Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

lunedì 26 agosto 2013

Storia sociale della cultura moderna (IV Anno)

La nascita dell’Assolutismo: la Controriforma, lo sviluppo scientifico e il trionfo del Barocco
1. L’Assolutismo – Durante i centocinquant’anni che vanno dalla pace di Cateau-Cambrésis (1559) agli inizi del Settecento, le grandi monarchie sono riuscite, con una dura lotta, ad indebolire in quasi tutti i paesi europei il potere della nobiltà feudale, fino ad allora capace di condizionare lo stesso potere del re. A poco a poco infatti i nobili hanno dovuto rinunciare a molti privilegi e rassegnarsi al ruolo di cortigiani, limitandosi a fare da cornice all’autorità incontrastata del sovrano. Anche i ministri e i funzionari, spesso d’origine borghese, che circondavano il re, sono soltanto i suoi consiglieri: ogni decisione spettava al sovrano, il quale esercitava così un potere assoluto, cioè illimitato.
Per questo, tale periodo viene indicato come l’età  della monarchia assoluta, o età  dell’Assolutismo [[1]].
L’affermazione progressiva della sovranità e dell’impersonalità coincide con l’affermazione (tra il XVI secolo e la Rivoluzione francese del 1789) della monarchia assoluta. In questo lungo periodo la spersonalizzazione degli uffici non escludeva il potere personale del re. La sua volontà poteva sovvertire le proce­dure ordinarie e sovrapporsi alle decisioni di qualsiasi ufficio. Quando è suo interesse fare un’eccezione nell’applicazione della legge, a favore o contro que­sto o quel suo suddito, il re poteva sovvertire l’ordinaria attività degli uffici.
Coesistevano, insomma, aspetti diversi: lo Stato, spersonalizzato ai livelli inferio­ri, ha al vertice il potere personale del re.
La sua importanza è capitale poiché tutte le forme di Stato oggi esistenti derivano da quella. In teoria, il re disponeva di un potere assoluto, cioè senza limiti (anche se deve usarlo non per sé, ma nell’interesse dello Stato). Secondo la  teoria della monarchia assoluta, infatti, il potere del re derivava dalla volontà (dalla grazia) di Dio. I sudditi, perciò, sono totalmente sog­getti alla volontà del sovrano, come alla volontà divina. Tuttavia, contrariamente a quello che la formula «monarchia assoluta» poteva far pensare, la pratica della monarchia assoluta è diversa.
Malgrado gli sforzi per imporre la propria autorità assoluta, il re ha di fronte a sé un regno composto di tanti poteri sociali e locali (la nobiltà, il clero, le professioni, le città, ecc.), refrattari all’ubbidienza assoluta. Questi, anzi, per tutto il periodo dell’assolutismo, lottarono tra di loro e con­tro il re per strappargli privilegi e migliorare così le proprie posizioni. Nei perio­di di maggior forza, il re riusciva a imporre il proprio potere personale e ridurre all’ubbidienza il suo regno. Nei periodi di maggior debolezza, il re è costretto a venire a patti col suo regno e a cedere pezzi consistenti del suo potere.
Ciò che appare assoluto non è quindi il potere personale del re, il quale a seconda dei casi è più o meno condizionato. Assoluto è invece il potere della organizzazione politica centrale che, oltre al re, comprendeva gli alti dignitari e il Parlamento, che rappresentava le tante divisioni e i tanti interessi del regno.
Nella concentrazione della politica consiste principalmente la novità delle monarchie assolute rispetto al sistema feudale.
Tra i due sistemi c’è una certa continuità, poiché non sono abolite del tutto le cariche feudali, né gli ordini o ceti sociali, che continuavano ad avere uno status giuridico privilegiato. Essi sono invece costretti, come in una costellazione, a ruotare intorno ad un unico centro di potere, di cui il re è l’elemento principale. L’assolutismo è dunque un sistema composto da elementi nuovi e tradizionali: il potere del re coesisteva infatti con quello dei diversi corpi sociali che deriva­vano dal feudalesimo. Si potrebbe dire che è un regime monarchico non pie­namente realizzato.
a)      Jean Bodin - Giurista e teorico politico francese, espone il suo pensiero in un’opera che si intitola I sei libri della repubblica del 1576; in essa l’autore definisce il concetto di sovranità assoluta (priva di limitazioni) e indivisibile. Ciò significa che chiunque eserciti il potere, sia esso una persona (re) o un organismo politico, la fonte legittima dell’autorità (sovranità) rimane tutta intera nelle sue mani, anche se alcuni poteri possono essere delegati a magistrati o funzionari. Bodin individua nella monarchia la forma di organizzazione statale nella quale meglio si incarna il principio della sovranità; perciò è uno dei massimi teorici della monarchia assoluta.
b)      Thomas Hobbes (1588-1679) è considerato il teorizzatore dell’assolutismo. Egli affronta il problema del potere politico in particolare nel saggio Leviathan del 1651, che prende il titolo dal nome del mostro biblico dotato di una forza smisurata e incontenibile: Hobbes ne fa il simbolo del potere assoluto dello Stato monarchico. Egli fonda queste sue idee sulla constatazione che l’uomo, portato ad agire sotto la spinta delle passioni, dell’istinto di conservazione e di possesso, si comporta come un lupo nei confronti di tutti gli altri uomini (homo homini lupus). In questa visione lo Stato nasce sì da un contratto sociale, che però, nel momento stesso in cui viene fissato, determina la definitiva assunzione, da parte di chi si vede riconosciuto il potere, di un’autorità assoluta e illimitata, la sola che può assicurare una convivenza civile.
c)      Il crinale della storia europea – Questo periodo, e particolarmente il Seicento, può giustamente essere considerato come un crinale della storia europea. In alcuni Paesi si posero le premesse di trasformazioni economiche e sociali destinate a creare differenze sempre più ampie tra essi e gli altri Stati europei. È allora che a zone caratterizzate da una forte dinamica progressiva se ne contrapposero altre di lenta crescita economica e di lenta trasformazione sociale ed altre ancora di decisa stagnazione. Alla prima zona appartennero l’Inghilterra e l’Olanda; alla seconda la Francia, la Germania e parte dell’Europa Centrale; alla terza la Spagna, il Portogallo, la Polonia, l’Impero turco e l’Italia.

2. Gli Stati europei dal 1559 al 1701 - Questo periodo, che per l’Italia può essere considerato unitariamente, per la storia d’Europa deve essere suddiviso in due periodi: il primo, dal 1559 al 1648, è caratterizzato dalla preponderanza degli Asburgo d’Austria e dalle guerre di religione; il secondo (1648-1701) dall’egemonia francese.
a) Le guerre di religione - Le guerre di religione, conseguenza della rottura dell’unità religiosa dell’Europa, trovarono il loro teatro principale nelle Fiandre e in Francia. Nelle Fiandre Filippo II [[2]], re di Spagna (1556-98) subì uno smacco da parte delle forze protestanti, con l’insurrezione del paese e la conseguente nascita di un nuovo stato, l’Olanda [[3]]; la Francia è sconvolta dalle lotte fra cattolici e ugonotti [[4]] fra il 1562 ed il 1594, cui si intrecciò la contesa per la successione fra tre pretendenti al trono.
I due campioni europei delle opposte fedi sono il cattolico Filippo II e la protestante Elisabetta, regina d’Inghilterra (1558-1603). Una grande vittoria di quest’ultima che segna l’inizio della decadenza della Spagna e dà avvio alla ascesa dell’Inghilterra a grande potenza, è la distruzione, ad opera dell’agile flotta inglese, della possente, ma lenta flotta spagnola, l’Invincibile Armada nel 1588.
Successivamente, le guerre di religione hanno il loro teatro in Germania, con lo scoppio della guerra dei Trent’anni [[5]]. Essa, iniziata come una semplice rivolta interna della Boemia nei confronti degli Asburgo, si estese presto alla Danimarca e successivamente alla Svezia e alla Francia, coinvolgendo anche l’Olanda e alcuni sovrani italiani, fra cui Vittorio Amedeo I di Savoia.
La guerra segna lo scontro tra l’Impero cattolico degli Asburgo e i principi protestanti, che volevano la rimozione di alcune limitazioni alla libertà religiosa, stabilite dalla pace di Augusta [[6]] del 1555; inoltre rappresentò lo sforzo dei principi tedeschi per acquisire autonomia nei confronti dell’Imperatore; infine, offrì l’occasione ad alcune potenze europee di abbattere l’egemonia degli Asburgo. La pace di Westfalia [[7]] del 1648, con i due trattati, di Munster (tra gli Asburgo e le potenze cattoliche), e di Osnabruck (fra gli Asburgo e le potenze protestanti), riconosceva in Germania la libertà individuale di coscienza e di culto, e segnava il crollo della potenza accentratrice degli Asburgo, riducendo ad un puro nome l’autorità imperiale.
b) L’egemonia francese - In Francia, al termine dei conflitti interni di religione che l’hanno lasciata stremata, la monarchia riuscì, in un lungo processo dal 1598, iniziato con l’editto di Nantes, decreto emanato dal re di Francia Enrico IV che pose termine alla serie di guerre di religione che hanno devastato la Francia dal 1562 al 1598, regolando la posizione degli ugonotti (calvinisti), al 1661, uscita di minorità e assunzione del potere da parte di Luigi XIV), ad abbattere le resistenze della nobiltà feudale e quelle della dissidenza religiosa (ugonotti), e a creare la forma più esemplare di governo assoluto.
Le tappe di tale processo sono le seguenti: Enrico IV (1594-1610) [[8]] risollevò la nazione dalla rovina delle guerre civili; il cardinale Richelieu (1624-42) [[9]], ministro di Luigi XIII, contrasta con successo la potenza dei nobili feudali e restrinse le libertà degli ugonotti; il cardinale Mazzarino (1642-61) porta avanti il processo di accentramento dei poteri nella persona del re, battendo le ultime resistenze della nobiltà feudale o fronda [[10]]; Luigi XIV [[11]] realizzò pienamente l’assolutismo monarchico.
In concomitanza con questo processo di riorganizzazione e rafforzamento del potere monarchico, la Francia riassunse l’iniziativa politica all’estero, partecipando alla guerra dei Trent’anni. Alla conseguente pace di Westfalia riuscì ad ottenere l’Alsazia e a giungere così per la prima volta al Reno che considerò da allora la sua frontiera naturale, da conquistare integralmente. L’ampliamento del territorio verso la frontiera renana continuò con la successiva guerra di Spagna, conclusasi con la pace dei Pirenei del 1659. E è la direttiva della politica estera di Luigi XIV: egli mirò a completare l’acquisizione dei territori renani e a conseguire il primato in Europa lottando con la Spagna già in decadenza, con l’Olanda all’apice della sua potenza e con l’Inghilterra in ascesa. E questo il senso delle guerre di devoluzione (1667-68) [[12]], di Olanda (1672-78) e della lega di Augusta (1688-97) [[13]].
c) L’ascesa dell’Inghilterra - L’Inghilterra, che durante il regno di Enrico VIII (1509-1547) si è rafforzata all’interno, sotto il lungo regno di Elisabetta [[14]] (1558-1603) vede la trasformazione della sua economia da agricola in commerciale. La ricchezza che ne venne incrementò la sua potenza marittima che è sanzionata:
·         dalla vittoria sulla Spagna (sconfitta dell’Invincibile Armada nel 1588)
·         dalla guerra vittoriosa contro l’Olanda (1652-4), prima sotto l’impulso e poi sotto la dittatura (1635-58) di Oliviero Cromwell [[15]],
·         nella successiva guerra contro la Spagna (1654-59).
L’evoluzione interna dell’Inghilterra in questo tempo conobbe il passaggio dall’assolutismo dei Tudor e degli Stuart (con la parentesi della dittatura cromwelliana) alla prima forma di monarchia di tipo costituzionale che trovava le sue radici nella Magna Charta [[16]]. Deposto l’ultimo Stuart, Giacomo II (la rivoluzione senza sangue del 1688), il Parlamento invitava ad assumere la corona Guglielmo d’Orange che, salendo al trono, giurava di osservare la Dichiarazione dei diritti [[17]], cioè una carta costituzionale che limitava il potere del sovrano.

3. L’emarginazione dell’Italia - Per quanto riguarda la storia d’Italia il periodo di tempo compreso tra il Congresso di Bologna del 1530 e il Trattato di Aquisgrana del 1748, può essere considerato in modo unitario. Anche se è giusto distinguere il periodo del predominio spagnolo nella penisola (fino al Trattato di Rastadt del 1714) da quello del predominio austriaco, molto meno funesto; tuttavia, questi 220 anni sono accomunati dal perdurare di almeno due condizioni le cui conseguenze sono determinanti per la vita della penisola.
La prima è la mancanza di autonomia politica degli Stati italiani, divenuti o province di una potenza straniera o suoi satelliti; la seconda è l’emarginazione economica e culturale dell’Italia in seguito alla perdita dell’indipendenza politica.
Perduta la posizione di primato che ha conquistato nei secoli precedenti, l’Italia si trova esclusa dai processi di rapido sviluppo economico e di profonde trasformazioni politiche e sociali, da cui sono investite alcune grandi potenze (in particolare l’Inghilterra, l’Olanda e, in misura minore, la Francia) e è relegata in una posizione marginale, dalla quale solo nel XIX secolo, faticosamente e parzialmente, riuscirà ad emergere.
a) Assetto italiano alla pace di Cateau-Cambrésis – La pace di Cateau-Cambrésis ribadì, aggravandola, la dominazione spagnola in Italia. La Spagna, infatti, oltre che nel regno di Napoli, dominava direttamente nel ducato di Milano, di fatto trasformato in una provincia dipendente da Madrid; e nello Stato dei Presidi (alcune terre della Toscana). Con l’erezione a ducato delle città di Parma e Piacenza sorse un nuovo stato, feudo della Chiesa. Ma anche gli Stati che conservavano la loro autonomia - repubblica di VeneziaStato della Chiesaducato di Toscanarepubblica di Genova,ducato di Savoiaducato di Mantovaducato di Ferraraducato di Modena e repubblica di Lucca – di fatto dipesero dalla politica spagnola.
b) Il malgoverno spagnolo  –  L’assetto dato all’Italia dalla pace di Cateau-Cambrésis durò dal 1559 al 1701 (inizio della guerra di successione spagnola).
Gli Stati italiani dominati in questo periodo direttamente dalla Spagna presentano uno dei quadri più tristi della loro storia. Lo caratterizzarono la rapina e il fiscalismo della burocrazia straniera, l’altezzosità della nobiltà dominatrice, il servilismo dilagante della popolazione, l’arretramento delle condizioni economiche generali, la miseria e l’ignoranza delle plebi; il tutto in un clima di soprusi e di anarchia. Un’efficace rappresentazione della situazione del Milanese ci è stata data dal Manzoni nei Promessi Sposi.
Nel ducato di Milano, il più civile e il più ricco dei domini spagnoli, la compressione della borghesia a vantaggio della nobiltà terriera, favorita dal governo, che ne ricercava l’appoggio, porta, unitamente ad altri fattori di cui si farà cenno più avanti, al decadimento delle città e delle connesse attività industriali e mercantili.
Questa decadenza, frutto del cattivo governo spagnolo, è meno evidente nel Meridione e nelle isole, ma solo perché si innestava su una situazione già deteriorata dal precedente malgoverno straniero, quello degli Aragonesi. Di fatto le condizioni del Sud sono peggiori di quelle del ducato di Milano, a causa anche del persistere delle istituzioni feudali che, diversamente che al Nord, non sono state spazzate via dal sorgere dei Comuni.
Questa situazione generò gravi malcontenti, che sfociarono in insurrezioni destinate fin dalla nascita al fallimento. A Napoli Masaniello fece insorgere la plebe chiedendo l’abolizione delle gabelle nel 1647, e finì ucciso dalla stessa plebe abilmente eccitatagli contro dal viceré spagnolo; Gennaro Annese che cercò di portare avanti l’insurrezione, con un disegno politico più chiaro, è battuto dall’intervento delle armi spagnole. Anche a Palermo la rivolta, guidata nello stesso anno da Giuseppe D’Alessio per rimuovere le gabelle, ha una mesta conclusione: il D’Alessio finì col trovare contro di sé la stessa folla che egli ha sollevato. Più complessa è, nel 1674, la rivolta che, per l’insofferenza dei gravami fiscali, scoppiò a Messina; essa si sostenne per quattro anni appoggiandosi alla Francia; ma anche in questo caso la Spagna riuscì alla fine a prevalere sui rivoltosi e sui loro alleati.
c) Gli Stati italiani indipendenti  –  A Firenze, dopo i successi di Carlo V in Italia e il Congresso di Bologna, rientrarono i Medici con il duca Alessandro. Cosimo I (1537-74), successo al duca Alessandro e insignito dal Papa del titolo di granduca (1569), dà un saggio ordinamento allo stato, restaurando l’economia. Questa politica è continuata da Ferdinando I (1587-1609), che dà incremento al porto di Livorno. La politica estera medicea si mosse comunque nell’orbita della politica spagnola fino ai tempi di Ferdinando I, che cercò di controbilanciare l’influenza della Spagna con quella della Francia, alla quale si avvicinò.
Nello Stato della Chiesa, in questo periodo, l’azione dei pontefici presentò un notevole mutamento nei confronti di quella dei papi del Rinascimento. In armonia con la Controriforma essi si impegnarono soprattutto nel campo spirituale, premurosi degli interessi generali del cattolicesimo più che non di quelli del loro Stato. Proprio per questo non si preoccuparono di esercitare una politica indipendente dalla Spagna.
La Repubblica Veneta agì invece in modo autonomo nei confronti della Spagna. Del resto essa ha limitato la sua azione politica in terraferma per preoccuparsi soprattutto della difesa delle sue posizioni in Levante, dove dovette far fronte all’avanzata turca. Nonostante la vittoria nella battaglia di Lepanto (1571), quando i maggiori stati cristiani affiancarono Venezia per sconfiggere i Turchi, dovette però arretrare abbandonando le isole di Cipro e Candia, perdita non certo compensata dall’effimera occupazione del Peloponneso nel 1699. Dopo la perdita di Candia, la repubblica di Venezia si chiuse nell’Adriatico, dove si limitò a sopravvivere ancora per un secolo, fino alla venuta di Bonaparte in Italia.
Il Ducato di Savoia è lo Stato che dimostrò il maggior dinamismo. La volontà di attuare una politica espansionistica lo sottrasse, in alcune occasioni, alla acquiescenza alla Spagna. Con Emanuele Filiberto, i duchi di Savoia incominciarono a volgere la loro attenzione all’Italia, e precisamente al Piemonte. Sintomatico al riguardo è il trasferimento, sotto Emanuele Filiberto, della capitale da Chambery a Torino; la conquista del marchesato di Saluzzo da parte di Carlo Emanuele I nel 1601 rappresentò il primo grosso ampliamento dei possedimenti italiani.
d) La decadenza del Mediterraneo – La situazione di depressione, che, sia pure in misura diversa nei diversi Stati, caratterizza tutta la penisola, ha altre cause oltre a quelle di cui ci siamo occupati finora: tra queste la più importante è la perdita d’importanza del Mediterraneo, in seguito alle scoperte dell’America e della nuova via marittima per le Indie. Il declino del Mediterraneo non è improvviso: i porti di Genova e di Venezia mantennero la loro importanza ancora per tutto il Cinquecento; ma è un declino inarrestabile.
A partire dal Seicento, i traffici portuali genovesi e veneziani assunsero la caratterizzazione regionale che neppure l’apertura del Canale di Suez nel secolo XIX riuscì a modificare. Grandi porti internazionali divennero le città che si affacciavano sull’Atlantico, prima quelle della penisola iberica (Lisbona, Siviglia e Cadice), centri dei traffici con le Americhe, e poi, e più durevolmente, le città olandesi e inglesi (Anversa, Londra, e soprattutto Amsterdam).
Lo spostamento dell’asse dei traffici dal Mediterraneo all’Atlantico non è dovuto solo a ragioni geografiche. Dipese soprattutto dalla capacità di nazioni, come l’Inghilterra e l’Olanda (e parzialmente la Francia), di mettere in atto una politica mercantile e industriale adeguata alle esigenze di un mercato nuovo più esteso e meno elitario.
La Spagna e il Portogallo non seppero attuare queste trasformazioni. Legate alla vecchia concezione delle colonie come terre da razziare e da spogliare – soprattutto di metalli preziosi – sono incapaci di compiere il passaggio alla nuova forma di colonialismo attuata dagli Inglesi e dagli Olandesi, che seppero considerare le colonie come fonti di materie prime e come vasti mercati di smercio per le industrie nazionali.
e) L’involuzione dell’economia italiana - L’emarginazione economica dell’Italia è dovuta a più fattori, connessi tanto all’economia quanto alla modificazione della situazione sociale e politica. All’economia cittadina chiusa in forme sclerotizzate da una fortunata e consolidata tradizione e dagli statuti vincolanti di potenti corporazioni, mancò l’elasticità necessaria per passare dalla produzione e dal commercio di beni scarsi e costosi (spezie, seta, panni fini di lana) alla produzione e al commercio di beni meno pregiati e di più largo consumo (canna da zucchero, cotone, panni meno raffinati). Non essendo in grado di ridurre i propri costi di produzione, inoltre, l’economia cittadina perse competitività non solo sui mercati esteri, ma anche su quelli italiani.
Contemporaneamente, in connessione col minor reddito del commercio e della manifattura, si assistette ad una fuga di capitali verso la terra che divenne di nuovo la base predominante della ricchezza e del potere. Il ritorno alla terra – con la parallela riduzione dell’importanza delle città, nelle quali si verificò una diminuzione della popolazione – è tanto un atteggiamento di riflusso, quanto un’operazione di investimento che consentì alti guadagni, grazie anche alla libertà di sfruttare i contadini.
La triste situazione di sudditanza politica, infine, subordinò l’economia degli Stati italiani alle esigenze della potenza egemone (soprattutto alla Spagna), privandola dei necessari incentivi a superare le difficoltà della concorrenza, fattasi sempre più agguerrita. Le distruzioni e i danni operati dalle guerre che trovarono così spesso nella penisola (soprattutto al Nord) il loro campo di battaglia, costituiscono altri gravi fattori di freno allo sviluppo economico degli Stati italiani.
f) La semplificazione della società italiana - Il ritorno alla terra è solo uno degli aspetti di un complesso fenomeno, che è stato indicato dagli storici con il nome di rifeudalizzazione [[18]]. Con questo termine si vuole indicare il venir meno delle iniziative economiche e del dinamismo sociale che hanno caratterizzato i secoli precedenti a partire proprio dall’Italia, dove, per la prima volta, le forze della borghesia emergente hanno spezzato e ridotto il potere della feudalità dominante. Nel Seicento si ha una netta inversione di tendenza:
·         nel Sud essa sboccò in una regressione permanente, che rafforzò l’antica nobiltà feudale;
·         nel Nord e nel Centro, dove più vivace è stata la vita comunale e più rilevante la presenza della classe mercantile, quest’ultima, grazie all’acquisto della terra, va ad ingrossare le fila della nobiltà feudale, assimilandosi ad essa.
Il risultato di questo processo è una semplificazione e un irrigidimento della struttura sociale: tutto il potere economico si accentrò nelle mani della nobiltà, dalle cui fila soltanto uscivano i membri della classe dirigente. Al di fuori della nobiltà non restarono che sparute forze produttive; quasi a nulla sono ridotte le possibilità di ascesa delle altre classi sociali.

4. La Controriforma - A ribadire la situazione di emarginazione della vita italiana nel suo complesso concorse la Controriforma che in Italia (e dovunque essa si trova ad operare con l’appoggio della monarchia spagnola) fece sentire pesantemente la sua azione repressiva. Ne risultò una progressiva contrazione della vivacità creativa nel campo della letteratura, della filosofia, della scienza e delle arti, campo nel quale l’Italia si è conquistata, nei secoli precedenti, un indiscusso primato europeo.
a) Il concilio di Trento - La Controriforma è motivata dalla volontà di porre riparo al distacco di buona parte dell’Europa dalla Chiesa di Roma e di arginare le eresie che vanno diffondendosi nei paesi latini e in particolare in Francia. A questo fine il Papato si preoccupò di una precisa definizione dogmatica e di una decisa riforma dei costumi ecclesiastici. L’iniziativa pontificia si concretò nel Concilio di Trento che, scartando la tesi che ricercava la conciliazione con i dissidenti, preferì quella della contrapposizione recisa alla Riforma. Così, al principio del libero esame si contrappose quello dell’autorità della Sacra Scrittura secondo l’interpretazione della Chiesa; alla tesi luterana secondo cui ogni uomo può porsi in rapporto diretto con Dio, si contrappose l’affermazione che la salvezza è solo nella Chiesa attraverso i sacramenti; infine si affermò l’assoluta superiorità del pontefice cui solo spetta di convocare i concili. Le verità di fede sono compendiate dal Concilio nella Professione di fede tridentina, un estratto della quale è il catechismo romano, testo di insegnamento religioso in tutte le scuole parrocchiali.
Per moralizzare il clero si fissarono rigorose norme disciplinari, riconfermando l’obbligo del celibato e, per prepararlo alle sue funzioni, si istituirono i Seminari.
b) I nuovi ordini religiosi - L’opera del Concilio di Trento sarebbe stata inutile se non fosse stata sostenuta dal sorgere di ordini religiosi che, operando tra i fedeli, ravvivarono gli ideali di vita cristiana. Tra gli ordini ricordiamo i Barnabiti, i Somaschi, gli Scolopi che si preoccuparono tutti di aprire collegi per la gioventù; mentre i Teatini sono istituiti per coadiuvare i parroci nel loro ministero, i Fatebenefratelli, le Suore di carità e i Lazzaristi per assistere gli infermi; i Cappuccini (un ordine francescano riformato) per la predicazione fra il popolo; gli Oratoriani per la cura dei giovani delle classi umili.
c) I Gesuiti – Il più importante fra tutti gli ordini religiosi sorti in questo periodo è senz’altro l’ordine dei Gesuiti, fondato da Sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) che si propose queste finalità:
·         difesa della fede cattolica,
·         sua diffusione,
·         formazione di sacerdoti in grado di essere al passo con l’evoluzione culturale dei tempi,
·         creazione di scuole aperte a tutti, ma mirate alla formazione cattolica delle classi dirigenti.
Sant’Ignazio crea una gerarchia di tipo militare, fondata sull’assoluta obbedienza ai superiori; inoltre legò con un giuramento di fedeltà al Papa tutti i gesuiti.
In pochi anni questi divennero un pilastro della Chiesa cattolica; fondano missioni in tutti i continenti, favorendo l’avvicinamento al cattolicesimo con una graduale integrazione della nuova fede nelle culture e nei costumi dei vari popoli. Nei Paesi cattolici seppero conquistare posizioni influenti come confessori e consiglieri di re e principi, attuando politiche di mediazione e di prudenza.
I Gesuiti scelsero come loro campo preferito di attività l’organizzazione di scuole ad orientamento umanistico, destinate alla classe dirigente: dalle elementari all’università, essi organizzarono percorsi didattici moderni ed efficaci, per dare una preparazione culturale seria, senza mai perdere di vista l’obiettivo principale, la formazione del buon cristiano.
I gesuiti che dimostravano propensione per una disciplina sono destinati a coltivarla ai massimi livelli, perciò molti hanno un ruolo di rilievo nello sviluppo della scienza, della letteratura, dell’arte.
Il Collegio romano, l’università dei gesuiti, è un centro di ricerca scientifica di cui riconoscevano il prestigio anche gli studiosi non cattolici.
I gesuiti sono totalmente indipendenti dalla gerarchia ecclesiastica e rispondevano della loro azione esclusivamente al Papa; per questo, all’interno della Chiesa, si formò un partito antigesuita che li accusava di allargare il proprio potere tramite l’appoggio dei potenti e i molti compromessi nel campo del comportamento e della morale.
d) Il controllo del pensiero - Per combattere poi lo spirito critico da cui è nata la Riforma e per avere il controllo sui testi scritti la Chiesa affiancò all’Inquisizione un istituto di repressione, la congregazione dell’Indice dei libri proibiti, voluta dal Papa Paolo IV Carafa nel 1559. Si trattava di una commissione con l’incarico di redigere e tenere aggiornata la lista di opere e autori che i cattolici non possono leggere, possedere e divulgare, perché veicoli di idee contrarie alla morale e alla dottrina. L’Indice è diviso in tre parti: la prima degli autori messi totalmente al bando, la seconda di singole opere, la terza di scritti anonimi.
Il fine dell’Indice è di impedire la stampa dei testi proibiti e di bruciarne le copie eventualmente sequestrate. L’efficacia dell’Indice è limitata, perché impossibile il controllo capillare, ma serie sono le conseguenze indotte:
·         spinta all’autocensura degli autori che, per evitare noie con la Chiesa, eliminavano dai loro libri ogni idea o riferimento che potesse essere contestato; è una delle cause del conformismo controriformista che si manifesta nel Seicento nei Paesi cattolici in cui più potente è la Chiesa, come Spagna e Italia;
·         diffusione di testi classici «purgati», con soppressione di parti, soprattutto a uso scolastico; si diffondeva così un’idea distorta della letteratura, moralistica e staccata dai comuni sentimenti;
·         sviluppo delle stamperie clandestine e del contrabbando dei libri; gli autori che temevano di non ottenere il permesso del vescovo facevano stampare i loro testi nei Paesi protestanti, da dove poi rientravano di nascosto.
In molti casi però si ricorreva al trucco di indicare nel volume come luogo di stampa una città straniera.
Infine si rafforzò la Congregazione del Sant’Uffizio come tribunale supremo dell’Inquisizione che, già vigorosa nel secolo XIII, è poi decaduta.
La preoccupazione della Chiesa di controllare il pensiero attraverso la censura preventiva della stampa (non si poteva pubblicare un libro senza l’autorizzazione ecclesiastica) limitò lo sviluppo della filosofia, della scienza e delle arti. Ne seguirono spesso situazioni di lacerazione interna e un clima di paura, che la condanna di alcuni filosofi (Bruno, Campanella) e scienziati (Galileo) rafforzò.

