Verso una
nuova civiltà: la nuova società urbana.
1. Il Basso
Medioevo (secoli XI - XV) –
Il secolo XI mostra una svolta nella storia d’Europa: ha inizio in quell’epoca
un progresso che – a differenza dei parziali e temporanei tentativi di
rinascita per opera di Giustiniano e di Carlo Magno, tentativi cui seguirono
nuovi periodi di declino – durò quasi ininterrottamente fino ai tempi moderni.
Nell’Alto
Medioevo si possono distinguere nell’Europa cinque aree culturali:
· bizantina
· musulmana
· scandinava
· slava
· europea.
Mentre il centro
dell’iniziativa politica e di propulsione della cultura europea dall’VIII all’XI
secolo risiedeva nel regno dei Franchi e nella Germania occidentale, dopo l’XI
secolo, la nuova cultura si esprime attraverso più centri e, diversamente da
quella feudale, abbastanza omogenea, si differenzia notevolmente.
Dall’XI secolo
inizia il basso Medioevo in cui si manifestano tanti segni di cambiamento
radicale nella società, nell’economia, nella cultura, nel modo di vivere e di
pensare, che molti studiosi hanno adottato l’espressione autunno del Medioevo per indicare un lungo periodo che si presenta
come il lento tramonto dell’età medievale che si concluse molto dopo, con la
nascita dell’Europa moderna.
Per molti
aspetti, infatti, il Medioevo non è finito:
· il sistema
feudale, per quanto in crisi ed in trasformazione, rimane alla base dell’organizzazione
sociale, militare e agricola;
· la cultura
delle masse rimane ancorata alla visione cristiana del mondo;
· molti valori
ideali, morali, artistici che si sono affermati nei secoli dopo la caduta dell’Impero
romano restano costanti.
Altri fattori
storici mostrano l’inizio di un’epoca più dinamica, con mutamenti più rapidi:
· la crisi delle
concezioni universalistiche, secondo le quali il Papato e l’Impero sono le due
entità politiche e spirituali in cui tutti i cristiani hanno la loro
collocazione naturale.
· lo sviluppo
delle attività produttive di carattere manifatturiero, dei commerci e dalla
nascita di una grande attività bancaria, sostituisce la chiusa economia
medievale.
· le città
diventano i motori della crescita, anche demografica, dell’Europa.
Nei primi tre
secoli del secondo millennio, le premesse culturali, lentamente elaborate nell’alto
Medioevo, danno in ogni campo i loro frutti. Ne deriva una grande civiltà,
articolata e coerente nelle sue varie manifestazioni, dalle forme
politico-sociali a quelle dell’arte e del pensiero.
Nel basso
medioevo l’area culturale latina, la cosiddetta Cristianità, si ampliò
ulteriormente e sottrasse al dominio musulmano la Sicilia, gran parte della
penisola iberica e, per qualche tempo, anche Gerusalemme e la Terrasanta e il
centro di gravità di questo mondo culturale è costituito dalla Francia, dalla
Germania renana e dall’Inghilterra meridionale. Ivi si trovano i centri di
cultura più famosi, come Chartres, Parigi, Orléans, Oxford, Colonia. Ivi, per
oltre due secoli, si affermano i pensatori prima che altrove e la nuova poesia
in volgare.
Successivamente
la nuova cultura si espresse attraverso più centri e, diversamente da quella
feudale, ancora abbastanza omogenea, andò notevolmente differenziandosi
soprattutto nel XIII e nel XIV secolo si manifestarono tanti segni di
cambiamento radicale nella società, nell’economia, nella cultura, nel modo di
vivere e di pensare, che molti studiosi hanno adottato l’espressione autunno del Medioevo per indicare il lungo periodo che,
partendo proprio dal Duecento, si presenta come il lento tramonto dell’età
medievale che si concluderà molto dopo con la nascita della società moderna in
Europa.
Occorre
segnalare la crisi definitiva delle concezioni universalistiche, cioè di quelle
idee secondo le quali il Papato e l’Impero potevano e dovevano costituire le
due entità politiche e spirituali al cui interno avevano la loro posizione
naturale tutti i cristiani.
Nel corso del
Trecento il Papato dovette rinunciare definitivamente ad
esercitare un controllo sul potere politico che, contemporaneamente, andava
assumendo un carattere nuovo e moderno negli Stati nazionali, retti da monarchie, che si formarono in Francia e
Inghilterra. Il nome di Impero sopravvisse, ma senza nessun carattere
universale, solo per indicare l’insieme di regni, di principati e di città dell’area
tedesca ed austriaca che riconoscevano il titolo di imperatore ad un principe
che era eletto.
L’altro fattore
innovativo fu l’enorme sviluppo delle attività produttive di carattere
manifatturiero, dei commerci e dalla nascita conseguente di una grande attività
bancaria, segno che l’economia medievale non era più un’economia chiusa,
caratterizzata da uno scarso bisogno di moneta e dalla sua limitata
circolazione. Le città diventano i motori della crescita, anche demografica,
dell’Europa.
L’età compresa
tra l’XI ed il XV secolo rappresenta per l’Italia, più vistosamente nelle sue
regioni centrosettentrionali, uno dei momenti di maggior splendore, una delle
sedi privilegiate, dove si manifestarono più vigorosamente i cambiamenti
economici e sociali che portarono all’emergere di nuove istituzioni politiche,
di nuove forme di attività commerciale, di vita religiosa, di arte e
letteratura: in questo periodo la letteratura italiana nacque e fondò
saldamente la propria tradizione; questo processo ebbe un punto di svolta
decisivo e del tutto eccezionale con la comparsa di tre grandi autori, Dante,
Petrarca e Boccaccio che, con le loro opere, superarono molto le esperienze che
li precedevano e crearono modelli tanto forti che è possibile affermare che
con loro nacque la tradizione letteraria italiana con i caratteri che la
distinguono dalle altre.
A metà del
Trecento (1347-48) l’intera Europa fu sconvolta da un’epidemia di peste che falcidiò la popolazione, fino a
dimezzarla in alcune regioni; questo avvenimento spezzò in due il secolo XIV,
determinando una crisi, oltre che economica, anche morale, politica, religiosa.
Il 1348, secondo moltissimi studiosi,
rappresentò tuttavia l’anno del concepimento dell’uomo dell’età moderna: fu la
peste a mettere in moto il cambiamento d’epoca che segnò la fine del Medioevo
ed aprì le porte al Rinascimento.
Come ha
dimostrato David Herlihy, dopo il 1348 non fu più possibile mantenere i modelli
culturali del XIII secolo. Le gravissime perdite in vite umane causarono una
ristrutturazione della società che, a lungo termine, avrebbe avuto effetti
positivi. Herlihy definisce la peste "l'ora degli uomini nuovi": il
crollo demografico rese possibile ad una percentuale significativa della
popolazione la disponibilità di terreni agricoli e di posti di lavoro
remunerativi. I terreni meno redditizi furono abbandonati, il che, in alcune
zone, comportò l'abbandono di interi villaggi. Le corporazioni ammisero nuovi
membri, cui prima si negava l'iscrizione. I fitti agricoli crollarono, mentre
le retribuzioni nelle città aumentarono sensibilmente. Per questo un gran
numero di persone godette, dopo la peste, di un benessere che in precedenza era
irraggiungibile. L'aumento del costo della manodopera favorì un'accentuata
meccanizzazione del lavoro. Così il tardo Medioevo divenne un'epoca di notevoli
innovazioni tecniche. David Herlihy cita l'esempio della stampa. Fino a quando
i compensi degli amanuensi erano rimasti bassi, la copia a mano era una
soluzione soddisfacente per la riproduzione delle opere. L'aumento del costo
del lavoro diede il via a una serie di esperimenti che sfociò nell'invenzione
della stampa a caratteri mobili di Gutenberg. Sempre Herlihy ritiene che
l'evoluzione della tecnica delle armi da fuoco sia da ricondurre alla carenza
di soldati. La Chiesa, cui moltissime vittime dell'epidemia avevano lasciato in
eredità i loro beni, uscì dalla peste nera più ricca, ma anche meno popolare di
prima. Non era riuscita a dare una risposta soddisfacente al perché Dio avesse
messo alla prova l'umanità in maniera tanto dura, né era riuscita ad essere vicina
al proprio gregge, quando questo ne aveva maggior bisogno. Il movimento dei
flagellanti aveva messo in discussione l'autorità della Chiesa. Anche dopo che
questo movimento tramontò, molti cercarono Dio in sette mistiche e in movimenti
di riforma, che alla fine distrussero l'unità spirituale dei cristiani.
Secondo alcuni
storici della cultura, tra cui in particolare Egon Friedell, la peste nera
causò la crisi delle concezioni medievali di uomo e di universo, scuotendo le
certezze della fede che avevano dominato fino ad allora, e vede un rapporto
causale diretto tra la catastrofe della peste nera e il Rinascimento.
La seconda parte
del Trecento è un periodo in cui l’Europa, dopo un momento di regresso, come
stordita dal grave colpo subito, faticosamente cominciò a risollevarsi, ma le
condizioni erano talmente cambiate che la ripresa dello sviluppo determinò la
rottura degli equilibri precedenti e il baricentro economico e finanziario,
fino allora localizzato nell’Italia centro-settentrionale, comincia a spostarsi
lentamente verso i paesi del centro-nord dell’Europa.
La morte appare
come fine naturale di una vita tutta naturale. Negli uomini di questa età c'è
un'angoscia che il mondo medioevale risolveva religiosamente:
svalutando la vita corporea in vista dell'aldilà, si svalutava anche la morte
che diveniva un passaggio ad una vita migliore. Per i moderni la morte è invece la fine di tutto.
Questo senso
della morte così inteso si ritrova nelle raffigurazioni pittoriche delle danze macabre. Nelle danze macabre sono raffigurati gli scheletri,
personificazione della morte,
mentre gli uomini sono solitamente abbigliati in modo da rappresentare le
diverse categorie della società dell'epoca, dai personaggi più umili, come
contadini e artigiani, ai più potenti, come l'imperatore, il papa, principi e
prelati. Il soggetto ha la funzione di memento
mori e, rispetto ai soggetti
apocalittici più diffusi nell'alto medioevo, come le rappresentazioni del giudizio
universale, esprime una visione più
individualistica della morte e talvolta anche una certa ironia nei confronti
delle gerarchie sociali dell'epoca. È importante notare che con il tempo la
figura della Morte come agente della volontà divina scompaia, lasciando
iconograficamente soltanto i cadaveri, simboli del conturbante richiamo
dell'aldilà, laicizzando l'ideale della morte stessa. Questa parentesi però durò
poco: a breve, componimenti come La
Danza macabra delle donne e La Danza dei ciechi riconsegnano il tema della Danza Macabra al moralismo ed alla sfera religioso-sacrale
cristiana.
La diffusione del tema, assieme
ad un certo compiacimento nella rappresentazione di scheletri e di morti, è
stata messa in relazione con la grande peste
del 1348, che infuriò in tutta Europa e che rese la morte un fenomeno familiare
nei vari paesi europei. Alberto Tenenti sottolinea
come il senso di pietà per la propria sorte e
l'ironia tragica, tipica di questi componimenti, siano stati passaggi
fondamentali per liberare l'uomo dall'ideale cristiano della morte.
I dipinti dedicati a questo tema
sono visitabili in varie località d'Europa: qui vengono rappresentate tutte le
classi sociali in ordine gerarchico e ciascuno dei ballerini dà la mano a uno
scheletro e tutti insieme intrecciano una danza. Questo non vuol dire
semplicemente che la morte eguaglia tutti gli uomini senza tener conto della
loro condizione sociale, ma vuole far intendere soprattutto che la vita è sullo
stesso piano della morte. La vita e la morte si danno la mano e insieme ballano
perché tutto è futile e senza senso come una danza dove si procede senza una
meta precisa, senza uno scopo se non quello di danzare. La vita come un ballo,
una giravolta vertiginosa che finisce quando la musica tace e si spengono le
luci.
2. La crisi del sistema feudale e la riorganizzazione politica
dell’Europa – Gli Stati attuali
derivano dal processo di riorganizzazione dell’Europa che segue al disfacimento
del regime feudale. Si tratta di un’organizzazione molto instabile, con guerre
frequenti al suo interno e incapace di esprimere un’autorità unica ed un ordine
generale.
La massima autorità è l’Imperatore. Il territorio è
suddiviso in feudi, ciascuno dei quali è assegnato ad un feudatario, scelto
dall’Imperatore. Feudatario ed Imperatore sono legati soltanto da un vincolo
personale di fedeltà e lealtà, ma un simile legame è insufficiente a garantire
l’unità di potere politico su un territorio tanto vasto. Ciò spiega le
frequenti guerre dell’Imperatore contro i feudatari ribelli, per sottometterli
alla sua autorità, dei feudatari contro l’Imperatore, per acquistare
indipendenza, e dei feudatari fra loro stessi, per sopraffarsi a vicenda.
Inoltre, l’autorità imperiale è contestata dal Papa, che anch’egli
cercava di affermare la propria supremazia, nella secolare vicenda della lotta per le investiture [[1]]. La
posta in gioco è il potere di scegliere i feudatari e quindi la loro dipendenza
dall’Imperatore o dal Papa.
L’Europa si sgretolava così in tanti poteri locali più o
meno indipendenti che, nel corso di più secoli e procedendo dal basso, danno un
nuovo ordine all’Europa.
L’assenza di un’autorità politica capace di garantire l’ordine
permetteva le scorrerie di bande violente che rendevano insicura la vita nelle
campagne e nei centri urbani. Allora, un capobanda imponeva con la forza il
proprio dominio su un territorio, garantendo la sicurezza e l’amministrazione
della giustizia. In cambio, però, esigeva obbedienza ed il pagamento di
tributi. In questo modo, si affermava un piccolo centro di potere, capace di
garantire quell’ordine che il regime feudale non è in grado di assicurare.
Tante signorie, nel corso dei secoli dal XIII al XV, nacquero così, da un
capobanda che si imponeva in una città o in contado. Affermata la sua autorità,
il nuovo signore contrattava la sua fedeltà con l’Imperatore, strappandogli l’investitura
feudale, insieme a poteri e privilegi. L’autorità dell’Imperatore è così
umiliata, dovendo egli subire il fatto compiuto.
La stessa cosa avvenne con altri poteri che si venivano
affermando localmente. Talora sono le città che si davano un proprio governo
libero, spesso dominato dalle corporazioni delle arti e dei mestieri o dei
mercanti, oppure sono i grandi monasteri che si arrogavano compiti da
feudatari.
L’Europa presentava così una miriade di situazioni
diverse, di signorie, di città, di monasteri, di corporazioni che formalmente
rispettavano l’Imperatore ma che, sostanzialmente, ne sono indipendenti.
Nel sistema feudale mancavano i tre caratteri propri dell’organizzazione
statale (sovranità, impersonalità e giuridicità):
· nessun potere sovrano è in grado di imporsi ai numerosi
poteri particolari;
· i rapporti di potere sono di tipo personale;
· sebbene esistesse un complicatissimo sistema di regole
giuridiche che determinavano la posizione dei feudatari rispetto all’Imperatore
e agli abitanti dei feudi, contavano di più i puri e semplici rapporti di
forza.
Proprio da questa situazione comincia la storia della
formazione dello Stato moderno. L’ordinamento feudale fu formalmente abolito
nel 1648 con la pace di Westfalia, quando fu sancita la fine dell’Impero e del
Papato, come autorità politiche europee, e si riconobbe l’autorità suprema dei
diversi sovrani nelle loro terre. Ma questa data è solo la presa d’atto di un
processo in corso già da molto tempo.
La ripresa dell’agricoltura – La rinascita dopo il Mille – l’anno del terrore per la
temuta fine del mondo – prende l’avvio da una decisa ripresa dell’agricoltura:
· ricerca di nuove terre da coltivare strappandole alle
selve e alle paludi;
· maggiore razionalità nelle colture, grazie anche ad una
maggior organicità ed efficienza dei grandi complessi fondiari, soprattutto
quelli dei monasteri e delle Chiese, ma anche quelli regi e quelli dei grandi
feudatari.
La grande contesa per la terra, scatenatasi tra i signori
secolari e tra questi e i vescovi e gli abati non contrasta questo risveglio,
anzi lo favorisce: la perdita di alcune proprietà spesso spingeva a compensare
guadagnando nuove terre alle colture.
La crescita demografica, che ne è a sua volta favorita,
contribuisce inoltre ad accelerare il fenomeno: si tratta sia di un aumento
assoluto di popolazione che crea nuovi insediamenti in terre già incolte, sia
di spostamenti o concentrazioni.
L’aumento della popolazione ed il migliore tenore di vita
nelle curtes signorili e nei monasteri
favorirono lo sviluppo della produzione di manufatti e la formazione di schiere
più numerose e diversificate di artigiani, cui spettava il compito di fornire
prodotti più raffinati e più funzionali alla vita dei castelli, delle abbazie e
dei vescovadi; artigiani alla cui opera è tra l’altro affidata la costruzione,
l’arredamento e l’abbellimento delle nuove dimore e delle chiese.
I mercanti - Uno dei
segni del cambiamento economico-sociale è l’emergere, a metà dell’XI secolo, di
una nuova classe, i mercanti che occuparono nella società un posto sempre più
rilevante. Inizialmente sono soprattutto negozianti girovaghi che vanno a
rifornirsi della merce dov’è abbondante, per portarla dove sapevano di trovarne
l’acquirente. Successivamente i mercanti preferiscono appoggiarsi alle fiere
che si tenevano periodicamente, quasi sempre in concomitanza con ricorrenze
religiose presso monasteri e città.
L’attività del mercante è molto remunerativa, ma gravosa
e rischiosa. Per questo i mercanti si univano in gruppi, viaggiavano in
carovane, mettevano in comune dei capitali. Si tratta dapprima di associazioni
temporanee, che successivamente danno luogo a istituzioni stabili: nel Nord le gilde e le anse,
in Italia le corporazioni.
La ripresa della città - Sotto lo stimolo della generale ripresa economica e di
quella degli scambi commerciali che si sono manifestate nella società rurale
alla fine del millennio rinasce la città grazie:
· ad una maggiore disponibilità di beni;
· ad una maggiore sicurezza e facilità di trasporti e
comunicazioni;
· ad una maggiore circolazione monetaria.
Il processo di fuga, che porta al disperdersi della
scarsa popolazione in isolati centri nelle campagne, nei pressi delle abbazie e
dei castelli, si inverte.
Le città che hanno ricostruito le mura per far fronte
alle razzie degli Ungari, diventano un ricercato luogo di rifugio. I contadini
che vi accorrevano vi trovavano inoltre anche la possibilità di un’elevazione
sociale ed economica: l’esercizio di un mestiere, oltre a liberarli dalla
servitù della gleba, permetteva loro di acquistare benessere e ricchezze. Anche
i nobili feudali, principalmente i minori, i valvassori, lasciano i castelli
per cercare nella città una forma di vita più confortevole, una partecipazione
più diretta alla vita politica, e, nell’associazione con i propri consorti,
una più forte capacità di resistenza alle richieste dei vassalli maggiori.
La chiusa economia curtense, fondata quasi esclusivamente
sul baratto, cede il posto ad un’economia più varia e ricca, caratterizzata
dallo scambio mercantile, in base alla quale si produce non più solo per
consumare, ma per vendere, e dalla presenza del denaro. Tutto ciò si ripercuote
favorevolmente sulle città, che diventano sempre più popolose e più ricche.
Diversamente dalla città romana occidentale, la città medioevale, è un attivo
centro di produzione e di commercio e il suo governo è funzionale alle esigenze
che ne derivano ed alle quali sono subordinate quelle della campagna.
La ripresa economica riporta la città al centro dell’iniziativa
politica.
La società urbana - La rivoluzione economica, conseguente ad una più
consistente produzione di beni e ad un commercio sempre più esteso ed
articolato, mette in crisi l’ordinamento sociale preesistente, lo sconvolge,
per dar luogo ad una nuova composizione sociale.
La società cittadina è molto più articolata di quella
feudale:
· i nobili,
riuniti in consorterie;
· il popolo
grasso, al di sotto dei nobili, raccolti attorno al vescovo come suo
consiglio, costituiva la ricca borghesia, organizzato in arti maggiori che ben
presto, sommergendo la vecchia classe feudale, prese nelle sue mani il governo
della città per realizzare una politica espansionistica che garantisca la
sicurezza delle vie commerciali. I nobili e il popolo grasso sono designati,
nel loro insieme, come i magnati;
· il popolo
minuto degli artigiani e dei
bottegai, riunito nelle arti minori che raramente partecipa alla vita politica
della città;
· i nullatenenti,
i salariati che restano sempre esclusi da ogni attività politica.
Una nuova istituzione politica: il Comune - I cittadini, divenuti più numerosi, più ricchi, più
istruiti, non accettano più di essere soggetti al vescovo-conte o al feudatario
nel cui territorio la città sorge: vogliono prendere il governo nelle loro
mani.
Per difendere gli interessi comuni contro le pretese del
vescovo o del feudatario, si riuniscono in una società giurata, il Comune.
I modi in cui nasce e si sviluppa questa istituzione
politica, questa nuova forma di governo repubblicano della città, sono quanto
mai vari.
In generale, però, il Comune nasce quale organizzazione
privata, quale società giurata, ad opera di nobili minori – i valvassori – che
si raccolgono attorno al vescovo-conte, dapprima per coadiuvarlo e
successivamente per sostituirlo nel governo della città. È un’associazione che
si propone la difesa degli interessi comuni contro le pretese del signore
feudale, ricorrendo, se necessario, anche alle armi.
Più tardi entrarono a far parte della società anche i
borghesi, a cominciare dai più influenti – commercianti, mercanti, banchieri,
notai, medici e speziali, ecc. – e l’istituzione si ampliò a poco a poco,
assumendosi la responsabilità degli interessi di tutta la città, in nome anche
di coloro che, di fatto, non partecipavano al governo.
Come uno Stato, il comune si arroga ed esercita i diritti
sovrani:
· fare guerra e pace;
· battere moneta;
· amministrare la giustizia;
· arruolare uomini;
· riscuotere imposte.
Sono diritti che spettavano all’Imperatore che però è
troppo lontano e troppo debole per impedirne l’usurpazione.
Le istituzioni comunali si presentarono dapprima nelle città marinare, dove la vita economica
rifiorì prima che altrove: Venezia, Genova, Pisa, Amalfi; poi, dalla prima
metà del secolo XI, nelle città della Lombardia, del Veneto e della Toscana.
In Italia il Comune restò sempre un’istituzione propria
del settentrione e del centro. Nel Meridione, tranne rare eccezioni, la forza
del feudalesimo normanno prima e angioino poi non le lasciò spazio per
svilupparsi.
a) Le
Corporazioni medioevali –
Col nome di Arti si indicarono nel Medioevo le Corporazioni
[[2]]
degli artigiani, dei mercanti e in genere di lavoratori raggruppati per
categorie.
Sorte attorno alla metà del XII secolo all’interno dei
Comuni, le Corporazioni, sono associazioni che riuniscono le varie categorie di
artigiani o di borghesi in un solo corpo, dapprima come espressione economica e
giuridica di coloro che esercitano le arti e i mestieri, successivamente come
strumento politico per esprimere e tutelare i loro interessi nel governo della
città. I cittadini, infatti, partecipano alla vita del Comune e alla sua
direzione politica non individualmente, ma tramite l’arte di cui sono membri.
Le Arti si davano costituzioni o statuti[3] che regolano:
· l’esercizio di un’arte o mestiere
· la produzione dei beni, i prezzi, le ore di lavoro, i
salari, la qualità dei prodotti,
· l’ascesa, all’interno della stessa arte, dai livelli
più bassi (apprendista, garzone) al più elevato (maestro),
· le norme sulle caratteristiche del prodotto e ne
fissano il prezzo.
Esse hanno propri magistrati, che facevano da arbitri
nelle controversie fra i soci e talvolta rappresentano l’Arte nel governo cittadino.
Quasi sempre le norme delle costituzioni hanno finalità
di difesa degli interessi di tutta la Corporazione costituiti a danno di quelli
emergenti, e mirano ad ostacolare la concorrenza, creando situazioni di monopolio [[4]].
Chiunque voglia esercitare un mestiere deve registrarsi
alla relativa Corporazione, prima come apprendista per imparare il mestiere;
poi come socio del padrone dell’azienda; e infine come maestro, ovvero padrone
di un’azienda sua personale.
Solitamente le arti si distinguono in
· arti
maggiori che raccolgono la
cosiddetta borghesia grassa: industriali, ricchi mercanti, banchieri, giudici,
notai, medici;
· arti
minori costituite da semplici
artigiani.
In alcune città le arti maggiori hanno presto parte e
privilegi nel governo del Comune, ma in seguito acquistano influenza anche le
arti minori, che in alcuni casi, come a Milano alla fine del secolo XII e a
Firenze negli ultimi decenni del XIII, rimuovono dal potere le arti maggiori.
Le corporazioni medioevali non sono un fenomeno
esclusivamente italiano: esse, infatti, si trovano, con nomi diversi (ad
esempio gilde, anse) in tutti i Paesi europei
che hanno raggiunto un alto sviluppo economico.
b) Le magistrature comunali - Il Comune dà luogo ad una sua
struttura politica che, pur diversificandosi nei particolari da città a città,
può essere così schematizzata:
· il potere
esecutivo è nelle mani dei consoli – che variano di numero a seconda
della città – cui compete il fare pace o guerra e lo stipulare alleanze e
trattati;
· il potere
legislativo tocca ai consigli, costituiti dai
cittadini più autorevoli, e, di solito sono due, il consiglio maggiore o generale per gli affari generali e il consiglio minore o di credenza per gli affari riservati;
· il parlamento
o arengo, l’assemblea generale di
tutti i cittadini, ha il compito di eleggere i magistrati, tra cui i consoli e
i consiglieri, e di ratificare le decisioni dei consoli.
Questa struttura originaria si evolve nel senso di
ridurre l’importanza dell’assemblea dei cittadini che finisce con lo sparire,
lasciando le sue competenze al consiglio maggiore, e di aumentare il numero dei
consigli e, in ogni consiglio, dei consiglieri.
La vita dei Comuni è travagliata da perenni lotte interne
tra nobili, popolo grasso e popolo minuto, e anche da lotte tra le famiglie più
potenti strette in consorterie tra loro nemiche che si appoggiano all’una
o all’altra classe. Per mettere fine a queste lotte, ai consoli si sostituisce
un podestà, un cittadino
chiamato da altra città perché sia al di sopra delle fazioni. Più tardi gli si
affianca un capitano del
popolo, col compito di tener testa ai nobili e di tutelare gli interessi
dei popolani, o, per essere più precisi, delle arti maggiori che ne riuniscono
la parte più ricca, il popolo grasso.
In alcuni casi, come a Firenze, esautorati tanto il podestà che il capitano del popolo, il governo
è assunto direttamente dalle arti attraverso un collegio di rappresentanti
delle organizzazioni artigiane, i priori
delle arti.
La risposta dell’Occidente all’Islam: le Crociate - Lo sviluppo economico ed in particolare commerciale
delle città e, con esso, lo sviluppo delle nuove istituzioni comunali, sono
favoriti da un’importante impresa che segna anche un’estrema occasione per il
mondo feudale cavalleresco di conquistare gloria, ricchezza e potere: le
Crociate.
Esse sono una tra le più vistose manifestazioni della
ripresa del mondo cristiano, che è stato asserragliato in ristretto territorio
dall’avanzata araba e che ora, dopo averla bloccata – in Oriente a
Costantinopoli nel 718 ed in Francia a Poitiers nel 732 – passava al
contrattacco contro l’Islam, rappresentato dai Turchi sostituitisi agli Arabi;
e, nel contempo, favorirono esse stesse questa ripresa, dando incremento ai
commerci.
Ne traggono
profitto, in particolare, le città marinare italiane: Venezia, Genova, e, sia
pure in misura minore, Amalfi, nel frattempo inglobata nel Regno normanno e
Pisa. Quando, infatti, i crociati vittoriosi dei Turchi costituiscono in Terra
Santa degli stati feudali, le città marinare hanno l’opportunità di stabilirvi
eccellenti basi commerciali.
Tutto ciò non
deve far dimenticare che le Crociate sono anche l’espressione di un vivo
sentimento religioso che fanatizza intere folle, spingendole ad affrontare
fatiche immani e rischi. Col procedere del tempo la componente religiosa va
scemando e prevalgono gli interessi commerciali e politici.
La più
importante delle Crociate è indubbiamente la prima (1096-1099). Essa è bandita
da Papa Urbano II per liberare il Santo Sepolcro, l’accesso al quale è divenuto
difficile per i pellegrini a causa dell’intolleranza dei Turchi che, nel 1076,
si sono sostituiti agli Arabi in Gerusalemme. Alla Crociata partecipano, sotto
la guida di Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, alcuni grandi
feudatari ed uno stuolo di feudatari minori. Sconfitti i Turchi in un seguito
di battaglie in Asia Minore, i crociati, nel 1099, liberano Gerusalemme, e
fondano nei territori conquistati una serie di stati feudali. La ripresa dei
Turchi, che riescono a strappare progressivamente i territori conquistati dai
Cristiani, giungendo a rioccupare Gerusalemme nel 1187, dà luogo alle
successive Crociate.
Le crociate fallirono il loro
scopo originario, la liberazione
dei Luoghi Santi dai musulmani. Restano tuttavia un fenomeno
storico della massima rilevanza non solo religiosa, ma politica, economico-sociale,
culturale.
Politicamente, impegnarono i
musulmani contenendone e ritardandone l’avanzata in Europa, e ciò permise lo
sviluppo degli Stati centro-occidentali. L’Impero bizantino, a sua volta, pur
avendo ostacolato, e non senza ragioni, le crociate, grazie ad esse poté
sopravvivere più a lungo, in quanto i Turchi erano il nemico comune suo e dei
crociati.
Dal punto di vista sociale, le
crociate offrirono infinite occasioni di affermazione ad una feudalità,
specialmente minore, che in Occidente tendeva a esaurirsi in una vita angusta e
rissosa, senza prospettive di migliori posizioni materiali e spirituali: la
cavalleria trovò in Oriente il suo più severo e valido banco di prova. La
borghesia, infine, e con essa i ceti più modesti, vide aprirsi dalle armi dei
crociati gli orizzonti di un’attività commerciale e di un arricchimento senza
precedenti, che costituirono le basi della sua potenza politica. La borghesia
delle Repubbliche marinare italiane fu tra tutte la maggior beneficiaria delle
crociate: Pisani, Genovesi, Veneziani si assicurarono basi commerciali,
privilegi, monopoli e quartieri, logge e fondachi in tutto l’Oriente sempre
meno controllato da Bisanzio; fieramente rivali tra loro, si divisero in certo
modo le rispettive zone d’influenza, ma non esitarono mai a violarle, in vista
del predominio assoluto.
Ai rapporti militari e
commerciali si accompagnavano naturalmente i rapporti culturali in senso lato:
con le merci (soprattutto merci pregiate: spezie, seterie, metalli preziosi,
gemme) passarono dall’Oriente bizantino e musulmano all’Occidente anche codici
di classici greci e testi arabi, sia originali, sia derivati da antichi testi
greci che in Europa erano sconosciuti o erano andati perduti.
Anche nel campo religioso, gli
incontri tra fedi diverse contribuirono a un’apertura più larga e predisposero
alla reciproca comprensione e alla tolleranza. E pure rilevanti furono l’allargamento
delle conoscenze geografiche e l’ambizione di accrescerle, con nuove e
imprevedibili esperienze. Per questi motivi fondamentali, e per molti altri
ancora, le crociate, al di là delle intenzioni dei loro protagonisti, furono
portatrici di stimoli fecondi allo sviluppo della civiltà europea nel suo
complesso e costituiscono quindi una componente essenziale della sua storia.
I Normanni nel
Mezzogiorno – L’unificazione
del Meridione, che è politicamente diviso tra Bizantini – Calabria, Basilicata
e Puglia – Longobardi – ducato di Benevento, poi frazionato nei due principati
di Benevento e Salerno e nella contea di Capua – ed Arabi – Sicilia occupata
dall’827 al 902, e stanziamenti temporanei in Puglia –, è opera dei Normanni,
che, chiamati come truppe mercenarie nelle contese fra i vari stati, nel giro
di cento anni (1030-1130), dopo essersi costituito un proprio feudo, riescono
ad unificare l’Italia meridionale e la Sicilia, prima in due regni distinti, e
infine, con Ruggero II, in un unico regno detto Regno di Sicilia nel 1130.
Nel 1030 il capo normanno Rainolfo Drengot ottenne dal duca di Napoli, per il
quale aveva combattuto, la signoria di Aversa, cui si aggiunse quella di Gaeta.
Roberto il
Guiscardo, della famiglia degli
Hauteville (Altavilla), dopo un periodo di lotta con il Papato, culminato nella
vittoria di Civitate nel 1056, ne divenne il principale alleato, sostenendolo
militarmente nella lotta per le investiture contro l’Impero. Roberto il
Guiscardo conquistò Puglia, Calabria e Campania, mentre il fratello Ruggero, al
termine di una guerra durata dal 1061 al 1091, tolse la Sicilia agli emirati
arabi di Palermo. Fallì invece il suo tentativo di espansione verso l’Impero
bizantino poiché, sbarcato a Corfù e a Durazzo, fu costretto a tornare in
Italia per domare una rivolta scoppiata in Puglia e per salvare il papa
Gregorio VII da Enrico IV nel 1084.
Nel 1130, ad opera di Ruggero II (1095-1154), nipote
del Guiscardo, fu costituito il Regno di Sicilia, che riuniva tutto il
Mezzogiorno nelle mani dei Normanni.
Ruggero II emanò una legislazione valida per tutto il
territorio, rispettando però anche le norme locali. Il Regno fu diviso in
diverse circoscrizioni (giustizierati), ognuna retta da due funzionari (un
giustiziere e un camerario) di nomina regia. I maggiori dignitari del Regno,
con funzioni di giurisdizione, si riunirono attorno al re nella Magna Curia, primo nucleo
di un’amministrazione centrale.
Alla morte del re Guglielmo II nel 1189, alla
dinastia normanna subentrò quella sveva, quando l’Imperatore Enrico VI, figlio
di Federico Barbarossa e padre di Federico II, sposò l’erede dei Normanni,
Costanza d’Altavilla (1146-1198).
I Comuni e l’Impero degli
Staufen [[5]] – Il risveglio delle
città ed il costituirsi dei liberi Comuni è stato favorito dalla debolezza dell’Impero
di nazionalità germanica dopo la morte di Ottone III nel 1002 ed è stato
rafforzato dalla crisi in cui precipitò la Germania che, fu lacerata da un’aspra
contesa fra due opposte fazioni a sostegno di due casate rivali.
Si chiamavano
Ghibellini i fautori della Casa di Svevia, essi si proclamavano difensori dell’onore
dell’Impero perché affermavano la superiorità dell’imperatore sul Papa,
sostenuta dal Privilegium Othonis. Si
chiamavano Guelfi i sostenitori della Casa di Baviera, fautori
della libertà della Chiesa romana, e quindi favorevoli al Concordato di Worms.
a) Federico Barbarossa - Quando, nel 1152,
è eletto re di Germania Federico I della casa di Svevia, detto il Barbarossa,
il suo programma di restaurazione dell’autorità imperiale trova un ostacolo
proprio nei Comuni italiani, gelosi delle autonomie conquistate.
Ristabilita la pace
in Germania, Federico decide di ripristinare l’autorità imperiale in Italia, infatti,
le difficoltà dell’Impero avevano consentito ai comuni italiani di sottrarsi,
di fatto, al controllo politico dell’Imperatore.
Nel 1154 scese in Italia per
farsi incoronare imperatore e convocò la Dieta
di Roncaglia per condannare la rivendicazione di sovranità dei comuni. È
naturale che i Comuni trovino appoggio nel Papato, che vede nell’Impero l’antagonista
di cui deve contenere la potenza per mantenere la propria supremazia. Nel 1158 Federico
scende una seconda volta e distrugge Crema e Milano che si erano ribellate. Con
la distruzione di Milano, dopo un duro assedio nel 1162, i Comuni lombardi si
coalizzano a Pontida nel 1167 nella Lega
Lombarda, insieme di 36 città che nella battaglia di Legnano del 1176 sconfiggono il Barbarossa. Con la pace di Costanza nel 1183 tra l’Imperatore
da una parte ed il Papa ed i Comuni della lega lombarda dall’altra, sono i
momenti cruciali di questa vicenda: i Comuni videro riconosciuta la loro
sovranità.
b) Federico II – La lotta tra Papato e Comuni da una parte, ed Impero
dall’altra, si ripresenta con Federico II, nipote del Barbarossa. È l’ultimo
tentativo di restaurazione imperiale: i Comuni, costituitisi in una nuova
Lega lombarda, sono dapprima battuti nel 1237 a Cortenuova, poi
sconfissero a loro volta le truppe imperiali a Parma nel 1248 e
a Fossalta nel 1249, dove è catturato lo stesso figlio di
Federico, Enzo.
L’imperatore non rinunciò a
preparare la propria rivincita, ma morì improvvisamente proprio mentre stava
riunendo un grande esercito in Puglia nel 1250.
c) Guelfi
e ghibellini – Alle
lotte tra i Comuni e l’Impero si intrecciano, a creare uno stato quasi
permanente di guerra, le lotte per assicurarsi le vie di traffico e il
monopolio dei mercati. A queste lotte esterne si accompagnarono, a rendere più
inquieta e turbolenta la vita cittadina, le contese interne tra opposte
fazioni, rappresentanti di interessi diversi: nobili e cives (= mercanti, borghesi), magnati e arti
minori, ceti privilegiati e popolani esclusi dal governo.
La lotta tra
Papato e Impero fornisce alle parti avverse la possibilità di scegliersi un
alleato tra i due grandi contendenti per prevalere sugli avversari. Questo è l’effettivo
significato della contrapposizione tra guelfi (sostenitori del Papa) e ghibellini
(sostenitori dell’Impero) che caratterizza le lotte del XIII e XIV secolo.
La scomparsa di
Federico II non riportò la pace, in quanto la lunga lotta tra impero e Comuni
aveva esasperato i contrasti tra le città e tra le opposte fazioni
dei guelfi e dei ghibellini, che continuarono a combattersi,
cercando l’appoggio ora del papato, ora dell’impero.
d) La crisi dell’Impero – I
tempi sono cambiati: quando, 60 anni dopo la morte di Federico II, Dante
auspica la restaurazione dell’Impero ad opera di Enrico VII, «il grande
Arrigo», esso in realtà è finito per sempre: l’unità politica europea su cui si
fondava la pretesa di universalità dell’Impero cede il posto ad una pluralità
di forti Stati nazionali, che vanno costituendosi sotto la guida di monarchie
assolute come Francia, Spagna e Inghilterra.
Il fallimento dell’impresa di
Enrico VII, sceso in Italia nel 1308 per porre pace e restaurarvi l’autorità
imperiale e la sua morte nel 1313, sono l’espressione concreta del definitivo
declino di questa istituzione medioevale, che tuttavia durerà, almeno
formalmente, fino al 1806.
La teocrazia
di Innocenzo III – Nella lotta con l’Impero, il Papato ha rafforzato la sua
posizione politica: lo Stato della Chiesa, che ha avuto le sue modeste origini
dalla donazione di Liutprando, è
divenuto un vasto territorio che tagliava a metà la penisola, estendendosi dall’Adriatico
al Tirreno.
a) Innocenzo III – Con l’ascesa al soglio
papale di Innocenzo III (1160-1216) riafferma il
potere papale, affermandosi come teorico della teocrazia pontificia, in linea
con le idee di Gregorio VII che voleva il
papato al di sopra di qualsiasi autorità politica esistente. Promosse la IV Crociata nel 1202, stimolò la cristianizzazione
nei Paesi baltici, favorì la riscossa degli Stati cristiani della Spagna.
Condusse una politica di arbitrato della Chiesa in
Francia con Filippo II Augusto, in Spagna, Portogallo, Polonia,
Ungheria, Bulgaria, Svezia e Danimarca. In Germania riconobbe imperatore Ottone di Brunswick, ma
in seguito lo scomunicò, dichiarandolo deposto dalla sua carica ed eleggendo al
suo posto il pupillo Federico, figlio del defunto imperatore Enrico VI. Scomunicò
anche Giovanni Senza Terra, re
d’Inghilterra, alleato di Ottone, ma in seguito lo investì del trono inglese
come di un feudo papale.
In campo religioso iniziò la riforma della Curia
romana, curò la formazione dei vescovi e ne rafforzò l’autorità, promosse la
riforma dei monasteri, favorì il sorgere di nuovi ordini dediti alla cura dei
poveri e dei malati e seguì con favorevole interesse il sorgere dell’ordine
domenicano e dell’ordine francescano, promulgò una vasta e importante
legislazione canonica. Fu anche autore dell’importante trattatello mistico De contemptu mundi,
dello scritto De sacro altaris mysterio e di numerosi Sermones.
b) Le nuove eresie medievali – Al
rafforzamento politico del Papato si accompagna un’azione decisa contro le
eresie che possono minare l’unità del mondo cattolico. Innocenzo III si mostra inflessibile verso i movimenti ereticali, lottò
in Francia contro i valdesi, i catari, gli albigesi (1208) contro i quali bandì una crudele
crociata.
Gli Albigesi, diffusi in Provenza, che sono oggetto di
una vera e propria Crociata che porta, fra il 1209 ed il 1229, distruzione e
morte in quel fiorente paese. Lo stesso Innocenzo III si avvale, per combattere
gli eretici, dell’Inquisizione, un tribunale ecclesiastico che, per la
crudeltà dei mezzi adottati, è rimasto tristemente famoso.
