro ampie libertà religiose con la pace di Augusta del
1555 e di dividere, abdicando, i possessi degli Asburgo: al figlio Filippo II
andarono i domini di Spagna e i Paesi Bassi già degli Aragonesi; e al fratello
Ferdinando I il titolo imperiale e i possedimenti austriaci.
Nel 1556, logorato dalle malattie e affaticato
dalla continue guerre, Carlo V lasciava il trono e si ritirava a vivere in un
convento in Spagna, dove morì qualche
anno dopo. Crollava così da una
parte per la tenace opposizione della Francia, dall’altra per la ribellione dei
suoi stessi sudditi protestanti e per l’ascesa dell’impero ottomano, il sogno imperiale di Carlo V di unire
sotto il suo scettro tutto il continente
europeo.
Convinto che la causa prima di tante guerre era
stata l’immensità del suo dominio,
Carlo V, prima di ritirarsi, divise l’impero in due parti: lasciò i possedimenti
degli Asburgo e la corona imperiale al fratello Ferdinando; la corona di Spagna con i territori americani al
figlio Filippo II, al
quale andavano anche i Paesi Bassi e
i domini italiani.
Spezzato
così l’accerchiamento della Francia, si poté giungere alla definitiva pace
di Cateau-Cambrésis del 1559, che conferì all’Italia un assetto che
durò praticamente immutato per circa 150 anni.
La cultura e la letteratura medioevali
1. L’età della letteratura scolastica (1000-1200) – I fatti più importanti di questo periodo che abbraccia
due secoli, di cui uno è preparazione dell’altro, sono i seguenti:
·
La lotta delle
investiture, fra Chiesa e Impero, terminata nel 1122 col concordato di Worms;
·
Il sorgere e lo
svilupparsi dei Comuni (dalla seconda metà del secolo XI);
·
Le Crociate che
portano come conseguenza diretta nuovi rapporti fra l’Occidente e l’Oriente
anche nel campo della cultura;
·
La diffusione del
sistema feudale aveva fatto sorgere gradualmente nuovi bisogni culturali in
ceti sociali, come i cavalieri e la piccola nobiltà, che si espandevano per il
frazionamento dei feudi maggiori;
·
Le Università o
Studi Generali che diventano, accanto ai conventi, depositarie della
cultura e, particolarmente, della cultura specializzata; laica, anche se non in
opposizione, bensì sotto gli auspici della Chiesa;
·
Le nuove correnti
filosofiche come la Scolastica, i contatti con la cultura araba e il
contrastato trionfo dell’aristotelismo.
Dominatore della cultura, sebbene l’elemento laico si faccia
più vivo e presente, è sempre il clero, quello soprattutto dei conventi e delle
scuole episcopali e monacali, dove il programma di studio si va man mano
allargando, né solo nella teologia o nelle arti del trivio, ma anche in quelle
del quadrivio, nella filosofia e nel rinato amore dei classici antichi, di
cui, particolarmente nel secolo XII, le copie si moltiplicano, arricchite di
glosse e di commenti talora d’importanza assai notevole.
Come centri di attività
culturale, accanto ai conventi famosi, sorgono le Università: in Italia la
medicina si continua a coltivare nel famosissimo centro di Salerno, già noto
nel secolo IX che fu certamente il primo a sorgere in Europa ed è in questo
periodo illustrato da Costantino Africano (m. 1087) maestro di grande fama e
traduttore di molte opere mediche dal greco e dall’arabo; a Bologna fioriscono
gli studi giuridici fino dal secolo XI, ed Irnerio (1100-1130) ne aumenterà la
fama nel secolo seguente che vede pure la protezione data allo Studio da
Federico Barbarossa. E fiorenti scuole di diritto civile sorgono altresì, prima
della fine del secolo XII, a Reggio Emilia, a Modena e a Ravenna.
Fuori d’Italia, a Parigi
predomina lo studio della logica e particolarmente della dialettica; a
Montpellier nel secolo XII quello della medicina e del diritto; ad Orléans si
studiano gli auctores, cioè i classici latini, il cui culto sempre più
si diffonde, suscitando innumerevoli imitatori; mentre in Inghilterra Oxford si
modella su Parigi e può contare alla fine del secolo XII ben tremila studenti.
Siamo quindi di fronte ad
una grandiosa esplosione culturale e letteraria che culmina nel secolo XII ed
è più vasta e più universale della stessa cosiddetta rinascenza carolingia.
Veramente, com’è stato detto, il XII secolo è stato una iuventus Mundi,
o meglio la giovinezza della civiltà umana dell’Europa occidentale.
La produzione è abbondantissima. Inutile ricordare che in questi
secoli, specialmente nel XII, la letteratura latina coesiste con le varie
letterature nazionali, soprattutto in Francia. Però per il momento è ancora la
cultura latina quella predominante.
La civiltà comunale all’origine
del risveglio culturale – La
civiltà comunale costituisce il momento più originale, ed uno tra i più vivi,
di tutta la nostra storia. È un periodo di grande slancio economico: l’aumento
della produzione artigianale, dei commerci e, con i commerci marinari, delle
costruzioni navali, determina un aumento di ricchezza dei ceti cittadini, ne
innalza il tenore di vita e favorisce il lusso. Effetto, e quasi simbolo, di
questo sviluppo nel campo economico, è la nascita di una nuova attività,
quella bancaria. A questo rigoglio economico si accompagna un’eccezionale
ripresa nel campo intellettuale.
È il momento in cui, tanto
nell’architettura che nella scultura e nella pittura, si assiste al nascere di
forme originali, libere dall’imitazione dell’arte bizantina. Sorgono nuove
città, e le antiche rinnovano completamente il loro volto, arricchendosi non
solo di cattedrali ma anche di edifici civili quali i palazzi comunali sedi dei
consigli, dei consoli e delle altre magistrature; di palazzi, residenze delle
più potenti famiglie, dominati da torri difensive, mentre nelle mura di cinta
si aprono porte in pietra decorate di sculture; si lastricano le strade; si
costruiscono canali per portare le acque nei fossati delle mura. Lo stile che
caratterizza il periodo più splendido dell’età comunale (XII – XIII secolo) è
quello romanico, cui si sostituirà quello gotico dalla seconda metà del secolo
XIII.
In letteratura, a questo
fermento di creazione originale, corrisponde l’affermarsi del volgare, che ben
presto si esprime nelle più grandi figure della nostra cultura: San Francesco,
Jacopone, Cavalcanti, Dante, Petrarca, Boccaccio.
Sul piano intellettuale
espressione delle nuove strutture politiche e sociali sono le Università che liquidano
il prestigio delle scuole monastiche, rimaste isolate dalla nuova evoluzione
sociale e legate alle vecchie strutture feudali.
L’unità culturale nel
Medio Evo - La cultura del
Medioevo, almeno fin verso i secoli X e XI, non aveva avuto carattere nazionale,
ma si era manifestata unitaria in tutti quei Paesi d’Europa che avevano fatto
parte dell’Impero romano ed erano stati segnati dalla sua civiltà; su di loro,
successivamente, aveva esercitato la sua influenza, orientandone gli interessi
e gli ideali, l’altra grande struttura universale: la Chiesa cattolica.
Espressione di tale unità culturale era la lingua in essi
usata, il latino, che, diffuso dai Romani conquistatori, aveva avuto ulteriore
incremento ed avallo dal fatto di essere stato assunto dalla Chiesa come lingua
ufficiale propria.
Certo, quello medioevale non era più il latino di
Cicerone o di Livio; era un latino che nella sintassi, nel lessico, si era
andato progressivamente allontanando dai modelli classici e che si era anche
adeguato all’esigenza di esprimere modi nuovi di pensare e di sentire, mantenendosi
in tal modo strumento di comunicazione attuale e vitale.
Ma anche quando le varie comunità etniche cominciarono a
definirsi ed a differenziarsi, oltre che politicamente, anche linguisticamente,
ed, accanto al persistente latino, andarono affermandosi in ambito letterario
le varie lingue romanze, nei paesi dell’ex impero romano non venne tuttavia
meno il senso dell’appartenenza a una cultura comune. Perciò nelle università
che erano venute sorgendo dal XII secolo nei vari Paesi d’Europa affluivano
maestri e discepoli a raggio europeo. L’università teologica di Parigi, quella
giuridica di Bologna, quella medica di Salerno, costituivano veri e propri
punti d’incontro culturali dell’Europa romanza.
Analogamente, in quegli importanti centri culturali che
furono i conventi, spesso forniti di ricchissime biblioteche, convenivano,
sotto la stessa «regola», monaci di differente origine etnica.
Quanto all’Italia e alla sua letteratura, è proprio in
conseguenza dell’unità culturale che lega fra loro i Paesi romanzi che, ad
esempio, le imprese di Carlo Magno celebrate in lingua d’oïl nelle Canzoni
del Ciclo carolingio (sec. XI) trovano ascolto da noi, e vengono
riprese in componimenti epici (i poemi franco-veneti) scritti in un
dialetto Veneto ricco di elementi francesi. Allo stesso modo i poemi d’amore e
d’armi del Ciclo bretone intorno alle gesta di re Artù, anch’essi
composti in lingua d’ oïl, vengono da noi tradotti e rielaborati, e costituiscono
la raffinata lettura delle nostre corti feudali. Così pure i componimenti
amorosi composti in lingua d’oc dai trovatori provenzali offrono temi e
tecniche alla prima poesia d’arte italiana, quella della «scuola siciliana».
Il rapporto culturale unitario che lega l’Europa romanza
è così stretto che la barriera delle Alpi non sempre costituisce un confine
linguistico. Alcuni trovatori italiani poetano in lingua provenzale, che non
sentono per nulla come straniera. Ed il fiorentino Brunetto Latini «maestro – a
detta di un cronista contemporaneo, il Villani – in digrossare i fiorentini e
farli scorti in bene parlare», (che cioè sviluppò e affinò quella cultura
fiorentina di cui doveva alimentarsi il genio di Dante), compone in lingua d’ oïl
il Trésor, enciclopedia del sapere del tempo. E Marco Polo (1254-1324)
detta in lingua d’oil il suo Milione.
La visione teocentrica del mondo – Non meno unificante della tradizione romana fu, come
si è accennato, l’influenza esercitata sui Paesi europei dalla Chiesa, che vi
diffuse una comune interpretazione cristiana del mondo e del destino umano.
Secondo la concezione di cui la Chiesa era portatrice, l’universo
è retto da Dio, che, immobile nella sua perfezione, governa provvidenzialmente
la realtà inanimata e animata (cose, animali, uomini), dotandola di una
tensione che l’attira a sé ed alla quale solo l’uomo può sottrarsi perché
dotato di ragione e di libero arbitrio; in tal caso dannandosi, giacché in Dio
sta l’unica salvezza.
Di conseguenza la vita terrena, i beni della terra,
perdono il valore assoluto che aveva loro attribuito la civiltà pagana; e l’esistenza
in questo mondo diventa un momento di passaggio, un banco di prova nel quale,
col suo agire, l’uomo conquista o perde la vita vera, cioè la vita eterna.
L’eroe di quest’epoca non è più, come già nel mondo
classico e più tardi in quello rinascimentale, colui che sa affermarsi nella
conquista del potere, della gloria, ecc., ma il santo, cioè l’uomo che, con
totale e coerente rinuncia, subordina la vita terrena a quella ultraterrena.
Certo, si tratta di posizioni teoriche che, come spesso
avviene, non hanno impedito che, nella vita concreta, si verificassero
atteggiamenti con esse discordanti o addirittura ad esse antitetici. E,
infatti, il Medioevo, se fu età di grandi ascetismi, fu anche età «di sangue e
di crucci», in cui si scatenarono violenti appetiti terreni e passioni feroci.
Ma gli uni e le altre furono giudicati, nella riflessione morale del tempo, e
anche nella comune opinione, come forme devianti dalla retta strada segnata all’uomo
da Dio.
Se teocentrica è la concezione del mondo, cristocentrica
è quella della storia. La storia vera, cioè, comincia con l’avvento del
Cristo; e le vicende che lo hanno preceduto sono state ad esso funzionali.
Così, per esempio, l’impero romano è stato voluto da Dio perché, unificando
territori e popoli, avrebbe spianato la via alla diffusione del Cristianesimo.
Su tali premesse poggia anche una diffusa concezione
teocratica della politica, secondo la quale il papa, perché esponente di Dio
sulla terra, è anche il legittimo detentore di ogni autorità, ivi compresa
quella politica, che può esercitare direttamente o delegandola all’autorità
politica vera e propria, cioè all’imperatore; che quindi rimane a lui
subordinato. Teoria questa che non fu però accettata da tutti pacificamente, e
a cui se ne contrappose una antitetica che subordinava il potere religioso a
quello politico, e un’altra (che sarà anche quella di Dante) che sosteneva la
reciproca autonomia dei due poteri.
Teocentrismo e cultura – La concezione teocentrica del mondo ebbe per tutto
il Medioevo coerenti applicazioni in campo culturale.
La teologia, la scienza delle cose divine che poggia
sulla «rivelazione» contenuta nei testi sacri e che alla luce di essi interpreta
la realtà, è considerata la scienza per eccellenza, la scienza regina e ad essa
sono subordinate le altre scienze quasi sue ancelle: ancillae
theologiae, come si diceva.
Di conseguenza la speculazione filosofica deve cedere il
passo alla teologia, là dove l’indagine razionale si scontra con le verità
rivelate che devono essere accettate per fede; le scienze naturali, anziché
indagare autonomamente i fenomeni del reale, partono dalle affermazioni
contenute nei Libri sacri come da premesse indiscutibili; funzione della
politica è di guidare gli uomini verso la giustizia terrena, che è premessa al
raggiungimento dell’eterna beatitudine; e già abbiamo visto come sia religioso
anche il metro di valutazione della storia.
La funzione pedagogica dell’arte – Quanto all’arte, essa si giustifica solo se
indirizzata alla glorificazione di Dio o all’educazione morale e religiosa
degli uomini.
Perciò le arti figurative si muoveranno per tutto il
Medioevo per gran parte nell’ambito del sacro: dal sec. XI fiorirà in Europa la
severa armonia delle cattedrali romaniche o la tensione verticale di quelle
gotiche; la pittura ritrarrà vicende e immagini religiose; la scultura ornerà
con figurazioni sacre le facciate, i portali, i capitelli, le nicchie delle
chiese.
Quanto alla letteratura e alla poesia, esse sono
considerate strumenti inutili, quando non fuorvianti e di perdizione, se non
guidino gli uomini verso il bene e la verità, cioè verso la verità religiosa di
cui abbiamo parlato. Nasce da questa esigenza pedagogica della letteratura l’uso
della allegoria, una specie di simbolico sovrasenso attribuito alle cose e
vicende concrete rappresentate, e che, proponendo nascosti significati
etico-religiosi, si sovrappone al significato letterale del testo e lo
trascende. Così ad esempio il viaggio nell’Oltremondo descritto da Dante
nella Divina Commedia rappresenta allegoricamente l’itinerario dell’anima
che, smarritasi nel peccato, cerca e raggiunge la salvezza in Dio (Paradiso) riflettendo
sulle conseguenze eterne (Inferno) e temporanee (Purgatorio)
del peccato stesso. Ma all’interno di questa fondamentale allegoria,
nella Commedia ne sono proposte molte altre particolari, su
cui torneremo più avanti.
La persistenza nel Medioevo della tradizione classica – Se nel Medioevo la concezione cristiana della vita si
contrappone antiteticamente a quella pagana dell’età classica, tuttavia la
cultura classica non viene del tutto meno.
Respinta in un primo tempo dalla Chiesa che la
considerava fonte di errore, viene poi progressivamente dalla Chiesa stessa
cautamente recuperata, e assimilata almeno nella misura e nelle forme in cui
non contrasta e può conciliarsi con lo spirito del Cristianesimo. Così la
«retorica» medioevale, le norme cioè del bello scrivere, ricalca quella
classica; nelle scuole medioevali è mantenuto il corso di studi che era stato
in vigore nelle scuole ellenistico-romane, e che consisteva nelle
discipline del Trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del Quadrivio
(aritmetica, musica, geometria, astronomia); il diritto romano continua a
far testo nelle controversie private e pubbliche; San Tommaso si propone nelle
sue opere di integrare il pensiero del filosofo greco Aristotele con quello
cristiano.
La lirica – Il
panorama della lirica in Italia si presenta assai diversificato e ricco di
esperienze:
1. entro
confini più ristretti e con un’influenza decisamente minore sui futuri
sviluppi della lirica, rimane la poesia religiosa, anche se il sentimento
religioso nel Medioevo è all’origine di una vasta produzione letteraria che
ebbe i suoi centri nell’Italia settentrionale, specie in Lombardia, e ancor più
nell’Italia centrale, in Umbria. A partire dal XII secolo, col risvegliarsi di
un’aspettativa di rifondazione della Chiesa, si sentì l’esigenza di
accompagnare il culto non più col canto in latino, ma in volgare, a
testimonianza di una fede che si contrapponeva a quella espressa dalla liturgia
ufficiale. All’area umbra appartengono numerose «laudi» o lodi, cioè componimenti
in onore di Dio, della Vergine e dei Santi; e sempre umbri sono i maggiori
esponenti della poesia religiosa medioevale, come San Francesco d’Assisi e
Jacopone da Todi. Una prova del tutto eccezionale di poesia religiosa scritta
per la preghiera è il Cantico delle creature che San Francesco
d’Assisi [19] (1181-1226) compose in volgare umbro. Il
canto religioso andò progressivamente prendendo la forma della lauda, un
termine legato alle laudes (lodi) che si cantavano durante le
funzioni religiose. Questi componimenti venivano eseguiti da confraternite di
laici (laudantes) che accompagnarono la nascita di movimenti religiosi che, a
partire dal secolo XIII, furono espressione di una grande ondata di fervore
religioso soprattutto nelle zone dell’Italia centrale. Solo verso la fine del
Duecento le laudi cominciarono ad essere raccolte e trascritte a cura delle
varie confraternite, dando così inizio ad una tradizione che continuò e s’ingrandì
nei secoli XIV e XV, assumendo sempre più i caratteri della rappresentazione
teatrale (laudi teatrali, sacre rappresentazioni). Comune a tutti i laudari è l’anonimato
degli autori; unica eccezione il laudario di Jacopone da Todi[20], una personalità poetica di notevole
rilievo per il quale la lauda è anche uno strumento di intervento nel dibattito
ideologico e religioso.
2. In primo
piano c’è tuttavia una lirica di argomento amoroso. Nelle corti feudali della
Provenza, nel Sud della Francia, tra l’XI e il XII secolo, nacque una
produzione poetica molto omogenea, sia per i caratteri formali (tipi di versi
e di strofe, uso della rima, ecc.) sia per i temi. È poesia scritta in lingua d’oc e
profondamente legata all’ambiente della corte dove trova il pubblico, gli
argomenti e le ragioni della sua origine. Questa poesia cortese, appunto da
corte, è espressione di una nuova domanda di letteratura che deve intrattenere
ed insieme dare prestigio ai membri e allo stile di vita della corte. L’abbandono
della lingua latina e la scelta di temi laici, in particolare di quello
amoroso, sono novità che segnalano l’affiorare dell’idea che la letteratura
può avere un valore in sé, slegato dalle finalità religiose e morali e che l’attività
poetica può semplicemente ricercare la bellezza e il piacere di chi l’ascolta.
La figura del trovatore, il poeta (da trobàr
che in provenzale significa poetare), è parte integrante della corte: molti
sono aristocratici e feudatari come Guglielmo IX d’Aquitania, altri sono di
umili origini, ma la loro attività poetica li eleva socialmente e spesso
procura riconoscimenti o incarichi che danno loro dignità e ricchezza.
La maggior parte dei testi dei trovatori esprime un’originale
concezione dell’amore che va sotto il nome di amor cortese: questo
termine riassume un ideale di vita esclusivo dell’ambiente della corte. I
protagonisti di questo particolare rapporto amoroso possono essere soltanto la
dama di corte (madonna) e il poeta (amante) che è tenuto ad un atteggiamento di
cortesia rivolto alla dama che è di totale ubbidienza, vassallaggio, desiderio
ed omaggio.
L’amor cortese fu teorizzato ed esaminato in
un trattato assai famoso a quel tempo, il De amore (Sull’amore) di
Andrea Cappellano, che dettò le regole di comportamento e definì anche le
situazioni sentimentali degne di un vero cavaliere:
- la gioia
per il favore accordato da madonna;
- l’affinamento
dei valori della cortesia per rendersi degni dell’amore;
- la
tensione del desiderio amoroso.
Tutto questo costituiva un vero e proprio codice di
comportamento (probabilmente poco rispettato nelle concrete esperienze di vita)
che valeva per la poesia. Possiamo dire che la lirica cortese compì una
mediazione tra il sentimento d’amore e la sua trasfigurazione intellettuale attraverso
un linguaggio letterario assai raffinato e selezionato, basato su alcune
parole-chiave e sull’esclusione dei termini non eleganti; la lingua dei
trovatori si presenta come un codice lirico, una lingua con regole assai rigide
e distante da quella parlata.
In Italia fra XIII e XIV secolo giunge a un altissimo
grado di elaborazione, dando vita al nucleo iniziale della tradizione
letteraria europea e italiana.
La poesia dei trovatori, nata nelle corti della Francia
meridionale, fu largamente conosciuta in Italia dove, nelle corti del Nord,
continuarono a poetare in lingua d’oc una quarantina di trovatori
che erano sfuggiti alla crociata contro gli Albigesi nel 1208.
La Scuola siciliana – La poesia provenzale trovò imitatori soprattutto in
Sicilia, a Palermo, sede della corte di Federico II di Svevia, dove nacque la
prima scuola poetica della letteratura italiana. La corte di Federico era una corte raffinata, intellettualmente assai
evoluta ed aperta alle più diverse esperienze culturali. Qui fiorì, sulla scia
della poesia provenzale e riflettendone i temi e le tecniche, la «Scuola
siciliana» cui appartennero poeti non solo siciliani, ma anche di altre parti d’Italia.
La poesia siciliana si sviluppò in un arco di tempo
piuttosto breve: nacque tra il 1220 e il 1230 con i componimenti di Jacopo da
Lentini (cui è attribuita l’invenzione del sonetto) ed ebbe fine col crollo
della potenza sveva in Italia (1266, battaglia di Benevento).
I protagonisti della Scuola erano prima di tutto
funzionari che svolgevano incarichi importanti: intellettuali che avevano
dignità e prestigio sociale, per i quali il poetare fu un modo di partecipare
alla rinascita culturale promossa da Federico. Fra loro, oltre allo stesso
imperatore Federico II ed ai figli Manfredi e Enzo, si ricordano Pier delle
Vigne, Jacopo da Lentini, Guido delle Colonne, Rinaldo d’Aquino, Odo delle
Colonne, Giacomino Pugliese.
La poesia della Scuola siciliana in linea di massima
ripete temi, situazioni, immagini della poesia provenzale cui guarda
come modello; e, come la poesia provenzale, è impegnata in difficili
ricerche tecniche, soprattutto metriche secondo un repertorio fisso di
situazioni e di immagini. Canta soprattutto l’amore e, in particolare, l’amore
cortese.