5. La cultura nell’età della Controriforma e del Barocco – L'età moderna è generalmente considerata l'epoca posta tra la scoperta del continente americano nel 1492 e la definitiva affermazione del liberalismo nel 1848. Questo arco di tempo è caratterizzato da profonde trasformazioni che interessano ogni aspetto della vita umana. I viaggi di esplorazione, le nuove rotte commerciali e la scoperta di nuovi continenti trasformano gli orizzonti mentali ed economici dell'uomo europeo e avviano un processo di interrelazione su scala mondiale della storia.
Analogamente, le nuove forme statali si lanciano in conquiste e guerre a livello continentale prima, planetario successivamente. L'unità religiosa dell'Occidente cristiano è rotta dalla Riforma protestante, mentre il pensiero filosofico si avvale di nuovi metodi sganciati dalla tradizione e dall'insegnamento delle autorità del passato. Si teorizzano nuove forme di governo, e le rivoluzioni americana e francese segnano il definitivo tramonto del sistema socio-politico basato sulla divisione in ordini della società e, con l'avventura napoleonica, fondano le basi dell'epoca contemporanea.
a)      La rivoluzione scientifica – L’aspetto che maggiormente caratterizzò la prima età moderna fu la grande rivoluzione scientifica alla cui base vi era l'affermazione di uno dei principi cardine del Rinascimento: lo stretto rapporto intercorrente fra il destino umano e la capacità di rintracciare e controllare le leggi sottese alla realtà naturale.
Questo costituì il presupposto della rivoluzione scientifica moderna e delle sue applicazioni.
La nascita della scienza moderna è un fenomeno complesso, che affonda le proprie radici nel Rinascimento, di cui eredita la fiducia nelle capacità conoscitive dell'uomo, l'abbandono di principi trascendenti per spiegare la realtà naturale, la rivalutazione dei sensi e dell'esperienza diretta, la pretesa di un sapere che non sia solo contemplativo, ma pratico e operativo, il rifiuto del principio di autorità come criterio di verità. Tuttavia, se nel '500 il concetto di scienza era ancora legato a una visione del mondo di tipo qualitativo, in cui la natura era vista come un essere vivente, ordinata con suoi propri fini come un organismo, nel '600 si affermò una concezione della scienza come un sapere oggettivamente verificabile e pubblicamente controllabile. La scienza moderna respinge dal proprio ambito conoscitivo qualunque problematica di tipo metafisico, relativa alle essenze o all'intima struttura delle cose, per analizzare solo le cause dei fenomeni, alla ricerca di leggi, elaborate in conformità a ipotesi vagliate da esperimenti, espresse in termini matematici. In particolare, questa matematizzazione della natura porta a una riforma del metodo d'indagine e all'adozione di modelli meccanici nella spiegazione della realtà naturale, concepita come un insieme di corpi in movimento, che portò pian piano all'affermazione del meccanicismo.
Il concetto di rivoluzione scientifica è tradizionalmente riferito al periodo compreso fra il 1543, anno di pubblicazione di Le rivoluzioni dei mondi celesti di Copernico, e il 1687, in cui appaiono i Principi matematici di filosofia naturale di Newton. Si tratta di un periodo caratterizzato da un profondo cambiamento culturale, che vide la nascita della moderna scienza sperimentale e la sua definitiva emancipazione dalla filosofia, con il contributo decisivo di Galilei.
Tra i secoli XVI e XVII il modo di affrontare la conoscenza del mondo naturale cambiò profondamente. Le scoperte astronomiche, mediche, fisiche e le innovazioni del metodo filosofico si collegarono a uno spirito nuovo che scalzò la dogmatica scolastica in nome del metodo sperimentale e della libera e autonoma ricerca, del progresso della conoscenza, con straordinarie implicazioni culturali, religiose e tecnologiche.
L'avvio è possibile rintracciarlo nella rivoluzione copernicana che scosse profondamente la cultura europea e influenzò nel XVII secolo il pensiero di Galileo Galilei, di Newton e di Keplero.
L'astronomo polacco Copernico (1473-1543), nel suo De revolutionibus orbium coelestium, espose la teoria eliocentrica secondo la quale la terra e i pianeti si muovono attorno al sole. La rivoluzione copernicana nacque come revisione della teoria astronomica tolemaica, fondata sulla centralità e immobilità della Terra nell'universo e sulla circolarità dei moti dei pianeti, a favore della teoria eliocentrica, che pose il Sole come unico punto di riferimento dei moti dei pianeti. Le basi dell'ipotesi di Copernico sono strettamente astronomiche: il desiderio di stabilire rapporti determinati tra le varie sfere del sistema planetario (ampiamente sconnessi nella teoria di Tolomeo) e quello di eliminare alcuni artificiosi metodi di calcolo. Tuttavia la sua riforma astronomica, ponendo la Terra in movimento, apre enormi problemi di ordine fisico, cosmologico e filosofico e avvia una riforma di gran parte della cultura. La Terra perse la sua centralità, non solo astronomica, ma anche metafisica, proiettando l'uomo in un universo non più chiuso e limitato, ma infinito, privo di centro e di periferia, omogeneo e soggetto alle stesse leggi fisico-matematiche. La rivoluzione copernicana costrinse così a ripensare non solo l'immagine della natura, ma anche le questioni dell'origine e del destino dell'uomo e del suo rapporto con la divinità, com'era delineato dalla lettura tradizionale del testo biblico.
Galileo (1564-1642), divulgatore delle teorie di Copernico sull'immobilità del sole e sul movimento della terra, fece numerose osservazioni sperimentali su altri pianeti con l'ausilio di un nuovo strumento: il telescopio. Per aver sostenuto la teoria eliocentrica fu processato dal Santo Uffizio, condannato e costretto all'abiura. Il suo caso divenne simbolo dello scontro fra la Chiesa cattolica e la cultura scientifica moderna.
L'astronomo tedesco J. Keplero (1571-1630) studiò le orbite planetarie e diffuse la conoscenza delle leggi del moto dei pianeti, oltre al metodo per calcolarne la posizione.
Le nuove conoscenze astronomiche permisero allo scienziato inglese Isaac Newton (1642-1727), autore di fondamentali opere in campo matematico, meccanico e ottico, di rivoluzionare la scienza moderna con la scoperta delle leggi della gravitazione universale, da lui espresse in formule matematiche.
L'attenzione per le questioni metodologiche e l'importanza attribuita all'osservazione furono alla base dei progressi compiuti dalla medicina. Il belga Andrea Vesalio, grazie alle ricerche anatomiche svolte sui cadaveri dei soldati, mise in discussione alcuni principi stabiliti a priori dal modello aristotelico e li sostituì con l'osservazione anatomica della figura umana. L'anatomista inglese W. Harley (1578-1657) scoprì la circolazione del sangue; furono poste le basi della clinica (ovvero lo studio della malattia al letto del malato) e dello studio dell'anatomia patologica.
La propensione dell’uomo occidentale all'innovazione tecnologica ebbe una notevole conseguenza: contribuì a scavare progressivamente un solco fra la società occidentale e le altre civiltà (araba, indiana, cinese) proprio dal XVI sec. In alcuni settori, come la navigazione o gli armamenti, questo divario fu per gli europei il punto di forza per affermare il proprio dominio sul resto del globo attraverso la formazione di imperi coloniali. Anche il pensiero politico e quello economico subirono un'importante evoluzione, scrittori e pubblicisti di diverse nazioni, spinti da motivi religiosi o solo ideologici, sostennero la legittimità dei diversi regimi.
b)      La moderna gnoseologiaSe la problematica relativa alla natura e al metodo della conoscenza non era una novità per la tradizione filosofica, è solo con la filosofia moderna che acquista un'assoluta centralità per l'emergere di nuove esigenze conoscitive, legate agli sviluppi tecnici e scientifici del sapere. È questo il problema del metodo, cioè di un insieme di criteri e di regole che permettano un uso corretto delle facoltà conoscitive dell'uomo al fine di raggiungere un elevato grado di certezza, che si afferma prepotentemente nel pensiero moderno a partire dalla riflessione di Francesco Bacone e di Cartesio. In particolare sono le matematiche e la geometria, per la loro chiarezza e rigorosità, il modello metodologico privilegiato a cui ispirarsi per una riforma del metodo del conoscere.
Se la problematica relativa alla natura e al metodo del conoscere non è una novità per la tradizione filosofica, fu solo con la filosofia moderna che acquistò un'assoluta centralità per l'emergere di nuove esigenze conoscitive, legate agli sviluppi tecnici e scientifici del sapere. È questo il problema del metodo, cioè di un insieme di criteri e di regole che permettessero un uso corretto delle facoltà conoscitive dell'uomo al fine di raggiungere un elevato grado di certezza, che si afferma prepotentemente nel pensiero moderno a partire dalla riflessione di Francesco Bacone e di Cartesio. In particolare sono le matematiche e la geometria, per la loro chiarezza e rigorosità, il modello metodologico privilegiato a cui ispirarsi per una riforma del metodo del conoscere.
c)      La visione estetica: il Manierismo – Il termine Manierismo è assunto dalla critica per designare il complesso e ramificato movimento stilistico italiano ed europeo che si colloca tra il 1520 e l'ultimo decennio del Cinquecento (ossia tra il culmine del Rinascimento e il preannuncio del Barocco).
Caratterizzato da un estetismo antinaturalistico e lontano dalla razionalità rinascimentale, si espresse in suggestive alterazioni dei rapporti spaziali e subordinò le proporzioni naturali della figura umana al ritmo fluido ed elegante della composizione. Il Manierismo, va inteso come incrinatura dell'equilibrio armonico classicista e, più in generale, come crisi della cultura umanistica e dei suoi ideali razionalistici, in connessione con il travaglio storico della riforma luterana, della controriforma cattolica e le drammatiche crisi che accompagnarono la formazione dei grandi Stati europei. I primi due centri di elaborazione del manierismo furono inizialmente Firenze e Roma; da qui, si diffuse in tutt'Italia e in Europa dando vita a esperienze locali differenziate.
Il Manierismo divenne lo stile delle corti, in Italia come in Europa: un'arte colta, aristocratica, basata sulle iconografie preziose, sui riferimenti dotti, sulle allegorie complicate. Ne fu un esempio alla corte medicea l'attività (1540-70) di G. Vasari e dei manieristi michelangioleschi. Il Manierismo fu cultura celebrativa e aulica, nell'ambito della quale l'architettura si faceva scenografia, la scultura oscillava tra gli opposti termini del gigantismo magniloquente (Ammannati, Fontana del Nettuno) e del preziosismo dell'oggetto di oreficeria (Cellini, Saliera per Francesco I, Parigi, Louvre), la pittura assumeva le diverse valenze del grande affresco celebrativo con Vasari e del ritratto enigmatico e formale del Bronzino, il simbolo visivo e concettuale più evidente è il celebre Studiolo di Francesco I a Fontainebleau.
A Roma la parabola architettonica di Jacopo Barozzi detto il Vignola (1507-73), dalle licenze inventive di Villa Farnese a Caprarola alla nuova codificazione della Chiesa del Gesù a Roma e l'attività di pittori come Vasari, Francesco Salviati (1510-63), Daniele da Volterra aprirono la via all'accademismo eclettico degli Zuccari (Taddeo, 1529-66; e Federico, 1540/43-1609) e di Giuseppe Cavalier d'Arpino (1568-1640).
Verso la fine del Cinquecento, proprio dal centro manierista di Bologna, che aveva conosciuto l'arte raffinata del Parmigianino e di Nicolò dell'Abate, partì quel movimento di reazione antimanierista bandito dai Carracci che, rifluito a Roma, diede vita all'accademia.
Lo stile delle corti ebbe vita più lunga in Europa, nella sua accezione più cortigiana: nella Praga di Rodolfo II con Bartholomeus Spranger (1546-1611) e Hans von Aachen (1552-1616); nei Paesi Bassi, in Baviera e, in un ultimo guizzo di autentica forza di stile, in Spagna, con l'esperienza del Greco.
d)     Le reazioni al Mainierismo: i Carracci e Caravaggio – Negli ultimi due decenni del Cinquecento si affermarono due importanti artisti: Annibale Carracci e Caravaggio. Pur essendo stati considerati dalla critica, soprattutto seicentesca, come rivali, poiché le opere del primo erano intrise di idealismo e quelle del secondo di schietto realismo, entrambi condivisero l'opposizione dell'arte manieristica, pur esprimendo caratteristiche pittoriche differenti. Il clima culturale in cui agirono era segnato dal rinnovato interesse della Chiesa post-tridentina per l'arte, che doveva con le sue immagini sacre suscitare nel fedele sentimenti di profonda devozione.
Alla famiglia di pittori bolognesi Carracci si deve la fioritura a Bologna nel 1590, dell'Accademia degli Incamminati, un centro privato di educazione autoctono che ripropose la conoscenza dei grandi maestri del Rinascimento, meditati alla luce di una rinnovata coscienza della natura e della tradizione. L'accento fu posto sull'importanza del disegno come mezzo per indagare la realtà e la natura così da arrivare a un nuovo modo di dipingere che fosse scevro degli aspetti convenzionali del manierismo. Si voleva restituire spontaneità e immediatezza alle forme, in direzione di un nuovo classicismo. I tre fondatori furono Agostino, Annibale e Ludovico Carracci.
e)      Annibale Carracci – Annibale Carracci (Bologna 1560-1609) fu il più eminente. Nelle sue prime opere, compiute tra il 1583 e il 1585, si individua l'interesse per soggetti della vita quotidiana, e umili (Crocifisso, Bologna, chiesa di S. Nicolò; Il mangiafagioli, Roma, Galleria Colonna; Bottega del macellaio, Oxford, Christ Church).
Nel Battesimo di Cristo (1585, Bologna, chiesa di S. Gregorio) invece l'artista lascia intravedere interesse alla lezione del Correggio. Tra il 1588 e il 1590 lavorò col fratello Agostino e il cugino Ludovico agli affreschi del Palazzo Magnani (ora Salem) a Bologna. Nel 1595 fu a Roma, incaricato dal cardinale Odoardo Farnese di dipingere il Camerino Farnese, un lavoro quasi preparatorio per la decorazione della fastosa Galleria Farnese. A quest'ultima, collaborando col fratello Agostino, si applicò dal 1597 al 1602 con una straordinaria libertà compositiva e uno stimolante approfondimento dei valori formali ed espressivi. Il programma iconografico della Galleria (fatta costruire per raccogliere le collezioni di sculture antiche del cardinale), con scene mitologiche e d'amore, venne soprattutto derivato dalle Metamorfosi di Ovidio (scene con il Trionfo di Bacco e Arianna, Paride e Mercurio e Pan e Diana). La decorazione fu caratterizzata da una particolare scelta tecnica, ovvero l'uso della quadratura e soprattutto la realizzazione delle architetture dipinte che creano l'illusione di uno spazio tangibile. Questi affreschi sono così premessa della decorazione tipica del Seicento che insisterà molto sul concetto di illusionismo spaziale. Per Annibale dunque fu fondamentale sia la rivivificazione della cultura classica in direzione naturalistica sia l'intensità persuasiva dell'immagine.
Opere significative furono anche la lunetta con la Fuga in Egitto (1604, Roma, Galleria Doria Pamphili), in cui i personaggi si fondono armoniosamente con il paesaggio; la Samaritana al pozzo e la struggente Pietà (ca 1603, Vienna, Kunsthistorisches Museum).
f)       Caravaggio – Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio (Caravaggio 1573 - Porto Ercole 1610), è uno dei pittori più significativi del Cinquecento, creatore del cosiddetto luminismo caravaggesco, che definisce una caratteristica innovatrice della funzione della luce, che fa emergere le cose dall'ombra e costruisce i volumi.
Si formò a Milano nel 1584 nella bottega del pittore bergamasco Simone Peterzano (notizie fra 1573-96) e sulle opere dei maestri cinquecenteschi bergamaschi e bresciani (Lorenzo Lotto, Savoldo e Moretto da Brescia), dai quali trasse l'attenzione al fatto reale, quotidiano, e una religiosità schietta e priva di enfasi.
Degli anni successivi al periodo di apprendistato sono riferite alcune opere: Bacco (Firenze, Uffizi), Fanciullo morso da un ramarro (Firenze, collezione R. Longhi), Buona ventura (Parigi, Louvre; Roma, Musei capitolini), il Riposo nella fuga in Egitto e la Maddalena (Roma, Galleria Borghese).
Intorno al 1593 Caravaggio si trasferì a Roma, dove maturò e lavorò in aperta polemica con il gusto manieristico ufficiale. Ai primi brani di realismo quotidiano, come il Bacchino malato (Roma, Galleria Borghese), il più tardo I bari (Roma, Galleria Sciarra) e il bellissimo Canestro di frutta (Milano, Pinacoteca Ambrosiana), che apre un nuovo capitolo nella storia della natura morta, succedono composizioni più complesse che culminano nel ciclo per la cappella Contarelli in S. Luigi dei Francesi.
Nel 1595 firmò il contratto per le tele in S. Luigi dei Francesi a Roma (S. Matteo e l'angelo, Vocazione e Martirio di S. Matteo), che suscitarono scandalo per l'ardita interpretazione realistica degli episodi religiosi, narrati con drammatico linguaggio chiaroscurale. Così si configura il cosiddetto luminismo caravaggesco, basato sulla funzione espressiva e strutturante del contrasto luce-ombra.
Forte ed essenziale si presenta l'impianto dei dipinti per S. Maria del Popolo, eseguiti tra il 1600 e il 1601: la Crocifissione di S. Pietro e la Conversione di S. Paolo, che segnarono il culmine della sua maturità artistica. Le ultime opere romane, la Madonna di Loreto (Roma, S. Agostino), la Madonna del serpe (1603-05, Roma, Galleria Borghese), la Cena in Emmaus (1605, Londra, National Gallery) e la Morte della Vergine (1605-06, Parigi, Louvre), furono aspramente criticate per il crudo realismo, specie l'ultima, per la quale correva voce che Caravaggio si fosse servito come modello del corpo di una mondana annegata nel Tevere. Del resto egli fu spesso oggetto di critiche e ritenuto un contestatore dell'ortodossia religiosa al punto che molte sue opere non furono accettate per motivi di decoro, poiché vi erano rappresentate figure in atteggiamenti troppo umili e spesso ritratte con mani e piedi sozzi. Coinvolto nel 1606 in una rissa mortale, ultima di una lunga serie di episodi di violenza dei quali era stato protagonista, Caravaggio fu costretto a fuggire a Napoli. Le opere qui realizzate, ovvero la Madonna del Rosario (1606-07, Vienna, Kunsthistorisches Museum), le Sette opere della Misericordia (1607, Napoli, Pio Monte della Misericordia) e la Flagellazione, mostrano un ulteriore frantumarsi della luce e un accentuarsi del movimento delle figure. Nella sua fuga, da Napoli passò a Malta e poi in Sicilia nel 1608. Nelle ultime opere il suo estro divenne sempre più tragico, come testimoniano il Seppellimento di S. Lucia (1608, eseguito a Siracusa per l'omonima chiesa) e la Resurrezione di Lazzaro (1608 Messina, museo Nazionale).

6. Il Barocco Il Barocco fu un movimento di vasta portata che investì i più svariati campi della cultura, dal teatro alla musica, dalla poesia alla scienza, dalla pittura alla scultura all'architettura e la concezione stessa della vita. Iniziato verso la fine del Cinquecento, sviluppatosi lungo il Seicento, ha avu­to diffusione, con esiti di diverso valore artistico, su un’area molto vasta, cioè in quasi tutta l’Europa (soprattutto in Italia, Spagna, Francia e Inghilterra) e, seguendo poi la penetrazione dei Gesuiti, toccò anche l'America Latina in alcuni Paesi dell’America Latina (Messico, Brasile).
Il Barocco divenne lo stile artistico e architettonico proprio dell'epoca dell'Assolutismo e della Chiesa della Controriforma. Le virtù ideali del Rinascimento (proporzione, compostezza ecc.) furono stravolte da un'idea dell'arte che voleva persuadere, emozionare e meravigliare il fedele. Così tra architettura, scultura e pittura non esisteva più una stretta linea di demarcazione, poiché tutte e tre le discipline concorrevano a dare una visione omogenea e spettacolare. Le personalità più spiccatamente rappresentative di questo periodo furono Bernini, Borromini e Pietro da Cortona (che operarono a Roma), cui fecero seguito altri artisti italiani e stranieri, tra i quali Rubens e Rembrandt, quantunque né la sua pittura né in generale la sua poetica siano classificabili come barocche in senso stretto.
a)      Origine e significato del termine - Il termine Barocco deriva, secondo alcuni, dal vo­cabolo ispano-portoghese barroco, che indica una perla di forma anomala; secondo al­tri da baroco, tipo di sillogismo irregolare divenuto sinonimo di ragionamento strava­gante. In entrambi i casi la denominazione tende a mettere in evidenza il carattere di diversità, di lontananza dalla regola, di rottura quindi coi moduli e i canoni della tradi­zione, che è appunto la caratteristica fondamentale del Barocco.
Poiché, come abbiamo detto, il gusto e l’arte barocca caratterizzano il secolo XVII, ta­le movimento fu chiamato anche, in Italia, Secentismo, e, per la letteratura, Marini­smo, dal nome del suo più tipico esponente nella nostra letteratura, il poeta Gian Batti­sta Marino.
b)      Il Barocco come espressione di una crisi conoscitiva - Alla base della rottura coi modi e le forme della tradizione, sta una crisi conoscitiva che si manifestò in quel periodo. Le scoperte di Copernico, e, sulla sua scia, di Galileo, avevano ribaltato la visione che l’uomo aveva di se stesso, della Terra e dell’Universo. La constatazione che la Terra non stava ferma al centro del sistema solare, ma con gli altri pianeti ruotava nello spa­zio intorno al sole, non era stata solo una scoperta astronomica; essa aveva rappresen­tato il crollo di antiche certezze, e soprattutto della certezza fondamentale che la scien­za e la tradizione del passato garantivano all’uomo: di essere il centro e il perno dell’Universo.
Ormai nulla appariva più fermo e sicuro; tutto era messo o poteva essere messo in di­scussione; la realtà appariva diversa se guardata da angolature differenti. Ne consegui­va per gli uomini del tempo, stupiti e sconcertati, un senso diffuso di inquietudine e di instabilità.
L’arte, che esprime il senso che l’umanità ha del proprio tempo, ovviamente non pote­va più tradurre tale inquieta visione attraverso le forme salde, armoniche, esatte, dell’arte rinascimentale; doveva trovare nuovi modi espressivi che cercassero di espri­mere i nuovi rapporti che si stabilivano fra le cose, le nuove intraviste prospettive. Di qui, in letteratura, il sostituirsi, al discorso disteso, organico, razionalmente costrui­to, la ricerca invece dell’immagine fantasiosa, spesso bizzarra, che suggerisce nuove di­mensioni della realtà, intuite se anche non logicamente chiarite. Da questa nuova co­scienza deriva anche l’uso e l’abuso delle analogie, cioè l’accostamento di cose lontanissime tra loro se i loro rapporti vengono giudicati con criterio logico, ma nelle quali lo scrittore sembra invece intuire un nesso che le accomuna, almeno se si guardano in prospettiva diversa da quella consueta.
c)      Lo «stupefacente» fine a se stesso Peraltro questa crisi conoscitiva, che costituisce l’elemento serio, addirittura drammatico, dell’età del Barocco, non sempre sta alla base della produzione letteraria di questo periodo.
Spesso gli scrittori barocchi sono soltanto dei bizzarri ricercatori di immagini, dei crea­tori dì giochi formali fine a se stessi, puro sfoggio di abilità tecnica che può sconfinare persine nel grottesco. La «meraviglia» che essi dicono di voler suscitare nel lettore, non è il riflesso dello stupore di fronte a una realtà che si trasforma, ma è la sconcer­tante stupefazione che si prova di fronte ad abilissimi e complicati fuochi d’artificio. Di tale tipo deteriore di Secentismo, che fu dominante nella produzione letteraria italia­na, sono testimonianza il passo del Marino che qui riferiamo, e quello del padre Orchi, rispettivamente per la poesia e per la prosa.
d)     Il Barocco nelle arti figurative - Il Barocco segnò una rottura con la tradizione anche nel campo delle arti figurative: in architettura, dove, in antitesi con l’equilibrio dell’ar­te rinascimentale, si afferma la linea curva, il gioco delle sporgenze e delle rientranze, il gusto coreografico (grandi scalinate, sfondi di giardini e di fontane), gli effetti di chia­roscuro.
Lo stesso si dica per la pittura e la scultura, nelle quali prevalgono le linee gonfie, so­vraccariche, il movimento e la tensione delle figure.
Le arti figurative inoltre si scambiano le tecniche espressive: l’architettura sfrutta gli ef­fetti del chiaroscuro, che è retaggio tradizionale della pittura, si avvale del colore con l’alternanza di diversi materiali (diversi marmi soprattutto); la pittura a sua volta da grande spazio sulle tele a fastosi edifici, crea col colore effetti di altorilievo e di basso-rilievo; nelle opere di scultura hanno gran parte il panneggio, le pieghe, coi conseguenti giochi di luce.
Del resto anche in letteratura tendono a confluire le tecniche di arti diverse, soprattutto della musica: il vocabolo e la frase finiscono col non contare tanto per il loro significa­to, ma per la carica musicale che contengono, e che crea nel lettore nuove suggestioni ed emozioni.