Nel 1215 convocò a Roma il IV Concilio Lateranense
(XII Ecumenico), che condannò il catarismo e precisò la dottrina dei
sacramenti.
c) I nuovi ordini religiosi – Con altri
mezzi, più consoni allo spirito religioso, cercano di reagire alle eresie e
contribuiscono al rafforzamento della fede i fondatori di due ordini religiosi, San Francesco d’Assisi (1182-1226) e San Domenico di Guzmàn in Spagna (1170-1222), che, con la
predicazione e l’esempio di una vita cristiana improntata all’amore per il
prossimo, cercano di fronteggiare la violenza che insanguinava le città,
travagliate da continue guerre e da lotte intestine.
d) I domenicani
– L’ordine di frati predicatori (Ordo Praedicatorum)
fu fondato da San Domenico nel 1206. I domenicani si posero fin
dall’inizio come compiti principali quelli della predicazione e dello studio;
la loro attività culturale e d’insegnamento è stata ed è accuratamente
organizzata e di notevole livello. Approvato da papa Onorio III nel 1216, l’ordine prese forma
definita in due Capitoli Generali (supremo organo legislativo dell’ordine)
tenutisi a Bologna nel 1220 e 1221; rapidamente le comunità domenicane si
moltiplicarono in tutta Europa, estendendosi presto anche all’Asia. Durante il
Medioevo l’ordine, organizzatosi presso la maggioranza delle università, fornì molti fra i maggiori
pensatori europei; l’adattamento delle dottrine di Aristotele alla
filosofia cristiana fu compito svolto in misura notevole dai domenicani, e
particolarmente da Sant’Alberto Magno e San Tommaso d’Aquino.
Il papato affidò ai domenicani compiti di grande rilievo, come la predicazione
delle Crociate, la riscossione dei tributi, il compimento di
missioni diplomatiche; generalmente erano membri dell’ordine a formare i
tribunali della Inquisizione.
e) I francescani
– Ordine religioso mendicante (Ordo fratrum minorum,
abbreviazione O.F.M.), fu fondato nel 1209 da Francesco d’Assisi che
dettò per esso una breve regola, approvata verbalmente nel 1210 da papa Innocenzo III e ufficialmente da Onorio III nel 1223. A questo primo ordine si affiancarono
contemporaneamente il secondo ordine femminile delle clarisse e il terzo ordine dei laici, o terziari francescani. Il fondamento ideale dell’ordine
era costituito dalla vocazione a una vita di povertà evangelica e di
predicazione, secondo il modello di Gesù e degli apostoli: non solo ogni
singolo membro dell’Ordine dei Frati Minori Francescani doveva essere povero,
ma, a differenza dei più antichi ordini monastici, l’ordine stesso nel suo
complesso doveva rinunciare a ogni possesso. Una stabile organizzazione venne
elaborata secondo un rigido schema gerarchico: un generale (minister generalis, eletto ogni 12 anni) alla guida
dell’ordine; alle sue dipendenze i provinciali (ministri provinciales,
sovrintendenti alle province) e sotto di questi i custodi (sovrintendenti alle
custodie, in cui si ripartirono le province) e i guardiani (superiori dei
conventi). Resa stabile da una tale saldezza organizzativa, la diffusione dei
francescani fu molto rapida in ogni parte d’Europa: nel 1217 già erano presenti
in Francia e dal 1221 in Germania, mentre, con l’avvento dell’età moderna,
presero parte in misura assai rilevante alle missioni cattoliche. Tipico della
diffusione dell’Ordine dei Frati Minori Francescani fu, a differenza dei
precedenti ordini monastici, l’insediamento prevalentemente urbano. Altro
fenomeno importante fu la presenza francescana nel mondo della cultura
medievale, in specie nelle maggiori università europee, come quelle di Parigi e
di Oxford: tra il sec. XIII ed il XIV si svilupparono scuole teologiche
francescane cui spetta un posto di grandissimo rilievo nella storia della
filosofia scolastica, e che ebbero quali esponenti del proprio pensiero
filosofi come, Bonaventura di Bagnoregio, Ruggero Bacone, Giovanni Duns Scoto, Guglielmo di Occam.
Il declino
del Papato - Dopo la morte di
Federico II nel 1250, il Papa, favorendo il fratello del re di Francia, Carlo d’Angiò,
nella conquista del regno di Sicilia nel 1266, regno che comprendeva anche l’Italia
meridionale, sventa il rinnovarsi del pericolo che ha rappresentato per lo
Stato pontificio l’unione della corona imperiale e di quella di Sicilia nella
persona di Federico II.
Nonostante
questo successo politico, anche il Papato, come già l’Impero, vede declinare la
supremazia che sembrava aver conseguito ai tempi di Gregorio VII (1073-1085) ed
Innocenzo III (1198-1216). Inutilmente Bonifacio VIII Caetani (1294-1303)
riafferma la supremazia del pontefice nella Bolla Unam Sanctam.
La stessa
ragione che ha portato al declino dell’Impero segna quello del Papato: il
costituirsi di nuove forze politiche, le monarchie nazionali, alle quali le due
istituzioni che hanno dominato la scena nel Medioevo non sono più in grado di
tener testa.
a) Bonifacio
VIII – Bonifacio VIII fu un intransigente sostenitore del primato
spirituale e temporale dei papi alle soglie di un periodo che avrebbe segnato
al contrario la decadenza della Chiesa medievale. Alle aspirazioni di
rinnovamento religioso delle correnti escatologico-spiritualistiche oppose
dapprima una politica di repressione e quindi di integrazione. In Italia sostenne
la propria supremazia con diverse intromissioni nei conflitti che agitavano
Stati e città della penisola, interventi destinati comunque al fallimento o ad
effimeri successi.
Lo scacco della politica di Bonifacio VIII apparve
evidente e definitivo sulla scena internazionale, in particolare nella lotta
che lo oppose a Filippo IV di Francia: al divieto di tassare gli
ecclesiastici imposto dal papa, Filippo rispose con un rifiuto e, al rinnovato
appello del papa all’obbedienza, il re francese oppose la deliberazione degli Stati Generali per la prima volta riuniti nel 1302
che negarono la supremazia pontificia sulla monarchia. La bolla Unam sanctam del
1302 di Bonifacio VIII, dove è tra l’altro affermata la necessità della
soggezione al papa per l’ottenimento della salvezza, fu l’ultimo, vano
tentativo di ristabilire l’assoluta supremazia temporale del papato: nel 1303 Guglielmo di Nogaret,
inviato di Filippo, arrestò di Bonifacio VIII ad Anagni e, per quanto una
sollevazione popolare ottenesse l’immediata liberazione del papa, che un mese
dopo moriva, questo episodio segnò l’effettiva sconfitta delle pretese di
Bonifacio VIII e, con esse, dell’ideologia teocratica medievale
ormai superata dall’affermarsi della nuova realtà degli Stati nazionali.
b) La Cattività avignonese – La
subordinazione del pontefice al re di Francia e il trasporto della sede pontificia da Roma ad Avignone con Clemente V de Got nel 1305, per
sottrarla ai disordini che travagliavano la città, sono l’espressione più
vistosa di questo declino.
La Cattività avignonese dura fino al 1377. I sette
papi di questo lasso di tempo furono tutti francesi. Nel 1367, Urbano V riportò
la sede papale a Roma, ma solo per un breve lasso di tempo. Tre anni dopo si
era di nuovo ad Avignone. Fu eletto Gregorio XI. Gregorio fu l’ultimo papa
francese e avignonese: con lui il 17 gennaio del 1377 la sede papale tornò
stabilmente a Roma.
c) Il Grande
scisma d’occidente – Alla morte di Gregorio, ebbe luogo il Grande scisma d’occidente:
mentre in Francia il papa era Clemente VII, a Roma c’era Urbano VI. Nei
successivi concili, il problema non fu risolto; e anzi, dopo quello del 1409 di
Pisa, i papi diventarono addirittura tre. Solo al termine del concilio di Costanza
(1414-1418) in cui furono ritenuti non validi i tre papi esistenti, e durante
il quale sarà eletto Martino V nel 1417 si avrà un papa solo per tutta la
cristianità, e non più due o tre.
Il
Mezzogiorno angioino – L’instaurarsi
della dinastia angioina nel Sud segna sulla distanza il declino del Mezzogiorno,
che, sotto gli Arabi, i Normanni e gli Svevi, ha conosciuto momenti di grande
floridezza e splendore.
Palermo, che
Federico II ha scelto come sede della sua corte, è, come già sotto la
dominazione araba, una delle città più ricche e colte d’Europa.
Nel 1250 muore
Federico II lasciando erede dell’impero, del Regno di Sicilia e di Gerusalemme
il figlio Corrado IV; vicario in Sicilia e in Italia il figlio naturale
Manfredi. Essendo Corrado IV impegnato in Germania nel tentativo di farsi
riconoscere imperatore, Manfredi amministrò l’Italia in modo autonomo ed alla
morte di Corrado IV nel 1254 e alla notizia falsa, della morte dell’erede al
trono Corradino, si fece proclamare re di Sicilia nel 1258).
Il 26 febbraio
1266 Manfredi fu sconfitto a Benevento da Carlo d’Angiò che, s’impadronì di
tutto il Mezzogiorno e vi insediò feudatari francesi. Incoronato re di Napoli
Carlo d’Angiò spostò la capitale da Palermo a Napoli la vecchia capitale
sarebbe stata per lui troppo decentrata.
Carlo d’Angiò sempre assillato dal bisogno di danaro fu
costretto ad imporre imposte e balzelli. Essendo esenti dalle nuove imposte
nobili, provenzali ed ecclesiastici, il peso di questo regime fiscale finiva
col cadere quasi completamente sulle spalle del ceto medio e del popolo
generando malcontento e causando tumulti come la rivolta dei Vespri
siciliani del 1282 e la
guerra ventennale che ne segue, la Sicilia passa alla casa d’Aragona, restando
l’Italia meridionale agli Angioini con la pace
di Caltabellotta del 1302.
A Carlo I
successe Carlo II, e a questi il figlio Roberto che fu chiamato “il più saggio
tra i cristiani” e il “pacificatore d’Italia”. Roberto, capo del partito guelfo
ebbe interessi nel campo letterario ed artistico che lo spinsero a contornarsi
delle migliori menti del suo tempo ed a chiamare a Napoli gli artisti più
quotati, i letterati e gli scienziati più famosi per lo Studio Generale.
L’egemonia in Italia della casa d’Angiò
guidò anche la politica del re Roberto d’Angiò (1309-1343) che si presentò come
il sostenitore delle forze nazionali contro le interferenze tedesche, come il
pacificatore della penisola, ottenendo il consenso di artisti, poeti e
studiosi. La corte di Napoli divenne sotto di lui, uomo sensibile e colto, un
fiorente centro di attività intellettuale. Vi si formò un’importante scuola
giuridica, vi operarono pittori come Giotto e Simone Martini, vi soggiornarono
poeti e scrittori come Petrarca e Boccaccio.
Questa fastosa apparenza tuttavia
celava una grave crisi interna. Il potere della corona era limitato dalle
tendenze anarchiche dei baroni, tendenze che Roberto d’Angiò si sforzò di
contrastare concedendo altre terre, detratte dal patrimonio demaniale, e altri
privilegi, con il risultato di diminuire le entrate e le prerogative della
monarchia.
D’altronde questa non aveva la
possibilità di appoggiarsi sul ceto borghese, debole economicamente e compresso
nei privilegi della nobiltà e del clero. Nel regno di Napoli avveniva allora un
processo inverso a quello che era in atto negli stati europei: la corona
anziché combattere la nobiltà con l’aiuto della borghesia aveva scelto la via
del compromesso; in questo modo fra il XIV secolo e la fine del XV secolo la
feudalità ben lungi dall’essere un’articolazione periferica del potere statale,
come era al Nord, era una classe potente e ricca, che deteneva nelle proprie
mani la vita economica di paesi e villaggi.
Un altro motivo di crisi del
Regno era rappresentato dalla massiccia presenza nella sua vita economica di
forestieri, in particolare Fiorentini e Catalani, che si accaparrarono ogni
tipo di posti e di favori, facendo spesso prevalere interessi estranei a quelli
locali.
Una rigida struttura feudale,
importata dalla Francia invece di creare condizioni adatte all’affermarsi di
attività mercantili e finanziarie e dello svilupparsi della borghesia, andava
soffocando e spegnendo quei centri e quelle correnti di attività commerciale e
marinara che dal tempo delle repubbliche marinare, fino in pratica all’insediamento
degli Angioini avevano assicurato al Mezzogiorno della penisola una notevole
prosperità economica. Questo processo di diffusione del feudalesimo sotto il
dominio angioino avveniva proprio nel periodo in cui le città dell’Italia
centrale e settentrionale erano le protagoniste del grande sviluppo commerciale
e finanziario realizzato dall’Europa centro-occidentale. Si creava così una
situazione di arretratezza della parte meridionale della penisola italiana
rispetto a quella centrale e settentrionale, una frattura fra questa e quella,
nello sviluppo economico e politico che si sarebbe sempre più definita ed
aggravata nei secoli successivi.
La crisi del Regno di Napoli si
manifestò pienamente alla morte di Roberto d’Angiò cui successe la nipote
Giovanna. Fu sotto il regno di Giovanna I (1343-1382) che lo stato napoletano
apparve in piena disgregazione in balìa di forze e sovrani stranieri, lacerato
dai contrasti e dall’anarchismo della feudalità. Per lunghi anni arse un’aspra
guerra tra Angioini e Durazzeschi. Nella guerra entrò a far parte ad un certo
momento Alfonso V d’Aragona, re di Aragona, Sardegna e Sicilia.
Le Signorie – Nella seconda metà del XIII secolo quasi ovunque gli
ordinamenti comunali si trasformarono in signorie, cioè l’effettivo esercizio
del potere passò nelle mani di un solo individuo (il dominus o signore)
che inizialmente fu il rappresentante delle forze borghesi che si erano
affermate vittoriosamente. Il passaggio al regime signorile si attuò
diversamente nelle varie realtà cittadine italiane ed in alcune non rappresentò
che un episodio saltuario.
Le Signorie fecero la loro
comparsa dapprima nell’Italia settentrionale, e precisamente nel Veneto e
nella Lombardia, dove più precoce e ricca era stata la fioritura dei Comuni.
a) Il sorgere delle Signorie –
Le lotte intestine tra fazioni opposte (nobili-popolani;
guelfi-ghibellini), che dilaniavano quasi ininterrottamente le città, portarono
alla morte delle istituzioni comunali e della libertà.
Il desiderio di ordine e di pace
favorisce l’ascesa di uno dei nobili appartenenti alle famiglie con maggior
seguito, al quale si affidò il governo, la Signoria, della città, dapprima per
un tempo determinato (di solito per un anno, a volte anche per cinque), poi a
vita.
Si sostituiva
così, ad una repubblica corporativa, una dittatura personale, anche se in più
casi continuavano a sopravvivere formalmente intatte le magistrature comunali,
che il signore affidava ai suoi fedeli, ed il cui compito si riduceva alla
ratifica dì quanto egli ha già deciso.
b) La
Signoria e lo Stato moderno – La Signoria, se può essere
considerata un’involuzione perché segna la scomparsa della partecipazione dei
cittadini al governo, rappresentò senz’altro un progresso per più versi. La
concentrazione dei poteri in mano di un solo pose fine alle lotte intestine con
vantaggio della prosperità economica. È favorita, per la stessa ragione, la
capacità espansionistica degli stati cittadini più forti, che riescono così a
costituire degli stati regionali in grado di fronteggiare, almeno inizialmente,
le monarchie nazionali che si vanno formando fuori d’Italia. Infine, mentre nel
Comune i cittadini godevano di una diversa capacità politica secondo la classe
o la corporazione di appartenenza, di fronte al signore essi sono tutti eguali,
benché tutti sudditi sprovvisti di potere politico. Il signore è, in ultima
analisi, un sovrano assoluto che assomma nelle sue mani tutto il potere e la
cui volontà è la fonte di tutte le leggi.
In questo senso
esso è la prima apparizione in Europa dello stato moderno, cioè dello stato
che non riconosce al di sopra di sé nessun’altra volontà o condizionamento, a
differenza dello stato feudale in cui il sovrano è limitato dal potere
superiore della Chiesa e dalle immunità dei feudatari.
c) Milano
– Dopo la battaglia di Cortenuova a Milano si affermò Pagano della Torre, feudatario
appartenente a una famiglia da tempo residente nella città. L’arcivescovo Ottone Visconti, che guidava l’opposizione
nobiliare ghibellina, sconfisse i Della Torre in battaglia nel 1277 e si fece
proclamare signore. Il nipote Matteo (1250-1322) estese i domini milanesi al
Monferrato aprendo nuove possibilità ai mercanti e agli artigiani e
trasformando Milano in una grande città manifatturiera e commerciale.
Il potere fu
ripreso dai Della Torre nel 1302 e i Visconti lo riconquistarono stabilmente
nel 1329 e primeggiarono nelle figure dell’arcivescovo Giovanni (1290-1354)
e di Gian Galeazzo (1347-1402). Nella prima metà del
XIV secolo cominciò l’espansionismo della Signoria viscontea. Dopo la lotta
contro Mastino della Scala, i Visconti ottennero Brescia che si aggiunse ai
domini su Como, Vercelli, Pavia, Lodi, Piacenza, Cremona, Crema e
Bergamo. Giovanni Visconti (1349-1354) si impadronì di Parma,
Alessandria, Tortona, Bologna e Genova. I suoi nipoti Galeazzo, Bernabò e
Matteo persero Genova e Bologna.
d) Firenze – Nel XIII sec. Firenze era uno dei
maggiori centri economici italiani ed europei i cui mercanti esercitavano
soprattutto il commercio della lana ma erano spesso impegnati anche in attività
bancarie (nel 1252 fu coniato il fiorino d’oro, che si affermò come moneta per
i mercati internazionali). In campo amministrativo assunse importanza sempre
maggiore la borghesia delle arti (vi erano 7 arti maggiori, 5 medie e 9
minori). Nel 1282 si costituì il governo dei Priori
delle arti, formato da sei priori che affiancarono e poi
sostituirono i magistrati precedenti. Nel 1292 gli Ordinamenti di giustizia,
voluti da Giano della Bella,
esclusero i magnati dal governo riservando le magistrature e i consigli solo
agli appartenenti alle arti minori o mediane. In seguito fu concesso ai magnati
di partecipare all’amministrazione cittadina purché si iscrivessero a un’arte
(fu il caso di Dante Alighieri che si iscrisse all’arte dei medici e speziali).
Tra il XIII e il
XIV sec. i regimi signorili furono soltanto transitori.
Firenze fu percorsa da lotte intestine tra famiglie
rivali, ordinate negli schieramenti guelfo e ghibellino. Dopo transitori
periodi di regime signorile Firenze entrò in conflitto con lo Stato Pontificio
per non aver aderito alla Lega antiviscontea, conflitto che ebbe ripercussione
sulla vita civile, portando al cosiddetto tumulto
dei ciompi (dal nome
dei cardatori di lana detti ciompi) nel 1378. I ciompi (scardassatori e lavoratori
dell’industria laniera) si sollevarono contro la borghesia e nominarono un loro
gonfaloniere, Michele di Lando. La classe
dirigente dovette costituire nuove arti (tintori, farsettai, ciompi) ed
ammettere al governo i loro rappresentanti. Indeboliti internamente dalla
defezione dei tintori e dei farsettai e abbandonati da Michele di Lando, i
ciompi furono estromessi dal potere che passò nelle mani di poche famiglie di
grandi commercianti e banchieri, come gli Albizzi e gli Strozzi, per passare
nella seconda metà del XV sec. in quelle della famiglia de’ Medici.
e) Venezia – Diversamente che a Firenze, a
Venezia le arti non ebbero mai funzione politica; inoltre non era mai esistita
nemmeno una nobiltà feudale che potesse contrastare i mercanti. Il problema dei
mercanti veneziani fu quello di limitare i poteri del doge, il magistrato di origine
bizantina, e nello stesso tempo di impedire l’ascesa di nuove classi. Dopo aver
creato organi che limitavano il potere del doge ed eliminato l’assemblea
popolare, nel 1297 (la cosiddetta “serrata
del Maggior Consiglio”) fu stabilito che potessero fare parte del Maggior
Consiglio (l’organo che dal 1172 eleggeva il doge e aveva funzioni legislative)
solo coloro che vi avevano fatto parte negli ultimi 4 anni o appartenessero a
famiglie i cui membri ne avessero fatto parte (l’aggregazione di nuove famiglie
fu permessa secondo rigide norme di procedura). Due tentativi di instaurare la
Signoria furono facilmente stroncati e si istituì il “Consiglio dei Dieci”, col compito di prevenire ogni attentato all’oligarchia.
f) Altre
Signorie – Nelle
altre città italiane alcune Signorie si formarono su base podestarile, altre
come vicariato imperiale, altre ancora per dedizione a un signore forestiero.
Le principali sorsero a Verona (Della Scala), a Padova (da Carrara), a Ferrara
(d’Este), a Mantova (Gonzaga), a Treviso (da Camino), a Ravenna (da Polenta), a
Urbino (da Montefeltro).
g) Le
compagnie di ventura –
L’ascesa del signore, che di norma si appoggiava alle forze popolari per contrastare
e spazzare l’opposizione dei nobili suoi avversari, gelosi delle proprie
prerogative, è favorita dall’uso invalso di ricorrere a soldati mercenari, le
cosiddette compagnie di ventura, per combattere le continue guerre, alle quali
i cittadini cercavano di sottrarsi. Per svolgere indisturbati le proprie
attività produttive, per non correre i rischi del combattimento e per sottrarsi
alle fatiche e ai disagi della vita militare, essi preferivano pagare un
tributo, con il quale il Comune prima e il signore poi assoldavano milizie
mercenarie.
Queste, in mano
al signore, costituiscono un potente strumento per realizzare una politica
indipendente dal consenso dei cittadini e, per fronteggiare la loro eventuale
opposizione e tenere a freno i malcontenti.
Nei confronti delle compagnie di ventura, considerata
una delle piaghe del tempo, si levarono voci di politici e anche di poeti,
come Petrarca.
h) La
polverizzazione politica della penisola – In Piemonte non
sorsero Signorie di rilievo: è il campo di espansione dei Visconti, mentre si
protraevano forme feudali di governo grazie alla potenza dei Savoia che
hanno incominciato ad estendere i loro domini in Italia, e dei marchesi
di Saluzzo e del Monferrato.
Nelle città
marinare le forme di governo comunale si mantennero più a lungo.
Nell’Italia
centrale, mentre Firenze si manteneva a Comune sino a quando, nel 1434, Cosimo
de’ Medici ne divenne di fatto il signore, pur senza modificare l’ordinamento
preesistente, si costituiscono numerose piccole Signorie, quando la lontananza
del pontefice, rifugiatosi ad Avignone, favorisce il disgregarsi dello Stato
pontificio.
È una situazione
di vera e propria polverizzazione politica cui si sottraeva
soltanto il Meridione che manteneva ancora una certa unità, anche dopo il distacco
della Sicilia dal regno di Napoli.
Tale condizione
di frazionamento è aggravata dal fatto che anche le Signorie o le Repubbliche
maggiori, come Milano e Firenze, non presentavano un’unità territoriale, e
spesso le città soggette passavano da un signore all’altro nella ricerca di una
migliore difesa dei loro interessi o in connessione con il prevalere di una
fazione politica al loro interno. Ne conseguiva uno stato permanente di guerra,
in cui i fronti e le alleanze mutavano continuamente.
Le monarchie
nazionali - Mentre in Italia si sviluppavano gli Stati
cittadini comunali che, evolvendosi in principati, davano luogo
a Stati regionali con la conseguente divisione politica della
penisola, in Francia, Spagna ed Inghilterra si
costruivano forti monarchie che crearono Stati nazionali unitari [6].
Ciò costituì un elemento di forza che consentì loro dì assumere quella
posizione di preminenza politica sino ad allora tenuta dagli Stati italiani.
In Francia l’unificazione
nazionale è opera della monarchia capetingia [[7]],
iniziata nel 987, ed è il risultato di un lungo processo di smantellamento
della grande feudalità francese. La lotta tra monarchia e feudatari è resa più
difficile dal fatto che il maggiore dei grandi feudatari è lo stesso re d’Inghilterra,
vassallo del re di Francia in quanto duca di Normandia. I sovrani che
maggiormente portarono avanti il processo di unificazione sono Filippo
II, che a Bouvines [[8]] nel 1214 sconfisse il re
d’Inghilterra Giovanni Senza Terra, e Luigi IX il Santo. La Francia
corse il pericolo maggiore quando, all’estinzione del ramo primogenito dei Capetingi [[9]] nel 1328, il re d’Inghilterra
Edoardo VIII vantò diritti sul trono francese. Ne segue la guerra dei Cento anni [[10]]
(1337-1453) che, dopo alterne vicende, in cui la monarchia francese si vede
sull’orlo della sconfitta nella battaglia di Azincourt, del 1415,
si concluse con l’integrale riscatto del territorio nazionale, ad eccezione di
Calais rimasta in mano agli Inglesi. Nel momento più grave della lotta è
risolutivo a risollevare gli animi dei francesi e le sorti della nazione l’intervento
di Giovanna d’Arco, una pastorella che, cinte le armi e dicendosi
chiamata da Dio, riuscì a battere gli Inglesi. Fatta da loro prigioniera, è
condannata e arsa come eretica.
Il processo di
unificazione è portato avanti poi da Luigi XI [[11]] (1461-1483)
e da Carlo VIII [[12]] (1470-1498). Sotto quest’ultimo
re, la Francia è lo Stato più forte dell’Europa del tempo.
Lo Stato
unitario spagnolo è il risultato della lotta dei regni cristiani di
Spagna contro i Mori, la cosiddetta Reconquista [[13]].
L’atto finale dell’unificazione è il matrimonio di Isabella, regina
di Castiglia, con Ferdinando II il Cattolico, re d’Aragona, che, uniti,
hanno ragione dell’ultima resistenza musulmana a Granada nel 1492.
Dall’unificazione
della penisola iberica restava escluso il regno del Portogallo.
Lo Stato
unitario inglese ha le sue origini nella conquista dell’Inghilterra ad
opera di Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia nel 1066. Si
è già detto delle lotte dei re d’Inghilterra contro i re di Francia di cui sono
vassalli. La sconfitta subita da Giovanni Senza Terra a Bouvines dà
forza alla nobiltà feudale inglese che riuscì a strappare al re un insieme di
limitazioni del potere regio fissate nel documento noto come Magna
charta libertatum del 1215. Questa concessione sarà il punto di
partenza per la conquista di quelle libertà che portarono successivamente alla
costituzione di un Parlamento diviso in Camera dei Lord, i
rappresentanti della nobiltà feudale, e Camera dei Comuni, i
rappresentanti delle città.
È la prima
apparizione, sia pure in forme limitate, di una monarchia
costituzionale, cioè dì una monarchia in cui il potere del sovrano è
condizionato da quello dei rappresentanti dei sudditi.
La guerra
delle Due Rose che contrappose per ragioni di successione la casa
di York alla casa dei Lancaster con i rispettivi
sostenitori, dissanguò la nobiltà feudale e rese possibile una svolta
assolutistica con la dinastia dei Tudor. Il processo di liberalizzazione
riprenderà soltanto nel secolo XVII.
L’Austria,
sorta sulle rovine del Sacro Romano Impero di nazionalità germanica cui
si è cercato di porre fine con la riforma dell’Impero [14],
è un altro Stato che, alla fine del Medioevo, acquistò un ruolo di primaria
importanza a fianco di Francia, Spagna ed Inghilterra. La sua comparsa nel
numero delle grandi potenze si ha con Massimiliano d’Asburgo [[15]], arciduca d’Austria e Imperatore
del Sacro Romano Impero (1493-1519).
L’invenzione della polvere da
sparo e della stampa – La vivacità della vita intellettuale e l’ampliarsi
degli orizzonti dell’uomo europeo in questo periodo sono testimoniati anche da
alcune invenzioni destinate ad avere una straordinaria importanza nel futuro: l’invenzione
della polvere da sparo e quella della stampa.
L’invenzione
della polvere da sparo è dovuta a un monaco tedesco, Bertoldo
Schwartz, e risale ai primi anni del XIV secolo. In realtà la polvere, una
miscela detonante di zolfo, carbone e salnitro, è già nota ai Cinesi e agli
Arabi, che l’usavano, i primi per i fuochi d’artificio, i secondi per spaccare
le rocce. L’invenzione consistette nella costruzione di armi appositamente
progettate per lanciare, grazie alla forza dirompente di tale miscela, dei
grossi proiettili a grande distanza. L’efficacia di queste armi tardò a farsi
sentire; ma quando, nel secolo XVI, esse divennero più precise e sicure,
portarono alla scomparsa della cavalleria feudale pesantemente armata per
lasciare posto a fanterie armate d’archibugio e alla cavalleria leggera. Le
innovazioni introdotte dalle armi da fuoco favorirono le monarchie assolute
nelle loro lotte contro la nobiltà feudale, perché possono disporre dei
maggiori mezzi finanziari richiesti dalla costruzione delle artiglierie e dal
mantenimento dei reparti che dovevano usarle. Pertanto la scoperta delle armi
da fuoco contribuì, alla lunga, ad accelerare la decadenza politica del mondo
feudale.
L’invenzione
della stampa risale al tedesco Giovanni Gutenberg che,
verso il 1454, pubblicò a Magonza dei volumi stampati per la prima volta
con caratteri mobili. Questo procedimento facilitava e rendeva più
economica la stampa e permetteva di sfruttare meglio, per la riproduzione in
molteplici esemplari, la carta che già dal secolo XII ha cominciato a
fabbricarsi anche in Europa, portatavi dagli Arabi che ne hanno appresa la
tecnica dai Cinesi. La combinazione di queste due invenzioni, la carta e la
stampa a caratteri mobili, facilitò la diffusione della cultura: i libri non
sono più il privilegio dei conventi, degli ecclesiastici e dei principi, ma
poterono essere acquistati anche dalla borghesia, rafforzando il processo già
in atto della laicizzazione della cultura e contribuendo alla circolazione
delle idee.
Le scoperte
geografiche - In questo periodo la conoscenza che l’uomo europeo ha
della Terra si amplia con eccezionale rapidità. Fino alla fine del secolo XIII
si può dire che per l’uomo europeo la terra abitata andava dal lontano,
nebuloso e quasi mitico Catai, la Cina, o dal Cipango,
il Giappone, di cui ha avuto notizia da alcuni missionari o mercanti (Giovanni
dal Pian del Carpine tra i primi, Marco Polo tra i secondi), allo stretto di
Gibilterra.
La stessa
Africa, al di là delle coste settentrionali, è sconosciuta. La spinta ad
ampliare la conoscenza del mondo non venne, come si poteva pensare e come l’episodio
dell’Ulisse dantesco suggeriva, da un desiderio di pura conoscenza, ma dall’esigenza
dei mercanti europei di trovare una via per l’Oriente (indicato genericamente
col nome di Indie) che non soggiacesse al monopolio degli
Arabi, che controllavano le grandi strade carovaniere attraverso l’Asia Minore.
I primi progetti
in questo senso consistettero nella ricerca di una via che circumnavigasse l’Africa.
Su questa strada si sono messi i genovesi fratelli Vivaldi che
hanno oltrepassato lo stretto di Gibilterra nel 1291 ed altri navigatori
genovesi che, nel secolo successivo, sono giunti sino alle Canarie e alle
Azzorre. Però le iniziative più organiche sono opera di Portoghesi, sotto lo
stimolo del loro re Enrico il Navigatore (1426-1460). Sullo slancio
delle prime spedizioni in questa direzione, Bartolomeo Diaz doppiò
il Capo di Buona Speranza nel 1486, e Vasco de Gama arrivò
a Calcutta nel 1498.
Però quest’ultimo
successo parve allora sminuito dal fatto che sei anni prima (12 ottobre
1492) Cristoforo Colombo, al servizio dei re di Spagna, ritenne di
essere pervenuto alle Indie per una via totalmente diversa: la via d’Occidente.
Convinto della sfericità della Terra grazie agli studi di un geografo
italiano, Paolo Toscanelli, egli ha pensato che, veleggiando verso occidente
attraverso l’Atlantico, sarebbe giunto al Catai. E quando, dopo un
viaggio di circa dieci settimane arrivò all’isola di Guanahànì, nei
Caraibi, egli ritenne di essere giunto nell’arcipelago del Giappone; in realtà
ha scoperto un nuovo continente, come dimostrarono i viaggi successivi
di Giovanni Caboto, di Vasco Nunez de Balboa e
di Amerigo Vespucci dal quale il nuovo continente prese il
nome di America (terra Americi, come scrisse allora un cartografo
tedesco sul suo atlante).
Già con questi
ultimi viaggi, alla spinta originaria (ricerca della via per le Indie) ne è subentrata
un’altra: quella di esplorare le nuove terre e di fondarvi colonie, cioè scali
commerciali e punti di raccolta delle materie prime. Presto seguirà il disegno
di conquistare vasti territori per assoggettarli alla madrepatria europea:
nasceranno così i grandi imperi coloniali.
Il desiderio di
esplorazione guidò alcuni anni più tardi (1519-22) Ferdinando Magellano in
un viaggio di circumnavigazione del globo. In poco più di 120 anni l’uomo
europeo ha superato le vietate colonne d’Ercole, e acquisito la
conoscenza di quasi tutta la Terra.
La scoperta dei
nuovi continenti da parte delle potenze europee – dapprima Spagna e Portogallo,
poi Olanda, Inghilterra e Francia – deve avere conseguenze di eccezionale
portata nella storia successiva.
L’europeizzazione
del mondo, con la compressione o addirittura la scomparsa delle altre
civiltà, ne è una delle più vistose. Le ricchezze che le potenze europee
traggono dalle colonie consentirono loro di rafforzare il dominio sulle
popolazioni extraeuropee riducendole a quelle condizioni di sudditanza e di
subalternità che ancora ai nostri giorni non sono state del tutto rimosse. Il
processo di decolonizzazione è stato il primo momento di tale rimozione.
Per l’Italia la
scoperta di nuovi continenti segna la fine della posizione di centralità di cui
ha goduto fino ad allora.
La rottura
dell’unità del mondo cristiano: la Riforma - Frutto dello spirito
critico caratterizzante questo periodo è anche la Riforma protestante,
il vasto e profondo movimento religioso che staccò dalla Chiesa di Roma le
popolazioni germaniche e anglosassoni. Con ciò venne meno un altro dei
fondamentali caratteri del Medioevo: l’unità del mondo cristiano.
Il movimento di
ribellione partì da un monaco agostiniano tedesco, Martin Lutero (1483-1545),
il quale rivendicò al credente il diritto di interpretare le Sacre Scritture secondo
coscienza e non secondo i dettami della gerarchia ecclesiastica.
La predicazione
di Martin Lutero potè avere successo e portare al distacco di mezza Europa
dalla Chiesa di Roma perché ha l’appoggio dei principi tedeschi. Essi vi
trovarono l’occasione politica per contrapporsi all’Imperatore, nei cui
confronti volevano affermare la propria autonomia, e, nel contempo, un pretesto
per incamerare i grandi beni degli ordini religiosi che sono soppressi; e
infine un modo per interrompere il flusso di denaro che lasciava i loro Stati
diretto a Roma, sotto forma di decime e di acquisto di indulgenze.
Il popolo segue
i principi e i riformatori perché vede nella riforma l’affermazione della nazionalità
germanica contro quella latina, e perché sperava che il rinnovamento religioso
comportasse un rinnovamento sociale, con la costituzione di una società più
giusta.
È questa la base
della rivolta dei cavalieri (lo strato più basso della classe nobiliare) e di
quella dei contadini, rivolte che sono entrambe duramente represse dai
principi, con l’approvazione di Lutero.
Al distacco
della Germania da Roma per opera di Lutero seguirono il distacco della
Danimarca, quello della Svezia, della Norvegia e dei Paesi Bassi, e, ad opera
di Zwingli e di Calvino, di buona parte della
Svizzera, e infine dell’Inghilterra ad opera del suo re Enrico VIII.
La riforma
protestante riceve notevole impulso dal francese Giovanni Calvino (Noyon, Piccardia 1509 - Ginevra 1564), che con l'Istituzione della religione cristiana del
1536 pose la base dottrinale del calvinismo,
centrata sull'idea della sovranità assoluta di Dio, il quale concede la grazia
e la salvezza ai prescelti al di là dei loro meriti e secondo criteri
insondabili dall'uomo, la cosiddetta dottrina
della predestinazione; i prescelti si riconoscono per la fede assoluta e
fiduciosa in Dio e nella sua provvidenza e per la severa integrità di vita.
A Ginevra, dove
si trasferì, istituì una teocrazia per garantire una rigorosa coerenza tra i
principi religiosi e la condotta morale, la cui osservanza doveva essere
controllata da membri scelti dalla comunità tra i fedeli di onesta condotta. La
Chiesa è la comunità degli eletti, che riuniva i predestinati di Dio alla
salvezza e vi sono riconosciuti quattro ministeri (i pastori, i dottori, gli anziani e i diaconi), ai quali è affidato il governo della comunità ecclesiale
e civile.
È da rilevare
che si staccarono dal cattolicesimo proprio alcune nazioni, come l’Inghilterra
e i Paesi Bassi, che, per un concorrere di circostanze favorevoli, svolgeranno
un ruolo di primo piano nella storia moderna e in quella contemporanea, mentre
alcune tra le nazioni rimaste cattoliche, come ad esempio la Spagna e l’Italia,
sono destinate a conoscere nel futuro un periodo di declino.
Di particolare
importanza sarà il fatto che la colonizzazione inglese, che darà origine agli
Stati Uniti d’America, avverrà ad opera di riformati.
La fine della libertà italiana – Le Guerre d’Italia furono
una serie di otto conflitti, combattuti prevalentemente in Italia dal 1494 al 1559,
che avevano come obiettivo finale la supremazia in Europa. Furono
inizialmente avviate da alcuni sovrani francesi, calati in Italia,
per far valere i loro diritti ereditari sul Regno di Napoli e poi
sul Ducato di Milano. Da locali le guerre divennero in breve tempo di
scala europea, coinvolgendo oltre alla Francia, soprattutto
la Spagna e il Sacro Romano Impero. Al termine delle guerre la
Spagna si affermò come la principale potenza continentale, ponendo gran parte
della penisola italiana sotto la sua dominazione diretta (Regno di
Napoli, Ducato di Milano, Stato dei Presidii) o indiretta; gli unici
stati italiani che seppero mantenere una certa autonomia furono la Repubblica
di Venezia e il Ducato di Savoia (legato alla Francia), mentre
il Papato, pur autonomo, risultava perlopiù legato alla Spagna dalla
comune politica di far prevalere in Europa
la Controriforma cattolica.
a) La calata dei Francesi di
Carlo VIII – Nel 1492, con la morte di Lorenzo il Magnifico, venne
meno il delicato equilibrio politico che egli aveva saputo abilmente
conservare tra gli Stati italiani. Ludovico il Moro, resosi di fatto signore di
Milano, cercò fuori d’Italia un appoggio militare contro Ferrante d’Aragona, re
di Napoli, che minacciava di reintegrare con la forza nei suoi diritti Gian
Galeazzo, sposo di una sua nipote ed erede legittimo del ducato di Milano.
E precisamente a
Carlo VIII di Francia si rivolse Ludovico il Moro, poiché questo ambiziosissimo
sovrano, come erede degli Angiò, poteva vantare qualche pretesa sul regno di
Napoli.
Assicuratosi,
con ampie concessioni territoriali, la neutralità di Spagna, Inghilterra e dell’impero
germanico, nel 1494 Carlo VIII varcò le Alpi con un esercito forte di 30.000
uomini e attraversò, senza alcuna opposizione, tutta la penisola: a Firenze
addirittura Piero II Medici consegnò al re straniero le chiavi della città.
Giunto nell’Italia meridionale, Carlo non trovò neppure qui alcuna resistenza e
si impadronì del regno di Napoli, mentre il re Ferrante II fuggiva.
Solo a questo punto gli Stati italiani parvero
rendersi conto del pericolo: si formò una lega alla quale
aderirono lo stesso Ludovico il Moro, il papa, Venezia, l’imperatore e il re di Spagna. Il piano
era di sbarrare la via alle milizie francesi, impedendone il ritorno in patria:
l’esercito della lega affrontò i Francesi nel 1495, mentre stavano valicando l’Appennino,
a Fornovo, sul fiume
Taro. In questa sanguinosa battaglia, la prima in cui si impiegarono largamente le artiglierie, Carlo VIII subì gravi perdite,
ma riuscì ugualmente a fuggire e
a raggiungere, con gran parte del suo esercito, attraverso le Alpi, la Francia.
b) Francesi e
Spagnoli si contendono l’Italia – L’iniziativa
del sovrano francese era dunque fallita. Ma per l’assoluta mancanza di
un’organizzazione politica e statale unitaria del nostro paese, l’impresa di Carlo VIII era destinata a ripetersi.
Nel 1499, infatti, il suo successore sul trono di
Francia, Luigi XII (1498-1515), calò in Italia, questa volta
avanzando pretese sul ducato di Milano, dato che tra i suoi diretti antenati vi
era una principessa della casa dei Visconti.
Di fronte alle pretese di Luigi XII e al suo
esercito, Ludovico il Moro, abbandonato
da tutti gli altri Stati italiani preoccupati di non compromettersi con
un rivale tanto forte, fu costretto alla fuga.
Impadronitosi del ducato di Milano, Luigi XII si
accordò con il re di Spagna Ferdinando
il Cattolico per la conquista e
la spartizione dell’Italia meridionale; i due potenti eserciti stranieri
dilagarono nei territori del regno di Napoli,
che cadde interamente nelle loro mani. A vittoria ottenuta, si accese però
tra le due potenze, circa la divisione dei territori, un conflitto che
durò dal 1501 al 1503 e terminò con la
vittoria degli Spagnoli, che si assicurarono così il possesso di tutto il regno di Napoli.
Agli inizi del Cinquecento, due dei maggiori Stati
italiani, il ducato di Milano a nord e il regno di Napoli a sud della penisola,
cadevano dunque sotto la dominazione straniera.
c) Francesco I
- Quando Luigi XII morì, nel
1515, gli succedette sul trono di Francia il giovane Francesco I, il quale si mise subito
in luce per il suo coraggio e per le sue capacità militari.