La lingua usata dai poeti della Scuola siciliana è il
dialetto siciliano affinato e depurato delle sue forme più gergali e più
locali, e arricchito di elementi latini e provenzali: Dante lo definì «volgare
illustre», per dire che questi poeti adottarono una base costituita dal
volgare siciliano parlato che poi nelle loro mani divenne uno strumento alto,
elaborato, arricchito dall’uso della conversazione dotta e regolarizzato nelle
forme grammaticali.
Attraverso la mediazione dei poeti siciliani, ma anche
per diretta conoscenza dei testi francesi, la lirica cortese fece da modello
alle esperienze che maturarono in Toscana (poesia toscana) la cui novità,
rispetto alla tradizione siciliana, è costituita dalla presenza delle
tematiche politiche, in relazione con le lotte dei comuni. La poesia toscana fu
un punto di riferimento per le decisive innovazioni dei poeti che, insieme
con Dante, rappresentano il cosiddetto stil novo.
La scuola toscana -
La personalità di maggior rilievo fu Guittone d’Arezzo (1230 ca.-1294) che s’impose
come poeta, ma fu anche intellettuale e uomo pubblico di parte guelfa. Accanto
a Guittone vanno ricordati Chiaro Davanzati e Bonagiunta Orbicciani.
Il «dolce stil
novo» – La più importante corrente
poetica della seconda metà del Duecento fu la scuola del «dolce stil novo». Di
tale scuola viene considerato iniziatore il bolognese Guido Guinizelli, ma essa
si sviluppa soprattutto in Firenze ad opera di un gruppo di giovani poeti,
come Guido Cavalcanti, lo stesso Dante, Lapo Gianni, Gianni Alfani, cui va
aggiunto Cino da Pistoia, che erano fra loro legati da analogie di gusto e da
comuni esperienze culturali.
Nella loro poesia ricorrono alcuni temi:
- la donna
vi è celebrata come una specie di creatura angelica che perfeziona colui
che l’ama e lo guida a Dio e riflette la viva religiosità dell’ambiente
comunale;
- l’amore è
considerato retaggio dei soli spiriti nobili, dove però nobiltà è intesa
non come nobiltà di nascita, ma come nobiltà interiore, conquista della
moralità e dell’intelligenza dei singoli; la nuova concezione di nobiltà è
da mettere in relazione con la vita politico-sociale del Comune, che era
sorto sulle rovine della nobiltà feudale;
- la
capacità che essi dimostrano nel cogliere ed analizzare le emozioni, anche
le più sottili, dell’animo umano;
- un
linguaggio raffinato, duttile, capace di esprimere tali sottili sfumature
dello spirito.
Le espressioni popolaresche – Ai margini restano le esperienze, pur interessanti,
della poesia comico-realistica e della poesia giullaresca.
a)
La poesia
realistica – è un tipo di poesia diffusa in Toscana fra Due e
Trecento; essa si caratterizza soprattutto per le scelte tematiche: l’aspirazione
alla ricchezza, il desiderio sessuale, l’imprecazione contro la povertà e la
mala sorte, la maledizione contro le donne brutte o contro gli avversari
politici, il vituperio. Gli strumenti espressivi di questa poesia appartengono
al registro che la cultura medievale definiva comico e contrapponeva a quello
tragico e sublime un registro che si associa al linguaggio mediocre e basso.
Questi caratteri non devono tuttavia far pensare a una poesia rozza; al contrario,
il procedimento della parodia, del rovesciamento di modelli alti, l’iperbole e
la caricatura dimostrano una notevole perizia tecnica. Anche poeti come Dante,
Cavalcanti e Guinizzelli scrissero poesie di questo tipo. Tra gli autori che si
dedicarono soprattutto alla poesia comico-realistica ricordiamo Cecco
Angiolieri, Rustico di Filippo e Folgore da S. Gimignano.
b)
La poesia
giullaresca fu una produzione di livello modesto, rivolta a un
pubblico popolare, spesso anonima, che ebbe una trasmissione in parte orale e
in parte scritta. Solitamente sono testi legati a situazioni di festa, d’intrattenimento,
di spettacolo, che comportano una fruizione facile, rapida e piacevole. Essa
fiorì in quasi tutte le regioni d’Italia a opera di giullari che potevano
essere artisti di piazza, cantastorie, ma anche uomini in contatto con l’ambiente
di corte e detentori di una buona preparazione culturale.
La lirica nel
Trecento – Nel Trecento ha inizio la
tradizione della poesia per musica. L’opera poetica di Dante e più ancora
quella di Petrarca dominano il Trecento la straordinaria altezza delle loro
opere fa sì che non vi siano poeti capaci di creare qualche cosa che oltrepassi
l’imitazione di questi due grandi.
Dante Alighieri – L’esistenza di Dante Alighieri è
strettamente legata agli avvenimenti della vita politica fiorentina. Alla sua
nascita, Firenze era in procinto di diventare la città più potente dell’Italia
centrale. A partire dal 1250, un governo comunale composto da borghesi ed
artigiani aveva messo fine alla supremazia della nobiltà e due anni più tardi furono
coniati i primi fiorini d’oro. Il conflitto tra guelfi, fedeli all’autorità
temporale dei papi, e ghibellini, difensori del primato politico degli
imperatori, divenne sempre più una guerra tra nobili e borghesi simile alle
guerre di supremazia tra città vicine o rivali. Alla nascita di Dante, dopo la
cacciata dei guelfi, la città era ormai da più di cinque anni nelle mani dei
ghibellini. Nel 1266, Firenze ritornò nelle mani dei guelfi e i ghibellini
vennero espulsi a loro volta.
La vita - Dante
nacque a Firenze nel 1265 dalla famiglia degli Alighieri, una famiglia di parte
guelfa di modeste condizioni economiche, ma di antica nobiltà. Fra i suoi
antenati egli ricorda orgogliosamente nel Paradiso il
trisavolo Cacciaguida che, fatto cavaliere dall’imperatore Corrado III, morì
in Terrasanta, combattendo contro gli infedeli nella seconda Crociata
(1147-1149).
Ebbe l’educazione tipica, in quegli anni, dei giovani
delle buone famiglie fiorentine: studiò le discipline del Trivio (grammatica,
dialettica, retorica) e del Quadrivio (aritmetica, geometria, musica,
astronomia); ma ebbe anche, se pur saltuariamente, la guida ed il consiglio di
quell’uomo di eccezionale cultura enciclopedica che fu Brunetto Latini, la cui
figura di maestro egli eternerà nella Commedia (Inferno, XV). Frequentò
anche pittori e musicisti, quali il miniatore Oderisi da Gubbio ed il cantore
Casella, che pure saranno presenti nel poema (Purgatorio XI e Purgatorio II). Cominciò
presto a scrivere versi e fece parte di quel colto e raffinato gruppo di
giovani poeti che diedero vita alla scuola del «dolce stil novo». Secondo le
tecniche e gli ideali di questa scuola compose le liriche della Vita
nova, ispirate al suo amore
per una giovane donna fiorentina, Beatrice, e alcune delle Rime. Ma
contemporaneamente e successivamente tentò anche sperimentazioni poetiche
diverse per temi e per toni, aprendosi così la via alla complessa
orchestrazione della Commedia.
Nel frattempo, e specie dopo la morte di Beatrice (1290),
che aveva determinato in lui bisogno di meditazione e di chiarificazione
interiore, si dedicò allo studio della filosofia. Dava intanto stabilità alla
sua vita costruendosi una famiglia: sposò, non sappiamo bene in che anno, Gemma
Donati, dalla quale ebbe tre figli, Jacopo, Pietro e Antonia, che, fattasi poi
monaca col nome di Beatrice, visse in un convento di Ravenna e fu così vicina
al padre negli ultimi suoi anni.
Impegnato non solo culturalmente, ma anche politicamente,
Dante partecipò presto alla vita pubblica del suo Comune in cui, cacciati fin
dal 1266 i Ghibellini, dominava ormai incontrastata la fazione dei Guelfi. Nel
1289 fu tra i cavalieri che combatterono nella battaglia di Campaldino in cui
Firenze e la lega guelfa sconfissero i ghibellini di Toscana, e nello stesso
anno fu presente alla resa del Castello di Caprona, strappato dai Fiorentini ai
Pisani. Ma la sua attività più propriamente politica ebbe inizio nel 1295, dopo
che potè iscriversi a una delle Arti, o corporazioni dei
lavoratori, condizione necessaria, dopo gli ordinamenti democratici di Giano della Bella del 1293, perché un
nobile potesse fare politica militante. Poiché allora la medicina era
considerata assai vicina alla filosofia, Dante, come cultore di studi
filosofici, si iscrisse all’Arte dei medici e degli speziali. La vita politica
fiorentina era in quegli anni tumultuosa e lacerata da odi interni. I Guelfi
erano divisi in due fazioni, quella dei Neri, alla quale appartenevano la
maggior parte dei nobili e la parte più numerosa della borghesia mercantile, e
quella dei Bianchi, cui appartenevano invece poche famiglie aristocratiche,
alcuni esponenti meno influenti della borghesia ed il popolo minuto. La parte
Nera era capeggiata dalla famiglia dei Donati, la Bianca da quella
dei Cerchi. Diverse per composizione sociale e per interessi, le due fazioni
erano in contrasto anche per la politica estera: mentre i Neri si appoggiavano
al Papa e agli Angioini, signori dell’Italia meridionale e legati alla
monarchia francese, i Bianchi erano gelosi difensori dell’autonomia del Comune
sia nei confronti della Francia sia del Papa, il quale vantava e voleva far
valere su Firenze antichi diritti feudali.
Dante aderì alla parte Bianca, che allora aveva in città
la prevalenza, ed ebbe nel Comune molte cariche pubbliche fino alla più alta,
il Priorato: fu uno dei priori del trimestre giugno-agosto 1300. Nell’esercizio
del governo si comportò con moderazione ed imparzialità ed esercitò una
funzione equilibratrice fra le fazioni, di cui tentò di frenare le contese non
di rado cruente. In politica estera difese con intransigenza l’autonomia del
Comune contro il papa d’allora, Bonifacio VIII, che gli divenne perciò acerrimo
nemico, e che il Poeta bollerà nella Commedia come traditore
del messaggio di Cristo.
Fu proprio l’appoggio del Papa e della Francia a
consentire, in Firenze, il colpo di Stato che improvvisamente trasferì il
potere dalle mani dei Bianchi a quelle dei Neri nel 1301. Il rovesciamento
politico si attuò con violenze, uccisioni, saccheggi, cui seguirono, contro i
Bianchi vinti, processi illegali e sommari, accuse e condanne infamanti e
spesso ingiustificate. Dante in quei giorni non era a Firenze; era stato
mandato a Roma come ambasciatore dal governo Bianco per cercare di dissuadere
Bonifacio VIII dall’intervenire nelle faccende fiorentine. Accusato di
baratteria, cioè di uso privato di denaro pubblico, fu condannato in contumacia
a pagare un’ammenda, a due anni d’esilio, e all’interdizione perpetua dai
pubblici uffici; e gli fu intimato di presentarsi ai giudici per giustificare
il suo operato nel gennaio del 1302. Dante, sdegnosamente, non pagò l’ammenda e
non si presentò; seguì allora una seconda sentenza, il 10 marzo, che lo condannava
al rogo se fosse stato preso nel territorio del Comune.
La sentenza apriva per Dante il periodo dell’esilio, un’esperienza
da cui fu segnata la sua vita e la sua opera. Nel Convivio, parlando della sua esistenza
di esule, egli si rappresenta come una nave allo sbando, senza vela e
senza governo (= timone), spinta dal vento freddo della povertà. E
nel Paradiso dichiara di aver provato
come sa di sale
lo pane altrui,
e com’è duro calle
lo scendere e il
salir per l’altrui scale.
Benché la sua cultura e la sua fama gli aprissero le
porte di molte corti italiane, egli sentiva come dolorosa umiliazione il fatto
stesso di dover chiedere ed accettare ospitalità: al che si aggiungeva la
nostalgia per la patria e le persone care perdute ed il risentimento amaro per
l’ingiustizia sofferta. Unici conforti erano per lui la consapevolezza della
propria innocenza, l’orgoglioso senso della propria superiorità nei confronti
di coloro che lo avevano bandito, e la passione culturale e letteraria da cui
nacquero le sue opere che, ad eccezione della Vita nova e di
alcune Rime, furono
tutte composte durante l’esilio.
Numerose furono le sue peregrinazioni per l’Italia, «per le parti tutte – come egli dice – alle quali questa lingua [l’italiano] si stende». Fra le tappe più importanti
ricordiamo il soggiorno a Verona presso gli Scaligeri, in Lunigiana presso i
Malaspina, e quello finale a Ravenna presso i Polentani.
Le sue ricorrenti speranze di ritorno in patria andarono
sempre frustrate. Subito dopo l’esilio aveva creduto, con gli altri Bianchi
esuli, di poter tornare in Firenze con le armi; ma l’inettitudine dei suoi
compagni e le loro interne discordie trasformarono il tentativo in una
sconfitta sanguinosa. Di nuovo le sue speranze si riaccesero alla venuta in
Italia dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo nel 1311, che Dante sperava
avrebbe messo fine alle interne lotte dei Comuni e quindi anche di Firenze,
aprendogli la strada del ritorno. Ma fu speranza che svanì con la morte
improvvisa di Arrigo nel 1313. Né egli volle accettare dai Fiorentini amnistie
e condoni che implicassero ammissioni di colpevolezza e quindi fossero lesive
della sua dignità. «Non è questa la via
per ritornare in patria – scriveva nel 1315 a un amico di Firenze che
gli aveva rese note le condizioni umilianti di un decreto che gli avrebbe
consentito il ritorno – ma se ne sarà
trovata un’altra, da voi o, poi, da altri, che non offenda la fama e l’onore di
Dante, per quella mi metterò con passi non lenti; ma se non si può entrare in
Firenze per una strada siffatta, io non c’entrerò mai».
Si illuse invece fino all’ultimo, con ostinata speranza,
che i Fiorentini potessero richiamarlo onorevolmente in città in virtù della
sua grandezza di studioso e di poeta. Era una speranza che, verso la fine della
composizione del Paradiso, quando
ormai la morte non era lontana, affidava alla sua Commedia, il
«poema sacro», rivivendo il dramma della sua innocenza calunniata dagli
avversari, quasi di agnello perseguitato dai lupi:
Se mai continga che ‘1 poema sacro
al quale ha posto mano e ciclo e terra,
sì che m’ha fatto per più anni macro
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’io dormì agnello,
nemico ai lupi che li danno guerra.
(Paradiso
XXV).
Morì in esilio, a Ravenna, nel 1321.
Le opere – La
sua attività di studioso e di poeta si concretò nella vastissima produzione che
ebbe il momento culminante e conclusivo nella grandiosa costruzione della Commedia,
alla quale fecero da preparazione e da supporto le meditazioni e le sperimentazioni
precedenti, documentate dalle cosiddette opere minori. Nella
giovinezza ed all’incirca fra il 1283 e il 1292 compose numerose liriche di
tipo stilnovista in onore di una donna amata, una Beatrice, forse figlia di
Folco Portinari, che andò sposa a Simone dei Bardi e morì nel 1290 in
giovanissima età.
a) La Vita nova
– Raccolte insieme e intervallate da prose che ne illustravano l’origine e il
significato, queste liriche costituirono il libretto La vita nova, storia di un amore
adolescenziale, coi suoi turbamenti e tremori, ma anche analisi attenta e
sottile dei moti suscitati nell’animo dall’amore.
Nell’operetta, secondo i moduli dello Stilnovo, la figura
di Beatrice si traduce in quella ideale della donna-angelo che guida l’uomo
verso il bene e la cui perdita è fonte di ottenebramento e di offuscamento
morale. Dante racconta il suo primo incontro con Beatrice all’età di nove anni.
Il secondo incontro avvenne nove anni dopo e Dante se ne innamora perdutamente.
Dante, per non far intendere il suo amore nei confronti di Beatrice, finge di
essere innamorato di altre due donne e per questo motivo Beatrice gli toglie il
saluto. Dante soffre per questi mancati saluti di Beatrice. In seguito Dante
prende coraggio e esterna il suo sentimento verso Beatrice, ma fu deriso da
Beatrice e da altre donne. Il passaggio importante dell’opera è la morte del
padre di Beatrice.
Nella stessa notte gli apparve in sogno una visione che
si avvererà con la morte di Beatrice. L’opera finisce che Dante spiega che egli
non scriverà più su Beatrice finché non le dirà tutti i suoi sentimenti che ha
provato per lei.
b) le Rime
– Parte scritte a Firenze e parte in esilio, le Rime coprono
quasi l’intero arco della vita di Dante.
Esse testimoniano le successive e varie sperimentazioni
tecniche del poeta che, tentando argomenti diversi, andava progressivamente costruendosi
un linguaggio articolato e polimorfo, dal delicato e tenue, al violentemente
passionale, al plebeo, al rigorosamente logico, preparandosi alla polifonia
tematica e tonale della Commedia.
Nelle Rime, a delicati componimenti di
tipo stilnovistico, si affiancano, infatti, le canzoni di selvaggia e terrena
passionalità per una certa Petra (Rime
petrose), una tenzone (o scambio di componimenti a
botta e risposta) plebea con l’amico Forese Donati, liriche di argomento etico
e filosofico, come la famosa canzone Tre donne intorno al cor.
c) Il Convivio
– Fra il 1304 e il 1307, già in esilio, Dante componeva il Convivio, specie
di enciclopedia del sapere contemporaneo, costituita da canzoni e da trattati
in prosa illustrativi e rimasto incompiuto.
L’opera è scritta in volgare perché al convito, o
banchetto di cultura, potessero partecipare anche coloro che non conoscevano
il latino. L’opera è composta da un prologo e da tre trattati.
Il prologo racconta il piano dell’opera
e la motivazione della sua formazione.
Il primo trattato parla del volgare e dell’importanza che
potrà avere nel futuro della letteratura.
Il secondo trattato espone i quattro sensi della
scrittura: quello letterale, che comprendere il testo in senso
letterale, quello allegorico, ossia
una verità superiore a quella letterale, quello morale è la
conseguenza di quello allegorico, quello anagogico il sovrasenso
spirituale.
Il terzo trattato è una lode alla filosofia e alla natura
dell’uomo. Il quarto trattato racconta della vera nobiltà come virtù morale.
d) Il De vulgari
eloquentia – Sempre degli anni fra il 1304 e il 1307 è il De vulgari
eloquentia, anch’esso
rimasto incompiuto, in cui Dante affronta il problema della lingua italiana e
cerca di delineare le caratteristiche di un volgare che superi le differenze
dei dialetti regionali e possa diventare la lingua colta comune a tutti gli
scrittori e poeti della penisola.
e) Il De Monarchia
– Legata alla venuta di Arrigo VII in Italia ed alle speranze suscitate in
Dante da tale avvenimento è la Monarchia, un trattato politico in
latino in cui il poeta delinea i caratteri e le funzioni dell’Impero, e, con
modernità di vedute, il rapporto che deve intercorrere fra potere spirituale e
temporale.
L’opera è divisa in tre libri: il primo libro racconta
che soltanto attraverso una monarchia universale l’uomo potrà arrivare alla sua
massima capacità intellettuale; il secondo libro racconta che i romani sono
arrivati alla massima estensione non attraverso le armi, ma attraverso la
provvidenza; il terzo libro racconta che Dante divide in due poteri l’Impero e
il Papato, dicendo che entrambi i poteri sono stati donati da Dio e quindi non
devono essere la stessa persona. Ma l’Impero deve stare sempre al dì sotto del
Papato, cioè di Dio.
f) Le Epistole
– Altre opere del periodo dell’esilio sono le Epistole, in latino, fra le quali si
ricordano quelle composte in occasione della discesa in Italia di Arrigo VII
per affiancare con l’esortazione e col consiglio la missione dell’imperatore; e
quella all’amico fiorentino a proposito dell’umiliante decreto di amnistia.
g) Le Egloghe –
Nelle Egloghe, in latino, Dante difende l’uso del volgare
nella Commedia. Un’egloga importante è quella in cui Giovanni
del Virgilio diceva a Dante di abbandonare la trascrizione dell’Inferno e del Purgatorio
e doveva scrivere un’opera in latino per arrivare alla corona di alloro a
Bologna. Dante rispose che egli avrebbe terminato l’Inferno, il Purgatorio e
avrebbe scritto anche il Paradiso e solo in fine sarebbe andato alla conquista
della corona di alloro.
h) La Quaestio de aqua et terra – La Quaestio
de aqua et terra è un trattatello scientifico
in cui Dante trascrive una questione cosmologica discussa da Dante
a Verona il 20 gennaio 1320 nella Chiesa di Sant'Elena se la terra
emersa sia più alta o no della superficie dell'acqua. Era luogo comune seguito
anche da Dante che il globo terracqueo fosse al centro dell'universo e che il
centro della sfera celeste coincidesse con il centro del medesimo. Dante
ritiene che la terra emersa è dovunque più alta della superficie del mare ed
emerge da essa nell'emisfero boreale con una gibbosità a forma di semilunio che
dovrebbe coincidere con le terre allora conosciute.
Il
trattato si struttura come una vera e propria quaestio
disputata universitaria nella quale dapprima si accolgono le tesi
concorrenti, poi si oppone la propria, quindi si discute il problema nella sua
essenza e infine si risponde punto per punto alle argomentazioni degli
antagonisti.
La Commedia – Nel 1307 Dante aveva iniziato la composizione della Commedia che
era appena stata portata a termine nel 1321, anno della sua morte. La Divina
Commedia consta, di tre cantiche, 1’Inferno, il Purgatorio, il
Paradiso. Ognuna di esse è costituita da 33 canti, più un canto
iniziale che fa da introduzione generale al poema, così che esso raggiunge il
numero complessivo di 100 canti.
Il metro è la terzina di endecasillabi (rima ABA - BCB
ecc).
Vi ricorrono visibilmente alcuni numeri che per i medioevali
avevano un particolare significato: il 3 simbolo della Trinità, il 10 simbolo
della perfezione, e i loro multipli.
Il titolo di Commedia sta ad indicare
che la vicenda in essa rappresentata si conclude con un lieto finale; ma deriva
anche dal fatto che Dante la volle scritta nello stile che egli definiva comico, cioè
uno stile mediano che consentiva una ricca varietà di toni, dall’umile e dal
venatamente rozzo, al nobile e all’elevato, attraverso tutte le gamme intermedie.
L’epiteto di divina fu attribuito all’opera dantesca dal
Boccaccio e divenne poi parte integrante del titolo.
a) La struttura dell’universo e la collocazione dell’Oltremondo dantesco - La
struttura del mondo secondo Dante, che si adegua in ciò alle diffuse
convinzioni medioevali, è la seguente. Al centro dell’universo, sospesa nell’aria,
sta la terra, una sfera immobile che l’equatore divide in due emisferi, quello
boreale abitato dagli uomini, quello australe interamente coperto dalle acque.
La terra è contornata dalla sfera dell’aria e dalla sfera del fuoco, e poi da
nove cicli concentrici e trasparenti che le ruotano attorno. In questa
struttura cosmologica Dante ha collocato concretamente il suo Aldilà: Inferno,
Purgatorio, Paradiso.