7. Torquato Tasso – Torquato Tasso, è stato uno dei maggiori poeti italiani del Cinquecento. La sua opera più importante e conosciuta è la Gerusalemme liberata del 1575, in cui vengono descritti gli scontri tra cristiani e musulmani alla fine della Prima Crociata, durante l'assedio di Gerusalemme.
a) La vita Torquato Tasso nacque a Sorrento nel 1544, da Bernardo, che discendeva da una nobile famiglia bergamasca anch’egli apprezzato poeta e gentiluomo al servizio, come segretario, del Ferrante Sanseverino, principe di Salerno e da Porzia de’ Ros­si, nobile napoletana.
Il piccolo Torquato iniziò gli studi a Salerno quando i Tasso si trasferirono a Salerno, al seguito dei Sanseverino, vi fu una sollevazione popolare contro il tentativo del viceré d'introdurre nella città l'Inquisizione, Ferrante Sanseverino si schierò dalla parte del popolo e, con lui, il padre di Torquato. Per ragioni di sicurezza il padre trasferì Torquato a Napoli, mandandolo a scuola dai gesuiti. Ma gli eventi precipitarono e i Sanseverino, con i loro fedeli, furono costretti ad abbandonare il regno, trasferendosi a Ferrara, poi a Bergamo, in Francia e a Roma.
Ma nel 1554 fu chiamato a Roma dal padre, che aveva seguito il principe Sanseverino nell’esilio quando questi, caduto in disgrazia del Viceré, era stato bandito dal Regno nel 1550. La partenza per Roma e il distacco dalla madre, che morì due anni dopo, forse assassinata da suoi stessi fratelli per impossessarsi delle sue proprietà, senza che egli avesse potuto più rivederla. Questo distacco fu per il ragazzo una lacerazione; negli anni tardi egli l’avrebbe rievocata nella Canzone al Metauro come la prima crudele piaga infertagli dalla sorte:
Me dal sen de la madre empia fortuna pargoletto divelse...
ch’io non dovea giugner più volto a volto
fra quelle braccia accolto
con nodi così stretti e sì tenaci.
Nel 1556 Tasso da Roma passò col padre ad Urbino, presso la colta e signorile corte di Guidobaldo II Della Rovere, dove fu educato secondo il modello del perfetto cortigiano stabilito da Castiglione: culto delle lettere, della musica, delle arti, esercizio delle virtù cavalleresche e dove Torquato divenne così compagno di studi del figlio del Duca.
Nel 1559, sempre col padre, a Venezia e poi a Padova dove visse fino al 1565. Nel 1560-61 frequentò l'Università, seguendo gli studi di legge, dove si dedicò agli studi di filosofia ed approfondì la conoscenza dei classici, con una breve interruzione bolognese, dove fu coinvolto in una vicenda goliardica, con strascichi giudiziari, per aver scritto versi satirici che alludevano ai bassi natali e all'effeminatezza di alcuni studenti e professori, e fu costretto a lasciare in fretta e furia la città. Al soggiorno padovano risalgono le prime liriche, composte per amore di Lucrezia Bendiddio e, in seguito per la mantovana Laura Peperara (1564). Tali amori seppero ispirare al giovane poeta alcune liriche che sono tra le più delicate e melodiose del tempo.
Nel 1562 Tasso pubblicò il Rinaldo, dedicandolo al cardinale Luigi d'Este.
Nel 1565 anche in virtù della fama poetica che già cominciava a conquistarsi, Tasso fu invitato a Ferrara presso la Corte Estense, prima al servizio del cardinal Luigi d’Este, poi del duca Alfonso II.
I dieci anni che seguirono, dal 1565 al 1575 furono i più felici – e forse gli unici felici – dell’esistenza di Tasso.
Tra il 1570 ed il 1571 Tasso accompagnò il cardinale in Francia, ma qui il suo soggiorno non fu sereno ed il poeta rientrò in Italia appena gli fu possibile.
Dal 1572 entrò a far parte, come cortigiano stipendiato, del seguito del duca estense Alfonso II con il titolo di gentiluomo e nel 1576 poi con la carica di storiografo di corte. Compone poesie per feste e matrimoni, madrigali che rendono omaggio a dame e personaggi di corte. Ottiene un sempre più ampio riconoscimento delle sue qualità di letterato e intellettuale ed è nominato socio dell'Accademia ferrarese.
Nel 1573 compone la favola pastorale Aminta.
La vita di Corte non era per lui una tollerata necessità come per Ariosto, ma rappre­sentava la forma ideale di esistenza, fra mondanità eleganti, incontri culturali, gratifi­canti affermazioni personali. Ammirato e invidiato dagli altri cortigiani, corteggiato dalle dame, libero da preoccupazioni economiche, diede in questo periodo il meglio di sé anche come poeta, come testimoniano le sue opere di questi anni, cioè l’Aminta e La Gerusalemme liberata.
Col 1575 ebbe inizio la fase discendente della vita del Tasso. Dopo aver portato a termine il Goffredo, iniziato nell'adolescenza e la cui originaria ispirazione risaliva alla fanciullezza allorché più volte Torquato Tasso fu condotto alla Badia di Cava, il monastero dei Benedettini di Cava de' Tirreni, dove si trova la tomba di Urbano II, il predicatore della prima Crociata, ed ebbe modo di ascoltare dai monaci il racconto delle imprese dei Crociati.
Il poema diventò famoso col titolo di Gerusalemme liberata e, prima di pubblicarlo, Tasso volle sottoporla al giudizio di cinque revisori dai quali si aspettava riconoscimenti e lodi, e che invece, condizionati dalle teorie estetiche imperanti e da gretto moralismo, mossero al poema numerose riserve di natura estetica e religioso-morale. Ne derivarono a Tasso indebolito, spossato e già prostrato dalla fatica della composizione, uno scontento e un’inquietudine che si trasfor­marono presto in grave esaurimento nervoso. Assalito da forti febbri, Tasso cominciò a manifestare i primi sintomi dello squilibrio interiore che lo tormentò fino alla morte. Cominciò ad essere turbato da scrupoli religiosi pertanto decise di rivedere la stesura di tutta l'opera e nel 1577 chiese addirittura di essere esaminato dall'Inquisitore di Ferrara, per dissipare ogni dubbio sull'ortodossia cattolica del suo pensiero. Fu assolto, ma non sentendosi ancora soddisfatto, decise di recarsi presso gli inquisitori di Roma e di denunciare addirittura le tendenze filocalviniste di alcuni Estensi. Il duca Alfonso II, temendo che il papato potesse approfittarne per occupare la signoria, lo fece vigilare. Cominciò inoltre a manifestarsi in lui una grave mania di persecuzione che lo portò anche a gesti violenti. Un giorno, sentendosi spiato da un servo mentre conversava con la sorella del duca, gli lanciò contro un coltello ferendolo: per questo motivo Tasso fu rinchiuso, come malato di mente, in una stanza del palazzo e poi liberato. Dopo altre manifestazioni di follia, è rinchiuso in un monastero, da dove, però riesce a evadere rifugiandosi presso la sorella, a Sorrento. Dopo qualche tempo riprende la vita errabonda e avventurosa, recandosi a Mantova, Padova, Venezia, Urbino, Torino.
Nel 1579, vinto dalla nostalgia per la sua città, chiese il perdono del duca e fece ri­torno a Ferrara, che, nella lontananza, gli appariva pur sempre come un Eden perduto. Vi giunse però in un momento inopportuno, mentre la Corte era impegnata nei prepa­rativi delle nozze del duca Alfonso II con Margherita Gonzaga. Non riuscendo a farsi accordare udienza, Tasso ebbe l’impressione che poco si curassero di lui, e diede in escandescenze contro il Duca. Questa volta fu rinchiuso come pazzo nell’Ospedale di Sant’Anna, dove rimase dal 1579 al 1586, in una relegazione che, durissima all’inizio, fu in seguito miti­gata. Del resto egli stesso alternava periodi turbati e tormentati da allucinazioni a pe­riodi assolutamente lucidi in cui si dedicava al suo lavoro letterario e poetico. Il reale motivo per cui il duca Alfonso tenne a lungo rinchiuso l'infermo va cercato nel timore che il Tasso, con i suoi dubbi religiosi, con l'ossessione eretica, che lo aveva spinto ad accusarsi di eresia presso il tribunale dell'Inquisizione, potesse recare danno politico alla Casa d'Este, già guardata con sospetto dalla Curia Romana, dopo la conversione al calvinismo della principessa Renata di Francia, figlia di Luigi XII e sposa di Ercole II d'Este. Durante questi anni continuò a soffrire di allucinazioni e di manie di persecuzione, ma scrisse anche molte lettere a illustri personaggi (soprattutto per ottenere la libertà), molte poesie, i Dialoghi filosofici, nei quali parla della sua sottomissione alle verità della religione, e della sua concezione della politica, arte, letteratura, amore, bellezza ecc., risentendo molto della filosofia platonica.
Nel 1580, mentre era ancora in carcere, alcuni disonesti editori pubblicarono a sua insaputa la Gerusalemme: Tasso, per il quale il poema non corrispondeva più ai suoi criteri, ne fu molto addolorato. Tuttavia, quella pubblicazione determinò un acceso dibattito sul valore dell'opera, soprattutto perché era messa a confronto con l'Orlando furioso di Ariosto. I suoi sostenitori proclamarono che solo Tasso, fedele alle leggi aristoteliche, aveva saputo dare il poema epico all'Italia; i denigratori invece lo accusavano di avere usato delle impurità dialettali e straniere, venendo così meno alla superiorità della lingua toscana. Tasso stesso entrò nel dibattito pubblicando un'Apologia della Gerusalemme.
Nel 1586 Tasso ottenne la libertà per intercessione dei principi Gonzaga di Mantova, che lo vollero presso la loro corte dove compone la tragedia Torrismondo. Tuttavia, dopo un anno di sereno e operoso soggiorno a Mantova, alla notizia che per l'incoronazione di Vincenzo Gonzaga sarebbero giunti a Mantova Alfonso e Margherita d'Este, fu ripreso di nuovo dall’inquietudine, fuggì da Mantova e ricominciò a spostarsi di città in città: fu a Loreto, dove sciolse un voto, Roma, a Napoli dove cercò di recuperare la dote materna, a Firenze dove ricevette grandi onori dai Medici di nuovo brevemente a Mantova; ma più a lun­go soggiornò a Roma, dove ebbe la protezione di due nipoti del papa Clemente VIII Aldobrandini e dove il papa stesso gli promise una pensione vitalizia e un solenne riconoscimento del suo valore letterario: l'incoronazione in Campidoglio di poeta laureato.
Conclusa la nuova redazione del poema, che intitolò Gerusalemme conquistata, pubblicata nel 1593, freddo rifacimento della Liberata, obbediente a tutti i dogmi religiosi e letterari, morì a Roma nel 1595, alla vigilia dell’incoronazione poetica in Campidoglio, che gli era stata decretata in riconoscimento dei suoi meriti di scrittore.
b) Le opere – Precoce fu l’attività poetica del Tasso.
Già al soggiorno urbinate risale la composizione di alcune liriche; e liriche egli continuò poi a comporre per tutto l’arco della vita. Il vasto corpus delle Rime tassesche (più di 1300) comprende componimenti di diverso argomento (d’amore, religiose, di elogio cortigiano) e di diverso valore: sem­pre dotate di indiscutibile decoro letterario, esse peccano a volte, specie le encomiastiche, di convenzionalità; ma a volte, soprattutto le amorose e in particolare i madrigali, rag­giungono la più alta poesia.
Nel periodo padovano compose il Rinaldo, poema cavalleresco di imitazione ariostesca, che rivela nel giovane poeta facile vena; e a questi stessi anni risale il primo abbozzo di un poema epico sulla Crociata, il Gierusalemme, che sarebbe poi diventato la Gerusa­lemme liberata.
Agli anni felici del primo soggiorno ferrarese appartengono  i due capolavori di Tasso: l’Aminta, dramma pastorale composto per il teatro dì Corte e rappresentato nel 1573, nel quale si rivela l’alta maturità artistica da lui ormai raggiunta; e la sua opera maggiore, La Gerusalemme liberata, conclusa nel 1575, poema epico-religioso in venti canti in ottave che ha per argomento la prima crociata guidata da Goffredo di Buglione e predicata da Pietro l’Eremita, e la liberazione del Santo Sepolcro dagli infedeli.
Si conclude a questo punto il momento alto della produzione poetica tassiana. Le ope­re successive, anche se non prive a tratti di lampi di poesia, riflettono anche artistica­mente la parabola discendente dell’esistenza del poeta. Fra esse, assai numerose, ricor­diamo: La Gerusalemme Conquistata, infelice rifacimento della Liberata, frutto di scrupoli estetici e religiosi; un poema sulla creazione del mondo, Il mondo creato, e una cupa tragedia di argomento nordico,  Il re Torrismondo.
Accanto alla produzione tassiana in versi va ricordata la sua vastissima produzione in prosa: le opere di riflessione estetica sul poema eroico (i Discorsi dell’arte poetica e i Discorsi del poema eroico), i Dialoghi, composti nella prigionia di Sant’Anna, di argomento prevalentemente filosofico; e il vastissimo epistolario, che è documento della travagliata esistenza del poeta.
c) Torquato Tasso, voce poetica fra Rinascimento e Controriforma - Nella seconda metà del Cinquecento cominciano a rivelarsi alcune incrinature in quella fiducia assolu­ta nell’uomo, nelle sue capacità e nei valori terreni, che era stata la connotazione fon­damentale del trionfante Rinascimento, e che aveva trovato l’espressione più matura nel pensiero del Machiavelli e nella poesia di Ariosto.
È un mutato stato d’animo cui ha concorso non poco la situazione politica italiana, dove le speranze machiavelliane di dar vita a un forte stato autonomo sono del tutto fallite, e dove è ormai in atto il lento declino sotto le dominazioni straniere.
In questo periodo si va sottilmente insinuando nelle coscienze il dubbio inquietante che non tutto all’uomo, neppure all’uomo eccezionalmente dotato, sia possibile; e che egli debba fare i conti con forze ostili che incombono su di lui, assai più oscure e misterio­se della machiavelliana «fortuna», e perciò ben più difficili da affrontare. È questo uno stato psicologico che apre naturalmente la via alla dimensione religiosa, e che perciò costituisce il terreno propizio all’affermarsi della Controriforma e alla rin­novata religiosità che essa si propone di instaurare: una religiosità peraltro spesso im­posta dall’esterno con strumenti di pressione (il Tribunale dell’Inquisizione), generato­ri, negli spiriti più sensibili o più deboli, di sconcerto e di turbamento. Di questo periodo, in cui il Rinascimento ormai al tramonto e i suoi valori terreni non del tutto spenti si scontrano, spesso dolorosamente, con una rivalutazione dei valori religiosi, e quindi con un’antitetica concezione della vita, Torquato Tasso rappresenta la voce poeti­ca più alta e drammatica.
d) La parabola tassiana dal «Rinaldo» alla «Liberata» - Le opere maggiori che prece­dono la Liberata, e cioè il Rinaldo e l’Aminta, sono ancora immerse nello spirito rina­scimentale. Il protagonista del poema omonimo, il paladino Rinaldo, è tutto proteso, senza incertezze né inquietudini, verso i doni che la vita offre alla sua giovinezza, l’amore e la gloria, e che egli vuole afferrare a piene mani.
La stessa tensione verso i valori terreni alimenta l’altra, e ben più alta, prova poetica, l’Aminta. È una favola pastorale in cui l’amore è presentato nei suoi molteplici aspetti e goduto in totale libertà di spirito. Esso è sentito come una forza vitale, e come tale positiva, della natura. Nel bellissimo coro che conclude il primo atto è esaltata la miti­ca età dell’oro non già perché in essa, come raccontavano le antiche favole, gli alberi stillassero miele e nei fiumi scorresse latte, ma perché r«amore», cioè il libero dispiegarsi degli istinti, non veniva contrastato dall’«onore», cioè dalla legge morale. Questa antitesi fra «amore» e «onore», cioè fra le umane passioni e il dovere e i con­dizionamenti etici, è invece tema fondamentale e struggente nella Liberata, opera in cui è già ben presente la dimensione religioso-controriformistica. Nel poema il «dovere» si configura concretamente nella lotta contro gli infedeli, e si contrappone alle terrene passioni dei crociati, siano esse la brama di personali conquiste e domini, o, assai più frequentemente, la passione amorosa. Ne nascono situazioni di alta drammaticità psi­cologica che si risolve in complessità e intensità poetica.
e) I temi della «Liberata» - Il poema inizia narrando che al sesto anno di guerra dato che i principi si sono dimenticati del sacro obiettivo da raggiungere Dio manda l'arcangelo Gabriele da Goffredo (unico rimasto fedele) per rimettere in sesto un esercito con scopi più elevati cosi abbiamo i primi scontri dei crociati sotto le mura di Gerusalemme. Ma Satana contrasta i crociati attraverso i suoi demoni e la maga Armida, talmente bella che parecchi soldati la seguono e sono imprigionati nel suo castello. Poi abbiamo Argante che vuole porre fine all'assedio e così decide di sfidare Tancredi, iniziano a duellare ma il duello è interrotto per il calar della sera e qui Erminia travestendosi da Clorinda prova a raggiungere la tenda di Tancredi ma scoperta dai cristiani fugge cosi il giorno seguente Tancredi cerca di raggiungerla (pensando che fosse Clorinda la sua amata) ma viene imprigionato da Armida. dopo altri episodi dove abbiamo l'intervento di angeli e demoni la battaglia viene nuovamente interrotta. Al calar delle tenebre la vera Clorinda (amata di Tancredi) viene uccisa in duello da Tancredi che non la riconosce e cosi inizia la sua disperazione che lo conduce quasi alla morte ma lo salva la stessa Clorinda che gli appare in un sogno dopo altre peripezie dio capisce che è ora di porre fine alla guerra cosi manda a ripescare Rinaldo anch'egli prigioniero di Armida (innamorata ormai di Rinaldo) cosi poi comincia nuovamente l'assalto definitivo a Gerusalemme e termina con la morte del capo dell'esercito egiziano da parte di Goffredo. 
·         La componente eroico-religiosa - Tema della Gerusalemme liberata è la prima Crocia­ta, che, nella realtà storica, durò dal 1096 al 1099, ma che il Tasso, con dilatazione en­fatizzante, immagina che sia durata per ben sei anni. A somiglianza dell’Iliade, in cui la guerra di Troia è descritta nella sua ultima fase, cioè nei decisivi quaranta giorni fi­nali, così nella Liberata sono rappresentate le vicende degli ultimi tre mesi, cui le prece­denti fanno da sfondo e da supporto: esse si concludono con la sconfitta degli Infedeli, la caduta di Gerusalemme, e la liberazione del Santo Sepolcro.L’argomento è dunque eroico-guerresco, quale si conveniva a un poema epico, genere nel quale il Tasso ambiva di affermarsi e di acquistare gloria. Ma la novità tassiana nei confronti della tradizione epica precedente è costituita dalla componente religiosa, che rifletteva le aspirazioni e gli ideali dell’età della Controriforma, nonché la diffusa sensi­bilità del tempo.
A questo si aggiunga lo stimolo che veniva a Tasso da una precisa situazione storica contemporanea che ridava attualità al mondo delle Crociate: il rinnovarsi cioè di una minaccia turca sull’Europa, minaccia con Titro la quale Venezia rappresentava un baluar­do (e il primo progetto del poema nacque, come sappiamo, a Venezia); e, dopo la bat­taglia di Lepanto del 1571, l’orgoglio della cristianità per la vittoria riportata dalla «lega santa» sui Turchi.
Nel poema tassesco la guerra che i Crociati devono combattere non è soltanto contro le forze del re di Gerusalemme, Aladino, ma anche contro i forti alleati di costui, il re d’Egitto e il sultano turco Solimano.
In campo e nell’altro spiccano individualisticamente prodi personalità guerriere, e alla lotta partecipano anche forze soprannaturali: celesti, diaboliche, magiche.
·         Gli «amori» e gli «incanti» - Se la componente epico-religiosa costituisce la struttura portante della Liberata, non è in tale dimensione che sono rinvenibili i suoi momenti poeticamente più alti e intensi; ma vanno piuttosto ricercati negli episodi amorosi e di suggestione magica che si innestano sul filone eroico e religioso, e con esso strettamen­te si intrecciano.
Tasso stesso ne aveva coscienza, tanto che difese strenuamente questi, che egli chiama «gli amori» e «gli incanti», contro i revisori, che li consideravano disdicevoli a un poema cristiano e li volevano da esso espunti.
L’amore è presente nella Liberata nella vasta gamma delle sue manifestazioni, dall’amore sentimentale a quello sensuale, e tocca tanto gli eroi cristiani che quelli pa­gani.
Ma sono ormai lontani gli amori felici del Rinaldo e dell’Aminta. Gli amori della Libe­rata hanno per denominatore comune il fallimento e l’infelicità, o perché contrastati - come già abbiamo visto - dal «dovere», o perché avversati dalla sorte, o semplice­mente perché non ricambiati. Così il cristiano Tancredi ama la pagana Clorinda che neppure si accorge di lui, e la sorte si accanisce tanto che, non riconoscendola sotto l’armatura, l’uccide di sua mano in combattimento; la pagana Erminia ama, non ria­mata, Tancredi; il cristiano Rinaldo è conquistato dal fascino della pagana e maga Armida, ma deve abbandonarla per riprendere il suo posto nelle file crociate, ecc. È una specie di vana corsa verso la felicità che umanizza e conferisce poesia ai personaggi che ne sono coinvolti, ma che crea intorno a loro un dolente senso di sconfitta. Quanto agli «incanti», il Tasso indica con questo nome l’elemento magico che non so­lo era congeniale al gusto del tempo, ma che egli considerava essenziale per ottenere quel «meraviglioso» che giudicava ingrediente irrinunciabile del poema eroico. Sono presenti nel poema le varie forme di magia: la «magia naturale» o magia volta a buon fine, come quella del mago d’Ascalona che concorre a sottrarre Rinaldo all’amo­re di Armida; la «magia nera» o magia diabolica a fine perverso, utilizzata, ad esem­pio, dal mago Ismeno che incanta la selva di Saron così che i Cristiani non possono più trame legna per le loro macchine da guerra. A volte la «magia nera» prende bellis­sime e seducenti fattezze femminili; ed è il caso della maga Armida, che col suo fascino sottrae Rinaldo al combattimento; o prende l’aspetto selvaggio della Furia Aletto, che scatena al combattimento e spinge al suo destino di morte il solitario e prode eroe Soli­mano.
Permeati di influenze magiche sono taluni paesaggi, come la selva di Saron su cui il mago Ismeno ha sparso la sua funesta incantagione; e dalla natura stessa di altri sem­brano emanare suggestioni stregate e magiche, come dalla landa maledetta, sede un tempo di Sodoma e Gomorra, ora occupata dalle acque bituminose e graveolenti del Mar Morto.

8. Galileo Galilei – Galileo Galilei è con Newton, Francesco Bacone e Cartesio uno dei grandi promotori della rivoluzione scientifica del '600. Matematico, fisico e astronomo, la sua figura ha avuto anche una grande rilevanza filosofica.
a) La vita Nacque a Pisa nel 1564 e compì gli studi a Pisa e a Firenze. Fin dal 1583 aveva scoperto le leggi dell’isocronismo del pendolo. Dal 1589 al 1592 insegnò matema­tica nello Studio pisano; sono di questo periodo le sue esperienze sulla caduta dei gra­vi. Dal 1592 al 1610 insegnò presso l’Università di Padova; negli ultimi due anni del soggiorno padovano, perfezionando un’invenzione venutagli dall’Olanda, costruì il te­lescopio, che gli consentì importanti osservazioni astronomiche per le quali fu spesso in urto con il conservatore e aristotelico ambiente accademico padovano. Individuò in questi anni la costituzione della Via Lattea e scoprì quattro satelliti di Giove. Nel 1610 tornò ad insegnare in Toscana, presso il Granduca. Nel frattempo la sua adesione alle teorie del polacco Copernico (1473-1543), secondo le quali la terra non sta immobile al centro dell’Universo, ma ruota intorno al sole, che è il centro immobile del sistema so­lare, gli sollevarono contro le diffidenze e poi la condanna dal Santo Uffizio, cui pare­va che la teoria copernicana contraddicesse alle Sacre Scritture.
Chiamato a Roma e sottoposto a processo, per non essere condannato a morte come eretico dovette abiurare le sue teorie (22 giugno 1633). Morì ad Arcetri, presso Firenze, dove, per ordine del Sant’Uffizio, era tenuto in controllata segregazione.
b) Le opere - Fra le sue opere ricordiamo il Saggiatore (1623), opuscolo polemico sulle comete scritto contro il padre gesuita Orazio Grassi; il Dialogo dei massimi sistemi (1632) in cui Galileo lascia chiaramente intendere la sua adesione al sistema copernica­no; il Dialogo delle nuove scienze (1638). Importantissime sono poi la Lettera a don Benedetto Castelli (1613) e la Lettera alla granduchessa Cristina di Lorena (1615) in cui Galileo chiarisce il suo principio dell’autonomia reciproca dei Libri Sacri e della ricerca scientifica.

c) Dialogo sui due massimi sistemi del mondo – Eccezionale diffusione ha avuto, tra i suoi scritti, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo.

Nel 1623 Maffeo Barberini, che era considerato un patrono di artisti e scienziati, divenne Papa Urbano VIII. Galileo cercò di riproporre la questione copernicana, ed ottenne dal Papa il permesso di scrivere un dialogo, nel quale esporre i principi della teoria, senza però arrivare ad una conclusione sulla sua validità, bensì trattandola come una semplice ipotesi matematica.

Galileo lavorò al Dialogo fino al 1630.

Il testo è diviso in quattro giornate, durante le quali il copernicano Salviati (che rappresenta lo stesso Galileo) e l'aristotelico Simplicio si confrontano esponendo le due teorie; un terzo personaggio, Sagredo, interviene spesso nel dialogo tra i due, a favore di Salviati.

Durante le prime tre giornate, i tre prendono in considerazione il moto terrestre e alcuni fenomeni celesti che sembrerebbero invalidare la cosmologia aristotelica.
La quarta giornata è dedicata invece all'analisi del fenomeno che più degli altri convinse Galileo della validità della teoria copernicana, cioè quello delle maree. Egli spiegava il fenomeno in maniera errata, semplicemente come la combinazione del moto annuale di rivoluzione terrestre con quello diurno di rotazione; non prese invece in considerazione l'attrazione gravitazionale della Luna.
Nel Dialogo sono presentate alcune conclusioni a favore della teoria copernicana. Quando Galileo sottopose l'opera al giudizio della Chiesa, Papa Urbano VIII gliene impedì la diffusione e segnalò la questione al Tribunale dell'Inquisizione. Le autorità ecclesiastiche erano però disposte ad ammettere il sistema copernicano solo come ipotesi di calcolo e reagirono ai suoi tentativi dapprima ammonendolo nel 1616 e poi processandolo, condannandolo definitivamente ed infine costringendolo all'abiura nel 1632.
La fama di Galileo tra i suoi contemporanei viene dalle sue osservazioni astronomiche, che impiegarono una versione perfezionata del telescopio, già noto da alcuni anni, e mettono in discussione alcuni punti fermi della cosmologia aristotelica. Già da tempo convinto copernicano, Galileo sostiene la superiorità del sistema eliocentrico con varie argomentazioni. Fondamentale a questo proposito è l'elaborazione del principio d'inerzia (per cui un oggetto in moto non sottoposto a forze esterne continua a muoversi con velocità costante), grazie al quale Galileo riesce a vanificare quasi tutte le obiezioni di tipo fisico che da secoli venivano sollevate contro l'idea di una Terra in movimento. L'idea di movimento inerziale, movimento privo di cause, rappresenta una rottura di enorme portata rispetto al pensiero precedente, non solo per le sue implicazioni a favore delle teorie copernicane, ma anche perché inaugura una nuova forma di rapporto conoscitivo tra il soggetto e l'esperienza: il principio non trae la sua validità dall'esperienza comune, quotidiana, ma richiede uno sforzo di astrazione che liberi l'esperienza da tutti i fattori perturbatori (in primo luogo l'attrito) che impediscono al principio di manifestarsi in tutta la sua purezza.
Il principio d'inerzia costituisce il primo principio della scienza moderna, fondando la dinamica. Galileo contribuisce all'edificazione della dinamica anche con le sue ricerche sulla caduta dei gravi, con cui inaugura il moderno approccio sperimentale. Per Galileo l'esperimento assume forme artificiali precise e determinate, che permettono un controllo numerico di ipotesi quantitative, consente la misurazione dei fenomeni: è la via con cui l'esperienza può essere matematizzata. L'esperimento ha anche la funzione di portare alla luce comportamenti naturali che altrimenti rimarrebbero nascosti, occultati dalla complessità dei fenomeni perturbatori sempre presenti nell'esperienza quotidiana.
Galileo è convinto che il copernicanesimo sia compatibile con le Sacre Scritture, purché queste siano interpretate allegoricamente, e tenta di far accettare questa posizione alla Chiesa.
d) Il metodo sperimentale e la lotta contro il principio di autorità - Galileo, che si collo­ca nella scia di Leonardo da Vinci, è l’instauratore deciso ed organico del metodo sperimentale. Egli sostiene infatti che l’unico metodo valido di conoscenza scientifica è quello che parte dall’esperienza, cioè dalla analisi diretta dei fenomeni, e di lì indutti­vamente perviene alla formulazione delle leggi scientifiche.
Tale metodo sperimentale-induttivo si contrapponeva a quello deduttivo allora in auge, che, partendo da un principio generale non conquistato sperimentalmente ma afferma­to per autorità (era la «grande bugia» cui alludeva Leonardo) perveniva alle applica­zioni particolari di tale principio.
Contro il principio di autorità Galileo combatte per tutta la sua vita di studioso. Esso gli si presentava in due forme: l’autorità di Aristotele (l’ipse dixit), e l’autorità dei Libri Sacri, cioè della Bibbia.
Negli anni in cui Galileo maturava il suo pensiero e compiva le sue ricerche rivoluzio­narie, la cultura ufficiale italiana resisteva impavida sulle vecchie posizioni che mette­vano capo all’ipse dixit di Aristotele. Si narrava l’episodio di quell’insegnante dell’Uni­versità di Padova, culla dell’aristotelismo, che, invitato da Galileo a guardare le mac­chie solari attraverso il telescopio, si rifiutava di farlo dicendo che non ci potevano es­sere macchie solari perché Aristotele non aveva detto che c’erano. Gli aristotelici di stretta osservanza fecero presto muro contro Galileo, e concorsero non poco alla sua rovina.
Ma l’«autorità» più dura da combattere, e con cui Galileo dovette duramente scontrar­si fu quella della Bibbia.
La Chiesa rifiutava di considerare come valide, e considerava anzi ereticali, le conclu­sioni scientifiche che si scostassero da affermazioni contenute nei testi sacri. E le con­clusioni della Chiesa erano affiancate, in campo operativo, dal Tribunale dell’Inquisi­zione, le cui sentenze potevano portare all’imprigionamento, e magari alla morte sul rogo, del dissenziente.
Nel caso specifico di Galileo la Chiesa considerava eretica la teoria eliocentrica (élios = sole) del polacco Copernico (sistema copernicano), teoria cui Galileo aveva aderito, secondo la quale la Terra è uno dei tanti pianeti che ruotano intorno al sole, che sta immobile al centro dell’universo. Tale teoria era in antitesi con la tradizionale conce­zione geocentrica (gè = terra) sostenuta dall’astronomo greco Tolomeo del II secolo dopo Cristo, che voleva la Terra ferma al centro dell’universo, quasi perno di esso, mentre il sole le ruotava intorno illuminandola (sistema tolemaico). La Chiesa ufficiale giudicava che solo la concezione tolemaica sì accordasse ai testi sa­cri (si citava l’episodio di Giosuè che fermò il sole, il che implicava il muoversi del sole stesso); e inoltre sembrava che la concezione eliocentrica spodestasse il nostro pianeta da quella posizione di privilegio per cui Dio vi sarebbe sceso facendosi uomo per sal­varne gli abitatori.
Galileo, che si proclamò sempre cattolico, ribattè a queste accuse fra l’altro nella Lette­ra alla granduchessa di Toscana, Cristina di Lorena. In essa sosteneva l’autonomia del­la scienza dai Libri Sacri. Nella sua lucida esposizione il Galilei vi affermava che Dio si è manifestato agli uomini per due vie: i testi sacri e il libro della natura. Nei testi sacri stanno scritte verità eterne religiose e morali, non già scientifiche; anzi il linguaggio scientifico della Bibbia è volutamente adeguato alle cognizioni scientifiche degli uomini di quelle lontane età. Le verità scientifiche stanno invece scritte nel libro della natura, dove spetta agli uomini di ricercarle, portarle alla luce, ed esporle infine, traducendole in formule matematiche.
e) La lingua e il dialogo galileiani - Dopo le prime pubblicazioni in latino, che era anco­ra la lingua ufficiale della scienza, Galileo usa stabilmente il volgare, la lingua attuale che sentiva adeguata alla novità del suo pensiero. L’italiano di Galileo è una lingua di un’eleganza non studiata, essenziale, esatta a tratti mossa dall’emozione del ricercatore che tende alla verità e la vede rivelarglisi.
La forma dei suoi scritti è prevalentemente dialogica. Non si tratta però come nella maggior parte dei trattati del Cinquecento in forma dialogica, di un dialogo formale, strumento per esprimere dottrine già acquisite, ma di un dialogo che traduce lo scontro appassionato di idee nel loro definirsi. Perciò anche i personaggi interlocutori hanno una loro fisionomia e un loro rilievo psicologico.