Appena incoronato, egli scese in Italia,
dirigendosi rapidamente alla volta della Lombardia, dove gli Svizzeri, cacciato Luigi XII, erano rimasti a
difesa del ducato; a Marignano, in un’accanita
battaglia durata due giorni e due notti, gli Svizzeri furono sconfitti e
costretti a ritirarsi, ma sulla via
del ritorno si impadronirono di un lembo del ducato di Milano, e precisamente del territorio denominato Canton
Ticino, che da allora in poi fece
parte della Confederazione. Forte di questa vittoria, Francesco I strinse patti di pace con i suoi avversari: in
particolare, accogliendo una richiesta di papa Leone X dei Medici si
impegnò a non contrastare la signoria dei Medici che intanto era
stata restaurata a Firenze; con la Spagna, sua principale avversaria, Francesco I concluse nel 1516 il trattato
di Noyon, che confermava
il possesso della Lombardia ai Francesi e del regno di Napoli agli Spagnoli.
d) Carlo V – Per una felice combinazione di eredità, intanto,
si preparava un avvenimento che
avrebbe cambiato il volto dell’Europa e avrebbe infranto l’equilibrio che s’era
venuto a creare tra Francia e Spagna, confermato dal trattato di Noyon. Nel 1516 moriva Ferdinando il Cattolico, lasciando
la corona di Spagna, con gli
sterminati possedimenti americani ed i regni di Napoli, Sicilia e Sardegna, al
nipote Carlo d’Asburgo, che già aveva ricevuto dal padre
Filippo il Bello i Paesi Bassi, cioè il territorio attualmente diviso tra
Belgio, Olanda e Lussemburgo, e la
Franca Contea.
Tre anni dopo, nel 1519, per la morte dell’imperatore
Massimiliano, suo nonno paterno, Carlo ereditava anche le terre degli
Asburgo e i diritti alla corona imperiale, che cinse col nome di Carlo
V.
La concentrazione di domini così vasti nelle mani
di Carlo V sconvolse l’equilibrio
politico europeo e allarmò le altre potenze: più di tutte la Francia, che trovatasi
completamente circondata dai possedimenti dell’imperatore, sentì minacciata la
sua stessa sicurezza e indipendenza.
L’unica
possibilità che aveva la Francia di rompere l’accerchiamento era la guerra: essa si protrasse tra alterne vicende per
quasi quarant’anni e all’inizio fu
combattuta soprattutto in Italia.
e) La guerra fra
Francesco I e Carlo V – Le
ostilità furono aperte nel 1521 da Francesco I, ma Carlo V, respinti gli attacchi dell’avversario, riuscì ad impadronirsi
del ducato di Milano, il cui possesso
gli permetteva di unire la Germania alla Spagna attraverso il porto di
Genova. Accorso in Italia con il suo esercito, Francesco I fu sconfitto a Pavia nel 1525 e fatto prigioniero.
Tradotto in Spagna, fu liberato l’anno seguente solo dopo aver rinunciato a ogni pretesa sul ducato di Milano.
Ma appena tornato libero, il re francese rinnegò l’accordo.
Stretta un’alleanza, lega santa di Cognac, con il papa Clemente VII dei
Medici, con Venezia e
con i Medici, preoccupati di perdere la propria indipendenza di fronte al dilagare della potenza spagnola in Italia, Francesco
I tentò la rivincita; ma Carlo V
inviò in Italia un forte esercito, che, oltre a valorosissimi soldati spagnoli, comprendeva i lanzichenecchi,
mercenari tedeschi avidi di saccheggio. Sbaragliate, presso Mantova, le forze
della lega comandate da Giovanni dalle Bande Nere, nel 1527 l’esercito imperiale prese d’assalto Roma e la mise a sacco. Il pontefice si salvò rifugiandosi in
Castel Sant’Angelo e subito dopo si
ritirò dalla lotta, seguito in questo da tutti gli altri Stati italiani.
La guerra continuò ancora per altri due anni tra
Francesi ed imperiali fino a quando,
nel 1529, preoccupato per la situazione creatasi in Germania a causa della
Riforma di Lutero e per l’avanzata turca nei Balcani, l’imperatore decise di
accordarsi con Francesco I con la pace di
Cambrai.
Carlo V si
riconciliò poi anche con il Papa dal quale ottenne la promessa dell’incoronazione
imperiale; in cambio si impegnò a restaurare a Firenze la Signoria dei Medici abbattuta dal popolo nel 1527,
approfittando della situazione di debolezza in cui era venuta a trovarsi la
famiglia medicea, alla notizia del sacco di Roma.
Carlo V poteva
così scendere in Italia per raccogliere il
frutto delle sue vittorie e, dopo aver ricevuto l’atto di sottomissione di
tutti gli Stati italiani, si faceva incoronare imperatore a Bologna a febbraio
del 1530.
Di fatto la pace
di Cambrai fu solo una tregua di sei anni, dopo di che le ostilità tra Francia
e Spagna ricominciarono e si protrassero quasi ininterrottamente sino al 1544.
Dopo che Carlo V
ebbe domato l’Italia, la guerra tra Francia e Spagna si allargò. I conflitti di questo periodo
furono caratterizzati dal coinvolgimento di altre potenze che diedero loro una
portata europea. Francesco I,
re cristiano, riuscì ad
avere come alleati i Turchi – che con la
loro flotta infestavano il Mediterraneo,
spargendo il terrore tra gli abitanti delle coste spagnole e italiane – ed
i principi tedeschi della Lega di Smalcalda
– alleanza conclusa durante l’omonimo congresso tra sette principi e undici
città protestanti della Germania, sotto la guida di Giovanni di Sassonia e di Filippo d’Assia. L’alleanza
con i Turchi e quella con i principi tedeschi, luterani dimostrò come il
Medioevo, con la sua idea unitaria di cristianità, fosse definitivamente
tramontato.
Nel 1544, con
la pace di Crépy, si concluse questo periodo di lotte; tre anni
dopo Francesco I morì, dopo una vita
spesa nell’impegno di opporsi al dilagare
della potenza spagnola.
Gli succedette sul trono il figlio Enrico
II, ma siccome le
condizioni della Francia continuavano ad essere quelle di una potenza chiusa in
una morsa dai domini di Carlo V, Enrico II riprese la politica del padre, alleandosi, come già aveva fatto il padre, con
i Turchi e i principi protestanti
dell’impero. Anche questa volta le ostilità tra la Francia e Carlo V si
intrecciarono con la lotta dei principi tedeschi, ribellatisi all’imperatore
per difendere la loro libertà religiosa.
La guerra si trascinò ancora per alcuni anni senza che tuttavia una parte o l’altra
riuscisse a trionfare definitivamente.
Alla pace si
giunse per la decisione di Carlo V di accordarsi coi principi luterani,
concedendo loro ampie libertà religiose con la pace di Augusta del
1555 e di dividere, abdicando, i possessi degli Asburgo: al figlio Filippo II
andarono i domini di Spagna e i Paesi Bassi già degli Aragonesi; e al fratello
Ferdinando I il titolo imperiale e i possedimenti austriaci.
Nel 1556, logorato dalle malattie e affaticato
dalla continue guerre, Carlo V lasciava il trono e si ritirava a vivere in un
convento in Spagna, dove morì qualche
anno dopo. Crollava così da una
parte per la tenace opposizione della Francia, dall’altra per la ribellione dei
suoi stessi sudditi protestanti e per l’ascesa dell’impero ottomano, il sogno imperiale di Carlo V di unire
sotto il suo scettro tutto il continente
europeo.
Convinto che la causa prima di tante guerre era
stata l’immensità del suo dominio, Carlo
V, prima di ritirarsi, divise l’impero in due parti: lasciò i possedimenti
degli Asburgo e la corona imperiale al fratello Ferdinando; la corona di Spagna con i territori americani al
figlio Filippo II, al
quale andavano anche i Paesi Bassi e
i domini italiani.
Spezzato così l’accerchiamento
della Francia, si poté giungere alla definitiva pace di
Cateau-Cambrésis del 1559, che conferì all’Italia un assetto che durò
praticamente immutato per circa 150 anni.
La cultura e la letteratura medioevali
1. L’età della scolastica (1000-1200) – I fatti più importanti di questo periodo che abbraccia
due secoli, di cui uno è preparazione dell’altro, sono i seguenti:
·
La lotta delle
investiture, fra Chiesa e Impero, terminata nel 1122 col concordato di Worms;
·
Il sorgere e lo
svilupparsi dei Comuni (dalla seconda metà del secolo XI);
·
Le Crociate che
portano come conseguenza diretta nuovi rapporti fra l’Occidente e l’Oriente
anche nel campo della cultura;
·
La diffusione del
sistema feudale aveva fatto sorgere gradualmente nuovi bisogni culturali [[16]] in
ceti sociali, come i cavalieri e la piccola nobiltà, che si espandevano per il
frazionamento dei feudi maggiori;
·
Le Università o
Studi Generali [[17]] che
diventano, accanto ai conventi, depositarie della cultura e, particolarmente,
della cultura specializzata; laica, anche se non in opposizione, bensì sotto
gli auspici della Chiesa;
·
Le nuove correnti
filosofiche come la Scolastica [18], i contatti con la cultura araba e il
contrastato trionfo dell’aristotelismo.
Dominatore della cultura, sebbene l’elemento
laico si faccia più vivo e presente, è sempre il clero, quello soprattutto dei
conventi e delle scuole episcopali e monacali, dove il programma di studio si
va man mano allargando, né solo nella teologia o nelle arti del trivio, ma
anche in quelle del quadrivio, nella filosofia e nel rinato amore dei classici
antichi, di cui, particolarmente nel secolo XII, le copie si moltiplicano,
arricchite di glosse e di commenti talora d’importanza assai notevole.
Come centri di attività culturale, accanto
ai conventi famosi, sorgono le Università: in Italia la medicina si continua a
coltivare nel famosissimo centro di Salerno, già noto nel secolo IX che fu
certamente il primo a sorgere in Europa ed è in questo periodo illustrato da Costantino
Africano (m. 1087) maestro di grande fama e traduttore di molte opere mediche
dal greco e dall’arabo; a Bologna fioriscono gli studi giuridici fino dal
secolo XI, ed Irnerio (1100-1130) ne aumenterà la fama nel secolo seguente che
vede pure la protezione data allo Studio da Federico Barbarossa. E fiorenti
scuole di diritto civile sorgono altresì, prima della fine del secolo XII, a
Reggio Emilia, a Modena e a Ravenna.
Fuori d’Italia, a Parigi predomina lo studio
della logica e particolarmente della dialettica; a Montpellier nel secolo XII
quello della medicina e del diritto; ad Orléans si studiano gli auctores,
cioè i classici latini, il cui culto sempre più si diffonde, suscitando
innumerevoli imitatori; mentre in Inghilterra Oxford si modella su Parigi e può
contare alla fine del secolo XII ben tremila studenti.
Siamo quindi di fronte ad una grandiosa
esplosione culturale e letteraria che culmina nel secolo XII ed è più vasta e
più universale della stessa cosiddetta rinascenza carolingia. Veramente, com’è
stato detto, il XII secolo è stato una iuventus Mundi, o meglio
la giovinezza della civiltà umana dell’Europa occidentale. La produzione è
abbondantissima. Inutile ricordare che in questi secoli, specialmente nel
XII, la letteratura latina coesiste con le varie letterature nazionali,
soprattutto in Francia. Però per il momento è ancora la cultura latina quella
predominante.
La civiltà comunale all’origine del
risveglio culturale – La civiltà
comunale costituisce il momento più originale, ed uno tra i più vivi, di tutta
la nostra storia. È un periodo di grande slancio economico: l’aumento della
produzione artigianale, dei commerci e, con i commerci marinari, delle
costruzioni navali, determina un aumento di ricchezza dei ceti cittadini, ne
innalza il tenore di vita e favorisce il lusso. Effetto, e quasi simbolo, di
questo sviluppo nel campo economico, è la nascita di una nuova attività,
quella bancaria. A questo rigoglio economico si accompagna un’eccezionale
ripresa nel campo intellettuale.
È il momento in cui, tanto nell’architettura
che nella scultura e nella pittura, si assiste al nascere di forme originali,
libere dall’imitazione dell’arte bizantina. Sorgono nuove città, e le antiche
rinnovano completamente il loro volto, arricchendosi non solo di cattedrali ma
anche di edifici civili quali i palazzi comunali sedi dei consigli, dei consoli
e delle altre magistrature; di palazzi, residenze delle più potenti famiglie,
dominati da torri difensive, mentre nelle mura di cinta si aprono porte in pietra
decorate di sculture; si lastricano le strade; si costruiscono canali per
portare le acque nei fossati delle mura. Lo stile che caratterizza il periodo
più splendido dell’età comunale (XII – XIII secolo) è quello romanico, cui si
sostituirà quello gotico dalla seconda metà del secolo XIII.
In letteratura, a questo fermento di
creazione originale, corrisponde l’affermarsi del volgare, che ben presto si
esprime nelle più grandi figure della nostra cultura: San Francesco, Jacopone,
Cavalcanti, Dante, Petrarca, Boccaccio.
Sul piano intellettuale espressione delle
nuove strutture politiche e sociali sono le Università che liquidano il
prestigio delle scuole monastiche, rimaste isolate dalla nuova evoluzione
sociale e legate alle vecchie strutture feudali.
L’unità culturale nel Medio Evo - La cultura del Medioevo, almeno fin verso i secoli
X e XI, non aveva avuto carattere nazionale, ma si era manifestata unitaria in
tutti quei Paesi d’Europa che avevano fatto parte dell’Impero romano ed erano
stati segnati dalla sua civiltà; su di loro, successivamente, aveva esercitato
la sua influenza, orientandone gli interessi e gli ideali, l’altra grande
struttura universale: la Chiesa cattolica.
Espressione di tale unità culturale era la lingua in essi
usata, il latino, che, diffuso dai Romani conquistatori, aveva avuto ulteriore
incremento ed avallo dal fatto di essere stato assunto dalla Chiesa come lingua
ufficiale propria.
Certo, quello medioevale non era più il latino di
Cicerone o di Livio; era un latino che nella sintassi, nel lessico, si era
andato progressivamente allontanando dai modelli classici e che si era anche
adeguato all’esigenza di esprimere modi nuovi di pensare e di sentire, mantenendosi
in tal modo strumento di comunicazione attuale e vitale.
Ma anche quando le varie comunità etniche cominciarono a
definirsi ed a differenziarsi, oltre che politicamente, anche
linguisticamente, ed, accanto al persistente latino, andarono affermandosi in
ambito letterario le varie lingue romanze, nei paesi dell’ex impero romano non
venne tuttavia meno il senso dell’appartenenza a una cultura comune. Perciò
nelle università che erano venute sorgendo dal XII secolo nei vari Paesi d’Europa
affluivano maestri e discepoli a raggio europeo. L’università teologica di
Parigi, quella giuridica di Bologna, quella medica di Salerno, costituivano
veri e propri punti d’incontro culturali dell’Europa romanza.
Analogamente, in quegli importanti centri culturali che
furono i conventi, spesso forniti di ricchissime biblioteche, convenivano,
sotto la stessa «regola», monaci di differente origine etnica.
Quanto all’Italia e alla sua letteratura, è proprio in
conseguenza dell’unità culturale che lega fra loro i Paesi romanzi che, ad
esempio, le imprese di Carlo Magno celebrate in lingua d’oïl nelle Canzoni
del Ciclo carolingio (sec. XI) trovano ascolto da noi, e vengono
riprese in componimenti epici (i poemi franco-veneti) scritti in un
dialetto Veneto ricco di elementi francesi. Allo stesso modo i poemi d’amore e
d’armi del Ciclo bretone intorno alle gesta di re Artù, anch’essi
composti in lingua d’ oïl, vengono da noi tradotti e rielaborati, e
costituiscono la raffinata lettura delle nostre corti feudali. Così pure i
componimenti amorosi composti in lingua d’oc dai trovatori provenzali offrono
temi e tecniche alla prima poesia d’arte italiana, quella della «scuola
siciliana».
Il rapporto culturale unitario che lega l’Europa romanza
è così stretto che la barriera delle Alpi non sempre costituisce un confine
linguistico. Alcuni trovatori italiani poetano in lingua provenzale, che non
sentono per nulla come straniera. Ed il fiorentino Brunetto Latini «maestro – a
detta di un cronista contemporaneo, il Villani – in digrossare i fiorentini e
farli scorti in bene parlare», (che cioè sviluppò e affinò quella cultura
fiorentina di cui doveva alimentarsi il genio di Dante), compone in lingua d’
oïl il Trésor, enciclopedia del sapere del tempo. E Marco Polo
(1254-1324) detta in lingua d’oil il suo Milione.
La visione teocentrica del mondo – Non meno unificante della tradizione romana fu, come
si è accennato, l’influenza esercitata sui Paesi europei dalla Chiesa, che vi
diffuse una comune interpretazione cristiana del mondo e del destino umano.
Secondo la concezione di cui la Chiesa era portatrice, l’universo
è retto da Dio, che, immobile nella sua perfezione, governa provvidenzialmente
la realtà inanimata e animata (cose, animali, uomini), dotandola di una
tensione che l’attira a sé ed alla quale solo l’uomo può sottrarsi perché
dotato di ragione e di libero arbitrio; in tal caso dannandosi, giacché in Dio
sta l’unica salvezza.
Di conseguenza la vita terrena, i beni della terra,
perdono il valore assoluto che aveva loro attribuito la civiltà pagana; e l’esistenza
in questo mondo diventa un momento di passaggio, un banco di prova nel quale,
col suo agire, l’uomo conquista o perde la vita vera, cioè la vita eterna.
L’eroe di quest’epoca non è più, come già nel mondo
classico e più tardi in quello rinascimentale, colui che sa affermarsi nella
conquista del potere, della gloria, ecc., ma il santo, cioè l’uomo che, con
totale e coerente rinuncia, subordina la vita terrena a quella ultraterrena.
Certo, si tratta di posizioni teoriche che, come spesso
avviene, non hanno impedito che, nella vita concreta, si verificassero
atteggiamenti con esse discordanti o addirittura ad esse antitetici. E,
infatti, il Medioevo, se fu età di grandi ascetismi, fu anche età «di sangue e
di crucci», in cui si scatenarono violenti appetiti terreni e passioni feroci.
Ma gli uni e le altre furono giudicati, nella riflessione morale del tempo, e
anche nella comune opinione, come forme devianti dalla retta strada segnata all’uomo
da Dio.
Se teocentrica è la concezione del mondo, cristocentrica
è quella della storia. La storia vera, cioè, comincia con l’avvento del
Cristo; e le vicende che lo hanno preceduto sono state ad esso funzionali.
Così, per esempio, l’impero romano è stato voluto da Dio perché, unificando
territori e popoli, avrebbe spianato la via alla diffusione del Cristianesimo.
Su tali premesse poggia anche una diffusa concezione
teocratica della politica, secondo la quale il papa, perché esponente di Dio
sulla terra, è anche il legittimo detentore di ogni autorità, ivi compresa
quella politica, che può esercitare direttamente o delegandola all’autorità
politica vera e propria, cioè all’imperatore; che quindi rimane a lui
subordinato. Teoria questa che non fu però accettata da tutti pacificamente, e
a cui se ne contrappose una antitetica che subordinava il potere religioso a
quello politico, e un’altra (che sarà anche quella di Dante) che sosteneva la
reciproca autonomia dei due poteri.
Teocentrismo e cultura – La concezione teocentrica del mondo ebbe per tutto
il Medioevo coerenti applicazioni in campo culturale.
La teologia, la scienza delle cose divine che poggia
sulla «rivelazione» contenuta nei testi sacri e che alla luce di essi
interpreta la realtà, è considerata la scienza per eccellenza, la scienza
regina e ad essa sono subordinate le altre scienze quasi sue ancelle: ancillae
theologiae, come si diceva.
Di conseguenza la speculazione filosofica deve cedere il
passo alla teologia, là dove l’indagine razionale si scontra con le verità
rivelate che devono essere accettate per fede; le scienze naturali, anziché
indagare autonomamente i fenomeni del reale, partono dalle affermazioni
contenute nei Libri sacri come da premesse indiscutibili; funzione della
politica è di guidare gli uomini verso la giustizia terrena, che è premessa al
raggiungimento dell’eterna beatitudine; e già abbiamo visto come sia religioso
anche il metro di valutazione della storia.
La funzione pedagogica dell’arte – Quanto all’arte, essa si giustifica solo se
indirizzata alla glorificazione di Dio o all’educazione morale e religiosa
degli uomini.
Perciò le arti figurative si muoveranno per tutto il
Medioevo per gran parte nell’ambito del sacro: dal secolo XI fiorirà in Europa
la severa armonia delle cattedrali romaniche o la tensione verticale di quelle
gotiche; la pittura ritrarrà vicende e immagini religiose; la scultura ornerà
con figurazioni sacre le facciate, i portali, i capitelli, le nicchie delle
chiese.
Quanto alla letteratura e alla poesia, esse sono
considerate strumenti inutili, quando non fuorvianti e di perdizione, se non
guidino gli uomini verso il bene e la verità, cioè verso la verità religiosa di
cui abbiamo parlato. Nasce da questa esigenza pedagogica della letteratura l’uso
della allegoria, una specie di simbolico sovrasenso attribuito alle cose e
vicende concrete rappresentate, e che, proponendo nascosti significati
etico-religiosi, si sovrappone al significato letterale del testo e lo
trascende. Così ad esempio il viaggio nell’Oltremondo descritto da Dante
nella Divina Commedia rappresenta allegoricamente l’itinerario dell’anima
che, smarritasi nel peccato, cerca e raggiunge la salvezza in Dio (Paradiso) riflettendo
sulle conseguenze eterne (Inferno) e temporanee (Purgatorio)
del peccato stesso. Ma all’interno di questa fondamentale allegoria, nella Commedia
ne sono proposte molte altre particolari, su cui torneremo più avanti.
La persistenza nel Medioevo della tradizione classica – Se nel Medioevo la concezione cristiana della vita si
contrappone antiteticamente a quella pagana dell’età classica, tuttavia la
cultura classica non viene del tutto meno.
Respinta in un primo tempo dalla Chiesa che la
considerava fonte di errore, viene poi progressivamente dalla Chiesa stessa
cautamente recuperata, e assimilata almeno nella misura e nelle forme in cui
non contrasta e può conciliarsi con lo spirito del Cristianesimo. Così la
«retorica» medioevale, le norme cioè del bello scrivere, ricalca quella
classica; nelle scuole medioevali è mantenuto il corso di studi che era stato
in vigore nelle scuole ellenistico-romane, e che consisteva nelle discipline
del Trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del Quadrivio (aritmetica,
musica, geometria, astronomia); il diritto romano continua a far testo nelle
controversie private e pubbliche; San Tommaso si propone nelle sue opere di
integrare il pensiero del filosofo greco Aristotele con quello cristiano.
La filosofia – La dissoluzione dell’Impero romano aveva portato con
sé la crisi del sistema scolastico. Nell’Alto Medioevo, l’istruzione è legata
per lo più alle scuole cattedrali e alle scuole dei monasteri, dove il clero e
i monaci venivano educati alla lettura della Bibbia, dei testi liturgici e dei
Padri della Chiesa. Soltanto con Carlo Magno e Alcuino, e con la scuola
palatina da loro organizzata, lo stato riprende l’iniziativa formulando un progetto
educativo coerente: attraverso la formazione di maestri poi inviati nei vari
centri episcopali e monastici, la scrittura - da parte di Alcuino – di
veri e propri ‘manuali’ per
gli studenti dedicati all’ortografia, alla
grammatica, alla retorica, la
codificazione dell’esegesi biblica. È però soltanto a partire dalla fine
dell’XI secolo che iniziano a formarsi quelle scuole cittadine che prenderanno
il nome di Università. Si tratta di scuole specialistiche consacrate allo
studio e al perfezionamento di discipline come la giurisprudenza, la
medicina, la teologia.
E si tratta
di scuole in
cui, per la
prima volta, la componente laica è importante tanto quanto
quella ecclesiastica: per esempio, molti degli insegnanti di diritto bolognesi
sono laici che, costituitisi in libere associazioni, decidono la natura e il
calendario dei corsi. I nuovi modi di organizzazione e trasmissione del sapere
influenzano anche la tecnica della
ricerca scientifica. Nasce un nuovo metodo scolastico articolato in due fasi:
il maestro propone la quaestio, cioè un interrogativo che viene
esaminato in ogni suo aspetto attraverso l’analisi degli argomenti favorevoli o contrari ad una data
soluzione. E gli allievi si esercitano nelle disputationes, cercando di
affermare il proprio punto di vista nella discussione di un problema proposto
dal maestro.
b) La Scolastica – È all’interno di questo nuovo sistema
del sapere, le università, che vivono e operano i maggiori intellettuali del
periodo qui considerato: e il nome di scolastica deriva appunto
dallo stretto legame che unisce la produzione scientifica
del tempo alla scuola: se prima gli uomini
di pensiero, i maestri, scrivevano per esortare e
persuadere rivolgendosi ai confratelli, o al pubblico
incolto dei fedeli,
ora essi hanno
di fronte – proprio
come i docenti
odierni – degli allievi
che debbono essere istruiti.
Ne deriva una
forte sistematizzazione del
sapere: cioè la
scrittura di summae, commenti,
raccolte di sentenze
(celebri quelle di
Pietro Lombardo, una
sorta di
enciclopedia teologica) che forniscono allo studente
tutte le informazioni necessarie circa lo stato di
una determinata questione attinente la teologia, il
diritto, la medicina, la retorica e le altre discipline
professate all’università.
c) La traduzione e il commento delle opere di Aristotele
– Due sono i problemi cruciali per i filosofi medievali: quello
del rapporto col
pensiero pagano e quello
del rapporto tra ragione e fede. Quanto al
primo, nel corso
dell’XI e del XII secolo si avvia in Europa la traduzione delle opere di Aristotele in latino e il loro
commento da parte degli intellettuali cristiani: inizia così, con
quello che viene definito il philosophus per eccellenza, un
dialogo che influirà profondamente sia sul metodo sia sulla sostanza del
pensiero tardo-medievale. Tale dialogo venne ostacolato dal fatto
che Aristotele giunge all’Occidente non per via diretta
bensì filtrato dalle traduzioni e dall’esegesi dei filosofi arabi: Avicenna
(980-1037) e Averroè (1126-1198), i quali valorizzano la componente
razionalistica del sistema aristotelico, svalutando invece
quella meditazione sulla metafisica
e su
Dio che poteva accordarsi con le verità cristiane. Nella
sua interpretazione di Aristotele, Averroè nega l’immortalità dell’anima
individuale e afferma l’eternità del mondo, cioè esclude la creazione: due tesi
inaccettabili per un cristiano. La storia della ricezione di Aristotele nei
secoli XIII e XIV è perciò una storia molto accidentata, fatta di ammirazione e
devozione, e tentativi di inquadrare la sua
filosofia pagana nell’ambito
della fede, ma
anche di divieti
e censure: più
volte, l’autorità ecclesiastica proibì
lo studio di alcuni
o di tutti
gli scritti aristotelici nelle
università in quanto contrari alla dottrina cristiana.
d) La traduzione e il commento delle opere di Platone –
Più vicina alla metafisica cristiana è la dottrina delle idee di Platone, il
filosofo che con Aristotele ha più influito sullo svolgimento del pensiero occidentale. Di fatto, elementi
platonici sono ben presenti
nelle opere del maggiore
dei padri della Chiesa,
Agostino, nel cui
solco procederà tutta
la speculazione cristiana
fino alla Scolastica. Durante il
secolo XII, mentre cresce il numero delle traduzioni (particolare importanza
riveste il Timeo, il testo-chiave della metafisica platonica, che viene
accostato al libro biblico della Genesi), lo studio di Platone si
affianca a quello
di Aristotele. Particolarmente
vivace, in questo senso, è la
scuola di Chartres,
nella quale viene
elaborata, soprattutto da parte
di Guglielmo di Conches e Gilberto Porrettano, la nuova
metafisica platonico-cristiana.
e) Il problema del rapporto tra filosofia e fede: Anselmo
d’Aosta – Il secondo problema, quello dell’equilibrio tra ragione e fede, è
parte, naturalmente, di quello appena toccato: avvicinarsi ai filosofi classici
significa allontanarsi dalla fede, perché essi non conobbero il vero Dio;
tuttavia il cristiano non è
costretto al sacrificio dell’intelletto: ciò
che occorre è
invece definire i rispettivi domini e ruoli, e proprio in
quest’opera s’impegnano gli scolastici. La figura più importante del sec.
XI è
quella di Anselmo
d’Aosta, monaco benedettino
vissuto in Normandia
e in Inghilterra,
a Canterbury. In una lunga serie di opere, tra cui si ricordino almeno
il Monologion e il Proslogion, egli
si propone di
indagare razionalmente il
problema dell’esistenza di
Dio: fides quaerens intellectum (‘la
fede che cerca,
e sollecita, l’intelletto’) e credo
ut intelligam (‘credo al
fine di comprendere’) sono i due
motti che illustrano il programma anselmiano di spiegare per mezzo della ragione
ciò che il cristiano sa già per fede.
f) Pietro Abelardo – Nel secolo successivo, l’importanza
di Pietro Abelardo risiede, piuttosto che nell’originalità del pensiero,
nell’elaborazione di quello che modernamente si definisce ‘metodo scolastico’:
il Sic et non offre infatti al lettore gli strumenti per l’esegesi di qualsiasi
testo attraverso
l’uso accorto della filologia (comprensione letterale del
testo) e della logica (esame incrociato degli
argomenti favorevoli o contrari ad una determinata tesi: a
ciò fa riferimento il titolo del Sic et non:
dove si mettono a confronto le opinioni dei padri della
Chiesa su una serie di questioni teologiche
con ciò che dice la Bibbia). Oltre a un’imponente opera
teorica sui tre grandi domini in cui si divide
la filosofia medievale (la teologia, la logica e
l’etica), Abelardo ci ha lasciato anche una delle prime
autobiografie della tradizione occidentale, l’Historia
calamitatum (‘Storia delle mie disgrazie’). È un’autobiografia scritta per
dare conto di un
singolare e tragico
destino. Nato nel 1079
vicino a Nantes, in
Francia, Abelardo dimostrò sin
da giovanissimo un talento
e una cultura
eccezionali; prima insegnò all’Università di Parigi, poi come ‘libero
maestro’ in una scuola da lui stesso fondata. A
Parigi conobbe Eloisa,
figlia del canonico
Fulberto, se ne
innamorò ed ebbe
con lei una relazione: scoperto dal padre della ragazza,
fu evirato. La storia d’amore tra
Abelardo ed Eloisa, ricostruibile anche grazie ad un carteggio fra i due (anche
Eloisa era un’intellettuale, dotta di latino, in un’epoca in cui una simile
competenza, per una donna, era molto rara) divenne leggendaria.
g) Pietro Lombardo
– Emblematica di quest’epoca dedita ai
sistemi e all’organizzazione del sapere
è l’opera di
un contemporaneo di
Abelardo, Pietro Lombardo:
i suoi quattro
libri di Sentenze (1150-52)
ebbero uno straordinario successo durante il Medioevo, e furono ripetutamente
commentati perché mettevano a disposizione degli studiosi
tutte le nozioni necessarie relative alla dottrina cattolica.
Pietro non compone
un’opera originale ma allinea
in modo chiaro
e ordinato, come in un manuale,
le affermazioni (Sentenze,
appunto) della Bibbia
e dei padri
della Chiesa (Agostino su
tutti) in materia di fede: dal mistero della Trinità a quello dell’incarnazione, dal problema del peccato al significato dei
sacramenti, alla genealogia dei vizi e delle virtù.
h) La Scolastica nel Duecento: Alberto Magno – Il
Duecento è il secolo di maggiore splendore per la filosofia scolastica. Si
completa, in questo periodo, la traduzione delle opere aristoteliche, si
perfeziona il sistema universitario, la vita culturale si arricchisce grazie
all’apporto degli ordini mendicanti, che prestano
all’università i loro
migliori maestri: di fatto,
i più insigni filosofi del secolo sono domenicani e francescani.
Quasi tutti insegnano per un periodo della loro vita a Parigi, che rimane il
centro più importante per gli studi teologici. Il problema cui si accennava in
precedenza, quello dell’assorbimento di Aristotele nel pensiero cristiano, è
affrontato dal tedesco Alberto Magno (1193-1280). Egli
può distinguere rigidamente
la filosofia dalla
fede perché, seguendo la lezione
di sant’Agostino, ha prima distinto i domini dell’una e dell’altra
attribuendo
alla prima la ratio inferior e alla seconda la ratio
superior, cioè la parte superiore dell’anima che si
occupa dell’essenza delle cose e non dei semplici
fenomeni. Ma, quanto a questi, le speculazioni di Aristotele debbono essere
meditate anche dagli intellettuali cristiani, e il ruolo di Alberto Magno fu
proprio quello di ‘tradurre’, attraverso i suoi commenti
all’Etica, alla Fisica e alla Politica, il sistema filosofico e scientifico
aristotelico - la sua interpretazione del mondo terreno, della natura, non
dell’oltremondo - in un linguaggio che potesse essere accetto all’ortodossia
cattolica.
i) Tommaso d’Aquino – Ad ascoltare Alberto Magno a
Colonia c’era tra gli altri, negli anni 1248-1252, Tommaso d’Aquino (1221-74), certamente il maggiore filosofo del secolo e,
con Agostino, il più
importante di ogni
tempo per la
codificazione della dottrina
cristiana. Come Alberto,
anch’egli insegnò a Parigi e – secondo la consuetudine propria dei frati
mendicanti di non soggiornare mai a lungo in una stessa città – nelle
principali università europee: Colonia, Bologna,
Napoli. E come in Alberto, anche nella concezione di
Tommaso la fede non soppianta la filosofia bensì la completa, illuminando tutto
ciò che i filosofi pagani avevano dovuto ignorare. Da questa contaminazione
nasce la nuova ‘sistemazione’ della metafisica cristiana che Tommaso offre
nella Summa theologica, un’opera immensa nella quale, in forma di quaestiones,
vengono vagliati tutti i
problemi che possono sorgere nell’interpretazione della
dottrina cattolica. Nonostante la resistenza
da parte della Chiesa di Roma a recepire alcune delle
tesi tomiste – sentite come troppo vicine ad Aristotele e ai suoi seguaci
averroisti, molto attivi a Parigi alla metà del Duecento -, la Summa sarà,
nei tre secoli successivi, il punto
di riferimento fondamentale per
tutto il pensiero cristiano (una
corrente ‘neotomista’ si è potuta individuare anche
nell’ambito della filosofia novecentesca).
l) I francescani: Bonaventura – Se Alberto e Tommaso sono
i massimi filosofi domenicani del Duecento, Bonaventura da Bagnoregio fu il più insigne tra i
francescani, ed ebbe un ruolo di grande rilievo nella vita dell’Ordine: scrisse
quella che sarebbe diventata la biografia ufficiale di san
Francesco, fu generale dell’Ordine e ne redasse le
costituzioni; inoltre, nonostante gli impegni legati
all’insegnamento, svolse per tutta la vita una assidua
attività di predicatore, che fece di lui l’oratore
più apprezzato del suo tempo. Le sue due opere maggiori
sono l’una un commento alle Sentenze di
Pietro
Lombardo, in cui
difende l’interpretazione tradizionale
della dottrina cristiana
contro le concessioni ad Aristotele
che andavano facendo i maestri
domenicani; l’altra un
caposaldo della mistica
medievale: l’Itinerarium mentis in Deum (‘Itinerario della mente verso Dio’ -
1259), che illustra i sei gradi
dell’ascesa al divino attraverso l’amore di Dio e la preghiera e, insieme,
attraverso la rinuncia agli
strumenti della ragione:
una via che
lo allontana, per
esempio, dal rigoroso intellettualismo di Tommaso.
m) Il crepuscolo della Scolastica nel Trecento: Occam –
Dopo l’età dei grandi sistemi filosofici elaborati dagli scolastici, la
filosofia cristiana vive, nel corso del Trecento, una crisi profonda. Nelle
università si acuisce il conflitto tra la gerarchia
cattolica che sorveglia sull’ortodossia e il pensiero
dei maestri più
liberi e spregiudicati, che
hanno ormai assorbito
completamente la lezione
di Aristotele e degli
altri filosofi antichi. La vita
del maggiore pensatore del secolo,
il francescano inglese
Guglielmo da Occam,
è, sotto questo
profilo, emblematica. Perché,
colpevole di aver difeso tesi ritenute eretiche, venne scomunicato e
dovette rifugiarsi a Monaco e mettersi sotto la protezione
dell’imperatore Ludovico il Bavaro, cui
prestò la propria opera di polemista nella sua lotta antiecclesiastica e
antiteocratica. La filosofia di Occam porta alle estreme conseguenze, e con ciò
dissolve, il razionalismo che era stato caratteristico dei filosofi scolastici.
Ragione e fede – egli sostiene –
debbono essere distinte
perché le verità
di fede non
possono essere conquistate,
e tantomeno spiegate, per via razionale. Se ciò da un lato garantisce
alla teologia una sfera autonoma, fondata sulla Rivelazione e indipendente
dalle speculazioni dei filosofi antichi e moderni, dall’altro libera la ragione dai
vincoli della fede.
Di qui l’abbandono
dei concetti fondamentali
della metafisica e della logica tradizionali a vantaggio di un approccio
più empirico e – se non suonasse anacronistico
– ‘laico’ ai problemi
della conoscenza: l’interesse
per l’individuo e
non per gli universali, per il sapere sperimentale
piuttosto che per la speculazione astratta, per la fisica piuttosto che per la
metafisica. Questo nuovo orientamento logico-scientifico avrà grande influenza
nei secoli successivi: e mentre esso confina ai margini del discorso filosofico
le istanze ‘umanistiche’ legate alla metafisica e all’etica (ciò che provocherà
la protesta di un intellettuale come Petrarca contro i logici e gli scienziati
imperversanti nelle università), prelude a quel rigore e a quella concretezza
di metodo che saranno propri della scienza di Galileo.
Le arti
a) Le nuove
creazioni dell’architettura: la cattedrale e il palazzo pubblico – Nel
lungo arco di tempo compreso tra l’anno Mille e l’inizio dell’Umanesimo, alla
fine del XIV secolo, il paesaggio artistico
italiano muta in
maniera radicale. Lo
sviluppo delle città
porta infatti con
sé la realizzazione di
due nuove grandi strutture architettoniche, l’una religiosa, l’altra civile. Si tratta
della chiesa cattedrale, sede del vescovo, e del palazzo
in cui ha sede il governo cittadino. A questi
due generi di costruzioni, simbolo dell’unità e
dell’identità popolare, non lavora un solo architetto
ma un’ampia schiera di ingegneri, artigiani e operai; e
vi è coinvolta anzi l’intera città, e non per lo
spazio di pochi
anni, ma per generazioni:
sicché questi monumenti
non rispecchiano un
unico momento dell’arte, ma
documentano, nella loro composita fisionomia, l’evoluzione secolare delle
tecniche e degli stili.
La mappa dei più significativi edifici religiosi e laici
corrisponde in sostanza a quella delle città che tra l’XI e il XIV secolo
furono al centro della storia politica italiana: le più grandi, le più
importanti dal punto di vista strategico, le più vivaci nel commercio, dunque
quelle che avevano più
risorse da impiegare
nella realizzazione di
opere così dispendiose
– Milano (Sant’Ambrogio,
secc. IX-XII; il
celeberrimo Duomo, massimo
esempio italiano del
cosiddetto gotico internazionale, iniziato alla fine del Trecento);
Modena (la cattedrale, edificata all’inizio del sec. XII da Lanfranco); Venezia
(San Marco, iniziata nel 1063; il Palazzo Ducale, terminato nel 1400);
Firenze (il battistero
di San Giovanni,
sec. XI; San
Miniato al Monte,
secc. XI-XII; il Duomo;
il Palazzo della
Signoria, sec. XIV), e
poi Pisa, Siena,
e molti altri
comuni soprattutto centro-italiani.
b) Romanico e
gotico – Legate strettamente alla
cattedrale e al
palazzo pubblico – quindi raramente
autonome – sono le arti plastiche e visive: la scultura è per lo più
decorazione, nei portali
e nelle
facciate delle chiese,
o negli elementi
architettonici interni (pulpiti,
fonti battesimali); la pittura illustra o racconta, negli
affreschi a parete, soggetti sacri, a beneficio del pubblico dei fedeli.
Questa sinergia delle arti resta costante nei due periodi
nei quali si è soliti suddividere l’epoca qui
considerata: il romanico, in cui gli edifici sono
caratterizzati da forme semplici e compatte, povere
di decorazioni, che si svolgono in orizzontale piuttosto
che in verticale (secoli XI-XII); e il gotico, in cui
gli edifici, anche
grazie al perfezionamento delle
tecniche costruttive, tendono
invece a sviluppi verticali, con
altissimi piloni e archi a sesto acuto, fittissime decorazioni e guglie (secoli
XIII-XIV).
c) Scultura e
pittura – Gran parte delle sculture e delle pitture medievali ci è giunta
anonima: non si trattava del resto di opere autonome bensì, generalmente, di
parti dell’apparato decorativo del palazzo o della chiesa. Tra gli scultori di
cui resta traccia nella documentazione meritano di essere ricordati Wiligelmo,
che fu attivo a Modena all’inizio del secolo XII, e può essere considerato il
caposcuola della scultura romanica emiliana (rilievi con le Storie della Genesi
e dei Profeti sulla facciata del Duomo di Modena), e soprattutto Nicola Pisano
e il figlio Giovanni.
Nicola (attivo tra il 1248 e il 1284), probabilmente di
origini pugliesi, è l’artista che introduce il nuovo gusto gotico nel centro
Italia: opera soprattutto a Pisa, dove scolpisce i pulpiti del Battistero e del
Duomo, e a Perugia (Fontana maggiore).
Giovanni (circa
1245-1314) collabora prima
col padre a
Pisa e Perugia, poi realizza in
proprio il pulpito di Sant’Andrea a Pistoia, quindi lavora come capomastro alla
fabbrica del Duomo di Siena, una delle grandi imprese scultoree architettoniche del secondo Duecento.
Per quanto riguarda la pittura, l’età pre-giottesca vede
all’opera, in Toscana, due grandi maestri.
Il primo è
Cimabue (attivo nella seconda
metà del sec.