L’Inferno è una
grande voragine che si apre a forma di imbuto proprio accanto a Gerusalemme, e
si estende, restringendosi progressivamente, fino al centro della terra. Essa
si è spalancata quando Lucifero è stato cacciato dal Paradiso e la terra su cui
è precipitato si è aperta per orrore del suo contatto. In fondo all’Inferno,
nel centro della terra, Lucifero è rimasto conficcato. L’Inferno è diviso in
cerchi dove sono collocati i dannati, tanto più in basso quanto maggiore è la
gravita della loro colpa. Preceduti dagli ignavi, cioè da
coloro che nel mondo non hanno fatto né bene né male e che occupano l’Antinferno,
essi sono distinti in tre categorie, e cioè, dall’alto al basso, gli incontinenti, cioè
coloro che non hanno saputo controllare i propri istinti con la ragione,
i violenti, i fraudolenti. A queste tre
categorie, presenti in San Tommaso, che a sua volta le aveva derivate da
Aristotele, si aggiungono coloro che, non per loro colpa, non hanno conosciuto
Dio, e che stanno nel Limbo, e
gli eretici, che coscientemente hanno rifiutato Dio. Il limbo
costituisce il primo cerchio, gli eretici sono collocati nel sesto cerchio, che
precede la sede infernale dei violenti e dei fraudolenti.
Il Purgatorio è
una montagna che, altissima in mezzo alla sterminata distesa delle acque, si
erge al centro dell’emisfero boreale, agli antipodi dell’apertura dell’Inferno.
La montagna del Purgatorio è a sua volta divisa in tre parti: le sue pendici
più basse costituiscono l’Antipurgatorio, dove aspettano di
iniziare l’espiazione le anime di coloro che si pentirono solo in punto di
morte; segue il Purgatorio vero e proprio diviso in sette balze
corrispondenti ai sette peccati capitali; sulla cima del monte è collocato
il Paradiso terrestre.
Il Paradiso ha
la sua sede nell’Empireo, che sta al di là dei nove cieli rotanti. In esso
stanno Dio, la Vergine, gli angeli e i beati. Ma Dante immagina che, durante il
suo viaggio, le anime dei beati prendano temporaneamente dimora nei nove cieli
perché egli, dalla loro maggiore o minore vicinanza all’Empireo, possa rendersi
conto del loro maggiore o minore grado di beatitudine.
b) Il viaggio dantesco: significato letterale e
significato allegorico - Il poeta immagina di essersi
smarrito, nella notte tra il giovedì e il venerdì Santo del 1300, anno del
Giubileo indetto da papa Bonifacio VIII, in una selva oscura. Preso da terrore,
cerca di uscirne, e crede di potersi salvare salendo su di un monte che ad un
tratto gli appare, e che è illuminato dalla luce del sole. Ma tre fiere, una
lonza, un leone e una lupa, gli impediscono il cammino, ed egli riprecipita a
valle, nell’oscurità della selva. Quando ormai si crede perduto, è soccorso dal
poeta latino Virgilio, a lui mandato da Beatrice, che dal Paradiso, dove ormai
si trova, vuole soccorrerlo. Virgilio lo ammonisce che, per uscire dalla selva,
dovrà compiere un cammino ben più lungo e arduo che non l’ascesa al monte:
dovrà cioè discendere nell’Inferno, salire le balze del Purgatorio; e solo
allora potrà giungere alla salvezza, cioè a Dio.
Come si vede, il significato letterale si intreccia
strettamente fin dall’inizio col significato allegorico. La selva oscura
rappresenta la dispersione spirituale, cui si abbandonò Dante dopo la morte di
Beatrice; le tre fiere rappresentano i vizi (lussuria, superbia, avarizia) da
cui non è facile all’uomo liberarsi; il viaggio per l’Inferno e per il Purgatorio
rappresenta la riflessione sulle conseguenze del peccato, riflessione che, con
l’aiuto della grazia, può consentire all’uomo di salvarsi.
Il poeta Virgilio e Beatrice fanno da guida a Dante nel
suo viaggio ultraterreno. Virgilio rappresenta la ragione umana, grazie alla
quale l’uomo si rende conto delle conseguenze del suo cattivo operare; ma
rappresenta anche, in quanto celebratore nell’Eneide dell’impero romano, il potere imperiale.
Beatrice, la donna angelicata della Vita nova, qui rappresenta
la grazia divina e la teologia depositaria della rivelazione, che subentra alla
ragione là dove questa non può arrivare; ma rappresenta anche la Chiesa, l’istituzione
cioè che, insieme all’Impero, può portare alla salvezza l’umanità, se l’una e l’altro,
concordemente e autonomamente, agiranno nell’ambito che loro spetta. Il valore
simbolico che le due guide assumono nella Commedia non toglie
loro ricchezza d’umanità. Nel difficile percorso attraverso l’Inferno e il
Purgatorio, Virgilio è per Dante l’amico, il padre, il maestro severo e
affettuoso; e Beatrice, che sostituisce Virgilio nel guidare Dante attraverso
il Paradiso, è animata da caldo affetto e da trepidazione femminile.
Il viaggio dantesco nell’Oltremondo dura sette giorni,
dalla notte fra il 7 e l’8 aprile al pomeriggio del 14 aprile del 1300. Guidato
da Virgilio il poeta scende, percorrendo i cerchi infernali, fino al centro
della Terra. Di qui, per un passaggio interno all’emisfero australe, perviene
alla montagna del Purgatorio, sulla cui cima, nel Paradiso terrestre, lo
aspetta Beatrice. Guardando negli occhi di lei, in virtù della bellezza e della
forza morale e conoscitiva che da essi promanano, il poeta, salendo di cielo in
cielo, giunge infine all’Empireo, sede di Dio.
c) Caratteri delle tre Cantiche - Pur caratterizzata da salda compattezza unitaria, da
organicità strutturale, la Commedia presenta caratteri diversi
nelle tre cantiche.
L’Inferno è il regno dove dominano le
individualità potenti, che si ergono con eccezionale rilievo davanti al poeta
che le interroga. Esse sono ancora psicologicamente legate alla terra, che è il
luogo della loro felicità perduta, e sono ancora dominate dalle passioni che
sulla terra le segnarono in modo particolare: Francesca da Rimini dall’amore,
Farinata dall’ardore politico, Brunetto Latini dalla solidarietà col discepolo
e dalla sollecitudine per la propria opera di studioso, Pier delle Vigne dalla
sua lealtà verso l’imperatore, Ugolino dall’odio contro il nemico che ha
sterminata la sua famiglia, Ulisse dall’ansia di conoscenza, ecc.
Bloccate nelle loro passioni, esse appaiono anche isolate
dalle altre anime; rari sono i loro rapporti con i compagni di pena; e, se
rapporto vi è, è per lo più di disprezzo e di odio.
Questi grandi personaggi, che sembrano a volte persino
insensibili alla pena cui sono condannati, sono più numerosi nella parte più
alta dell’Inferno; nel fondo del baratro infernale, pur con alcune eccezioni,
prevale invece una brulicante moltitudine di esseri che, come nulla ebbero di
magnanimo in vita, così nulla hanno dopo morte che dia loro qualche grandezza
anche nel male.
Nel Purgatorio le personalità sono più
sfumate; nelle anime i sentimenti e gli affetti terreni non levano più alta la
loro voce, e si traducono piuttosto in ricordo nostalgico, quasi mai doloroso,
poiché esse sono consolate dal pensiero della beatitudine eterna che le
attende. Legate fra loro dalla comune confortante aspettativa e permeate di
comune caritas cristiana, si muovono coralmente, a gruppi. E corali
sono i canti di preghiera che esse levano a Dio e nei quali amorevolmente includono
anche il ricordo dei viventi, ancora soggetti all’errore.
Nel Paradiso, infine, le anime sono
tutte accomunate nella beatitudine del possesso di Dio. Scompare anche
fisicamente la loro fisionomia terrena: se si eccettuano le anime del primo
Cielo in cui, se pur sfuocati, sono visibili i lineamenti dei loro volti, negli
altri Cicli esse si presentano come luci; e la diversa intensità del fulgore
che le avvolge e le nasconde è indice del loro diverso grado di beatitudine.
Tuttavia la terra, che Dante sente così lontana colle sue
laceranti passioni, «l’aiola che ne fa tanto feroci», penetra anche in questo
regno: come valutazione che orienti moralmente la vita terrena, come giudizio
che ristabilisca la giustizia violata sulla terra. Sono particolarmente
significativi in questo senso la invettiva di San Pietro contro la corruzione
degli ecclesiastici, e i tre canti centrali del Paradiso, il XV, XVI, XVII, in
cui Dante rivive con intensità emotiva e grande espressività poetica l’amara
vicenda del suo esilio.
d) Il «paesaggio» nei tre regni - Come
diversa è, nei tre regni, la natura delle anime, così è diverso lo sfondo su
cui sono collocate.
Oscura e cupa è l’atmosfera infernale, dove non penetra
mai la luce del sole, «lo dolce lome»; nei vari gironi, di volta in volta, cade
spietatamente una pioggia sudicia e gelida, o sibila una violenta bufera, o il
ghiaccio chiude i dannati nella sua morsa, o l’oscurità è sinistramente
illuminata dai bagliori del fuoco punitore. Gli aspetti della natura vi si
manifestano in forma abnorme: un fiume di sangue, un bosco in cui le piante
sono anime, e quando viene reciso un ramoscello ne esce non linfa vitale ma
sangue. E le voci che percorrono questo regno sono lamenti o invettive. Custodi
dell’Inferno sono, accanto ai diavoli della tradizione cristiana, i
demoni della tradizione classica (Caronte e Cerbero); o figure della mitologia
classica qui assunte in funzione demoniaca, come Minosse, i Centauri, i Giganti.
Nel Purgatorio trionfa invece la natura
in tutto il suo fascino. È un paesaggio di acque (il tremolar della
marina) e di montagna,
illuminato dalla luce solare, e dove le notti sono confortate dallo splendore
delle costellazioni. Sulla cima del monte, nel Paradiso terrestre, il paesaggio
si fa poi verde e irriguo; vi si stende una fìtta foresta, «la divina foresta
spessa e viva», costellata di fiori e percorsa da due fiumi. Custodi di questo
regno, che risuona dei canti dei penitenti, sono gli angeli, vestiti ora di
verde ora di bianco.
Il Paradiso poi è tutto musica e fulgore
di luce. Luminosi sono i nove cieli della concezione tolemaica, sui quali le
anime, luce esse stesse, appaiono come gemme incastonate in preziosi monili;
musicale è il movimento dei cieli rotanti. E tutto splendore di luce è l’Empireo,
sede di Dio e della Corte beata.
e) La legge del «contrappasso» - Nell’Inferno e nel Purgatorio le
pene delle anime sono stabilite secondo la legge del contrappasso, per
cui il tipo della pena corrisponde a quello della colpa. Il contrappasso può
realizzarsi per somiglianza o per contrasto. Il
primo caso, ad esempio, si verifica per la pena dei lussuriosi che, travolti in
vita dalla bufera della passione, sono qui sbattuti dalla «bufera
infernal che mai non resta». Esempio del secondo caso è la pena dei
golosi che, amanti in vita dei cibi raffinati, sono qui costretti ad ingozzare
una sudicia broda di acqua e di fango.
f) Dante, vero protagonista della «Commedia»
- Numerosissimi sono i personaggi che Dante incontra nel suo viaggio, che
interroga e dai quali ottiene risposte. È una galleria articolata di figure che
popolano i tre regni; e certo ognuna di esse ha una vita e una fisionomia sua
ed autonoma. Ma, anche, attraverso tali personaggi, Dante esprime molti aspetti
della propria personalità; anzi egli, nella sua opera, è sempre presente con i
suoi sentimenti, con i suoi dubbi, con le sue speranze, le sue delusioni e i
suoi ideali. Per questo è stato giustamente detto che il vero protagonista della
Commedia è Dante nella sua complessa e mossa personalità.
Significato e valore della cultura dantesca - Risulta evidente dalla biografia di Dante la vastità
della sua cultura, che spazia nelle più svariate discipline e trova alimento
nelle diverse epoche storiche, da quella classica e pagana, almeno nei modi e
nella misura in cui questa poteva essere recepita e accolta nel Medio Evo, a
quella cristiana e romanza: da Aristotele a San Tommaso, da Virgilio, Orazio,
Lucano ai trovatori provenzali e ai poeti italiani più vicini.
Ma l’importanza della cultura dantesca non sta tanto nel
suo carattere vastamente enciclopedico, carattere del resto comune al mondo
medioevale, ma nel fatto che essa non è mai passivo apprendimento, ma è diretta
alla soluzione di problemi, siano essi religiosi, morali, politici o letterari.
Diventa in tal modo attiva passione culturale; e proprio
per questa ragione può fare da supporto, specie nella Commedia, alla
poesia dantesca, che dalla cultura riceve stimoli e di essa si arricchisce come
di nutrimento vitale.
Il pensiero politico di Dante - Dante era convinto che l’Impero fosse la sola
struttura politica capace di portare e mantenere la pace nel mondo. Essendo
esso, come già l’Impero romano, un potere universale, e come tale in grado di
controllare le varie strutture politiche particolari (Stati e Comuni)
affermatesi al suo interno, l’Impero, nel pensiero dantesco, aveva la
possibilità di porre fine alle contese e alle guerre che laceravano le sue
province.
Era questa, in realtà, una visione generosa, ma
utopistica, e anche anacronistica, perché ormai l’autorità imperiale era al
declino, ed era accettata solo formalmente da coloro che in teoria avrebbero
dovuto considerarsi suoi sudditi: ne è un esempio il fallimento dell’impresa di
Arrigo VII che si vede coalizzati contro di sé i Comuni italiani. L’Impero
vagheggiato da Dante, qualunque fosse il Paese di origine dell’imperatore,
doveva considerarsi romano in quanto erede dell’Impero romano, e avere in Roma
il suo centro e la sua vera capitale.
Se il sogno di un forte impero universale era il frutto
dell’anelito dantesco all’instaurazione di un pacifico ordine nel mondo, il
Comune, Firenze, era stato per Dante il campo del suo concreto operare e delle
sue impetuose passioni politiche, rimaste ben vive anche dopo l’esilio e
tradotte poeticamente nella Commedia in figure ed episodi:
nella predizione di Ciacco sul futuro destino di Firenze, nella generosa figura
di Farinata degli liberti, nella condanna che Brunetto Latini pronuncia contro
i molti fiorentini rozzi e corrotti che opprimono una minoranza onesta e
scelta, nelle invettive contro le nuove classi arricchite che hanno alterato l’antico
equilibrio sociale. E, in contrasto con la Firenze dei suoi tempi, Dante
rievoca, nel nostalgico canto XV del Paradiso, la Firenze di
tre generazioni precedenti, la Firenze «dentro della cerchia antica», in cui la
vita comunale si svolgeva misurata e serena, senza ambizioni smodate e senza
lotte di fazioni; e non vi erano proscrizioni né esili, così che ognuno sapeva
dove sarebbe stato sepolto.
Quanto all’Italia, Dante la riconosce ripetutamente come
entità unitaria territoriale e linguistica (il «bel paese là dove il sì
suona»), ma non le attribuisce autonoma consistenza politica. L’Italia è per
lui una provincia dell’Impero, certo la più bella delle sue province, «il
giardin dell’imperio», e anche la più nobile, in quanto in essa si trova Roma.
Dante attribuisce la corruzione del mondo all’incapacità
dell’imperatore a reggerlo con autorità ed equità. Ma a sua volta, causa della
debolezza dell’Impero è l’arbitraria ingerenza della Chiesa nell’ambito
politico. Assumendo funzioni che sono di spettanza del potere imperiale, i
papi «politici», che dimenticano l’insegnamento evangelico «Date a Cesare quel
che è di Cesare», accumulano in sé i due poteri, quello temporale simboleggiato
dalla spada, e quello spirituale simboleggiato dal pastorale; di
conseguenza i due poteri, così uniti, non possono più esercitare l’uno sull’altro
un reciproco salutare controllo. Da tale situazione deriva evidente danno all’Impero,
che rimane esautorato di ogni potere; ma danno non meno grave ne viene alla
Chiesa, che si mondanizza e, perseguendo ambizioni terrene di potere, dimentica
la funzione spirituale che Dio le ha assegnato.
La salvezza delle due grandi istituzioni universali,
Impero e Chiesa, e soprattutto la salvezza del mondo, poggia, nel pensiero
dantesco, sulla autonomia reciproca del potere spirituale e del potere
temporale: spetta all’Imperatore guidare gli uomini alla instaurazione della
giustizia e della pace terrena; spetta al Papa guidarli alla salvezza
spirituale. Queste conclusioni, esposte sistematicamente nella Monarchia, sono
proposte con calda passione, e si traducono in poesia, in molti passi
della Commedia. Ad esse si collegano, nel poema, le violente
invettive contro Bonifacio VIII, il papa politico per eccellenza, invettive
che culminano nel Paradiso con la condanna scagliata da San
Pietro contro i prelati avidi di potere, lontani dal vero insegnamento di
Cristo.
Il latino «lingua regina» e il volgare «sole nuovo» -Vissuto in un periodo in cui il latino continuava ad
essere la lingua della cultura e degli studi ufficiali, mentre il volgare, la
lingua emergente, si andava costruendo nell’uso quotidiano e nelle sperimentazioni
poetiche, Dante è uno dei primi ad affrontare il problema della lingua italiana
nella sua genesi e nelle sue implicazioni.
La lingua regina, egli dice con immagine tipica del suo
tempo, è il latino, in quanto è lingua stabile, fissa, codificata nella
grammatica e nella sintassi. Ma, con spirito proiettato verso il futuro, egli
si rende conto che la nuova società, lontana ormai nel tempo e nello spirito da
quella latina, con nuovi interessi, nuova sensibilità, nuovi problemi, esige,
per esprimere se stessa, una nuova lingua che da lei e in lei si generi e si
evolva: e questa non può essere che il volgare, definito nel Convivio «sole
nuovo», destinato a prevalere sull’altro sole, il latino, che tramonterà.
Secondo Dante il volgare non deve essere solo la lingua
degli affetti privati, la lingua - come dice nel Convivio - in
cui suo padre e sua madre si sono conosciuti e parlati, e che perciò ha in
qualche modo presieduto alla sua nascita; ma deve diventare l’aristocratico
strumento espressivo, il «volgare illustre», comune a tutti i poeti italiani; e
può essere anche la lingua della cultura e della scienza, quando cultura e
scienza cessino di essere strumento elitario, di pochi, e diventino un bene
diffuso ai molti. Per questa ragione, staccandosi dall’uso del suo tempo, egli
scrive in volgare la sua «summa» di sapere, il Convivio.
Francesco Petrarca
La vita -
Petrarca nacque ad Arezzo nel 1304 da famiglia fiorentina di parte Bianca, che
era stata costretta all’esilio dopo il trionfo dei Neri nella città. Il padre,
ser Petracco, nel 1312 lasciò l’Italia per Avignone, in Provenza, dal 1308 sede
del papato, e che di conseguenza era diventata un centro ricco di attività e di
traffici che offriva buone possibilità di lavoro; ser Petracco, infatti,
divenne notaio presso la Corte papale.
Francesco, insieme col fratello Gherardo, dopo aver
appreso i primi rudimenti di grammatica e di retorica con Convenevole da Prato
a Carpentras, vicino ad Avignone, dove la famiglia si era stabilita, fu avviato
allo studio del diritto a Montpellier,
frequentando la facoltà delle arti che era un inizio di formazione per gli
studenti di qualunque ambito;
passò poi, nel 1320, all’Università di Bologna,
università giuridica per eccellenza, dove convenivano discepoli da tutta
Europa. Ma gli studi di diritto non erano congeniali a Petrarca, che ad essi
preferiva quelli di letteratura e di poesia.
Petrarca fu allievo di Convenevole da Prato maestro di
Niccolò da Prato, cardinale che aveva cercato di mettere pace tra guelfi
bianchi e neri a Firenze; e in seguito compì gli studi universitari a
Monpellier in Provenza.
Dal 1320 insieme
a Gherardo, fu inviato a Bologna per studiare diritto civile: qui venne per la prima volta in contatto con la tradizione
poetica italiana.
Tornato ad Avignone dopo la morte del padre (1326), vi
trascorse alcuni anni di vita brillante e mondana.
Fu in questo periodo, nel 1327, che conobbe la donna che
sarebbe stata l’amore tenace e irrealizzabile di tutta la sua vita e che
avrebbe avuto tanta parte nella sua opera: una giovane signora avignonese che
gli studiosi hanno creduto di poter identificare con una Laura de Noves,
maritata a Ugo de Sade.
Intorno al 1330, consumato il modesto patrimonio paterno, Petrarca aveva intanto assunto gli ordini minori
ecclesiastici, non per fervore religioso, ma, come spesso avveniva allora, per
ottenere una dignitosa sistemazione economica. Entrò al servizio del cardinale
Giovanni Colonna che gli fu – come dice lo stesso Petrarca – quasi fratello e
padre più che padrone, e si valse di lui per incarichi congeniali alle sue
attitudini e alla sua cultura.
Fra il 1333 e il 1337 compì, per studio e per diletto,
una serie dì viaggi per l’Europa: nella Francia settentrionale, nelle Fiandre,
in Germania e infine in Italia, dove Roma lo colpì col fascino delle sue
tradizioni pagane e cristiane.
Ritornato in Provenza nel 1337, si ritirò a vivere in una
casetta di campagna presso Avignone, in Valchiusa, una località appartata ed
amena, proprio alle fonti del Sorga, il fiume dalle «chiare, fresche e dolci
acque», che gli offriva, dopo le dispersioni mondane e dei viaggi, un soggiorno
tranquillo, dove raccogliersi nei suoi amati studi.
Petrarca trascorse
il periodo avignonese negli studi, senza peraltro trascurare i piaceri mondani;
proprio da due relazioni avute nel 1337 e nel 1343 nacquero i figli Giovanni e
Francesca, che legittimò solo in seguito, curandone la sistemazione economica e
l'educazione.
Pensava
di trascorrere in Valchiusa tutta la vita. Ma in realtà, irrequieto per
temperamento, se ne allontanò più volte fra il 1341 e il 1353, anni in cui
soggiornò alternativamente in Provenza e in Italia: appoggiato dalla illustre
e potente famiglia romana dei Colonna (fu
amico anche di Stefano e Giovanni Colonna), compì in quegli anni numerosi
viaggi in Europa,
spinto dall'irrequieto e risorgente desiderio di conoscenza umana e culturale
che contrassegna l'intera sua agitata biografia: fu a Parigi,
a Gand,
a Liegi (dove
scoprì due orazioni di Cicerone), ad Aquisgrana, a Colonia,
a Lione.
Parallelamente alla formazione culturale classica e patristica, cresceva il suo prestigio
in campo politico: nel 1335 ebbe inizio il suo carteggio con il Papa, inteso non solo a sedare alcune
rivolte nella penisola, ma anche a ottenere il ritorno della sede pontificia da
Avignone a Roma, affinché si mettesse fine alla cosiddetta cattività avignonese.
All'anno successivo risale il progetto delle opere
umanisticamente più impegnate, la cui parziale stesura, dell'Africa in particolare, gli procurò tale
notorietà che contemporaneamente (il 1º settembre 1340) gli giunse da Parigi e da Roma
il desiderato invito dell'incoronazione poetica.
Petrarca scelse Roma, Petrarca scese in Italia a Napoli, presso la corte di Roberto d'Angiò: questi aveva ereditato
nel 1309 il trono di Napoli dal padre
Carlo II e subito, contrastando la venuta dell'imperatore Enrico VII, era
diventato il leader del guelfismo italiano; colto e
mecenate, aveva ospitato a corte Giovanni
Boccaccio nei primi passi della
sua carriera letteraria.