9. Giambattista Marino – Il napoletano Giambattista Marino è lo scrittore più significativo del nostro Seicento e rappresentò un modello imitato dagli scrittori dell'epoca in tutta Europa.
a)      La vitaGiambattista Marino nacque a Napoli il 14 ottobre 1569. Costretto dal padre giurista agli studi di legge fu spinto ad andarsene di casa per il suo comportamento provocatorio e insubordinato. Nel 1596, entrato in contatto con gli ambienti letterari della città, diventò segretario di Matteo di Capua, principe di Conca.
Nel 1598 fu incarcerato per avere sedotto la figlia di un facoltoso mercante, morta di aborto.
Nel 1559 fu incarcerato una seconda volta per avere tentato di salvare dalla pena capitale un amico facendolo passare per chierico con bolle vescovili falsificate. Fuggito a Roma, entrò al servizio di Melchiorre Crescenzio, chierico di camera di papa Clemente VIII, partecipando alla vita letteraria della città.
Dopo un soggiorno veneziano (tra il 1602 e il 1603), fu accolto nel 1604 al servizio del cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, che seguì nel 1606 nella sede vescovile di Ravenna e nel 1608 a Torino. Qui, alla corte di Carlo Emanuele I di Savoia, ottenne i primi grandi riconoscimenti. Nel 1611 entrò in conflitto con il poeta Gaspare Murtola, che arrivò a sparargli nella pubblica via. Marino rimase illeso, ma un giovane fu ferito al suo posto. Murtola dovette pagare con l’arresto e l’allontanamento dal Piemonte, ma lo stesso Marino, per ragioni non ben chiarite, riprovò l’onta del carcere, da cui uscì solo nel giugno del 1612.
Nel 1615 Maria de’ Medici, la vedova di Enrico IV, lo invitò alla corte di Francia, dove, tra gli onori e gli agi, Marino riordinò e concluse la sua produzione poetica.
Nel 1623, ammalato e stanco della vita di corte, tornò a Roma, dove fu accolto trionfalmente ed eletto Principe dell’Accademia degli Umoristi. Nel 1624 si trasferì a Napoli, dove morì il 25 marzo 1625.
b)      Le opere - Marino fu poeta versatile e prolifico. Egli deve la sua fama soprattutto all’Adone edito a Parigi nel 1623. Le opere minori sono ordinate nelle seguenti raccolte: La lira; gli Epitalami (1616), componimenti per le nozze di illustri personaggi di corte; La Murtoleide, 81 sonetti contro Murtola (1619); La galeria (1619), descrizioni in versi di opere d’arte reali o immaginarie; La sampogna (1620), serie di idilli e di favole pastorali; La strage de gl’Innocenti (1632, postumo), poemetto in ottave sulla storia evangelica.
Notevoli per valore documentario sono le Lettere, che costituiscono anche sul piano artistico un eccellente esempio di prosa secentesca.
c)      L' Adone – Il capolavoro di Marino fu l'Adone. Esso fu terminato e stampato a Parigi nel 1623. Già pensato negli anni romani, questo poema si dilatò dal nucleo originario di tre canti alla forma definitiva di 24, per un totale di oltre 40 mila versi in ottave.
L'argomento[[19]] è tratto dalla favola mitologica di Venere che si innamora di Adone, provocando l'ira e la vendetta di Marte. In questa trama esile, Marino innesta una lussureggiante fantasia, una serie di episodi e digressioni, come la descrizione del giardino del piacere, la gara tra il musico e l'usignolo, la tragedia di Atteone ecc., derivando spunti dagli autori antichi: Ovidio, Apuleio, Claudiano.
Manca unità d'azione: ma proprio questa è la novità della tecnica di Marino. In essa si mettono in discussione i fondamenti del poema classicista: la narrazione si svolge per successive stratificazioni, con passaggi arditi e inattesi, senza nesso logico, con l'appoggio di un tessuto verbale prezioso, fitto di metafore, iperboli, antitesi, con effetti di pianissimo e di sonorità acuta.
Il poema diventa così una fabbrica di meraviglie, volta a produrre continua sorpresa nel lettore. La poesia è intesa come viaggio nell'imprevedibile. Un virtuosismo tecnico-stilistico che ad un lettore odierno risulta noioso; i momenti più interessanti sono quelli in cui la sensualità di Marino diventa capacità di auscultare e riprodurre voci insolite e segrete della natura, e quando il suo stile raggiunge astratte perfezioni di ritmo e gioco formale.
d)     La poetica - La poesia di Marino è tutta impostata sul principio della «meraviglia», pur attuando una medietà stilistica che rifugge dai concettismi più arditi e dalle provocazioni più astruse che saranno invece proprie di certi suoi emulatori.
Marino non è poeta del facile effetto, ma ingegnoso inventore di immagini preziose, abile falsario della tradizione, irriducibile paladino della ricerca fantastica. Le sue metafore mirano all’intelligenza del lettore, non alla sua impressionabilità, tanto che si riconoscono un disegno ordinato e un principio di freddezza razionale nel pullulare delle metafore e nella mutazione continua di lingua e registri.
Nella poesia di Marino si compone un mondo umano e naturale di straordinaria ricchezza e varietà, mobile e sensuale, lontanissimo dalle rarefatte ed eteree atmosfere petrarchiste, senza tuttavia che la scrittura risulti concretamente realistica.
L’impegno incessante del poeta nella ricerca delle variazioni letterarie non ha infatti altro fine che il piacere della bravura e dell’eleganza.
e)      Il poeta di professione - Marino è un virtuoso della parola: fu ammiratissimo in vita, disprezzato dalla critica del XVIII e XIX secolo. Egli fu un professionista, un letterato che viveva della sua penna per cui doveva essere attento al proprio pubblico, che doveva stupire con gli argomenti e con le proprie capacità tecniche.
La mirabolante varietà metrica costituisce uno degli artifici pirotecnici del poeta. Il suo godimento e la sua bravura supremi sono nel continuo accarezzamento delle forme. Marino non arretra davanti a nessuno spettacolo, a nessuna descrizione, la più vasta e alata o la più volgare e minuziosa.

La prosa scientifica e storiografica nell’età del Barocco - Lontana dal gusto lambiccato e ozioso del concettismo seicentistico è la prosa scientifi­ca e storiografica di questo periodo, che, nel rigore razionale del pensiero, nella luci­dità della forma esatta e aderente alle cose, sembra piuttosto continuare la tradizione del Rinascimento.
Il maggiore dei prosatori scientifici, oltre che il maggiore scienziato, è Galileo Galilei; il maggiore degli storiografi è Paolo Sarpi (1552-1623), un frate servita divenuto consul­tore della repubblica veneta, e difensore dell’autonomia politica di Venezia, sua patria, dalle ingerenze della Chiesa. La sua opera più famosa è Historia del Concilio di Tren­to.
Trattati sulla letteratura e la retorica - Si tratta di una produ­zione cospicua nella quale si colgono con grande evidenza le modificazioni avvenute in questi ambiti rispetto alle teorizzazioni e al gusto del secolo precedente. Nel momento in cui la cultura letteraria secentesca si afferma, prende le distanze, anche violentemente, dal classicismo rinascimentale. Si scri­vono trattati contro le regole, contro il petrarchismo, contro il culto degli antichi, e si delinea in questo modo la contrapposizione presente/passato, antico/moderno che diviene terreno di polemica per tutto il secolo. In questo clima si segnalò la fi­gura di Alessandro Tassoni, polemista acceso che interven­ne su quasi tutte le questioni aperte nel primo Seicento, ma che ricordiamo qui per le sue Considerazioni sopra le Rime di Petrarca, un vero «manifesto» contro l’imitazione dei clas­sici. Sul fronte non della polemica ma della proposta teorica della letteratura barocca, si impose su tutti gli altri il trattato di Emanuele Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, titolo che mette audacemente insieme lo strumento ottico «moderno» con l’«antico» filosofo greco che più di tutti aveva fornito i modelli retorico-letterari e le regole al classicismo cinquecentesco. Gran parte del trattato del Tesauro è dedicata alla metafora, la figura retorica che contraddistingue le scelte stili­stiche della letteratura barocca. Nel campo della critica letteraria si deve ricordare anche Matteo Peregrini.
Trattati scientifici - Al centro della trattatistica secentesca si colloca quella scientifica. Il dato non sorprende se si conside­ra il peso che la rivoluzione scientifica ebbe sulla cultura del l’intero periodo; ma occorre sottolineare la persistenza, forte e indiscutibile, del legame tra letteratura scientifica e tradizione letteraria, nel senso che la nuova scienza, per descrivere e divulgare i risultati delle sue ricerche, non si diede uno stru­mento nuovo, ma adottò le forme letterarie del trattato dimo­strativo (esposizione in prima persona dell’autore), dell’epi­stola e soprattutto del dialogo, apportando in ognuna di que­ste un rinnovato vigore. La teorizzazione scientifica legata a Galileo e alla sua scuola si realizza in un momento «rivoluzionario»: deve convincere, difendersi dalle tesi avversarie, attaccare i detrattori, ed è pertanto naturale il ricorso agli strumenti letterari e retorici per costruire opere che abbiano questa forza.
La lirica - La poesia lirica continua ad essere un ge­nere centrale anche nel Seicento; lo te­stimonia prima di tutto la vastità del­la produzione: centinaia sono i poeti che provengono da ogni parte d’Italia, an­che da quelle più periferiche e senza legami coi grandi centri della cultura rinascimentale.
Tale fioritura, non certo di livello qualitativo sem­pre accettabile, testimonia un «uso» della poesia legato alle occasioni, all’omaggio galante, alla lode, all’intento di procu­rarsi fama dando prova d’ingegno e di arguzia. Si afferma in­somma l’idea di una poesia che è capace di produrre diletto, piacere e svago per la sua originalità.
Alla vastità della produzione corrisponde una diversità di esperienze; al centro, come fenomeno dominante, sta la poe­sia barocca che ebbe il suo maestro in Giambattista Marino, caposcuola di uno stile poetico che da lui prese il nome: il marinismo.
I caratteri più rilevanti dell’esperienza marinista stanno nella ricerca di novità che conduce alla rottura degli schemi e delle tematiche tradizionali, e alla proposta di una infinita varietà di situazioni e di motivi: anche la poesia d’a­more e la figura femminile vengono proposte in modi inusi­tati e spesso sorprendenti. Ad esempio, accanto all’immagi­ne tradizionale della bella donna compare quella della don­na brutta o zoppa o balbuziente; oppure l’attenzione del poe­ta si ferma su un gesto, su un particolare, su un oggetto. Uno dei pregi di questa poesia consiste nella capacità di stupire, di suscitare meraviglia; il lettore deve essere continuamente stupito dalie immagini evocate dalla poesia, attirato dalla fantasia dell’invenzione, colpito dalla brillantezza dell’inge­gno. Per questo l’uso della metafora è l’elemento che caratterizza più fortemente il linguaggio poetico del Seicento, con la predilezione per le metafore audaci e sorprendenti. Tutti que­sti caratteri della poesia vengono proposti anche in via teori­ca, tanto che il marinismo divenne un fenomeno non limita­to all’Italia ma di diffusione europea. Accanto alla sperimentazione e alla novità della lirica mari­nista rimane una poesia d’ispirazione classicista che contrappone al «disordine barocco» gli ideali della misura e del­la sobrietà.

Illuminismo, riforme e rivoluzione; la parabola napoleonica
1. La politica di equilibrio in Europa e le guerre di successione - Le tre guerre di successione di Spagna, di Polonia, d’Austria che caratterizzarono la storia europea dal 1701 al 1748, furono in sostanza guerre che miravano ad impedire l’instaurarsi del predominio di un’unica nazione. La loro conclusione fu l’adozione di una politica di equilibrio tra le grandi potenze.
Caratteristica costante delle guerre di successione fu che, pur nel mutare delle alleanze, si trovarono sempre di fronte Francia e Austria (la prima sostenuta dal ramo Borbone di Spagna in grave decadenza, la seconda dall’Inghilterra), con la conseguenza che il territorio italiano fu trasformato in permanente campo di battaglia.
Durante questi conflitti vennero alla ribalta come grandi potenze due nuovi stati, la Russia e il regno di Prussia.
a)      Pietro il Grande (1696-1725) fu lo zar che «portò» la Russia in Occidente: il grande impero che si era formato attorno al principato di Mosca era rimasto per religione (quella ortodossa), costumi, struttura feudale una realtà estranea all’Europa; salito al trono nel 1689, dopo essersi sbarazzato della sorella, Pietro I aveva compiuto alcuni viaggi in incognito in Europa; ne tornò consapevole dell’enorme ritardo del suo Paese, sia sul piano economico, che su quello militare e sociale. Sfruttando il potere che gli derivava dall’essere zar, quindi sovrano assoluto, introdusse profonde modifiche nel modo di vivere dei russi (per esempio fu il primo zar a tagliarsi la barba e impose questo ai suoi funzionari e soldati). Sostenne guerre vittoriose contro la Svezia e conquistò al suo impero la riva orientale del Baltico, dove fondò San Pietroburgo che divenne la capitale. La sua opera di modernizzazione e di riforme rimase comunque nell’ambito di una concezione del potere «orientale» e tirannica, fondata sull’uso della forza.
b)      Federico II di Prussia (1712-1786), educato dal padre con rigore militare, dedicò la giovinezza agli studi, interessandosi di teoria politica (scrisse anche un trattato, l’Antimachiavelli). Salito al trono nel 1740, si impossessò della Slesia, togliendola all’Austria e seppe mantenerla anche quando la Prussia fu attaccata e invasa dagli eserciti di Russia, Austria e Francia (guerra dei Sette anni), perché la fortuna volle che divenisse zar Pietro III che lo ammirava tanto da indurre anche gli alleati alla pace. In realtà Federico si guadagnò l’appellativo il Grande perché incarnò agli occhi dei contemporanei il tipo ideale di despota illuminato: rafforzò l’amministrazione che fece funzionare con efficienza e puntualità maniacali e rese l’esercito prussiano la macchina da guerra più forte del tempo. Amico di Voltaire, che ospitò anche quando era in guerra con la Francia, mise in atto alcune idee degli illuministi, come l’istruzione elementare obbligatoria, la fondazione e il potenziamento delle accademie scientifiche e dell’università, la riforma dei codici penale e civile.

2. Il predominio austriaco in Italia - Il predominio spagnolo, instaurato in Italia dal 1530 e confermato dalla pace di Cateau-Cambrésis del 1559, continuò inalterato fino alla prima delle tre guerre di successione, quella di successione spagnola, conclusasi con le paci di Utrecht del 1713 e di Rastadt del 1714, quando esso fu sostituito dal predominio austriaco.
La guerra della Quadruplice, col trattato dell’Aia del 1720, e le due ulteriori guerre di successione, polacca (trattato di Vienna del 1738) ed austriaca (trattato di Aquisgrana del 1748), confermando il predominio austriaco, diedero all’Italia un assetto tale da favorirne la ripresa.
E per più ragioni:
·         il predominio austriaco era meno esteso e condizionante di quello spagnolo, perché i domini dell’Austria si limitavano al ducato di Milano e a quello di Mantova, anche se l’Austria poteva contare sull’appoggio del granducato di Toscana, assegnato ai Lorena imparentati con la dinastia austriaca;
·         con l’acquisizione da parte dei duchi di Savoia di tutto il territorio piemontese, dell’isola di Sardegna e del titolo regio, si era costituito un forte stato in grado di contrastare il predominio austriaco;
·         si era costituito un nuovo vasto regno (Napoli e Sicilia più lo stato dei Presidi) assegnato ai Borbone di Francia, che lo avviarono ad una ripresa dal lungo stato di degradazione in cui si trovava dal tempo del dominio aragonese. Ad un ramo collaterale dei Borbone era stato assegnato anche il ducato di Parma e Piacenza;
·         la diversa natura della dominazione austriaca, caratterizzata da un’amministrazione onesta, impegnata nello sviluppo economico del paese ed aperta alle riforme;
·         le dinastie straniere dei Borbone e dei Lorena si assimilarono alla vita del paese, divenendo ben presto italiane.
Queste condizioni daranno i loro frutti quando, dopo il trattato di Aquisgrana (1748), si aprirà per la penisola un periodo di pace.
a)      Quarantotto anni di pace - Per poco meno di 250 anni, dal 1494, quando Carlo VIII di Francia aveva iniziato la sua impresa italiana, alla pace di Aquisgrana del 1748, l’Italia era stata un perenne campo di battaglia tra le maggiori potenze straniere, in lotta per la conquista del predominio in Europa. Dopo Aquisgrana ha inizio, invece, un lungo periodo di pace finchè, nel 1796, sulle Alpi comparve l’armata rivoluzionaria comandata dal generale Napoleone Bonaparte. La politica europea con Aquisgrana aveva avviato un nuovo corso: esaurito l’antagonismo Francia-Austria che aveva prima portato le due nazioni a scontrarsi nella nostra penisola, e, attuato il rovesciamento delle alleanze che vedeva alleate le due ex nemiche, le contese delle grandi potenze si erano spostate verso il Nord d’Europa e nelle colonie d’America e d’Asia, mentre l’Italia diventava un elemento marginale nei rapporti fra i grandi Stati europei.
b)      La ripresa dell’agricoltura in Italia - Questa situazione politica favorevole fu un elemento fondamentale per la ripresa dell’economia italiana, ma non fu il solo. Vi concorsero altre condizioni, prima fra tutte, la fine del dominio spagnolo, sostituito, già nel secondo decennio del secolo XVIII, da quello austriaco che creò le condizioni favorevoli per una ripresa. Anche le nuove dinastie insediatesi in Italia (i Borbone a Napoli, in Sicilia e a Parma-Piacenza; i Lorena in Toscana), godendo ora di maggior autonomia, si dimostrarono più aperte agli influssi provenienti dall’estero, e ruppero l’isolamento dell’Italia nei confronti delle tendenze generali dell’economia europea in netta ripresa. Domina nell’azione dei principi una chiara coscienza della coincidenza dell’interesse dinastico col progresso dell’economia che continua ad identificarsi con l’agricoltura. La ripresa lenta, ma costante, di alcune regioni italiane (in particolare Lombardia, Toscana e parzialmente Piemonte) non significa infatti una trasformazione della loro economia. Il ritorno alla terra, che aveva caratterizzato il secolo precedente, non conosce inversione di tendenza. Anche lo sviluppo, sia pur limitato, di nuove manifatture si disloca frequentemente nella campagna, con esiti comunque positivi per un più equilibrato rapporto di questa con la città. Ma il fattore forse più incisivo di questa ripresa fu il ravvivato interesse europeo per l’agricoltura a seguito del trionfo delle idee fisiocratiche [[20]], il cui nocciolo era costituito dalla valorizzazione della terra. Non è senza significato il fatto che nuove accademie eclissino le vecchie accademie letterarie; che si discutano studi e ricerche sulle tecniche agricole, e che spesso i protagonisti siano uomini di un patriziato che incomincia ad interessarsi, in modo attivo, della terra, in cui gli avi avevano investito i capitali accumulati con il commercio e con le manifatture. Si comincia inoltre ad interessarsi, con spirito filantropico, dei contadini, delle loro condizioni di vita, della loro istruzione.

3. Cultura e politica: il dispotismo illuminato – L’influsso esercitato sull’economia dalla dottrina fisiocratica è una manifestazione del più generale influsso esercitato dalle idee sulla pratica, che costituì un aspetto peculiare del Settecento. La convinzione che l’uomo di cultura, l’intellettuale deve operare in vista del miglioramento della realtà sociale, la fiducia nell’efficacia pratica delle idee costituiscono un aspetto saliente dell’Illuminismo. Portare la filosofia sul trono, l’antico ideale platonico del filosofo-re, costituì per gli illuministi una meta realistica. E, in vario modo, la realizzarono: o diventando consiglieri di sovrani (Voltaire di Federico II di Prussia, Diderot di Caterina di Russia), o partecipando di persona al governo del re (Turgot, ministro di Luigi XVI). L’influenza della filosofia sulla politica fu notevole: oltre a creare nei sovrani e nei sudditi una tendenza favorevole all’innovazione nei vari campi (dal diritto all’economia), portò alla diffusa accettazione della concezione paternalistica del governo («il sovrano è per i sudditi come un padre per i figli, e deve aver cura della loro felicità»), concezione che, pur con tutti i suoi limiti, costituì un indubbio progresso nei confronti della concezione assolutistica. Da questo spirito – la ricerca della felicità dei sudditi  unita all’interesse del sovrano – nacquero le riforme [[21]].
L’Illuminismo dà forma a un’idea di società fondata su progresso, razionalità, tolleranza, modernità, libertà di pensiero e di azione; ciò non è in conflitto col potere dei sovrani e da molti di questi è accolto come un sostegno all’opera di accentramento dello Stato.
Gli anni di massima collaborazione sono tra il 1750 e il 1780: gli intellettuali europei dànno il loro appoggio alle riforme promosse dai sovrani che agiscono con la forza del loro potere assoluto, ma con intenti «filosofici» partecipano alla diffusione dei Lumi; sono despoti illuminati Maria Teresa e Giuseppe II d’Austria, Federico II di Prussia, Caterina II di Russia sono i protagonisti di questa stagione.
Le maggiori riforme riguardano:
·         il giurisdizionalismo: cioè limitazione dei poteri della Chiesa, eliminazione di antichi privilegi (tribunali riservati agli ecclesiastici, l’asilo, cioè l’impunità per chi si rifugiava nei conventi e nelle chiese, ecc.), e controllo da parte dei sovrani sulle Chiese nazionali. Molti ordini religiosi e leggi che impedivano la vendita dei beni ecclesiastici furono aboliti. Il giurisdizionalismo riguardò i Paesi cattolici e provocò l’espulsione dei gesuiti da molti Stati, fino a quando il papa soppresse la Compagnia di Gesù (1773);
·         i diritti civili: furono estesi e fu riconosciuta la libertà di culto a ogni religione; in alcuni Paesi fu introdotta la libertà di stampa;
·         l’istruzione: i provvedimenti ebbero due scopi, l’estensione dell’istruzione elementare (la Prussia introdusse per prima l’obbligo nel 1763) e creazione di nuove scuole superiori, e la rottura del monopolio ecclesiastico sull’istruzione;
·         l’ordinamento giuridico: si adottarono nuovi codici; in Austria Giuseppe II abolì la tortura e limitò i casi di pena di morte
·         l’amministrazione: razionalizzazione della raccolta delle imposte, anche attraverso la costituzione di catasti dei beni immobili (campi, case, ecc.).

4. L’Illuminismo italiano e le riforme in Italia - La situazione creatasi in Italia dopo Aquisgrana creò le condizioni favorevoli alla introduzione di riforme, sull’esempio di quelle che erano state attuate dai sovrani illuminati di alcuni grandi Stati europei: da Federico II in Prussia, da Caterina in Russia, da Maria Teresa e Giuseppe II in Austria.
a)      Milano, Napoli e Firenze centri illuministici – In Italia, infatti, già dopo la pace di Vienna (1738) si erano insediate due nuove dinastie – i Lorena in Toscana e i Borbone a Napoli – che, pur essendo straniere, godevano di notevole indipendenza; al retrivo e chiuso dominio spagnolo in Lombardia si era sostituito quello austriaco, più aperto alle nuove idee e caratterizzato da un’amministrazione onesta ed efficiente, decisa a migliorare le condizioni della regione. La maggior vivacità di scambi favorì, già prima della metà del secolo, il diffondersi nella penisola delle nuove idee provenienti dall’Inghilterra e ancor più dalla Francia. Ben presto si costituirono a Milano, a Napoli e a Firenze piccoli ma attivi gruppi di intellettuali conquistati dalle nuove idee. La coscienza della propria arretratezza culturale, e delle funeste conseguenze che ne derivavano sul piano economico-sociale, creò in essi una decisa volontà di mettersi al passo col pensiero europeo e li portò a ricercare i propri modelli a Londra e a Parigi, stabilendo, in più casi, diretti contatti personali con i massimi rappresentanti dell’Illuminismo francese e inglese. Si trattava, pertanto, di un rinnovamento che partiva dal basso, strettamente connesso con la rinascita della borghesia, che si risvegliava dal suo letargo secentesco.
Era una borghesia che, a diversità di quella comunale, non trovava la base della sua ricchezza nella mercatura o nelle manifatture, ma nella terra; e la sua rinascita fu una delle conseguenze della ripresa dell’agricoltura.
A Milano le figure più eminenti di questi intellettuali riformatori furono i due fratelli Verri, Pietro ed Alessandro, e Cesare Beccaria. I Verri furono al centro del gruppo che fondò la «Società dei Pugni» da cui nacque la rivista Il caffè, che nei suoi due anni di vita battagliera (1764-1766) svolse un’efficace azione di critica agli aspetti negativi della società lombarda (nella legislazione, nell’economia, nell’educazione, nelle lettere e nel costume in genere), proponendo riforme ispirate alle innovazioni che venivano d’oltralpe. Molti dei collaboratori, tra cui Pietro Verri, furono chiamati, dal governo di Maria Teresa, a partecipare direttamente al rinnovamento amministrativo della Lombardia. Cesare Beccaria, anch’egli collaboratore de Il caffè e insegnante di economia politica a Milano, conseguì fama internazionale con l’opera Dei Delitti e delle pene del 1764, nella quale egli propugnava l’abolizione della tortura e della pena di morte.
A Napoli le condizioni ambientali furono meno favorevoli allo sviluppo della cultura illuministica, perché non esisteva una borghesia che la promuovesse e sostenesse. Ciò spiega le incertezze, i ripensamenti e le contraddizioni che caratterizzano pensatori pur acuti e preparati quali Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani, Gaetano Filangeri e Giuseppe Palmieri.
L’oggetto privilegiato dei loro studi fu l’economia dove accettarono, non senza limitazioni, le idee fisiocratiche: a Genovesi, autore delle Lezioni sul commercio ossia d’economia civile del 1765 fu affidata la prima cattedra di economia politica istituita a Napoli da Carlo III; Galiani scrisse un Dialogo sul commercio dei grani del 1770 in francese, e un trattato Della moneta. Essi approfondirono però anche il tema della legislazione statale, vista soprattutto nei rapporti tra Stato e Chiesa, (sostenevano l’indipendenza del primo nei confronti della seconda sulla quale esso aveva diritto di esercitare un controllo) e il tema dell’istruzione: famosi furono il Piano delle scuole del 1740 di Genovesi e il Della pubblica e privata educazione del 1771 di Filangeri.
Sfortunatamente, l’azione culturale di questi autori non trovò l’appoggio concreto della borghesia, praticamente inesistente e non in grado di premere sul sovrano, per ottenere delle riforme.
In Toscana l’indirizzo empiristico, antimetafisico, proprio della cultura toscana dai tempi di Galilei e della sua scuola, costituì un terreno favorevole alla diffusione dell’Illuminismo, come dimostra anche il fatto che l’Enciclopedia vi ebbe ben due ristampe (a Lucca e a Livorno). Il centro culturale più attivo fu l’Università di Pisa, nella quale si formarono quasi tutti gli intellettuali che, con i loro scritti, stimolarono il granduca Pietro Leopoldo ad intraprendere le riforme e che furono suoi collaboratori nel realizzarle. Tra questi i più influenti furono gli economisti Pompeo Neri e Francesco Gianni e il giurista Giulio Rucellai.
Strumento efficace per lo sviluppo e la razionalizzazione dell’agricoltura fu poi l’Accademia dei Georgofili, il cui indirizzo prevalente fu il rafforzamento della mezzadria, considerata un’istituzione favorevole alla conservazione della pace sociale.
b)      Le riforme - Fu in questo clima di risveglio culturale e di fervore sociale che maturarono le riforme. Non a caso la Lombardia, il Regno di Napoli e la Toscana furono gli Stati in cui esse ebbero una realizzazione più vasta e consapevole, perché in essi coincidevano gli interessi del sovrano con quelli della borghesia, rappresentata dagli intellettuali illuminati. La soppressione di vincoli feudali, infatti, e l’abolizione di privilegi, se corrispondeva alla duplice esigenza della borghesia di un più libero sviluppo economico e di una parificazione dei pesi fiscali, erano ben visti anche dal principe, perché rendevano più piena la sua autorità, liberandola dalle limitazioni che tali vincoli gli ponevano.
In particolare, lo sviluppo dell’economia dello Stato, se andava a vantaggio dei sudditi, e in particolare dei grandi proprietari terrieri, tornava a vantaggio anche del principe, che accresceva il suo potere in relazione all’aumentata ricchezza del Paese, da cui poteva attingere maggiori mezzi per la sua politica.
I principi illuminati che attuarono le riforme furono l’imperatrice d’Austria Maria Teresa e l’imperatore Giuseppe II per la Lombardia, il granduca Pietro Leopoldo per la Toscana, Carlo III di Borbone e suo figlio Ferdinando IV a Napoli.
Le riforme interessarono tutti i piani della vita sociale e politica e, pur nella diversità di attuazione nei diversi Stati, furono accomunate da iniziative e disposizioni di legge molto simili: si soppressero le corporazioni d’arti e mestieri che, con i loro statuti superati, costituivano un impaccio per la manifattura e il commercio; applicando le idee fisiocratiche e i consigli delle diverse accademie scientifiche, si curò la razionalizzazione dell’agricoltura; si abolirono le limitazioni dei prezzi dei prodotti agricoli; si costruirono importanti opere pubbliche quali canali, bonifiche, strade. Per ottenere una più giusta distribuzione dei pesi fiscali e, nel contempo, per incrementare le entrate, si abolirono le esenzioni e i privilegi del clero e dei nobili; si ricorse ad un censimento generale delle proprietà (il catasto); si abolirono gli appalti delle imposte. Per rispondere alle diffuse esigenze umanitarie, si migliorò la legislazione penale, giungendo perfino ad abolire la tortura e la pena di morte (in Toscana). Per rafforzare l’indipendenza dello Stato dalla Chiesa e ridurre l’ingerenza di quest’ultima, si limitarono o si abolirono alcuni privilegi, quali il foro ecclesiastico e il diritto d’asilo dei luoghi sacri; si abolì l’inquisizione e la censura ecclesiastica sui libri da stampare; si limitò il numero e l’entità degli ordini religiosi che dipendevano direttamente da Roma e non dai vescovi locali; si allontanarono i Gesuiti dall’insegnamento e poi li si espulsero dagli Stati.
La differenza più rilevante nell’attuazione delle riforme si incontrò tra il regno di Napoli e gli altri due Stati italiani. A differenza della Lombardia e della Toscana, a Napoli mancava una borghesia politicamente attiva: quella esistente era costituita da professionisti, che miravano ad inserirsi, direttamente o indirettamente, nell’apparato statale. Per questo motivo le riforme, che miravano ad una trasformazione economico sociale contro il potere dei baroni, non riuscirono ad acquistare incisività, non mutarono sostanzialmente la situazione e arrivarono ben presto ad un punto morto, mentre ebbero successo quelle contro il potere ecclesiastico, perché, in questo caso, gli interessi e le richieste del sovrano, dei nobili e degli uomini di cultura, coincidevano.
Il Piemonte, lo Stato Pontificio e Venezia restarono al di fuori del moto di rinnovamento che, comunque, entrò in crisi, e finì col bloccarsi del tutto, quando gli eventi rivoluzionari di Francia mostrarono che le mete della borghesia non potevano più conciliarsi con gli interessi del principe.