XIII), che opera
tra Firenze (Maestà oggi al
Louvre, Crocifisso di Santa Croce), Roma (dove esegue varie opere – tutte
perdute – su commissione di papa Niccolò III), Assisi (decorazione con scene
tratte dalla storia sacra della Basilica superiore) e Pisa (mosaico di San
Giovanni Evangelista in Duomo). Il secondo è il senese Duccio di
Buoninsegna, che collabora
col maestro Cimabue
a Firenze (Maestà
Rucellai) e ad Assisi, ma opera soprattutto nella città
natale (Maestà per l’altare maggiore del Duomo).
d) Artisti
polivalenti. Giotto e gli inizi della pittura laica – I maggiori artisti
riuniscono insieme, per altro, competenze diverse: di costruttori, scultori,
pittori. È il caso di Bonanno (tra l’XI e il XII sec.), che
progetta la torre
di Pisa e
lavora ai portali
bronzei della cattedrale;
di Benedetto
Antelami (tra
il XII e
il XIII sec.), architetto
e scultore nel duomo
di Fidenza, nella chiesa
di Sant’Andrea a Vercelli e soprattutto in uno dei capolavori del gotico
italiano, il battistero di Parma; di Arnolfo di Cambio (morto nel 1302), cui si
attribuiscono i progetti di Santa Croce e Santa Maria del Fiore
a Firenze (1295-96) e
a cui si debbono
alcuni tra i
primi e più
alti esempi di scultura profana: la statua di Carlo
d’Angiò ora in Campidoglio e quella di Bonifacio VIII per il Duomo fiorentino; e infine e
soprattutto di Giotto (1266-1337), il quale, oltre a progettare e avviare i
lavori per il campanile di Santa Maria del Fiore, rivoluzionò la pittura
italiana ed europea con il grande ciclo di affreschi per la Basilica di San
Francesco ad Assisi e con quello altrettanto grandioso per la cappella degli
Scrovegni a Padova (1303-5). Con Giotto e i suoi successori, la pittura passa
da uno stadio primitivo, influenzato dai modelli bizantini (le tavole di questo
periodo sono i cosiddetti fondi oro, perché le figure sacre, fortemente
stilizzate, galleggiano su una superficie dorata che non dà alcuna impressione
di realismo), ad una fase più matura: le vicende e i personaggi che troviamo
negli affreschi assisiati e padovani ci appaiono reali, sentimentalmente veri,
colti nella loro qualità individuali e non rappresi in tipi, così come accadeva
nella tradizione precedente. Questo sforzo di realismo avrà tra i suoi effetti
quello di aprire la strada ad un’arte non più legata soltanto ai temi biblici o
all’agiografia ma aperta alla
cronaca ‘laica’.
Simone Martini (Siena
1284 – Avignone 1344), allievo di
Duccio, affianca alle pitture di soggetto tradizionalmente religioso (affresco
della Maestà nel Palazzo Pubblico di Siena, 1315), opere su soggetto ‘civile’
(San Ludovico da Tolosa incorona Roberto d’Angiò re di Napoli, 1317; il
ritratto equestre di Guidoriccio da Fogliano, 1328).
E alla fine degli anni Trenta del Trecento, Ambrogio
Lorenzetti ci offre, nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena, il
primo grande esempio di pittura politica della tradizione italiana: gli affreschi con le Allegorie del buono e del
cattivo governo.
La lirica – Il
panorama della lirica in Italia si presenta assai diversificato e ricco di
esperienze
a)
La poesia religiosa
– Entro confini più ristretti e con un’influenza decisamente minore sui futuri
sviluppi della lirica, rimane la poesia religiosa, anche se il sentimento
religioso nel Medioevo è all’origine di una vasta produzione letteraria che
ebbe i suoi centri nell’Italia settentrionale, specie in Lombardia, e ancor più
nell’Italia centrale, in Umbria. Dal XII secolo, col risvegliarsi di un’aspettativa
di rifondazione della Chiesa, si sentì l’esigenza di accompagnare il culto non
più col canto in latino, ma in volgare, a testimonianza di una fede che si
contrapponeva a quella espressa dalla liturgia ufficiale. All’area umbra
appartengono numerose «laudi» o lodi, cioè componimenti in onore di Dio, della
Vergine e dei Santi; e sempre umbri sono i maggiori esponenti della poesia
religiosa medioevale, come San Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi. Una prova
del tutto eccezionale di poesia religiosa scritta per la preghiera è il Cantico
delle creature che San Francesco d’Assisi [[19]] (1181-1226)
compose in volgare umbro. Il canto religioso andò progressivamente prendendo la
forma della lauda, un termine legato alle laudes (lodi) che
si cantavano durante le funzioni religiose. Questi componimenti venivano
eseguiti da confraternite di laici (laudantes) che accompagnarono la nascita di
movimenti religiosi che, a partire dal secolo XIII, furono espressione di una
grande ondata di fervore religioso soprattutto nelle zone dell’Italia centrale.
Solo verso la fine del Duecento le laudi cominciarono ad essere raccolte e
trascritte a cura delle varie confraternite, dando così inizio ad una
tradizione che continuò e s’ingrandì nei secoli XIV e XV, assumendo sempre più
i caratteri della rappresentazione teatrale (laudi teatrali, sacre
rappresentazioni). Comune a tutti i laudari è l’anonimato degli autori; unica
eccezione il laudario di Jacopone da Todi [20], una
personalità poetica di notevole rilievo per il quale la lauda è anche uno
strumento di intervento nel dibattito ideologico e religioso.
b)
La poesia provenzale – In primo piano c’è tuttavia una lirica di argomento amoroso. Nelle
corti feudali della Provenza, nel Sud della Francia, tra l’XI e il XII secolo,
nacque una produzione poetica molto omogenea, sia per i caratteri formali
(tipi di versi e di strofe, uso della rima, ecc.) sia per i temi. È poesia
scritta in lingua d’oc e profondamente legata all’ambiente della
corte dove trova il pubblico, gli argomenti e le ragioni della sua origine.
Questa poesia cortese, appunto da corte, è espressione di una nuova domanda di
letteratura che deve intrattenere ed insieme dare prestigio ai membri e allo
stile di vita della corte. L’abbandono della lingua latina e la scelta di temi
laici, in particolare di quello amoroso, sono novità che segnalano l’affiorare
dell’idea che la letteratura può avere un valore in sé, slegato dalle
finalità religiose e morali e che l’attività poetica può semplicemente
ricercare la bellezza e il piacere di chi l’ascolta. La figura del trovatore,
il poeta (da tobàr che in provenzale
significa poetare), è parte integrante della corte: molti sono aristocratici e
feudatari come Guglielmo IX d’Aquitania, altri sono di umili origini, ma la
loro attività poetica li eleva socialmente e spesso procura riconoscimenti o
incarichi che danno loro dignità e ricchezza.
La maggior parte dei testi dei trovatori
esprime un’originale concezione dell’amore che va sotto il nome di amor
cortese: questo termine riassume un ideale di vita esclusivo dell’ambiente
della corte. I protagonisti di questo particolare rapporto amoroso possono
essere soltanto la dama di corte (madonna) e il poeta (amante) che è tenuto ad
un atteggiamento di cortesia rivolto alla dama che è di totale ubbidienza,
vassallaggio, desiderio ed omaggio. L’amor cortese fu teorizzato ed
esaminato in un trattato assai famoso a quel tempo, il De amore (Sull’amore)
di Andrea Cappellano, che dettò le regole di comportamento e definì anche le
situazioni sentimentali degne di un vero cavaliere:
- la gioia per il favore accordato
da madonna;
- l’affinamento dei valori della
cortesia per rendersi degni dell’amore;
- la tensione del desiderio
amoroso.
Tutto questo costituiva un vero e proprio
codice di comportamento (probabilmente poco rispettato nelle concrete
esperienze di vita) che valeva per la poesia. Possiamo dire che la lirica
cortese compì una mediazione tra il sentimento d’amore e la sua trasfigurazione
intellettuale attraverso un linguaggio letterario assai raffinato e selezionato,
basato su alcune parole-chiave e sull’esclusione dei termini non eleganti; la
lingua dei trovatori si presenta come un codice lirico, una lingua con regole
assai rigide e distante da quella parlata.
In Italia fra XIII e XIV secolo giunge a un
altissimo grado di elaborazione, dando vita al nucleo iniziale della tradizione
letteraria europea e italiana.
La poesia dei trovatori, nata nelle corti
della Francia meridionale, fu largamente conosciuta in Italia dove, nelle corti
del Nord, continuarono a poetare in lingua d’oc una quarantina di
trovatori che erano sfuggiti alla crociata contro gli Albigesi nel 1208.
c)
La Scuola siciliana – La poesia provenzale trovò imitatori soprattutto in
Sicilia, a Palermo, sede della corte di Federico II di Svevia, dove nacque la
prima scuola poetica della letteratura italiana. La corte di Federico era una corte raffinata, intellettualmente assai
evoluta ed aperta alle più diverse esperienze culturali. Qui fiorì, sulla scia
della poesia provenzale e riflettendone i temi e le tecniche, la «Scuola
siciliana» cui appartennero poeti non solo siciliani, ma anche di altre parti d’Italia.
La poesia siciliana si sviluppò in un arco
di tempo piuttosto breve: nacque tra il 1220 e il 1230 con i componimenti di
Jacopo da Lentini (cui è attribuita l’invenzione del sonetto) ed ebbe fine col
crollo della potenza sveva in Italia (1266, battaglia di Benevento).
I protagonisti della Scuola erano prima di
tutto funzionari che svolgevano incarichi importanti: intellettuali che avevano
dignità e prestigio sociale, per i quali il poetare fu un modo di partecipare
alla rinascita culturale promossa da Federico. Fra loro, oltre allo stesso
imperatore Federico II ed ai figli Manfredi e Enzo, si ricordano Pier delle
Vigne, Jacopo da Lentini, Guido delle Colonne, Rinaldo d’Aquino, Odo delle
Colonne, Giacomino Pugliese.
La poesia della Scuola siciliana in linea di
massima ripete temi, situazioni, immagini della poesia provenzale cui guarda
come modello; e, come la poesia provenzale, è impegnata in difficili
ricerche tecniche, soprattutto metriche secondo un repertorio fisso di situazioni
e di immagini. Canta soprattutto l’amore e, in particolare, l’amore cortese.
La lingua usata dai poeti della Scuola
siciliana è il dialetto siciliano affinato e depurato delle sue forme più
gergali e più locali, e arricchito di elementi latini e provenzali: Dante lo
definì «volgare illustre», per dire che questi poeti adottarono una base
costituita dal volgare siciliano parlato che poi nelle loro mani divenne uno
strumento alto, elaborato, arricchito dall’uso della conversazione dotta e
regolarizzato nelle forme grammaticali.
d)
La scuola toscana – Attraverso la mediazione dei poeti siciliani, ma
anche per diretta conoscenza dei testi francesi, la lirica cortese fece da
modello alle esperienze che maturarono in Toscana (poesia toscana) la cui
novità, rispetto alla tradizione siciliana, è costituita dalla presenza delle
tematiche politiche, in relazione con le lotte dei comuni.
La personalità di maggior rilievo fu
Guittone d’Arezzo (1230 ca.-1294) che s’impose come poeta, ma fu anche
intellettuale e uomo pubblico di parte guelfa. Accanto a Guittone vanno ricordati
Chiaro Davanzati e Bonagiunta Orbicciani.
La poesia toscana fu un punto di
riferimento per le decisive innovazioni dei poeti che, insieme con Dante,
rappresentano il cosiddetto stil novo.
e)
Il «dolce stil novo» – La
più importante corrente poetica della seconda metà del Duecento fu la scuola
del «dolce stil novo». Di tale scuola viene considerato iniziatore il bolognese
Guido Guinizelli [[21]], ma
essa si sviluppa soprattutto in Firenze ad opera di un gruppo di giovani
poeti, come Guido Cavalcanti [22], lo
stesso Dante, Lapo Gianni, Gianni Alfani, cui va aggiunto Cino da Pistoia, che
erano fra loro legati da analogie di gusto e da comuni esperienze culturali.
Nella loro poesia ricorrono alcuni temi:
- la donna vi è celebrata come una
specie di creatura angelica che perfeziona colui che l’ama e lo guida a
Dio e riflette la viva religiosità dell’ambiente comunale;
- l’amore è considerato retaggio
dei soli spiriti nobili, dove però nobiltà è intesa non come nobiltà di
nascita, ma come nobiltà interiore, conquista della moralità e dell’intelligenza
dei singoli; la nuova concezione di nobiltà è da mettere in relazione con
la vita politico-sociale del Comune, che era sorto sulle rovine della
nobiltà feudale;
- la capacità che essi dimostrano
nel cogliere ed analizzare le emozioni, anche le più sottili, dell’animo
umano;
- un linguaggio raffinato, duttile,
capace di esprimere tali sottili sfumature dello spirito.
Le espressioni popolaresche – Ai margini restano le esperienze, pur interessanti,
della poesia comico-realistica e della poesia giullaresca.
a)
La poesia
realistica – è un tipo di poesia diffusa in Toscana fra Due e
Trecento; essa si caratterizza soprattutto per le scelte tematiche: l’aspirazione
alla ricchezza, il desiderio sessuale, l’imprecazione contro la povertà e la
mala sorte, la maledizione contro le donne brutte o contro gli avversari
politici, il vituperio. Gli strumenti espressivi di questa poesia appartengono
al registro che la cultura medievale definiva comico e contrapponeva a quello
tragico e sublime un registro che si associa al linguaggio mediocre e basso.
Questi caratteri non devono tuttavia far pensare a una poesia rozza; al contrario,
il procedimento della parodia, del rovesciamento di modelli alti, l’iperbole e
la caricatura dimostrano una notevole perizia tecnica. Anche poeti come Dante,
Cavalcanti e Guinizzelli scrissero poesie di questo tipo. Tra gli autori che si
dedicarono soprattutto alla poesia comico-realistica ricordiamo Cecco
Angiolieri, Rustico di Filippo e Folgore da S. Gimignano.
b)
La poesia
giullaresca fu una produzione di livello modesto, rivolta a un
pubblico popolare, spesso anonima, che ebbe una trasmissione in parte orale e
in parte scritta. Solitamente sono testi legati a situazioni di festa, d’intrattenimento,
di spettacolo, che comportano una fruizione facile, rapida e piacevole. Essa
fiorì in quasi tutte le regioni d’Italia a opera di giullari che potevano
essere artisti di piazza, cantastorie, ma anche uomini in contatto con l’ambiente
di corte e detentori di una buona preparazione culturale.
La lirica nel
Trecento – Nel Trecento ha inizio la
tradizione della poesia per musica. L’opera poetica di Dante e più ancora
quella di Petrarca dominano il Trecento la straordinaria altezza delle loro
opere fa sì che non vi siano poeti capaci di creare qualche cosa che oltrepassi
l’imitazione di questi due grandi.
Dante Alighieri – L’esistenza di Dante Alighieri è
strettamente legata agli avvenimenti della vita politica fiorentina. Alla sua
nascita, Firenze era in procinto di diventare la città più potente dell’Italia
centrale. A partire dal 1250, un governo comunale composto da borghesi ed
artigiani aveva messo fine alla supremazia della nobiltà e due anni più tardi furono
coniati i primi fiorini d’oro. Il conflitto tra guelfi, fedeli all’autorità
temporale dei papi, e ghibellini, difensori del primato politico degli
imperatori, divenne sempre più una guerra tra nobili e borghesi simile alle
guerre di supremazia tra città vicine o rivali. Alla nascita di Dante, dopo la
cacciata dei guelfi, la città era ormai da più di cinque anni nelle mani dei
ghibellini. Nel 1266, Firenze ritornò nelle mani dei guelfi e i ghibellini
vennero espulsi a loro volta.
La vita - Dante
nacque a Firenze nel 1265 dalla famiglia degli Alighieri, una famiglia di parte
guelfa di modeste condizioni economiche, ma di antica nobiltà. Fra i suoi
antenati egli ricorda orgogliosamente nel Paradiso il
trisavolo Cacciaguida che, fatto cavaliere dall’imperatore Corrado III, morì
in Terrasanta, combattendo contro gli infedeli nella seconda Crociata
(1147-1149).
Ebbe l’educazione tipica, in quegli anni, dei giovani
delle buone famiglie fiorentine: studiò le discipline del Trivio(grammatica,
dialettica, retorica) e del Quadrivio (aritmetica, geometria, musica,
astronomia); ma ebbe anche, se pur saltuariamente, la guida ed il consiglio di
quell’uomo di eccezionale cultura enciclopedica che fu Brunetto Latini, la cui
figura di maestro egli eternerà nella Commedia (Inferno, XV). Frequentò
anche pittori e musicisti, quali il miniatore Oderisi da Gubbio ed il cantore
Casella, che pure saranno presenti nel poema (Purgatorio XI e Purgatorio II). Cominciò
presto a scrivere versi e fece parte di quel colto e raffinato gruppo di
giovani poeti che diedero vita alla scuola del «dolce stil novo». Secondo le
tecniche e gli ideali di questa scuola compose le liriche della Vita
nova, ispirate al suo amore
per una giovane donna fiorentina, Beatrice, e alcune delle Rime. Ma
contemporaneamente e successivamente tentò anche sperimentazioni poetiche
diverse per temi e per toni, aprendosi così la via alla complessa
orchestrazione della Commedia.
Nel frattempo, e specie dopo la morte di Beatrice (1290),
che aveva determinato in lui bisogno di meditazione e di chiarificazione
interiore, si dedicò allo studio della filosofia. Dava intanto stabilità alla
sua vita costruendosi una famiglia: sposò, non sappiamo bene in che anno, Gemma
Donati, dalla quale ebbe tre figli, Jacopo, Pietro e Antonia, che, fattasi poi
monaca col nome di Beatrice, visse in un convento di Ravenna e fu così vicina
al padre negli ultimi suoi anni.
Impegnato non solo culturalmente, ma anche politicamente,
Dante partecipò presto alla vita pubblica del suo Comune in cui, cacciati fin
dal 1266 i Ghibellini, dominava ormai incontrastata la fazione dei Guelfi. Nel
1289 fu tra i cavalieri che combatterono nella battaglia di Campaldino in cui
Firenze e la lega guelfa sconfissero i ghibellini di Toscana, e nello stesso
anno fu presente alla resa del Castello di Caprona, strappato dai Fiorentini ai
Pisani. Ma la sua attività più propriamente politica ebbe inizio nel 1295, dopo
che potè iscriversi a una delle Arti, o corporazioni dei
lavoratori, condizione necessaria, dopo gli ordinamenti democratici di Giano della Bella del 1293, perché un
nobile potesse fare politica militante. Poiché allora la medicina era
considerata assai vicina alla filosofia, Dante, come cultore di studi
filosofici, si iscrisse all’Arte dei medici e degli speziali. La vita politica
fiorentina era in quegli anni tumultuosa e lacerata da odi interni. I Guelfi
erano divisi in due fazioni, quella dei Neri, alla quale appartenevano la
maggior parte dei nobili e la parte più numerosa della borghesia mercantile, e
quella dei Bianchi, cui appartenevano invece poche famiglie aristocratiche,
alcuni esponenti meno influenti della borghesia ed il popolo minuto. La parte
Nera era capeggiata dalla famiglia dei Donati, la Bianca da quella
dei Cerchi. Diverse per composizione sociale e per interessi, le due fazioni
erano in contrasto anche per la politica estera: mentre i Neri si appoggiavano
al Papa e agli Angioini, signori dell’Italia meridionale e legati alla
monarchia francese, i Bianchi erano gelosi difensori dell’autonomia del Comune
sia nei confronti della Francia sia del Papa, il quale vantava e voleva far
valere su Firenze antichi diritti feudali.
Dante aderì alla parte Bianca, che allora aveva in città
la prevalenza, ed ebbe nel Comune molte cariche pubbliche fino alla più alta,
il Priorato: fu uno dei priori del trimestre giugno-agosto 1300. Nell’esercizio
del governo si comportò con moderazione ed imparzialità ed esercitò una
funzione equilibratrice fra le fazioni, di cui tentò di frenare le contese non
di rado cruente. In politica estera difese con intransigenza l’autonomia del
Comune contro il papa d’allora, Bonifacio VIII, che gli divenne perciò acerrimo
nemico, e che il Poeta bollerà nella Commedia come traditore
del messaggio di Cristo.
Fu proprio l’appoggio del Papa e della Francia a
consentire, in Firenze, il colpo di Stato che improvvisamente trasferì il
potere dalle mani dei Bianchi a quelle dei Neri nel 1301. Il rovesciamento
politico si attuò con violenze, uccisioni, saccheggi, cui seguirono, contro i
Bianchi vinti, processi illegali e sommari, accuse e condanne infamanti e
spesso ingiustificate. Dante in quei giorni non era a Firenze; era stato
mandato a Roma come ambasciatore dal governo Bianco per cercare di dissuadere
Bonifacio VIII dall’intervenire nelle faccende fiorentine. Accusato di
baratteria, cioè di uso privato di denaro pubblico, fu condannato in contumacia
a pagare un’ammenda, a due anni d’esilio, e all’interdizione perpetua dai
pubblici uffici; e gli fu intimato di presentarsi ai giudici per giustificare
il suo operato nel gennaio del 1302. Dante, sdegnosamente, non pagò l’ammenda e
non si presentò; seguì allora una seconda sentenza, il 10 marzo, che lo condannava
al rogo se fosse stato preso nel territorio del Comune.
La sentenza apriva per Dante il periodo dell’esilio, un’esperienza
da cui fu segnata la sua vita e la sua opera. Nel Convivio, parlando della sua esistenza
di esule, egli si rappresenta come una nave allo sbando, senza vela e
senza governo (= timone), spinta dal vento freddo della povertà. E
nel Paradiso dichiara di aver provato
come sa di sale
lo pane altrui,
e com’è duro calle
lo scendere e il
salir per l’altrui scale.
Benché la sua cultura e la sua fama gli aprissero le
porte di molte corti italiane, egli sentiva come dolorosa umiliazione il fatto
stesso di dover chiedere ed accettare ospitalità: al che si aggiungeva la
nostalgia per la patria e le persone care perdute ed il risentimento amaro per
l’ingiustizia sofferta. Unici conforti erano per lui la consapevolezza della
propria innocenza, l’orgoglioso senso della propria superiorità nei confronti
di coloro che lo avevano bandito, e la passione culturale e letteraria da cui
nacquero le sue opere che, ad eccezione della Vita nova e di
alcune Rime, furono
tutte composte durante l’esilio.
Numerose furono le sue peregrinazioni per l’Italia, «per le parti tutte – come egli dice – alle quali questa lingua [l’italiano] si stende». Fra le tappe più importanti
ricordiamo il soggiorno a Verona presso gli Scaligeri, in Lunigiana presso i
Malaspina, e quello finale a Ravenna presso i Polentani.
Le sue ricorrenti speranze di ritorno in patria andarono
sempre frustrate. Subito dopo l’esilio aveva creduto, con gli altri Bianchi
esuli, di poter tornare in Firenze con le armi; ma l’inettitudine dei suoi
compagni e le loro interne discordie trasformarono il tentativo in una
sconfitta sanguinosa. Di nuovo le sue speranze si riaccesero alla venuta in
Italia dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo nel 1311, che Dante sperava
avrebbe messo fine alle interne lotte dei Comuni e quindi anche di Firenze,
aprendogli la strada del ritorno. Ma fu speranza che svanì con la morte
improvvisa di Arrigo nel 1313. Né egli volle accettare dai Fiorentini amnistie
e condoni che implicassero ammissioni di colpevolezza e quindi fossero lesive
della sua dignità. «Non è questa la via
per ritornare in patria – scriveva nel 1315 a un amico di Firenze che
gli aveva rese note le condizioni umilianti di un decreto che gli avrebbe
consentito il ritorno – ma se ne sarà
trovata un’altra, da voi o, poi, da altri, che non offenda la fama e l’onore di
Dante, per quella mi metterò con passi non lenti; ma se non si può entrare in
Firenze per una strada siffatta, io non c’entrerò mai».
Si illuse invece fino all’ultimo, con ostinata speranza,
che i Fiorentini potessero richiamarlo onorevolmente in città in virtù della
sua grandezza di studioso e di poeta. Era una speranza che, verso la fine della
composizione del Paradiso, quando
ormai la morte non era lontana, affidava alla sua Commedia, il
«poema sacro», rivivendo il dramma della sua innocenza calunniata dagli
avversari, quasi di agnello perseguitato dai lupi:
Se mai continga che ‘1 poema sacro
al quale ha posto mano e ciclo e terra,
sì che m’ha fatto per più anni macro
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’io dormì agnello,
nemico ai lupi che li danno guerra.
(Paradiso XXV).
Morì in
esilio, a Ravenna, nel 1321.
Le opere – La
sua attività di studioso e di poeta si concretò nella vastissima produzione che
ebbe il momento culminante e conclusivo nella grandiosa costruzione della Commedia,
alla quale fecero da preparazione e da supporto le meditazioni e le sperimentazioni
precedenti, documentate dalle cosiddette opere minori. Nella
giovinezza ed all’incirca fra il 1283 e il 1292 compose numerose liriche di
tipo stilnovista in onore di una donna amata, una Beatrice, forse figlia di
Folco Portinari, che andò sposa a Simone dei Bardi e morì nel 1290 in
giovanissima età.
a) La Vita nova
– Raccolte insieme e intervallate da prose che ne illustravano l’origine e il
significato, queste liriche costituirono il libretto La vita nova, storia di un amore
adolescenziale, coi suoi turbamenti e tremori, ma anche analisi attenta e
sottile dei moti suscitati nell’animo dall’amore.
Nell’operetta, secondo i moduli dello Stilnovo, la figura
di Beatrice si traduce in quella ideale della donna-angelo che guida l’uomo
verso il bene e la cui perdita è fonte di ottenebramento e di offuscamento
morale. Dante racconta il suo primo incontro con Beatrice all’età di nove anni.
Il secondo incontro avvenne nove anni dopo e Dante se ne innamora perdutamente.
Dante, per non far intendere il suo amore nei confronti di Beatrice, finge di
essere innamorato di altre due donne e per questo motivo Beatrice gli toglie il
saluto. Dante soffre per questi mancati saluti di Beatrice. In seguito Dante
prende coraggio e esterna il suo sentimento verso Beatrice, ma fu deriso da
Beatrice e da altre donne. Il passaggio importante dell’opera è la morte del
padre di Beatrice.
Nella stessa notte gli apparve in sogno una visione che
si avvererà con la morte di Beatrice. L’opera finisce che Dante spiega che egli
non scriverà più su Beatrice finché non le dirà tutti i suoi sentimenti che ha
provato per lei.
b) le Rime
– Parte scritte a Firenze e parte in esilio, le Rime coprono
quasi l’intero arco della vita di Dante.
Esse testimoniano le successive e varie sperimentazioni
tecniche del poeta che, tentando argomenti diversi, andava progressivamente costruendosi
un linguaggio articolato e polimorfo, dal delicato e tenue, al violentemente
passionale, al plebeo, al rigorosamente logico, preparandosi alla polifonia
tematica e tonale della Commedia.
Nelle Rime, a delicati componimenti di
tipo stilnovistico, si affiancano, infatti, le canzoni di selvaggia e terrena
passionalità per una certa Petra (Rime
petrose), una tenzone (o scambio di componimenti a
botta e risposta) plebea con l’amico Forese Donati, liriche di argomento etico
e filosofico, come la famosa canzone Tre donne intorno al cor.
c) Il Convivio
– Fra il 1304 e il 1307, già in esilio, Dante componeva il Convivio, specie
di enciclopedia del sapere contemporaneo, costituita da canzoni e da trattati
in prosa illustrativi e rimasto incompiuto.
L’opera è scritta in volgare perché al convito, o
banchetto di cultura, potessero partecipare anche coloro che non conoscevano
il latino. L’opera è composta da un prologo e da tre trattati.
Il prologo racconta il piano dell’opera
e la motivazione della sua formazione.
Il primo trattato parla del volgare e dell’importanza che
potrà avere nel futuro della letteratura.
Il secondo trattato espone i quattro sensi della
scrittura: quello letterale, che comprendere il testo in senso
letterale, quello allegorico, ossia
una verità superiore a quella letterale, quello morale è la
conseguenza di quello allegorico, quello anagogico il sovrasenso
spirituale.
Il terzo trattato è una lode alla filosofia e alla natura
dell’uomo. Il quarto trattato racconta della vera nobiltà come virtù morale.
d) Il De vulgari
eloquentia – Sempre degli anni fra il 1304 e il 1307 è il De vulgari
eloquentia, anch’esso
rimasto incompiuto, in cui Dante affronta il problema della lingua italiana e
cerca di delineare le caratteristiche di un volgare che superi le differenze
dei dialetti regionali e possa diventare la lingua colta comune a tutti gli
scrittori e poeti della penisola.
e) Il De Monarchia
– Legata alla venuta di Arrigo VII in Italia ed alle speranze suscitate in
Dante da tale avvenimento è la Monarchia, un trattato politico in
latino in cui il poeta delinea i caratteri e le funzioni dell’Impero, e, con
modernità di vedute, il rapporto che deve intercorrere fra potere spirituale e
temporale.
L’opera è divisa in tre libri: il primo libro racconta
che soltanto attraverso una monarchia universale l’uomo potrà arrivare alla sua
massima capacità intellettuale; il secondo libro racconta che i romani sono
arrivati alla massima estensione non attraverso le armi, ma attraverso la
provvidenza; il terzo libro racconta che Dante divide in due poteri l’Impero e
il Papato, dicendo che entrambi i poteri sono stati donati da Dio e quindi non
devono essere la stessa persona. Ma l’Impero deve stare sempre al dì sotto del
Papato, cioè di Dio.
f) Le Epistole
– Altre opere del periodo dell’esilio sono le Epistole, in latino, fra le quali si
ricordano quelle composte in occasione della discesa in Italia di Arrigo VII
per affiancare con l’esortazione e col consiglio la missione dell’imperatore; e
quella all’amico fiorentino a proposito dell’umiliante decreto di amnistia.
g) Le Egloghe –
Nelle Egloghe, in latino, Dante difende l’uso del volgare
nella Commedia. Una importante egloga è quella in cui Giovanni del
Virgilio diceva a Dante di abbandonare la trascrizione dell’Inferno e del
Purgatorio e doveva scrivere un’opera in latino per arrivare alla corona di
alloro a Bologna. Dante rispose che egli avrebbe terminato l’Inferno, il
Purgatorio e avrebbe scritto anche il Paradiso e solo in fine sarebbe andato
alla conquista della corona di alloro.
h) La Quaestio de aqua et terra – La Quaestio
de aqua et terra è un trattatello scientifico
in cui Dante trascrive una questione cosmologica discussa da Dante
a Verona il 20 gennaio 1320 nella Chiesa di Sant'Elena se la terra
emersa sia più alta o no della superficie dell'acqua. Era luogo comune seguito
anche da Dante che il globo terracqueo fosse al centro dell'universo e che il
centro della sfera celeste coincidesse con il centro del medesimo. Dante
ritiene che la terra emersa è dovunque più alta della superficie del mare ed
emerge da essa nell'emisfero boreale con una gibbosità a forma di semilunio che
dovrebbe coincidere con le terre allora conosciute.
Il trattato si
struttura come una vera e propria quaestio disputata universitaria
nella quale dapprima si accolgono le tesi concorrenti, poi si oppone la
propria, quindi si discute il problema nella sua essenza e infine si risponde
punto per punto alle argomentazioni degli antagonisti.
La Commedia – Nel 1307 Dante aveva
iniziato la composizione della Commedia che era appena stata
portata a termine nel 1321, anno della sua morte. La Divina Commedia consta,
di tre cantiche, 1’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso. Ognuna
di esse è costituita da 33 canti, più un canto iniziale che fa da introduzione
generale al poema, così che esso raggiunge il numero complessivo di 100 canti.
Il metro è la
terzina di endecasillabi (rima ABA - BCB ecc).
Vi ricorrono
visibilmente alcuni numeri che per i medioevali avevano un particolare
significato: il 3 simbolo della Trinità, il 10 simbolo della perfezione, e i
loro multipli.
Il titolo
di Commedia sta ad indicare che la vicenda in essa
rappresentata si conclude con un lieto finale; ma deriva anche dal fatto che
Dante la volle scritta nello stile che egli definiva comico, cioè
uno stile mediano che consentiva una ricca varietà di toni, dall’umile e dal
venatamente rozzo, al nobile e all’elevato, attraverso tutte le gamme intermedie.
L’epiteto di divina fu attribuito all’opera dantesca dal
Boccaccio e divenne poi parte integrante del titolo.
a) La
struttura dell’universo e la collocazione dell’Oltremondo dantesco - La struttura del mondo secondo Dante,
che si adegua in ciò alle diffuse convinzioni medioevali, è la seguente. Al
centro dell’universo, sospesa nell’aria, sta la terra, una sfera immobile che l’equatore
divide in due emisferi, quello boreale abitato dagli uomini, quello australe
interamente coperto dalle acque. La terra è contornata dalla sfera dell’aria e
dalla sfera del fuoco, e poi da nove cicli concentrici e trasparenti che le
ruotano attorno. In questa struttura cosmologica Dante ha collocato
concretamente il suo Aldilà: Inferno, Purgatorio, Paradiso.
L’Inferno è una grande voragine che si
apre a forma di imbuto proprio accanto a Gerusalemme, e si estende,
restringendosi progressivamente, fino al centro della terra. Essa si è
spalancata quando Lucifero è stato cacciato dal Paradiso e la terra su cui è
precipitato si è aperta per orrore del suo contatto. In fondo all’Inferno, nel
centro della terra, Lucifero è rimasto conficcato. L’Inferno è diviso in
cerchi dove sono collocati i dannati, tanto più in basso quanto maggiore è la
gravita della loro colpa. Preceduti dagli ignavi, cioè da
coloro che nel mondo non hanno fatto né bene né male e che occupano l’Antinferno,
essi sono distinti in tre categorie, e cioè, dall’alto al basso, gli incontinenti, cioè
coloro che non hanno saputo controllare i propri istinti con la ragione,
i violenti, i fraudolenti. A queste tre
categorie, presenti in San Tommaso, che a sua volta le aveva derivate da
Aristotele, si aggiungono coloro che, non per loro colpa, non hanno conosciuto
Dio, e che stanno nel Limbo, e
gli eretici, che coscientemente hanno rifiutato Dio. Il limbo
costituisce il primo cerchio, gli eretici sono collocati nel sesto cerchio, che
precede la sede infernale dei violenti e dei fraudolenti.
Il Purgatorio è una montagna che, altissima
in mezzo alla sterminata distesa delle acque, si erge al centro dell’emisfero
boreale, agli antipodi dell’apertura dell’Inferno. La montagna del Purgatorio è
a sua volta divisa in tre parti: le sue pendici più basse costituiscono l’Antipurgatorio, dove
aspettano di iniziare l’espiazione le anime di coloro che si pentirono solo in
punto di morte; segue il Purgatorio vero e proprio diviso in sette
balze corrispondenti ai sette peccati capitali; sulla cima del monte è
collocato il Paradiso terrestre.
Il Paradiso ha la sua sede nell’Empireo,
che sta al di là dei nove cieli rotanti. In esso stanno Dio, la Vergine, gli angeli
e i beati. Ma Dante immagina che, durante il suo viaggio, le anime dei beati
prendano temporaneamente dimora nei nove cieli perché egli, dalla loro maggiore
o minore vicinanza all’Empireo, possa rendersi conto del loro maggiore o minore
grado di beatitudine.
b) Il
viaggio dantesco: significato letterale e significato allegorico
- Il poeta immagina di essersi smarrito, nella notte tra il giovedì e il
venerdì Santo del 1300, anno del Giubileo indetto da papa Bonifacio VIII, in
una selva oscura. Preso da terrore, cerca di uscirne, e crede di potersi
salvare salendo su di un monte che ad un tratto gli appare, e che è illuminato
dalla luce del sole. Ma tre fiere, una lonza, un leone e una lupa, gli impediscono
il cammino, ed egli riprecipita a valle, nell’oscurità della selva. Quando
ormai si crede perduto, è soccorso dal poeta latino Virgilio, a lui mandato da
Beatrice, che dal Paradiso, dove ormai si trova, vuole soccorrerlo. Virgilio lo
ammonisce che, per uscire dalla selva, dovrà compiere un cammino ben più lungo
e arduo che non l’ascesa al monte: dovrà cioè discendere nell’Inferno, salire
le balze del Purgatorio; e solo allora potrà giungere alla salvezza, cioè a
Dio.
Come si vede, il
significato letterale si intreccia strettamente fin dall’inizio col significato
allegorico. La selva oscura rappresenta la dispersione spirituale, cui si
abbandonò Dante dopo la morte di Beatrice; le tre fiere rappresentano i vizi
(lussuria, superbia, avarizia) da cui non è facile all’uomo liberarsi; il
viaggio per l’Inferno e per il Purgatorio rappresenta la riflessione sulle
conseguenze del peccato, riflessione che, con l’aiuto della grazia, può
consentire all’uomo di salvarsi.
Il poeta
Virgilio e Beatrice fanno da guida a Dante nel suo viaggio ultraterreno. Virgilio
rappresenta la ragione umana, grazie alla quale l’uomo si rende conto delle
conseguenze del suo cattivo operare; ma rappresenta anche, in quanto
celebratore nell’Eneide dell’impero
romano, il potere imperiale. Beatrice, la donna angelicata della Vita
nova, qui rappresenta la grazia divina e la teologia depositaria della
rivelazione, che subentra alla ragione là dove questa non può arrivare; ma
rappresenta anche la Chiesa, l’istituzione cioè che, insieme all’Impero, può
portare alla salvezza l’umanità, se l’una e l’altro, concordemente e
autonomamente, agiranno nell’ambito che loro spetta. Il valore simbolico che le
due guide assumono nella Commedia non toglie loro ricchezza d’umanità.
Nel difficile percorso attraverso l’Inferno e il Purgatorio, Virgilio è per
Dante l’amico, il padre, il maestro severo e affettuoso; e Beatrice, che
sostituisce Virgilio nel guidare Dante attraverso il Paradiso, è animata da
caldo affetto e da trepidazione femminile.
Il viaggio
dantesco nell’Oltremondo dura sette giorni, dalla notte fra il 7 e l’8 aprile
al pomeriggio del 14 aprile del 1300. Guidato da Virgilio il poeta scende,
percorrendo i cerchi infernali, fino al centro della Terra. Di qui, per un
passaggio interno all’emisfero australe, perviene alla montagna del Purgatorio,
sulla cui cima, nel Paradiso terrestre, lo aspetta Beatrice. Guardando negli
occhi di lei, in virtù della bellezza e della forza morale e conoscitiva che da
essi promanano, il poeta, salendo di cielo in cielo, giunge infine all’Empireo,
sede di Dio.
c) Caratteri
delle tre Cantiche - Pur caratterizzata da salda
compattezza unitaria, da organicità strutturale, la Commedia presenta
caratteri diversi nelle tre cantiche.
L’Inferno è
il regno dove dominano le individualità potenti, che si ergono con eccezionale
rilievo davanti al poeta che le interroga. Esse sono ancora psicologicamente
legate alla terra, che è il luogo della loro felicità perduta, e sono ancora
dominate dalle passioni che sulla terra le segnarono in modo particolare:
Francesca da Rimini dall’amore, Farinata dall’ardore politico, Brunetto Latini
dalla solidarietà col discepolo e dalla sollecitudine per la propria opera di
studioso, Pier delle Vigne dalla sua lealtà verso l’imperatore, Ugolino dall’odio
contro il nemico che ha sterminata la sua famiglia, Ulisse dall’ansia di
conoscenza, ecc.
Bloccate nelle
loro passioni, esse appaiono anche isolate dalle altre anime; rari sono i loro
rapporti con i compagni di pena; e, se rapporto vi è, è per lo più di disprezzo
e di odio.
Questi grandi
personaggi, che sembrano a volte persino insensibili alla pena cui sono
condannati, sono più numerosi nella parte più alta dell’Inferno; nel fondo del
baratro infernale, pur con alcune eccezioni, prevale invece una brulicante
moltitudine di esseri che, come nulla ebbero di magnanimo in vita, così nulla
hanno dopo morte che dia loro qualche grandezza anche nel male.
Nel Purgatorio le
personalità sono più sfumate; nelle anime i sentimenti e gli affetti terreni
non levano più alta la loro voce, e si traducono piuttosto in ricordo
nostalgico, quasi mai doloroso, poiché esse sono consolate dal pensiero della
beatitudine eterna che le attende. Legate fra loro dalla comune confortante
aspettativa e permeate di comune caritas cristiana, si muovono
coralmente, a gruppi. E corali sono i canti di preghiera che esse levano a Dio
e nei quali amorevolmente includono anche il ricordo dei viventi, ancora
soggetti all’errore.
Nel Paradiso, infine,
le anime sono tutte accomunate nella beatitudine del possesso di Dio. Scompare
anche fisicamente la loro fisionomia terrena: se si eccettuano le anime del
primo Cielo in cui, se pur sfuocati, sono visibili i lineamenti dei loro volti,
negli altri Cicli esse si presentano come luci; e la diversa intensità del
fulgore che le avvolge e le nasconde è indice del loro diverso grado di
beatitudine.
Tuttavia la
terra, che Dante sente così lontana colle sue laceranti passioni, «l’aiola che
ne fa tanto feroci», penetra anche in questo regno: come valutazione che
orienti moralmente la vita terrena, come giudizio che ristabilisca la
giustizia violata sulla terra. Sono particolarmente significativi in questo
senso la invettiva di San Pietro contro la corruzione degli ecclesiastici, e i
tre canti centrali del Paradiso, il XV, XVI, XVII, in cui Dante rivive con
intensità emotiva e grande espressività poetica l’amara vicenda del suo esilio.
d) Il
«paesaggio» nei tre regni - Come diversa è, nei tre
regni, la natura delle anime, così è diverso lo sfondo su cui sono collocate.
Oscura e cupa è
l’atmosfera infernale, dove non penetra mai la luce del sole, «lo dolce lome»;
nei vari gironi, di volta in volta, cade spietatamente una pioggia sudicia e
gelida, o sibila una violenta bufera, o il ghiaccio chiude i dannati nella sua
morsa, o l’oscurità è sinistramente illuminata dai bagliori del fuoco punitore.