Petrarca lo conobbe all'inizio del 1341,
quando dimorò circa un mese a Napoli per essere esaminato prima dell'incoronazione poetica;
probabilmente l'incontro era stato organizzato da Dionigi da Borgo Sansepolcro. Sotto il patrocinio
del re Roberto D'Angiò, lesse
alcuni episodi del poema e discusse, in tre giornate, di poesia, dell'arte
poetica e della laurea: l'8 aprile del 1341
veniva incoronato in Campidoglio a Roma: questo altissimo
riconoscimento lo confortò a proseguire la stesura dell'Africa.
I ricordi delle conversazioni avute con
il re prima dell'esame vero e proprio disegnano il prototipo del perfetto
sovrano, saggio e virtuoso oltre che esperto politico, e tale è la
raffigurazione di lui che ritorna costantemente nelle opere petrarchesche;
dietro sua richiesta, inoltre, Petrarca gli dedicò l'Africa. Fece però in tempo
a indirizzargli solo tre lettere, dato che Roberto morì poco dopo, all'inizio
del 1343; in seguito alla sua scomparsa il regno precipitò in una profonda crisi,
come Petrarca potè constatare quello stesso anno nel suo secondo e ultimo
soggiorno napoletano e come raccontò allegoricamente nell'egloga II del Bucolicon carmen. In memoria del
defunto compose anche un epitaffio laudativo.
Dopo l’incoronazione Petrarca fu ospite di Azzo
da Correggio a Parma fino al 1342.
Dall'autunno del 1344 al 1347 risiedette a Valchiusa, donde lo distolse l'entusiastica
adesione alla rivolta di Cola di Rienzo: l’impresa di Cola, che
sembrava riuscisse a restaurare in Roma l’antica grandezza repubblicana.
Petrarca si propose di appoggiare l’impresa con la sua autorità ed il suo
consiglio, ma il viaggio verso Roma fu interrotto dalla notizia del fallimento
del tentativo di Cola.
Rinunciò
al viaggio romano e si arrestò a Parma, dove lo raggiunse la notizia (19 maggio
1348) della morte di Laura, colpita dalla peste.
Lasciata
Parma, Petrarca riprese a vagabondare per l'Italia: a Firenze rinnovò i legami
di amicizia con Giovanni
Boccaccio ed
altri letterati toscani, e a Roma, fino al 1351, quando, rifiutata ogni altra
offerta, rientrò (anche su pressione papale) in Provenza, dove scrisse le prime
Epistole a Carlo
IV di Boemia perché
scendesse in Italia a sedare le rivolte cittadine.
Nel giugno del 1353,
in seguito alle aspre e pungenti polemiche ingaggiate con l'ambiente
ecclesiastico e culturale di Avignone, Petrarca lasciò definitivamente la
Provenza ed accolse l'ospitale offerta di Giovanni
Visconti, arcivescovo e signore della città, di risiedere a Milano
alla corte viscontea.
Malgrado le critiche di amici e nemici, che gli
rimproveravano la scelta di mettersi al servizio di un signore che avrebbe
presumibilmente limitato la sua libertà, collaborò con missioni ed ambascerie
(incontrò l'imperatore a Mantova e a Praga)
all'intraprendente politica viscontea, cercando di indirizzarla verso la distensione e la pace.
Nel
giugno del 1359 per
sfuggire alla peste abbandonò
Milano per Padova presso i Da Carrara.
Nel
1362 Petrarca
si trasferì a Venezia, dove la Repubblica Veneta gli
donò una casa in cambio della promessa di donazione, alla morte, della sua biblioteca,
che era allora certamente la più grande biblioteca privata d'Europa, alla città
lagunare. Si tratta della prima testimonianza di un progetto di
"bibliotheca publica". Il tranquillo soggiorno
veneziano, trascorso fra libri e amici, fu turbato nel 1367 dall'attacco
maldestro e violento mosso alla cultura, all'opera e alla figura sua da quattro filosofi averroisti: amareggiato per
l'indifferenza dei veneziani, andò via da Venezia.
Petrarca, dopo alcuni brevi viaggi, accolse l'invito di Francesco da Carrara e si stabilì a Padova.
Nel 1370, si trasferì con i suoi libri ad Arquà, un tranquillo paese sui colli Euganei, una località campestre che gli ricordava la raccolta
solitudine di Valchiusa, nel quale si era
occupato – come sua abitudine – di far adattare e restaurare una modesta casa,
generoso dono del signore padovano.
Trascorse gli ultimi anni ad Arquà e qui morì nel 1374.
Le opere -
Numerose sono le opere di Petrarca, scritte parte in latino e parte in volgare.
Le opere in latino si possono distinguere in opere di ispirazione classica e
opere di ispirazione cristiana.
1. Fra
quelle del primo gruppo la più importante è l’Africa, poema epico in 9
libri, in esametri, che ha per argomento la seconda guerra punica. Petrarca
attinge la materia soprattutto dalle Storie di Livio e si
propone come modello poetico l’Eneide di Virgilio. L’opera si
incentra sulle gesta di Scipione l’Africano nella seconda guerra punica a Zama.
I primi due libri raccontano i personaggi illustri della storia romana. Il
terzo libro racconta del re di Numidia, alleato dei Romani. Il quarto libro è l’elogio
di Scipione. Il quinto libro racconta del suicidio della moglie del re di
Numidia. Il sesto libro racconta della morte di Magne, fratello di Annibale,
dovuta alle tante ferite ricevute in battaglia. Il settimo e l’ottavo libro
raccontano la battaglia di Zama. Il nono libro racconta il ritorno di Scipione
in patria. L’Africa è un’opera di grande ambizione, dalla quale
Petrarca si aspettava successo e gloria letteraria, ma che in realtà appare
modesta di risultati. Manca al poeta la capacità di oggettivazione e di
strutturazione richieste dal genere epico. E di tutta l’opera sono poeticamente
vivi solo pochi passi di timbro lirico in cui, attraverso gli stati d’animo di
alcuni personaggi, il poeta esprime la sua dolorosa coscienza della caducità
dei valori terreni;
2. Fra
le opere del secondo gruppo, quelle cioè di riflessione etico-religiosa, di
gran lunga la più alta ed intensa è il Secretum, in tre libri.
È un dialogo che il poeta immagina si svolga, per la durata di tre giorni e
alla presenza della Verità, fra lui e Sant’Agostino, e che si risolve in un
severo esame di coscienza del Poeta, in un sottile ed implacabile scandaglio
che egli compie nella propria anima. Il primo libro racconta dell’incontro di
Sant’Agostino con Francesco. Sant’Agostino racconta che Francesco è privo di
forza di volontà. Il secondo libro Sant’Agostino racconta che Francesco è
colpevole di tutti i peccati capitali, escludendo l’invidia e metà dell’avarizia.
Il terzo libro racconta che Francesco a causa della mancanza di volontà non
riesce ad abbandonare le cose terrene.
3. Parte
a sé fra gli scritti latini di Petrarca occupa il suo vastissimo Epistolario,
costituito dalle lettere che egli scrisse nel corso della vita, e che, per la
massima parte, rielaborò, ordinò e pubblicò personalmente. Esse, pur
attraverso il diaframma della rielaborazione letteraria, ci consentono di
conoscere momenti e situazioni della vita del poeta, e soprattutto di
penetrare nella sua inquieta e complessa psicologia. Alcune di queste lettere
sono scritte in versi esametri (Epistolae metricae);
4. È
scritto invece in volgare il capolavoro di Petrarca, il Canzoniere, raccolta
di 366 componimenti poetici composti e rielaborati in un lungo arco di anni; vi
prevalgono i sonetti (317), ma vi sono anche numerose canzoni, e poi sestine,
ballate, madrigali. Per la massima parte sono componimenti dedicati a Laura, e
costituiscono una specie di poetico romanzo amoroso, ma anche uno studio acuto
dell’anima di Petrarca, vista nei turbamenti, nei dolori, nelle gioie della
passione amorosa. Sono state divise dal poeta stesso in due gruppi: liriche
scritte per Laura viva e liriche scritte dopo la morte di lei, che avvenne
nella peste del 1348 (Rime in
vita e Rime in morte di Madonna Laura). Accanto
alle liriche per Laura ve ne sono poche altre di diverso argomento: le due
canzoni di argomento politico Italia mia e Spirto
gentili alcune liriche religiose culminanti nella Canzone alla
Vergine; e un gruppo di sonetti contro la corruzione della Curia
avignonese;
5. Agli
anni tardi appartiene l’altra opera in volgare, I Trionfi, poema
allegorico sulla vanità e sulla caducità dei valori terreni, che raggiunge rari
momenti di poesia solo là dove riaffiora il ricordo della bellezza di Laura e
della sua morte serena. I trionfi sono sei visioni in terzina dantesca.
Il trionfo dell’amore racconta l’amore per Laura. Il trionfo
della pudicizia racconta che Laura, libera i prigionieri e torna in
patria da eroina. Il trionfo della morte racconta che Laura,
durante un viaggio, incontra la morte dove gli toglie un capello e muore. Il trionfo
della fama racconta che Laura è seguita da tre cortei: quello dei
cavalieri, dei filosofi, letterati. Il trionfo del tempo racconta
che il tempo cancella le glorie del tempo. Il trionfo dell’eternità racconta
che le glorie rimarranno solo a Dio.
Fra Medioevo e imminente Rinascimento: l’inquieta
psicologia di Petrarca -Quando Dante
moriva, Petrarca aveva diciassette anni. I due poeti vivono quindi in periodi
storici cronologicamente assai vicini; eppure essi esprimono due momenti di
civiltà che vanno ormai diversificandosi, e in gran parte si sono già
diversificati. Dante accetta senza incertezze la gerarchia medioevale dei
valori che mette Dio e la vita eterna al vertice delle aspirazioni umane.
Petrarca dà voce, spesso dolente, alla crisi di passaggio fra il Medioevo e il
Rinascimento, età quest’ultima che pone in primo piano i valori terreni e
mondani. Egli infatti è medievalmente convinto che la vita che conta è quella
eterna, che Dio è la meta cui l’uomo deve tendere; e invidia coloro - come suo
fratello che si è fatto monaco - che sanno comportarsi coerentemente con questi
principi. Ma egli sente in modo altrettanto intenso l’attrazione per i valori
mondani, la fama, il successo e soprattutto l’amore: al loro richiamo non sa
sottrarsi, e nello stesso tempo li giudica fuorvianti, e ne prova rimorso e
senso di colpa. L’oscillazione fra terra e cielo, poli dell’inquieto spirito
petrarchesco, costituisce un motivo ricorrente nella sua vita e nella sua
opera.
In una delle più belle fra le Epistole, in
cui descrive la scalata sua e del fratello su un monte della Provenza, il
Ventoso, con acutezza egli si definisce uomo dall’anima ambivalente (uterque
homo). Nel diverso modo con cui i due giovani affrontano la salita
egli simbolicamente traduce il loro diverso modo di affrontare la vita e di
muovere verso il suo fine, che è Dio e la virtù: Gherardo punta diritto alla
cima e vi giunge rapidamente e con sicurezza, Francesco si disperde nelle
vallette laterali (cioè simbolicamente si lascia attrarre dalle seduzioni
mondane), nella vana speranza di trovare una strada meno ripida per salire;
così che quando alla fine anch’egli giunge in vetta, vi giunge ben più stanco e
in ritardo.
Analogamente, in quel capolavoro di penetrazione psicologica
che è il Secretum, egli individua come male essenziale della
sua anima la indecisa perplessità fra il richiamo del mondo e quello di Dio.
Dopo aver ostinatamente resistito alle accuse mossegli da Sant’Agostino (cioè
dalla sua coscienza), circa la sua debolezza di volontà, e circa l’ansia e l’attrazione
per i valori terreni, alla fine, lasciatosi faticosamente convincere, promette
che cambierà vita. Si rende conto che dovrebbe farlo subito, ma troppo forte è
il richiamo delle passioni mondane, delle «faccende profane», perché ciò sia
possibile. Così cambierà, ma più tardi: «Accoglierò, risponde al Santo, gli
sparsi frammenti dell’anima mia e diligentemente vigilerò su dì me. Ma ora,
mentre parliamo, mi attendono molte e grandi faccende, per quanto profane»; e
ricade così, come conclude Agostino, «nell’antica contesa».
Dalla Beatrice dantesca alla Laura petrarchesca – Questa ambivalenza psicologica diventa poesia nel Canzoniere. Se
Beatrice, in Dante, era figura fisicamente evanescente, angelo in terra, guida
dell’uomo a Dio, tanto che senza frizione poteva nella Divina
Commedia tradursi in simbolo della teologia e della Grazia, Laura è
invece una creatura terrena. L’altezza del suo spirito, l’onestà, la pudicizia
che regolano la sua vita e che le impediscono di corrispondere all’amore del
poeta, si accompagnano in lei a una splendente bellezza fisica per la quale,
oltre che per le sue virtù, il poeta la desidera e l’ama. Tutto il Canzoniere è illuminato da questa bellezza: «i
capei d’oro» la «bella mano», il «bel fianco». Una bellezza cui fa da sfondo la
natura della Provenza, mediterranea, solare, fra prati e acque.
Ma la felicità dell’amore è contrastata nell’intimo del
poeta da un incancellabile e ricorrente senso di colpa, dalla coscienza che
questa passione terrena lo allontana da Dio. È uno stato d’animo doloroso, da
cui nascono alcuni dei componimenti più intensi della raccolta.
Cultura cristiana e cultura classica di Petrarca – La bivalenza psicologica di Petrarca si riflette
nelle sue scelte culturali. Egli è buon conoscitore dei Testi sacri, specie di
quelli dei Padri della Chiesa.
Lo scrittore della sua vita, il punto di riferimento
etico nelle sue incertezze e nei suoi turbamenti, non è però lo «scolastico»
San Tommaso, il santo dalle grandi certezze caro a Dante e a tutto il Medioevo,
ma Sant’Agostino, il Padre della Chiesa che è giunto a Dio salvandosi dalle
passioni terrene, e che ha saputo risolvere in sé, attraverso la sofferenza,
quel contrasto fra Terra e Cielo che rimane la fondamentale irrisolta
contraddizione del Poeta.
Ma Petrarca ama allo stesso modo gli scrittori classici:
Cicerone, Virgilio, Livio, Orazio, di cui apprezza tanto il valore artistico
che la saggezza morale. Nei suoi viaggi per l’Europa cerca ostinatamente testi
di autori classici andati perduti durante il Medioevo; confronta fra loro,
precorrendo un lavoro che sarà tipico degli Umanisti, i vari manoscritti di
una stessa opera per rimediare alle mutilazioni e agli errori che ne hanno alterata
la lezione.
Ma ciò che caratterizza in senso preumanistico il
rapporto di Petrarca coi classici, e che lo stacca dal Medioevo, è il fatto che
egli non subordina il loro messaggio alla visione cristiana del mondo, ma
vuole invece recuperarlo nella sua autenticità e integrità.
Il pensiero politico di Petrarca –
Petrarca vive in un periodo in cui al declino delle vecchie istituzioni (Chiesa
e Impero) si andava aggiungendo la crisi della prima società borghese: il
Comune, che stava per essere sostituita dalle Signorie, in cui il potere era
detenuto da singole famiglie (o da oligarchie). Petrarca accetta la fine dell'istituzione
comunale e lo sviluppo delle Signorie, ma in questo senso: egli vorrebbe che le
Signorie, liberatesi dall'ingerenza dell'Impero e della Chiesa, si alleassero
tra loro per restaurare la Repubblica della Roma antica, vista non come "culla" dell'Impero e della Chiesa,
ma in sé e per sé, cioè come civiltà ricca di virtù, di eroismo, di forza
morale (una civiltà alternativa a quella medievale).
a) Dall’Impero e dal Comune
all’Italia - Nonostante la breve
differenza di anni che lo separa da Dante, gli ideali politici di Petrarca sono
assai diversi da quelli danteschi. Egli non vede più alcuno strumento di
salvezza nell’Impero, che del resto si andava sempre più esautorando; né ha
interesse per il Comune, nella cui struttura non è mai vissuto; e comunque i
Comuni in Italia venivano via via scomparendo per lasciar posto alle Signorie.
L’interesse politico di Petrarca si polarizza invece sull’Italia,
che non considera più, come Dante, provincia dell’Impero, e neppure ancora come
nazione, ma come entità politica che può raggiungere autonomia ed unità
mediante l’accordo fra le varie Signorie che in essa si sono costituite e che
tendono a dar vita a stati regionali. È questa la speranza che anima la Canzone
all’Italia, una delle due liriche politiche del Canzoniere, in
cui il poeta esorta, in nome dell’Italia madre comune, i Signori italiani a
deporre gli odi e a cessare le lotte fratricide, così che possa fra loro
stabilirsi un legame di solidarietà che porti la pace nella penisola.
b) «Virtù contro furore» - L’unità italiana
ha il suo cemento, oltre che nell’interesse comune dei Signori italiani, nella
comune tradizione romana. L’ammirazione di Petrarca peraltro non va più, come
quella dantesca, all’antica Roma imperiale, ma alla Roma repubblicana degli
Scipioni e dei Bruti, quella che Cola Di Renzo aveva tentato di far risorgere.
La tradizione romana si identifica con la civiltà, e il
poeta la contrappone orgogliosamente al germanesimo, che è barbarie. Questa
opposizione è uno dei temi fondamentali della Canzone all’Italia sopra
ricordata. La capacità militare romana vi è definita virtù, cioè
valore disciplinato e consapevole, quella germanica è furia selvaggia, furore.
Le terre germaniche sono deserti strani, quelle italiane dolci
campi.
Di qui l’accusa rivolta ai Signori d’Italia di avvalersi
per le loro guerre di milizie mercenarie, che, arruolate prevalentemente in
Germania, non solo consentono il permanere di uno stato di guerra, e della
guerra fanno un mestiere, ma portano la barbarie germanica nel nostro Paese, e
sono come un diluvio che devasta le nostre terre feconde.
Storia della novella: il Medioevo - La novella, come genere autonomo
si affermò nel Medioevo dapprima con i fabliaux,
novelle in versi a carattere satirico e popolaresco fiorite in Francia alla fine del XII secolo.
Successivamente si diffuse l’exemplum, brevissimo racconto usato dai
predicatori a fine didascalico per
spiegare i principi morali alla gente e
per guidare, attraverso il
diletto della storia narrata, verso una verità religiosa e un comportamento
morale. L’exemplum presenta
una vicenda che deve servire da modello e da ammonimento per tutti ed è
espressione di valori considerati immobili, assoluti e quindi eternamente validi. C’erano poi i Racconti riguardanti
le vite dei santi e i loro miracoli.
Si diffusero infine i racconti orientali, provenienti dalla favolosa Persia, dall’Egitto e
dall’India, come il Libro
dei sette savi, un’opera indiana tradotta durante il Medioevo prima in francese e poi in italiano. Di
queste opere l’esempio più famoso è la raccolta di novelle Le mille e
una notte, una raccolta di origine araba risalente al IX-X secolo. In essa si
ritrovano personaggi storici come il potente Califfo di Baghdad, Hamn-al-Rashid,
leggendari, come Sindbad il
marinaio o come il giovane Aladino con la sua lampada magica.
Storie di magia e d’avventura, di furbizia e di coraggio, inserite in una
storia principale, la storia-cornice della principessa Sheherazade, l’affascinante
narratrice di storie esotiche e favolose.
La novella appare
nella letteratura italiana intorno al XIII secolo Alle spalle di questo nuovo modello
letterario c’erano la grande tradizione antica (si pensi, ad esempio, a scrittori come
Petronio o Apuleio)
e le varie forme della narrativa medievale, sia occidentale che orientale, una narrativa nata
essenzialmente come tradizione orale e poi gradualmente affidata alla
scrittura.
Alla fine del Duecento, fu
compilato il Novellino, la prima raccolta organica di racconti della letteratura
italiana. In questa raccolta il termine novella, pur continuando ad indicare essenzialmente una narrazione orale, comincia ad
acquisire anche un significato e uno
spessore letterario. Come suggerisce
il nome stesso, la raccolta punta al nuovo, all’insolito, al
sorprendente, a ciò che è irripetibile e relativo, piuttosto che esemplare e assoluto. Essa non si prefigge dunque scopi morali,
ma vuole divertire e distrarre il lettore, celebra valori umani e terreni,
colloca fatti e personaggi in una concreta dimensione spazio-temporale.
Storia della novella: il Trecento - La novella raggiunge la forma più perfetta con
il Decameron di Boccaccio.
Il Decameron è una raccolta di cento novelle sono
racchiuse in una cornice che le giustifica e le ordina,
organizzandole intorno a un filo conduttore.
Il Decameron costituì per molto tempo, a partire dai Racconti di
Canterbury di Chaucer, il modello
della narrazione breve con caratteristiche diverse da tutte le altre forme narrative
medievali.
Giovanni Boccaccio
La vita -
Boccaccio nacque a Certaldo, vicino a Firenze, nel 1313. Suo padre, un
mercante, prima agente e poi socio della potente compagnia bancaria dei Bardi,
subito dopo i primi studi lo avviò alla mercatura e lo mandò a far pratica a
Napoli, presso una Casa di commercio. Ma l’attività mercantile non era
congeniale a Boccaccio; come non lo furono gli studi di diritto canonico cui
il padre, deciso com’era a trovargli comunque una professione lucrosa, lo avviò
in un secondo tempo e che egli seguì di malavoglia e non portò a termine.
Nel fastoso e colto ambiente napoletano, che aveva il suo
centro nella ricca e raffinata corte di re Roberto d’Angiò, Boccaccio visse l’esistenza
brillante e mondana della società aristocratica e altoborghese che aveva preso
a frequentare, fra feste e ritrovi che si svolgevano in città e negli ameni
dintorni. Nel contempo, però, chiariva a se stesso la sua autentica vocazione,
che era quella letteraria e poetica, e che si rivelò presto prepotente ed
esclusiva. In un’opera della tarda maturità così egli scrive di sé «Ma di qualunque
attitudine abbia dotato gli altri la natura, me fin dall’alvo materno, per quel
che mi attesta l’esperienza, ha disposto alle poetiche meditazioni, e, a mio
giudizio, sono nato per questo».
Si formò in questi anni, con iniziativa di intelligente
autodidatta, una vasta cultura che spaziava dalla letteratura classica a quelle
romanze, italiana e francese; e di esse andava alimentando, già da questi anni,
la sua opera in versi e in prosa.
Napoli fu anche il luogo di una sua importante esperienza
amorosa: qui conobbe e amò riammetta, nome sotto il quale si celava
probabilmente quello di una dama della corte, da alcuni studiosi identificata
con una Maria dei conti d’Aquino. Fu un amore infelice per l’incostanza e l’infedeltà
della donna, ma che lasciò traccia nella vita e nell’opera di Boccaccio: dal
nome di lei prende il titolo uno dei suoi scritti romanzeschi in prosa,
la Fiammetta, e Fiammetta sarà da lui chiamata una delle
giovani narratrici del Decameron.
I dodici anni napoletani rappresentarono per Boccaccio il
periodo più fertile e vivo della sua esistenza; e ad esso, per il resto della
vita, andò costantemente il suo ricordo e la sua nostalgia.