5. La rivoluzione industriale – L’impulso innovatore delle idee degli illuministi provocò in tutta Europa un grande interesse per i problemi connessi con la vita civile e in diversi paesi mise addirittura in movimento processi di profonda trasformazione delle condizioni economiche e sociali. Alle attività tradizionali dell’agricoltura e dell’artigianato andarono a poco a poco affiancandosi, prima in Inghilterra, poi nelle zone più ricche del continente, forme, via via più complesse, di produzione industriale basata sull’impiego delle macchine e sull’organizzazione sistematica del lavoro.
Questa profonda trasformazione dei metodi produttivi è stata chiamata rivoluzione industriale e non a torto, se si considera che l’avvento dell’industria ebbe conseguenze importantissime sulla società e sul modo di vivere degli uomini e influenzò profondamente anche il pensiero filosofico e la letteratura, creando nuovi problemi e stimolando nuove idee.
Nasceva così in modo ancora rudimentale una nuova civiltà, destinata a svilupparsi nell’Ottocento e ad affermarsi pienamente, con sorprendenti conquiste, nel nostro secolo.
·         Dall’artigianato all’industria - Agli inizi del Settecento l’artigianato era ancora ciò che era stato per tanti secoli: un’attività esclusivamente manuale, svolta con l’aiuto di una tecnica poco progredita e sulla base di un’organizzazione del lavoro che affidava al maestro-proprietario la direzione del laboratorio e a un numero limitato di apprendisti e di operai le varie fasi dell’esecuzione dell’opera. La qualità dei prodotti (tessuti, armi, attrezzi metallici, gioielli, vasellame, vetri) era spesso assai buona, ma la produzione era scarsissima e i manufatti, ottenuti con tante ore di lavoro, finivano per avere un costo così elevato che soltanto pochi potevano permettersi di acquistarli.
Per diminuire i prezzi e conquistare quindi strati sempre più larghi di compratori, bisognava aumentare la produzione sottraendo lavoratori all’agricoltura che ne aveva in abbondanza. I primi tentativi in questo senso furono fatti nel campo della lavorazione tessile: gli imprenditori cominciarono ad affidare lavori di tessitura, anche al di fuori della filanda, ai contadini, i quali vennero ad avere una seconda occupazione più redditizia che associavano alla coltivazione dei campi.
C’era però una grave difficoltà: non tutte le fasi della lavorazione potevano infatti essere svolte in questi laboratori domestici dove si poteva filare e anche tessere, ma non pettinare o tingere i tessuti, operazioni per le quali erano necessarie attrezzature più complicate e particolare competenza nei lavoratori. Si sentì quindi l’esigenza di concentrare i lavoratori in ambienti attrezzati per una data produzione, così da organizzare più efficacemente le varie fasi del lavoro.
·         Le prime fabbriche - Nacquero così, intorno alla metà del Settecento, le prime fabbriche attrezzate via via con macchine sempre più perfezionate che agevolavano il lavoro umano e consentivano una produzione in serie e di qualità garantita, in tempi molto più brevi. L’avvento delle fabbriche modificò anche profondamente la condizione del lavoratore: si impose il principio della specializzazione e della divisione del lavoro, per cui ciascuna fase del lavoro venne affidata a un determinato operaio.
I lavoratori, reclutati nelle campagne, poterono disporre di un salario regolare, ma le loro condizioni restarono spesso miserevoli e sorse tra la classe operaia e quella degli imprenditori che controllavano la produzione, un conflitto sociale destinato ad aggravarsi nel secolo successivo.
·         Le grandi invenzioni e lo sviluppo della tecnica - I problemi tecnici che si incontravano nell’organizzazione industriale del lavoro portarono all’invenzione di nuove macchine che consentirono un più intenso sfruttamento delle risorse naturali, oppure incrementarono la produzione dei manufatti.
L’industria tessile ebbe una spinta decisiva quando si introdussero nelle fabbriche la macchina filatrice e il telaio meccanico ideato dall’inglese Arkwright: la produzione aumentò e si poterono abbassare sensibilmente i prezzi dei manufatti di cotone.
Nell’industria la produzione di ferro ebbe, in Inghilterra, un fortissimo incremento quando nella fusione di questo metallo, del quale il paese era ricco, si impiegò non più il carbone di legna, ma quello fossile di cui si erano scoperti nell’isola ricchissimi giacimenti.
L’invenzione più importante fu però quella della macchina a vapore, ideata da James Watt: dapprima essa fu usata soltanto per azionare le pompe che estraevano acqua dai pozzi carboniferi, ma successivamente ebbe tutta una vasta serie di applicazioni. Grazie a queste invenzioni e alle sue applicazioni l’Inghilterra, nella seconda metà del Settecento, divenne il primo paese industriale del mondo.
Sempre al XVIII secolo risale la scoperta di un’altra fonte di energia naturale che doveva in seguito rivelarsi importantissima: l’elettricità, studiata dal francese Coulomb e da Alessandro Volta che inventò la pila.
Lo stimolo della mentalità illuministica, tuttavia, non si sentì soltanto nel campo della tecnica. In questo periodo nasce anche la chimica moderna soprattutto per merito del francese Lavoisier che per primo distinse sul piano teorico gli elementi dai composti e studiò la dilatazione termica e i fenomeni connessi con la combustione.
Il progresso della chimica ebbe ripercussioni favorevoli anche nella medicina. Pian piano si debellarono i grandi mali che periodicamente decimavano con terribili epidemie, favorite dalla mancanza di igiene e di rimedi adeguati, la popolazione europea. L’inglese Jenner scoprì il vaccino antivaioloso, aprendo così la ricerca medica a prospettive del tutto nuove.
·         Le città industriali - La più importante conseguenza dell’affermazione dell’industria e dei progressi scientifici e tecnici, fu che masse crescenti di popolazione abbandonarono le campagne dove si guadagnava pochissimo e si trasferirono nelle città. Tutt’attorno agli antichi centri cittadini sorsero sterminati e squallidi quartieri operai, mentre nelle zone minerarie nacquero addirittura nuove città, popolate esclusivamente da lavoratori dell’industria.
Per dare un’idea concreta della misura in cui si concentrava la popolazione nelle zone industriali dando vita a città sempre più grandi, basteranno queste cifre che si riferiscono alla città inglese di Manchester: tra il 1685-1760 la città passò da 6000 a 45.000 abitanti; nel 1800 ne aveva 72.000, nel 1850 303.000.
Lo stesso paesaggio iniziò una profonda trasformazione e l’Inghilterra ne subì per prima le conseguenze: sulla verde pianura, ricca di grano e di pascoli, si levarono sempre più numerose le ciminiere e sui declivi delle colline boscose si spalancarono i pozzi delle miniere.

6. La Rivoluzione americana (1765-1783) - Nella seconda metà del secolo si verificò un evento storico determinante: la ribellione alla madrepatria delle colonie inglesi d’America e la costituzione, al di là dell’Atlantico, di uno Stato indipendente, gli Stati Uniti d’America. La ribellione fu favorita dalla diffusione, tra i coloni, dei principi dell’Illuminismo e dalla fine della pressione che la Francia esercitava sulle colonie prima di essere sconfitta dall’Inghilterra nella guerra dei sette anni.
Quando, per rinsanguare l’erario esaurito dalle spese di questa lunga guerra, il parlamento inglese e il governo di Giorgio III pretesero di imporre nuove imposte alle colonie, senza aver avuto l’approvazione delle assemblee locali, queste si rifiutarono di pagarle. Dapprima (1764-1767) si tentò una soluzione di compromesso, poi, vista l’intransigenza dell’Inghilterra, si passò alla lotta armata (1767-1783). Le colonie riunitesi il 4 luglio 1776 dichiarano la loro indipendenza nel Congresso di Filadelfia, confermata dalla vittorie militari ottenute da Giorgio Washington a Saratoga (dicembre 1777) e a Yorktown (1781). Alle colonie americane si erano affiancate nella guerra all’Inghilterra la Francia, la Spagna e l’Olanda.
Fra gli atti approvati dai rappresentanti delle colonie ancor prima della dichiarazione d’indipendenza, vi fu la famosa Dichiarazione dei diritti (1774), nota come la «grande dichiarazione», che, rifacendosi alle idee di libertà e di democrazia elaborate in Europa dai filosofi del Settecento, affermava l’uguaglianza di tutti gli uomini e il loro diritto naturale alla vita, alla libertà, alla felicità, e proclamava il diritto dei cittadini a ribellarsi al sovrano che tali diritti non rispettasse.

7. La Rivoluzione francese (1789-1799) - Verso la metà del Settecento, la Francia si presentava come la maggiore potenza politica e militare del continente europeo.
Il modello di vita proposto dalla corte di Versailles, simbolo della Francia in uno dei momenti più gloriosi della sua storia, trionfava nei salotti di tutta Europa, mentre i princìpi progressisti e umanitari propugnati dagli illuministi non solo ricevevano entusiastica accoglienza presso gli uomini di cultura, ma trovavano realizzazione pratica nelle riforme attuate dai sovrani illuminati. Tuttavia dietro lo splendore della corte, dietro la floridezza economica e il prestigio culturale, la Francia nascondeva un’altra realtà. Nonostante i tentativi fatti da valenti ministri per dare un ordinamento razionale alla struttura amministrativa dello Stato, questa restava per molti versi arcaica e inefficiente, mentre profondi contrasti dilaniavano la società francese, ancora fondata sul privilegio aristocratico e sulla proprietà terriera.
Avvenne così che proprio la Francia che aveva proposto agli altri sovrani d’Europa il modello di un Re Sole che traeva il suo potere direttamente da Dio e che appariva il più sicuro baluardo della monarchia assoluta, divenne, a partire dal 1789, teatro di una grandiosa rivoluzione, destinata a mutare la storia non soltanto di quel paese, ma di tutta l’umanità.
a)      La società francese prerivoluzionaria - Le radici storiche della Rivoluzione francese, al di là delle circostanze particolari che ne favorirono il verificarsi alla fine del secolo XVIII, si trovano nella ormai insostenibile contraddizione tra la struttura sociale aristocratica della Francia - con il predominio degli ordini privilegiati (nobiltà e clero) - e la potenza economica che il Terzo Stato (o meglio la parte più elevata di esso, la borghesia) aveva conseguita nel corso degli ultimi secoli. La monarchia, realizzato con l’appoggio del Terzo Stato l’accentramento del potere nelle proprie mani, nel Settecento aveva ripreso una politica di protezione delle classi privilegiate, in particolare della nobiltà, riconfermandole tutti i privilegi sociali, quasi a compensarla del potere politico che le aveva tolto, e attribuendole onorari elevati, pensioni e stipendi militari e per le cariche di corte. La nobiltà finiva così con l’assorbire circa la quarta parte del bilancio dello Stato. Ciò avveniva mentre la borghesia registrava un momento di grande espansione e, nel contempo, acquisiva coscienza di essere l’effettiva forza della nazione. Era naturale che chiedesse di avere un corrispondente peso politico.
b)      L’influenza delle idee illuministiche - Questa consapevolezza fu chiarita e confermata dall’opera degli illuministi. I letterati scrivevano per il gran pubblico, ne chiarivano e sostenevano le rivendicazioni: la libertà, l’uguaglianza, la sovranità popolare. Le venerabili istituzioni del passato, a cominciare da quelle religiose, che erano il più saldo sostegno dell’antico regime, cadevano sotto la critica spregiudicata dei filosofi, critica che gli stessi nobili, inconsapevoli di preparare così la loro fine, condividevano e aiutavano a diffondere. Era qui, nel mondo delle idee, che la rivoluzione era incominciata. Una rivoluzione che pertanto non venne dal basso, dalle classi popolari, ma dall’alto, così come dall’alto sarà guidata: dalla borghesia.
c)      La borghesia - Il Terzo Stato, che stava al di sotto degli ordini privilegiati e rappresentava la stragrande maggioranza della popolazione, era estremamente composito. Ne facevano parte i contadini, gli artigiani, gli operai, ma anche la borghesia, formata da intellettuali, professionisti, banchieri, commercianti, imprenditori di opifici e manifatture, proprietari terrieri. Era questa la forza che si contrapponeva alla vecchia classe feudale. Nonostante le pastoie delle vecchie istituzioni, il commercio (interno ed estero, con l’Europa e con le colonie) e l’industria si erano sviluppati, le banche si erano moltiplicate, erano nate Società per azioni che operavano nel campo del commercio, delle assicurazioni, dell’industria. La terra era passata e continuava a passare dalle mani dei nobili indebitati a quelle dei borghesi, che si erano arricchiti. Al di sotto dell’alta borghesia, che abbelliva con i suoi palazzi le vie di Parigi e delle altre città di Francia, si era formata una piccola borghesia, il cui livello di vita si veniva elevando. In altre parole, mentre la nobiltà, rovinata dalla dispendiosa vita di corte, veniva costantemente perdendo di peso, la borghesia ne acquistava ogni giorno di più. Questo squilibrio di classi fu una delle cause della rivoluzione: la borghesia volle abolire l’ordine sociale esistente per sostituirlo con uno nuovo, in cui essa avesse il riconoscimento al quale riteneva d’avere diritto. La rivoluzione pertanto non nacque in una Francia immiserita, ma in una nazione fiorente, e fu la borghesia, che di questa floridezza godeva i frutti, ad assumerne la direzione, per orientarla secondo i suoi interessi.
d)     I contadini - La quasi totalità del terzo Stato era costituita da contadini, perché la Francia, nonostante lo sviluppo del commercio e delle manifatture, continuava ad essere una nazione prevalentemente rurale. E i contadini erano anche il ceto più sfruttato e più oberato di carichi di ogni genere. Su di loro pesavano gli antichi obblighi feudali (corvées, decime, censi, imposte regie, proibizione di caccia, servizio militare), ai quali si erano sovrapposte le richieste dei nuovi padroni borghesi, talvolta più esosi degli antichi. La soppressione dei pascoli comuni e dei diritti di spigolatura e di legnatico aveva privato i più poveri anche delle più piccole risorse. E’ comprensibile che i contadini, in queste condizioni di sfruttamento e di miseria, fossero pronti per la rivolta. La situazione delle classi inferiori era migliore nelle città, ove gli artigiani, nonostante i vincoli delle corporazioni, avevano maggiori possibilità di avanzamento. Gli operai occupati nelle manifatture spesso erano anche contadini per i quali il salario industriale era un’integrazione del reddito agricolo. Comunque, mancando di ogni coscienza di classe, nel momento rivoluzionario non ebbero difficoltà ad identificarsi con i borghesi. Contadini e popolani costituiranno la massa che fu la protagonista delle grandi azioni rivoluzionarie e diede al Terzo Stato il peso necessario per far valere le proprie richieste e portare avanti con successo le proprie rivendicazioni.
a)      L’Assemblea Nazionale Costituente - Le difficoltà finanziarie in cui, nonostante la floridezza dell’economia nazionale, si dibatteva la monarchia, incapace di risanare il disavanzo del bilancio statale, furono la circostanza che fece scoppiare la rivoluzione. Il Parlamento di Parigi non aveva approvato le proposte della monarchia per risanare il deficit e il re si vide costretto a convocare gli Stati Generali [[22]], che da semplice assemblea consultiva, per un atto rivoluzionario del Terzo Stato, si trasformarono in Assemblea Nazionale Costituente [[23]] (9 luglio 1789) con l’impegno di non sciogliersi sino a che non avesse dato una nuova Costituzione alla Francia. Questo primo passo rivoluzionario fu rinsaldato dall’insurrezione popolare (presa della Bastiglia, 14 luglio) e dalla costituzione della Guardia Nazionale, che assicurarono al Terzo Stato, all’interno dell’Assemblea e nel Paese, la forza per fronteggiare i tentativi dei nobili e della monarchia di fermare la rivoluzione. La rivolta dei contadini estese la rivoluzione in tutta la Francia. L’abolizione dei diritti feudali (decretata dall’Assemblea la notte del 4 agosto) e la Dichiarazione dei diritti furono due tappe fondamentali per l’instaurazione di un nuovo ordine, che trovò la sua codificazione nella Costituzione del 1791, una costituzione monarchica moderata, in cui il re e i suoi ministri erano affiancati da un’Assemblea legislativa che venne eletta quando l’Assemblea Costiuente si sciolse.
b)      L’Assemblea Legislativa - La borghesia poteva dire d’aver raggiunto il suo scopo, ma presto si vide che la monarchia non era disposta ad accettare le limitazioni impostele dalla costituzione. Così, sotto la spinta di più circostanze (dichiarazione di guerra dell’Austria e della Prussia, tentativo di fuga del re, prime sconfitte militari, tradimento di alcuni generali, timori di complotti antirivoluzionari all’interno) la rivoluzione si radicalizzò: i moderati, che numericamente prevalevano nell’Assemblea Legislativa, furono travolti dalla sinistra, rappresentata da Girondini [[24]] e Giacobini [[25]], e dalle pressioni della piazza, che concordemente volevano la fine della monarchia e l’instaurazione di una repubblica. L’Assemblea Legislativa si sciolse dopo aver indetto le elezioni per una nuova assemblea costituente che, in omaggio alla dottrina della sovranità popolare del Rousseau si chiamò Convenzione.
c)      La Convenzione e la Repubblica - La Convenzione proclamò la repubblica, processò Luigi XVI e lo condannò alla ghigliottina e s’impegno a dare una nuova Costituzione alla Francia. Fu un’opera turbata da lotte feroci tra i diversi gruppi politici. I Girondini, rappresentanti dell’alta borghesia provinciale e dei moderati, furono travolti dai Giacobini e la politica della Convenzione si spostò sempre più a sinistra. Fu votata una costituzione ultra democratica (costituzione dell’anno I), che però venne subito sospesa e non fu mai applicata. Si crearono organismi speciali con poteri dittatoriali: il Comitato di salute pubblica [[26]], il Comitato per la sicurezza nazionale e il Triumvirato (Robespierre, Saint-Just, Couthon). Dal giugno 1793, si aprì il periodo del Terrore [[27]], che fu dominato dalla figura di Robespierre [[28]], e la repubblica, anche per le pressioni dei popolani (i Sanculotti [[29]]), assunse atteggiamenti socialisteggianti, con viva attenzione per i problemi sociali. Nonostante i suoi eccessi, il Terrore, grazie all’opera inflessibile di Robespierre, ebbe il merito di soffocare i tentativi controrivoluzionari interni, di fermare l’invasione straniera e portare le armate francesi al di là delle proprie frontiere.
d)     Il colpo di stato di Termidoro e la reazione borghese - Quando la rivoluzione ebbe superati i gravi pericoli che la minacciavano, Robespierre (che aveva combattuto su due fronti: contro l’opposizione moderata di Danton [[30]] e contro quella estremista di Hebert) si trovò isolato, e la borghesia, contraria alle tendenze sociali che avevano caratterizzato il Terrore, riprese in mano la situazione con un colpo di stato effettuato il 9 Termidoro [[31]] (27 luglio ‘94). Robespierre e i suoi sostenitori furono ghigliottinati, fu emanata una nuova costituzione (la Costituzione dell’anno III, 1795), che diede vita ad una repubblica moderata, basata sul censo, il cui organo esecutivo era il Direttorio, un collegio di cinque membri. Il Direttorio ebbe vita difficile, insidiato da destra dai monarchici e da sinistra dagli estremisti democratici, e fu presto abbattuto con un nuovo colpo di stato da Napoleone (18 brumaio ‘99), che getterà così le basi per la sua dittatura personale. Comunque, nonostante queste evoluzioni, la borghesia col colpo di stato di Termidoro aveva raggiunto il suo scopo, perché d’ora in avanti, pur nelle diverse forme che successivamente assumerà, lo Stato francese riserverà alla borghesia, in particolare ai suoi strati più elevati, effettive possibilità di governo. La Rivoluzione si era conclusa con la nascita dello Stato borghese.

8. Il periodo napoleonico - Il periodo che va dal 1798 al 1815 è dominato dalla figura di Napoleone che, da oscuro generale che comanda l’Armata d’Italia, diventa prima console nel 1799, poi imperatore dei Francesi nel 1804 e crea un impero che abbraccia mezza Europa. Le tappe fondamentali della sua carriera splendida e drammatica sono indicate nella cronologia. Quello che qui ci interessa spiegare è il significato europeo e italiano della sua vicenda, le ragioni del suo fulmineo successo e dell’altrettanto rapido crollo.
a)      Il significato della vicenda napoleonica - Napoleone, da un certo punto di vista, chiude la Rivoluzione francese, in quanto, instaurando una dittatura personale, ne nega i princìpi fondamentali, quelli della partecipazione dei cittadini al governo e delle libertà politiche. Anche sul piano internazionale la creazione a suo arbitrio di nuovi Stati, che egli poi assegna ai suoi familiari, contrasta con il principio rivoluzionario del diritto dei popoli a scegliersi il proprio governo. D’altra parte, le sue campagne, che portano le armate francesi in tutta Europa, dalla Spagna alla lontana Russia, vi diffondono le idee rivoluzionarie, gettando i semi da cui fioriranno le rivoluzioni nazionali dell’Ottocento. Proprio questa bivalenza dell’opera di Napoleone spiega l’atteggiamento, a un tempo di ammirazione e di ostilità, dei suoi contemporanei; atteggiamento così evidente ad esempio, nel nostro Foscolo.
b)      Le cause dei successi napoleonici - Le armate francesi, guidate prima dai generali del Direttorio e poi da Napoleone, vinsero le potenze nemiche e sconvolsero l’assetto europeo precedente. Che cosa rese possibili successi di tanta portata? Vi ebbero certo gran parte le capacità militari di alcuni di questi generali e di Napoleone, l’entusiasmo delle truppe, che, pur malamente equipaggiate, combattevano per idealità da loro condivise. Ma la spiegazione va cercata soprattutto nel fatto che, alle spalle dell’esercito, era stata creata, prima dalla Convenzione e poi, e in misura ben maggiore, da Napoleone, un’organizzazione politico-amministrativa che aveva fatto della Francia uno stato moderno. Napoleone infatti, portando avanti l’opera di Luigi XIV e quella del giacobino Comitato di Salute Pubblica, aveva costruito un organismo fortemente centralizzato, in grado di disporre rapidamente di tutte le energie del Paese. Un Paese che egli aveva curato in modo che rifiorisse nella sua economia e nei cui confronti si era presentato come il pacificatore tra le opposte fazioni, e tra la Chiesa e la rivoluzione, assicurandosene il consenso. Infine, la diffusione dei princìpi rivoluzionari precorse le armate francesi, creò all’interno degli stessi Stati nemici gruppi filofrancesi, pronti a favorire il loro successo e ad accogliere come liberatori quei soldati che prima si erano battuti contro il pericolo dell’invasione della Francia da parte delle potenze che volevano soffocare la rivoluzione, e poi erano passati al contrattacco per muovere «guerra ai tiranni», e portare giustizia e libertà ai Popoli. Sotto il loro urto cadevano le vecchie impalcature statali, sociali e giuridiche offrendo possibilità di affermazione alle nuove forze nutrite dal pensiero illuministico. A differenza delle precedenti guerre, che avevano a base gli interessi delle dinastie, ora si trattava della lotta tra due opposte concezioni del mondo: l’una basata sull’autorità e il privilegio, l’altra sulla libertà e la ragione.
c)      L’impero napoleonico - Prima della spedizione in Russia nel 1812 Napoleone dominava l’Europa: Francia: erano annessi allo Stato francese come territori gli Stati tedeschi sulla riva orientale del Reno, Belgio, Olanda, Savoia, Piemonte, Liguria, Toscana, ducato di Parma, Stato della Chiesa (tranne le Marche), Carinzia (regione austriaca), Trieste, Istria e Dalmazia; Spagna: cacciati i Borbone, divenne re Giuseppe, fratello di Napoleone (1808); regno di Napoli: dato a Giuseppe, poi dal 1808 a Gioacchino Murat, cognato di Napoleone;regno d’Italia: Lombardia, Trentino, Veneto, Friuli, Modena, Bologna, Romagna e Marche costituirono (1804) il regno di cui era re lo stesso Napoleone; Germania: alcuni Stati del Nord furono riuniti nel regno di Westfalia dato al fra tello Gerolamo; restava indipendente la Prussia, ma costretta al ruolo di alleato di Napoleone; Polonia: spartita fra Prussia e Russia non esisteva come Stato; Napoleone creò il Granducato di Varsavia; Svezia: possedeva anche la Norvegia; alleato della Francia, il re Carlo XIII nominò successore il generale francese Bernadotte, che governò dal 1810 e fondò la dinastia che regna tuttora; Austria e Ungheria: sciolto l’impero, gli Asburgo divennero imperatori d’Austria; sconfitti, si allearono con Napoleone che sposò Maria Luigia, figlia dell’imperatore. Russia: tra il 1808 e il 1812 anche lo zar Alessandro I fu alleato di Napoleone. L’unica potenza nemica e indipendente era l’Inghilterra che con la flotta proteggeva l’indipendenza del Portogallo, del regno di Sardegna (la sola isola) dei Savoia, e il regno di Sicilia dove si erano ritirati i Borbone cacciati da Napoli.
d)     Le ragioni del rapido sfacelo - Ma, contrariamente alle comuni aspettative e alle speranze, queste guerre non tardarono a rivelare un’altra faccia: dimostrarono di essere lo strumento dell’ambizione dinastica di Napoleone e degli interessi della borghesia francese. E allora i popoli, ai quali le armate napoleoniche avevano portato il principio dell’autodeterminazione, offesi nei loro sentimenti nazionali, si ribellarono. Napoleone sarà impotente di fronte alle guerre nazionali scatenategli contro in Spagna, Russia e Germania, e sarà trascinato al crollo. Tanto più che i vecchi sovrani, ai quali, per spirito nazionalistico, si erano avvicinati i popoli, avevano appreso la lezione impartita loro da Napoleone, non solo sul piano militare, ma anche su quello dell’organizzazione dello Stato, e si erano affrettati a fare concessioni di tipo moderatamente liberale, che poi, passata la bufera, ritirarono.
e)      L’eredità napoleonica - Quando Waterloo porrà fine alla parabola napoleonica, resterà di lui, oltre al suo mito, che avrà presa ancora sulle generazioni future, una grande impronta nella società europea. Essa non sarà più la società prerivoluzionaria; sarà ormai diventata una società moderna, fondata su una maggiore uguaglianza giuridica dei cittadini, ad ognuno dei quali viene offerta la possibilità di ascesa sociale in base ai propri meriti. Il Codice napoleonico, acquisito da quasi tutti gli Stati, assicurava, oltre alla libertà civile e alla tutela giudiziaria, i diritti della proprietà privata, instaurava il matrimonio civile e consentiva il divorzio. L’impegno di Napoleone per tutto quanto poteva favorire lo sviluppo delle attività economiche e per la costruzione di grandi opere pubbliche, diventerà dopo di lui funzione riconosciuta come doverosa dagli Stati moderni. Tra le istituzioni che questi adotteranno per il controllo delle finanze vi sarà sempre quella di una Banca nazionale sul tipo della Banca di Francia, creata da Napoleone per porre riparo al disordine finanziario determinato dalla Rivoluzione. La laicizzazione dello Stato, e conseguentemente della società, che Napoleone aveva conseguito attraverso il Concordato col Pontefice, diverrà anch’essa un’altra caratteristica di quasi tutti gli Stati europei nell’Ottocento. È però nel campo amministrativo e in quello dell’istruzione che il modello creato da Napoleone avrà il maggior successo. Egli centralizzò l’amministrazione creando l’istituto dei prefetti, che reggevano il dipartimento in dipendenza dal potere esecutivo centrale; tutta quanta l’amministrazione statale era in mano a una burocrazia specializzata, costituita da funzionari di carriera; la giustizia era affidata a giudici di nomina statale. Anche l’ordinamento dell’istruzione diventerà un modello comunemente seguito: le scuole vennero divise da Napoleone in elementari, medie, superiori, ed erano controllate e regolamentate dallo Stato.

9. L’assetto dell’Italia nell’età napoleonica – Lo scoppio della Rivoluzione francese aveva trovato in Italia numerosi sostenitori, specialmente tra i ceti borghesi, che avevano aderito con entusiasmo alle idee rivoluzionarie. Negli anni successivi, però, la campagna antireligiosa e il Terrore, avevano provocato un diffuso sentimento antifrancese nel popolo. E' in questo quadro che si inserisce la discesa di Napoleone Bonaparte in Italia.
a)      Dopo la prima campagna - La prima campagna militare che Napoleone condusse in Italia quale generale del Direttorio (1796-1797) scardinò, con una serie di brillanti vittorie che portarono alla pace di Campoformio (1797), l’assetto che la penisola aveva avuto ad Aquisgrana, con il trattato di pace che nel 1748 pose fine alle cosiddette guerre di successione. Furono creati nuovi Stati: la Repubblica Cispadana e la Repubblica Traspadana, che daranno origine con la loro fusione alla Repubblica Cisalpina con capitale Milano; la Repubblica Ligure, vassalla della Francia, in luogo della vecchia repubblica oligarchica; e una Repubblica Romana creata dai Francesi dopo avere allontanato il Pontefice. Breve vita ebbe una Repubblica Veneziana promossa dai Giacobini, perché Venezia, col trattato di Campoformio, fu ceduta da Napoleone all’Austria.
Successivamente, durante la campagna di Napoleone in Egitto, si costituì a Napoli, cacciati i Borboni che si rifugiarono in Sicilia, una Repubblica Partenopea. Così, agli inizi del 1799, tutta la penisola si trovava sotto il controllo diretto o indiretto della Francia.
Il rapido successo delle armate francesi in Italia fu dovuto tra l’altro all’atteggiamento favorevole di una minoranza di intellettuali che, conquistati dalle idee rivoluzionarie, collaborarono con gli occupanti. La costituzione di più repubbliche fu considerata da costoro solo un momento transitorio, che avrebbe dovuto portare alla formazione di una federazione o di una grande repubblica unitaria.
La inconsistenza di questi Stati si mostrò chiaramente quando le truppe francesi, battute dalle potenze avversarie alleate nella seconda Coalizione dovettero abbandonare la penisola: essi crollarono tutti. L’episodio più drammatico fu la fine della Repubblica Partenopea (1799) e l’esecuzione dei patrioti che ne erano stati l’anima.
b)      Dopo la seconda campagna - La vittoria a Marengo (1800) di Napoleone, ormai primo console, e la successiva pace di Lunéville (1801), portarono alla ricostituzione della Repubblica Ligure e di una più ampia Repubblica Cisalpina che, nel 1802, fu trasformata in Repubblica Italiana, con grande delusione degli Italiani che vedevano eleggere presidente di essa lo stesso Bonaparte, il che testimoniava concretamente la mancanza di autonomia del nuovo Stato. Quando Napoleone si fece nominare imperatore di Francia (1804), la Repubblica Italiana fu trasformata in Regno d’Italia, di cui era re lo stesso Napoleone e il cui governo fu affidato al viceré Eugenio di Beauharnais, figliastro di Napoleone (1805).
La condizione di satelliti degli Stati italiani fu ribadita quando (dal 1805) i territori della Repubblica Ligure, del Ducato di Toscana e del Lazio furono annessi direttamente alla Francia, e il Regno di Napoli fu assegnato prima a un fratello di Napoleone, Giuseppe, poi al cognato Gioacchino Murat. In Sicilia e in Sardegna si erano rifugiati rispettivamente il sovrano borbonico e il Savoia.
c)      I patrioti italiani di fronte a Napoleone - Quando Bonaparte si affacciò per la prima volta alle Alpi, nel 1796, si accelerò il formarsi di una sinistra italiana singolarmente avanzata, che diede vita a discussioni e polemiche sulla futura sistemazione dell’Italia. Si trattava di controbattere le affermazioni di taluni circoli e giornali parigini che sostenevano l’immaturità dell’Italia ad una politica autonoma. Il centro di queste discussioni e polemiche fu Milano. A dimostrare la sensibilità sociale di questi patrioti italiani sta il fatto che, nonostante la diversità delle loro opinioni, tutti furono concordi nel riconoscere la necessità di porre riparo alla miseria e all’arretratezza delle classi più povere.
La politica di Napoleone che puntò alla formazione di tanti Stati vassalli, generò una grande delusione; tanto più quando Napoleone, avendo già affermato la sua dittatura personale come imperatore, trasformò la Repubblica Italiana nel Regno d’Italia, di cui cinse egli stesso la corona.
Ai patrioti italiani si prospettò allora la scelta tra questo nuovo dispotismo e l’antico; ma essi seppero riconoscere la differenza fra i due. Il dispotismo napoleonico portava con sé, anche se spesso traditi sul piano concreto, i princìpi della Rivoluzione; risvegliava anche, suo malgrado, il sentimento nazionale; educava, attraverso il servizio prestato nell’esercito, all’uso delle armi; apriva, tramite l’amministrazione, possibilità di partecipazione attiva alla vita dello Stato ad elementi sino ad allora esclusi.
E si trattò di un’amministrazione quanto mai operosa, che portò a termine la trasformazione dello Stato e della società solo timidamente avviata dai prìncipi riformatori del Settecento. Furono soppressi i vincoli feudali ed economici, i privilegi dei monasteri, dei tribunali particolari a cominciare da quelli ecclesiastici, fu affermata l’uguaglianza civile, furono promosse l’istruzione pubblica, l’agricoltura, i commerci e l’industria che si avvantaggiarono della caduta delle barriere doganali e dei pedaggi, dell’ampliamento della rete stradale, dell’unificazione dei pesi e delle misure.
Proprio per questo, quando, sconfitto Napoleone, le grandi potenze vollero restaurare nel Congresso di Vienna l’antico regime, erano già pronte anche in Italia le forze che, tramite le congiure e le rivoluzioni, si sarebbero impegnate ad abbattere il nuovo assetto: erano forze che avevano fatto il loro apprendistato nelle armate e nell’amministrazione napoleonica.