Gli aspetti della natura vi si manifestano in forma abnorme: un fiume di
sangue, un bosco in cui le piante sono anime, e quando viene reciso un
ramoscello ne esce non linfa vitale ma sangue. E le voci che percorrono questo
regno sono lamenti o invettive. Custodi dell’Inferno sono, accanto
ai diavoli della tradizione cristiana, i demoni della tradizione classica
(Caronte e Cerbero); o figure della mitologia classica qui assunte in funzione
demoniaca, come Minosse, i Centauri, i Giganti.
Nel Purgatorio trionfa
invece la natura in tutto il suo fascino. È un paesaggio di acque (il
tremolar della marina) e
di montagna, illuminato dalla luce solare, e dove le notti sono confortate
dallo splendore delle costellazioni. Sulla cima del monte, nel Paradiso
terrestre, il paesaggio si fa poi verde e irriguo; vi si stende una fìtta
foresta, «la divina foresta spessa e viva», costellata di fiori e percorsa da
due fiumi. Custodi di questo regno, che risuona dei canti dei penitenti, sono
gli angeli, vestiti ora di verde ora di bianco.
Il Paradiso poi
è tutto musica e fulgore di luce. Luminosi sono i nove cieli della concezione
tolemaica, sui quali le anime, luce esse stesse, appaiono come gemme
incastonate in preziosi monili; musicale è il movimento dei cieli rotanti. E
tutto splendore di luce è l’Empireo, sede di Dio e della Corte beata.
e) La
legge del «contrappasso» - Nell’Inferno e nel Purgatorio le pene
delle anime sono stabilite secondo la legge del contrappasso, per
cui il tipo della pena corrisponde a quello della colpa. Il contrappasso può
realizzarsi per somiglianza o per contrasto. Il
primo caso, ad esempio, si verifica per la pena dei lussuriosi che, travolti in
vita dalla bufera della passione, sono qui sbattuti dalla «bufera
infernal che mai non resta». Esempio del secondo caso è la pena dei
golosi che, amanti in vita dei cibi raffinati, sono qui costretti ad ingozzare
una sudicia broda di acqua e di fango.
f) Dante,
vero protagonista della «Commedia» - Numerosissimi sono i
personaggi che Dante incontra nel suo viaggio, che interroga e dai quali
ottiene risposte. È una galleria articolata di figure che popolano i tre regni;
e certo ognuna di esse ha una vita e una fisionomia sua ed autonoma. Ma, anche,
attraverso tali personaggi, Dante esprime molti aspetti della propria
personalità; anzi egli, nella sua opera, è sempre presente con i suoi
sentimenti, con i suoi dubbi, con le sue speranze, le sue delusioni e i suoi
ideali. Per questo è stato giustamente detto che il vero protagonista della Commedia è
Dante nella sua complessa e mossa personalità.
Significato e
valore della cultura dantesca - Risulta evidente dalla biografia di
Dante la vastità della sua cultura, che spazia nelle più svariate discipline e
trova alimento nelle diverse epoche storiche, da quella classica e pagana,
almeno nei modi e nella misura in cui questa poteva essere recepita e accolta
nel Medio Evo, a quella cristiana e romanza: da Aristotele a San Tommaso, da
Virgilio, Orazio, Lucano ai trovatori provenzali e ai poeti italiani più
vicini.
Ma l’importanza
della cultura dantesca non sta tanto nel suo carattere vastamente
enciclopedico, carattere del resto comune al mondo medioevale, ma nel fatto che
essa non è mai passivo apprendimento, ma è diretta alla soluzione di problemi,
siano essi religiosi, morali, politici o letterari.
Diventa in tal
modo attiva passione culturale; e proprio per questa ragione può fare da
supporto, specie nella Commedia, alla poesia dantesca, che dalla
cultura riceve stimoli e di essa si arricchisce come di nutrimento vitale.
Il pensiero
politico di Dante - Dante era convinto che l’Impero fosse la sola
struttura politica capace di portare e mantenere la pace nel mondo. Essendo
esso, come già l’Impero romano, un potere universale, e come tale in grado di
controllare le varie strutture politiche particolari (Stati e Comuni)
affermatesi al suo interno, l’Impero, nel pensiero dantesco, aveva la
possibilità di porre fine alle contese e alle guerre che laceravano le sue
province.
Era questa, in
realtà, una visione generosa, ma utopistica, e anche anacronistica, perché
ormai l’autorità imperiale era al declino, ed era accettata solo formalmente da
coloro che in teoria avrebbero dovuto considerarsi suoi sudditi: ne è un
esempio il fallimento dell’impresa di Arrigo VII che si vede coalizzati contro
di sé i Comuni italiani. L’Impero vagheggiato da Dante, qualunque fosse il
Paese di origine dell’imperatore, doveva considerarsi romano in quanto erede
dell’Impero romano, e avere in Roma il suo centro e la sua vera capitale.
Se il sogno di
un forte impero universale era il frutto dell’anelito dantesco all’instaurazione
di un pacifico ordine nel mondo, il Comune, Firenze, era stato per Dante il campo
del suo concreto operare e delle sue impetuose passioni politiche, rimaste ben
vive anche dopo l’esilio e tradotte poeticamente nella Commedia in
figure ed episodi: nella predizione di Ciacco sul futuro destino di Firenze,
nella generosa figura di Farinata degli liberti, nella condanna che Brunetto
Latini pronuncia contro i molti fiorentini rozzi e corrotti che opprimono una
minoranza onesta e scelta, nelle invettive contro le nuove classi arricchite
che hanno alterato l’antico equilibrio sociale. E, in contrasto con la Firenze
dei suoi tempi, Dante rievoca, nel nostalgico canto XV del Paradiso, la
Firenze di tre generazioni precedenti, la Firenze «dentro della cerchia
antica», in cui la vita comunale si svolgeva misurata e serena, senza ambizioni
smodate e senza lotte di fazioni; e non vi erano proscrizioni né esili, così
che ognuno sapeva dove sarebbe stato sepolto.
Quanto all’Italia,
Dante la riconosce ripetutamente come entità unitaria territoriale e
linguistica (il «bel paese là dove il sì suona»), ma non le attribuisce
autonoma consistenza politica. L’Italia è per lui una provincia dell’Impero,
certo la più bella delle sue province, «il giardin dell’imperio», e anche la
più nobile, in quanto in essa si trova Roma.
Dante
attribuisce la corruzione del mondo all’incapacità dell’imperatore a reggerlo
con autorità ed equità. Ma a sua volta, causa della debolezza dell’Impero è l’arbitraria
ingerenza della Chiesa nell’ambito politico. Assumendo funzioni che sono di
spettanza del potere imperiale, i papi «politici», che dimenticano l’insegnamento
evangelico «Date a Cesare quel che è di Cesare», accumulano in sé i due poteri,
quello temporale simboleggiato dalla spada, e quello
spirituale simboleggiato dal pastorale; di conseguenza i due
poteri, così uniti, non possono più esercitare l’uno sull’altro un reciproco
salutare controllo. Da tale situazione deriva evidente danno all’Impero, che
rimane esautorato di ogni potere; ma danno non meno grave ne viene alla Chiesa,
che si mondanizza e, perseguendo ambizioni terrene di potere, dimentica la
funzione spirituale che Dio le ha assegnato.
La salvezza
delle due grandi istituzioni universali, Impero e Chiesa, e soprattutto la
salvezza del mondo, poggia, nel pensiero dantesco, sulla autonomia reciproca
del potere spirituale e del potere temporale: spetta all’Imperatore guidare gli
uomini alla instaurazione della giustizia e della pace terrena; spetta al Papa
guidarli alla salvezza spirituale. Queste conclusioni, esposte sistematicamente
nella Monarchia, sono proposte con calda passione, e si traducono
in poesia, in molti passi della Commedia. Ad esse si collegano,
nel poema, le violente invettive contro Bonifacio VIII, il papa politico per
eccellenza, invettive che culminano nel Paradiso con la
condanna scagliata da San Pietro contro i prelati avidi di potere, lontani dal
vero insegnamento di Cristo.
Il latino
«lingua regina» e il volgare «sole nuovo» -Vissuto in un periodo in cui il
latino continuava ad essere la lingua della cultura e degli studi ufficiali,
mentre il volgare, la lingua emergente, si andava costruendo nell’uso
quotidiano e nelle sperimentazioni poetiche, Dante è uno dei primi ad
affrontare il problema della lingua italiana nella sua genesi e nelle sue
implicazioni.
La lingua
regina, egli dice con immagine tipica del suo tempo, è il latino, in quanto è
lingua stabile, fissa, codificata nella grammatica e nella sintassi. Ma, con
spirito proiettato verso il futuro, egli si rende conto che la nuova società,
lontana ormai nel tempo e nello spirito da quella latina, con nuovi interessi,
nuova sensibilità, nuovi problemi, esige, per esprimere se stessa, una nuova
lingua che da lei e in lei si generi e si evolva: e questa non può essere che
il volgare, definito nel Convivio «sole nuovo», destinato a
prevalere sull’altro sole, il latino, che tramonterà.
Secondo Dante il
volgare non deve essere solo la lingua degli affetti privati, la lingua - come
dice nel Convivio - in cui suo padre e sua madre si sono
conosciuti e parlati, e che perciò ha in qualche modo presieduto alla sua
nascita; ma deve diventare l’aristocratico strumento espressivo, il «volgare
illustre», comune a tutti i poeti italiani; e può essere anche la lingua della
cultura e della scienza, quando cultura e scienza cessino di essere strumento
elitario, di pochi, e diventino un bene diffuso ai molti. Per questa ragione,
staccandosi dall’uso del suo tempo, egli scrive in volgare la sua «summa» di
sapere, il Convivio.
Francesco
Petrarca
La vita -
Petrarca nacque ad Arezzo nel 1304 da famiglia fiorentina di parte Bianca, che
era stata costretta all’esilio dopo il trionfo dei Neri nella città. Il padre,
ser Petracco, nel 1312 lasciò l’Italia per Avignone, in Provenza, dal 1308 sede
del papato, e che di conseguenza era diventata un centro ricco di attività e di
traffici che offriva buone possibilità di lavoro; ser Petracco, infatti,
divenne notaio presso la Corte papale.
Francesco,
insieme col fratello Gherardo, dopo aver appreso i primi rudimenti di
grammatica e di retorica con Convenevole da Prato a Carpentras, vicino ad
Avignone, dove la famiglia si era stabilita, fu avviato allo studio del diritto
a Montpellier, frequentando la facoltà delle arti che era un inizio di
formazione per gli studenti di qualunque ambito; passò poi, nel 1320, all’Università
di Bologna, università giuridica per eccellenza, dove convenivano discepoli da
tutta Europa. Ma gli studi di diritto non erano congeniali a Petrarca, che ad
essi preferiva quelli di letteratura e di poesia.
Petrarca fu
allievo di Convenevole da Prato maestro di Niccolò da Prato, cardinale che
aveva cercato di mettere pace tra guelfi bianchi e neri a Firenze; e in seguito
compì gli studi universitari a Monpellier in Provenza.
Dal 1320 insieme a Gherardo, fu inviato a Bologna per studiare diritto civile: qui venne per la prima
volta in contatto con la tradizione poetica italiana.
Tornato ad
Avignone dopo la morte del padre (1326), vi trascorse alcuni anni di vita
brillante e mondana.
Fu in questo
periodo, nel 1327, che conobbe la donna che sarebbe stata l’amore tenace e
irrealizzabile di tutta la sua vita e che avrebbe avuto tanta parte nella sua
opera: una giovane signora avignonese che gli studiosi hanno creduto di poter
identificare con una Laura de Noves, maritata a Ugo de Sade.
Intorno al 1330, consumato il modesto patrimonio paterno, Petrarca
aveva intanto assunto gli ordini minori ecclesiastici, non per fervore
religioso, ma, come spesso avveniva allora, per ottenere una dignitosa
sistemazione economica. Entrò al servizio del cardinale Giovanni Colonna che
gli fu – come dice lo stesso Petrarca – quasi fratello e padre più che padrone,
e si valse di lui per incarichi congeniali alle sue attitudini e alla sua
cultura.
Fra il 1333 e il
1337 compì, per studio e per diletto, una serie dì viaggi per l’Europa: nella
Francia settentrionale, nelle Fiandre, in Germania e infine in Italia, dove
Roma lo colpì col fascino delle sue tradizioni pagane e cristiane.
Ritornato in
Provenza nel 1337, si ritirò a vivere in una casetta di campagna presso
Avignone, in Valchiusa, una località appartata ed amena, proprio alle fonti del
Sorga, il fiume dalle «chiare, fresche e dolci acque», che gli offriva, dopo le
dispersioni mondane e dei viaggi, un soggiorno tranquillo, dove raccogliersi
nei suoi amati studi.
Petrarca trascorse il periodo avignonese negli studi, senza
peraltro trascurare i piaceri mondani; proprio da due relazioni avute nel 1337
e nel 1343 nacquero i figli Giovanni e Francesca, che legittimò solo in
seguito, curandone la sistemazione economica e l'educazione.
Pensava di
trascorrere in Valchiusa tutta la vita. Ma in realtà, irrequieto per
temperamento, se ne allontanò più volte fra il 1341 e il 1353, anni in cui
soggiornò alternativamente in Provenza e in Italia: appoggiato dalla illustre
e potente famiglia romana dei Colonna (fu amico anche di Stefano e Giovanni
Colonna), compì in quegli anni numerosi viaggi in Europa, spinto dall'irrequieto e
risorgente desiderio di conoscenza umana e culturale che contrassegna l'intera
sua agitata biografia: fu a Parigi, a Gand, a Liegi (dove scoprì due orazioni di Cicerone), ad Aquisgrana, a Colonia, a Lione.
Parallelamente
alla formazione culturale classica e patristica,
cresceva il suo prestigio in campo politico: nel 1335 ebbe
inizio il suo carteggio con il Papa,
inteso non solo a sedare alcune rivolte nella penisola, ma anche a ottenere il
ritorno della sede pontificia da Avignone a Roma, affinché si mettesse fine
alla cosiddetta cattività
avignonese.
All'anno
successivo risale il progetto delle opere umanisticamente più impegnate, la cui
parziale stesura, dell'Africa in
particolare, gli procurò tale notorietà che contemporaneamente (il 1º settembre 1340) gli giunse da Parigi e da Roma
il desiderato invito dell'incoronazione poetica.
Petrarca scelse
Roma, Petrarca scese in Italia a Napoli, presso la corte di Roberto d'Angiò: questi aveva
ereditato nel 1309 il trono di Napoli dal padre Carlo II e subito,
contrastando la venuta dell'imperatore Enrico VII, era diventato il leader del guelfismo italiano; colto e
mecenate, aveva ospitato a corte Giovanni
Boccaccio nei primi passi della sua
carriera letteraria.
Petrarca lo conobbe all'inizio del 1341, quando dimorò
circa un mese a Napoli per essere esaminato prima dell'incoronazione poetica;
probabilmente l'incontro era stato organizzato da Dionigi da Borgo Sansepolcro. Sotto
il patrocinio del re Roberto
D'Angiò, lesse alcuni episodi del poema e discusse, in tre giornate, di poesia,
dell'arte poetica e della laurea: l'8 aprile del 1341 veniva incoronato in Campidoglio a Roma: questo altissimo
riconoscimento lo confortò a proseguire la stesura dell'Africa.
I ricordi delle conversazioni avute con il re prima
dell'esame vero e proprio disegnano il prototipo del perfetto sovrano, saggio e
virtuoso oltre che esperto politico, e tale è la raffigurazione di lui che
ritorna costantemente nelle opere petrarchesche; dietro sua richiesta, inoltre,
Petrarca gli dedicò l'Africa. Fece però in tempo a indirizzargli solo tre
lettere, dato che Roberto morì poco dopo, all'inizio del 1343; in seguito alla
sua scomparsa il regno precipitò in una profonda crisi, come Petrarca potè
constatare quello stesso anno nel suo secondo e ultimo soggiorno napoletano e
come raccontò allegoricamente nell'egloga II del Bucolicon carmen. In memoria del
defunto compose anche un epitaffio laudativo.
Dopo l’incoronazione
Petrarca fu ospite di Azzo da Correggio a Parma fino al 1342.
Dall'autunno del 1344 al 1347 risiedette a Valchiusa, donde lo
distolse l'entusiastica adesione alla rivolta di Cola di Rienzo: l’impresa
di Cola, che sembrava riuscisse a restaurare in Roma l’antica grandezza
repubblicana. Petrarca si propose di appoggiare l’impresa con la sua autorità
ed il suo consiglio, ma il viaggio verso Roma fu interrotto dalla notizia del
fallimento del tentativo di Cola.
Rinunciò al
viaggio romano e si arrestò a Parma, dove lo raggiunse la notizia (19 maggio
1348) della morte di Laura, colpita dalla peste.
Lasciata Parma,
Petrarca riprese a vagabondare per l'Italia: a Firenze rinnovò i legami di
amicizia con Giovanni Boccaccio ed altri letterati toscani, e a Roma,
fino al 1351, quando, rifiutata
ogni altra offerta, rientrò (anche su pressione papale) in Provenza, dove
scrisse le prime Epistole a Carlo
IV di Boemia perché scendesse in
Italia a sedare le rivolte cittadine.
Nel giugno del 1353, in seguito alle aspre e pungenti
polemiche ingaggiate con l'ambiente ecclesiastico e culturale di Avignone,
Petrarca lasciò definitivamente la Provenza ed accolse l'ospitale offerta di Giovanni Visconti, arcivescovo e
signore della città, di risiedere a Milano
alla corte viscontea.
Malgrado le
critiche di amici e nemici, che gli rimproveravano la scelta di mettersi al
servizio di un signore che avrebbe presumibilmente limitato la sua libertà,
collaborò con missioni ed ambascerie (incontrò l'imperatore a Mantova e a Praga) all'intraprendente politica
viscontea, cercando di indirizzarla verso la distensione e la pace.
Nel giugno del 1359 per
sfuggire alla peste abbandonò Milano per Padova presso i Da Carrara.
Nel 1362 Petrarca si trasferì a Venezia, dove
la Repubblica Veneta gli donò una casa in cambio della
promessa di donazione, alla morte, della sua biblioteca,
che era allora certamente la più grande biblioteca privata d'Europa, alla città
lagunare. Si tratta della prima testimonianza di un progetto di
"bibliotheca publica". Il tranquillo soggiorno veneziano, trascorso
fra libri e amici, fu turbato nel 1367 dall'attacco maldestro e violento
mosso alla cultura, all'opera e alla figura sua da quattro filosofi averroisti: amareggiato per
l'indifferenza dei veneziani, andò via da Venezia.
Petrarca, dopo
alcuni brevi viaggi, accolse l'invito di Francesco
da Carrara e si stabilì a Padova.
Nel 1370, si
trasferì con i suoi libri ad Arquà,
un tranquillo paese sui colli
Euganei, una località campestre che gli ricordava la raccolta solitudine di
Valchiusa, nel quale si era occupato – come sua abitudine – di far adattare e
restaurare una modesta casa, generoso dono del signore padovano.
Trascorse gli
ultimi anni ad Arquà e qui morì nel 1374.
Le opere -
Numerose sono le opere di Petrarca, scritte parte in latino e parte in volgare.
Le opere in latino si possono distinguere in opere di ispirazione classica e
opere di ispirazione cristiana.
1. Fra quelle del primo gruppo la più importante
è l’Africa, poema epico in 9 libri, in esametri, che ha per argomento la
seconda guerra punica. Petrarca attinge la materia soprattutto dalle Storie di
Livio e si propone come modello poetico l’Eneide di Virgilio. L’opera
si incentra sulle gesta di Scipione l’Africano nella seconda guerra punica a
Zama. I primi due libri raccontano i personaggi illustri della storia romana.
Il terzo libro racconta del re di Numidia, alleato dei Romani. Il quarto libro
è l’elogio di Scipione. Il quinto libro racconta del suicidio della moglie del
re di Numidia. Il sesto libro racconta della morte di Magne, fratello di
Annibale, dovuta alle tante ferite ricevute in battaglia. Il settimo e l’ottavo
libro raccontano la battaglia di Zama. Il nono libro racconta il ritorno di
Scipione in patria. L’Africa è un’opera di grande ambizione, dalla
quale Petrarca si aspettava successo e gloria letteraria, ma che in realtà
appare modesta di risultati. Manca al poeta la capacità di oggettivazione e di
strutturazione richieste dal genere epico. E di tutta l’opera sono poeticamente
vivi solo pochi passi di timbro lirico in cui, attraverso gli stati d’animo di
alcuni personaggi, il poeta esprime la sua dolorosa coscienza della caducità
dei valori terreni;
2. Fra le opere del secondo gruppo, quelle cioè
di riflessione etico-religiosa, di gran lunga la più alta ed intensa è il Secretum, in
tre libri. È un dialogo che il poeta immagina si svolga, per la durata di tre
giorni e alla presenza della Verità, fra lui e Sant’Agostino, e che si risolve
in un severo esame di coscienza del Poeta, in un sottile ed implacabile
scandaglio che egli compie nella propria anima. Il primo libro racconta dell’incontro
di Sant’Agostino con Francesco. Sant’Agostino racconta che Francesco è privo di
forza di volontà. Il secondo libro Sant’Agostino racconta che Francesco è
colpevole di tutti i peccati capitali, escludendo l’invidia e metà dell’avarizia.
Il terzo libro racconta che Francesco a causa della mancanza di volontà non
riesce ad abbandonare le cose terrene.
3. Parte a sé fra gli scritti latini di Petrarca
occupa il suo vastissimo Epistolario,costituito dalle lettere che egli
scrisse nel corso della vita, e che, per la massima parte, rielaborò, ordinò e
pubblicò personalmente. Esse, pur attraverso il diaframma della rielaborazione
letteraria, ci consentono di conoscere momenti e situazioni della vita del poeta,
e soprattutto di penetrare nella sua inquieta e complessa psicologia. Alcune di
queste lettere sono scritte in versi esametri (Epistolae metricae);
4. È scritto invece in volgare il capolavoro di
Petrarca, il Canzoniere, raccolta di 366 componimenti poetici
composti e rielaborati in un lungo arco di anni; vi prevalgono i sonetti (317),
ma vi sono anche numerose canzoni, e poi sestine, ballate, madrigali. Per la
massima parte sono componimenti dedicati a Laura, e costituiscono una specie di
poetico romanzo amoroso, ma anche uno studio acuto dell’anima di Petrarca,
vista nei turbamenti, nei dolori, nelle gioie della passione amorosa. Sono
state divise dal poeta stesso in due gruppi: liriche scritte per Laura viva e
liriche scritte dopo la morte di lei, che avvenne nella peste del 1348 (Rime in vita e Rime
in morte di Madonna Laura). Accanto alle liriche per Laura ve ne sono
poche altre di diverso argomento: le due canzoni di argomento politico Italia
mia e Spirto gentili alcune liriche religiose
culminanti nella Canzone alla Vergine; e un gruppo di sonetti contro la corruzione della Curia
avignonese;
5. Agli anni tardi appartiene l’altra opera in
volgare, I Trionfi, poema allegorico sulla vanità e sulla
caducità dei valori terreni, che raggiunge rari momenti di poesia solo là dove
riaffiora il ricordo della bellezza di Laura e della sua morte serena. I
trionfi sono sei visioni in terzina dantesca. Il trionfo dell’amore racconta
l’amore per Laura. Il trionfo della pudicizia racconta che
Laura, libera i prigionieri e torna in patria da eroina. Il trionfo
della morte racconta che Laura, durante un viaggio, incontra la morte
dove gli toglie un capello e muore. Il trionfo della fama racconta
che Laura è seguita da tre cortei: quello dei cavalieri, dei filosofi,
letterati. Il trionfo del tempo racconta che il tempo cancella le
glorie del tempo. Il trionfo dell’eternità racconta che le glorie
rimarranno solo a Dio.
Fra Medioevo
e imminente Rinascimento: l’inquieta psicologia di Petrarca -Quando Dante
moriva, Petrarca aveva diciassette anni. I due poeti vivono quindi in periodi
storici cronologicamente assai vicini; eppure essi esprimono due momenti di
civiltà che vanno ormai diversificandosi, e in gran parte si sono già diversificati.
Dante accetta senza incertezze la gerarchia medioevale dei valori che mette Dio
e la vita eterna al vertice delle aspirazioni umane. Petrarca dà voce, spesso
dolente, alla crisi di passaggio fra il Medioevo e il Rinascimento, età quest’ultima
che pone in primo piano i valori terreni e mondani. Egli infatti è
medievalmente convinto che la vita che conta è quella eterna, che Dio è la meta
cui l’uomo deve tendere; e invidia coloro – come suo fratello che si è fatto
monaco – che sanno comportarsi coerentemente con questi principi. Ma egli sente
in modo altrettanto intenso l’attrazione per i valori mondani, la fama, il
successo e soprattutto l’amore: al loro richiamo non sa sottrarsi, e nello
stesso tempo li giudica fuorvianti, e ne prova rimorso e senso di colpa. L’oscillazione
fra terra e cielo, poli dell’inquieto spirito petrarchesco, costituisce un
motivo ricorrente nella sua vita e nella sua opera.
In una delle più
belle fra le Epistole, in cui descrive la scalata sua e del
fratello su un monte della Provenza, il Ventoso, con acutezza egli si definisce
uomo dall’anima ambivalente (uterque
homo). Nel diverso modo con cui i due giovani affrontano la
salita, egli simbolicamente traduce il loro diverso modo di affrontare la vita
e di muovere verso il suo fine, che è Dio e la virtù: Gherardo punta diritto
alla cima e vi giunge rapidamente e con sicurezza, Francesco si disperde nelle
vallette laterali (cioè simbolicamente si lascia attrarre dalle seduzioni
mondane), nella vana speranza di trovare una strada meno ripida per salire;
così che quando alla fine anch’egli giunge in vetta, vi giunge ben più stanco e
in ritardo.
Analogamente, in
quel capolavoro di penetrazione psicologica che è il Secretum, egli individua come male
essenziale della sua anima la indecisa perplessità fra il richiamo del mondo e
quello di Dio. Dopo aver ostinatamente resistito alle accuse mossegli da Sant’Agostino
(cioè dalla sua coscienza), circa la sua debolezza di volontà, e circa l’ansia
e l’attrazione per i valori terreni, alla fine, lasciatosi faticosamente
convincere, promette che cambierà vita. Si rende conto che dovrebbe farlo subito,
ma troppo forte è il richiamo delle passioni mondane, delle «faccende profane»,
perché ciò sia possibile. Così cambierà, ma più tardi: «Accoglierò, risponde al
Santo, gli sparsi frammenti dell’anima mia e diligentemente vigilerò su di me.
Ma ora, mentre parliamo, mi attendono molte e grandi faccende, per quanto
profane»; e ricade così, come conclude Agostino, «nell’antica contesa».
Dalla
Beatrice dantesca alla Laura petrarchesca – Questa ambivalenza psicologica
diventa poesia nel Canzoniere. Se
Beatrice, in Dante, era figura fisicamente evanescente, angelo in terra, guida
dell’uomo a Dio, tanto che senza frizione poteva nella Divina Commedia tradursi
in simbolo della teologia e della Grazia, Laura è invece una creatura terrena.
L’altezza del suo spirito, l’onestà, la pudicizia che regolano la sua vita e
che le impediscono di corrispondere all’amore del poeta, si accompagnano in lei
a una splendente bellezza fisica per la quale, oltre che per le sue virtù, il
poeta la desidera e l’ama. Tutto il Canzoniere è illuminato da questa bellezza: «i
capei d’oro» la «bella mano», il «bel fianco». Una bellezza cui fa da sfondo la
natura della Provenza, mediterranea, solare, fra prati e acque.
Ma la felicità
dell’amore è contrastata nell’intimo del poeta da un incancellabile e
ricorrente senso di colpa, dalla coscienza che questa passione terrena lo
allontana da Dio. È uno stato d’animo doloroso, da cui nascono alcuni dei
componimenti più intensi della raccolta.
Cultura
cristiana e cultura classica di Petrarca – La bivalenza psicologica di
Petrarca si riflette nelle sue scelte culturali. Egli è buon conoscitore dei
Testi sacri, specie di quelli dei Padri della Chiesa.
Lo scrittore
della sua vita, il punto di riferimento etico nelle sue incertezze e nei suoi
turbamenti, non è però lo «scolastico» San Tommaso, il santo dalle grandi
certezze caro a Dante e a tutto il Medioevo, ma Sant’Agostino, il Padre della
Chiesa che è giunto a Dio salvandosi dalle passioni terrene, e che ha saputo
risolvere in sé, attraverso la sofferenza, quel contrasto fra Terra e Cielo che
rimane la fondamentale irrisolta contraddizione del Poeta.
Ma Petrarca ama
allo stesso modo gli scrittori classici: Cicerone, Virgilio, Livio, Orazio, di
cui apprezza tanto il valore artistico che la saggezza morale. Nei suoi viaggi
per l’Europa cerca ostinatamente testi di autori classici andati perduti
durante il Medioevo; confronta fra loro, precorrendo un lavoro che sarà tipico
degli Umanisti, i vari manoscritti di una stessa opera per rimediare alle
mutilazioni e agli errori che ne hanno alterata la lezione.
Ma ciò che
caratterizza in senso preumanistico il rapporto di Petrarca coi classici e che
lo stacca dal Medioevo, è il fatto che egli non subordina il loro messaggio
alla visione cristiana del mondo, ma vuole invece recuperarlo nella sua autenticità
e integrità.
Il pensiero politico di Petrarca – Petrarca vive in un periodo in
cui al declino delle vecchie istituzioni (Chiesa e Impero) si andava
aggiungendo la crisi della prima società borghese: il Comune, che stava per
essere sostituito dalle Signorie, in cui il potere era detenuto da singole
famiglie o da oligarchie. Petrarca accetta la fine dell'istituzione comunale e
lo sviluppo delle Signorie, ma in questo senso: egli vorrebbe che le Signorie,
liberatesi dall'ingerenza dell'Impero e della Chiesa, si alleassero tra loro
per restaurare la Repubblica della Roma antica, vista non come culla dell'Impero e della Chiesa, ma in
sé e per sé, cioè come civiltà ricca di virtù, di eroismo, di forza morale – una
civiltà alternativa a quella medievale.
a)
Dall’Impero e dal Comune all’Italia –
Nonostante la breve differenza di anni che lo separa da Dante, gli ideali
politici di Petrarca sono assai diversi da quelli danteschi. Egli non vede più
alcuno strumento di salvezza nell’Impero, che del resto si andava sempre più
esautorando; né ha interesse per il Comune, nella cui struttura non è mai
vissuto; e comunque i Comuni in Italia venivano via via scomparendo per lasciar
posto alle Signorie.
L’interesse politico di Petrarca si polarizza invece sull’Italia, che
non considera più, come Dante, provincia dell’Impero, e neppure ancora come
nazione, ma come entità politica che può raggiungere autonomia ed unità
mediante l’accordo fra le varie Signorie che in essa si sono costituite e che
tendono a dar vita a stati regionali. È questa la speranza che anima la Canzone
all’Italia, una delle due liriche politiche del Canzoniere, in
cui il poeta esorta, in nome dell’Italia madre comune, i Signori italiani a
deporre gli odi e a cessare le lotte fratricide, così che possa fra loro
stabilirsi un legame di solidarietà che porti la pace nella penisola.
b)
«Virtù contro furore» – L’unità italiana ha il suo cemento, oltre che nell’interesse
comune dei Signori italiani, nella comune tradizione romana. L’ammirazione di
Petrarca peraltro non va più, come quella dantesca, all’antica Roma imperiale,
ma alla Roma repubblicana degli Scipioni e dei Bruti, quella che Cola Di Renzo
aveva tentato di far risorgere.
La tradizione romana si identifica con la civiltà e il poeta la
contrappone orgogliosamente al germanesimo, che è barbarie. Questa opposizione
è uno dei temi fondamentali della Canzone all’Italia sopra
ricordata. La capacità militare romana vi è definita virtù, cioè
valore disciplinato e consapevole, quella germanica è furia selvaggia, furore.
Le terre germaniche sono deserti strani, quelle italiane dolci campi.
Di qui l’accusa rivolta ai Signori d’Italia di avvalersi per le loro
guerre di milizie mercenarie, che, arruolate prevalentemente in Germania, non
solo consentono il permanere di uno stato di guerra, e della guerra fanno un
mestiere, ma portano la barbarie germanica nel nostro Paese, e sono come
un diluvio che devasta le nostre terre feconde.
Storia della
novella: il Medioevo – La novella, come genere autonomo si affermò nel
Medioevo dapprima con i fabliaux,
novelle in versi a carattere satirico e popolaresco fiorite in Francia alla fine del XII secolo.
Successivamente si diffuse l’exemplum, brevissimo racconto usato
dai predicatori a fine
didascalico per spiegare i principi morali alla gente e per guidare, attraverso il diletto della storia narrata, verso una
verità religiosa e un comportamento morale.
L’exemplum presenta
una vicenda che deve servire da modello e da ammonimento per tutti ed è
espressione di valori considerati immobili, assoluti e quindi eternamente validi. C’erano poi i racconti riguardanti
le vite dei santi e i loro miracoli.
Si diffusero
infine i racconti orientali, provenienti
dalla favolosa Persia, dall’Egitto e dall’India, come il Libro dei sette savi, un’opera indiana tradotta durante il Medioevo prima in francese e poi in italiano.
Di queste opere l’esempio più famoso è la raccolta
di novelle Le mille e una notte, una raccolta di origine
araba risalente al IX-X secolo. In essa si ritrovano personaggi storici
come il potente Califfo di Baghdad, Hamn-al-Rashid, leggendari, come Sindbad il marinaio o come
il giovane Aladino con la sua lampada magica. Storie di
magia e d’avventura, di furbizia e di coraggio, inserite in una storia
principale, la storia-cornice della principessa Sheherazade, l’affascinante
narratrice di storie esotiche e favolose.
La novella appare nella
letteratura italiana intorno al XIII secolo. Alle spalle di questo nuovo modello letterario c’erano
la grande tradizione antica (si
pensi, ad esempio, a scrittori come Petronio o Apuleio) e le varie forme della narrativa
medievale, sia occidentale sia orientale,
una narrativa nata essenzialmente come tradizione orale e poi gradualmente
affidata alla scrittura.
Alla fine del Duecento, fu compilato il Novellino, la prima raccolta organica di racconti della letteratura italiana. In
questa raccolta il termine novella, pur continuando ad indicare essenzialmente una narrazione orale, comincia ad acquisire anche un
significato e uno spessore
letterario. Come suggerisce il nome
stesso, la raccolta punta al nuovo, all’insolito, al sorprendente,
a ciò che è irripetibile e relativo, piuttosto che esemplare e assoluto. Essa non si prefigge dunque scopi morali,
ma vuole divertire e distrarre il lettore, celebra valori umani e terreni,
colloca fatti e personaggi in una concreta dimensione spazio-temporale.
Giovanni
Boccaccio – La novella raggiunse la forma più perfetta con il Decameron di
Boccaccio.
Il Decameron è una raccolta di cento novelle sono racchiuse in una cornice [[23]]
che le giustifica e le ordina, organizzandole intorno a un filo conduttore.
Il Decameron costituì per molto tempo, a partire dai Racconti di Canterbury di
Chaucer, il modello della narrazione breve con
caratteristiche diverse da tutte
le altre forme narrative medievali.
La vita –
Boccaccio nacque fuori dal matrimonio a
Certaldo, vicino a Firenze, nel 1313.
Si ipotizza che
sua madre fosse una donna di bassa estrazione
sociale mentre suo padre Boccaccio di Chellino era un mercante prima
agente e poi socio della potente compagnia bancaria dei Bardi.
Nel 1327, subito
dopo i primi studi, il padre avviò il figlio alla mercatura e lo portò con sé a
far pratica a Napoli, presso una Casa di commercio: la compagnia fiorentina dei
Bardi, insieme ai Peruzzi e agli Acciaiuoli, deteneva il monopolio delle
imprese finanziarie del Regno di Roberto d'Angiò. Qui Giovanni collabora
all'attività paterna e impara a conoscere direttamente i vari strati sociali, ma
l’attività mercantile non gli era congeniale. Fu allora indirizzato dal padre,
deciso com’era a trovargli comunque una professione lucrosa, verso l’università
dove seguì per due anni le lezioni di Cino da Pistoia (1330-31) ma nemmeno gli
studi di diritto canonico gli piacquero li seguì di malavoglia e non li portò a
termine.
Iniziò così a
dedicarsi alla lettura e alla conoscenza della tradizione lirica volgare.
Nel fastoso e
colto ambiente napoletano, che aveva il suo centro nella ricca e raffinata
corte di re Roberto d’Angiò, Boccaccio visse l’esistenza brillante e mondana
della società aristocratica e altoborghese che aveva preso a frequentare, fra
feste e ritrovi che si svolgevano in città e negli ameni dintorni.
La sua
formazione intellettuale e umana si compì dunque nel più importante centro
culturale italiano: lo Studio napoletano
– la prestigiosa Università fondata da Federico II – la ricchissima biblioteca
reale e la stessa raffinata corte angioina si configurano come punto d'incontro
tra la cultura italo-francese e quella arabo-bizantina, attirando da ogni parte
poeti, letterati, eruditi, scienziati e anche artisti come Giotto, che in
quegli anni stava lavorando agli affreschi del Castel Nuovo.
La Napoli
di Roberto d'Angiò (1278 – 1343) era una città in piena espansione.
Dalla morte dell'austero Carlo II (1308), il processo di rivitalizzazione della
città e del Regno si era consolidato.
Con l'ascesa al
trono di Roberto il saggio, alla
fioritura urbanistica si affiancò la vivacità commerciale – con la presenza di
fiorentini, francesi, catalani – e politica, accreditandosi Roberto come il
capo di fatto del guelfismo italiano. Sul piano culturale, lo Studio e
la corte erano prestigiosi punti di riferimento per intellettuali di
rilievo anche se forse di taglio ancora medievale,
come Paolo da Perugia, bibliotecario di corte, o Andalò dal Negro, astrologo e
geografo, entrambi mentori del giovane Boccaccio. A Napoli il re accolse Petrarca,
venuto per l'incoronazione: il valore che assumeva la nuova cultura incarnata
nel giovane, ma già autorevole Petrarca, gli era ben chiaro, ed egli fu felice
di acconsentire ai suggerimenti del padre Dionigi da Borgo Sansepolcro, chiamato
a Napoli dal re Roberto d'Angiò presso la sua corte nel 1338, quando
questi gli propose di presiedere alla cerimonia. Petrarca si sentì onorato
dell'amicizia di Roberto e ripose in lui, finché visse, molte delle sue
speranze politiche, contribuendo a creare l'immagine del «buon re cicilian che
‘n alto intese», con cui il sovrano angioino è passato alla storia.
In questa Napoli in cui Boccaccio aveva avuto la
possibilità di formarsi un’ampia seppur disordinata cultura nelle arti liberali e in cui
aveva conosciuto Cino
da Pistoia, il grande epigono dello stilnovismo, professore
di diritto nello Studio napoletano dal 1330 al 1331, Sennuccio del Bene,
ma soprattutto l'amico di Petrarca, padre Dionigi
da Borgo San Sepolcro, col quale strinse amicizia.
Quest’ultimo divenne per il giovane Boccaccio una sorta di guida
intellettuale e da lui imparò ad amare e a stimare Petrarca che tanto
prometteva con le sue opere latine. Dionigi da Borgo San
Sepolcro e il notaio regio Barbato da Sulmona influenzarono la sua
vita indirizzando verso l'Umanesimo i suoi studi, già condotti nella conoscenza
del greco col monaco calabrese Barlaam e poi approfonditi, dopo il ritorno a
Firenze, sotto la guida dell'altro calabrese Leonzio Pilato, lettore in quello
Studio e primo traduttore di Omero in latino.
Nel contempo, Boccaccio
chiariva a se stesso la sua autentica vocazione, che era quella letteraria e
poetica e che si rivelò presto prepotente ed esclusiva. In un’opera della tarda
maturità così egli scrive di sé: «Ma di qualunque attitudine abbia dotato gli
altri la natura, me fin dall’alvo materno, per quel che mi attesta l’esperienza,
ha disposto alle poetiche meditazioni, e, a mio giudizio, sono nato per
questo».
Si formò in
questi anni, con iniziativa di intelligente autodidatta, una vasta cultura che
spaziava dalla letteratura classica a quelle romanze, italiana e francese e di
esse andava alimentando, già da questi anni, la sua opera in versi e in prosa.
Napoli con il
suo vivace mondo culturale, con l'aristocratica, elegante e gaia società della
sua corte, con gli svaghi, i diletti di questi anni spensierati e felici fu
anche il luogo di una sua importante esperienza amorosa: qui conobbe e amò Fiammetta,
nome sotto il quale si celava probabilmente quello di una dama della corte, da
alcuni studiosi identificata con una Maria dei conti d’Aquino, figlia
illegittima del re Roberto d'Angiò. Fu un amore infelice per l’incostanza e l’infedeltà
della donna, ma che lasciò traccia nella vita e nell’opera di Boccaccio: dal
nome di lei prende il titolo uno dei suoi scritti romanzeschi in prosa,
la Fiammetta, e Fiammetta sarà da lui chiamata una delle
giovani narratrici del Decameron.
I dodici anni
napoletani rappresentarono per Boccaccio il periodo più fertile e vivo della
sua esistenza e ad esso, per il resto della vita, andò costantemente il suo
ricordo e la sua nostalgia: sono questi gli anni delle Rime, della Caccia
di Diana, del Filostrato, del Filocolo, del Teseida (terminato poi a
Firenze).
A seguito del
fallimento della banca dei Bardi, che diede un grave colpo agli interessi del
padre, nel 1340 Boccaccio dovette lasciare Napoli.
Tornò così a
Firenze. Dopo gli splendori napoletani, la casa paterna e la vita chiusa della
città apparvero al giovane intollerabilmente squallide e tristi.
Nell’Ameto,
un poema scritto dopo il suo ritorno, egli contrappone la vita di Napoli,
caratterizzata da «beltà, gentilezza, valore, leggiadri motti», allietata da
«delizie mondane», all’uggiosa serietà della sua casa fiorentina:
«Lì non si ride mai, se non di rado;
la casa oscura e muta e molto trista
me ritiene e riceve, mal mio grado.»
Per alcuni anni
cercò in ogni modo di evadere dalla città: trascorse un periodo a Ravenna
presso i Polentani, un altro a Forlì presso gli Ordelaffi.