Nel 1340 dovette lasciare Napoli, a seguito del
fallimento della banca dei Bardi, che diede un grave colpo agli interessi del
padre. Tornò così a Firenze. Dopo gli splendori napoletani, la casa paterna e
la vita chiusa della città apparvero al giovane intollerabilmente squallide e
tristi. Nell’Ameto, un poema scritto dopo il suo ritorno, egli
contrappone la vita di Napoli, caratterizzata da «beltà, gentilezza, valore,
leggiadri motti», allietata da «delizie mondane», all’uggiosa serietà della sua
casa fiorentina:
Lì non si ride mai, se non di rado;
la casa oscura e muta e molto trista
me ritiene e riceve, mal mio grado.
Per alcuni anni cercò in ogni modo di evadere dalla
città: trascorse un periodo a Ravenna presso i Polentani, un altro a Forlì
presso gli Ordelaffi.
Era invece a Firenze nel 1348, quando vi scoppiò la
terribile peste che devastò buona parte dell’Europa e che avrebbe offerto lo
spunto alla sua opera maggiore, il Decameron.
Negli anni successivi, stimato per la fama e l’ingegno
dai suoi concittadini, ebbe dal Comune incarichi pubblici che lo portarono
come ambasciatore presso diverse corti italiane ed europee.
Nel 1350 aveva conosciuto Petrarca, e si era legato a lui
da un’amicizia fatta di affetto e di devozione, oltre che alimentata da
comunanza di interessi culturali; amicizia che durò fino alla morte di
Petrarca.
Questo rapporto di amicizia, oltre ad arricchirlo
spiritualmente proponendogli nuovi interessi etici e culturali, lo aiutò a
superare la grave crisi religiosa che lo colse nel ‘62, a seguito della visita
di un frate che gli preannunciava prossima la morte e gli minacciava la
dannazione eterna se non avesse abbandonato gli studi profani. L’intervento
equilibrato ed equilibratore del Petrarca lo dissuase dal bruciare le sue opere
«mondane», ivi compreso il Decameron, che era la più libera e
spregiudicata, e perciò moralmente la più condannata dalla sensibilità del
tempo.
Peraltro, già prima della crisi del ‘62, Boccaccio si era
dato a studi eruditi, che costituirono l’occupazione degli ultimi vent’anni
della sua esistenza.
Morì a Certaldo, dove si era ritirato, nel 1375.
Le opere - La
vasta produzione di Boccaccio si può dividere secondo tre periodi: le opere
giovanili o della sua formazione; il capolavoro della maturità, il Decameron; le
opere erudite dell’ultimo ventennio, cui abbiamo già accennato.
·
Delle opere del
primo gruppo, alcune furono composte nel periodo napoletano, altre dopo il
ritorno di Boccaccio a Firenze; esse sono di ispirazione più o meno direttamente
autobiografica, e comprendono poemetti in versi e romanzi in prosa, per i cui
temi lo scrittore attinge ora al mondo classico, ora alla narrativa romanza,
ora alle tradizioni popolari. Tema comune a tutte, e in tutte emergente, è l’amore.
La prima opera fu La caccia di Diana: l’opera racconta che le ninfe
andarono a caccia con Diana e al loro ritorno tradirono la dea, donando tutta
la selvaggina a Venere. La prima opera in prosa di Boccaccio fu il Filocolo:
l’opera racconta che Florio, un principe di origine pagana incontra
Biancofiore, una fanciulla di origine cristiana e se ne innamora; il padre di
Florio scopre questo amore tra i due e vende la ragazza. Florio raggiunge
Biancofiore, ma i due sono scoperti e condannati al rogo. Il romanzo termina con
il matrimonio dei due amanti e con la conversione di Florio al Cristianesimo.
Un’altra opera è il Filostrato in cui racconta l’amore di
Troilo figlio di Priamo, per Criseide; Criseide, una volta riscattata, lascia
Troilo, che, disperato, cerca la morte in guerra, affrontando Achille. Il Teseida racconta
di due amici Arcita e Palemone che si innamorano di Emilia; i due decidono di
sfidarsi a duello ed il vincitore sposerà Emilia. Arcita vince il duello ma,
caduto da cavallo, muore; prima di morire, però, dice ad Emilia di sposare il
suo amico. Un’opera di cinque capitoli in terza rima è l’Amorosa Visione.
L’opera racconta che il poeta immagina Cupido che gli invia una donna per
intraprendere una vita di virtù. Fra queste opere, due si staccano da una
mediocre piattezza: il romanzo la Fiammetta o Elegia
di madonna Fiammetta,significativo per l’acuta analisi degli effetti
prodotti sull’anima dalla passione amorosa. Quest’opera è un passaggio molto
importante della produzione letteratura di Boccaccio perché il personaggio
principale diventa donna. L’opera racconta di Fiammetta che si innamora di un
ragazzo fiorentino che è richiamato dal padre a Firenze. Boccaccio spiega tutta
la sua delusione nei confronti di questo ragazzo a causa del suo fidanzamento
con un’altra ragazza. L’altra opera di rilievo è il Ninfale
fiesolano, poemetto in ottave, nel quale una leggenda mitologica sull’origine
di Firenze si trasforma in una calda e realistica storia d’amore. L’opera
racconta che il pastore Africo s’innamora della ninfa Mensola. I due amanti
vengono scoperti da Diana e Africo viene trasformato in un fiume. In seguito
alla trasformazione di Africo, Mensola partorisce un bimbo e ciò per Diana è un
oltraggio; anche Mensola viene trasformata in un fiume. Questi due fiumi si
trovano a Firenze. Il Ninfale d’Ameto racconta di un
pastore, Ameto che si innamora della ninfa Lia. Il pastore per incontrare
Venere è purificato dalle ninfe, questa purificazione porta l’uomo dall’animalità
bruta all’affetto e all’amore. Tutte le opere di questo periodo, a prescindere
dal loro valore artistico, sono interessanti in quanto consentono di seguire la
formazione e la maturazione di Boccaccio che, attraverso di esse, saggia
argomenti e tecniche letterarie diverse, preparandosi alla ricchezza tematica e
tonale del Decameron.
·
Al Decameron, Boccaccio
lavora a Firenze soprattutto negli anni 1349-51. Il Decameron è una raccolta di 100 novelle narrate nell’arco di dieci giornate (il
titolo significa appunto, dal greco, [il libro] «dei dieci giorni»). Esse non si susseguono l’una
all’altra, giustapposte senza collegamento, ma sono collocate, secondo il gusto
medioevale, in una struttura che fa loro da cornice. L’opera prende l’avvio
dalla descrizione della terribile peste scoppiata in Firenze, come in tanta parte d’Europa, nel 1348. La rappresentazione della città devastata dal
morbo occupa le prime pagine dell’opera.
Con animo commosso e turbato
Boccaccio descrive la gravità della malattia, i pericoli del contagio, le morti. E, passando dall’analisi esterna a
quella delle condizioni psicologiche in quel terribile frangente, si sofferma sulle conseguenze devastanti di
ordine affettivo e morale. Per timore del contagio vengono meno i
tradizionali legami di amicizia e di affetto:
gli amici sfuggono gli amici ammalati e li abbandonano al loro destino;
persino padri, madri, figli,
sposi, nella malattia, rifiutano di aiutarsi fra loro; «l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la
sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa
è e quasi non credibile) i padri e le madri i figliuoli,quasi loro non fossero, di visitare e di servire
schifavano».
Boccaccio immagina che un
mattino, durante l’imperversare del contagio, in S. Maria Novella si incontri
una brigata di sette giovani donne «savia
ciascuna e di sangue nobile e
bella di forme e di leggiadra onestà» e di tre giovani
uomini, «assai piacevole e costumato
ciascuno», innamorati di tre di
loro e parenti delle altre, i quali, per sfuggire a tanta dissoluzione e disperazione, decidono di
abbandonare insieme la città appestata e di recarsi nel vicino contado.
Lontano da Firenze e dalla desolazione della pestilenza, i giovani trascorrono
le giornate in una bella villa, sulle
colline intorno a Firenze;
nella serenità della quiete campestre, la gentile brigata ricrea quel vivere
nobile e cortese, quell’ordine civile e pieno di decoro, che il flagello della
peste ha distrutto nella vicina città, vivendo all’insegna della gioia, della
serenità e della cortesia. Nel pomeriggio, mentre la nobile compagnia sta
seduta in un bellissimo prato, a turno ciascuno narra una novella; all’imbrunire
i giovani danzano e cantano una ballata. Nei quindici giorni vengono narrate
cento novelle, dieci al giorno, poiché il venerdì e il sabato, giornate
dedicate alla preghiera e alle pratiche religiose, viene sospesa la
narrazione. Ogni giorno viene
eletto fra i giovani un «re» o una «regina» che (ad eccezione del primo e del
decimo giorno) stabilisca il tema generale della giornata: la fortuna, l’amore,
l’ingegno, ecc.; tema al quale, con libera inventiva, dovranno adeguarsi i
narratori. Uno dei giovani, Dioneo, il più divertente e spregiudicato, a
cui viene concesso il «privilegio» di raccontare sempre per ultimo e di
scegliere a suo piacimento il tema della novella. In tal modo Boccaccio evita
il rischio di un meccanismo troppo rigido e fa sì che anche le giornate nelle
quali è stato fissato un tema triste (per esempio, storie di amori infelici) si
concludano con una novella a lieto fine. La cornice come legame fra le
vane parti di un’opera è una strategia stilistica già in uso nelle opere del
passato: Boccaccio conosceva Le Mille e una notte. Nel Decameron la
cornice non è semplice accostamento delle novelle, è una struttura
architettonica che conferisce unità all’opera. Alle Mille e una notte il
Decameron si ricollega anche per la circostanza della narrazione in una
situazione di pericolo: in entrambi i casi, infatti, il racconto viene usato,
sia pure in modo diverso, per esorcizzare la morte. A differenza delle
precedenti raccolte in cui l’elemento unificatore era completamente fantastico,
la cornice del Decameron fa riferimento a un avvenimento tragico e reale della
storia contemporanea, la peste, che coinvolge sia i narratori, e quindi il
piano della finzione letteraria, sia i lettori. Essa inoltre non ha solo la
funzione di giustificare la narrazione e di conferire ordine alle novelle, ma
si arricchisce di un suo significato autonomo. Racchiude e sintetizza, infatti,
due poli, quello della morte, simboleggiata dalla peste e dalle sue conseguenze
morali e sociali, e quello della vita, rappresentata dai giovani della lieta
brigata e dalla loro esistenza vissuta all’insegna dell’equilibrio, della
cortesia, della misura, del benessere fisico e psicologico. La cornice è l’immagine
del disegno coerente ed equilibrato della vita, in cui ogni evento fuggevole e
momentaneo si inserisce e trova un senso e una valida giustificazione. In questa struttura narrativa messa a
punto da Boccaccio è possibile all’autore
conciliare varietà e unità: la varietà delle novelle e il loro costituirsi in gruppi unitari.
Quell’unità formale, esterna, che
si affianca a quella interna, più profonda, costituita dalla comune visione della vita e del mondo che governa tutta l’opera,
si raggiunge attraverso una struttura complessa che
prevede infatti un narratore di primo grado, Boccaccio stesso, che racconta la
storia-cornice, entro la quale dieci narratori di secondo grado raccontano le
cento novelle del Decameron. Sul piano tematico sono presenti nell’opera due
nuclei essenziali di ispirazione: da una parte un mondo cavalleresco ormai al
tramonto, dall’altra una società borghese e cittadina. Boccaccio guarda con un
atteggiamento di nostalgia e di rimpianto al mondo aristocratico e
cavalleresco del passato, tanto che le novelle che ne celebrano gli ideali
sono poste a conclusione della raccolta e sembrano costituire una sorta di
Paradiso laico che si contrappone all’Inferno della prima giornata nella quale
sono raffigurati i vizi della società del tempo: l’avarizia e la viltà dei
grandi signori, la corruzione del clero, la spregiudicatezza morale dei
borghesi.
1.
La «Commedia umana» di Boccaccio — Il Decameron è stato
definito «commedia umana» in
contrapposizione a quella «divina» dantesca, perché in esso si muove, incontrastato protagonista, l’uomo terreno. Non solo
è ormai venuta meno la tensione verso Dio che aveva caratterizzato il mondo di
Dante, ma neppure vi è più traccia di quel doloroso dualismo fra aspirazioni religiose e passioni umane che
dominava l’opera del Petrarca.
Nelle
novelle del Decameron pullula la vita di questo mondo, libera da limitazioni e condizionamenti morali e
religiosi; di qui il gioioso vitalismo che la percorre. Tutta la realtà, in quanto
esiste, è per Boccaccio degna di interesse e dell’attenzione dell’artista. Se mai esiste una
scala di valori, essa vede ai primi posti non i valori che portano a una salvezza eterna,
ormai estranea all’interesse dei personaggi, ma quelli che consentono all’uomo di
affermarsi su questa terra.
2.
I temi fondamentali del Decameron: la fortuna l’amore e l’intelligenza — Fra i molti aspetti della vita rappresentati nel Decameron quelli
fondamentali sono la fortuna, l’amore e l’intelligenza. La Fortuna -
intesa come intervento casuale della sorte - si manifesta sia come forza della
natura, sia come azione umana, sia come intervento della collettività. Si
tratta, comunque, di intrusioni che ora ostacolano, ora favoriscono le azioni
dei protagonisti. L’uomo rivela la sua intelligenza quanto più sa piegare la
Fortuna ai suoi scopi, in qualunque modo essa si presenti, ostile (oggi diremmo
sfortuna) o amica. L’amore, che
Boccaccio considera una delle maggiori forze che muovono l’esistenza, è
rappresentato nella vasta gamma delle sue manifestazioni: l’amore sensuale, a
volte grossolano, ma mai morboso, l’amore disinteressato e cavalleresco, l’amore
fedele e virtuoso, l’amore come fonte di eroismo materiale e spirituale, o
come forza esclusiva e sconvolgente che
può anche portare alla follia. L’intelligenza
è lo strumento per cui l’uomo si afferma sulla terra, e comporta accorgimento, abilità, scaltrezza, spregiudicatezza. Dante
collocava nell’Inferno coloro che avevano usato l’intelligenza, dono divino, a scopi
moralmente iniqui. Boccaccio guarda con interesse divertito e con
sostanziale ammirazione chi riesce, con l’uso anche spregiudicato e cinico dell’intelligenza, a risolvere
situazioni difficili, a togliersi d’impaccio. Caso tipico in questo senso è Ser Ciappelletto
della novella omonima, che in punto di morte non esita a fare una abilissima e
blasfema confessione, quasi a sfida giocosa al Cielo, per salvare una situazione pratica. E ricordiamo il giudeo che colla sua acuta risposta si
sottrae alle insidie del Saladino (Novella delle tre
anella); e Chichibìo cuoco che con un’inaspettata e azzeccata battuta
smonta l’ira del padrone. Spesso l’intelligenza
prende luce, per contrasto, dal suo contrario, la stoltezza: e intelligenza e
stoltezza sono messe a confronto in molte felicissime novelle di beffa, come
quella di Calandrino e l’elitropia.
3.
Molteplicità di
situazioni e di personaggi — La
rappresentazione boccacciana della vita si
concreta in innumerevoli situazioni e in una ricca serie di personaggi. Sono
introdotti nelle novelle uomini
di paesi diversi, dall’Oriente all’Occidente, e di tutte le classi sociali: aristocratici e plebei, uomini di cultura e
uomini di Chiesa. Ma soprattutto vi campeggiano i rappresentanti di quella borghesia mercantile italiana,
operosa e avventurosa, ricca di
esperienze e di denaro, che era la classe ascendente e il nerbo della società
al tempo del Boccaccio, e che Boccaccio, figlio di mercanti e per qualche
tempo mercante egli stesso, conosceva e
ammirava. La psicologia dei
personaggi rappresentati è sempre ricca e articolata, esente da unilateralità e da schematismo; la loro caratteristica
preminente non soffoca gli altri aspetti del loro carattere. Perfino le figure dalla natura più elementare, gli
stolti, sono articolatamente ritratti:
la stoltezza, che è limite intellettuale, coinvolge carenze morali e psicologiche e se ne alimenta. Nella stoltezza di
Calandrino, ad esempio, concorrono l’avarizia,
l’egoismo, la ghiottoneria, la prepotenza manesca con chi è più debole; e non gli manca neppure una certa dose di disonestà.
4.
Il concreto realismo degli ambienti — I personaggi del Decameron si
muovono sullo sfondo
di ambienti che non hanno mai nulla di vago e di gratuito, ma sono realisticamente definiti e concreti.
Particolarmente ricchi di evidenza sono quelli personalmente noti a Boccaccio: le vie, le
chiese, le piazze, la periferia e il contado di Firenze; e le inquadrature napoletane, che spaziano
dal ricco mercato della città, frequentato da mercanti provenienti da tutta Italia, ma
anche da imbroglioni, manigoldi, prostitute, alle vie strette e pericolose della
Napoli malfamata, alla splendida opulenza della sua cattedrale. Accanto agli ambienti esterni sono
numerosi anche gli spaccati di interni: la casa patrizia, fastosamente apparecchiata per
il banchetto, di Currado Gianfigliazzi, e la cucina fragrante di odore di arrosto
(novella di Chichibìo); l’appartamento dal fasto equivoco della «bella
Ciciliana» (novella di Andreuccio da Perugia); la povera casa dì Calandrino con dentro la moglie battuta e in
pianto, e il gran mucchio di pietre (novella di Calandrino e l’elitropia).
5.
La borghesia vera protagonista del Decameron – La vera protagonista dell’opera è la borghesia
rappresentata nei suoi diversi livelli e nei suoi aspetti positivi e negativi.
La realtà umana e naturale descritta nel Decameron appare come il campo di
tensione e di scontro di due forze antagonistiche: la fortuna e l’ingegno. La
prima si identifica con il caso capriccioso e imprevedibile, che predispone
circostanze favorevoli e sfavorevoli con le quali l’uomo deve misurarsi armato
solo della sua intelligenza, saggezza calcolatrice, capacità di previsione. L’ingegno
si manifesta non solo nell’azione avveduta e sagace, ma anche nella battuta
pronta, nel motto arguto e raffinato che mortifica gli sciocchi e i
tracotanti, e viene apprezzato dall’antagonista intelligente, capace di
gustare l’invenzione verbale ben congegnata. È proprio in virtù della parola
che talora possono essere annullate le distanze sociali. Il fornaio Cisti può
permettersi il lusso di un motto mordace con il banchiere Geri Spina e
Chichibìo può rivolgere una pronta e sollazzevole risposta a un gran signore
come Currado Gianfigliazzi perché lo scatto dell’ingegno per un attimo rende
complici un artigiano e un banchiere, un cuoco e un signore. Dopo però
ciascuno tornerà al suo posto, consapevole del proprio ruolo e della propria
posizione sociale.
6.
Le forme
narrative – Sul piano delle forme
narrative Boccaccio ha sperimentato un ampio ventaglio di possibilità utilizzando
e trasformando generi preesistenti. Certo sarebbe assurdo voler ricondurre le
cento novelle a schemi precisi e rigorosi; si possono però individuare alcune
tipologie ricorrenti che naturalmente vanno applicate con una certa
elasticità: la novella-azione, costituita da una pura successione
di fatti in cui non contano tanto i personaggi quanto gli avvenimenti nei quali
essi sono coinvolti e il loro susseguirsi secondo un ritmo che è insieme di
sorpresa e di casualità; la novella-romanzo, fondata non più sull’azione,
ma sulla realtà interna dell’uomo, sulle passioni, i sentimenti, gli impulsi
che ne provocano le avventure; la novella-motto, che ha la misura
del racconto breve in cui la semplicità della trama serve a mettere in luce una
risposta pronta e arguta; la novella-beffa, incentrata su inganni,
beffe coniugali, situazioni e spunti burleschi in cui ciò che conta è il
tranello teso con abilità e studiato esattamente per dare scacco all’antagonista;
la novella esemplare nella quale il personaggio, trovandosi ad
affrontare una prova difficile, manifesta capacità e virtù che ne fanno un
esempio, un modello di valori laici senza alcun riferimento alla realtà
ultraterrena.
7.
Lo stile - Con il Decameron
Boccaccio non ha soltanto condotto a perfezione il genere novellistico, ma ha
anche elaborato una lingua letteraria ricca e mobile, nella quale si
intrecciano differenti registri, da quello alto e solenne a quello più basso e
popolare, di volta in volta adeguati alla varietà delle situazioni e dei
personaggi. Nelle parti narrative prevale un periodare ampio, sinuoso, nel
quale si incastonano numerose subordinate sia esplicite sia implicite; nelle
parti dialogate la lingua diventa più agile, intessuta di frasi brevi che
riproducono il parlare quotidiano. La prosa di Boccaccio presenta una grande
varietà di modi, di toni e di registri, sempre pienamente correlati alla
materia narrata. Versatile e mutevole, la scrittura boccaccesca sa essere
aristocratica, umile e popolaresca, commossa. Assume tonalità ora poetiche, ora
grottesche, ora tragiche, ora comiche; altre volte mantiene un tono medio in
cui si neutralizzano i contrasti della vita. Grazie alle sue variegate
articolazioni, alla perfezione della struttura sintattica che riecheggia il
periodare classico, alla molteplicità dei ritmi e del fraseggio, la prosa
boccaccesca sarà per secoli il modello a cui guarderanno con ammirazione i
narratori d’Italia e d’Europa dei secoli successivi.
- Il Decameron segna
il culmine e la conclusione della sua stagione artistica, giacché ad essa
nulla aggiungerà il successivo Corbaccio, violenta satira
antifemminista, che trae spunto da un’esperienza personale dello
scrittore. L’opera racconta che l’autore si trova in un labirinto d’amore
ed incontra una vedova dalla quale è respinto. In sogno gli viene il
marito e gli dice come conquistare sua moglie, ma in cambio gli chiede di
scrivere un’opera su sua moglie.
- Quanto alle
opere erudite dell’ultimo periodo, se testimoniano la passione culturale
dello scrittore, sono però di tipo convenzionale e tradizionale. Fanno
eccezione, per il calore che li pervade e per gli elementi che hanno
offerto ai futuri interpreti e commentatori della Commedia, gli
scritti che egli dedicò a Dante: ilTrattatello in laude di Dante e
il Commento ai primi diciassette canti dell’Inferno,
frutto delle letture sul testo dantesco da lui tenute pubblicamente, per
incarico del Comune, nella chiesa fiorentina di Santo Stefano in Badia.
Il Rinascimento e la sua periodizzazione - L’espansione economica e politica degli Stati italiani
aveva creato una condizione di benessere e, presso le classi dominanti, una
larghezza di mezzi finanziari e un tenore di vita prima sconosciuti. Queste
condizioni, esaltate da quarant’anni senza guerre intercorrenti tra la pace di
Lodi (1454) e la calata di Carlo VIII (1494), portarono al Rinascimento. Esso è
un movimento vasto e complesso che si estende dagli ultimi decenni del Trecento
alla metà circa del Cinquecento, e che propone una nuova concezione della vita
e nuovi orientamenti nel pensiero e nell’arte.
La prima fase del Rinascimento, compresa fra la fine del
Trecento e la fine del Quattrocento, è designata col nome diUmanesimo. In
esso ha le radici il Rinascimento vero e proprio, la cui originale e splendida
fioritura si manifestò nella prima metà del Cinquecento: a quest’epoca
appartengono poeti come Ariosto, pensatori come Machiavelli, artisti come Leonardo,
Michelangelo, Raffaello, Tiziano.