10. La cultura settecentesca – Il Settecento è l'età dei lumi, l'epoca dell'Illuminismo, delle nuove esigenze razionali e della prima rivoluzione industriale. In tutta l'Europa si sviluppa una nuova idea di modernità, che si basava sul senso laico della cultura, sulla ricerca di una nuova e maggiore comunicatività del pensiero.
a)      Il self made man – La rivoluzione americana nel 1775 e quella francese nel 1789 generaronono il nuovo Stato borghese. La rivoluzione industriale modificò radicalmente la sfera della produzione e della fruizione culturale.
1.      In primo luogo, l’industrializzazione tecnica, gestionale e commerciale dell’editoria unita all’aumento della popolazione alfabetizzata diede avvio alla rivoluzione del libro, cioè all’abbassamento dei costi e alla diffusione di massa dei giornali, delle riviste e soprattutto dei libri.
2.      In secondo luogo, nacque e si affermò la tendenza a estendere e a riformare le istituzioni scolastiche per renderle adeguate alle esigenze dello sviluppo industriale. I modelli di tale tendenza furono da un lato l’Ecole polytechnique fondata in Francia nel 1795 e dall’altro la riforma dell’Università di Berlino nel 1810 ad opera di Humboldt. In entrambi i casi, si valorizzarono il nuovo sapere matematico-scientifico e la sua applicazione tecnica.
3.      In terzo luogo, la convergenza di questi due processi innescò la progressiva laicizzazione e borghesizzazione del ceto intellettuale: mentre prima la maggior parte degli intellettuali (insegnanti, giornalisti, scrittori, poeti, scienziati, artisti) faceva parte del clero o dell’aristocrazia ora è di estrazione soprattutto medio e piccolo borghese.
In questo modo a una concezione dell’intelligenza come dote innata delle classi superiori si sostituì quella dell’intelligenza come merito e talento proprio di un individuo indipendentemente dalla sua nascita. Su questa base, inoltre, la cultura diventa per il piccolo borghese uno strumento di ascesa economico-sociale.
Per comprendere le novità culturali del 700 bastano pochi esempi:
1.      nel 1712 J. Addison e R. Steel pubblicano a Londra lo Spectator, primo esempio di giornale che vuole informare dei fatti e costituire un modello sociale di comportamento, volto a formare l'opinione pubblica;
2.      nel 1719 D. De Foe pubblica il Robinson Crusoe, romanzo realistico, che descrivendo la laboriosità e la tenacia di un naufrago su di un'isola deserta, ripercorre le tappe dell'incivilimento umano e definisce il lavoro, l'attività, l'insieme dei valori borghesi dell'operare come altamente positivi;
3.      nel 1721 Montesquieu pubblica le Lettere Persiane, una sorta di pamphlet che sconsacra alla luce della ragione i valori ufficiali e dominanti nella società contemporanea;
4.      nel 1735 L. A. Muratori pubblica la Filosofia morale, che mette in ridicolo le pretese nobiliari, distinguendo gli uomini sulla base delle qualità personali e della fedeltà ai valori ufficiali.
Tutte queste opere indicano sempre più chiaramente che i valori ritenuti positivi, proponibili all'intera società sono quelli di una classe sociale nuova: la borghesia. Il borghese è il self made man, l'uomo che si fa da sè, che può contare sul proprio lavoro e che trova come antagonista sulla propria strada la nobiltà, che vive di rendita e che conta sulla proprietà rispetto a lui che nel profitto e nel lavoro trova la dignità umana. E proprio il conflitto tra borghesi e nobiltà caratterizzerà le vicende del secolo fino a sfociare nella Rivoluzione Francese. La forma assunta all'inizio è la contestazione su base logica e razionale dei privilegi, leggi, dogmi che andavano rimossi e sostituiti con norme razionali e identificabili come tali.
b)      I luoghi della cultura – I luoghi di produzione della cultura in parte si modificano nel Settecento: le corti non scompaiono, ma perdono progressivamente importanza, sopravvivono le accademie, che in Italia resistono molto di più che nelle altre nazioni europee: mentre nel resto d’Europa, infatti, la borghesia emergente diventa la classe trainante anche sul piano culturale, l’Italia presenta una condizione di notevole arretratezza e, quindi, resta legata ai luoghi tradizionali di organizzazione della cultura.
Ovviamente, le accademie devono almeno parzialmente rinnovarsi, per sopravvivere in tempi notevolmente mutati. L’accademia più importante e significativa è quella dell’Arcadia, attiva nella prima metà del Settecento. Essa presenta innanzitutto novità nella sua struttura, perché ha un centro di diffusione, ma affianca ad esso sedi sparse in molte città e, in qualche modo, collegate tra loro: ciò favorisce lo scambio e la circolazione delle idee.
Inoltre è uno dei primi centri culturali che avverte il cambiamento dei tempi e l’esigenza di scelte nuove, esprimendo rifiuto per gli eccessi, le stravaganze, il cattivo gusto barocco, in nome di un ritorno ad ideali di equilibrio, di armonia, di compostezza classici.
Importanti luoghi di aggregazione culturale diventarono i caffè e i salotti.
c)      I caffé – Luoghi di passaggio, di incontro, di conversazione. Sono luoghi di aggregazione molto più informali, spontanei e non sistematici rispetto a cenacoli ed accademie. Inoltre, si tratta di centri molto meno elitari e selettivi. Infine, si tratta di luoghi aperti, immersi nella vita cittadina, a contatto con la realtà (l’osservazione, l’analisi, lo studio dei problemi concreti sono un elemento centrale per gli intellettuali dell’epoca); tra l’altro, nei caffé si leggeva il giornale (nuovo strumento di diffusione delle idee) e si commentano le notizie.
d)     I salotti – Sono luoghi più esclusivi rispetto ai caffé perché si tratta ovviamente dei salotti delle case dei nobili o dei ricchi borghesi. A volte, i proprietari fanno a gara per invitare nel loro salotto personaggi di particolare prestigio culturale e intellettuale. Nei salotti, come nei caffé, i temi affrontati nelle conversazioni sono assai vari, mentre le diverse accademie in genere si caratterizzano per interessi specifici diversi.
e)      Il grand tour – Una caratteristica dell’intellettuale settecentesco è quello di sentirsi cosmopolita, cioè cittadino del mondo: aumentano i viaggi per l’Europa e non solo, per conoscere realtà diverse e confrontarsi con altri modi di vita e con altre forme di pensiero. Il Grand Tour era un viaggio nei luoghi della storia e dell’arte, dove poter apprezzare e conoscere tramite un’esperienza diretta e tangibile ciò che si era fino a quel momento appreso solo dai libri. Durante il Grand Tour i giovani appartenenti alle più facoltose famiglie europee hanno occasione di completare il proprio ciclo di studi con la visita dei maggiori centri culturali, artistici e politici dell’Europa continentale. L’Italia è una delle mete preferite per questo viaggio, visto il notevole patrimonio storico e architettonico di cui godono le sue principali città. I viaggiatori del Grand Tour non mancano di acquistare riproduzioni artistiche dei luoghi visitati, oggetti d’arte e d’antiquariato da portare in patria a ricordo del loro viaggio. Nacque una vera e propria industria turistica; escono i primi libri guida dei luoghi e si vendono vedute dei paesaggi italiani. Uno strumento importantissimo di comunicazione in quest’epoca è lo scambio epistolare. Alcune lettere vengono scritte (o, comunque, revisionate) in vista della pubblicazione. Tra fine Settecento e inizio Ottocento fiorirà il genere del romanzo epistolare, cioè del romanzo costruito sotto forma di scambio di lettere.

11. La filosofia – Il processo di smantellamento della filosofia, iniziato con Machiavelli nel Cinquecento e portato avanti con la grande rivoluzione scientifica del Seicento, fu continuato durante il Settecento con la nascita di altre scienze con statuto autonomo. Abbiamo, infatti, con Giambattista Vico, i prodromi dello storicismo, e si sviluppa una attenzione agli aspetti dell'esperienza estetica (si pensi alle dottrine del sublime).
In questi anni si dissolse la divisione tra una casta di sapienti che lavorano intorno alle università (come sono ancora Vico e Kant) e una comunità di laici curiosi e indipendenti, egualmente versati in filosofia, scienze naturali, letteratura, capaci di usare l'arma del trattatello o del pamphlet per far circolare nuove e corrosive idee (si pensi a personaggi come Montesquieu, Voltaire e Diderot), in cui sono presentati personaggi fantastici (persiani o abitanti di stelle lontane) per aiutarci a guardare al nostro mondo con spirito critico e ironico. A questa atmosfera appartiene anche il romanzo filosofico e la pleiade di romanzi utopici che manifestano il gusto, l'ansia, l'eccitazione della scoperta di nuove terre e nuove forme di società.
La nuova filosofia, di cui certamente l'Encyclopédie è il manifesto, si piega a riflettere sui nuovi portati della tecnica, sul valore del sapere artigiano; e soprattutto si stabilisce un diverso legame tra cultura e industria, nel senso che l'Encyclopédie è al tempo stesso una monumentale impresa filosofico-scientifica e una impresa industriale, condotta calcolando costi e ricavi.
D'altra parte in questo secolo ogni impresa culturale (compresa la letteratura) diventa contemporaneamente impresa economica: gli autori del nuovo romanzo inglese fanno i conti con un pubblico determinato di acquirenti, composto non più di mecenati, bensì di mercanti e di donne; d'altra parte per questa nuova borghesia nasce che un genere di divulgazione scientifica, in cui la trasmissione del sapere tiene d'occhio anche le classi emergenti. Tutti questi fenomeni non possono influire su uno stile di pensiero, che spesso acquista anche una maggiore affabilità, evita le formule ipertecniche per assumere il tono pacato della conversazione tra laici ansiosi di conoscere ma estranei alle dispute scolastiche.
a) Gian Battista Vico Se il secolo precedente aveva visto con la grande rivoluzione scientifica la nascita della scienza come disciplina autonoma dalla filosofia, nel Settecento nasce grazie a  Muratori e Vico, fondatori di una nuova filosofia della storia, la nascita di una nuova scienza la storiografia moderna che si affrancò definitivamente dalla letteratura.
Una posizione di preminenza spetta al napoletano Gian Battista Vico un pensatore controcorrente: oltre alla geometria e alla matematica, per Vico una tipica produzione umana è la storia, quella scienza nuova che Vico presenta nel suo capolavoro, i Principi di una scienza nuova dintorno alla natura delle nazioni. Tale scienza si basa sulla sintesi fondamentale di astratto e concreto, universale e particolare. La filosofia è la scienza dell'universale, la filologia quella del particolare. Esse non vanno intese come attività separate, perché non è concepibile la filosofia senza la filologia, né questa senza quella. L'idea, di cui si occupa la filosofia, è il vero; il fatto, di cui si occupa la filologia, è il certo. La nuova scienza dovrà preoccuparsi di accertare il vero e inverare il certo. Essa sarà scienza dell'universale applicato al concreto e del particolare spiegato attraverso l'idea.
Studiata nell'ottica di questa nuova scienza, la storia non è un succedersi di avvenimenti slegati gli uni dagli altri, ma deve avere in sé un ordine fondamentale e delle leggi che la governano. La storia si muove nel tempo, ma sul fondamento di un ordine universale ed eterno, trascendente rispetto alla storia particolare delle nazioni. Questa storia ideale eterna costituisce la norma verso cui la storia concreta deve elevarsi. Essa è tripartita: a un'età degli dei, caratterizzata dai bestioni o uomini primitivi privi di capacità riflessiva, ma dotati di forti sensi, seguono l'età degli eroi, caratterizzata dal predominio della fantasia sulla riflessione razionale e l'età degli uomini, o della ragione dispiegata. La scansione di queste tre età rappresenta il ciclo dell'incivilimento dell'uomo. Ma questo risultato di incivilimento è del tutto sproporzionato alla modestia dei fini e dei mezzi umani. Vico ritiene che l'incivilimento sia l'esito di una eterogenesi dei fini, cioè della collaborazione di due menti, l'umana e la divina (sotto forma di Provvidenza), i cui fini diversi conducono al medesimo risultato. La ragione dispiegata propria della terza età storica è capace di chiudersi e ribellarsi alla Provvidenza, ma in tal modo provoca l'arresto dell'incivilimento e la caduta nella barbarie della ragione. Il processo di incivilimento può assumere così un carattere ciclico, perché, quando una civiltà riprecipita nella barbarie, le forme mentali delle tre età storiche si ripresentano secondo la loro scansione. Questa dottrina dei ricorsi storici indica solo come la civiltà raggiunta non sia mai una conquista definitiva.
b) Nasce l’Estetica moderna Nella considerazione dell'arte l'Illuminismo mantenne un grande interesse per le regole tradizionali di composizione, ma operò anche un rilevante spostamento verso il problema del gusto, cioè verso l'ottica di chi fruisce dell'opera d'arte.
Si spiega così come proprio nel '700 si può parlare con il filosofo tedesco Alexander Gottfried Baumgarten (1714-1762) di fondazione dell'estetica come scienza autonoma. Il termine Estetica comparve per la prima volta, nel significato moderno di Teoria del Bello e dell'Arte, nel 1750, come titolo dell'opera Aesthetica di Baumgarten: il termine deriva dal verbo greco αισθάνομαι (aisthànomai) che significa percepire con i sensi, provare sensazioni, ma anche comprendere. Per questo motivo molti hanno individuato con questa pubblicazione il vero atto di nascita dell’estetica come scienza autonoma, tale da raccogliere in modo unitario le diverse riflessioni intorno al bello e alle arti mettendo a fuoco un insieme di concetti nuovi: gusto, genio, sentimento.
Con Baumgarten il termine estetica fu per la prima volta esplicitamente usato e definito. Esso era già apparso nel 1735, nelle Riflessioni sul testo poetico, al posto dell’espressione, fino allora consueta, di critica del gusto. Nel 1750 Baumgarten diede il titolo a un’opera intera: esso designa quella scienza della conoscenza sensibile che avrebbe come oggetto centrale l’analisi del bello e delle arti. L’estetica è scienza della perfezione della conoscenza sensibile come tale, cioè della bellezza. L’estetica è teoria delle arti perché è nelle arti che tale perfezione si realizza. È proprio in questa identificazione della sfera del sensibile con quella della bellezza, e dell’idea di bellezza con l’idea di arte, che è stato indicato uno dei momenti fondamentali della cultura dell’estetica in quanto scienza moderna. A Baumgarten spetterebbe il primato della fondazione dell’estetica, intesa come specifica disciplina filosofica. Quanto al valore dell’estetica, ci si accorge che altri filosofi sono ritenuti altrettanto essenziali. Vico, per esempio, o lo studioso inglese Edmund Burke (1729-1797) che, ne La ricerca filosofica sull’origine delle idee del sublime e del bello del 1755, aveva individuato il sublime come un elemento contrapposto al bello. Si tratterebbe cioè di quel sentimento di sgomento che l’uomo prova di fronte al terrore, all’oscurità, alla potenza, alla privazione, alla vastità, all’infinità, alla difficoltà, alla magnificenza.
Il concetto di Sublime è correlato e contrapposto a quello di Bello. Nell'idea di Burke è Sublime "Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore", il sublime può anche essere definito come "l'orrendo che affascina". La natura, nei suoi aspetti più terrificanti, come mari burrascosi, cime innevate o eruzioni vulcaniche, diventa dunque la fonte del Sublime perché “produce la più forte emozione che l'animo sia capace di sentire”, un'emozione però negativa, non prodotta dalla contemplazione del fatto in sé, ma dalla consapevolezza della distanza insuperabile che separa il soggetto dall'oggetto.
Altra posizione importante è quella dello storico dell’arte tedesco Winckelmann nella cui opera si individua non solo l’inizio del neoclassicismo, ma anche un grande contributo alla nascita dell’estetica.
Nel suo libro più famoso, la Storia dell’arte nell’antichità del 1764 Winckelmann sancì la superiorità dell’arte greca su tutte le altre e vi elaborò l’idea che l’armonia e la bellezza fossero il risultato di un’operazione di razionalizzazione e di controllo delle passioni realizzata dall’artista, sentendo con grande intensità e con vivo entusiasmo e tenne sempre presente, il momento primario e insieme terminale dell’arte che è la bellezza.
Winckelmann, teorizzò il concetto di bellezza ideale, che è una sintesi perfetta di umano e divino e che può derivare solo dal superiore controllo delle passioni e dei sensi, riassumendo le caratteristiche fondamentali dell’arte classica nella seguente formula: “La nobile semplicità e la calma grandezza”. Il primo sintagma si riferisce all’eleganza di quest’arte, che deriva essenzialmente dalla sua semplicità; il secondo, invece, rimanda a un significato più profondo: Winckelmann pensava che l’arte greca trasmettesse sempre un messaggio di tipo etico, quello secondo il quale l’uomo, pur accettando la parte emozionale della sua natura, debba costantemente esercitare un controllo razionale sulle proprie passioni in modo da mantenere equilibrio interiore e serenità d’aspetto. L’artista contemporaneo, quindi, non deve limitarsi a imitare le forme dell’arte classica, ma deve accettare e far propri i suoi valori, sentiti come ancora attuali, ed esprimerli nelle sue opere.
In conformità a tale concezione, l’equilibrio dell’arte classica si propose come modello di fusione tra lo spirito e il corpo. Lo studioso tedesco identifica l’attività dell’artista con un procedimento di autocontrollo che renda l’opera capace di suscitare nell’animo il pathos che ne costituisce l’unicità. Tal eccezionalità prende il nome di “sublime.
Le riflessioni di Burke e di Winckelmann ebbero qualche eco nell’opera di Immanuel Kant (1724-1804), che, nella Critica del giudizio del 1790 sostenne che si ha un giudizio estetico quando, commossi per la contemplazione di uno spettacolo della natura o di un oggetto d'arte, proviamo un piacere che non ha legami con la conoscenza intellettuale. Tale piacere deriva dalla corrispondenza tra il bello cui assistiamo e le nostre più profonde aspirazioni. Il Bello deve produrre armoniosa quiete e Kant distingue fra il semplice bello e il sublime, vale a dire quello che appare in oggetti di potenza e proporzioni smisurate. Di fronte a spettacoli sublimi, l'uomo non può non percepire, da un lato la propria insignificanza ma, dall'altro, la coscienza della propria superiorità morale e del proprio destino soprasensibile. Kant sosteneva inoltre che il bello è dettato da un libero gioco delle facoltà intellettive, per cui al vedere un bel paesaggio proviamo piacere perché è come se esso si adeguasse spontaneamente alle nostre categorie intellettive; per il sublime, invece, Kant – che aveva in mente il cielo stellato, le catene montuose, il mare in tempesta – intende qualcosa di ambiguo, che desta al contempo piacere e senso di smarrimento: l'oggetto in questione – il mare in tempesta, il cielo stellato o le montagne – non si adegua spontaneamente a noi e alle nostre facoltà conoscitive, ma ci incute timore perché manifesta la sterminata grandezza e la sterminata potenza della natura di fronte alla sterminata piccolezza e impotenza dell'uomo; mentre il bello è univocamente positivo, il sublime è positivo e negativo al tempo stesso.
c) La rivoluzione copernicana di Kant – Come Copernico, che nel campo astronomico capovolse la concezione dei Tolomeo ponendo non più la Terra (geocentrismo) al centro del nostro sistema, ma il Sole (eliocentrismo), allo stesso modo Immanuel Kant compì una rivoluzione nel modo di intendere la filosofia: il soggetto (paragonabile al sole copernicano), non gravitava più passivamente intorno all’oggetto (la terra), e non dipendeva più da un mondo già costituito secondo propri principi e leggi, ma con la sua attività a priori illuminava l’oggetto ordinando i dati sensibili.
Una volta definito questo concetto, la riflessione di Kant si concentrò sull’analisi critica di tutta l’attività dell’uomo, elaborando quella trilogia unitaria che costituisce il cuore della filosofia kantiana: La Critica della ragion Pura, La critica della ragion Pratica e La Critica del Giudizio, tre passaggi fondamentali che indagavano rispettivamente il modi di apprendere dell’uomo (conoscenza nella critica della ragion pura), il suo modo di volere (azione nella critica della ragion pratica), ed infine il suo modo di sentire (sentimento nella critica del giudizio).

12. L’Illuminismo - Il Settecento chiamò se stesso l’età dei lumi, intendendo significare che in questo secolo l’umanità, nella sua evoluzione storica, era pervenuta all’età della ragione. Con i lumi della ragione l’umanità avrebbe dissipato le tenebre dell’ignoranza che nel passato avevano consentito il prevalere dell’arbitrio, delle ingiuste posizioni di privilegio, della superstizione e dell’intolleranza.
L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dalla minorità. «Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza. Questo è il metodo dell’Illuminismo». Così scriveva nel 1784 Kant, il grande filosofo tedesco che, pur affrontando una tematica diversa da quella dell’Illuminismo e con metodi e risultati di tutt’altra natura, considerava l’Illuminismo come una conquista irrinunciabile dello spirito umano nel suo sviluppo.
a)      Origine e diffusione - L’Illuminismo permeò di sé tutta la cultura del XVIII secolo ed ebbe il suo centro di diffusione nella Francia. Ma gli stessi filosofi illuministi, Voltaire e gli enciclopedisti per primi, indicavano nell’Inghilterra la patria delle idee che lo caratterizzavano. Locke [[32]], il filosofo empirista che sosteneva essere l’esperienza l’unica fonte di ogni nostra conoscenza, e Newton, che fondava la fisica sull’esperienza e sulla matematica, erano indicati a modello per il loro metodo scientifico. Le istituzioni politiche e i costumi civili degli inglesi erano messi a confronto con quelli francesi per mostrarne la superiorità dovuta ai principi di libertà e di tolleranza ai quali essi si ispiravano. Gli scritti brillanti, anticonformisti, spregiudicati, dal linguaggio immediato ed efficace, diffusero rapidamente la nuova filosofia ben al di là della ristretta cerchia degli studiosi e degli eruditi, raggiungendo i ceti della borghesia in ascesa, creando un’opinione pubblica. I temi trattati erano tutti quelli che riguardavano la vita associata e che avevano un carattere di attualità, non esclusi quelli della politica e della religione. La spregiudicatezza procurò ai loro autori gravi noie e li portò, in alcuni casi, a risponderne in tribunale ed a subire condanne al carcere. Grazie alla pubblicistica le idee dell’Illuminismo travalicarono le frontiere e si diffusero in tutta Europa e anche nelle colonie d’America. Il carattere di lingua internazionale che il francese aveva nel XVIII secolo, grazie alla posizione di prestigio di cui la Francia da tempo godeva, ne favorì la diffusione.
b)      L’Enciclopedia - Lo strumento che maggiormente concorse alla diffusione della mentalità illuministica fu un’impresa culturale di eccezionale impegno, la pubblicazione tra il 1751 e il 1772 dell’Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze delle arti e dei mestieri ad opera di una società di uomini di lettere in 24 volumi. Ideatore del progetto fu Diderot che ne fu anche direttore, per un certo tempo, assieme a D’Alembert. L’opera, proponendosi di offrire un inventario critico delle conoscenze umane per propagare la cultura, rischiarare le coscienze e combattere l'intolleranza e le superstizioni, offriva una sistemazione generale del sapere umano nei suoi diversi settori, lontano da ogni accademismo e facilmente accessibile ad un vasto pubblico. A fianco delle ultime acquisizioni delle scienze, erano illustrate anche quelle della tecnica, accompagnandole con la descrizione dei procedimenti e degli utensili dei diversi mestieri. Era un accostamento del tutto nuovo, che rispecchiava la posizione acquisita dalle nuove tecniche di lavoro, le cosiddette arti meccaniche che soltanto un secolo prima erano considerate con disprezzo. Le autorità, in particolare quella ecclesiastica, ostacolarono la pubblicazione dell’opera, che fu sospesa per un certo tempo e che, per essere completata, dovette essere stampata fuori dalla Francia e subire negli ultimi volumi tagli non indifferenti. Il gruppo di letterati e tecnici che lavorò all’Enciclopedia era abbastanza numeroso e comprendeva nel suo momento più felice personalità di primissimo piano, come Voltaire, Rousseau, Quesnay, Turgot, Necker, D’Holbach, e tanti altri.

13. I caratteri fondamentali dell’Illuminismo - Parlando dell’Illuminismo, occorre ricordare subito la varietà di posizioni che si riscontrano tra quelli che ne sono considerati i rappresentanti; varietà che a volte giunge a profonde divaricazioni anche su temi centrali, di politica e di religione. Al di là di ogni diversità esiste, però, un atteggiamento mentale comune e la comune accettazione di alcuni principi fondamentali.
a)      La società come tema privilegiato – Mentre finora la filosofia aveva avuto come oggetto principale Dio o la natura e i rapporti uomo-Dio, uomo-natura, gli illuministi si propongono come tema principale la società e le sue istituzioni e il rapporto tra gli uomini. L’uomo deve essere liberato, in nome della ragione, da tutti gli impacci e i legami della tradizione. La critica alla tradizione è il procedimento tipico dell’Illuminismo.
b)      La fiducia nella ragione come metodo – La ragione è esaltata come la luce che disperderà l’oscurantismo del passato e indicherà le soluzioni da prendere per realizzare una società dalla quale sia bandito, assieme all’ignoranza e alla superstizione, anche il vizio, e nella quale sia assicurata la felicità. È chiaro che – rispetto alla razionalità moderna, impegnata nei grandi problemi metafisici – la ragione illuministica è soprattutto rivolta allo studio della realtà terrena e quotidiana, con un'attenzione particolare alle dimensioni della felicità e dell'utilità: per questo la ragione a cui ci si riferisce non è la ragione astratta dei filosofi, ma è uno strumento di ricerca. Per questo sarebbe più preciso parlare di fiducia nella scienza, o nel suo metodo, che si vuol applicare oltre che allo studio della natura anche all’esame della società e dei suoi problemi.
c)      L’uguaglianza degli uomini e la libertà – Una delle prime verità che la ragione proclama è che gli uomini sono per natura uguali. Le uniche differenze, ragionevolmente accettabili, sono quelle dovute ai meriti personali; tutte le altre sono da respingere, a cominciare dai privilegi connessi alla nascita. Come per natura gli uomini sono uguali, così sono liberi, e nessuno può essere privato di questo diritto fondamentale, che consiste nel poter disporre della propria persona e dei propri beni, nel modo che si ritiene più conveniente alla propria felicità. Se un sovrano pretende di disporre a suo arbitrio della vita e dei beni dei sudditi, questi hanno il diritto di ribellarsi, perché, comportandosi così, il sovrano va contro alla finalità dello Stato che consiste nella difesa degli inalienabili diritti naturali.
d)     La tolleranzaL'affermarsi di una razionalità mondana e pragmatica si congiunge a una tendenza polemica contro le religioni tradizionali e la Chiesa, considerate frutto di imposizione autoritaria, strumento di dominio politico, di superstizione e intolleranza. Insieme alla libertà e all'uguaglianza, trova enorme diffusione la parola d'ordine della tolleranza. Non solo è affermata vigorosamente l'autonomia della coscienza morale, ma vi si ravvisa il criterio e la garanzia dell'efficacia e validità della religione stessa. La divinità è concepita come un ente supremo, in un senso deistico più che teistico e spogliata di molti degli attributi assegnati da secoli di teologia e metafisica. Per questi motivi, una delle espressioni fondamentali della libertà fu la libertà di pensiero e, in particolare, la libertà di religione. Unico limite a questa libertà è il rispetto delle leggi, che garantiscono il diritto degli altri e un’ordinata convivenza. Lo Stato, pertanto, non può imporre una religione, né perseguitare i dissidenti, ma deve tollerare qualsiasi confessione. L’intolleranza e il fanatismo religioso sono sempre stati causa di atroci delitti e di sanguinose guerre: la tolleranza, invece, ha sempre favorito la convivenza civile e il fiorire delle arti, delle scienze e delle attività economiche.
e)      L’universalismo – Affermare che tutti gli uomini sono uguali davanti alla ragione significa considerare le differenze storiche e nazionali come non essenziali. Per questo nelle Dichiarazioni dei diritti, come quella americana e quella francese si pretende che esse siano valide «per tutti gli uomini, per tutti i tempi, per tutti i Paesi». E l’uomo che ha assimilato la nuova filosofia si considera, come scriveva Baretti, «cittadino del mondo», il cosmopolitismo che prende in considerazione anche le civiltà extraeuropee, e laica della storia, che ne amplia l'orizzonte rispetto a quella cristianocentrica e di ispirazione teologica.
f)       Funzione sociale della cultura – Se ogni epoca espresse un suo proprio ideale d’uomo, quello del Settecento fu il filosofo, inteso come l’intellettuale che, libero da pregiudizi e da timori reverenziali, affronta e dibatte i problemi della realtà sociale alla luce della ragione. La più radicale messa in discussione dalla figura tradizionale del letterato di corte si ebbe, però, nella metà del secolo quando si diffuse anche in Italia il modello illuministico del philosophe, l’intellettuale politico che doveva guidare l’azione dei governi: lo scrittore, insomma non era più rinchiuso nel culto della parola fine a se stesso ma doveva partecipare alla vita politica. E il suo fine non è puramente teoretico: con la sua ricerca egli si sente impegnato in una grande opera a favore dell’umanità e del progresso. La cultura è per lui uno strumento al servizio della «felicità degli uomini», perché la lotta contro l’ignoranza è lotta contro il vizio e contro le miserie materiali e morali. Una fiducia illimitata nel sapere gli fa guardare con ottimismo all’avvenire che, grazie al trionfo dei lumi al quale egli ha portato il suo contributo, non può che essere migliore del passato.
g)      L'Onnipotenza dell'educazione – Il disagio della civiltà e la nostalgia dello stato primitivo si combinano nel produrre la convinzione, largamente diffusa nell’Età dei lumi che la natura umana è buona e che sono le istituzioni sociali e politiche a corromperla. La critica delle istituzioni e della disuguaglianza sociale (cui fa riscontro l'uguaglianza degli uomini allo stato di natura) occupa gran parte della letteratura illuminista. Poiché gli uomini sono resi malvagi dall'ambiente sociale in cui vivono (non già dal peccato originale) e dalle cattive abitudini che ne derivano, ne consegue che un'educazione buona, che assecondi le inclinazioni naturali avviandole a maturazione produrrà uomini buoni e cittadini rispettosi della libertà e dei diritti degli altri. A questo concetto di educazione naturale, intesa come un sostanziale non intervento, si accompagna l'ideale illuministico di fare dell'istruzione una funzione sociale e pubblica, gestita dallo stato e offerta gratuitamente a tutti i cittadini.
h)      La concezione della storia – L'Illuminismo ebbe un senso fortissimo della propria identità e dell'originalità dei propri connotati storici. Con l'Illuminismo e con l'ascesa della classe borghese la nozione stessa di storia acquista quel carattere universalizzante che le è dopo tutto essenziale. Nel contempo la storiografia illuminista ridimensionò avvenimenti come le guerre, i trattati diplomatici, le successioni al trono ecc., per concentrarsi piuttosto sull'analisi delle istituzioni, dei costumi, delle leggi, dell'economia e dei vari poteri. Di qui il concetto di «storia universale» che costituisce un tipico prodotto della cultura illuminista. L'Illuminismo nonostante la nostalgia per lo stato selvaggio e le critiche rivolte alla civiltà, inclina verso un cauto ottimismo. La lotta dei lumi contro le tenebre dell'ignoranza appare garanzia di progresso e di emancipazione umana lo sviluppo della tecnica e dell'industria, l'aumento della ricchezza, il diffondersi della cultura, diventano strumenti di felicità e di miglioramento per il genere umano.