Era invece a
Firenze nel 1348, quando vi scoppiò la terribile peste che devastò buona parte
dell’Europa e che avrebbe offerto lo spunto alla sua opera maggiore, il Decameron.
Negli anni
successivi, stimato per la fama e l’ingegno dai suoi concittadini, ebbe dal
Comune incarichi pubblici che lo portarono come ambasciatore presso diverse
corti italiane ed europee.
Nel 1350 e si
legò a Petrarca di un’amicizia fatta di affetto e di devozione, oltre che
alimentata da comunanza di interessi culturali, amicizia che durò fino alla
morte di Petrarca. Già negli anni ’40, Boccaccio
aveva composto un De vita et moribus Francisci Petracchi,
elogio della laurea poetica di Petrarca, cui aveva assistito nei suoi ultimi
mesi di permanenza a Napoli: Boccaccio, intuendo la novità della proposta
culturale di Petrarca, cominciò a raccogliere le sue opere, talché già negli
anni Quaranta possedeva già una cospicua antologia petrarchesca. Questo
rapporto di amicizia, oltre ad arricchirlo spiritualmente proponendogli nuovi
interessi etici e culturali, lo aiutò a superare la grave crisi religiosa che
lo colse nel ‘62, a seguito della visita di un frate che gli preannunciava
prossima la morte e gli minacciava la dannazione eterna se non avesse
abbandonato gli studi profani.
L’intervento
equilibrato ed equilibratore di Petrarca lo dissuase dal bruciare le sue opere
«mondane», ivi compreso il Decameron, che era la più libera e
spregiudicata, e perciò moralmente la più condannata dalla sensibilità del
tempo.
Peraltro, già
prima della crisi del ‘62, Boccaccio si era dato a studi eruditi, che
costituirono l’occupazione degli ultimi vent’anni della sua esistenza.
Nel 1362, e poi ancora nel 1370,
si recò a Napoli nella speranza di trovarvi una decorosa sistemazione, ma
entrambe le volte tornò a Certaldo deluso e amareggiato.
Nel 1373 ricevette l'incarico da
parte del Comune di Firenze di commentare pubblicamente la Commedia di Dante nella chiesa di
Santo Stefano di Badia, ma dopo pochi mesi, essendo sofferente di idropisia, fu
costretto a rinunciare alle sue pubbliche letture, interrompendole al canto
XVII dell'Inferno
Morì a Certaldo,
dove si era ritirato, nel 1375.
Le
opere - La vasta produzione di Boccaccio si può dividere secondo tre
periodi:
le opere
giovanili o della sua formazione;
il capolavoro
della maturità, il Decameron;
le opere erudite
dell’ultimo ventennio.
Delle opere del
primo gruppo, alcune furono composte nel periodo napoletano, altre dopo il
ritorno di Boccaccio a Firenze; esse sono di ispirazione più o meno direttamente
autobiografica, e comprendono poemetti in versi e romanzi in prosa, per i cui
temi lo scrittore attinge ora al mondo classico, ora alla narrativa romanza,
ora alle tradizioni popolari. Tema comune a tutte, e in tutte emergente, è l’amore.
·
La prima opera fu La caccia di Diana:
l’opera racconta che le ninfe andarono a caccia con Diana e al loro ritorno
tradirono la dea, donando tutta la selvaggina a Venere.
·
La prima opera in prosa di Boccaccio fu il Filocolo:
l’opera racconta che Florio, un principe di origine pagana incontra
Biancofiore, una fanciulla di origine cristiana e se ne innamora; il padre di
Florio scopre questo amore tra i due e vende la ragazza. Florio raggiunge
Biancofiore, ma i due sono scoperti e condannati al rogo. Il romanzo termina con
il matrimonio dei due amanti e con la conversione di Florio al Cristianesimo.
·
Un’altra opera è il Filostrato in
cui racconta l’amore di Troilo figlio di Priamo, per Criseide; Criseide, una
volta riscattata, lascia Troilo, che, disperato, cerca la morte in guerra,
affrontando Achille.
·
Il Teseida racconta di due
amici Arcita e Palemone che si innamorano di Emilia; i due decidono di sfidarsi
a duello ed il vincitore sposerà Emilia. Arcita vince il duello ma, caduto da
cavallo, muore; prima di morire, però, dice ad Emilia di sposare il suo amico.
·
Un’opera di cinque capitoli in terza rima è l’Amorosa
Visione. L’opera racconta che il poeta immagina Cupido che gli invia una
donna per intraprendere una vita di virtù.
·
Fra queste opere, due si staccano da una mediocre
piattezza: il romanzo la Fiammetta o Elegia di madonna
Fiammetta,significativo per l’acuta analisi degli effetti prodotti sull’anima
dalla passione amorosa. Quest’opera è un passaggio molto importante della
produzione letteratura di Boccaccio perché il personaggio principale diventa
donna. L’opera racconta di Fiammetta che si innamora di un ragazzo fiorentino
che è richiamato dal padre a Firenze. Boccaccio spiega tutta la sua delusione
nei confronti di questo ragazzo a causa del suo fidanzamento con un’altra
ragazza.
·
L’altra opera di rilievo è il Ninfale
fiesolano, poemetto in ottave, nel quale una leggenda mitologica sull’origine
di Firenze si trasforma in una calda e realistica storia d’amore. L’opera
racconta che il pastore Africo s’innamora della ninfa Mensola. I due amanti
vengono scoperti da Diana e Africo viene trasformato in un fiume. In seguito
alla trasformazione di Africo, Mensola partorisce un bimbo e ciò per Diana è un
oltraggio; anche Mensola viene trasformata in un fiume. Questi due fiumi si trovano
a Firenze.
·
Il Ninfale d’Ameto racconta di
un pastore, Ameto che si innamora della ninfa Lia. Il pastore per incontrare
Venere è purificato dalle ninfe, questa purificazione porta l’uomo dall’animalità
bruta all’affetto e all’amore. Tutte le opere di questo periodo, a prescindere
dal loro valore artistico, sono interessanti in quanto consentono di seguire la
formazione e la maturazione di Boccaccio che, attraverso di esse, saggia
argomenti e tecniche letterarie diverse, preparandosi alla ricchezza tematica e
tonale del Decameron.
·
Al Decameron, Boccaccio
lavora a Firenze soprattutto negli anni 1349-51.
Il Decameron è una
raccolta di 100 novelle narrate nell’arco
di dieci giornate (il titolo significa appunto, dal greco, [il libro] «dei dieci giorni»). Esse non si susseguono l’una
all’altra, giustapposte senza collegamento, ma sono collocate, secondo il gusto
medioevale, in una struttura che fa loro da cornice.
L’opera prende l’avvio dalla
descrizione della terribile peste scoppiata in Firenze, come in tanta parte d’Europa, nel 1348. La rappresentazione della città, devastata dal
morbo, occupa le prime pagine
dell’opera. Con animo commosso e
turbato Boccaccio descrive la gravità della malattia, i pericoli del contagio, le morti. E, passando dall’analisi esterna a
quella delle condizioni psicologiche in quel terribile frangente, si sofferma sulle conseguenze devastanti di
ordine affettivo e morale. Per timore del contagio vengono meno i
tradizionali legami di amicizia e di affetto:
gli amici sfuggono gli amici ammalati e li abbandonano al loro destino;
persino padri, madri, figli,
sposi, nella malattia, rifiutano di aiutarsi fra loro; «l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la
sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa
è e quasi non credibile) i padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire
schifavano».
Boccaccio immagina che un mattino, durante l’imperversare del contagio,
in S. Maria Novella si incontri una brigata di sette giovani donne «savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forme e di leggiadra
onestà» e di tre giovani uomini, «assai piacevole e costumato ciascuno», innamorati di tre di loro e parenti delle altre, i
quali, per sfuggire a tanta dissoluzione e disperazione, decidono
di abbandonare insieme la città appestata e di recarsi nel vicino contado.
Lontano da Firenze e dalla desolazione della pestilenza, i giovani
trascorrono le giornate in una bella villa, sulle colline intorno a Firenze;
nella serenità della quiete campestre, la gentile brigata ricrea quel vivere
nobile e cortese, quell’ordine civile e pieno di decoro, che il flagello della
peste ha distrutto nella vicina città, vivendo all’insegna della gioia, della
serenità e della cortesia. Nel pomeriggio, mentre la nobile compagnia sta
seduta in un bellissimo prato, a turno ciascuno narra una novella; all’imbrunire
i giovani danzano e cantano una ballata.
Nei quindici giorni vengono narrate cento novelle, dieci al giorno,
poiché il venerdì e il sabato, giornate dedicate alla preghiera e alle pratiche
religiose, viene sospesa la narrazione. Ogni
giorno viene eletto fra i giovani un «re» o una «regina» che (ad eccezione del
primo e del decimo giorno) stabilisca il tema generale della giornata: la fortuna,
l’amore, l’ingegno, ecc.; tema al quale, con libera inventiva, dovranno
adeguarsi i narratori. Uno dei giovani, Dioneo, il più divertente e
spregiudicato, a cui viene concesso il «privilegio» di raccontare sempre per
ultimo e di scegliere a suo piacimento il tema della novella. In tal modo
Boccaccio evita il rischio di un meccanismo troppo rigido e fa sì che anche le
giornate nelle quali è stato fissato un tema triste (per esempio, storie di
amori infelici) si concludano con una novella a lieto fine.
La cornice come legame fra le varie parti di un’opera è una strategia
stilistica già in uso nelle opere del passato: Boccaccio conosceva Le
Mille e una notte.
Nel Decameron la cornice non è semplice accostamento delle novelle, è
una struttura architettonica che conferisce unità all’opera. Alle Mille
e una notte il Decameron si ricollega anche per la circostanza della
narrazione in una situazione di pericolo: in entrambi i casi, infatti, il
racconto è usato, sia pure in modo diverso, per esorcizzare la morte.
A differenza delle precedenti raccolte in cui l’elemento unificatore era
completamente fantastico, la cornice del Decameron fa riferimento a un
avvenimento tragico e reale della storia contemporanea, la peste, che
coinvolge sia i narratori, e quindi il piano della finzione letteraria, sia i
lettori. Essa inoltre non ha solo la funzione di giustificare la narrazione e
di conferire ordine alle novelle, ma si arricchisce di un suo significato
autonomo. Racchiude e sintetizza, infatti, due poli, quello della morte,
simboleggiata dalla peste e dalle sue conseguenze morali e sociali, e quello
della vita, rappresentata dai giovani della lieta brigata e dalla loro
esistenza vissuta all’insegna dell’equilibrio, della cortesia, della misura,
del benessere fisico e psicologico.
La cornice è l’immagine del disegno coerente ed equilibrato della vita,
in cui ogni evento fuggevole e momentaneo si inserisce e trova un senso e una
valida giustificazione. In questa
struttura narrativa messa a punto da Boccaccio è possibile all’autore conciliare varietà e
unità: la varietà delle novelle
e il loro costituirsi in gruppi unitari. Quell’unità formale, esterna, che si affianca a quella interna, più
profonda, costituita dalla comune visione della vita e del mondo che governa tutta l’opera, si raggiunge attraverso una struttura complessa che prevede infatti un
narratore di primo grado, Boccaccio stesso, che racconta la storia-cornice,
entro la quale dieci narratori di secondo grado raccontano le cento novelle del
Decameron.
Sul piano tematico sono presenti nell’opera due nuclei essenziali di
ispirazione: da una parte un mondo cavalleresco ormai al tramonto, dall’altra
una società borghese e cittadina. Boccaccio guarda con un atteggiamento di
nostalgia e di rimpianto al mondo aristocratico e cavalleresco del passato,
tanto che le novelle che ne celebrano gli ideali sono poste a conclusione della
raccolta e sembrano costituire una sorta di Paradiso laico che si contrappone
all’Inferno della prima giornata nella quale sono raffigurati i vizi della
società del tempo: l’avarizia e la viltà dei grandi signori, la corruzione del
clero, la spregiudicatezza morale dei borghesi.
1)
La «Commedia umana» di
Boccaccio — Il Decameron è stato definito
«commedia umana» in contrapposizione a quella «divina» dantesca,
perché in esso si muove, incontrastato
protagonista, l’uomo terreno. Non solo è ormai venuta meno la tensione verso
Dio che aveva caratterizzato il mondo di Dante, ma neppure vi è più traccia
di quel doloroso dualismo fra
aspirazioni religiose e passioni umane che dominava l’opera di Petrarca. Nelle novelle del Decameron pullula
la vita di questo mondo, libera da limitazioni
e condizionamenti morali e religiosi; di qui il gioioso vitalismo che la percorre. Tutta la realtà, in quanto esiste, è per
Boccaccio degna di interesse e dell’attenzione dell’artista. Se mai esiste una scala di valori, essa vede ai primi
posti non i valori che portano a una
salvezza eterna, ormai estranea all’interesse dei personaggi, ma quelli che consentono all’uomo di affermarsi su questa
terra.
2)
I temi fondamentali del
Decameron: la fortuna l’amore e l’intelligenza —
Fra i molti aspetti della vita rappresentati nel Decameron quelli
fondamentali sono la fortuna, l’amore e l’intelligenza.
La Fortuna – intesa come intervento casuale della sorte – si manifesta
sia come forza della natura, sia come azione umana, sia come intervento della
collettività. Si tratta, comunque, di intrusioni che ora ostacolano, ora
favoriscono le azioni dei protagonisti. L’uomo rivela la sua intelligenza
quanto più sa piegare la Fortuna ai suoi scopi, in qualunque modo essa si
presenti, ostile (oggi diremmo sfortuna) o amica.
L’amore, che Boccaccio considera una
delle maggiori forze che muovono l’esistenza, è rappresentato nella
vasta gamma delle sue manifestazioni: l’amore sensuale, a volte grossolano, ma
mai morboso, l’amore disinteressato e cavalleresco, l’amore fedele e virtuoso,
l’amore come fonte di eroismo materiale e spirituale, o come forza esclusiva
e sconvolgente che può anche portare
alla follia.
L’intelligenza è lo strumento per cui
l’uomo si afferma sulla terra, e comporta accorgimento, abilità, scaltrezza, spregiudicatezza. Dante
collocava nell’Inferno coloro che avevano usato l’intelligenza, dono divino, a scopi
moralmente iniqui. Boccaccio guarda con interesse divertito e con
sostanziale ammirazione chi riesce, con l’uso anche spregiudicato e cinico dell’intelligenza, a risolvere situazioni difficili,
a togliersi d’impaccio. Caso
tipico in questo senso è Ser Ciappelletto della novella omonima, che in punto
di morte non esita a fare una abilissima e blasfema confessione, quasi a sfida
giocosa al Cielo, per salvare
una situazione pratica. E ricordiamo
il giudeo che con la sua acuta risposta si sottrae alle insidie del Saladino (Novella delle
tre anelta); e
Chichibio cuoco che con un’inaspettata e azzeccata battuta smonta l’ira del
padrone. Spesso l’intelligenza prende
luce, per contrasto, dal suo contrario, la stoltezza: e intelligenza e
stoltezza sono messe a confronto in molte felicissime novelle di beffa, come
quella di Calandrino e l’elitropia.
3) Molteplicità
di situazioni e di personaggi — La rappresentazione
boccacciana della vita si concreta in
innumerevoli situazioni e in una ricca serie di personaggi. Sono introdotti nelle novelle uomini di paesi diversi, dall’Oriente
all’Occidente, e di tutte le classi sociali:
aristocratici e plebei, uomini di cultura e uomini di Chiesa. Ma soprattutto vi
campeggiano i rappresentanti di
quella borghesia mercantile italiana, operosa e avventurosa, ricca di esperienze e di denaro, che era
la classe ascendente e il nerbo della società al tempo del Boccaccio, e
che Boccaccio, figlio di mercanti e per qualche tempo mercante egli stesso, conosceva e ammirava.
La psicologia dei personaggi
rappresentati è sempre ricca e articolata, esente da unilateralità e da schematismo; la loro caratteristica
preminente non soffoca gli altri aspetti del loro carattere. Perfino le figure dalla natura più elementare, gli
stolti, sono articolatamente ritratti:
la stoltezza, che è limite intellettuale, coinvolge carenze morali e psicologiche e se ne alimenta. Nella stoltezza di
Calandrino, ad esempio, concorrono l’avarizia,
l’egoismo, la ghiottoneria, la prepotenza manesca con chi è più debole; e non gli manca neppure una certa dose di disonestà.
4) Il concreto realismo degli ambienti —
I personaggi del Decameron si muovono sullo sfondo di ambienti che non hanno mai nulla di vago
e di gratuito, ma sono realisticamente
definiti e concreti. Particolarmente ricchi di evidenza sono quelli
personalmente noti a Boccaccio:
le vie, le chiese, le piazze, la periferia e il contado di Firenze; e le inquadrature napoletane, che spaziano dal ricco
mercato della città, frequentato da mercanti provenienti da tutta Italia, ma anche da imbroglioni, manigoldi,
prostitute, alle vie strette e
pericolose della Napoli malfamata, alla splendida opulenza della sua cattedrale.
Accanto agli ambienti esterni sono
numerosi anche gli spaccati di interni: la casa patrizia, fastosamente apparecchiata per il banchetto,
di Currado Gianfigliazzi, e la cucina fragrante di odore di arrosto (novella di Chichibio); l’appartamento dal
fasto equivoco della «bella Ciciliana» (novella di Andreuccio da Perugia); la
povera casa dì Calandrino con dentro
la moglie battuta e in pianto, e il gran mucchio di pietre (novella di Calandrino e l’elitropia).
5)
La borghesia vera
protagonista del Decameron –
La vera protagonista dell’opera è la borghesia rappresentata nei suoi diversi
livelli e nei suoi aspetti positivi e negativi. La realtà umana e naturale
descritta nel Decameron appare come il campo di tensione e di scontro di due
forze antagonistiche: la fortuna e l’ingegno. La prima si identifica con il
caso capriccioso e imprevedibile, che predispone circostanze favorevoli e
sfavorevoli con le quali l’uomo deve misurarsi armato solo della sua
intelligenza, saggezza calcolatrice, capacità di previsione. L’ingegno si
manifesta non solo nell’azione avveduta e sagace, ma anche nella battuta pronta,
nel motto arguto e raffinato che mortifica gli sciocchi e i tracotanti, e viene
apprezzato dall’antagonista intelligente, capace di gustare l’invenzione
verbale ben congegnata. È proprio in virtù della parola che talora possono
essere annullate le distanze sociali. Il fornaio Cisti può permettersi il
lusso di un motto mordace con il banchiere Geri Spina e Chichibìo può rivolgere
una pronta e sollazzevole risposta a un gran signore come Currado
Gianfigliazzi perché lo scatto dell’ingegno per un attimo rende complici un
artigiano e un banchiere, un cuoco e un signore. Dopo però ciascuno tornerà
al suo posto, consapevole del proprio ruolo e della propria posizione sociale.
6)
Le forme narrative – Sul
piano delle forme narrative Boccaccio ha sperimentato un ampio ventaglio di
possibilità, utilizzando e trasformando generi preesistenti. Certo sarebbe
assurdo voler ricondurre le cento novelle a schemi precisi e rigorosi; si
possono però individuare alcune tipologie ricorrenti che naturalmente vanno
applicate con una certa elasticità:
1)
la novella-azione, costituita da una pura
successione di fatti in cui non contano tanto i personaggi quanto gli
avvenimenti nei quali essi sono coinvolti e il loro susseguirsi secondo un
ritmo che è insieme di sorpresa e di casualità;
2)
la novella-romanzo, fondata non più sull’azione,
ma sulla realtà interna dell’uomo, sulle passioni, i sentimenti, gli impulsi
che ne provocano le avventure;
3)
la novella-motto, che ha la misura del
racconto breve in cui la semplicità della trama serve a mettere in luce una
risposta pronta e arguta;
4)
la novella-beffa, incentrata su inganni,
beffe coniugali, situazioni e spunti burleschi in cui ciò che conta è il
tranello teso con abilità e studiato esattamente per dare scacco all’antagonista;
5) la novella
esemplare nella quale il personaggio, trovandosi ad affrontare una
prova difficile, manifesta capacità e virtù che ne fanno un esempio, un
modello di valori laici senza alcun riferimento alla realtà ultraterrena.
Lo stile - Con il Decameron Boccaccio non ha soltanto
condotto a perfezione il genere novellistico, ma ha anche elaborato una lingua
letteraria ricca e mobile, nella quale si intrecciano differenti registri, da
quello alto e solenne a quello più basso e popolare, di volta in volta
adeguati alla varietà delle situazioni e dei personaggi. Nelle parti narrative
prevale un periodare ampio, sinuoso, nel quale si incastonano numerose
subordinate sia esplicite sia implicite; nelle parti dialogate la lingua
diventa più agile, intessuta di frasi brevi che riproducono il parlare
quotidiano. La prosa di Boccaccio presenta una grande varietà di modi, di toni
e di registri, sempre pienamente correlati alla materia narrata.
Versatile e mutevole, la
scrittura boccaccesca sa essere aristocratica, umile e popolaresca, commossa.
Assume tonalità ora poetiche, ora grottesche, ora tragiche, ora comiche; altre
volte mantiene un tono medio in cui si neutralizzano i
contrasti della vita. Grazie alle sue variegate articolazioni, alla perfezione
della struttura sintattica che riecheggia il periodare classico, alla
molteplicità dei ritmi e del fraseggio, la prosa boccaccesca sarà per secoli il
modello a cui guarderanno con ammirazione i narratori d’Italia e d’Europa dei
secoli successivi.
·
Il Decameron segna il culmine e
la conclusione della sua stagione artistica, giacché ad essa nulla aggiungerà
il successivo Corbaccio, violenta
satira antifemminista, che trae spunto da un’esperienza personale dello
scrittore. L’opera racconta che l’autore si trova in un labirinto d’amore ed
incontra una vedova dalla quale è respinto. In sogno gli viene il marito e gli
dice come conquistare sua moglie, ma in cambio gli chiede di scrivere un’opera su
sua moglie.
·
Quanto alle opere
erudite dell’ultimo periodo, se testimoniano la passione culturale dello
scrittore, sono però di tipo convenzionale e tradizionale. Fanno eccezione, per
il calore che li pervade e per gli elementi che hanno offerto ai futuri
interpreti e commentatori della Commedia, gli scritti che
egli dedicò a Dante: il Trattatello in laude di Dante e il Commento ai
primi diciassette canti dell’Inferno, frutto delle letture sul testo dantesco
da lui tenute pubblicamente, per incarico del Comune, nella chiesa fiorentina
di Santo Stefano in Badia.
Il
Rinascimento e la sua periodizzazione – L’espansione economica e politica
degli Stati italiani aveva creato una condizione di benessere e, presso le
classi dominanti, una larghezza di mezzi finanziari e un tenore di vita prima
sconosciuti. Queste condizioni, esaltate da quarant’anni senza guerre
intercorrenti tra la pace di Lodi del
1454 e la calata di Carlo VIII nel 1494,
portarono al Rinascimento.
Esso è un
movimento vasto e complesso che si estende dagli ultimi decenni del Trecento
alla metà circa del Cinquecento, e che propone una nuova concezione della vita
e nuovi orientamenti nel pensiero e nell’arte.
La prima fase
del Rinascimento, compresa fra la fine del Trecento e la fine del Quattrocento,
è designata col nome di Umanesimo. In esso ha le radici il
Rinascimento vero e proprio, la cui originale e splendida fioritura si
manifestò nella prima metà del Cinquecento: a quest’epoca appartengono poeti
come Ariosto, pensatori come Machiavelli, artisti come Leonardo, Michelangelo,
Raffaello, Tiziano.
L’Umanesimo e
la rinascita del mondo classico - Il nome di Umanesimo deriva dal
fatto che in questo periodo l’interesse appassionato degli uomini di cultura si
volge alle opere dei classici, chiamate humanae litterae perché
giudicate apportataci di humanitas, cioè di civiltà e di
raffinatezza spirituale.
A differenza di
quanto avveniva nel Medioevo, quando gli autori classici erano accettati e
usufruiti solo nella misura in cui non contraddicevano all’imperante concezione
cristiana dell’esistenza, gli umanisti vogliono invece recuperare integro il
messaggio dei classici, senza diaframmi interpretativi e senza stravolgimenti.
In verità quest’esigenza era già presente in Petrarca che in questo senso può
essere considerato un preumanista; con la differenza però che Petrarca era un
caso pressoché isolato nel suo tempo, mentre nell’Umanesimo questo nuovo modo
di accostarsi alla classicità si diffonde ad ampio raggio e da luogo a un vasto
movimento culturale.
Gli umanisti non
limitano il loro interesse allo studio dei testi classici già conosciuti e in
circolazione, ma s’impegnano nella ricerca di quei testi che durante le
invasioni barbariche e le devastazioni dell’Alto Medioevo erano andati perduti.
Intraprendono a questo scopo viaggi per l’Europa, facendo ricerche soprattutto
nelle biblioteche dei conventi, dove si presumeva che molti libri avessero
potuto salvarsi dalle distruzioni e dai saccheggi. Erano ricerche faticose,
dispendiose, ma a volte anche fruttuose.
Non sempre i
testi classici in circolazione, o dei quali si scopriva l’esistenza, erano pervenuti
indenni dalle tumultuose vicende dell’Alto Medioevo o dall’impegno
moralizzatore di chi pure voleva che fossero usufruiti. In tal caso gli
umanisti si dedicano ad un’operazione che potremmo definire di restauro
interno: confrontando pazientemente codici diversi di una stessa opera
eliminano le modifiche in essi variamente introdotte, recuperano passi
soppressi, così da riportare i testi il più possibile alla loro lezione originaria.
L’interesse
degli umanisti si volge in un primo tempo ai classici latini; ma successivamente
anche a quelli greci, specie dopo che, caduta Costantinopoli in mano ai Turchi nel
1453, molti dotti greci emigrano in Italia diffondendovi l’insegnamento della
loro lingua e la conoscenza dei loro autori.
La rinascita
del latino - Conseguenza dell’interesse per il mondo classico è la
reviviscenza nell’età umanistica del latino, cui si accompagna spesso il
disprezzo per la lingua volgare. Il latino non solo è la lingua della cultura,
ma diventa anche, nella prima fase dell’Umanesimo, quella della poesia, dove
pure sembrava, dopo Dante e il Petrarca, che il volgare dovesse ormai dominare
incontrastato.
Solo dopo la
metà del Quattrocento, quando sarà evidente che la lingua di una civiltà
passata, per quanto splendida, non può esprimere adeguatamente la sensibilità e
il pensiero di un’età nuova, quali che siano le sue analogie col passato, il
volgare tornerà ad affermarsi. In volgare scriveranno esclusivamente o
prevalentemente i poeti della seconda metà del Quattrocento, dal Magnifico al
Poliziano, al Pulci, al Boiardo; e il volgare sarà poi la lingua indiscussa del
Cinquecento.
La visione
antropocentrica del Rinascimento – Alla concezione
teocentrica del mondo che aveva dominato nel Medioevo si oppone nel
Rinascimento una concezione antropocentrica, quella tramandata dal mondo
classico, che colloca l’uomo (anthropos in greco) al centro dell’Universo.
E non è l’uomo che, vivendo sulla terra, è tuttavia proteso verso la vita
eterna, ma l’uomo che pone in primo piano la vita sul nostro pianeta, la
considera valida di per sé, per i suoi autonomi valori, e cerca di affermarsi
in essa con l’intelligenza, la capacità, il coraggio. Che è poi un modo di vita
che già era presente nel Decameron del Boccaccio.
L’autonomo
affermarsi delle scienze umane – La concezione antropocentrica del mondo
si riflette nel pensiero e nella cultura rinascimentali.
Viene meno la
subordinazione medioevale delle varie branche del sapere alla teologia:
·
La filosofia
afferma il suo diritto alla libera speculazione razionale, senza limiti e
condizionamenti teologici.
·
Le scienze
naturali cessano di riconoscere come
scientificamente indiscutibili le affermazioni contenute nei Libri
sacri, e cercano la verità sui fenomeni terreni nello studio diretto e sperimentale
della natura.
·
La storia
non è più considerata il campo dell’azione provvidenziale di Dio, ma dell’azione
e dell’impegno dell’uomo.
·
La politica,
anziché strumento per condurre l’umanità a una perfezione terrena che preluda
a quella celeste, diventa una scienza con leggi proprie che si pone come fine
la costruzione e il mantenimento di uno stato.
·
L’arte
non si propone più il fine pedagogico di educare e migliorare moralmente gli
uomini, ma il fine edonistico (dal gr. hedoné = piacere) di
creare bellezza che per gli uomini sia fonte di gioia.
Tutto il
Rinascimento è percorso dalla convinzione della potenza dell’uomo sulla terra.
Scrive un umanista, Marsilio Ficino: «L’uomo si serve degli elementi, misura
la terra e il cielo, scruta la profondità del Tartaro. Il cielo non gli sembra
troppo alto, né il centro della Terra troppo profondo... Nessun confine gli
basta. Dovunque si sforza di comandare, di essere lodato, di essere eterno come
Dio».
La
terra casa dell’uomo – Poiché
il momento centrale della vita umana è quello terreno, acquista nuovo valore la
terra, che è la dimora dell’uomo. Ad essa il Rinascimento non guarda più come
a un’emanazione di Dio, pervasa da anelito verso Dio come nel Cantico
delle Creature di San Francesco, né come al luogo delle vane passioni
umane, «l’aiuola che ci fa tanto feroci», che Dante vede dal Paradiso; ma come
a luogo che appartiene all’uomo e alla sua iniziativa, che va indagato nella
sua interna struttura e nelle leggi che vi agiscono, che va scoperto nei suoi
spazi geografici ancora ignoti, che infine va goduto nella sua bellezza.
Alla conoscenza
della struttura e delle leggi naturali del nostro pianeta è diretto il nuovo
metodo di ricerca instaurato da Leonardo da Vinci, il metodo sperimentale. Le
terre ignote sono raggiunte dall’infittirsi di quelle imprese di navigatori e
di scopritori già iniziate nei secoli precedenti. La natura con la sua
variegata bellezza campeggia nelle tele dei pittori e, sotto forma di splendidi
giardini, diventa elemento architettonica delle dimore signorili. E fa infine
la sua irruzione nella poesia, dal Magnifico e da Poliziano al Furioso di
Ariosto, sotto forma di roseti in fiore, di alberi, acque, prati attraverso i
quali si esprimono gli stati d’animo dei personaggi o che diventano parti delle
loro vicende.
Le corti,
centri culturali del Rinascimento – Centri culturali del Rinascimento
sono le corti dei vari Signori che traggono lustro dalla presenza di poeti,
studiosi, artisti. I quali a loro volta vi trovano un ambiente ricco e
confortevole, biblioteche ben fornite, possibilità di lavoro, occasioni di
incontro con altri uomini d’arte e di cultura, sicurezza economica. Elementi
che concorrono non poco alla fioritura intellettuale e artistica di quest’età.
Ma la vita di corte ha una contropartita negativa: limita la libertà dell’artista
e del poeta condizionandola alla protezione e qualche volta alle esigenze del
Signore, e inoltre favorisce la nascita di un’arte d’elite, che ha nella corte
la sua origine e la sua esclusiva destinazione.
La
lirica – Nel Quattrocento la produzione lirica è
copiosissima, ma non nascono grandi poeti e opere di spicco, almeno fino agli
ultimi decenni del secolo. La poesia tende a divenire una forma di letteratura
slegata da finalità intellettualmente importanti; si affievolisce cioè la
funzione che aveva avuto nei secoli precedenti, quando la poesia aveva
trattato anche temi filosofici, morali, politici, ecc.
Anche la ricerca di forme nuove subisce una battuta
d’arresto e i poeti preferiscono ripercorrere le orme della tradizione: la
lirica del Duecento, Dante e Petrarca, ma anche la poesia popolare e quella
giullaresca, sono tutti modelli ripresi e imitati nel Quattrocento, senza che
si manifesti una tendenza dominante.
Un aspetto comune alla lirica del Quattrocento è l’affermarsi
delle forme poetiche più legate al consumo; per esempio, diventa più vasta la
poesia per musica e, più in generale, si sviluppa la poesia d’occasione, quella
scritta in concomitanza e per celebrare i piccoli e i grandi avvenimenti della
vita di corte.
Tra i molti poeti che appartengono ad aree
geografiche diverse, ricordiamo Agnolo Poliziano, Matteo Maria Boiardo, Iacopo
Sannazaro e Lorenzo de’ Medici.
Un discorso a sé merita la lirica latina che si
sviluppò soprattutto nei centri umanistici di Siena, Firenze e Napoli e che
visse all’interno di un ristretto gruppo di intellettuali.
Dopo la molteplicità delle esperienze
quattrocentesche, nel nuovo secolo la produzione lirica sembra incanalarsi
verso l’assunzione del modello petrarchesco; questa tendenza, dapprima incerta,
trova una consacrazione definitiva nell’opera di Pietro Bembo e porta, dopo il
1530, a una vera esplosione della produzione lirica.
Bembo propone infatti il linguaggio del Canzoniere di
Petrarca come modello assoluto della poesia lirica, ma anche le situazioni, le
mille sfumature della contemplazione, del sogno, del pensiero amoroso, i modi
in cui l’amore si manifesta come gioia, nostalgia, ricordo. Il dissidio di
fondo della poesia petrarchesca rimane estraneo a questa lettura che
sicuramente appiattisce l’opera di Petrarca, ma nello stesso tempo la
trasforma in un formidabile «serbatoio» cui attingere temi, immagini e anche
rime, aggettivi e interi versi. Il fenomeno, chiamato petrarchismo,
trionfa ben presto in Italia e in Europa e travalica i limiti del Cinquecento;
esso fornisce un modello e delle regole così precise, funzionanti e applicabili
a infinite situazioni tanto che la produzione lirica diventa un fenomeno di
massa, nel senso che tutti coloro che in qualche modo hanno a che fare con la
letteratura scrivono poesia, magari utilizzandola come scuola di apprendimento
della lingua letteraria o come strumento da usare nei rapporti mondani.
Naturalmente ci sono anche poeti che pur nell’alveo
del petrarchismo espressero una loro originalità; tra questi ricordiamo le voci
di Giovanni Della Casa, Luigi Tansillo, Michelangelo Buonarroti, e fra le
poetesse Gaspara Stampa e Veronica Franco.
Anche la produzione lirica risente fortemente dei mutamenti culturali che percorrono il Cinquecento. Dopo la metà del secolo si afferma una poesia religiosa; inoltre la grande quantità di accademie letterarie promuove la composizione di tante poesie che nascono per celebrare i diversi momenti della vita accademica: la lirica d’occasione già diffusa nelle corti, trova quindi un ulteriore sviluppo.
Da ricordare
infine che accanto alla lirica d’amore e a quella impostata su toni alti,
continua a essere presente nella prima parte del secolo una produzione burlesca
che ebbe in Francesco Berni l’autore più interessante.
La novella – Nei primi decenni del
Cinquecento, la produzione di novelle fu scarsa e non riesce ad affrancarsi
dall’imitazione del modello boccaccesco. Il genere trovò una nuova vivacità
nella seconda metà del Cinquecento grazie ad autori che propongono soluzioni
narrative di una certa novità: ricordiamo i nomi del piemontese Matteo
Bandello, del ferrarese Giambattista Giraldi Cinzio, del toscano Anton
Francesco Grazzini detto il Lasca.
Il trattato -
La dimensione e la vitalità della cultura umanistica si rispecchia con evidenza
nella produzione di trattati che fu assai vasta e riguardò soprattutto
argomenti filosofici, letterari, linguistici e politici.
Una delle forme
di trattato più diffusa fra gli umanisti è il dialogo: l’autore immagina una
situazione e un luogo, in genere una casa o un giardino, nel quale fa
incontrare un certo numero di personaggi, reali o immaginari, e fa sì che il
discorso si indirizzi su un argomento. Ognuno dei personaggi espone una propria
tesi, in modo che il discorso procede per verifiche successive, attraverso
mediazioni o scontri di opinioni. La conclusione non è, quindi, l’affermazione
certa di una verità; è il lettore che deve ricavare dal confronto delle idee
gli elementi per una personale elaborazione dell’argomento.
È questa una
delle strade che gli umanisti intrapresero rinnovando profondamente la
tradizione medievale del trattato e dando ad esso una nuova eleganza e un’impostazione
più libera dello sviluppo delle argomentazioni.
Fino agli ultimi
decenni del Quattrocento la lingua principe del trattato rimane il latino, ma
nella seconda metà del secolo si afferma anche una trattatistica in volgare
impegnata nella riflessione teorica sulle varie «arti» e sulle tematiche
civili.
Figura centrale
di questa riconversione del trattato dal latino al volgare fu Leon Battista
Alberti il quale indicò i due filoni tematici all’interno dei quali la
trattatistica in volgare si affermò con maggior forza nella seconda metà del
Quattrocento: la riflessione sulla dimensione familiare e civile dell’individuo
e la riflessione teorica sull’arte.
Nel Quattrocento
i trattati in latino e in volgare diedero voce al dibattito attraverso il quale
si affermò la cultura umanistica. Il genere continua nel Cinquecento ad avere
un ruolo di primo piano, trasformandosi in relazione ai mutamenti delle
tendenze culturali: da una parte continua la trattatistica in latino che
circola in ambiti specialistici, dall’altra compare una nuova trattatistica, l’espressione
più viva e interessante del momento culturale; scritta in italiano, riguarda
diversi settori e tende a fissare la fisionomia della nuova cultura, a
scriverne le «regole».
In particolare
nei primi decenni del secolo alcuni intellettuali fanno compiere un salto
qualitativo di grande importanza al dibattito culturale, fissando con i loro
trattati le coordinate dell’intera civiltà rinascimentale in Italia e in
Europa. Il trattato si afferma così come luogo privilegiato nel quale vengono
posti i fondamenti della letteratura, della politica, della lingua, del
comportamento sociale.
I libri che fondarono una civiltà – La
politica e l’arte del governare
ebbero una nuova definizione proprio nel momento storico in cui la penisola era
contesa da Francia e Spagna e avveniva la trasformazione di alcune signorie in
principati, ma incontrando difficoltà nel dare un’organizzazione moderna allo
Stato.
Niccolò
Machiavelli con Il Principe e
Francesco Guicciardini con gli scritti storici e I Ricordi pongono le basi della politica come scienza laica.
Altrettanto
netto è il salto di qualità delle Prose
della volgar lingua del 1525 di Pietro Bembo, il trattato che disegna il
volto della lingua letteraria del Cinquecento e dei secoli successivi.
Un’altra opera
fondamentale per la civiltà del Cinquecento è il Cortegiano del
1528 di Baldassar Castiglione. La discussione sulla figura e sulle specifiche
funzioni e caratteri dell’intellettuale di corte costituiva un argomento
nuovo, moderno, reso urgente dai rapidi mutamenti del ruolo delle corti dall’ultima
metà del Quattrocento ai primi anni del Cinquecento. Il Cortegiano forniva
indicazioni che furono prese come modello in tutte le corti d’Europa e fecero
di questo trattato un testo letto, studiato, imitato dall’Inghilterra alla
Spagna. Dal libro del Castiglione si sviluppò un’ampia trattatistica sui
costumi e sul comportamento del cortigiano che, sotto una veste letteraria a
volte frivola, affrontò il tema, molto serio, del rapporto fra intellettuale e
potere.
Niccolò
Machiavelli – Acuto testimone della storia
del suo tempo e uno dei maggiori prosatori italiani, è il teorico di una
politica rigorosamente razionale, come unica risposta possibile all'egoismo
degli uomini.
La vita e le opere – Machiavelli nacque a
Firenze nel 1469
quando la città di Lorenzo de'
Medici era all'apice della potenza e del prestigio culturale, da una famiglia
di nobili origini – i Machiavelli erano stati signori di Montespertoli
trasferitisi a Firenze, sottomettendosi alla sua legge e dividendone le glorie
– famiglia guelfa che diede alla città di Firenze ben tredici Gonfalonieri di
giustizia e una cinquantina di Priori; la stirpe della madre originaria di
Fucecchio era altresì di antica nobiltà e la famiglia diede a Firenze un
Gonfaloniere e cinque priori.
La madre rimasta vedova con Niccolò in giovane età, si
risposò con Francesco di Nello che era giureconsulto e tesoriere della Marca.
Machiavelli ricevette un'educazione di tipo umanistico, inizialmente dalla
madre che era anche poetessa.
La formazione di
Machiavelli, come quella di tutti i giovani di buona famiglia del suo tempo, fu
di tipo umanistico: studiò il latino e lesse i classici. Fin da allora, però,
il suo interesse non era di natura estetico-letteraria, ma contenutistico; i
classici lo interessavano non per il loro pregio artistico, ma nella misura in
cui trovava riflessi nelle loro opere i propri sentimenti e le proprie
emozioni, e gli offrivano esperienze utili per la vita pratica. Questo spiega
la sua predilezione per gli storici.
Nel 1494 fu allievo di Marcello Virgilio Adriani; la
sua educazione fu caratterizzata dalla presenza del latino, ma non del greco
antico. Va poi considerato che lesse opere come il De rerum natura di Lucrezio, allora quasi clandestine.
Interessato alla politica già nella giovinezza,
approfittò della costituzione della Repubblica di Firenze per cercare di
partecipare alla vita politica della sua città.
Nel 1498, dopo la cacciata dei Medici da Firenze e
dopo il rogo di Savonarola, Niccolò Machiavelli
fu eletto segretario della seconda cancelleria della repubblica fiorentina,
assumendo importanti funzioni, tra cui quella di viaggiare all'estero per
informare la città sui principali provvedimenti presi dai più importanti
governi europei. L'entrare direttamente a contatto con le varie forme di
governo, assieme alla sua passione per i classici, contribuirono alla
formazione del suo pensiero.
Nel 1499 Machiavelli scrisse il Discorso fatto al magistrato de' Dieci sopra le cose di Pisa.
Dal 1500 al 1511
fu incaricato di svolgere diverse missioni diplomatiche per conto della
Repubblica e del Papato. Negli anni passati al servizio della Repubblica
partecipò a parecchie ambascerie: fra queste se ne ricordano due presso Cesare
Borgia, due alla Corte papale, quattro presso Luigi XII re di Francia, una
presso l’imperatore Massimiliano. Erano contatti che gli davano modo di
osservare il comportamento, le astuzie, le abilità di molti uomini politici e
di acquisire quell’esperienza diretta della politica che gli sarebbe stata
preziosa poi nella composizione delle sue opere di teoria politica.