L’Umanesimo e la rinascita del mondo classico - II nome di Umanesimo deriva dal fatto che in questo
periodo l’interesse appassionato degli uomini di cultura si volge alle opere
dei classici, chiamate humanae litterae perché giudicate
apportataci di humanitas, cioè di civiltà e di raffinatezza
spirituale.
A differenza di quanto avveniva nel Medioevo, quando gli
autori classici erano accettati e usufruiti solo nella misura in cui non
contraddicevano all’imperante concezione cristiana dell’esistenza, gli
umanisti vogliono invece recuperare integro il messaggio dei classici, senza
diaframmi interpretativi e senza stravolgimenti. In verità quest’esigenza era
già presente in Petrarca che in questo senso può essere considerato un
preumanista; con la differenza però che Petrarca era un caso pressoché isolato
nel suo tempo, mentre nell’Umanesimo questo nuovo modo di accostarsi alla
classicità si diffonde ad ampio raggio e da luogo a un vasto movimento
culturale.
Gli umanisti non limitano il loro interesse allo studio
dei testi classici già conosciuti e in circolazione, ma s’impegnano nella
ricerca di quei testi che durante le invasioni barbariche e le devastazioni
dell’Alto Medioevo erano andati perduti. Intraprendono a questo scopo viaggi
per l’Europa, facendo ricerche soprattutto nelle biblioteche dei conventi,
dove si presumeva che molti libri avessero potuto salvarsi dalle distruzioni e
dai saccheggi. Erano ricerche faticose, dispendiose, ma a volte anche
fruttuose.
Non sempre i testi classici in circolazione, o dei quali
si scopriva l’esistenza, erano pervenuti indenni dalle tumultuose vicende dell’Alto
Medioevo o dall’impegno moralizzatore di chi pure voleva che fossero usufruiti.
In tal caso gli umanisti si dedicano ad un’operazione che potremmo definire di
restauro interno: confrontando pazientemente codici diversi di una stessa
opera eliminano le modifiche in essi variamente introdotte, recuperano passi
soppressi, così da riportare i testi il più possibile alla loro lezione originaria.
L’interesse degli umanisti si volge in un primo tempo ai
classici latini; ma successivamente anche a quelli greci, specie dopo che,
caduta Costantinopoli in mano ai Turchi (1453), molti dotti greci emigrano in
Italia diffondendovi l’insegnamento della loro lingua e la conoscenza dei loro
autori.
La rinascita del latino - Conseguenza dell’interesse per il mondo classico è la
reviviscenza nell’età umanistica del latino, cui si accompagna spesso il
disprezzo per la lingua volgare. Il latino non solo è la lingua della cultura,
ma diventa anche, nella prima fase dell’Umanesimo, quella della poesia, dove
pure sembrava, dopo Dante e il Petrarca, che il volgare dovesse ormai dominare
incontrastato.
Solo dopo la metà del Quattrocento, quando sarà evidente
che la lingua di una civiltà passata, per quanto splendida, non può esprimere
adeguatamente la sensibilità e il pensiero di un’età nuova, quali che siano le
sue analogie col passato, il volgare tornerà ad affermarsi. In volgare
scriveranno esclusivamente o prevalentemente i poeti della seconda metà del
Quattrocento, dal Magnifico al Poliziano, al Pulci, al Boiardo; e il volgare
sarà poi la lingua indiscussa del Cinquecento.
La visione antropocentrica del Rinascimento - Alla concezione teocentrica
del mondo che aveva dominato nel Medioevo si oppone nel Rinascimento una
concezione antropocentrica, quella tramandata dal mondo classico, che colloca
l’uomo (anthropos in greco) al centro dell’Universo. E non è l’uomo
che, vivendo sulla terra, è tuttavia proteso verso la vita eterna, ma l’uomo
che pone in primo piano la vita sul nostro pianeta, la considera valida di per
sé, per i suoi autonomi valori, e cerca di affermarsi in essa con l’intelligenza,
la capacità, il coraggio. Che è poi un modo di vita che già era presente
nel Decameron del Boccaccio.
L’autonomo affermarsi delle scienze umane - La concezione antropocentrica del mondo si
riflette nel pensiero e nella cultura rinascimentali. Viene meno la
subordinazione medioevale delle varie branche del sapere alla teologia:
- La filosofia afferma il suo
diritto alla libera speculazione razionale, senza limiti e
condizionamenti teologici.
- Le scienze naturali cessano di
riconoscere come scientificamente indiscutibili le affermazioni contenute
nei Libri sacri, e cercano la verità sui fenomeni terreni
nello studio diretto e sperimentale della natura.
- La storia non è più considerata
il campo dell’azione provvidenziale di Dio, ma dell’azione e dell’impegno
dell’uomo.
- La politica, anziché strumento
per condurre l’umanità a una perfezione terrena che preluda a quella
celeste, diventa una scienza con leggi proprie che si pone come fine la
costruzione e il mantenimento di uno stato.
- L’arte non si propone più il
fine pedagogico di educare e migliorare moralmente gli uomini, ma il fine
edonistico (dal gr. hedoné = piacere) di creare bellezza
che per gli uomini sia fonte di gioia.
Tutto il Rinascimento è percorso dalla convinzione della
potenza dell’uomo sulla terra. Scrive un umanista, Marsilio Ficino: «L’uomo si
serve degli elementi, misura la terra e il ciclo, scruta la profondità del
Tartaro. Il cielo non gli sembra troppo alto, né il centro della Terra troppo
profondo... Nessun confine gli basta. Dovunque si sforza di comandare, di
essere lodato, di essere eterno come Dio».
La terra casa dell’uomo - Poiché
il momento centrale della vita umana è quello terreno, acquista nuovo valore la
terra, che è la dimora dell’uomo. Ad essa il Rinascimento non guarda più come
a un’emanazione di Dio, pervasa da anelito verso Dio come nel Cantico
delle Creature di San Francesco, né come al luogo delle vane passioni
umane, «l’aiuola che ci fa tanto feroci», che Dante vede dal Paradiso; ma come
a luogo che appartiene all’uomo e alla sua iniziativa, che va indagato nella
sua interna struttura e nelle leggi che vi agiscono, che va scoperto nei suoi
spazi geografici ancora ignoti, che infine va goduto nella sua bellezza.
Alla conoscenza della struttura e delle leggi naturali
del nostro pianeta è diretto il nuovo metodo di ricerca instaurato da Leonardo
da Vinci, il metodo sperimentale. Le terre ignote sono raggiunte dall’infittirsi
di quelle imprese di navigatori e di scopritori già iniziate nei secoli
precedenti. La natura con la sua variegata bellezza campeggia nelle tele dei
pittori e, sotto forma di splendidi giardini, diventa elemento architettonica
delle dimore signorili. E fa infine la sua irruzione nella poesia, dal
Magnifico e da Poliziano al Furioso di Ariosto, sotto forma di
roseti in fiore, di alberi, acque, prati attraverso i quali si esprimono gli
stati d’animo dei personaggi o che diventano parti delle loro vicende.
Le corti, centri culturali del Rinascimento - Centri culturali del Rinascimento sono le corti dei
vari Signori che traggono lustro dalla presenza di poeti, studiosi, artisti. I
quali a loro volta vi trovano un ambiente ricco e confortevole, biblioteche ben
fornite, possibilità di lavoro, occasioni di incontro con altri uomini d’arte e
di cultura, sicurezza economica. Elementi che concorrono non poco alla
fioritura intellettuale e artistica di quest’età. Ma la vita di corte ha una
contropartita negativa: limita la libertà dell’artista e del poeta
condizionandola alla protezione e qualche volta alle esigenze del Signore, e
inoltre favorisce la nascita di un’arte d’elite, che ha nella corte la sua
origine e la sua esclusiva destinazione.
Storia della lirica: il
Rinascimento - Nel Quattrocento la produzione lirica
è copiosissima, ma non nascono grandi poeti e opere di spicco, almeno fino agli
ultimi decenni del secolo. La poesia tende a divenire una forma di letteratura
slegata da finalità intellettualmente importanti; si affievolisce cioè la
funzione che aveva avuto nei secoli precedenti, quando la poesia aveva
trattato anche temi filosofici, morali, politici, ecc.
Anche la
ricerca di forme nuove subisce una battuta d’arresto e i poeti preferiscono
ripercorrere le orme della tradizione: la lirica del Duecento, Dante e
Petrarca, ma anche la poesia popolare e quella giullaresca, sono tutti modelli
ripresi e imitati nel Quattrocento, senza che si manifesti una tendenza
dominante.
Un
aspetto comune alla lirica del Quattrocento è l’affermarsi delle forme
poetiche più legate al consumo; per esempio, diventa più vasta la poesia per
musica e, più in generale, si sviluppa la poesia d’occasione, quella scritta in
concomitanza e per celebrare i piccoli e i grandi avvenimenti della vita di
corte.
Tra i
molti poeti che appartengono ad aree geografiche diverse, ricordiamo Agnolo
Poliziano, Matteo Maria Boiardo, Iacopo Sannazaro e Lorenzo de’ Medici.
Un
discorso a sé merita la lirica latina che si sviluppò soprattutto nei centri
umanistici di Siena, Firenze e Napoli e che visse all’interno di un ristretto
gruppo di intellettuali.
Dopo la
molteplicità delle esperienze quattrocentesche, nel nuovo secolo la produzione
lirica sembra incanalarsi verso l’assunzione del modello petrarchesco; questa
tendenza, dapprima incerta, trova una consacrazione definitiva nell’opera di
Pietro Bembo e porta, dopo il 1530, a una vera esplosione della produzione
lirica. Bembo propone infatti il linguaggio del Canzoniere di
Petrarca come modello assoluto della poesia lirica, ma anche le situazioni, le
mille sfumature della contemplazione, del sogno, del pensiero amoroso, i modi
in cui l’amore si manifesta come gioia, nostalgia, ricordo. Il dissidio di
fondo della poesia petrarchesca rimane estraneo a questa lettura che
sicuramente appiattisce l’opera di Petrarca, ma nello stesso tempo la trasforma
in un formidabile «serbatoio» cui attingere temi, immagini e anche rime,
aggettivi e interi versi. Il fenomeno, chiamato petrarchismo,
trionfa ben presto in Italia e in Europa e travalica i limiti del Cinquecento;
esso fornisce un modello e delle regole così precise, funzionanti e applicabili
a infinite situazioni tanto che la produzione lirica diventa un fenomeno di
massa, nel senso che tutti coloro che in qualche modo hanno a che fare con la
letteratura scrivono poesia, magari utilizzandola come scuola di apprendimento
della lingua letteraria o come strumento da usare nei rapporti mondani.
Naturalmente ci sono anche poeti che pur nell’alveo del petrarchismo
espressero una loro originalità; tra questi ricordiamo le voci di Giovanni
Della Casa, Luigi Tansillo, Michelangelo Buonarroti, e fra le poetesse Gaspara
Stampa e Veronica Franco.
Anche la
produzione lirica risente fortemente dei mutamenti culturali che percorrono il
Cinquecento. Dopo la metà del secolo si afferma una poesia religiosa; inoltre
la grande quantità di accademie letterarie promuove la composizione di tante
poesie che nascono per celebrare i diversi momenti della vita accademica: la
lirica d’occasione già diffusa nelle corti, trova quindi un ulteriore sviluppo.
Da ricordare infine che accanto alla lirica d’amore e a
quella impostata su toni alti, continua a essere presente nella prima parte del
secolo una produzione burlesca che ebbe in Francesco Berni l’autore più
interessante.
Storia della novella: il Rinascimento - Nei primi decenni del Cinquecento, la produzione di
novelle è scarsa e non riesce ad affrancarsi dall’imitazione del modello
boccaccesco. Il genere trova una nuova vivacità nella seconda metà del Cinquecento
grazie ad autori che propongono soluzioni narrative di una certa novità:
ricordiamo i nomi del piemontese Matteo Bandello, del ferrarese Giambattista
Giraldi Cinzio, del toscano Anton Francesco Grazzini detto il Lasca.
Il trattato: il Rinascimento - La dimensione e la vitalità della cultura
umanistica si rispecchia con evidenza nella produzione di trattati che fu assai
vasta e riguardò soprattutto argomenti filosofici, letterari, linguistici e politici.
Una delle forme di trattato più diffusa fra gli umanisti è il dialogo: l’autore
immagina una situazione e un luogo, in genere una casa o un giardino, nel quale
fa incontrare un certo numero di personaggi, reali o immaginari, e fa sì che
il discorso si indirizzi su un argomento. Ognuno dei personaggi espone una propria
tesi, in modo che il discorso procede per verifiche successive, attraverso
mediazioni o scontri di opinioni. La conclusione non è, quindi, l’affermazione
certa di una verità; è il lettore che deve ricavare dal confronto delle idee
gli elementi per una personale elaborazione dell’argomento. È questa una delle
strade che gli umanisti intrapresero rinnovando profondamente la tradizione
medievale del trattato e dando ad esso una nuova eleganza e un’impostazione più
libera dello sviluppo delle argomentazioni. Fino agli ultimi decenni del
Quattrocento la lingua principe del trattato rimane il latino, ma nella seconda
metà del secolo si afferma anche una trattatistica in volgare impegnata nella
riflessione teorica sulle varie «arti» e sulle tematiche civili. Figura
centrale di questa riconversione del trattato dal latino al volgare fu Leon
Battista Alberti il quale indicò i due filoni tematici all’interno dei quali
la trattatistica in volgare si affermò con maggior forza nella seconda metà
del Quattrocento: la riflessione sulla dimensione familiare e civile dell’individuo
e la riflessione teorica sull’arte. Nel Quattrocento i trattati in latino e in
volgare diedero voce al dibattito attraverso il quale si affermò la cultura
umanistica. Il genere continua nel Cinquecento ad avere un ruolo di primo
piano, trasformandosi in relazione ai mutamenti delle tendenze culturali: da
una parte continua la trattatistica in latino che circola in ambiti specialistici,
dall’altra compare una nuova trattatistica, l’espressione più viva e
interessante del momento culturale; scritta in italiano, riguarda diversi
settori e tende a fissare la fisionomia della nuova cultura, a scriverne le
«regole». In particolare nei primi decenni del secolo alcuni intellettuali
fanno compiere un salto qualitativo di grande importanza al dibattito
culturale, fissando con i loro trattati le coordinate dell’intera civiltà rinascimentale
in Italia e in Europa. Il trattato si afferma così come luogo privilegiato nel
quale vengono posti i fondamenti della letteratura, della politica, della
lingua, del comportamento sociale.
Un’altra opera fondamentale per la civiltà del Cinquecento
è il Cortegiano (1528) di Baldassar Castiglione. La discussione
sulla figura e sulle specifiche funzioni e caratteri dell’intellettuale di
corte costituiva un argomento nuovo, moderno, reso urgente dai rapidi mutamenti
del ruolo delle corti dall’ultima metà del Quattrocento ai primi anni del
Cinquecento. Il Cartesiano forniva indicazioni che furono prese come modello
in tutte le corti d’Europa e fecero di questo trattato un testo letto,
studiato, imitato dall’Inghilterra alla Spagna. Dal libro del Castiglione si
sviluppò un’ampia trattatistica sui costumi e sul comportamento del cortigiano
che, sotto una veste letteraria a volte frivola, affrontò il tema, molto serio,
del rapporto fra intellettuale e potere.
Niccolo Machiavelli
La vita -
Machiavelli nacque a Firenze nel 1469. Nella sua biografia si possono
distinguere tre periodi: il periodo della formazione, che giunge fino al 1498;
il periodo dell’attiva militanza politica, dal 1498 al 1512; il periodo della
riflessione politica che va dal 1512 alla sua morte.
La formazione del Machiavelli, come quella di tutti i
giovani di buona famiglia del suo tempo, fu di tipo umanistico: studiò il
latino e lesse i classici. Ma fin da allora il suo interesse non era di natura
estetico-letteraria, ma contenutistico; i classici lo interessavano non per il
loro pregio artistico, ma nella misura in cui trovava riflessi nelle loro
opere i propri sentimenti e le proprie emozioni, e gli offrivano esperienze
utili per la vita pratica. Questo spiega la sua predilezione per gli storici.
Nel 1498 entrò nell’amministrazione della Repubblica
fiorentina con la carica di Segretario della seconda Cancelleria. Negli anni
passati al servizio della Repubblica partecipò a parecchie ambascerie: fra
queste ne ricordiamo due presso Cesare Borgia, due alla Corte papale, quattro
presso Luigi XII re di Francia, una presso l’imperatore Massimiliano. Erano
contatti che gli davano modo di osservare il comportamento, le astuzie, le
abilità di molti uomini politici, e di acquisire quell’esperienza diretta della
politica che gli sarebbe stata preziosa poi nella composizione delle sue opere
di teoria politica.
Tornati a Firenze i Medici nel 1512, le cariche tenute
dal Machiavelli nell’amministrazione repubblicana gli suscitarono contro i
sospetti del nuovo governo: fu allontanato dal suo ufficio, fu indiziato a
torto di cospirazione antimedicea, e per questo imprigionato e sottoposto a
tortura. Rilasciato, si ritirò in un suo piccolo possedimento a San Casciano; e
qui, nell’ozio forzato, facendo tesoro delle esperienze acquisite e degli ammaestramenti
che gli venivano dalle amate letture degli storici latini, compose le sue
maggiori opere di riflessione politica, il Principe e i Discorsi.
Dal 1520, acquistata la fiducia dei Medici, ebbe da loro
qualche piccolo incarico pubblico. Il che fu sufficiente perché, caduti i
Medici nel 1527 e restaurata di nuovo in Firenze la repubblica democratica,
egli fosse lasciato in disparte dal governo repubblicano. Morì a Firenze nel
1527.
Le opere -
Agli anni della militanza politica di Machiavelli appartengono alcune operette
su specifici argomenti politici che rappresentano il frutto delle osservazioni
da lui fatte durante le ambascerie cui partecipò e i soggiorni presso le varie
corti. Fra le più acute e famose ricordiamo la Descrizione del modo
tenuto dal Duca Valentino nell’ammazzare Vitellozzo Vitelli, ecc., in
cui è già visibile il suo interesse per Cesare Borgia che nel Principe sarà
poi proposto come modello ai politici italiani, il Ritratto delle cose
della Magna e il Ritratto delle cose di Francia,scritte
rispettivamente dopo i suoi soggiorni in Germania e in Francia.
Agli anni della relegazione in San Lasciano appartengono,
come abbiamo detto, le sue opere maggiori: i Discorsi sulla prima Deca
di Tito Livio (iniziati nel 1513), in cui, commentando i primi dieci
libri delle Storie di Livio, trae da esse riflessioni che
reputa ancora attuali e valide per i suoi tempi; e il Principe, scritto
di getto nel 1513, interrompendo la stesura dei Discorsi, in
cui si propone di mettere al servizio di un principe che abbia la capacità di
creare a un vasto e forte stato in Italia, la propria esperienza politica e di
illustrargli le leggi che devono guidare la sua azione.
Sempre degli anni dell’esilio sono i libri Dell’arte
della guerra, dove sono trattati problemi di tecnica militare, ed è
ribadita la superiorità delle milizie cittadine su quelle mercenarie; e una
commedia La mandragola, tagliente e amara satira della corruzione
dei costumi contemporanei.
Nel periodo in cui ricominciò a lavorare per i Medici,
compose, su commissione del cardinale Giulio dei Medici, le Istorie
fiorentine, che espongono la storia di Firenze fino alla morte di
Lorenzo il Magnifico (1492).
Il pensiero politico
1) La
politica come scienza autonoma - È opera di Machiavelli la
formulazione del principio che la politica è una scienza autonoma che mira a
fini propri e obbedisce a proprie leggi. Il fine della politica è la
costituzione e il mantenimento dello Stato; le sue leggi quelle che, applicate
con capacità ed energia, consentono al politico (e cioè al principe, perché nel
principato Machiavelli vede la forma politica adeguata ai suoi tempi) di
pervenire a tale meta. In tal modo la politica, coerentemente con lo spirito
rinascimentale, non è più concepita in funzione religioso-morale, cioè come
guida al retto vivere sulla terra in preparazione della beatitudine nell’Aldilà;
ma si prende atto che, nella concreta realtà, la politica e la morale si
muovono in ambiti diversi: la politica nell’ambito dell’utile, la morale nell’ambito
del buono e del giusto.
2) La
«verità effettuale» - La presa di coscienza della realtà effettiva in
cui si trova ad operare (di quella che Machiavelli chiama «verità effettuale»),
la capacità di valutarla con occhi snebbiati, senza illusioni, è condizione
necessaria al successo del principe. Solo se si renderà conto lucidamente della
situazione storico-politica in cui è immerso, se saprà prendere atto che gli
uomini sono generalmente malvagi, infidi, avidi, crudeli, e al massimo grado lo
sono gli uomini politici coi quali deve misurarsi; e se saprà poi agire di
conseguenza, ed essere a suo volta malvagio, infido, avido, crudele, solo in
questo caso il principe potrà ottenere successo. Al senso concreto e
disincantato della verità effettuale, Machiavelli contrappone quella che
egli chiama l’immaginazione della cosa, cioè l’illusione che il
mondo non sia quello che è ma quello, migliore, che ci piacerebbe che fosse.
Illusione nefasta per il principe, perché lo costringe a lottare coi suoi
avversari ad armi impari. «Elli è tanto discosto da come si vive a come si
doverebbe vivere che colui che lascia quello che si fa per quello che si
doverebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua: perché uno
uomo, che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene rovini
infra tanti che non sono buoni».
3) Il principe
e la virtù - Solo se saprà adeguarsi intelligentemente ai suoi
tempi e agli uomini con i quali deve cimentarsi, il principe sarà virtuoso.
La parola virtù va intesa ovviamente in una accezione che non ha
più niente in comune con quella cristiana. La «virtù» di un principe è,
infatti, esclusivamente di natura politica, e significa capacità di successo
politico. Pur di raggiungere la meta che gli compete, cioè di costituire e
mantenere il suo Stato, il principe può commettere tutte quelle azioni che sono
considerate riprovevoli nei privati: può uccidere, tradire, non mantenere la
parola data, ecc. Su tali presupposti si capisce come Machiavelli possa
proporre come modello ai principi Cesare Borgia, personaggio feroce, infido,
corrotto, ma che era giunto vicino alla costituzione di uno stato vasto e
forte. Il principe cesserà di essere virtuoso solo quando il
suo comportamento, magari onesto e santo dal punto di vista morale, gli causerà
la perdita dello stato. Viene dunque posta una netta distinzione fra morale
pubblica, cioè la morale del politico, e morale privata,cioè
la morale dell’uomo quotidiano, che per il Machiavelli rimane quella
tradizionale.
4) Le
leggi della politica - Per raggiungere il successo il principe deve
conoscere le leggi che regolano la politica e sapersene valere. A tali leggi si
perviene sperimentalmente, partendo dall’analisi dei fenomeni politici,
cioè delle azioni e dei comportamenti tenuti dagli uomini politici nelle più
diverse situazioni. Come avviene per le scienze naturali, le leggi che in
questo modo si possono formulare saranno tanto più valide e universalmente
applicabili quanto maggiore sarà il numero dei «fenomeni», cioè dei fatti,
presi in esame. Perciò il politico dovrà prendere in considerazione non
soltanto le situazioni e le azioni politiche contemporanee che egli può
conoscere direttamente di persona (esperienza delle cose presenti), ma
anche quelle del passato, di cui verrà a conoscenza mediante lo studio delle
storie (esperienza delle cose passate).