14. La letteratura – I primi decenni del Settecento si caratterizzano come rifiuto e smantellamento dell’estetica barocca. Con gli anni ‘30 e ‘40 comincerà poi ad affermarsi la nuova cultura dell’Illuminismo.
In Italia, la prima età del secolo è caratterizzato dall’opera dell’Arcadia, mentre nella seconda metà del secolo penetreranno le idee illuministiche.
Al Settecento appaiono di “cattivo gusto” l’abbondanza, lo sfarzo, la libertà espressiva, la ricerca di squilibri e di eccessi tipici del barocco. Per reazione, si propone un’estetica radicalmente diversa, che reagisca al barocco recuperando la lezione del mondo classico.
Il Settecento è, dunque, una nuova epoca di classicismo, anche se in forme diverse rispetto a quanto si era fatto in età umanistica.
Non si ricorre più all’imitazione di precisi modelli, ma si riprendono valori fondamentali e generali tipici dell’estetica classica: arte che sia manifestazione dell’uomo e della realtà in tutte le sue caratteristiche, ma sempre sorvegliata dalla ragione (contro l’irrazionalità di certi esiti barocchi); ne derivavano ideali di compostezza, armonia, equilibrio delle parti, semplicità, rigore, cioè tutti i valori di fondo dell’arte antica. Inoltre, si sostiene che l’arte non debba avere semplicemente fini edonistici (come era stato tipico dell’arte barocca, che si proponeva di piacere, stupire, intrattenere, non di insegnare), ma debba perseguire un equilibrio tra edonismo e finalità educative. Questo concetto confluirà poi nell’estetica illuministica, che mirerà soprattutto ad un’arte utile e finalizzata alla realizzazione della “pubblica felicità”.
In Italia il Barocco resiste più a lungo, ma in Francia già alla fine del Seicento esso fu rifiutato e spesso accomunato al Manierismo (che in realtà è molto diverso): Barocco e Manierismo sono accusati di esser un’arte che ha abbandonato la ragione per fare affidamento esclusivamente sui sensi e sulle impressioni (si tratta di una cultura profondamente influenzata dal razionalismo cartesiano). Anche l’arte è una forma di conoscenza e dev’essere quindi guidata dalla ragione.
Ne derivano:
·         rifiuto della polisemia barocca (gioco delle metafore, ambiguità, pluralità di suggestioni)
·         linguaggio semplice e comunicativo, che esprima significati chiari e comprensibili.
·         L’influenza di Condillac – In età illuminista si affermano, accanto al razionalismo, anche l’empirismo e il sensismo. Teorico del sensismo è Condillac che afferma la necessità dell’esperienza per attingere alla conoscenza. Poiché veicolo fondamentale dell’esperienza sono i sensi, la sensazione diventa strumento conoscitivo per eccellenza: senza la sensazione non si dà conoscenza. Condillac analizza i vari livelli di sensazione, da quella più immediata a quella che perdura nel tempo e che permette di avere memoria di determinate esperienze e, quindi, di ripetere quelle piacevoli e di fuggire quelle spiacevoli. Condillac distingue due grandi gruppi di sensazione: quelle che ci danno piacere e quelle che ci danno dolore. Le sensazioni si distinguono anche in base ad altri parametri, per esempio in base al diverso grado di interesse che noi manifestiamo per ciascuna di esse.
Condillac ci interessa perché pone grandissima attenzione non più sulla ragione, ma sui sensi, cioè su facoltà fisiche ed istintive, influenzando notevolmente l’elaborazione delle idee estetiche dell’epoca. Si comincia infatti a pensare all’arte e alla letteratura come a manifestazioni che hanno per fine il piacere, cioè il benessere dell’uomo: quello che si ricerca non è un piacere razionale, ma fisico e sensuale. Ciò implicherà un forte soggettivismo, dal momento che il piacere non è esattamente uguale per tutti.
·         La diffusione dell’Illuminismo in Italia – In Italia l'Illuminismo fu quasi sempre mediato da una perdurante eredità classica. L'Arcadia, Metastasio, persino l'opera rigorosa di Parini, come il gusto neoclassico di fine secolo, perseguivano un equilibrio tutto italiano fra ricerca razionale, reazione antibarocca e recupero del miglior classicismo della tradizione.
Solo a metà secolo l'Illuminismo italiano trovò un carattere originale soprattutto in area lombarda e napoletana.
In Italia, le idee sensiste arrivano nella seconda metà del Settecento, in un’epoca in cui gli intellettuali si sono fortemente orientati verso l’impegno civile: gli intellettuali più vivaci dell’epoca sono Verri, Beccaria ecc., quindi non letterati, poeti, narratori tradizionali, ma philosophes, che si occupano di politica, di economia, di diritto, cioè di problemi concreti, collegandoli al loro impegno letterario. Pertanto, non c’è contraddizione tra gli ideali più tipici dell’illuminismo e le nuove istanze del sensismo (in comune c’è l’attenzione alla concretezza delle esperienze): l’arte continua ad avere come scopo primario l’educazione al bene e ai cosiddetti valori civili nell’ottica del raggiungimento della pubblica felicità; ma, al tempo stesso, deve trattarsi di un’arte capace di procurare piacere fisico e sensoriale all’individuo e, quindi, attenta alla piacevolezza e gradevolezza delle forme, dei colori, delle immagini. Sono abbandonate tematiche tradizionali astratte e razionalistiche, in nome dell’adesione alle esperienza che concretamente danno piacere ai sensi, quindi in nome di un’adesione al fluire vero della vita.
I nuovi intellettuali rivendicano una lingua concreta, aderente anch’essa ai problemi e ai bisogni di comunicazione reale. Beccaria nel saggio Ricerche intorno alla natura dello stile, rifiuta arcaismi, astrattismi ed espressioni convenzionali, in nome di una lingua capace di creare immagini e significati chiari ed evidenti. In epoca di sensismo, si sottolinea che il piacere della lettura deriva dalla soddisfazione di comprendere bene ciò che l’autore vuole dire. Un’opera d’arte non è bella perché ornata da fronzoli e capace di stupire e meravigliare con le sue eccentricità (com’era tipico del barocco). Si rifiuta una sintassi spezzata ed ambigua, a favore di sintassi chiara e fluida; si raccomanda un uso sorvegliato degli accorgimenti retorici (possono essere utilizzati solo quelli che servono ad esprimere più efficacemente e con maggiore evidenza un concetto). Il lessico dev’essere denotativo più che connotativo; esso dev’essere, al tempo stesso sentito, quindi padroneggiato pienamente anche dal lettore, e non solo dallo scrittore che lo usa (ovviamente, per quanto riguarda la lingua italiana, questo è un obiettivo assai difficile da raggiungere, visto che la lingua italiana è ancora una lingua esclusivamente letteraria).
In età illuminista anche in Italia fioriscono i giornali: i primi fogli si rifanno al modello dell’inglese Spectator, in quanto non si occupano di tematiche specifiche, ma offrono un quadro generale della società. Interesse predominante per gli illuministi è la ricerca della felicità: anche l’arte è uno dei mezzi per raggiungere la felicità.
L’Illuminismo tende a vedere la felicità non tanto sotto l’aspetto del sentimento privato e individuale (nonostante il sensismo operi in questa direzione), quanto sotto l’aspetto del benessere collettivo. Muratori afferma che la felicità è prima di tutto pace e tranquillità sociale, poi sicurezza della vita e dei beni individuali; poi essa è giustizia (anche a livello fiscale e tributario); infine, essa è anche agiatezza. Quest’ultimo aspetto si fonda sulla speranza nei progressi scientifici. Inoltre, questi sono valori tipicamente borghesi.
Nel teatro la letteratura settecentesca diede gli esiti più innovativi: Goldoni a Venezia riformò la commedia in senso borghese; Alfieri rinvigorì la tragedia portando sulla scena l'odio per ogni forma di tirannide. A cavallo fra Settecento e Ottocento, nell'epoca della rivoluzione francese e dell'impero napoleonico, il Neoclassicismo fu rappresentato dall'importante esperienza di Monti, mentre nuova mediazione fra classicità e romanticismo sarà espressa dall'opera di Ugo Foscolo.
·         La lirica Nella prima metà del secolo, la lirica si trovò al centro di un programma inno­vatore imperniato sulla polemica contro il barocco e sulla proposta di un ritorno a un linguaggio poetico più linea­re. Si trattò di una vera «battaglia» per il ri­pristino in letteratura del buon gusto e della na­turalezza; queste furono infatti le parole d’ordine di un disegno riformatore che ebbe come protagonista l’accademia dell’Arcadia, fondata a Roma nel 1690. Tra i nomi più illustri degli accademici arcadi ricordiamo Pietro Metastasio, Paolo Rolli, Giambattista Felice Zappi. All’insegna del programma dell’Arcadia si scrissero migliaia di versi, che si presentano come innumerevoli variazioni del «già detto» sia per quanto riguarda i temi, che ruotano in gran parte intorno a un amore «sospiroso», sia per il lin­guaggio.
Qualche novità si affacciò solo nella seconda metà del secolo, con la ripresa in poesia di tematiche ispirate all’impegno civile.
Interessanti, sempre nella seconda metà del Settecento, le in­fluenze che giungono nella nostra letteratura dai modelli stranieri: Melchiorre Cesarotti traduce una raccolta poetica inglese, i Canti di Ossian, che divenne uno dei maggiori ca­si letterari del tempo e che introdusse anche da noi il gusto per una poesia indicata come sepolcrale, notturna per le scelte tematiche che prediligono paesaggi notturni, lugubri, miste­riosi, presagi di morte, stati d’animo indefiniti.
Una menzione meritano le Rime di Vittorio Alfieri che, uti­lizzando in prevalenza il sonetto, volle esprimere una poesia impregnata di senso morale, di adesione alla forza che pro­mana dalla natura; Alfieri fu considerato un modello di lin­guaggio nobile e «forte» da molti poeti successivi, in particolare da Foscolo.
·         Il trattato – La straordinaria ricchezza del dibattito culturale del Settecento, l’esplosione del confronto di idee, la spinta alla diffusione del pensiero, si rispecchiano in una trattatistica assai vivace e copiosa che si rivolge a un pubblico più ampio e in for­me differenziate, pensate anche per la divulga­zione. In particolare nella seconda metà del secolo il trattato, rinnovato nel linguaggio, trasformato in strumento di intervento più diretto e immediato entro un dibattito cul­turale che coinvolge non soltanto gli specialisti, si conferma come la vera «arma» degli illuministi. Le idee dei Lumi, che vengono in gran parte dalla Francia, sono riassunte, spiega­te e adattate alla realtà italiana, messe in circolazione attra­verso una trattatistica che si differenzia profondamente dal­l’analoga produzione dei secoli precedenti. Infatti il trattato risente in maniera diretta del trionfo delle tendenze razionaliste e della «rivoluzione scientifica» e pertanto tende ad es­sere una esposizione razionalmente ordinata; si spoglia, an­che se non completamente, dei caratteri di scrittura letteraria, per puntare di più sulla forza dimostrativa del ragionamen­to. Si può dire, insomma, che nel Settecento si forma una nuova prosa di pensiero volendo indicare con questa espres­sione uno stile che, senza cadere nella lingua d’uso, è tuttavia enormemente semplificato. Entro questo quadro prendono un’evidenza particolare alcune novità:
·         la tendenza alla divulgazione scientifica: l’esempio italiano più efficace è l’opera di Francesco Algarotti Newtonianismo per le dame, nella quale l’esposizione delle moderne teorie fisi­che è affidata al dialogo fra l’autore e una marchesa, in una atmosfera da salotto, senza che questo tuttavia pregiudichi la sostanziale correttezza dei contenuti scientifici;
  • l’attenzione per i dati, l’erudizione: si tratta di una novità di ri­lievo, di un atteggiamento mentale e di metodo che deriva dallo sviluppo delle scienze sperimentali; esso sostiene l’im­portanza della qualità e della quantità dei dati e delle prove per qualsiasi processo di conoscenza. E in effetti l’erudizione settecentesca diede un apporto rilevante alla crescita della cultura moderna ed ebbe un particolare peso nel campo del­la ricerca storica, poiché l’importanza attribuita alla docu­mentazione fece compiere un deciso passo in avanti verso una ricostruzione storica attendibile e scrupolosamente verificata. La testimonianza più grande, che sorprende anche per la mole di lavoro che l’ha prodotta, è l’opera di Ludovico An­tonio Muratori che raccolse nei 25 volumi dei Rerum italicarum scriptores, salvandole dalla dimenticanza, le «fonti» della storia medievale in Italia;
  • l’analisi della società e le scienze umane: nella produzione di trattati del Settecento si colgono bene le tendenze della cultura illuministica a spostare l’attenzione sull’analisi della realtà sociale e politica, sui comportamenti intesi come fenomeni sociali. Un tema centrale è rappresentato dall’economia ricondotta all’analisi delle leggi economiche e indagata nelle sue componenti come, ad esempio, la circolazione del denaro, il prestito, il credito finanziario, i problemi dello scambio e del mercato. Altri settori particolarmente studiati sono testimoniati dai trattati sulla superstizione e in difesa della ragione, dai trattati sull’ordina­mento giuridico e sulla pena di morte, dai trattati sul carat­tere e il ruolo dell’istruzione e sul concetto di «felicità pub­blica», vale a dire sulle possibilità di progresso e di migliora­mento delle istituzioni. A tutti questi vanno aggiunti i tratta­ti di letteratura tra i quali ha un posto di assoluto rilievo la Storia della Letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi.
·         Il romanzoNel corso del Settecento si consumò la cri­si dei generi narrativi in versi, in parti­colare scomparve il poema cavalleresco e il poema eroico; la lunga narrazione in versi di imprese straordinarie era ormai in aperta contraddizione con gli orientamenti della cultura e del gusto.
Il fenomeno segnò, in molte culture europee, il decollo del romanzo come genere narrativo di più facile lettura: nacque così e si diffuse con straordinaria varietà di generi e forme il romanzo moderno rivolto ad un pubblico di lettori non specialisti, i borghesi, che amano identificarsi con la fantasia nell’eroe o nell’eroina.
Il romanzo è un’opera di invenzione che si avvicina alla realtà: la vicenda narrata è articolata secondo nessi logico-temporali ed i personaggi sono spesso individui comuni con comportamenti che riflettono la mentalità degli ambienti rappresentati.
In questo secolo il romanzo divenne sempre più popolare, gli scrittori furono in grado di analizzare la società con sempre maggiore profondità e i romanzi rivelarono le condizioni di vita delle persone, schiacciate dai condizionamenti della società o impegnate a liberarsene. Alcuni scrittori inglesi svilupparono il genere, producendo modelli formali e strutturali destinati a influenzare tutta la narrativa europea e americana.
Nel corso del Settecento il romanzo, a seguito della grande diffusione e del successo di pubblico, andò sempre più differenziandosi in molteplici varianti o sottogeneri. Una caratteristica fondamentale del romanzo è infatti ciò che il critico russo Michail Bachtin ha definito enciclopedismo, la capacità cioè di assorbire al proprio interno ogni forma di sapere, ogni linguaggio e soprattutto ogni aspetto della realtà: la straordinaria novità del genere romanzo risiede nella sua plasticità e nel suo dinamismo, nel fatto di cambiare continuamente, contaminando e modificando anche i propri sottogeneri.
Fra i generi romanzeschi del XVIII secolo spicca quello allegorico-filosofico [[33]], quello  di impianto didattico-pedagogico [[34]], Il castello di Otranto del 1764 di Horace Walpole è il primo esempio di romanzo gotico[[35]]. Richardson inaugurò un nuovo modello narrativo, il romanzo epistolare [[36]], in cui la vicenda viene rappresentata indirettamente dal testo delle lettere scambiate tra due o più personaggi.
Questa proliferazione in Italia non av­venne infatti il romanzo fu il genere letterario per il quale più am­pia era stata la «distanza» fra l’Italia e l’Europa del Settecento. Si può parla­re di un vero ritardo culturale, determi­nato sia da situazioni sociologiche (scar­sità del pubblico dì lettori borghesi, debolez­za dell’industria editoriale), sia dalla forza di pregiudizi da parte di letterati che ritenevano il romanzo un genere minore, un ibrido non ben definito, dal­le riserve di intellettuali, ecclesiastici che ne indicavano la «pericolosità». Per questo la produzione di romanzi restò infatti limitata ad opere di basso profilo letterario e artistico.
·         Le ultime lettere di Jacopo Ortis – Soltanto alle soglie dell’Ottocento compaiono le Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, il primo ro­manzo che viene tradizionalmente accolto nella nostra storia letteraria.
La forma epistolare adottata da Foscolo si rifà a modelli narrativi rintracciabili nella Clarissa di Richardson, ne La Nuova Eloisa di Rousseau e nei Dolori del giovane Werther di Goethe, a cui Foscolo si ispira direttamente. I caratteri principali dell'Ortis sono:
  1. il motivo sentimentale: il romanzo indugia a descrivere i sentimenti personali del protagonista di fronte alla realtà;
  2. l'autobiografismo: il romanzo è espressione di una vicenda personale.
A differenza del Werher, nell'Ortis il motivo sentimentale si complica con la delusione politica, causata nella fattispecie dalla caduta di Venezia. La passione viene contrapposta all'intelletto governato dalla ragione; la natura diviene lo sfondo delle vicende umane. Il tono adottato è irruente, di sfogo.
Acquistarono invece un significativo rilievo le memorie e le autobiografie, fra le quali troviamo testi che possono essere considerati fra i capolavori del genere, come le Memorie inutili di Carlo Gozzi, veneziano, autore di testi teatrali che si opponevano alle proposte gol­doniane di una nuova commedia, fondatore di giornali, e le Memorie di Lorenzo Da Ponte, avventuriero, poeta, scritto­re, autore di famosi libretti musicati da Mozart.

15. Giuseppe Parini - Parini fu un grande poeta. Fu un rinnovatore della materia poetica e un artista capace di atteggiamenti assai disparati. Chi passa dall'Arcadia e dallo stesso Metastasio a Parini, si meraviglia che in quel secolo sia nato un poeta capace di tanta concretezza, e in campi del tutto ignoti alla poesia contemporanea. L'ambiente elegante è sottinteso in gran parte della lirica del tempo: solo in Parini è descritto. E la sua descrizione non è lo sforzo retorico della poesia didascalica del secolo; ma uno specchio luminoso e preciso. I salotti, i lunghi ordini di sale, gli scaloni, i mobili, gli arnesi e i ninnoli sono ora delineati con un pennello largo e sicuro, ora delimitati e intagliati dalla parola con un nitido rilievo: sicché anche l'ambiente materiale, che di solito è assente dalla poesia o è cosa morta, qui diventa, per questo sguardo attento e chiaro, vera e difficile poesia.
a) La vita - Giuseppe Parini nacque a Bosisio in Brianza nel 1729 da famiglia di umili condizioni e di scarsi mezzi economici (il padre era un modesto commerciante di seta). Poté lasciare il paese natale per compiere gli studi superiori a Milano solo per l’aiuto economico di una zia, che però condizionò l’appoggio che dava al nipote al fatto che egli si facesse prete. Così il Parini fu indotto ad accettare un orientamento di vita che sentiva poco congeniale alla sua natura. E benché abbia poi sempre vissuto la condizio­ne di prete con dignità ed onestà, è frequente nella sua poesia il rimpianto per gli affet­ti e per una vita familiare che non gli era stata concessa dalla sorte. Fu ordinato sacer­dote nel 1754. Coltivava intanto con passione lo studio dei classici e la poesia. Fin dal 1753 la notorietà acquisita con un volumetto di versi giovanili gli aveva consentito l’in­gresso nell’Accademia milanese dei «Trasformati», un ambiente che, pur nel culto del­la tradizione, era moderatamente aperto al nuovo pensiero illuministico. Qui frequentò al­cuni degli uomini più significativi del mondo culturale milanese.
Aggravatasi intanto, con la morte del padre, la condizione economica dei suoi, e co­stretto a provvedere anche alla vecchia madre, cercò lavoro in qualità di precettore - come era uso allora - presso famiglie nobili. Fu assunto in casa dei duchi Serbelloni, dove rimase per otto anni, dal ‘54 al ‘62; e successivamente (1762) in casa dei conti Imbonati, dove fu maestro di Carlo Imbonati cui dedicò la sua ode L’educazione. Questo periodo segnò profondamente il Parini uomo e poeta. Il suo lavoro lo metteva a contatto con quel mondo aristocratico che, se da una parte, con la sua raffinata ele­ganza, esercitava su di lui, per natura ammiratore del bello, un indubbio fascino, dall’altra suscitava il suo sdegno morale per la vita fastosa e oziosa che la maggior par­te dei nobili conduceva, per la superbia insolente del loro comportamento, la loro va­cuità intellettuale e l’insensibilità morale. È uno stato d’animo bivalente, di attrazione e di repulsione, in cui però la repulsione etica prevale, che troveremo presente anche nella sua opera maggiore, Il Giorno.
Fu proprio la pubblicazione delle prime due parti del Giorno, Il Mattino (1763) e Il Meriggio (1765), a richiamare sul Parini, oltre all’ammirazione degli ambienti letterari, anche l’attenzione del governo asburgico «illuminato», che intelligentemente cercava la collaborazione dei più capaci e colti fra i sudditi lombardi. Così il ministro plenipoten­ziario di Maria Teresa, il conte di Firmian, gli affidò prima la direzione della Gazzetta di Milano (1768), e successivamente (1769) lo chiamò a coprire la cattedra di eloquen­za, cioè di letteratura, nelle Scuole Palatine, trasformate poi nel Ginnasio di Brera. A questo incarico seguì più tardi l’ufficio di soprintendente delle scuole pubbliche. «Il piccolo abate plebeo - scrive il Sapegno - il povero e disprezzato pedagogo, era or­mai un letterato illustre e una figura importante nell’ambiente culturale di Milano, par­tecipe di ogni impresa od iniziativa letteraria o artistica, pubblica o privata». Lo scoppio della rivoluzione francese suscitò nel Parini, come in tanti altri spiriti pro­gressisti, la speranza che si instaurasse una società più giusta; ma gli sviluppi sanguino­si del movimento rivoluzionario lo riempirono di sgomento; le violenze del Terrore gli parve deturpassero, come egli stesso disse, una delle più nobili cause dell’umanità. Tuttavia, quando, nel 1796, i Francesi vennero in Italia con Bonaparte, accettò di col-laborare col nuovo governo: fece parte della Municipalità, e in essa rappresentò la ten­denza più equilibrata e moderata. Vi difese anche, con libertà di spirito e di parola, il diritto della Lombardia a darsi un’amministrazione autonoma, indipendente dalla Francia. Spiacque perciò ai Francesi occupanti, e fu rimosso dall’incarico. Morì nell’agosto del 1799, subito dopo il ritorno degli Austriaci in Milano.
b) Le opere - Lasciando da parte la sua produzione minore, ricordiamo le seguenti ope­re: il Dialogo sopra la nobiltà (1757), dove è sostenuto, con passione e impeto polemico, il principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini; il poemetto satirico in endecasillabi sciolti Il Giorno, di cui le due prime parti, Il Mattino e Il Meriggio, uscirono rispettivamente nel 1763 e nel 1765, e le ultime due, Il Vespro e La notte uscirono postume, l’ultima incompiuta; le Odi, che furono composte in tempi diversi, dal 1757 al 1795. I principi sul fine e sulla funzione della poesia furono esposti dal Parini in alcuni scrit­ti di riflessione estetica.
c) I fermenti illuministici lombardi e Parini - Negli anni in cui si formava e dava poi i suoi frutti la personalità del Parini, in Francia l’Illuminismo era giunto al suo periodo più maturo. Nel 1772 si concludeva la pubblicazione di quella summa del pensiero illumi­nistico che fu l’Enciclopedia.
Ma gli stimoli dell’Illuminismo erano già operanti anche in Italia (ne abbiamo visto la presenza nello stesso teatro goldoniano), e soprattutto in Lombardia, nel movimento che metteva capo all’Accademia dei Pugni e al periodico «II caffè». Anche il Parini sentì l’influenza delle nuove idee e concorse coi suoi scritti ad avvalo­rarle. Fra i temi proposti dal pensiero illuministico alcuni gli furono particolarmente congeniali: anzitutto il principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini e il rifiuto del pri­vilegio di nascita (e in questo caso l’Illuminismo si incontrava con quel cristianesimo cui egli fu sempre fedele); il principio della responsabilità sociale dell’individuo in quanto membro di una comunità, princìpio che sottintende una rigorosa disciplina eti­ca nella vita privata; e infine la funzione della cultura e in particolare della poesia, che, se deve dar diletto al lettore, deve anche e soprattutto educarlo, deve cioè agire positivamente all’interno della società,
Alla poesia del Marino che mirava a stupire il lettore, a quella frivola degli Arcadi, il Pari­ni sostituiva così una poesia che mirava « a render saggi e buoni i cittadini suoi ». L’Illuminismo del Parini fu sempre, come del resto tutto l’Illuminismo lombardo, assai moderato, lontano da posizioni estreme. La stessa polemica pariniana contro la no­biltà, che è motivo ispiratore del Dialogo sopra la nobiltà e del Giorno, non ha caratte­re eversivo, ma riformistico. Il Parini non mira a spazzar via questa corrotta e inutile classe sociale, come avrebbe poi fatto la Rivoluzione francese, ma a correggerne i difet­ti e a renderla migliore, così che potesse proficuamente agire nella vita pubblica insie­me e accanto all’emergente borghesia.
d) Il «lusinghevol canto» - In una delle Odi il Parini sostiene che il poeta quale egli lo
intende può considerarsi lieto della meta raggiunta quando «Putii unir può al vanto /
di lusinghevol canto».
Dalla funzione educatrice della poesia («l’utìl») egli giudica quindi inscindibile il pre­gio dell’arte, che da gioia e offre bellezza agli uomini (il «lusinghevol canto»), A differenza degli Illuministi del Caffè, che nei loro scritti puntavano esclusivamente sui contenuti e trascuravano la forma, il Parini della forma ebbe il culto, e la voleva esatta, nitida, elegante; e perciò sottopose sempre i suoi lavori a lunga e attenta riela­borazione. Maestri di bella forma giudicava i classici, soprattutto Orazio, che aveva esortato i poeti all’uso della lima, cioè all’attenta e paziente elaborazione formale. In que­sto senso Parini, illuminista di spiriti, fu partecipe delle istanze del movimento neoclassi­co.
e) Ispirazione e temi del «Giorno» - Come abbiamo detto, il Giorno è un vasto poema in endecasillabi sciolti, suddiviso in quattro parti: Mattino, Meriggio, Vespro e Notte. In questi quattro tempi della giornata il Parini immagina di accompagnare e guidare, in qualità di maestro, di «precettor d’amabil rito», un giovane patrizio, il «giovin Si­gnore».
Passa così davanti al lettore la giornata futile, vuota, di tanta parte della società aristo­cratica, la mancanza di ideali che la connota, la tronfia superbia e l’arida crudeltà. Nel Mattino la scena si concentra intorno al personaggio del «giovin Signore» intento alla lunga toilette, alle prime frivole occupazioni della giornata, circondato da una schiera di servi. Poi via via il paesaggio umano si dilata. Il giovin Signore si reca a pranzo dal­la dama di cui è «cavalier servente» (e la moralità del Parini si ribella a questa istitu­zione che corrode il matrimonio); e intorno alla tavola sono raccolti alcuni campioni curiosi di questa deteriore umanità. Nel Vespro la coppia è rappresentata durante la passeggiata al corso, nei suoi rapporti con gli altri aristocratici, che anch’essi non hanno altro scopo se non di farsi ammirare. La Notte infine, rimasta incompiuta, descrive un fastoso ricevimento nella casa di una nobile dama, ed è un largo affresco in cui si muove una società ormai decrepita, in preda a una noia che cerca invano di affogare in squallidi divertimenti e in hobbies maniacali.
Procedendo dalla prima all’ultima parte del Giorno muta la tecnica rappresentativa usata dal poeta: alla descrizione minuziosa e analitica del Mattino e del Meriggio si so­stituisce, nel Vespro e nella Notte, una rappresentazione più rapida, a pennellate sempre più larghe.
Musa del poema è l’ironia, qualche volta lieve, a volte dura fino al sarcasmo, là dove la coscienza morale offesa del poeta si rivela più risentita. Significativo in questo senso è l’episodio della «vergine cuccia».
Mentre Parini componeva il Giorno, la Rivoluzione francese spazzava via nel sangue la classe nobile. Forse per questo, perché cioè gli pareva di incrudelire contro chi aveva duramente pagato le sue colpe, il Parini non pubblicò le ultime due parti del poema, che, come abbiamo detto, uscirono postume.
f) Le Odi - Se nel Giorno il Parini denuncia quello che una società non deve essere, in 16 delle 19 Odi propone il modello di una società nuova e migliore. Fra di esse alcune sono particolarmente significative. Nella Salubrità dell’aria, metten­do Milano a confronto col suo salubre paese brianzolo, il Parini denuncia gli specula­tori che per lucro mettono a repentaglio la salute della città, circondandola di malsane risaie e marcite; descrive poi con un linguaggio nuovo, audacemente realistico, le intol­lerabili condizioni igieniche di cui è responsabile «l’inerzia privata», cioè il cieco assen­teismo dei cittadini che si disinteressano dei problemi della collettività; e infine afferma energicamente la funzione civile della poesia. Nell’Educazione delinea un equilibrato ideale pedagogico che mira a sviluppare armonicamente nei giovani la sanità fisica e quella morale, alimentata quest’ultima da una religiosità non formalistica ma interiormente vissuta. Nella Caduta esprime il suo sdegno amaro verso chi si prostituisce ai potenti, e, per avidità di successo o di ricchezze, viene a patti con la propria dignità e la propria onestà. Nell’ode Alla Musa infine, l’ultima in ordine di tempo, viene rappre­sentato l’ideale pariniano di vita: una esistenza misurata e serena, confortata dall’ami­cizia e dagli affetti familiari, improntata al vero, al giusto, al godimento onesto del bello. È questa l’unica forma di vita - afferma il Parini - dalla quale può nascere auten­tica poesia.
Carattere diverso hanno le tre odi Il pericolo, Il dono, Il messaggio, nelle quali il Pari­ni si abbandona alla contemplazione della bellezza femminile. Di esse la migliore è Il messaggio, in cui sono presenti toni nuovissimi, di intensa e suggestiva malinconia, quasi prefoscoliani.