Nel 1503, Machiavelli scrisse la Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare
Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il duca di Gravina
Orsini, una breve opera storica in cui sono ripercorse le vicende di
Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da
Fermo, Paolo e Francesco
Orsini, quarto duca di Gravina,
che avevano partecipato ad una congiura contro Cesare Borgia, la cosiddetta congiura della Magione, nell’ottobre del 1502, e credendo di rappacificarsi
con lui furono da questi catturati e uccisi mentre si trovavano a Senigallia e ne stavano assediando la cittadella
difesa da Andrea Doria. In
quest’opera è già visibile il suo interesse per Cesare Borgia che nel Principe sarà
poi proposto come modello ai politici italiani.
Nel 1510, Machiavelli scrisse il Ritratto delle cose di Francia in cui rileva che la corona di Francia
è molto potente. Il primo luogo per l’ereditarietà della corona, le migliori
terre di Francia sono in mano alla corona, in secondo luogo perché c'è un
potere monarchico personalizzato: le terre appartengono alla corona ed essendo
un’istituzione passano ai singoli re, che le trasmettono ai successori. In
terzo luogo perché la corona francese mise fine alle autonomie e alle guerre
feudali (accadevano quando il barone pensava di essere un piccolo monarca).
Adesso c'è solo un re e i baroni ubbidiscono e lo difendono. In quarto luogo
per il principio del maggiorascato: solo il figlio maschio maggiore eredità le
proprietà di famiglia.
Nel 1512, con la caduta della Repubblica fiorentina
e con il ritorno dei Medici a Firenze, le cariche tenute da Machiavelli nell’amministrazione
repubblicana gli suscitarono contro i sospetti del nuovo governo e fu
allontanato dal suo ufficio; in questo stesso anno
scrisse il Ritratto delle cose della
Magna in
cui rileva il particolarismo e l'inesistenza di un potere centrale. C'erano
conflitti tra Imperatore contro principi e città, fra Principi contro città. Questi
conflitti, più il desiderio di indipendenza e lo spirito anti nobiliare portò
la Germania a una situazione esattamente contraria da quella francese. Lo stato
tedesco infatti non riesce ad emergere dalla frammentazione feudale.
Nel 1513, con il
ritorno dei Medici a Firenze in seguito ad accordi presi con il re di Spagna, Machiavelli
fu sospettato di aver partecipato ad una congiura antimedicea, incarcerato e
sottoposto a tortura e nuovamente condannato al confino. Fu amnistiato poco
dopo con l'elezione di papa Leone X dei Medici. Nello stesso anno si ritirò in
completo isolamento nelle sue proprietà a San Casciano in Val di Pesa e qui,
nell’ozio forzato, facendo tesoro delle esperienze acquisite e degli ammaestramenti
che gli venivano dalle amate letture degli storici latini, i compose le sue
maggiori opere di riflessione politica, il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.
Nel 1513, Machiavelli scrisse Il Principe, scritto
di getto nel 1513, interrompendo la stesura dei Discorsi, in
cui si propone di mettere al servizio di un principe che abbia la capacità di
creare a un vasto e forte stato in Italia, la propria esperienza politica e di
illustrargli le leggi che devono guidare la sua azione. L'opera nasce come approfondimento delle riflessioni su quell’esperienza
e sul suo fallimento, riflessioni che andavano trovando, nei diciotto capitoli
già stesi dei Discorsi, il filo di
una problematica incentrata sui principi che reggono le repubbliche e le cause
per cui esse cedono e volgono a un ordinamento monarchico. L'interruzione di
questo lavoro, ancora improntato dall'apparato della tradizionale etica
politica, è segnato dalla necessità che spinge Machiavelli a volgersi verso le
immediate esigenze della politica attuale, a sollecitarne le forze in
gestazione affrontando direttamente il grande problema del suo tempo: quello
del principato. Il 10 dicembre del 1513 Machiavelli dà all'amico Vettori notizia del compimento dell'opera,
iniziata probabilmente nel luglio dello stesso anno. Machiavelli sembra muovere,
infatti, da una classificazione puramente scientifica, distinguendo le
monarchie in tre specie: quelle ereditarie, quelle nuove e quelle miste. Ma
subito la trattazione si focalizza sul nucleo di problemi che si va ponendo;
cioè come si formano, al di fuori di ogni tradizione di prestigio e dignità, i
principati nuovi; come si conquistano, o con armi proprie o con truppe
mercenarie, con la fortuna o con la virtù; come, comunque conquistati, possano
essere conservati. Più che i modelli canonici degli antichi fondatori di Stati,
da Mosè a Romolo, a Machiavelli interessa però chiamare in causa quei
particolari protagonisti di capitali vicende politico-militari che erano stati
i capitani di ventura, dal vittorioso Francesco Sforza fino
al più recente Cesare Borgia, quel Valentino che gli appare meglio
incarnare l'ideale figura del principe:
«... io non saprei quali precetti mi dare migliori a
uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua; e se li ordini suoi non
profittorno, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema
malignità di fortuna».
Il limite permanente dell'azione individuale è,
infatti, la necessità dell'ordine delle cose, ordine naturale e non più
trascendente e provvidenziale: la “virtù” del principe non riveste quindi
caratteri etici, ma piuttosto psicologici, e si sostanzia di abilità, potenza
individuale, fiuto delle situazioni e misura delle proprie possibilità. Al
principe si richiede la virtù congiunta della volpe e del leone, intelligenza delle
situazioni e istintività di intuito ferino che solo può indicargli le vie della
“fortuna”; la sua natura deve quindi essere duplice come quella del centauro,
metà uomo e metà bestia. Esistono però alcuni principi generali
nell'organizzazione degli Stati, e a questi fondamenti, “le buone leggi e le
buone armi”, il principe deve anzitutto attenersi. È per averli trascurati,
quindi per la loro “ignavia”, che i principi italiani, privi di eserciti
cittadini fidati da contrapporre ai nemici, hanno dovuto pensare “a fuggirsi, e
non a difendersi”: poiché “non può essere buone leggi dove non sono buone arme,
e dove sono buone arme conviene che sieno buone leggi”. Due anni più tardi
Machiavelli indirizzò l'operetta a Lorenzo de' Medici, duca di Urbino, aggiungendo un XXVI
capitolo di esortazione al Medici a farsi “principe nuovo”, a intraprendere
l'opera di unificazione delle province italiane e “liberarle dai barbari”. Si
sarebbe così realizzato quel disegno monarchico-unitario che Machiavelli aveva
ben individuato come moderno orientamento della politica europea. Al carattere
politico-militare di questo scritto corrisponde la precisa invenzione di uno
stile enunciativo, sciolto dalle forme scolastiche del sillogismo, ma che
procede invece per interne concatenazioni con andamento analogo a quello che
sarà proprio di tutta la prosa scientifica moderna.
Negli anni di
isolamento si dedica anche alla stesura di opere letterarie e filosofiche.
Il successo
ottenuto in una rappresentazione della sua commedia La Mandragola, scritta nel 1518, gli consentì di smussare il clima
di sospetto nei suoi confronti. La visione pessimistica del comportamento umano, che si
acuì nel periodo in cui non partecipò alla vita politica e si manifestò nella Mandragola,
tagliente e amara satira della corruzione dei costumi contemporanei, dove l'essere umano è rappresentato come incapace di
andare oltre il meschino interesse personale. Racconta la beffa, di sapore
boccaccesco, giocata dal giovane Callimaco e dal suo servo Ligurio al vecchio e
balordo messer Nicia, sposo della bella Lucrezia e desideroso di avere a ogni
costo da lei un figlio. Fingendosi esperto di medicina, Callimaco gli fa
credere che, per vincere la sterilità della moglie, è necessaria una pozione di mandragola, i cui
effetti però sono letali per chi, per primo, si congiunge con colei che l'ha
bevuta: occorre pertanto trovare una persona che per una notte sostituisca il
marito. L'inganno sarà effettuato grazie alla complicità di Sostrata, madre
della giovane, e dell'avido e cinico fra' Timoteo, suo confessore, che mettono
a tacere gli scrupoli dell'onesta Lucrezia, la quale, arrendendosi
all'immoralità altrui, finirà con il diventare l'amante di Callimaco.
Capolavoro del teatro italiano del Rinascimento, La Mandragola rispecchia un'umanità negata a ogni
trascendenza ed esclusivamente volta a soddisfare i propri istinti, contemplata
con spietata e impassibile ironia da Machiavelli, che in quell'inganno amoroso,
comico risvolto degli inganni politici de Il Principe, trova
la conferma della sua pessimistica massima secondo cui “nel mondo non è se non
vulgo”.La protagonista femminile della commedia, Lucrezia, è ingannata al fine
di essere conquistata, è vittima di intrighi, ma poi riesce a cogliere
un'occasione fortunata ed a diventare artefice del proprio destino.
Fra il 1513 e il 1519, Machiavelli scrisse i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio,
in cui, commentando i primi dieci libri delle Storie di
Livio, trae da esse riflessioni che reputa ancora attuali e valide per i suoi tempi. L'opera, concepita come una serie di considerazioni
in margine al testo liviano (la
prima decade dei libri Ab urbe condita, dall'origine di Roma all'anno 293 a.
C.), è ordinata senza sistematico rigore in tre libri: il primo tratta
dell'origine e della costituzione interna dello Stato, il secondo della sua
struttura militare e delle conquiste per l'espansione del dominio, il terzo
delle cause che ne determinano la stabilità o la decadenza.
Nel 1516, Machiavelli iniziò a frequentare le riunioni
nei giardini del Palazzo Rucellai – gli Orti Oricellari – dove discuteva di
argomenti letterari, filosofici e politici.
Fra il 1516 e il 1520, Machiavelli scrisse Dell'arte della guerra, dove sono
trattati problemi di tecnica militare, ed è ribadita la superiorità delle
milizie cittadine su quelle mercenarie.
Nel 1520, Machiavelli
scrisse la Vita di Castruccio Castracani da Lucca è un'operetta letteraria ispirata alla
vita dell'uomo d'arme lucchese Castruccio Antelminelli, condottiero ghibellino
del Trecento. Machiavelli. Riprende il modello delle biografie di stampo
classico e umanistico dei cosiddetti uomini
Illustri, descrizione dell'aspetto
fisico e del carattere, discorsi e aneddoti. Il Personaggio in sé assume
rilievo di tono narrativo e drammatico ma comunque di forte stampo politico,
L'autore riflette nel condottiero del '300 l'ideale del Principe virtuoso. Riacquistata la fiducia dei
Medici, ebbe da loro qualche piccolo incarico pubblico.
Fra il 1520 e il 1525 scrisse su commissione
del cardinale Giulio dei Medici le Istorie fiorentine che espongono la
storia di Firenze fino alla morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492.
Nel 1521 a Carpi conosce personalmente Francesco
Guicciardini con cui stringe un'amicizia testimoniata da molte lettere.
Nel 1525,
Machiavelli portò in scena a Firenze la commedia grottesca Clizia. Nello stesso anno ottenne la revoca dall'interdizione agli
incarichi pubblici e tornò a svolgere un'attività politico-diplomatica al
servizio dei Medici nella lega anti imperiale, formata da Firenze, il Papato e
la Francia.
Nel 1527, la
discesa in Italia dell'esercito imperiale di Carlo V travolse la lega e la
stessa città di Firenze, dove fu restaurata la repubblica democratica in seguito alla gravissima crisi sorta nei rapporti
tra Papa Clemente VII de' Medici) e Carlo V, conclusasi con
il Sacco di Roma. Il popolo
fiorentino credette che fosse venuto il momento opportuno per cacciare i Medici
e restaurare la Repubblica da esponenti savonaroliani e la famiglia dei
Medici fu costretta alla fuga: la presenza di Machiavelli fu sgradita al nuovo
governo repubblicano che guardava con sospetto al suo passato svolto dapprima
al servizio della Repubblica fiorentina e successivamente della famiglia dei
Medici e per tali motivi fu allontanato nuovamente da ogni incarico pubblico.
Tra il 1518 e il 1527
Machiavelli scrisse la novella Belfagor arcidiavolo
Fra
il 1497 – 1527 scrisse un Epistolario.
Nel 1527, Niccolò Machiavelli morì
improvvisamente a Firenze a cinquantotto
anni in condizioni di povertà.
Il pensiero
politico – Sulla scorta del rinnovamento posto in essere dall'umanesimo, con Machiavelli e la sua visione laica della vita la
politica compì la propria rivoluzione
copernicana, assumendo una dimensione e una dignità autonome rispetto alle
altre sfere della religione e della morale; le pagine del Principe mantengono la loro straordinaria
attualità e vitalità perché dimostrano che il potere è il più macroscopico
fenomeno umano di cui, anziché cercare giustificazioni o legittimazioni
trascendentali e metafisiche, occorre studiare realisticamente, e
demistificare, i meccanismi di esercizio e di funzionamento al di là di ogni
sovrastruttura ideologica. L'“incanto” della religione veniva spezzato per
sempre, e da allora, dopo la lezione di Machiavelli, il modo di intendere e
spiegare tutta la fenomenologia politica è cambiato. Filosofi e pensatori
politici, trattando le eterne, spinose questioni della migliore organizzazione
del potere all'interno dello Stato, discorderanno sui modi per garantire e
tutelare la libertà e la dignità degli individui, ma non potranno più
prescindere da una metodologia interpretativa rigorosamente empirica e
realistica e non si porranno più come assunto fondamentale il raggiungimento di
fini oltremondani quali la salvezza dell'anima dei cittadini.
La politica tende così a convertirsi nella scienza
politica.
1) La
politica come scienza autonoma - È opera di Machiavelli la
formulazione del principio che la politica è una scienza autonoma che mira a
fini propri e obbedisce a proprie leggi. Il fine della politica è la
costituzione e il mantenimento dello Stato; le sue leggi quelle che, applicate
con capacità ed energia, consentono al politico (e cioè al principe, perché nel
principato Machiavelli vede la forma politica adeguata ai suoi tempi) di
pervenire a tale meta. In tal modo la politica, coerentemente con lo spirito
rinascimentale, non è più concepita in funzione religioso-morale, cioè come
guida al retto vivere sulla terra in preparazione della beatitudine nell’Aldilà;
ma si prende atto che, nella concreta realtà, la politica e la morale si
muovono in ambiti diversi: la politica nell’ambito dell’utile, la morale nell’ambito
del buono e del giusto.
2) La
«verità effettuale» - La presa di coscienza della realtà effettiva in
cui si trova ad operare (di quella che Machiavelli chiama «verità effettuale»),
la capacità di valutarla con occhi snebbiati, senza illusioni, è condizione
necessaria al successo del principe. Solo se si renderà conto lucidamente della
situazione storico-politica in cui è immerso, se saprà prendere atto che gli
uomini sono generalmente malvagi, infidi, avidi, crudeli, e al massimo grado lo
sono gli uomini politici coi quali deve misurarsi; e se saprà poi agire di
conseguenza, ed essere a suo volta malvagio, infido, avido, crudele, solo in
questo caso il principe potrà ottenere successo. Al senso concreto e
disincantato della verità effettuale, Machiavelli contrappone quella che
egli chiama l’immaginazione della cosa, cioè l’illusione che il mondo
non sia quello che è ma quello, migliore, che ci piacerebbe che fosse.
Illusione nefasta per il principe, perché lo costringe a lottare coi suoi
avversari ad armi impari. «Elli è tanto discosto da come si vive a come si
doverebbe vivere che colui che lascia quello che si fa per quello che si
doverebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua: perché uno
uomo, che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene rovini
infra tanti che non sono buoni».
3) Il principe
e la virtù - Solo se saprà adeguarsi intelligentemente ai suoi
tempi e agli uomini con i quali deve cimentarsi, il principe sarà virtuoso.
La parolavirtù va intesa ovviamente in una accezione che non ha
più niente in comune con quella cristiana. La «virtù» di un principe è,
infatti, esclusivamente di natura politica, e significa capacità di successo
politico. Pur di raggiungere la meta che gli compete, cioè di costituire e
mantenere il suo Stato, il principe può commettere tutte quelle azioni che sono
considerate riprovevoli nei privati: può uccidere, tradire, non mantenere la
parola data, ecc. Su tali presupposti si capisce come Machiavelli possa
proporre come modello ai principi Cesare Borgia, personaggio feroce, infido,
corrotto, ma che era giunto vicino alla costituzione di uno stato vasto e
forte. Il principe cesserà di essere virtuoso solo quando il
suo comportamento, magari onesto e santo dal punto di vista morale, gli causerà
la perdita dello stato. Viene dunque posta una netta distinzione fra morale
pubblica, cioè la morale del politico, e morale privata,cioè
la morale dell’uomo quotidiano, che per il Machiavelli rimane quella
tradizionale.
4) Le
leggi della politica - Per raggiungere il successo il principe deve
conoscere le leggi che regolano la politica e sapersene valere. A tali leggi si
perviene sperimentalmente, partendo dall’analisi dei fenomenipolitici,
cioè delle azioni e dei comportamenti tenuti dagli uomini politici nelle più
diverse situazioni. Come avviene per le scienze naturali, le leggi che in
questo modo si possono formulare saranno tanto più valide e universalmente
applicabili quanto maggiore sarà il numero dei «fenomeni», cioè dei fatti,
presi in esame. Perciò il politico dovrà prendere in considerazione non
soltanto le situazioni e le azioni politiche contemporanee che egli può
conoscere direttamente di persona (esperienza delle cose presenti), ma
anche quelle del passato, di cui verrà a conoscenza mediante lo studio delle
storie (esperienza delle cose passate).
5) Le
milizie - Strumento indispensabile al successo del principe è un
esercito efficiente. E tale non può essere un esercito formato da milizie
mercenarie, pronte a vendersi al migliore offerente, e neppure da milizie
ausiliarie, cioè fornite da un altro principe e perciò pronte a tradire a suo
vantaggio. Il principe deve dunque possedere milizie proprie, cioè formate dai
cittadini del suo Stato debitamente addestrati alle armi.
6) Virtù
e fortuna – Alla virtù del principe, cioè alla sua
energia, intelligenza, spregiudicatezza, capacità di successo, si contrappone
spesso la fortuna. In lei gli uomini del Rinascimento non vedono
più, come vedevano i medioevali, una forza provvidenziale voluta da Dio per
mantenere l’equilibrio del mondo, ma una forza ostile che mira di solito a
sconvolgere i piani degli uomini virtuosi. Dalla fortuna il
principe dovrà sapersi difendere prevenendone i trabocchetti, così come gli
uomini che vivono presso fiumi impetuosi si difendono dalle piene costruendo
dighe che le prevengano.
7) Il
principe e il popolo – La concezione politica del Machiavelli è molto
aristocratica e individualistica. La politica dì uno Stato è per lui tutta
nelle mani del principe che, uomo eccezionalmente dotato, lo costruisce e lo
regge secondo criteri propri insindacabili dai sudditi. I sudditi, la massa
cioè del popolo, non hanno voce; sono usati dal principe strumentalmente per la
costruzione del suo edificio politico. Questo disprezzo per la
massa dei cittadini, chiamati sprezzantemente vulgo, è uno dei
limiti maggiori, proprio in sede politica, del pensiero machiavelliano: una
massa non educata, ma semplicemente e arbitrariamente sfruttata, si rivelerà
alla fine debole e inefficiente anche come strumento politico.
Il pensiero
di Machiavelli alla luce della realtà politica del suo tempo - Nel pensiero
politico machiavelliano è sempre presente, condizionandolo, una esigenza
fondamentale: che in Italia si costruisca rapidamente uno Stato il più
possibile vasto e forte. Machiavelli, infatti, con lucida diagnosi, si era reso
conto che l’Italia, divisa in piccoli Stati perennemente in lotta fra loro, non
avrebbe potuto resistere alla forza d’urto delle grandi monarchie che andavano
consolidandosi in Europa: Francia, Spagna, Impero, che già avevano cominciato a
volgere verso l’Italia le loro mire di conquista. Solo uno Stato italiano forte
avrebbe potuto contrastarle e salvare l’indipendenza della penisola. La
diagnosi era esatta: il sogno politico del Machiavelli non si attuò, e cominciò
per l’Italia, come egli aveva previsto, il lungo periodo delle dominazioni
straniere.
Un problema
rimasto aperto: il rapporto politica-morale - Se Machiavelli ha avuto
il merito di individuare l’autonomia reciproca della politica e della morale,
sgombrando il terreno da falsi presupposti, non si è posto però l’essenziale
problema di come queste due distinte attività possano, pur nella distinzione,
conciliarsi nella coscienza umana; se cioè sia possibile, e come lo sia,
attuare una politica che, pur perseguendo fini suoi propri, non contraddica ai
fondamentali principi etici dell’umanità.
È il problema
che il Machiavelli ha lasciato aperto ai posteri, e che nella pratica politica
ancora non è stato risolto, ma alla cui soluzione l’umanità deve tendere come a
meta fondamentale.
Ludovico
Ariosto – Ariosto è la tipica figura di
intellettuale cortigiano del Rinascimento, come Castiglione, Bembo e molti
altri letterati dell’epoca. La personalità di Ariosto è però complessa ed
inoltre nutre nei confronti dell'ambiente in cui vive e lavora sentimenti di
malcelato rifiuto e scaglia contro di esso una sottile polemica.
La vita e
le opere – Primo di dieci figli, Ludovico Ariosto nacque nel 1474 a Reggio
Emilia da Daria Malaguzzi (di nobiltà reggiana) e
dal conte Niccolò Ariosto (discendente da nobile
famiglia bolognese trapiantata a Ferrara) dove questi era capitano,
della rocca della città, in nome degli Estensi.
Nel 1481, la
famiglia si trasferì prima, a Rovigo, dove Niccolò era stato inviato dal duca
Ercole I d'Este con l'incarico di comandante della guarnigione; poi, a seguito
della guerra scoppiata tra Ferrara e Venezia, a Reggio, infine nel 1484, a
Ferrara, sede della Corte Estense, uno dei centri culturali più evoluti e
raffinati del Rinascimento.
Tra il 1489 e il
1494, contro voglia, per volere del padre, e con esiti piuttosto modesti,
studiò diritto presso l'Università di Ferrara. Ma intanto partecipava alla
vivace vita della corte di Ercole I, dove entrò in contatto con vari e
prestigiosi letterati e umanisti (Ercole Strozzi, Pietro Bembo e molti altri).
Lasciato finalmente libero dal padre di dedicarsi ai prediletti studi
letterari, abbandonò il diritto e intraprese lo studio della letteratura
latina, cominciando a frequentare i corsi
dell'umanista Gregorio da Spoleto ed impegnandosi anche in una
produzione poetica sia latina sul modello dei grandi poeti dell’antichità,
Tibullo, Catullo, Orazio (liriche amorose, elegie, De diversis amoribus, De
laudibus Sophiae ad Herculem Ferrariae ducem primum, Epithalamium, epitaffi ed epigrammi) sia volgare, le Rime di argomento prevalentemente
amoroso e di timbro petrarchesco (pubblicate postume 1546).
Nel 1500, in
seguito alla morte del padre e, poiché era il primogenito, la necessità di
provvedere a una numerosa famiglia, lo costrinse a cercare un impiego e ad
abbandonare così la vita meditativa degli studi per quella pratica: la tutela
delle cinque sorelle e dei quattro fratelli (tre dei quali minorenni e il
maggiore Gabriele paralitico, che rimane con lui tutta la vita). In una
delle Satire così egli rievoca argutamente questo momento
della sua vita:
Mi more il padre, e da Maria il pensiero.
dietro a Marta bisogna ch’io rivolga.
Nel 1502,
Ariosto ottenne il capitanato della rocca di Canossa.
Nel 1503, ebbe
un figlio, Giambattista, dalla domestica Maria. Sempre nello stesso anno entrò
al servizio del cardinale Ippolito d'Este, figlio di Ercole I e fratello del
duca Alfonso e divenne funzionario di corte. Al servizio del cardinale, uomo
gretto, avaro e insensibile alla cultura e alla poesia, svolse svariati,
faticosi, mal retribuiti e ingrati compiti: dalle incombenze pratiche, quali
aiutare il signore a spogliarsi, alle faccende amministrative, dalle funzioni
di intrattenimento e di rappresentanza alle delicate e rischiose missioni
politiche e diplomatiche. Il lavoro presso il cardinale lo costringeva ad
attività troppo lontane dai suoi gusti, dal suo amore per la poesia. La vita
stessa di corte, cui pure ambivano la maggior parte degli uomini di cultura del
tempo, la sentiva come una necessità alquanto fastidiosa e l’accettava di malavoglia,
anche se con bonaria rassegnazione. Vagheggiava per contrasto una esistenza
modesta e pacifica, libera da impegni gravosi e confacente ai suoi amati studi.
È un ideale che argutamente esprime in una delle Satire:
In casa mia mi sa meglio una rapa,
ch’io cuoca, e
cotta su ‘n stecco me inforco
e mondo e
spargo poi di aceto e sapa
che all’altrui
mensa tordo, starna o porco selvaggio.
Tra il 1507 e il 1515, periodo
assai ricco di incidenti diplomatici, Ariosto fu spesso costretto a fare viaggi
a cavallo per recarsi ad Urbino, a Venezia, a Firenze, a Bologna, a Modena, a
Mantova e a Roma. E così, mentre attendeva alla stesura dell'Orlando
furioso, e si impegnava nell'ambito del teatro di corte, scrivendo e
mettendo in scena i primi importanti esperimenti del nuovo teatro volgare, le
commedie Cassaria e I Suppositi, Ariosto fu protagonista di
una delle fasi più aspre delle guerre d'Italia.
Fra gli anni
1507 e 1531 compose per il teatro di corte cinque commedie modellate per la
struttura sui classici greci e latini, ma nelle quali spesso si riflettono la
vita e la società contemporanee.
La
situazione del Ducato, restio alla soggezione allo Stato della Chiesa, divenne,
in seguito alle vicende provocate dalla Lega di Cambrai del 1508, delicata sul piano militare e diplomatico.
Nel 1509, Ariosto seguì il
cardinale nella guerra contro Venezia.
Nel 1510, Ariosto si recò a Roma
per ottenere la revoca della scomunica inflitta da papa Giulio II Della Rovere al
cardinale e su quest'ultimo fu richiesta l'opera
di Ariosto, inviato spesso come messaggero presso Giulio II: la risolutezza del poeta è indicata dal fatto che il
papa giunse a minacciarlo di morte e di essere gettato ai pesci.
Nel 1512, Ariosto insieme al duca
Alfonso, che dopo la vittoria dei Francesi e dei
Ferraresi sulle truppe papali a Ravenna cercava di
rappacificarsi col pontefice, visse una romanzesca fuga attraverso gli
Appennini, per sottrarsi alle ire del pontefice, deciso a non riconciliarsi con
gli Estensi, alleatisi con i francesi nella guerra della Lega Santa.
Nel 1513, alla morte di Giulio
II, si recò nuovamente a Roma per felicitarsi con il nuovo papa Leone X de’
Medici, che aveva con lui rapporti amichevoli,
sperando, tuttavia invano, di ottenere un beneficio generoso che gli permettesse
una sistemazione più tranquilla, ma rimase
deluso. Nel viaggio di ritorno Ariosto conobbe a Firenze Alessandra Benucci, una
fiorentina sposata con il ferrarese Tito Strozzi:
fu l'unico amore della sua vita.
Nel 1515, morto il marito, la
Benucci andò ad abitare a Ferrara, ma non visse mai con lui, neppure dopo il
matrimonio, celebrato in gran segreto nel 1527 — affinché lei non perdesse i
diritti all'eredità del marito e lui i suoi benefici ecclesiastici.
Nel 1516, uscì la prima edizione
dell'Orlando furioso, in quaranta
canti, dedicata al cardinale Ippolito d'Este, che tuttavia non dimostrò
alcuna gratitudine.
Nel 1517,
Ariosto lasciò il servizio del cardinale Ippolito, quando questi fu nominato
vescovo di Budapest. Ariosto si rifiutò di seguirlo in un paese che giudicava
inospitale per costumi e per clima; e soprattutto perché sarebbe stato
costretto ad abbandonare, oltre che la sua città («a me piace abitar la mia
contrada»), anche la donna amata, Alessandra Benucci.
Tra il 1517 e il
1521, attende alla composizione delle sette Satire
componimenti in terzine e in forma epistolare (pubblicate solo nel 1534):
realistica e amara meditazione sugli ambienti cortigiani e sulla sorte degli
uomini di lettere. Non sono satire nel senso che è oggi dato al termine, ma
conversazioni argute e riflessive come le Satire oraziane che
Ariosto ebbe a modello. In esse l’autore delinea il proprio ritratto che, se
non corrisponde sempre a ciò che egli veramente fu nella realtà, coglie però i
tratti essenziali della sua natura e del suo carattere: la predilezione per la
vita studiosa e appartata, l’insofferenza per la mondanità vacua della corte,
l’amore per la sua donna e per la sua città e la sofferenza a staccarsi da entrambe,
l’ammirazione per la cultura classica; e poi le speranze e le delusioni che a
lui, come a tutti gli uomini, elargiva la vita: il tutto guardato con maturo e
bonario equilibrio.
Questi sono
probabilmente anche gli anni a cui risale la stesura dei Cinque Canti, composti
in vista di un inserimento nel Furioso, ma poi lasciati da parte a causa dei
toni cupi e perciò dissonanti rispetto al resto del poema.
Nel 1518, lasciato
il cardinale Ippolito, entrò al servizio del duca Alfonso I: anche questa
«servitù» non fu leggera, pur senza migliorare la situazione economica.
Tra il 1519 e il
1520 prosegue la composizione delle rime in volgare e compone, inoltre, due
commedie Il Negromante e I studenti (incompiuta).
Nel 1521, seguì
una seconda edizione dell’Orlando furioso.
Dal 1522 al 1525, per volere del
duca dovette, assumere, seppur malvolentieri, l’incarico di governatore della
regione montuosa e selvatica della Garfagnana, un paese violento, infestato dai
briganti. E, benché amasse rappresentarsi come inetto alle cose pratiche, tenne
questo difficile ufficio con fermezza ed equilibrio. Le Lettere, scritte per dovere d'ufficio al
duca, rivelano la grande fermezza, serietà e sagacia amministrativa e politica
con cui Ariosto cercò di ricondurre la legge e l'ordine in quel territorio di
confine, infestato dai banditi e dalle violenza delle fazioni rivali.
Nel 1525, lasciata la Garfagnana,
si apre un periodo più sereno e per il poeta e per il suo ducato. Tornato a
Ferrara, il duca gli affida varie cariche amministrative ma anche incarichi a
lui più congeniali. Fu chiamato, infatti, a far parte del Maestrato dei savi e fu nominato sovrintendente agli spettacoli di
corte. Riscrive in versi la Cassaria e I
Suppositi, rielabora Il Negromante.
Nel 1528 è a Modena con il duca
per scortare l'imperatore Carlo V di passaggio nello Stato estense e nel 1528
scrive una nuova commedia, la Lena,
in versi rappresentata a Ferrara nel carnevale
del 1528 e ripresa l'anno successivo con l'aggiunta di nuove scene. Imperniata
sui maneggi della ruffiana Lena per favorire gli amori contrastati della
giovane figlia di un suo amante, è il miglior testo teatrale ariostesco, in
quanto riscatta la convenzionalità del tema ancorandolo alla realtà ferrarese
del Rinascimento.
Tornato a Ferrara si ritirò
finalmente a vita privata; si comprò una modesta casetta con un piccolo orto, e
lì trascorse gli ultimi suoi anni, fra le occupazioni agresti e i diletti
studi, curando soprattutto l’ultima revisione della sua opera maggiore, L’Orlando
furioso.
Nel 1531, dopo essere stato a
Firenze, ad Abano e a Venezia, il marchese del Vasto, Alfonso d'Avalos,
condottiero dell'esercito imperiale, gli assegna, a Correggio, una pensione di
cento ducati d'oro.
Nel 1532 seguì una terza edizione
dell’Orlando furioso aumentata di sei
canti: notevolissima l’elaborazione linguistica e formale che intercorre fra
la prima edizione e l’ultima. Nello stesso anno diresse le recite di una
compagnia padovana inviata a Ferrara dal Ruzzante.
Ammalatosi di enterite, morì nel
1533 nella parva
domus acquistata sei anni prima in
contrada Mirasole.
Il «Furioso»
libro per la Corte - Il Furioso, nato nella Corte
estense e dedicato al cardinale Ippolito d’Este, si rivolge all’ambiente della
Corte e viene incontro al suo desiderio di svago e al suo gusto raffinato e
maturo.
Questa «udienza»
signorile è sempre presente sia al poeta che al lettore, per il quale essa
acquista concreta evidenza nelle frequenti apostrofi che Ariosto rivolge ai
suoi ascoltatori, nelle informazioni che da loro, alla fine di alcuni canti,
sul futuro svolgimento dell’azione, o nelle considerazioni che accompagnano il
racconto di vicende e il comportamento di personaggi, e che si sentono nate da
un’intesa esistenziale e culturale comune al poeta e a chi lo ascolta.
La materia
cavalleresca - La materia del poema è cavalleresca ed è enunciata da
Ariosto nelle ottave iniziali: egli canterà vicende d’armi e di amori che hanno
per protagonisti i paladini di Carlo Magno difensori della cristianità e i
Saraceni che, guidati dal loro re Agramante, sono giunti con la loro offensiva
fin sotto la mura di Parigi.
È una materia
che Ariosto trae dai due grandi cicli medioevali, il carolingio e il bretone,
nonché da numerosi cantari composti successivamente sulla scia dei cicli
stessi. Tale materia, in tempi ad Ariosto vicini, aveva ispirato
due altri poeti,
Pulci, autore del Margante maggiore e Boiardo autore dell’Orlando
innamorato. Era stato proprio Boiardo ad aprire la strada che poi
Ariosto avrebbe percorso trionfalmente, cioè ad operare la fusione dei due
cicli medioevali, il carolingio e il bretone, attribuendo ai paladini di Carlo
Magno, che nelle antiche chanson erano impegnati senza
distrazioni e umane debolezze nella difesa della patria e della fede, quelle
umane passioni, e soprattutto la passione amorosa, che avevano caratterizzato
gli eroi del ciclo bretone. Se, in virtù di tale «contaminazione», nel poema di
Boiardo Orlando era diventato innamorato, in quello di Ariosto
diventerà addirittura furioso, cioè pazzo per amore.
La materia
cavalleresca era dunque già di casa alla Corte estense. Ma mentre Boiardo
aveva recuperato vicende e personaggi con commossa ammirazione e con seria
adesione agli ideali che il mondo cavalleresco aveva rappresentato, Ariosto
vede in esso una realtà ormai troppo remota da quella dei suoi tempi, che era
la realtà feroce da cui nasceva il pensiero di Machiavelli. Rievoca perciò
questo mondo come una favola bella e improbabile; e di essa si avvale per
esprimere la sua concezione della vita, che è poi la concezione del
Rinascimento.
Se la materia
romanza alimenta in modo prevalente la molteplice varietà delle vicende
del Furioso, nel poema concorrono altre «fonti», cioè episodi
e situazioni tratte dagli autori classici.
Ma tutti gli
apporti esterni, quale che ne sia l’origine, acquistano originalità per il modo
con cui sono rielaborati dall’autore, e per lo spirito nuovo che in essi è
infuso.
Le
vicende - Le complicate e molteplici vicende del Furioso si
possono raccogliere intorno a tre filoni fondamentali che costituiscono l’ossatura
del poema:
1) L’amore
del paladino Orlando per Angelica, principessa del Catari: amore perennemente
deluso perché Angelica, bellissima e irraggiungibile, gli sfugge, e dal quale
sarà provocata la pazzia di Orlando.
2) Gli
amori del guerriero saracino Ruggero e della guerriera cristiana Bradamante,
che si concluderà, dopo varie vicissitudini in cui hanno gran parte gli
incantesimi del mago Atlante, con la conversione di Ruggero al Cristianesimo e
con le nozze dei due. Ed è questo il filone cortigiano-encomiastico del poema,
perché dalle nozze di Ruggero e di Bradamante avrà origine la casa estense; e
la narrazione delle loro vicende offre il destro al poeta di elogiare in forma
di predizione i maggiorenti della famiglia.
3) La
guerra fra Cristiani e Saraceni, che, tema quasi esclusivo delle chanson medioevali
del Ciclo carolingio, qui costituisce poco più che lo sfondo a tante variegate
vicende private.
Intorno a questi
tre temi fondamentali si svolgono innumerevoli vicende collaterali, e agisce
una miriade di personaggi: azioni e personaggi mossi da Ariosto con un’abilissima
e sicura regia che gli consente di mantenere al poema, pur nella varietà delle
sue elemento, un’articolata e salda unità.
La
«geografia» e la natura nel «Furioso» - In una delle Satire,
ironizzando sui suoi gusti sedentari, il poeta così si rappresenta:
Chi vuole andare a torno, a torno vada,
vegga Inghilterra, Ongheria, Francia e Spagna;
a me piace abitar la mia contrada.
E aggiunge che
le terre lontane che non conosce gli basterà percorrerle sulla carta geografica,
o, come dice, sulla scorta dell’antico geografo egiziano Tolomeo (II sec.
d.C.):
il resto della terra
senza mai pagar l’oste, andrò cercando
con Tolomeo, sia il mondo in pace o in guerra.
Quasi per
giocoso contrasto i suoi paladini e le sue dame invece corrono incessantemente
il mondo: Angelica viene dall’Oriente, gira per l’Occidente e poi torna in
Oriente; Orlando, Rinaldo, Ruggero, inseguendo i loro personali programmi,
lanciano i cavalli in terre remotissime, e Ruggero ha addirittura a disposizione
un cavallo alato, l’Ippogrifo, per superare più rapidamente le
distanze. Alle loro avventure non basta neppure la terra: Astolfo, infatti,
venuto in possesso dell’Ippogrifo, affronterà il viaggio sulla luna per
recuperare il senno di Orlando che nel frattempo è impazzito. A questa mobilità
dei personaggi si accompagna la varietà degli sfondi naturali nei quali essi si
muovono: boschi folti e fioriti o cupi e minacciosi, fiumi e ruscelli, lande
desolate e rupi marine, o il mare nella sua violenza quando è sconvolto dalle
procelle, o anche l’alone lunare e la fredda struttura dell’astro. Il fascino
rinascimentale della natura, di cui abbiamo parlato, ha nel poema ariostesco un
esempio tipico e fastoso.
Gli
«appetiti» degli uomini - Per Ariosto il mondo cavalleresco, nel quale
egli non crede più, è un veicolo per esprimere la sua visione della realtà e
per rappresentare le perenni e molteplici passioni, i «vari appetiti» degli
uomini.
Attraverso i
personaggi e i loro comportamenti, la natura umana vi è ritratta nella sua
molteplice varietà: il bene coesiste accanto al male, la generosità accanto
alla grettezza, l’eroismo accanto alla viltà, E il poeta da al bene e al male,
al bello e al brutto, uguale spazio e interesse, nella matura coscienza che di
questi contrasti è fatta la vita, o, come avrebbe detto il suo contemporaneo
Machiavelli, «la verità effettuale». Funzione del poeta non è tanto di
giudicarla, ma di capirla e di ritrarla. Scrive Caretti, riprendendo un
giudizio di Croce, che il segreto della poesia ariostesca, e l’elemento che da
ad essa unità, va ricercato «nel modo adulto e superiore con cui Ariosto,
quasi "occhio di Dio" che scruta e vede e intende l’intero universo,
ha saputo contemplare e rappresentare l’armonia cosmica che in sé rilega,
senza dissonanza alcuna, tutti gli aspetti della vita, anche i più
contraddittori e contrastanti».
Francesco Guicciardini - Francesco Guicciardini fu protagonista della
politica italiana negli anni delle guerre tra Francia e Spagna per il dominio
della penisola, e ne divenne anche il lucido interprete sul piano
storiografico.
Francesco
Guicciardini nacque a Firenze nel marzo del 1483, da una famiglia di
tradizionale fede medicea che proprio dai Medici aveva ottenuto benessere,
autorità ed onori come poche altre famiglie all'interno delle mura fiorentine.
Il padre Piero, profondamente legato al filosofo Marsilio Ficino, lo indirizzò
verso gli studi di giurisprudenza, studi che Francesco intraprese prima a
Firenze, poi a Padova e in ultimo a Pisa.
Nel 1508,
Guicciardini cominciò a dedicarsi al mestiere di avvocato e sposò Maria
Salviati, nonostante l'opposizione familiare dovuta all'appartenenza di
Alamanno Salviati, il padre di lei, al partito degli ottimati.
Dal 1512 al
1514, Guicciardini fu in Spagna come ambasciatore della Repubblica Fiorentina
presso Ferdinando il Cattolico e, nel 1515, diventò uno dei 9 membri della
Signoria.
Dal 1516 in poi,
si susseguirono per Guicciardini gli incarichi per conto di organismi o
esponenti ecclesiastici: venne nominato avvocato concistoriale e governatore di
Modena da papa Leone X dei Medici nello stesso 1516 e, tra il '21 ed il '26, fu
commissario generale dell'esercito pontificio, Presidente della Romagna e
diplomatico presso la lega di Cognac, fortemente voluta da papa Clemente VII
dei Medici per unire gli stati italiani contro Carlo V.
L'annus
horribilis di Francesco
Guicciardini fu il 1527, l'anno del sacco di Roma da parte dei lanzichenecchi
al servizio di Carlo V e l'anno in cui cadde la signoria dei Medici, con
conseguente ripristino della Repubblica. Guicciardini, la cui tradizione
familiare e il cui servizio presso due pontefici medicei lo rendevano
particolarmente inviso alla Firenze repubblicana, fu oggetto di numerose accuse
(alcune delle quali riuscì a dimostrare false), non poté più ricoprire
incarichi e si ritirò a vita privata.
Nel 1529,
Guicciardini fu oggetto di un processo da parte della Repubblica e, dopo essere
stato condannato in contumacia, gli furono confiscati i beni. Nello stesso anno
si trasferì a Roma.