5) Le
milizie - Strumento indispensabile al successo del principe è un
esercito efficiente. E tale non può essere un esercito formato da milizie
mercenarie, pronte a vendersi al migliore offerente, e neppure da milizie
ausiliarie, cioè fornite da un altro principe e perciò pronte a tradire a suo
vantaggio. Il principe deve dunque possedere milizie proprie, cioè formate dai
cittadini del suo Stato debitamente addestrati alle armi.
6) Virtù
e fortuna - Alla virtù del principe, cioè alla sua
energia, intelligenza, spregiudicatezza, capacità di successo, si contrappone
spesso la fortuna. In lei gli uomini del Rinascimento non vedono
più, come vedevano i medioevali, una forza provvidenziale voluta da Dio per
mantenere l’equilibrio del mondo, ma una forza ostile che mira quasi sempre a
sconvolgere i piani degli uomini virtuosi. Dalla fortuna il
principe dovrà sapersi difendere prevenendone i trabocchetti, così come gli
uomini che vivono presso fiumi impetuosi si difendono dalle piene costruendo
dighe che le prevengano.
7) Il
principe e il popolo - La concezione politica del Machiavelli è molto
aristocratica e individualistica. La politica dì uno Stato è per lui tutta
nelle mani del principe che, uomo eccezionalmente dotato, lo costruisce e lo
regge secondo criteri propri insindacabili dai sudditi. I sudditi, la massa
cioè del popolo, non hanno voce; sono usati dal principe strumentalmente per la
costruzione del suo edificio politico. Questo disprezzo per la
massa dei cittadini, chiamati sprezzantemente vulgo, è uno dei
limiti maggiori, proprio in sede politica, del pensiero machiavelliano: una
massa non educata, ma semplicemente e arbitrariamente sfruttata, si rivelerà
alla fine debole e inefficiente anche come strumento politico.
Il
pensiero di Machiavelli alla luce della realtà politica del suo tempo - Nel pensiero politico machiavelliano è sempre presente,
condizionandolo, una esigenza fondamentale: che in Italia si costruisca
rapidamente uno Stato il più possibile vasto e forte. Machiavelli, infatti, con
lucida diagnosi, si era reso conto che l’Italia, divisa in piccoli Stati
perennemente in lotta fra loro, non avrebbe potuto resistere alla forza d’urto
delle grandi monarchie che andavano consolidandosi in Europa: Francia, Spagna,
Impero, che già avevano cominciato a volgere verso l’Italia le loro mire di
conquista. Solo uno Stato italiano forte avrebbe potuto contrastarle e salvare
l’indipendenza della penisola. La diagnosi era esatta: il sogno politico del
Machiavelli non si attuò, e cominciò per l’Italia, come egli aveva previsto, il
lungo periodo delle dominazioni straniere.
Un problema rimasto aperto: il rapporto politica-morale
- Se Machiavelli ha avuto il merito
di individuare l’autonomia reciproca della politica e della morale, sgombrando
il terreno da falsi presupposti, non si è posto però l’essenziale problema di
come queste due distinte attività possano, pur nella distinzione, conciliarsi
nella coscienza umana; se cioè sia possibile, e come lo sia, attuare una
politica che, pur perseguendo fini suoi propri, non contraddica ai fondamentali
principi etici dell’umanità.
È il problema che Machiavelli ha lasciato aperto ai posteri,
e che nella pratica politica ancora non è stato risolto, ma alla cui soluzione
l’umanità deve tendere come a meta fondamentale.
Ludovico Ariosto
La vita -
Ludovico Ariosto nacque nel 1474 a Reggio Emilia dove il padre era capitano, in
nome degli Estensi, della rocca della città. A dieci anni si trasferì con la
famiglia a Ferrara, sede della Corte Estense, uno dei centri culturali più
evoluti e raffinati del Rinascimento; ed ivi, dopo aver per qualche anno atteso
di controvoglia agli studi di diritto, si volse con passione a quelli
letterari.
La morte del padre, avvenuta nel 1500, e, poiché era il
primogenito, la necessità di provvedere a una numerosa famiglia di ben dieci
fratelli, lo costrinsero a cercare un impiego e ad abbandonare così la vita
meditativa degli studi per quella pratica. In una delle Satire così
egli rievoca argutamente questo momento della sua vita:
Mi more il padre, e da Maria il pensiero
dietro a Marta bisogna ch’io rivolga.
Si impiegò così presso il cardinale Ippolito d’Este, e
divenne funzionario di corte. Ma il lavoro presso il cardinale lo costringeva
ad attività troppo lontane dai suoi gusti, dal suo amore per la poesia. La vita
stessa di corte, cui pure ambivano la maggior parte degli uomini di cultura del
tempo, la sentiva come una necessità alquanto fastidiosa e l’accettava di
malavoglia, anche se con bonaria rassegnazione. Vagheggiava per contrasto una
esistenza modesta e pacifica, libera da impegni gravosi e confacente ai suoi
amati studi. È un ideale che argutamente esprime in una delle Satire:
In casa mia mi sa meglio una rapa,
ch’io cuoca, e
cotta su ‘n stecco me inforco
e mondo e spargo
poi di aceto e sapa [mostarda]
che all’altrui
mensa tordo, starna o porco selvaggio.
Lasciò il servizio del cardinale Ippolito nel 1517,
quando questi fu nominato vescovo di Budapest. Ariosto si rifiutò di seguirlo
in un paese che giudicava inospitale per costumi e per clima; e soprattutto
perché sarebbe stato costretto ad abbandonare, oltre che la sua città («a me
piace abitar la mia contrada»), anche la donna amata, quella Alessandra Benucci
che, conosciuta nel 1513 a Firenze, fu poi la compagna di tutta la
sua vita.
Lasciato il cardinale Ippolito, entrò, nel 1518, al
servizio del duca Alfonso I. Anche questa «servitù» non fu leggera. Per volere
del duca dovette, dal 1522 al 1525, assumere l’incarico di governatore della
Garfagnana, un paese violento, infestato dai briganti. E, benché amasse
rappresentarsi come inetto alle cose pratiche, tenne questo difficile ufficio
con fermezza ed equilibrio.
Tornato a Ferrara si ritirò finalmente a vita privata; si
comprò una modesta casetta con un piccolo orto, e lì trascorse gli ultimi suoi
anni, fra le occupazioni agresti e i diletti studi, curando soprattutto l’ultima
revisione della sua opera maggiore, L’Orlando furioso.
Morì nel 1533.
Le opere - Nella
prima giovinezza l’Ariosto scrisse liriche in latino sul modello dei grandi
poeti dell’antichità, Tibullo, Catullo, Orazio. Più importanti sono però le
successive liriche in volgare, di argomento prevalentemente amoroso e di
timbro petrarchesco.
Fra gli anni 1507 e 1531 compose per il teatro di corte
cinque commedie modellate per la struttura sui classici greci e latini, ma
nelle quali spesso si riflettono la vita e la società contemporanee.
Ad Ariosto dobbiamo la prima commedia originale in volgare
in cinque atti, La Cassaria, rappresentata nel marzo del 1508, e
seguita da I Suppositi (1509), Il Negromante (scritto
prima del 1520, ma rappresentato nel 1528), e La Lena (1529).
Una quinta commedia, I studenti, fu lasciata incompiuta dall’autore,
e continuata dal fratello Gabriele (La Scolastica) e dal figlio Virginio (L’Imperfetta).
Fra gli anni 1517
e 1521 furono stese le sette Satire,componimenti in terzine e in
forma epistolare. Non sono satire nel senso che è oggi dato al termine, ma
conversazioni argute e riflessive come le Satire oraziane che
Ariosto ebbe a modello. In esse l’autore delinea il proprio ritratto che, se
non corrisponde sempre a ciò che egli veramente fu nella realtà, coglie però i
tratti essenziali della sua natura e del suo carattere: la predilezione per la
vita studiosa e appartata, l’insofferenza per la mondanità vacua della corte, l’amore
per la sua donna e per la sua città e la sofferenza a staccarsi da entrambe, l’ammirazione
per la cultura classica; e poi le speranze e le delusioni che a lui, come a
tutti gli uomini, elargiva la vita: il tutto guardato con maturo e bonario
equilibrio.
Ma l’opera che occupò, e nella stesura e nelle successive
rielaborazioni, buona parte della vita dell’Ariosto, è l’Orlando furioso,
poema cavalleresco in ottave iniziato negli anni 1502-03. La prima edizione, in
quaranta canti, uscì nel 1516. Ad essa ne seguì una seconda nel 1521, e una
terza aumentata di sei canti nel 1532. Notevolissima l’elaborazione
linguistica e formale che intercorre fra la prima edizione e l’ultima.
Il «Furioso» libro per la Corte - II Furioso, nato nella Corte estense e
dedicato al cardinale Ippolito d’Este, si rivolge all’ambiente della Corte e
viene incontro al suo desiderio di svago e al suo gusto raffinato e maturo.
Questa «udienza» signorile è sempre presente sia al poeta
che al lettore, per il quale essa acquista concreta evidenza nelle frequenti
apostrofi che Ariosto rivolge ai suoi ascoltatori, nelle informazioni che da
loro, alla fine di alcuni canti, sul futuro svolgimento dell’azione, o nelle
considerazioni che accompagnano il racconto di vicende e il comportamento di
personaggi, e che si sentono nate da un’intesa esistenziale e culturale comune
al poeta e a chi lo ascolta.
La materia cavalleresca - La materia del poema è cavalleresca ed è enunciata da
Ariosto nelle ottave iniziali: egli canterà vicende d’armi e di amori che hanno
per protagonisti i paladini di Carlo Magno difensori della cristianità e i
Saraceni che, guidati dal loro re Agramante, sono giunti con la loro offensiva
fin sotto la mura di Parigi.
È una materia che Ariosto trae dai due grandi cicli
medioevali, il carolingio e il bretone, nonché da numerosi cantari composti
successivamente sulla scia dei cicli stessi. Tale materia, in tempi ad Ariosto
vicini, aveva ispirato
due altri poeti, Pulci, autore del Margante
maggiore e Boiardo autore dell’Orlando innamorato. Era
stato proprio Boiardo ad aprire la strada che poi Ariosto avrebbe percorso
trionfalmente, cioè ad operare la fusione dei due cicli medioevali, il
carolingio e il bretone, attribuendo ai paladini di Carlo Magno, che nelle
antiche chanson erano impegnati senza distrazioni e umane
debolezze nella difesa della patria e della fede, quelle umane passioni, e
soprattutto la passione amorosa, che avevano caratterizzato gli eroi del ciclo
bretone. Se, in virtù di tale «contaminazione», nel poema di Boiardo Orlando
era diventato innamorato, in quello di Ariosto diventerà
addirittura furioso, cioè pazzo per amore.
La materia cavalleresca era dunque già di casa alla Corte
estense. Ma mentre Boiardo aveva recuperato vicende e personaggi con commossa
ammirazione e con seria adesione agli ideali che il mondo cavalleresco aveva
rappresentato, Ariosto vede in esso una realtà ormai troppo remota da quella
dei suoi tempi, che era la realtà feroce da cui nasceva il pensiero di
Machiavelli. Rievoca perciò questo mondo come una favola bella e improbabile;
e di essa si avvale per esprimere la sua concezione della vita, che è poi la
concezione del Rinascimento.
Se la materia romanza alimenta in modo prevalente la
molteplice varietà delle vicende del Furioso, nel poema
concorrono altre «fonti», cioè episodi e situazioni tratte dagli autori
classici.
Ma tutti gli apporti esterni, quale che ne sia l’origine,
acquistano originalità per il modo con cui sono rielaborati dall’autore, e per
lo spirito nuovo che in essi è infuso.
Le vicende -
Le complicate e molteplici vicende del Furioso si possono
raccogliere intorno a tre filoni fondamentali che costituiscono l’ossatura del
poema:
1) L’amore del paladino Orlando per Angelica,
principessa del Catari: amore perennemente deluso perché Angelica, bellissima e
irraggiungibile, gli sfugge, e dal quale sarà provocata la pazzia di Orlando.
2) Gli amori del guerriero saracino Ruggero e della
guerriera cristiana Bradamante, che si concluderà, dopo varie vicissitudini in
cui hanno gran parte gli incantesimi del mago Atlante, con la conversione di
Ruggero al Cristianesimo e con le nozze dei due. Ed è questo il filone
cortigiano-encomiastico del poema, perché dalle nozze di Ruggero e di
Bradamante avrà origine la casa estense; e la narrazione delle loro vicende
offre il destro al poeta di elogiare in forma di predizione i maggiorenti della
famiglia.
3) La guerra fra Cristiani e Saraceni, che, tema
quasi esclusivo delle Chanson medioevali del Ciclo carolingio, qui
costituisce poco più che lo sfondo a tante variegate vicende private.
Intorno a questi tre temi fondamentali si svolgono
innumerevoli vicende collaterali, e agisce una miriade di personaggi: azioni e
personaggi mossi da Ariosto con un’abilissima e sicura regia che gli consente
di mantenere al poema, pur nella varietà delle sue elemento, un’articolata e
salda unità.
La «geografia» e la natura nel «Furioso» - In una delle Satire, ironizzando sui suoi gusti
sedentari, il poeta così si rappresenta:
Chi vuole andare a torno, a torno vada,
vegga Inghilterra, Ongheria, Francia e Spagna;
a me piace abitar la mia contrada.
E aggiunge che le terre lontane che non conosce gli
basterà percorrerle sulla carta geografica, o, come dice, sulla scorta dell’antico
geografo egiziano Tolomeo (II sec. d.C.):
il resto della terra
senza mai pagar l’oste, andrò cercando
con Tolomeo,sia il mondo in pace o in guerra.
Quasi per giocoso contrasto i suoi paladini e le sue dame
invece corrono incessantemente il mondo: Angelica viene dall’Oriente, gira per
l’Occidente e poi torna in Oriente; Orlando, Rinaldo, Ruggero, inseguendo i
loro personali programmi, lanciano i cavalli in terre remotissime, e Ruggero
ha addirittura a disposizione un cavallo alato, l’Ippogrifo, per
superare più rapidamente le distanze. Alle loro avventure non basta neppure la
terra: Astolfo, infatti, venuto in possesso dell’Ippogrifo, affronterà il viaggio
sulla luna per recuperare il senno di Orlando che nel frattempo è impazzito. A
questa mobilità dei personaggi si accompagna la varietà degli sfondi naturali
nei quali essi si muovono: boschi folti e fioriti o cupi e minacciosi, fiumi e
ruscelli, lande desolate e rupi marine, o il mare nella sua violenza quando è
sconvolto dalle procelle, o anche l’alone lunare e la fredda struttura dell’astro.
Il fascino rinascimentale della natura, di cui abbiamo parlato, ha nel poema
ariostesco un esempio tipico e fastoso.
Gli «appetiti» degli uomini - Per Ariosto il mondo cavalleresco, nel quale egli non
crede più, è un veicolo per esprimere la sua visione della realtà e per
rappresentare le perenni e molteplici passioni, i «vari appetiti» degli
uomini.
Attraverso i personaggi e i loro comportamenti, la natura
umana vi è ritratta nella sua molteplice varietà: il bene coesiste accanto al
male, la generosità accanto alla grettezza, l’eroismo accanto alla viltà, E il
poeta da al bene e al male, al bello e al brutto, uguale spazio e interesse,
nella matura coscienza che di questi contrasti è fatta la vita, o, come avrebbe
detto il suo contemporaneo Machiavelli, «la verità effettuale». Funzione del
poeta non è tanto di giudicarla, ma di capirla e di ritrarla. Scrive Caretti,
riprendendo un giudizio di Croce, che il segreto della poesia ariostesca, e l’elemento
che da ad essa unità, va ricercato «nel modo adulto e superiore con cui Ariosto,
quasi "occhio di Dio" che scruta e vede e intende l’intero universo,
ha saputo contemplare e rappresentare l’armonia cosmica che in sé rilega,
senza dissonanza alcuna, tutti gli aspetti della vita, anche i più
contraddittori e contrastanti».
Modulo II
L’età dell’assolutismo: decadenza economica, sviluppo
scientifico e trionfo del barocco
L’assolutismo -
Durante i centocinquant’anni che vanno dalla pace di Cateau-Cambrésis (1559)
agli inizi del Settecento, le grandi monarchie sono riuscite, con una dura
lotta, ad indebolire in quasi tutti i paesi europei il potere della nobiltà
feudale, fino ad allora capace di condizionare lo stesso potere del re. A poco
a poco infatti i nobili hanno dovuto rinunciare a molti privilegi e rassegnarsi
al ruolo di cortigiani, limitandosi a fare da cornice all’autorità
incontrastata del sovrano. Anche i ministri e i ènzionari, spesso d’origine borghese,
che circondavano il re, sono soltanto i suoi consiglieri: ogni decisione
spettava al sovrano, il quale esercitava così un potere assoluto, cioè
illimitato.
Per questo, tale periodo viene indicato come l’età della
monarchia assoluta, o età dell’assolutismo.
L’affermazione progressiva della sovranità e dell’impersonalità
coincide con l’affermazione (tra il XVI secolo e la Rivoluzione francese del
1789) della monarchia assoluta. In questo lungo periodo la spersonalizzazione
degli uffici non escludeva il potere personale del re. La sua volontà poteva
sovvertire le procedure ordinarie e sovrapporsi alle decisioni di qualsiasi
ufficio. Quando è suo interesse fare un’eccezione nell’applicazione della
legge, a favore o contro questo o quel suo suddito, il re poteva sovvertire l’ordinaria
attività degli uffici.
Coesistevano, insomma, aspetti diversi: lo Stato,
spersonalizzato ai livelli inferiori, ha al vertice il potere personale del
re.
La sua importanza è capitale poiché tutte le forme di
Stato oggi esistenti derivano da quella. In teoria, il re disponeva di un
potere assoluto, cioè senza limiti (anche se deve usarlo non per sé, ma nell’interesse
dello Stato). Secondo la teoria della monarchia assoluta, infatti,
il potere del re derivava dalla volontà (dalla grazia) di Dio. I
sudditi, perciò, sono totalmente soggetti alla volontà del sovrano, come alla
volontà divina. Tuttavia, contrariamente a quello che la formula «monarchia
assoluta» poteva far pensare, la pratica della monarchia assoluta è diversa.
Malgrado gli sforzi per imporre la propria autorità
assoluta, il re ha di fronte a sé un regno composto di tanti poteri sociali e
locali (la nobiltà, il clero, le professioni, le città, ecc.), refrattari all’ubbidienza
assoluta. Questi, anzi, per tutto il periodo dell’assolutismo, lottarono tra di
loro e contro il re per strappargli privilegi e migliorare così le proprie
posizioni. Nei periodi di maggior forza, il re riusciva a imporre il proprio
potere personale e ridurre all’ubbidienza il suo regno. Nei periodi di maggior
debolezza, il re è costretto a venire a patti col suo regno e a cedere pezzi
consistenti del suo potere.
Ciò che appare assoluto non è quindi il
potere personale del re, il quale a seconda dei casi è più o meno condizionato.
Assoluto è invece il potere della organizzazione politica centrale che, oltre
al re, comprendeva gli alti dignitari e il Parlamento, che rappresentava le
tante divisioni e i tanti interessi del regno.
Nella concentrazione della politica consiste
principalmente la novità delle monarchie assolute rispetto al sistema feudale.
Tra i due sistemi c’è una certa continuità, poiché non
sono abolite del tutto le cariche feudali, né gli ordini o ceti sociali, che
continuavano ad avere uno status giuridico privilegiato. Essi sono invece
costretti, come in una costellazione, a ruotare intorno ad un unico centro di
potere, di cui il re è l’elemento principale. L’assolutismo è dunque un sistema
composto da elementi nuovi e tradizionali: il potere del re coesisteva infatti
con quello dei diversi corpi sociali che derivavano dal feudalesimo. Si
potrebbe dire che è un regime monarchico non pienamente realizzato.
Jean Bodin -
Giurista e teorico politico francese, espone il suo pensiero in un’opera che si
intitola I sei libri della repubblica (1576); in essa l’autore
definisce il concetto di sovranità assoluta (priva di limitazioni) e
indivisibile. Ciò significa che chiunque eserciti il potere, sia esso una
persona (re) o un organismo politico, la fonte legittima dell’autorità
(sovranità) rimane tutta intera nelle sue mani, anche se alcuni poteri possono
essere delegati a magistrati o fnzionari.
Bodin individua nella monarchia la forma di
organizzazione statale nella quale meglio si incarna il
principio della sovranità; perciò è uno dei massimi teorici della monarchia
assoluta.
Thomas Hobbes (1588-1679)
è considerato il teorizzatore dell’assolutismo. Egli affronta il problema del
potere politico in particolare nel saggio Leviathan (1651), che
prende il titolo dal nome del mostro biblico dotato di una forza smisurata e
incontenibile: Hobbes ne fa il simbolo del potere assoluto dello Stato
monarchico. Egli fonda queste sue idee sulla constatazione che l’uomo, portato
ad agire sotto la spinta delle passioni, dell’istinto di conservazione e di
possesso, si comporta come un lupo nei confronti di tutti gli altri uomini (homo
homini lupus). In questa visione lo Stato nasce sì da un contratto sociale,
che però, nel momento stesso in cui viene fissato, determina la definitiva
assunzione, da parte di chi si vede riconosciuto il potere, di un’autorità
assoluta e illimitata, la sola che può assicurare una convivenza civile.
Questo periodo, e particolarmente il Seicento, può
giustamente essere considerato come un crinale della storia europea.
In alcuni Paesi si posero le premesse di trasformazioni economiche e sociali
destinate a creare differenze sempre più ampie tra essi e gli altri Stati
europei. È allora che a zone caratterizzate da una forte dinamica progressiva
se ne contrapposero altre di lenta crescita economica e di lenta trasformazione
sociale ed altre ancora di decisa stagnazione. Alla prima zona appartennero l’Inghilterra
e l’Olanda; alla seconda la Francia, la Germania e parte dell’Europa Centrale;
alla terza la Spagna, il Portogallo, la Polonia, l’Impero turco e l’Italia.
1. Gli Stati europei dal 1559 al 1701 - Questo periodo, che per l’Italia può essere considerato
unitariamente, per la storia d’Europa deve essere suddiviso in due periodi: il
primo, dal 1559 al 1648, è caratterizzato dalla preponderanza degli
Asburgo d’Austria e dalle guerre di religione; il secondo
(1648-1701) dall’egemonia francese.
a) Le guerre di religione - Le guerre di
religione, conseguenza della rottura dell’unità religiosa dell’Europa,
trovarono il loro teatro principale nelle Fiandre e in Francia. Nelle
Fiandre Filippo II,
re di Spagna (1556-98) subì uno smacco da parte delle forze protestanti, con l’insurrezione
del paese e la conseguente nascita di un nuovo stato, l’Olanda; la
Francia è sconvolta dalle lotte fra cattolici e ugonotti fra
il 1562 ed il 1594, cui si intrecciò la contesa per la successione fra tre
pretendenti al trono.
I due campioni europei delle opposte fedi sono il
cattolico Filippo II e la protestante Elisabetta,
regina d’Inghilterra (1558-1603). Una grande vittoria di quest’ultima che segna
l’inizio della decadenza della Spagna e dà avvio alla ascesa dell’Inghilterra a
grande potenza, è la distruzione, ad opera dell’agile flotta inglese, della
possente, ma lenta flotta spagnola, l’Invincibile Armada nel 1588.
Successivamente le guerre di religione hanno il loro
teatro in Germania, con lo scoppio della guerra dei Trent’anni.
Essa, iniziata come una semplice rivolta interna della Boemia nei confronti
degli Asburgo, si estese presto alla Danimarca e successivamente alla Svezia e
alla Francia, coinvolgendo anche l’Olanda e alcuni sovrani italiani, fra cui
Vittorio Amedeo I di Savoia.
La guerra segna lo scontro tra l’Impero cattolico degli
Asburgo e i principi protestanti, che volevano la rimozione di alcune
limitazioni alla libertà religiosa, stabilite dalla pace di Augusta del 1555;
inoltre rappresentò lo sforzo dei principi tedeschi per acquisire autonomia nei
confronti dell’Imperatore; infine, offrì l’occasione ad alcune potenze europee
di abbattere l’egemonia degli Asburgo. La pace di Westfalia del 1648, con i due
trattati, di Munster (tra gli Asburgo e le potenze cattoliche), e
di Osnabruck (fra gli Asburgo e le potenze protestanti),
riconosceva in Germania la libertà individuale di coscienza e di culto, e
segnava il crollo della potenza accentratrice degli Asburgo, riducendo ad un
puro nome l’autorità imperiale.
b) L’egemonia francese - In Francia, al
termine dei conflitti interni di religione che l’hanno lasciata stremata, la
monarchia riuscì, in un lungo processo, dal 1598,con l’editto di Nantes,
decreto emanato dal re di Francia Enrico IV che pose termine alla serie di
guerre di religione che hanno devastato la Francia dal 1562 al 1598, regolando
la posizione degli ugonotti (calvinisti), al 1661, uscita di minorità e
assunzione del potere da parte di Luigi XIV, ad abbattere le resistenze
della nobiltà feudale e quelle della dissidenza religiosa (ugonotti), e a
creare la forma più esemplare di governo assoluto.
Le tappe di tale processo sono le seguenti: Enrico
IV (1594-1610) risollevò la nazione dalla rovina delle guerre civili;
il cardinale Richelieu (1624-42), ministro di Luigi XIII,
contrastò con successo la potenza dei nobili feudali e restrinse le libertà
degli ugonotti; il cardinale Mazzarino (1642-61) portò avanti
il processo di accentramento dei poteri nella persona del re, battendo le
ultime resistenze della nobiltà feudale o fronda; Luigi XIV realizzò
pienamente l’assolutismo monarchico.
In concomitanza con questo processo di riorganizzazione e
di rafforzamento del potere monarchico, la Francia riassunse l’iniziativa
politica all’estero, partecipando alla guerra dei Trent’anni. Alla conseguente
pace di Westfalia riuscì ad ottenere l’Alsazia e a giungere così per la prima
volta al Reno che considerò da allora la sua frontiera naturale, da conquistare
integralmente. L’ampliamento del territorio verso la frontiera renana continuò
con la successiva guerra di Spagna, conclusasi con la pace dei Pirenei del
1659. Ed è la direttiva della politica estera di Luigi XIV: egli mirò a
completare l’acquisizione dei territori renani e a conseguire il primato in
Europa lottando con la Spagna già in decadenza, con l’Olanda all’apice della
sua potenza e con l’Inghilterra in ascesa. È questo il senso delle guerre di devoluzione (1667-68) di
Olanda (1672-78) e della lega di Augusta (1688-97).
c) L’ascesa dell’Inghilterra - L’Inghilterra,
che durante il regno di Enrico VIII (1509-1547) si è rafforzata all’interno,
sotto il lungo regno di
Elisabetta (1558-1603) vede la trasformazione della sua
economia da agricola in commerciale. La ricchezza che ne venne, incrementò la
sua potenza marittima che è sanzionata:
a)
dalla vittoria sulla
Spagna (sconfitta dell’Invincibile Armada nel 1588)
b)
dalla guerra
vittoriosa contro l’Olanda (1652-4), prima sotto l’impulso e poi sotto la
dittatura (1635-58) di Oliviero Cromwell,
c)
nella successiva
guerra contro la Spagna (1654-59).
L’evoluzione interna dell’Inghilterra in questo tempo
conobbe il passaggio dall’assolutismo dei Tudor e degli Stuart (con la
parentesi della dittatura cromwelliana) alla prima forma di monarchia di tipo
costituzionale che trovava le sue radici nella Magna Charta. Deposto l’ultimo Stuart, Giacomo II (la rivoluzione
senza sangue del 1688), il Parlamento invitava ad assumere
la corona Guglielmo d’Orange che, salendo al trono, giurava di osservare laDichiarazione dei diritti, cioè
una carta costituzionale che limitava il potere del sovrano.
2. L’emarginazione dell’Italia - Per quanto riguarda la storia d’Italia il periodo di
tempo compreso tra il Congresso di Bologna del 1530 e il Trattato
di Aquisgrana del 1748, può essere considerato in modo unitario. Anche
se è giusto distinguere il periodo del predominio spagnolo nella penisola fino
al Trattato di Rastadt nel 1714 da quello del predominio austriaco,
molto meno funesto; tuttavia, questi 220 anni sono accomunati dal perdurare di
almeno due condizioni le cui conseguenze sono determinanti per la vita della
penisola.
La prima è la mancanza di autonomia politica
degli Stati italiani, divenuti o province di una potenza straniera o suoi
satelliti; la seconda è l’emarginazione economica e culturale dell’Italia in
seguito alla perdita dell’indipendenza politica.
Perduta la posizione di primato che ha conquistato nei
secoli precedenti, l’Italia si trova esclusa dai processi di rapido sviluppo
economico e di profonde trasformazioni politiche e sociali, da cui sono
investite alcune grandi potenze (in particolare l’Inghilterra, l’Olanda e, in
misura minore, la Francia) e è relegata in una posizione marginale, dalla quale
solo nel XIX secolo, faticosamente e parzialmente, riuscirà ad emergere.
a) Assetto italiano alla pace di Cateau-Cambrésis -
La pace di Cateau-Cambrésis ribadì, aggravandola, la dominazione spagnola in
Italia. La Spagna, infatti, oltre che nel regno di Napoli, dominava
direttamente nel ducato di Milano, di fatto trasformato in una provincia
dipendente da Madrid; e nello Stato dei Presidi (alcune terre
della Toscana). Con l’erezione a ducato delle città di Parma e Piacenza sorse
un nuovo stato, feudo della Chiesa. Ma anche gli Stati che conservavano la loro
autonomia - repubblica di Venezia, Stato della Chiesa, ducato
di Toscana, repubblica di Genova,
ducato di Savoia, ducato
di Mantova, ducato di Ferrara, ducato di Modena e repubblica
di Lucca - di fatto dipesero dalla politica spagnola.
b) Il malgoverno spagnolo - L’assetto
dato all’Italia dalla pace di Cateau-Cambrésis durò dal 1559 al 1701 (inizio
della guerra di successione spagnola).
Gli Stati italiani dominati in questo periodo
direttamente dalla Spagna presentano uno dei quadri più tristi della loro
storia. Lo caratterizzarono la rapina e il fiscalismo della burocrazia straniè,
l’altezzosità della nobiltà dominatrice, il servilismo dilagante della
popolazione, l’arretramento delle condizioni economiche generali, la miseria e
l’ignoranza delle plebi; il tutto in un clima di soprusi e di anarchia. Un’efficace
rappresentazione della situazione del Milanese ci è stata data da Manzoni nei
Promessi Sposi.
Nel ducato di Milano, il più civile e il più
ricco dei domini spagnoli, la compressione della borghesia a vantaggio della
nobiltà terriera, favorita dal governo, che ne ricercava l’appoggio, porta,
unitamente ad altri fattori di cui si farà cenno più avanti, al decadimento
delle città e delle connesse attività industriali e mercantili.
Questa decadenza, frutto del cattivo governo spagnolo, è
meno evidente nel Meridione e nelle isole, ma solo perché si innestava su una
situazione già deteriorata dal precedente malgoverno straniero, quello degli
Aragonesi. Di fatto le condizioni del Sud sono peggiori di quelle del ducato di
Milano, a causa anche del persistere delle istituzioni feudali che,
diversamente che al Nord, non sono state spazzate via dal sorgere dei Comuni.
Questa situazione generò gravi malcontenti, che
sfociarono in insurrezioni destinate fin dalla nascita al fallimento. A Napoli Masaniello fece
insorgere la plebe chiedendo l’abolizione delle gabelle nel 1647, e finì ucciso
dalla stessa plebe abilmente eccitatagli contro dal viceré spagnolo; Gennaro
Annese che cercò di portare avanti l’insurrezione, con un disegno
politico più chiaro, è battuto dall’intervento delle armi spagnole. Anche a
Palermo la rivolta, guidata nello stesso anno da Giuseppe D’Alessio per
rimuovere le gabelle, ha una misera conclusione: il D’Alessio finì col trovare
contro di sé la stessa folla che egli ha sollevato. Più complessa è, nel 1674,
la rivolta che, per l’insofferenza dei gravami fiscali, scoppiò a Messina; essa
si sostenne per quattro anni appoggiandosi alla Francia; ma anche in questo
caso la Spagna riuscì alla fine a prevalere sui rivoltosi e sui loro alleati.
c) Gli Stati italiani indipendenti -
A Firenze, dopo i successi di Carlo V in Italia e il Congresso di
Bologna, rientrarono i Medici con il duca Alessandro.
Cosimo I (1537-74),
successo al duca Alessandro e insignito dal Papa del titolo di granduca (1569),
dà un saggio ordinamento allo stato, restaurando l’economia. Questa politica è
continuata da Ferdinando I (1587-1609), che dà incremento al
porto di Livorno. La politica estera medicea si mosse comunque nell’orbita
della politica spagnola fino ai tempi di Ferdinando I, che cercò di
controbilanciare l’influenza della Spagna con quella della Francia, alla quale
si avvicinò.
Nello Stato della Chiesa, in questo periodo,
l’azione dei pontefici presentò un notevole mutamento nei confronti di quella
dei papi del Rinascimento. In armonia con la Controriforma essi si impegnarono
soprattutto nel campo spirituale, premurosi degli interessi generali del
cattolicesimo più che non di quelli del loro Stato. Proprio per questo non si
preoccuparono di esercitare una politica indipendente dalla Spagna.
La Repubblica Veneta agì invece in modo
autonomo nei confronti della Spagna. Del resto essa ha limitato la sua azione
politica in terraferma per preoccuparsi soprattutto della difesa delle sue
posizioni in Levante, dove dovette far fronte all’avanzata turca. Nonostante la
vittoria nella battaglia di Lepanto nel 1571, quando i
maggiori stati cristiani affiancarono Venezia per sconfiggere i Turchi, dovette
però arretrare abbandonando le isole di Cipro e Candia, perdita non certo
compensata dall’effimera occupazione del Peloponneso nel 1699. Dopo la perdita
di Candia, la repubblica di Venezia si chiuse nell’Adriatico, dove si limitò a
sopravvivere ancora per un secolo, fino alla venuta di Bonaparte in Italia.
Il Ducato di Savoia è lo Stato che
dimostrò il maggior dinamismo. La volontà di attuare una politica
espansionistica lo sottrasse, in alcune occasioni, alla acquiescenza alla
Spagna. Con Emanuele Filiberto i duchi di Savoia
incominciarono a volgere la loro attenzione all’Italia, e precisamente al
Piemonte. Sintomatico al riguardo è il trasferimento, sotto Emanuele Filiberto,
della capitale da Chambery a Torino; la conquista del marchesato di Saluzzo da
parte di Carlo Emanuele I nel 1601 rappresentò il primo grosso
ampliamento dei possedimenti italiani.
d) La decadenza del Mediterraneo - La
situazione di depressione, che, sia pure in misura diversa nei diversi Stati,
caratterizza tutta la penisola, ha altre cause oltre a quelle di cui ci siamo
occupati finora: tra queste la più importante fu la perdita d’importanza
del Mediterraneo, in seguito alle scoperte dell’America e della nuova via
marittima per le Indie. Il declino del Mediterraneo non è improvviso: i porti
di Genova e di Venezia mantennero la loro importanza ancora per tutto il
Cinquecento; ma è un declino inarrestabile.
A partire dal Seicento, i traffici portuali genovesi e
veneziani assunsero la caratterizzazione regionale che neppure l’apertura del
Canale di Suez nel secolo XIX riuscì a modificare. Grandi porti internazionali
divennero le città che si affacciavano sull’Atlantico, prima quelle della
penisola iberica (Lisbona, Siviglia e Cadice), centri dei traffici con le
Americhe, e poi, e più durevolmente, le città olandesi e inglesi (Anversa,
Londra, e soprattutto Amsterdam).
Lo spostamento dell’asse dei traffici dal Mediterraneo
all’Atlantico non è dovuto solo a ragioni geografiche. Dipese soprattutto dalla
capacità di nazioni, come l’Inghilterra e l’Olanda (e parzialmente la Francia),
di mettere in atto una politica mercantile e industriale adeguata alle esigenze
di un mercato nuovo più esteso e meno elitario.
La Spagna e il Portogallo non seppero attuare queste
trasformazioni. Legate alla vecchia concezione delle colonie come terre da
razziare e da spogliare - soprattutto di metalli preziosi - sono incapaci di
compiere il passaggio alla nuova forma di colonialismo attuata dagli Inglesi e
dagli Olandesi, che seppero considerare le colonie come fonti di materie prime
e come vasti mercati di smercio per le industrie nazionali.
e) L’involuzione dell’economia italiana -
L’emarginazione economica dell’Italia è dovuta a più fattori, connessi tanto
all’economia quanto alla modificazione della situazione sociale e politica. All’economia cittadina chiusa
in forme sclerotizzate da una fortunata e consolidata tradizione e dagli
statuti vincolanti di potenti corporazioni, mancò l’elasticità necessaria per
passare dalla produzione e dal commercio di beni scarsi e costosi (spezie,
seta, panni fini di lana) alla produzione e al commercio di beni meno pregiati
e di più largo consumo (canna da zucchero, cotone, panni meno raffinati). Non
essendo in grado di ridurre i propri costi di produzione, inoltre, l’economia
cittadina perse competitività non solo sui mercati esteri, ma anche su quelli
italiani.
Contemporaneamente, in connessione col minor reddito del
commercio e della manifattura, si assistette ad una fuga di capitali verso la
terra che divenne di nuovo la base predominante della ricchezza
e del potere.
Il ritorno alla terra - con la parallela riduzione dell’importanza
delle città, nelle quali si verificò una diminuzione della popolazione - è
tanto un atteggiamento di riflusso, quanto un’operazione di investimento che
consentì alti guadagni, grazie anche alla libertà di sfruttare i contadini.
La triste situazione di sudditanza politica, infine,
subordinò l’economia degli Stati italiani alle esigenze della potenza egemone
(soprattutto alla Spagna), privandola dei necessari incentivi a superare le
difficoltà della concorrenza, fattasi sempre più agguerrita. Le distruzioni e i
danni operati dalle guerre che trovarono così spesso nella penisola
(soprattutto al Nord) il loro campo di battaglia, costituiscono altri gravi
fattori di freno allo sviluppo economico degli Stati italiani.
f) La semplificazione della società italiana –
Il ritorno alla terra è solo uno degli aspetti di un complesso fenomeno, che è
stato indicato dagli storici con il nome di rifeudalizzazione. Con
questo termine si vuole indicare il venir meno delle iniziative economiche e
del dinamismo sociale che hanno caratterizzato i secoli precedenti a partire proprio
dall’Italia, dove, per la prima volta, le forze della borghesia emergente hanno
spezzato e ridotto il potere della feudalità dominante. Nel Seicento si ha una
netta inversione di tendenza:
a)
nel Sud essa sboccò
in una regressione permanente, che rafforzò l’antica nobiltà feudale;
b)
nel Nord e nel
Centro, dove più vivace è stata la vita comunale e più rilevante la presenza
della classe mercantile, quest’ultima, grazie all’acquisto della terra, va ad
ingrossare le fila della nobiltà feudale, assimilandosi ad essa.
Il risultato di questo processo è una semplificazione
e un irrigidimento della struttura sociale: tutto il potere economico si
accentrò nelle mani della nobiltà, dalle cui fila soltanto uscivano i membri
della classe dirigente. Al di fuori della nobiltà non restarono che sparute
forze produttive; quasi a nulla sono ridotte le possibilità di ascesa delle
altre classi sociali.
3. La Controriforma - A ribadire la situazione di emarginazione della vita
italiana nel suo complesso concorse la Controriforma che in
Italia (e dovunque essa si trova ad operare con l’appoggio della monarchia
spagnola) fece sentire pesantemente la sua azione repressiva. Ne risultò una
progressiva contrazione della vivacità creativa nel campo della letteratura,
della filosofia, della scienza e delle arti, campo nel quale l’Italia si è
conquistata, nei secoli precedenti, un indiscusso primato europeo.
a) Il concilio di Trento - La
Controriforma è motivata dalla volontà di porre riparo al distacco di buona
parte dell’Europa dalla Chiesa di Roma e di arginare le eresie che vanno
diffondendosi nei paesi latini e in particolare in Francia. A questo fine il
Papato si preoccupò di una precisa definizione dogmatica e di
una decisa riforma dei costumi ecclesiastici. L’iniziativa
pontificia si concretò nel Concilio di Trento che, scartando
la tesi che ricercava la conciliazione con i dissidenti, preferì quella della
contrapposizione recisa alla Riforma. Così, al principio del libero
esame si contrappose quello dell’autorità della Sacra Scrittura
secondo l’interpretazione della Chiesa; alla tesi lutèna secondo cui ogni uomo
può porsi in rapporto diretto con Dio, si contrappose l’affermazione
che la salvezza è solo nella Chiesa attraverso i sacramenti; infine
si affermò l’assoluta superiorità del pontefice cui solo spetta di
convocare i concili. Le verità di fede sono compendiate dal Concilio
nella Professione di fede tridentina, un estratto della quale è
il catechismo romano, testo di insegnamento religioso in tutte le
scuole parrocchiali.
Per moralizzare il clero si fissarono rigorose norme
disciplinari, riconfermando l’obbligo del celibato e, per prepararlo alle sue
ènzioni, si istituirono i Seminari.
b) I nuovi ordini religiosi - L’opera
del Concilio di Trento sarha stata inutile se non fosse stata sostenuta dal
sorgere di ordini religiosi che, operando tra i fedeli, ravvivarono gli ideali
di vita cristiana. Tra gli ordini ricordiamo i Barnabiti,
i Somaschi, gli Scolopi che si preoccuparono tutti
di aprire collegi per la gioventù; mentre i Teatini sono
istituiti per coadiuvare i parroci nel loro ministero, i Fatebenefratelli,
le Suore di caritàe i Lazzaristi per assistere gli
infermi; i Cappuccini (un ordine francescano riformato) per la
predicazione fra il popolo; gli Oratoriani per la cura dei
giovani delle classi umili.
c) I Gesuiti - Il più importante fra
tutti gli ordini religiosi sorti in questo periodo è senz’altro l’ordine dei
Gesuiti, fondato da Sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) che si propose queste
finalità:
a)
difesa della fede
cattolica,
b)
sua diffusione,
c)
formazione di
sacerdoti in grado di essere al passo con l’evoluzione culturale dei tempi,
d)
creazione di scuole
aperte a tutti, ma mirate alla formazione cattolica delle classi dirigenti.
Sant’Ignazio crea una gerarchia di tipo militare, fondata
sull’assoluta obbedienza ai superiori; inoltre legò con un giuramento
di fedeltà al Papa tutti i gesuiti.
In pochi anni questi divennero un pilastro della Chiesa
cattolica; fondano missioni in tutti i continenti, favorendo l’avvicinamento al
cattolicesimo con una graduale integrazione della nuova fede nelle culture e
nei costumi dei vari popoli. Nei Paesi cattolici seppero conquistare posizioni
influenti come confessori e consiglieri di re e principi, attuando politiche di
mediazione e di prudenza.
I Gesuiti scelsero come loro campo preferito di attività
l’organizzazione di scuole ad orientamento umanistico, destinate
alla classe dirigente: dalle elementari all’università, essi organizzarono
percorsi didattici moderni ed efficaci, per dare una preparazione culturale
seria, senza mai perdere di vista l’obiettivo principale, la formazione del
buon cristiano.
I gesuiti che dimostravano propensione per una disciplina
sono destinati a coltivarla ai massimi livelli, perciò molti hanno un ruolo di
rilievo nello sviluppo della scienza, della letteratura, dell’arte.
Il Collegio romano, l’università dei gesuiti,
è un centro di ricerca scientifica di cui riconoscevano il prestigio anche gli
studiosi non cattolici.
I gesuiti sono totalmente indipendenti dalla gerarchia
ecclesiastica e rispondevano della loro azione esclusivamente al Papa; per
questo, all’interno della Chiesa, si formò un partito antigesuita che
li accusava di allargare il proprio potere tramite l’appoggio dei potenti e i
molti compromessi nel campo del comportamento e della morale.
d) Il controllo del pensiero - Per
combattere poi lo spirito critico da cui è nata la Riforma e per avere il
controllo sui testi scritti la Chiesa affiancò all’Inquisizione un istituto di
repressione, la congregazione dell’Indice dei libri proibiti, voluta dal
Papa Paolo IV Carafa nel 1559. Si trattava di una commissione
con l’incarico di redigere e tenere aggiornata la lista di opere e autori che i
cattolici non possono leggere, possedere e divulgare, perché veicoli di idee
contrarie alla morale e alla dottrina. L’Indice è diviso in tre parti: la prima
degli autori messi totalmente al bando, la seconda di singole opere, la terza
di scritti anonimi.
Il fine dell’Indice è di impedire la stampa dei testi
proibiti e di bruciarne le copie eventualmente sequestrate. L’efficacia dell’Indice
è limitata, perché impossibile il controllo capillare, ma serie sono le
conseguenze indotte:
a)
spinta all’autocensura
degli autori che, per evitare noie con la Chiesa, eliminavano dai loro libri
ogni idea o riferimento che potesse essere contestato; è una delle cause del
conformismo controriformista che si manifesta nel Seicento nei Paesi cattolici
in cui più potente è la Chiesa, come Spagna e Italia;
b)
diffusione di testi
classici «purgati», con soppressione di parti, soprattutto a uso scolastico; si
diffondeva così un’idea distorta della letteratura, moralistica e staccata dai
comuni sentimenti;
c)
sviluppo delle
stamperie clandestine e del contrabbando dei libri; gli autori che temevano di
non ottenere il permesso del vescovo facevano stampare i loro testi nei Paesi
protestanti, da dove poi rientravano di nascosto.
In molti casi però si ricorreva al trucco di indicare nel
volume come luogo di stampa una città straniera.
Infine si rafforzò la Congregazione del Sant’Uffizio
come tribunale supremo dell’Inquisizione che, già vigorosa nel secolo XIII,
è poi decaduta.
La preoccupazione della Chiesa di controllare il pensiero
attraverso la censura preventiva della stampa (non si poteva pubblicare un
libro senza l’autorizzazione ecclesiastica) limitò lo sviluppo della filosofia,
della scienza e delle arti. Ne seguirono spesso situazioni di lacerazione
interna e un clima di paura, che la condanna di alcuni filosofi (Bruno,
Campanella) e scienziati (Galileo) rafforzò.
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