Nel 1530, gli
imperiali riportarono i Medici a Firenze dopo un lungo assedio alla città e
papa Clemente VII tentò di riorganizzare il governo. Dopo violente lotte di
potere all'interno della dinastia medicea, assunse il potere Cosimo de' Medici,
il cui assolutismo Guicciardini, tornato nella sua città, cercò inutilmente di
frenare.
Morì nel 1540,
dal 1538 si era definitivamente ritirato dalla vita politica.
La vita e le opere
Discendente di
una delle più importanti famiglie fiorentine, ricevette una solida formazione
umanistica. Nel 1512 interruppe la stesura della sua prima opera, le Storie
fiorentine, per assumere un incarico diplomatico, un'ambasceria alla corte di
Spagna, ove rimase fino al 1514. Qui scrisse l'opera politica il Discorso di
Logrogno (1512), una proposta di organizzazione politica dello Stato
fiorentino, cui fece seguire poco dopo l'altro discorso Del governo di Firenze
dopo la restaurazione dei Medici e un Diario di viaggio. Tornato in Italia ed
entrato in buoni rapporti con i Medici di nuovo al potere, nel 1516 ebbe da
papa Leone X l'incarico di governatore di Modena (in seguito governerà Reggio
Emilia e la Romagna). In quegli anni si dedicò alla stesura del Dialogo del
reggimento di Firenze (1525). In campo politico operò soprattutto per favorire
l'alleanza tra Francia e Papato in funzione antimperiale (lega di Cognac), al
cui interno fu nominato luogotenente generale della Chiesa. Dopo il sacco di
Roma (1527), venne rimosso dalle cariche che ricopriva.
Tornato a
Firenze, da cui nel frattempo erano stati cacciati i Medici, si dedicò
all'attività letteraria: scrisse una parte dei Ricordi (1528) e opere storiche,
come le Cose fiorentine (1528-31) e soprattutto le Considerazioni sopra i
Discorsi del Machiavelli (1528), rilevanti per comprendere la sua concezione
della politica. Bandito dalla città a causa delle sue simpatie medicee, prima
si ritirò nella proprietà di Finocchieto e poi si rifugiò in Romagna presso
Clemente VII. Quando nel 1530 la Repubblica fiorentina fu abbattuta,
Guicciardini riprese i rapporti di collaborazione con il papa, che nel 1531 lo
nominò governatore a Bologna e nel 1533 lo volle con sé in un viaggio a
Marsiglia per incontrare il re di Francia. Si dedicò quindi all'organizzazione
del potere mediceo a Firenze, ma poco alla volta venne emarginato: ritiratosi
allora nelle sue proprietà, si dedicò sempre più al lavoro letterario e in
particolare alla stesura del suo capolavoro, la Storia d'Italia, iniziata nel
1536 e non del tutto terminata quando lo colse la morte nella villa di Montici.
I "Ricordi"
Nessun'opera di
Guicciardini fu pubblicata durante la sua vita: fra le altre, rimasero tra le
carte di famiglia più di duecento pensieri e aforismi pubblicati nel 1576 con
il nome di Avvertimenti e poi con il titolo ottocentesco di Ricordi. La stesura
di queste brevi riflessioni coprì tutto l'arco della vita dello scrittore,
dagli anni giovanili (la prima serie di pensieri risale addirittura agli anni
spagnoli) fino al 1530. Guicciardini riflette sulla "ruina d'Italia"
con una lucidità che esclude ogni riferimento a modelli e teorie: non cerca e
non accetta spiegazioni e interpretazioni universali della realtà politica.
Egli è convinto che, in linea di massima, i rapporti umani siano caratterizzati
da una negatività raramente modificabile e che quindi il risultato di ogni
azione politica sia determinato più da mutamenti in superficie che da
iniziative che pretendono di agire sui meccanismi profondi del processo
storico. A essi si deve abituare "il buon occhio del saggio" per
esercitare la "discrezione", cioè la capacità di comprendere e
sapersi orientare in mezzo alle infinite variazioni che si propongono allo
sguardo di chi deve guidare la cosa pubblica. In questo quadro l'obiettivo da
perseguire è costituito dal "particulare", che riguarda sia la sfera
personale e si identifica con il "decoro" (cioè la reputazione e
l'onore personali e familiari), sia il campo politico, in cui si realizza come
il migliore equilibrio possibile tra le violente e oscure forze contrastanti.
Il "particulare" non è quindi la trasformistica capacità di fare
comunque i propri interessi (come a lungo è stato interpretato), quanto la
salvaguardia della propria dignità in tempi di crisi in cui non si riescono a
realizzare alti ideali collettivi.
La "Storia d'Italia"
Questa
concezione dell'agire umano è il risultato di una drammatica sconfitta non solo
di una politica o di una strategia militare, ma di tutta una civiltà. La Storia
d'Italia (20 libri) fu pubblicata, con numerosi tagli censori, a Firenze nel
1561 e più completa a Venezia nel 1564. Il periodo considerato è relativamente
breve: dal 1492 (morte di Lorenzo il Magnifico) al 1534 (morte di Clemente VII,
l'ultimo papa Medici). In questi decenni si passò dalla prosperità e
dall'equilibrio del tardo Quattrocento alla rovina totale, drammaticamente
rappresentata dal sacco di Roma (1527) da parte delle truppe dell'Impero,
raccontato da Guicciardini in pagine di alto valore letterario. Egli individua
i principali responsabili di tale disastro in Ludovico il Moro e in papa
Alessandro VI, che, mossi da un irrefrenabile desiderio di potenza, chiamarono
in Italia gli eserciti stranieri. Più in generale la narrazione mette in
risalto il percorso di violenza, di presunzione, di cecità dei principi italiani
che si illusero di saper controllare e utilizzare per i propri piccoli
interessi dinastici o territoriali forze di gran lunga più potenti di loro. Da
queste vicende Guicciardini ricava la convinzione che non è più possibile
ragionare in termini campanilistici, in quanto le cause della rovina di ogni
singolo stato italiano derivano dalla crisi di tutto il sistema politico. Così
dallo studio del passato nasce una riflessione politica proiettata nel futuro:
l'identità storico-culturale d'Italia ha bisogno di realizzarsi in un organismo
unitario, che egli pensa di tipo federale. Ma Guicciardini non si illuse che
ciò potesse avvenire in tempi brevi: nel suo radicale pessimismo egli avvertì
costantemente lo scarto tra le teorizzazioni della ragione e la resistenza
opposta dalla realtà.
Unica opera
che Guicciardini scrisse per la pubblicazione, la Storia d'Italia presenta una
lingua di grande nobiltà formale, a cui non fu estraneo il confronto con le
Prose della volgar lingua di Bembo.
[1] La lotta per le investiture – Il Papato dopo aver affermato con Nicolò
II l’autonomia del pontefice e
l’indipendenza della sua elezione dall’Imperatore nel 1059, pretendeva che
l’investitura imperiale, o comunque laica, dei dignitari ecclesiastici,
spettasse al pontefice o alle altre autorità religiose.
La fase culminante della lotta vide, nel
suo corso, contrapporsi due personalità eccezionali, l’Imperatore Enrico
IV e il papa Gregorio VII.
La conclusione
della lotta si ebbe nel 1122 con un accordo tra Enrico V e Callisto II, il Concordato
di Worms. Quest’atto stabiliva
che:
- l’investitura
spirituale è separata da quella temporale
- in
Italia precede l’investitura del papa, in Germania quella dell’imperatore.
In pratica l’Imperatore, che voleva
controllare le nomine dei vescovi conti (senza eredi e quindi facilmente
manovrabili alla morte del feudatario) può farlo solo in territorio germanico.
L’Italia è controllata dal pontefice che nomina direttamente i vescovi.
Questo segnava nel complesso una vittoria della Chiesa
e di coloro che ne avevano voluto la riforma.
[2] L'organizzazione delle corporazioni - Il compito primario di ogni corporazione era la
difesa del monopolio dell’esercizio del proprio mestiere e chi lo praticava,
pur non essendovi iscritto, era considerato come una sorta di lavoratore in
nero che costituiva un potenziale pericolo verso gli associati.
Si possono individuare alcuni tratti comuni a tutte le
corporazioni, riguardanti la loro linea di condotta e gli scopi perseguiti;
· La tutela della qualità dei manufatti; i
regolamenti interni imponevano un rigido controllo sull’uso delle materie
prime, gli strumenti di lavoro, le tecniche di lavorazione e la lotta ai falsi,
cioè a quei prodotti che non rispettavano gli standard qualitativi previsti
dalle associazioni;
· Il principio dell’uguaglianza tra i soci, che era
volto ad impedire azioni di concorrenza sleale tra i membri della corporazione;
in realtà lo svolgimento delle attività era vincolato da un ordine gerarchico,
che distingueva gli appartenenti in maestri, apprendisti e lavoranti,
creando una notevole disparità economica tra gli iscritti;
· La particolare attenzione rivolta verso la
formazione delle nuove matricole, attraverso un periodo di apprendistato che
variava da città a città; l’apprendista entrava poco più che bambino nella
bottega del maestro che si impegnava ad insegnargli tutti i segreti del
mestiere
· L’esercizio della giurisdizione sui suoi iscritti,
per questo le corporazioni rivendicavano una competenza esclusiva nelle materie
di loro competenza, come le cause tra i membri e le infrazioni commesse verso i
regolamenti.
[3] Statuti delle arti - Ogni arte aveva un proprio statuto ed
era strutturata secondo gli organismi di rappresentanza che diventarono sempre
più ristretti:
· Il Corporale: era
l’assemblea plenaria degli iscritti che inizialmente si riuniva a scadenze
ravvicinate ed eleggeva dei rappresentanti chiamati,consoli, priori, rettori, capitani ecc.
che avevano il compito di gestire tutte attività della corporazione, comprese
le pubbliche relazioni con l’esterno;
· Il Consiglio: era un
organo di consulta più ristretto con il compito di ratificare o respingere le
decisioni dei consoli e si sostituì progressivamente al Corporale, convocato
sempre meno frequentemente;
· L'Apparato burocratico:
composto in genere da un notaio con funzioni di segretario e addetto al
protocollo ed un tesoriere.
[4] Monopolio - Il monopolio è una forma di mercato dove un unico
venditore offre un prodotto o un servizio per il quale non esistono sostituti
stretti (monopolio naturale) oppure opera in ambito protetto (monopolio legale,
protetto da barriere giuridiche). Deriva dal greco μονοσ (monos: traduzione
solo) e πολιον (polion, da polein — vendere).
Una situazione di monopolio può crearsi
come conseguenza di:
· Esclusività sul controllo di
input essenziali;
· Economie di scala, dove la curva
del costo medio di lungo periodo è decrescente, ossia che un aumento della
produzione, diluendo i costi su più unità di prodotto, ne riduce l'incidenza
media (questa condizione può dare luogo a un monopolio naturale);
· Brevetti;
· Licenze governative.
[5] L'Impero
sotto gli Staufen – Corrado III salì al trono nel 1138, fu il primo
imperatore della dinastia Hohenstaufen o di Svevia, in quanto gli Hohenstaufen
erano duchi di Svevia, il cui periodo coincise con la restaurazione della
gloria dell'Impero anche sotto le nuove condizioni del concordato di Worms.
Federico I Barbarossa, il
secondo della dinastia di Svevia (Imperatore dal 1155 al 1190) chiamò per
primo Sacro l'Impero, e con questo indirizzò molto la
legislazione. Sotto il Barbarossa, l'idea della Romanità dell'Impero
tornò a crescere, quasi fosse un tentativo di giustificare il potere imperiale
indipendente dal Papa.
nel 1158 nella Dieta di
Roncaglia esplicitamente giustifica i diritti imperiali con la
opinione di quattuor doctores del nuovo organismo giuridico
dell’Università di Bologna, che cita frasi come: princeps
legibus solutus (il Principe non è soggetto alla legge) tratte
dal Digestae del Corpus iuris civilis.
Fino alla Lotta per le
investiture, ai diritti imperiali ci si era riferiti col termine generico
di Regalia, ma a Roncaglia furono enumerati per la prima volta.
Questo elenco includeva:
strade pubbliche,
tariffe,
emissione di moneta,
raccolta di imposte punitive
nomina e revoca dei funzionari.
Questi diritti furono ora radicati
esplicitamente nella Legge Romana, come fosse una legge
costituzionale ed il sistema fu anche connesso alla Legge Feudale.
Barbarossa quindi cercò di legare più
strettamente i riottosi Duchi Tedeschi all'Impero come un tutt'uno.
Un'altra importante novità
costituzionale di Roncaglia fu lo stabilimento di una nuova pace per tutto
l'Impero, un tentativo non solo di abolire le vendette private fra i duchi
locali, ma anche di legare i subordinati dell'Imperatore ad un sistema di
giurisdizione e di persecuzione pubblica degli atti criminali, concetto che
all'epoca non era universalmente accettato.
Poiché, dopo la lotta per le
investiture, l'Imperatore non poteva più appoggiarsi alla Chiesa per mantenere
il potere, gli Staufen concedevano sempre più terra a funzionari che Federico
sperava fossero più manovrabili dei Duchi locali. Inizialmente utilizzati
soprattutto per servizi di guerra, questi avrebbero formato la base per la
futura classe dei Cavalieri, altro appoggio del potere imperiale.
Un altro concetto innovativo per il
tempo era la fondazione sistematica di nuove città, da parte dell'Imperatore e
da parte dei Duchi locali. Ciò era dovuto parzialmente alla esplosione della
popolazione, ma anche alla necessità di concentrare il potere economico in
località strategiche, mentre fino ad allora le sole città esistenti erano le
antiche di fondazione romana o le più vecchie sedi vescovili. Fra le città
fondate nel XII secolo Friburgo, modello economico per molte altre
successive, e Monaco.
Il regno dell'ultimo degli
Staufen, Federico II, fu per molti aspetti differente da quello dei
predecessori. Dopo essere stato incoronato imperatore 1220, rischiò il
conflitto con il Papa avendo reclamato il potere su Roma; in modo stupefacente
per molti, si impossessò di Gerusalemme nella Crociata del 1228 mentre
era ancora scomunicato dal Papa.
Mentre Federico II riportava in alto
l'idea mitica dell'Impero, contemporaneamente fece il passo iniziale nel
processo che portò poi alla sua disintegrazione. Da un lato si concentrò sulla
instaurazione in Sicilia di uno Stato straordinariamente moderno per i tempi,
con servizi pubblici, finanze, e sistema giudiziario. Dall'altro lato Federico
fu l'Imperatore che concesse i maggiori poteri ai Duchi Tedeschi in due Privilegi che
non sarebbero mai più stati revocati dal potere centrale:
Nel 1220 con Confoederatio
cum princibus ecclesiasticis, Federico sostanzialmente cedeva ai Vescovi un
certo numero di diritti imperiali(Regalia), fra cui quelli di stabilire
tariffe, battere moneta, ed erigere fortificazioni.
Nel 1232 con Statutem in
favorem principum sostanzialmente estendeva questi diritti agli altri
territori. Benché molti di questi privilegi esistessero già prima, almeno non
erano elargiti in modo generalizzato e definitivo, onde permettere ai Duchi di
mantenere l'ordine al Nord delle Alpi mentre Federico voleva concentrarsi sulla
sua terra natale in Italia. Nel documento del 1232 per la prima volta i Duchi
Tedeschi sono chiamati Domini terrae, proprietari della terra, altro
cambio notevole.
[6] Istituzioni: La formazione storica della
sovranità statale e l’accentramento del potere politico – Il Re
(in origine il feudatario più potente) operò in due direzioni:
· per ridurre sotto il proprio controllo la miriade di poteri
feudali indipendenti (della nobiltà, della Chiesa, delle città, delle
corporazioni professionali);
· per estendere il territorio sotto il proprio controllo.
Molte ragioni spingevano verso
l’unificazione di ampi territori sotto un unico potere: si trattava di
difendersi dalle mire aggressive degli altri feudatari, rendendoli incapaci di
nuocere, di arricchire il proprio Stato, annettendo nuovi territori, di
procurarsi nuovi mezzi per assoldare eserciti più forti, di assicurare la tranquillità
delle attività commerciali su territori sempre più vasti.
Dove questa politica ebbe successo, si
formarono nel corso dei secoli le grandi monarchie nazionali sovrane (come
quella inglese, spagnola e francese).
Esse accentrarono il potere politico che
durante il feudalesimo era sparso tra i vari signori. La sovranità fu il
prodotto di questo accentramento.
I
poteri amministrativi, giudiziali e legislativi del re - A partire dal 1100 iniziarono a svilupparsi stabili organizzazioni di
servitori del re. Dapprima essi avevano funzioni in materia finanziaria (il
pre-lievo delle imposte) e giudiziaria (la risoluzione delle liti e il mantenimento
della pace nel regno). Col tempo, i servitori del re si moltiplicarono, a causa
dell’aumento delle necessità dello Stato (gli ambasciatori, gli eserciti, gli
intendenti che controllavano le attività economiche, ecc.). Per il disbrigo
delle pratiche e per la decisione delle liti, il re dava precise istruzioni.
Si trattava di raccolte di consuetudini locali, di precedenti istruzioni, di
regole di buon governo, ecc. in cui però, quando occorreva, si inserivano
norme nuove. Qui sta l’origine del potere legislativo.
Le strutture politiche
centrali - Il re non poteva
seguire tutti gli affari del regno e perciò si avvaleva di coadiutori, ministri
o cancellieri. All’inizio, erano altri signori feudali, che aiutavano il re e
insieme lo controllavano. In seguito, si trattava di persone qualsiasi di cui
il re aveva fiducia, totalmente subordinate alla sua volontà. Questa è
l’origine della amministrazione moderna. Un’altra vicenda che si può osservare
ovunque è la formazione, presso il re, di assemblee che rappresentavano le
diverse componenti del regno (i signori feudali, le città, le corporazioni,
ecc.). Il re sottoponeva ad esse le questioni più importanti, per ottenerne il
consiglio e il consenso. Queste assemblee assumevano nomi diversi: Stati
generali in Francia, Cortes in Spagna, Camere dei Comuni e dei Lord in
Inghilterra, Parlamenti o Diete altrove. Da loro deriveranno, dopo la
Rivoluzione francese, i Parlamenti moderni, eletti dai cittadini.
Anche i Parlamenti furono fattori di
accentramento politico. Essi limitavano il potere del re, ma facevano anche sì
che ogni attività politica si svolgesse in un luogo solo, la capitale, e in un
ambiente politico ristretto, fatto di persone che si conoscevano
personalmente.
La spersonalizzazione degli uffici statali - Coloro che all’inizio esercitavano
poteri per conto del re, come suoi coadiutori di fiducia, divennero col tempo
funzionari dello Stato al quale prestavano la loro attività, in cambio di una
remunerazione. Ciò diede origine a quell’apparato che noi denominiamo
burocrazia, cioè l’insieme di persone stipendiate dallo Stato per svolgere i
compiti pubblici. La causa di questa trasformazione del vincolo di dipendenza
personale dal re in dipendenza impersonale dallo Stato fu l’incremento
progressivo dei compiti pubblici di cui si è detto.
Per il re, controllare personalmente
tutta l’azione dei suoi agenti divenne tanto più difficile quanto maggiore era
l’estensione dello Stato e quanto più numerose le sue attività. Egli non poteva
conoscere ogni questione e raggiungere tempestivamente con i propri ordini
tutte le contrade del regno. Non potendo esserci istruzioni del re per ogni
affare, caso per caso, divenne necessario inquadrare gli agenti pubblici in
strutture burocratiche stabili - gli uffici -, dotate di competenze
prestabilite, legate tra di loro da rapporti rigidi di dipendenza, capaci di
agire normalmente per proprio conto. Il re stava al vertice e le guidava con
regole generali e astratte, cioè con leggi. Alla fedeltà al re dei funzionari
veniva così a sostituirsi il rispetto della legge.
[7] I Capetingi - I primi Capetingi avevano poteri limitati sui loro
vassalli più potenti, a capo di interi principati. Il dominio reale era ridotto
alla sola regione dell'Île-de-France.
Nonostante ciò, i Capetingi furono in
grado di rendere ereditaria la successione, grazie all'associazione dei propri
discendenti alla corona, quando il sovrano era ancora in vita. Grazie a
un'abile politica praticata da molti esponenti della dinastia, garantirono
inoltre l'espansione del dominio reale originario sino a trasformarlo in uno
dei regni più potenti d'Europa.
Occorre tuttavia sgombrare il campo da
equivoci sulla natura di tale dominio. Nel sistema feudale tutti i grandi
feudatari del regno sono tenuti all'omaggio nei confronti del sovrano. I
vassalli più prestigiosi del re di Francia erano i sovrani di Angiò e
d'Inghilterra. Questo Impero plantageneto aveva raggiunto
dimensioni ragguardevoli, estendendosi dai Pirenei alla Scozia passando per
l'Aquitania, l'Angiò, la Normandia e l'Inghilterra. Considerando i soli domini
posti sotto la sua amministrazione diretta il re di Francia era più debole, ma
in termini di vassallaggio si trovava effettivamente al vertice del potere
feudale. Questa situazione divenne presto intollerabile per i sovrani
anglo-angioini, tanto che il contrasto sfociò in due guerre.
I re d'Inghilterra erano vassalli del re
di Francia unicamente per i territori che da tale regno dipendevano. Erano
invece gli unici signori del regno d'Inghilterra, semplice provincia dell'Impero
plantageneto il cui cuore era nell'Angiò; i monarchi inglesi di
questo periodo nascevano, trascorrevano la loro vita e venivano sepolti sul
continente.
Appena salito al trono, Filippo II
dovette dedicarsi interamente ai suoi obiettivi primari:
· la cacciata degli anglo-angioini
dal territorio francese
· la modernizzazione dello Stato.
A quell'epoca, i rappresentanti dei
Plantageneti erano Riccardo Cuor di Leone e il fratello Giovanni Senzaterra. Il
primo morì nel 1199 lasciando al potere il secondo, sul quale si addensarono le
nubi di una ventilata invasione dell'Inghilterra (1213).
Benché in posizione di debolezza,
Giovanni tentò di reagire formando una coalizione con l'imperatore tedesco
Ottone IV e il conte di Fiandra, che era anche re del Portogallo. La marina
inglese affondò la flotta francese nel maggio 1213, ma le sorti del conflitto
si decisero a terra, a Bouvines.
Il 27 luglio 1214 Filippo II ottenne una
decisa vittoria sulla coalizione nella battaglia di Bouvines, segnando una
svolta cruciale nella storia dell'Occidente. Da quel momento la Francia si
avviò alla centralizzazione,
Nel viaggio di ritorno verso Parigi, il
popolo francese rese vivaci omaggi al re vincitore.
Dopo la
battaglia di Bouvines, la Francia di Filippo Augusto conobbe un secolo di pace.
[8] Battaglia di Bouvines - La Battaglia di Bouvines del 27 luglio 1214, fu
il primo grande conflitto internazionale tra coalizioni di eserciti nazionali
in Europa. Nel gioco delle alleanze, orchestrato dal papa Innocenzo III,
Filippo Augusto di Francia inflisse ad Ottone IV di Germania e al conte
Ferrante di Fiandra una sconfitta così decisiva che Ottone fu deposto e
sostituito da Federico II Hohenstaufen. Ferrante fu catturato e imprigionato.
Quanto a Filippo, riuscì ad avere il
controllo completo e indiscusso sui territori di Angiò, Bretagna, Maine,
Normandia e Turenna, che aveva da poco strappato a Giovanni d'Inghilterra,
parente e alleato di Ottone.
[9] La fine della dinastia
capetingia – La dinastia capetingia
s'interruppe in modo tumultuoso, con il regno successivo di tre dei figli di
Filippo IV. Gli scandali legati alle infedeltà coniugali delle nuore del re
minarono gravemente il prestigio della monarchia.
In mancanza di eredi maschi in linea
diretta per l'ultimo dei Capetingi, il potere venne trasferito al ramo cadetto
della Casa di Valois. Questa scelta si scontrava con le ambizioni di Edoardo
III, re d'Inghilterra la cui discendenza da Filippo il Bello era attraverso la
linea materna. La Legge salica venne usata anche
in questo caso dai maggiori feudatari per allontanare la pretesa del re
inglese, vista come un grave pericolo per la loro indipendenza. Tale contesa fu
la causa diretta della guerra dei cent'anni.
[10] La guerra dei cent'anni – Durante questo conflitto, il territorio francese fu il campo
chiuso di combattimenti sporadici ma accaniti tra i re di Francia e
d'Inghilterra. Gli Inglesi erano privilegiati dalla superiorità tattica del
proprio esercito e furono in grado di infliggere alla cavalleria francese due
sconfitte a Crécy e Poitiers. Carlo V evitò grandi battaglie affidò a valorosi
condottieri la riconquista del territorio, riprendendo una a una le piazzeforti
nemiche con una strategia di assedi successivi.
Nel 1337 agli Inglesi restava il
controllo unicamente della Guyenne e di Bayonne, Calais e Cherbourg. Durante il
regno di Carlo VI i grandi del regno stabilirono alleanze in funzione delle
proprie strategie personali e la situazione divenne molto difficile. I parenti
più prossimi del re, il fratello Luigi I d'Orléans e il potente duca di
Borgogna Giovanni senza paura intesero cogliere l'occasione per estendere il
proprio potere; ne scaturì un'aspra rivalità culminata nell'assassinio di
entrambi i protagonisti e nel tentativo di modificare la successione per
scalzare il delfino Carlo VII. Questi venne infatti costretto alla fuga da
Parigi, mentre gli Inglesi riuscirono a far nominare il proprio sovrano grazie
all'appoggio dei Borgognoni.
Ma la chiave del conflitto risiedeva
nella scelta della nazionalità. A causa delle strategie di saccheggi e
scorrerie, gli Inglesi erano odiati dal popolo e sostenuti principalmente dagli
artigiani e dagli universitari delle città. Il ruolo di Giovanna d'Arco fu in
questo contesto più politico che militare, agendo da catalizzatore di questa volontà
"di ricacciare gli Inglesi fuori dalla Francia". Giovanna partecipò
all'assedio di Orléans e dopo la battaglia di Patay insistette affinché
l'incoronazione di Carlo VII si tenesse a Reims. La sua azione consentì di
rilegittimare la nascita del re, mettendo a tacere le voci che lo indicavano
come figlio naturale del duca d'Orléans e rendendone possibile l'ascesa al
trono. Questo fatto spianava la strada verso la riconquista del territorio
francese. Il ruolo militare di Giovanna d'Arco fu modesto: nell'inverno del
1429 venne bloccata davanti al borgo di La Charité-sur-Loire prima di essere
fatta prigioniera di fronte a Compiègne.
La fine del conflitto era ormai vicina:
dopo che Carlo VII si fu rappacificato con i duchi di Borgogna gli Inglesi si
trovarono privi di un potente alleato e del sostegno necessario sul terreno,
venendo obbligati ad abbandonare la Francia nel 1453.
I re di Francia tornarono allora a
godere di prestigio e autorità, anche se si trovarono comunque a fronteggiare
avversari temibili quali i duchi di Borgogna, i Granduchi d'Occidente Filippo
il Buono e Carlo il Temerario, principali rivali di Carlo VII e del figlio di
questi Luigi XI. Ai possedimenti in Borgogna si sono infatti aggiunti i Paesi
Bassi, arrivando a costituire uno dei regni più potenti d'Europa.
Alla morte di Carlo il Temerario (1477),
però, una parte dei suoi possedimenti andò in eredità alla figlia Maria di
Borgogna, moglie di Massimiliano d'Austria, aprendo un nuovo fronte di
pericolo.
Con la conclusione del Medio Evo ebbe
termine anche l'epoca dei grandi principati: prima il ducato di Borgogna e poi
quello di Bretagna.
[11] Luigi
XI il Prudente –
Re di Francia dal 1461 al 1483, figlio e successore di Carlo VII, rasentò a tal
punto i limiti del cinismo, da essere soprannominato il ragno universale.
Proseguì l'opera paterna riportando l'unità e la stabilità nel paese dopo le
devastazioni della guerra dei Cent'anni.
[12] Carlo VIII – Re dal 1483 al 1498, figlio di Luigi XI e di Carlotta di
Savoia, fu affidato dal padre morente alla tutela della sorella Anna e del
marito di lei sotto la cui reggenza regnò fino al 1491.
Anna represse agevolmente la guerra
folle capeggiata dal duca d'Orléans nel 1488, e preparò l'annessione
della Bretagna alla Francia mediante il matrimonio del fratello con la duchessa
Anna nel 1491.
Raggiunta la maggiore età, Carlo VIII,
sollecitato da vari signori italiani, soprattutto da Ludovico il Moro, diresse
le sue mire verso l'Italia, dove aveva ereditato le pretese di Carlo d'Angiò
sul regno di Napoli.
La sua impresa, inoltre, tendeva anche
al trono di Costantinopoli. Per raggiungere tali scopi pagò la neutralità dei
vicini: alla Spagna donò le regioni del Rossiglione e della Cerdaña,
all'Austria cedette l'Artois e la Franca Contea, a Enrico VII d'Inghilterra promise
745.000 scudi d'oro.
Facilitato dalle numerose rivalità
presenti tra i vari Stati della penisola compì facilmente la sua conquista,
anche se si formò presto contro di lui una forte coalizione formata da papa
Alessandro VI, Ludovico il Moro ed i Veneziani, che era anche favorita da
Ferdinando il Cattolico e da Massimiliano d'Austria, allarmati dai successi
francesi. Carlo dovette pertanto abbandonare in fretta la regione di Napoli e
battere in ritirata.
L'anno dopo, mentre attendeva alla
preparazione finanziaria e diplomatica di una nuova spedizione in Italia, Carlo
VIII morì per aver battuto la fronte contro l'architrave d'una porticina del
castello d'Amboise.
[13] Reconquista – La
Reconquista fu la conquista dei Regni moreschi di Spagna da parte dei sovrani
Cristiani, che culminò il 2 gennaio 1492, quando Ferdinando e Isabella, i Re
Cattolici, espulsero l'ultimo dei governanti moreschi dalla Penisola
Iberica, unendo gran parte di quella che è la Spagna odierna sotto il loro
potere.
Dopo l'invasione musulmana dell'Iberia
nel 711, i Mori avevano conquistato gran parte della penisola nel giro di
cinque anni.
Alcuni secoli dopo i cristiani
iniziarono a vedere la conquista come parte di uno sforzo secolare per
ripristinare l'unità del Regno Visigoto.
Le battaglie contro i Mori non
impedirono ai regni cristiani di combattersi l'un l'altro o di allearsi con i
re islamici. I re moreschi spesso avevano mogli o madri nate cristiane.
Negli ultimi anni dell'Al-Andalus, la
Castiglia aveva la potenza militare necessaria a conquistare i resti del Regno
di Granada.
I Papi chiamarono i cavalieri d'Europa
alle crociate nella penisola iberica. Eserciti francesi, navarresi,
castigliani, e aragonesi si riunirono nella Battaglia di Las Navas de Tolosa (1212).
I cristiani nominarono San Giacomo, loro santo protettore.
I grandi territori concessi in premio
agli ordini militari e ai nobili furono le origini del latifondismo
nell'odierna Andalusia ed Estremadura.
Il miscuglio di Cristiani, Musulmani ed
Ebrei venne ufficialmente cessato dalla limpieza de sangre, termine che, dato
il contesto storico completamente diverso, non è accomunabile all'odierna
pulizia etnica.
[14] La
Riforma imperiale - Nel 1495, una Dieta a Worms in
Germania concluse la Riforma imperiale, una raccolta di testi legali tendente a
dare qualche struttura all'Impero in via di disgregazione. Tra le altre cose
furono istituiti i Circoli Imperiali di Stato e la Corte
della Camera Imperiale.
[15] Massimiliano I del Sacro Romano
Impero – Massimiliano I d'Asburgo, figlio dell'Imperatore Federico III
e di Eleonora del Portogallo, fu imperatore del Sacro Romano Impero.
Nel 1477 sposò, Maria di Borgogna, unica
figlia del duca Carlo. Grazie a questa unione Massimiliano ottenne la Contea di
Borgogna ed i Paesi Bassi, sebbene la Francia avesse ottenuto il controllo
della Borgogna propriamente detta.
Nel 1486 fu eletto Re dei Romani per
iniziativa di suo padre
Nel 1490 acquistò il Tirolo e l'Austria
interna dal cugino Sigismondo d'Austria.
Nel 1493, con la morte di suo padre,
Massimiliano I divenne imperatore del Sacro Romano Impero. ereditò i restanti
possedimenti asburgici, riunificando così i territori della casata sposò Bianca
Maria Sforza, figlia del duca di Milano Galeazzo Maria Sforza e decise di
unirsi alla Lega Santa per far fronte all'intervento del re di Francia Carlo
VIII in Italia. Il lungo conflitto che ne derivò sarebbe poi terminato solo
dopo la sua morte.
Nel 1495 Massimiliano presiedette il
Reichstag a Worms, portando alla Riforma imperiale con la quale si rimodellò la
gran parte della costituzione del Sacro Romano Impero.
Nel 1508, Massimiliano assunse di
propria iniziativa il titolo di Imperatore Romano Eletto, ponendo così fine
alla secolare incoronazione dell'imperatore da parte del papa.
Al fine di ridurre le crescenti
pressioni sui confini dell'Impero, Massimiliano stipulò trattati con i sovrani
di Francia, Polonia, Ungheria, Boemia e Russia; in particolare, per assicurare
agli Asburgo la Boemia e l'Ungheria, Massimiliano I incontrò i re della
dinastia Jagellone Ladislao II di Boemia e Ungheria e Sigismondo I di Polonia a
Vienna nel 1515.
I matrimoni così organizzati
consentirono l'espansione del regno degli Asburgo sui territori dell'Ungheria e
della Boemia nel 1526.
Massimiliano morì a Wels ed alla sua
morte il titolo imperiale fu concesso a suo nipote Carlo V del Sacro Romano
Impero.
Negli anni precedenti Massimiliano aveva
nominato la figlia Margherita d'Austria tutrice dei nipoti Carlo e Ferdinando.
[16] La corte feudale - La residenza del signore, la corte, cominciò ad essere
anche un centro culturale dove si crearono le condizioni per la nascita di una
cultura laica capace di differenziarsi e anche di contrapporsi a quella ecclesiastica.
Le corti dei grandi feudatari che conquistarono una vasta autonomia dall’autorità
reale o imperiale nel XI secolo, necessitavano di funzionari e intellettuali
alle dipendenze del signore, il quale chiedeva loro anche opere letterarie per
esaltare e celebrare i valori feudali, gli ideali della cavalleria, i costumi e
il gusto che nobilitavano il mondo del signore, dei cavalieri e
delle dame della corte.
Nasce così una nuova figura, quella
del letterato di corte che abbandona il latino della cultura
ecclesiastica per il volgare e che trasferisce e trasfigura in prosa e in
poesia i valori della cortesia, cioè l’insieme dei comportamenti,
delle regole, degli ideali che contraddistinguevano la cerchia privilegiata
delle grandi corti, prima provenzali poi anche di quelle tedesche e
dell’Italia settentrionale.
[17] Le Università – Il risveglio delle città dopo il
Mille portò al potenziamento delle scuole collegate ai vescovadi alle quali si
affiancarono scuole laiche. In tutte si impartiva l’insegnamento elementare
della grammatica latina, svolto su testi per lo più di
carattere religioso.
Studi di livello superiore erano
possibili nelle città in cui si trovavano abbazie di antica tradizione, in
particolare Parigi (abbazia di S. Vittore) e Bologna (abbazia di S. Felice).
Le discipline che s’insegnavano erano
quelle ereditate dalle scuole di Roma antica: grammatica,
retorica e dialettica (chiamate il trivio, «incrocio
delle tre strade»), aritmetica, geometrìa, astronomia, musica (quadrivio);
altri insegnamenti come la medicina e il diritto cominciarono
poi ad essere oggetto di studio, mentre la teologia continuava
ad essere la disciplina considerata al di sopra di tutte le altre.
Quando queste scuole per il numero degli
studenti, in genere legato alla fama degli insegnanti, divenivano centri di
studio famosi, ricevevano dall’autorità ecclesiastica o politica il riconoscimento
di studium generale(come avvenne per Bologna e Parigi, e per
Salerno, centro degli studi di medicina).
La denominazione di universitas indicò
inizialmente la corporazione degli studenti (a Bologna) o
degli insegnanti (a Parigi), vale a dire l’organizzazione che pagava i maestri,
gestiva la copiatura dei testi e tutto quanto era legato ai bisogni dell’università.
La Chiesa, dopo un’iniziale diffidenza verso fonti
d’insegnamento che potevano contrapporsi alle scuole ecclesiasti-che, cercò di
assumerne il controllo e a poco a poco impose la sua giurisdizione sulle
università facendo accettare il principio che solo la Chiesa poteva dare alla
fine degli studi la licentia docendi (abilitazione
all’insegnamento) valida per tutti i paesi della cristianità.
[19] San
Francesco d’Assisi - Nacque ad Assisi nel 1182 e morì alla
Porziuncola, presso Assisi, nel 1226. Figlio di un ricco mercante,
dopo una giovinezza mondana e dissipata, rinunciò a tutte le ricchezze, e fece voto di
povertà, raccogliendo intorno a sé numerosi compagni. Fondò l’ordine dei Frati
minori, cui segui l’ordine femminile delle Clarisse, fondato
da Santa Chiara dietro ispirazione di Francesco, e infine l’ordine
dei Terziari per i secolari d’ambo i sessi. Vissuto in un’età di
lotte feroci, San Francesco predicò l’amore fra gli uomini, e, in tempo di
spietate ambizioni che si risolvevano in sopraffazioni dei pochi sui
molti, esaltò l’umiltà e la povertà. Volle richiamare alla povertà evangelica
anche la Chiesa,invischiata
in interessi mondani, proponendo l’esempio dell’ordine da lui fondato.
[20] Jacopone da Todi - Jacopo de’ Benedetti, chiamato da
Todi dal nome della sua città natale, visse dal 1230 al 1306. Studiò legge a Bologna, poi tornò a Todi
dove fece con successo l’avvocato e il notaio. Condusse vita mondana e brillante finché, dopo la morte
della moglie avvenuta in tragiche circostanze, si diede a vita ascetica. Entrò
nell’ordine francescano, e fu tra
coloro (gli Spirituali) che chiesero un irrigidimento della
regola francescana. Avverso al papa Bonifacio VIII che aveva condannato
gli Spirituali, partecipò a una congiura contro di lui; e fu per questo
imprigionato e scomunicato (1298). Dalla prigionia e dalla scomunica lo liberò il successore di
Bonifacio Vili, Benedetto XI. Fu autore di numerose laudi che rivelano una profonda tensione religiosa, e, pur nel
tono spesso vo-lutamente popolare, una
cultura aristocratica. Diversa
da quella francescana è la religiosità che si esprime nelle liriche di Jacopone
da Todi.
Mentre San
Francesco è proteso verso gli aspetti del creato, nei quali vede Dio manifestarsi,
Jacopone invece tende a stabilire un rapporto diretto con Dio e a
perdersi misticamente in lui. E perché questo rapporto sia più intenso ed
esclusivo egli si estranea con l’animo dal mondo terreno e dai suoi valori, o,
se vi rivolge l’attenzione, ne mette a fuoco gli aspetti più negativi.
Non mancano tuttavia alcune eccezioni a
questa tendenza prevalente; fra esse la più felice artisticamente è la lauda Il pianto della Madonna.
[21] Guido Guinizelli - Poco sappiamo della sua vita. Nacque
a Bologna fra il 1230 e il 1240; fu giurista. Impegnato politicamente, militò nella fazione ghibellina. Fu perciò mandato
in esilio con gli altri ghibellini bolognesi nel 1274 e in esilio
morì nel 1276 a Monselice. La sua
poesia lo rivela uomo di ricca cultura, oltre che di gusto raffinato e di
vivace fantasia. Dante lo chiama
«padre», e lo considera iniziatore della lirica stilnovistica. E in realtà la sua canzone Al cor
gentil è una specie di manifesto poetico dello «Stil novo». In essa sono proposti i due temi che
diventeranno tipici dello Stil novo: il tema della donna-angelo e quello della nobiltà (o gentilezza) da
identificarsi con la nobiltà dell’animo.
[22] Guido
Cavalcanti - Nacque
a Firenze da famiglia nobile fra il 1255 e il 1259. Come il suo amico Dante, fu
guelfo di parte bianca, e fu appassionato uomo di fazione, tanto che, per la
sua violenta partecipazione a scontri con
esponenti della fazione avversa, nel 1300 fu mandato in esilio a Sarzana, dove
si ammalò di febbri malariche. Morì a Firenze nello stesso anno, 1300,
subito dopo essere stato richiamato in patria.
«Primo amico» di
Dante, secondo la definizione data da Dante stesso, Guido Cavalcanti fu uomo solitario, di gusti
aristocratici e di aristocratica cultura. Le sue riflessioni filosofi-che pare
approdassero alla negazione dell’esistenza di Dio. Poeticamente fu la voce più
intensa e originale del gruppo dello Stil novo.
La sua concezione dell’amore non
coincide sempre con quella comune alla maggior parte degli
stilnovisti: se a volte l’amore è anche da lui rappresentato come mezzo di elevazione, più
frequentemente - e nelle liriche migliori - Cavalcanti lo sente come una forza
distruttiva che sconvolge e devasta la vita dell’uomo.
[23] La cornice - Una
caratteristica significativa presente nelle raccolte orientali entrò
a far parte anche del nuovo genere narrativo elaborato da Boccaccio: l’inserimento delle novelle in una cornice, all’interno,
cioè, di una struttura portante, di una narrazione principale, che includesse
i vari racconti proprio come una
cornice racchiude un quadro, a garanzia dell’unitarietà dell’opera. Nelle Mille
e una notte, ad esempio, la narrazione-cornice era rappresentata
dalla vicenda della principessa
Sherazade che, per ritardare la propria condanna a morte, teneva desta ogni sera la curiosità del
sultano con un nuovo racconto; nel Decameron di Boccaccio,
invece, sette fanciulle e tre giovani fiorentini si ritirano in una
villa, fuori città, per sfuggire al contagio della terribile peste del 1348 e
decidono di raccontarsi a turno, per dieci
giorni, una novella ciascuno.
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