16. L’arte nell’età napoleonica: il Neoclassicismo e il Preromanticismo - Nell’età napoleo­nica, accanto a un persistente e vigoroso filone culturale illuministico, vanno diffon­dendosi un gusto e una cultura neoclassici; mentre già si fa strada una sensibilità nuo­va, di tipo preromantico.
a) Il Neoclassicismo – Il Neoclassicismo che, come dice il nome, rappresenta un ritorno al mondo classico, fu originariamente un fenomeno germanico ed italiano. Trovò infatti il suo primo stimolo nell’interesse di alcuni studiosi tedeschi della seconda metà del Settecento (l’archeologo Winckelmann, il letterato Lessing) per l’arte antica, e incontrò fortuna soprattutto in Italia dove apparve come una difesa e una rivendicazione delle nostre tradizioni classiche.
Più tardi l’arte neoclassica, assunta ufficialmente alla corte di Napoleone, il quale si compiaceva di dare lustro al suo recente impero connotandolo con le forme classiche «imperiali», si diffuse per tutta l’Europa al seguito dei vittoriosi eserciti francesi.
·         Il «bello ideale» - Il Neoclassicismo nel campo delle arti figurative, dove si afferma più vigorosamente che altrove, propugna il perseguimento di un «bello ideale», cioè dì una bellezza intesa come pura armonia, che trascende la stessa bellezza naturale e che si identifica con le forme dell’arte classica, soprattutto greca (si pensi alle sculture di Canova, ai dipinti di Appiani); in letteratura sollecita un ritorno alle opere dei classi­ci, considerate modelli di perfezione.
Tuttavia la denominazione di Neoclassicismo è generica e comprende manifestazioni fra loro diversissime: dalle fantasie mitologiche di un Monti, alle immagini e figurazio­ni classiche di Foscolo maggiore, attraverso le quali questo poeta esprime una sensibi­lità appassionata e già di tono romantico.
·         Il «purismo linguistico» - In sede linguistica il neoclassicismo diede luogo al fenomeno del purismo, cioè a una difesa della purezza della lingua tradizionale contro le infil­trazioni straniere, soprattutto francesi.
b) Il preromanticismo - È prematuro qui parlare di romanticismo vero e proprio; infatti i primi documenti romantici in Italia saranno pubblicati solo nel 1816, e nei primi de cenni dell’Ottocento si spiega appieno l’attività del Manzoni, che è considerato il capo­scuola del romanticismo italiano. Tuttavia, questo scorcio di Settecento italiano e inizio di Ottocento può essere considerato preromantico perché vi si sente la presenza di una sensibilità nuova, connessa a quel movimento romantico già in pieno sviluppo in Ger­mania e in altri Paesi dell’Europa.
Così ad esempio sono preromantici certi atteggiamenti elegiaci, dolcemente malinconici, in cui alcuni poeti si adagiano; la predilezione per i paesaggi cimiteriali; il senso perenne d’esilio così vivo ad esempio nell’opera foscoliana; l’ansia di valori assoluti quali la bellezza, l’immortalità; la violenta lacerazione delle passioni.

17. Ugo Foscolo – Ugo Foscolo è stato il principale esponente letterario italiano del periodo, a cavallo fra Settecento e Ottocento, nel quale si manifestano o cominciano ad apparire in Italia le correnti del Neoclassicismo, del Preromanticismo e del Romanticismo. “Se Vincenzo Monti fu lo specchio dell'Italia fra i due secoli, Ugo Foscolo ne fu la coscienza”: con queste parole Attilio Momigliano inizia il capitolo dedicato a Foscolo nella sua Storia della Letteratura italiana, sintetizzando un giudizio complessivo sulla validità storica della presenza foscoliana.
a) La vita Nel 1778, Ugo Foscolo nacque a Zante, una delle isole Ionie, da padre veneziano, medico di vascello e da madre greca, primo di quattro fratelli.
Nel 1785 si trasferì con la famiglia a Spalato.
Nel 1789 la madre si trasferì a Venezia con i figli Rubina e Costantino, mentre Ugo e Gian Dionigi (Giovanni) rimasero a Zante, Giovanni presso la nonna materna e Ugo presso una zia.
Nel 1793, Foscolo, accompagnato dal Provveditore dell'isola, poté raggiungere la madre e i fratelli.
Nel 1795, Foscolo mutò il suo nome da Niccolò in Ugo e a Venezia, partecipò ad alcuni circoli culturali, conoscendo fra gli altri Pindemonte e Cesarotti: Venezia divenne la sua pa­tria politica, così come Zante rimase la sua patria sentimentale.
Nel 1796, Foscolo scrisse alcuni articoli sul Mercurio d'Italia che destarono i sospetti del governo veneto ed il giovane, per prudenza si rifugiò sui colli Euganei.
Nel 1797, venuto in sospetto del governo veneziano per le sue idee democratiche, si recò a Bologna, dove Bonaparte aveva costituito la Repubblica Cispadana, e si arruolò nell’esercito francese.
Nel 1797 si rifugia a Bologna per poco tempo; nel frattempo si svolge la prima rappresentazione del Tieste.
Il 12 maggio 1797 il doge Ludovico Manin e il Maggior Consiglio furono costretti da Napoleone ad abdicare, per proclamare il Governo Provvisorio della Municipalità di Venezia. Caduto il governo oligarchico e costituito il nuovo governo giacobineggiante, Foscolo ritornò a Venezia e partecipò intensamente alla vita politica della città, ma ne ripartì nell’ottobre del 1797, quando, col trattato di Campoformio, Bonaparte cedette Venezia all’Austria: Foscolo giudicò questo trattato un tradimento delle spe­ranze di libertà degli Italiani. Il 17 ottobre del 1797 il giovane Foscolo, sdegnato, si dimise dagli incarichi pubblici e partì in volontario esilio per Milano, dove conobbe Parini.
Nel 1798, Foscolo si trasferì a Bologna: Iniziò le stampe del romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis che dovette interrompere per l'occupazione di Bologna da parte degli Austro-Russi, che avevano invaso l’Italia durante l’assenza di Bonaparte per la campagna in Egitto nell'aprile del 1799.
Negli an­ni 1799-1800 Foscolo combatté, come ufficiale dell’esercito francese, contro l’Austro-Russi.
Nel 1804, Foscolo fu a Boulogne-sur-mer, sulla Manica, col corpo di spedizione là inviato da Napoleone con l’intenzione di invadere l’Inghilterra.
Nel 1805, Foscolo ritornò in Italia: all’intensa vita politica e militare si accompagnava una altrettanto intensa attività letteraria. Durante questi anni Foscolo scrisse un romanzo epistolare, le Ulti­me ledere di Jacopo Ortis, due odi, 12 sonetti.
Nel 1806, Foscolo scrisse il carme dei Sepolcri, poi pubblicato nel 1807, e L’Esperimento di traduzione dell’Iliade, in collaborazione con l’amico Vincenzo Monti.
Nel 1807, Foscolo si trasferì in Francia dove ebbe una relazione con giovane donna inglese dalla quale nacque Floriana.
Nel 1808, a Foscolo fu affidato l’insegnamento di letteratura italiana presso l’Università di Pavia, insegnamento che tenne per un anno.
Lo troviamo successivamente a Milano,
Poi a Firenze, dove dal 1811 al 1813 lavorò prevalentemente al Carme delle Grazie.
Nel 1813, ca­duto Napoleone con la battaglia di Lipsia, Foscolo, non volendo accettare le profferte di lavoro fattegli dagli Austriaci sopravvenuti, preferì l’esilio all’asservimento del suo pensiero e della sua opera di scrittore.
Il 31 marzo del 1815, Foscolo lasciò l'Italia e prese la via del volontario esilio per rifugiarsi a Hottinger, in Svizzera, dove pubblicò l’Ipercalisse, satira in latino contro gli avversari letterari.
Il 12 settembre 1816, Foscolo giunse a Londra dove trascorse l'ultimo periodo della sua vita fra gravi difficoltà economiche e morali, dedicandosi all’attività pubblicistica e in particolare alla critica letteraria,
Nel 1825 scrisse il Discorso sul testo della Divina Commedia.
Nel 1827, Foscolo morì nel piccolo sobborgo londinese di Turnham Green, ammalato di idropisia.
I suoi resti furono traslati nella chiesa di Santa Croce a Firenze, da lui nominata nel carme Dei Sepolcri nel 1871.
c)      Foscolo tra Illuminismo, Neoclassicismo e PreromanticismoVissuto alla confluenza di tre grandi movimenti, l’illuminismo ormai maturo, il romanticismo in via di affer­mazione, il neoclassicismo, Foscolo ne assorbì variamente le influenze, preso dagli influssi europei del filosofo francese Jean-Jacques Rousseau e del poeta tedesco Goethe, che insieme concorsero a formare la sua originale personalità.
Illuminista come formazione filosofica, egli apprezzò la ragione come il maggior stru­mento conoscitivo; era inoltre illuministicamente convinto che, dopo la morte, l’indivi­duo non sopravvive in una trascendenza, e che tutti torniamo materia alla materia, partecipando al ciclo meccanico di trasformazione che la materia subisce.
Romantico di temperamento, sostenne il valore del sentimento accanto a quello della ragione. Nacque di qui il suo mito delle «illusioni», che nel sentimento trovavano giustificazione e appog­gio: prima fra tutte le illusioni che l’uomo e i suoi valori positivi non muoiono del tutto se possono sopravvivere nel ricordo dei superstiti.
Classico di cultura e di gusto, tra­dusse la sua sensibilità di uomo moderno nelle forme e nei miti della tradizione, che ne erano così rinnovati e attualizzati; e in questo senso può essere definito neoclassico.
d)     Poesia e vita - L’opera di Foscolo è strettamente legata alle sue esperienze biografiche, e in essa è costante il rapporto fra poesia e vita, e di conseguenza fra poesia e società.
Accanito lettore dei classici e seguace del materialismo illuminista, Foscolo sin dai precoci inizi letterari si distinse per l’attenzione alle problematiche più discusse, aderendo ai programmi di rivoluzione ed oscillando fra odio ed amore per i Francesi e soprattutto per Napoleone: nel 1796 scrisse le Odi A Bonaparte e Ai novelli Repubblicani, ora acclamato come salvatore dalla patria; ora additato come traditore delle speranze democratiche, ora incitato a farsi leale garante della libertà italiana.
Proprio da uno spunto politico nasce l’opera Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis, di carattere chiaramente autobiografico.
In questo romanzo Foscolo disegna la figura del patriota deluso, che va in esilio ed è pronto a morire per la propria patria. Jacopo Ortis è un eroe preromantico, che aspira alla libertà della patria, ma quando questo sogno si infrange, decide di togliersi la vita.
In questo romanzo già si ritrovano molte caratteristiche del giovane Foscolo: gli stessi temi trattati nel romanzo, come l’amor di patria, l’esilio, l’importanza della sepoltura, il significato delle tombe, sono rintracciabili nelle sue opere, nelle Odi, nei Sonetti, nei Sepolcri e nelle stesse Grazie.
e)      L’impegno politico e il ’liberal carme’ - Un aspetto fondamentale di questo costante rapporto con la vita è l’impegno politico foscoliano.
Se Monti ebbe un interesse tutto superficiale per le vicende storiche del suo tempo, e le considerò solo motivi occasionali per suoi versi, l’atteggia­mento foscoliano è invece dì autentica partecipazione e di responsabile coinvolgimento.
Vissuto in un periodo complesso e drammatico della storia europea, in quell’età napoleonica, che segnò la linea di demarcazione fra le rivoluzioni con cui si chiudeva il Settecento e la Restaurazione che trionfò nella Santa Alleanza e nel Congresso di Vien­na, egli vi prese una lucida e decisa posizione politica. Fra i due blocchi che si contrap­ponevano in Europa, l’uno aggregato intorno alla Francia, che, pur fra deviazioni, ri­torni ed abusi, portava avanti le idee progressiste ereditate dalla Rivoluzione del 1789, e l’altro capeggiato dall’Austria, che rappresentava l’immobilismo e la conservazione, scelse senza incertezze il primo. Si arruolò, di conseguenza, nell’esercito napoleonico e vi militò fino alla caduta di Napoleone.
Dopo questo evento nel 1813, rifiutò di mettere la sua attività di scrittore al servizio dell’Austria, succeduta alla Francia nel dominio del nostro Paese, nonostante le lusinghe del governo austriaco e nonostante i pericoli che tale rifiuto comportava e che lo costrinsero all’esilio.
Perché, Foscolo sosteneva, se il poeta deve essere politicamente impegnato, deve, però mantenersi libero nei confronti del potere politico; la sua poesia non deve essere contaminata dal servilismo e dall’adulazione. Perciò, pur avendo sostanzialmente dato la sua adesione alla Francia e all’indirizzo politico che essa rappresentava, egli non esitò a denunciare con veemenza gli abusi delle milizie francesi in Italia, e soprattutto alzò la voce contro Napoleone, quando gli parve che con la sua politica avesse tradito le speranze di indipendenza degli Italiani in seguito alla forte delusione verso Napoleone che, in nome di un freddo calcolo politico, cedette Venezia, da sempre libera repubblica, all’Austria.
Questa autonomia di giudizio e di parola, che egli pagò di persona prima con l’emarginazione nella sua carriera di ufficiale napoleonico e poi con l’esilio, fu da lui ripetutamente rivendicata nei suoi versi.
Nei Sepolcri egli definisce orgogliosamente liberal carme la sua poesia e chiama vergini, cioè incontaminate, le Muse che l’hanno ispirata.
f)        La funzione immortalatrice della poesia - La poesia, nel pensiero foscoliano, consente all’uomo e ai valori che gli sono cari di sfuggire alla distruzione operata dal tempo e di vincere la morte.
È un tema ricorrente nei versi di Foscolo e che ha il suo più notevole svolgimento nei Sepolcri, scritto come risposta all’editto napoleonico di Saint-Cloud che decretava i cimiteri fuori dei centri abitati, ma soprattutto stabiliva che le tombe dovevano essere uguali e non portassero il nome dei defunti.
Nei Sepolcri egli afferma che le glorie dei grandi uomini otterranno l’immorta­lità, se affidate prima alla memoria tramandata dai sepolcri e successivamente alla poesia, che non è sottoposta all’erosione del tempo che distrugge anche i sepolcri. In uno dei passi più alti del carme il poeta immagina che sui sepolcri degli eroi, distrutti dal tempo, si levi il canto delle Muse, che raccolgono ed eternano le memorie fi­no a quel momento conservate dai sepolcri.
g)      Altri temi della poesia foscoliana - Oltre a questo, che è il tema centrale della poesia foscoliana, altri ne ricorrono frequentemente, di volta in volta accennati, ripresi, ampiamente svolti. Ricordiamo fra i più insistiti e suggestivi:
  • l’attrazione per la morte e il richiamo della vita;
  • la bellezza femminile ristoro unico ai mali;
  • la passione politica;
  • il perenne senso di esilio;
  • il rimpianto per Zacinto, l’isola greca natale, e per la sua lu­minosa bellezza;
  • la funzione civile della poesia;
  • il sepolcro come collegamento fra i vivi e i morti, come segno di civiltà e come conservazione di grandi memorie.

6. Restaurazione, Romanticismo e Risorgimento
1. Il congresso di Vienna: il mercato dei popoli - La sconfitta di Napoleone era avvenuta nel segno del nascente sentimento nazionale: la Rivoluzione francese lo aveva suscitato affermando il principio dell’autodecisione dei popoli, Napoleone lo aveva calpestato nella costruzione del suo impero personale e familiare.
Il congresso di Vienna, riunitosi in seguito alla sconfitta napoleonica a Lipsia, era stato cieco di fronte a questa realtà e l’ordine europeo fu da esso concepito in funzione dell’interesse delle grandi potenze e i popoli furono considerati merce di scambio. Il congresso ebbe il compito di stabilire un equilibrio nell’Europa devastata dagli eserciti napoleonici e vi presero parte decine di delegazioni, ma lo dominarono Metternich, rappresentante dell’impero d’Austria, lo zar Alessandro I, Castlereagh, ministro inglese, e Tayllerand, il plenipotenziario francese che riuscì a far passare l’idea che la Francia e Luigi XVIII erano «vittime» di Napoleone.
a)      La Restaurazione - Il congresso di Vienna volle dare l’idea di agire in nome dei popoli e delle nazioni, fissando princìpi ideali ai quali ispirarsi, come quello di legittimità: quanto fatto dalla rivoluzione e da Napoleone erano infatti violazioni dei diritti dei sovrani e dei popoli, e occorreva perciò ripristinare quei diritti; su questa base furono rimesse sul trono le vecchie dinastie. Lo zar Alessandro, pervaso da un atteggiamento mistico, propose una Santa alleanza che impegnasse tutte le potenze a sorvegliare sui popoli e imporre una pace fondata sui princìpi cristiani; l’Inghilterra rifiutò di farne parte e Metternich trasformò il progetto in impegno di reciproca assistenza militare fra Austria, Prussia e Russia per soffocare eventuali nuove rivoluzioni. Col congresso di Vienna la carta d’Europa non fu sconvolta, caso mai fu riportata alla situazione precedente le grandi campagne napoleoniche e si chiuse con la convinzione dei partecipanti di aver dato un assetto durevole al vecchio continente. Nonostante i suoi limiti il congresso di Vienna rimane tuttavia un fatto importante nella storia: inaugurò infatti la stagione delle grandi «conferenze» fra potenze che dura ancora oggi; l’obiettivo è sempre lo stesso e, forse, potremmo dire, identica l’illusione che, se le grandi potenze che dominano il mondo si mettono d’accordo, possano creare un «ordine internazionale garantito dalla loro forza» che instauri una situazione di pace.
b)      Debolezza interna della Restaurazione - La restaurazione progettata dal congresso di Vienna si rivelò un «ordine» destinato a non durare. In primo luogo c’era una diversità fra le potenze europee: la Russia viveva la contraddizione fra modernità e concezione autocratica (divina e assoluta) del potere dello zar; l’impero d’Austria spendeva le sue forze per mantenere un posto di rilievo in Germania e il dominio su molte nazioni (slavi, ungheresi, italiani, croati, polacchi, ecc.); la Prussia seguiva una strada efficace di modernizzazione e di egemonia sul mondo tedesco basata sulla forza militare. Con queste potenze poco avevano da spartire l’Inghilterra, già avviata da tempo a rafforzare il regime parlamentare e liberale, e la Francia, che non poteva eliminare con un colpo di spugna le abitudini di vita civile e politica assunti dalla rivoluzione in poi: la spaccatura in Francia si rese infatti subito evidente con la rivoluzione di luglio del 1830, quando il popolo e le classi borghesi si ribellarono al tentativo di Carlo X di imporre una monarchia assoluta: al suo posto fu instaurata la monarchia costituzionale di Luigi Filippo; il fronte delle potenze vincitrici di Napoleone era di fatto rotto: da una parte le monarchie assolute, dall’altra Francia e Inghilterra. In secondo luogo, accanto a queste grosse diversità fra le varie potenze il dispregio delle aspirazioni nazionali suscitò agitazioni, insurrezioni e rivoluzioni che avrebbero portato al crollo dell’assetto stabilito a Vienna e al sorgere di nuovi stati nazionali: la Grecia, il Belgio, l’Italia, la Germania; mentre la Polonia, l’Ungheria e gli Stati baltici dovranno attendere la prima guerra mondiale per raggiungere l’indipendenza. L’assetto dato all’Europa dal congresso di Vienna non teneva conto delle aspirazioni dei popoli all’unità nazionale e all’indipendenza, e fu ben presto scosso da moti rivoluzionari che esplosero in varie parti del continente. Tuttavia, grazie agli sforzi della Santa Alleanza, esso poté essere faticosamente mantenuto fino quasi alla metà del secolo, e costituì il quadro entro il quale le maggiori potenze (soprattutto l’Inghilterra e la Francia) si avviarono a un rapido sviluppo economico e industriale. Assai più lento e contrastato fu il cammino dei paesi come la Germania e l’Italia, frazionate in molti staterelli e sottoposte all’egemonia diretta o indiretta dell’Austria. Qui la via del progresso economico e civile passava necessariamente per l’unificazione nazionale e poteva essere imboccata solo dopo lunghe e difficili lotte.
c)      I primi moti per la libertà - Nonostante la rivoluzione americana e quella francese avessero affermato i diritti dell’uomo alla libertà e all’uguaglianza di fronte alla legge, i sovrani rimessi sul trono dal congresso di Vienna nel 1815 ripresero a governare in generale come sovrani assoluti e restaurarono i privilegi della nobiltà. Contro questi sovrani, nei diversi Stati europei, gli uomini più aperti e animati da idee innovatrici si batterono con accanimento per strappare loro non solo l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e le libertà di parola, di stampa, di associazione, ma anche la partecipazione alla formazione delle leggi dello Stato, mediante l’elezione di propri rappresentanti alle assemblee legislative (parlamenti). In una parola, chiedevano la costituzione o carta o statuto: un documento scritto, che doveva valere come legge suprema dello Stato, con il quale il sovrano concedeva questi diritti e si impegnava a rispettarli. Coloro che si batterono in favore delle libertà individuali e della costituzione, furono detti liberali. Si trattava in genere di borghesi, cioè di intellettuali, commercianti, professionisti, oppure degli elementi più avanzati e aperti dell’aristocrazia; le masse popolari, condizionate dalla propaganda reazionaria e dall’ignoranza, erano ancora assai arretrate e non potevano ancora manifestare esigenze di progresso sociale e politico. Sul modo di partecipare al potere politico i liberali non erano però tutti d’accordo. Alcuni, i moderati, volevano una costituzione sul tipo di quella inglese, con un parlamento eletto dalla parte più ricca della popolazione. Altri, i cosiddetti democratici, volevano una vera e propria democrazia sul tipo di quella espressa dalla rivoluzione francese, con un parlamento eletto, senza distinzioni, da tutti i cittadini. Nei paesi soggetti a un sovrano straniero, la lotta dei liberali divenne anche lotta per l’indipendenza nazionale. In Italia i liberali si mossero in diverse direzioni; da un lato svolsero attività cospirativa per tentare, con l’insurrezione armata, di costringere i sovrani a concedere la costituzione; dall’altra presero iniziative culturali, fondando giornali e riviste per diffondere le loro idee, e iniziative pratiche, adoperandosi, soprattutto nell’Italia settentrionale, per apportare le più urgenti riforme in ogni campo, per migliorare l’agricoltura e l’industria e fondare nuove scuole.
d)     Il 1848: una grande rivoluzione europea - Il 1848 segna una svolta nella storia d’Europa; in quell’anno un’unica grande rivoluzione, di carattere nettamente liberale, scuote tutta l’Europa; i popoli insorgono contro i sovrani o per riscattare una condizione di miseria e di oppressione sociale (così in Francia), o per realizzare le proprie aspirazioni alla libertà, all’indipendenza e all’unità nazionale (così in Germania e nei Paesi dell’impero asburgico, tra cui l’Italia). Si trattò, quindi, di una rivoluzione europea, che nasceva da esigenze comuni. Per comprendere la vastità e la rapidità del grande incendio rivoluzionario che avvolse l’Europa nel 1848-49 occorre tener presente innanzi tutto che lo sviluppo economico e sociale, realizzato in Europa nei decenni precedenti, aveva reso la sistemazione politica fissata dal congresso di Vienna sempre più insoddisfacente e inadeguata alle nuove esigenze dei popoli. Inoltre, proprio negli anni immediatamente precedenti il 1848 c’era stata una grande carestia per lo scarso raccolto di frumento e di patate (in Irlanda oltre mezzo milione di persone erano morte di fame), e nel 1847 si era avuta una crisi nel settore dell’industria che aveva prodotto fallimenti, disoccupazione e miseria. Se comuni all’intera Europa erano le condizioni di crisi e di disagio economico, diversi, almeno in parte, erano nei singoli paesi i problemi da risolvere. Nei paesi industrialmente più progrediti dell’Europa occidentale (come la Francia e le regioni renane in Germania), le rivendicazioni liberali si intrecciavano con le richieste del proletariato. Le condizioni di sfruttamento cui erano sottoposti e il diffondersi delle idee socialiste, spingevano infatti i proletari all’azione politica. Nel centro-sud del continente europeo, invece, gli obiettivi della rivoluzione furono essenzialmente di tipo nazionale e liberale; e le principali forze che la mossero furono la borghesia evoluta e il ceto intellettuale. In Italia, in Germania, in Ungheria si lottò per conseguire l’unificazione politica e l’indipendenza da un governo straniero, oltre che per ottenere quelle riforme costituzionali che garantissero le libertà fondamentali e i diritti dei cittadini. L’ondata rivoluzionaria investì nel febbraio del 1848 la Francia, dove al governo sempre più reazionario di Luigi Filippo, repubblicani e democratici risposero cacciando il re e costituendo un governo provvisorio, presieduto dal poeta Lamartine, al quale parteciparono anche i socialisti, tra cui Louis Blanc. L’Assemblea eletta a suffragio universale per dare alla Francia una costituzione repubblicana risultò tuttavia composta in maggioranza di moderati e conservatori; il proletariato, deluso nelle sue speranze, reagì con l’insurrezione che tuttavia venne soffocata nel sangue dalle truppe regolari del generale Cavaignac. In dicembre Luigi Napoleone Bonaparte fu eletto presidente della repubblica. Nell’impero asburgico le rivendicazioni ebbero carattere liberale e nazionale: oltre alle riforme e alla costituzione si chiedeva da parte dei popoli soggetti una maggiore autonomia dal governo austriaco. In marzo scoppiarono tumulti a Vienna e Metternich fu costretto ad abbandonare l’incarico. Contemporaneamente a Praga e a Budapest si costituirono governi provvisori. Nonostante le pro messe iniziali della monarchia austriaca, le insurrezioni di Vienna e di Praga furono rapidamente domate e anche in Ungheria, malgrado l’eroica resistenza dei patrioti, venne ristabilito l’ordine con l’aiuto dello zar di Russia (agosto 1849). Nella Confederazione germanica [[37]], dove in quegli anni si era andata affermando la potenza della Prussia, scoppiarono nel marzo del ‘48 in vari Stati numerose insurrezioni che costrinsero i principi a concedere riforme e a indire un’assemblea di rappresentanti di tutti gli Stati per elaborare una nuova costituzione. L’Assemblea si riunì a Francoforte e decise di dar vita a una nuova Confederazione germanica, di cui fu offerta la corona al re di Prussia. Ma questi, temendo l’ostilità dell’Austria, esclusa dalla Confederazione, rifiutò l’offerta e fece sciogliere l’Assemblea. A poco più di un anno dall’inizio dei moti rivoluzionari, la vittoria delle forze conservatrici appariva completa. Nel 1849 Austria, Prussia e Russia riuscirono a soffocare le rivoluzioni, ma l’Europa del congresso di Vienna era ormai morta: in realtà, gli avvenimenti del 1848 avevano recato un grave colpo al prestigio delle monarchie europee, costringendole a scendere a patti con le borghesie nazionali e in un caso almeno, quello francese, a capitolare. Il processo di rafforzamento della Prussia da un lato, e di disgregazione dell’impero asburgico dall’altro, sebbene momentaneamente fermato, era destinato a continuare e ad aggravarsi. Per la prima volta nella storia, masse di uomini ispirate da un programma e da una fede socialista avevano combattuto per le strade a fianco dei liberali e dei repubblicani. «Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo»; con queste parole si apriva il Manifesto del Partito Comunista [[38]] pubblicato da Marx e Engels al principio del 1848. Se dalle prove del 1848 queste nuove forze uscivano indubbiamente sconfitte, grandi paassi avanti erano stati fatti nell’elaborazione di quella dottrina socialista che nei decenni successivi era destinata ad avere un peso sempre maggiore nella storia europea.

2. Fasi del Risorgimento italiano [[39]] – Il processo di formazione dello Stato nazionale italiano (1815-61) va sotto il nome di Risorgimento, inteso non come riconquista di una unità politica, mai esistita nel nostro Paese, ma come rinascita dell’Italia alla libertà, all’indipendenza, alla dignità di nazione, così da colmare il distacco che la separava dai maggiori Stati europei.
Nel Risorgimento possiamo distinguere le seguenti fasi:
a)      I moti carbonari - I primi tentativi di mutare la situazione determinata in Italia dal congresso di Vienna furono opera delle società segrete e in particolare della Carboneria, che fu l’artefice dei moti del 1820-1821 nel Napoletano e nel Piemonte. L’obiettivo dei patrioti era di ottenere dai prìncipi una moderata costituzione. Dopo un iniziale successo, i moti fallirono per l’intervento dell’Austria. Nel Lombardo Veneto non si arrivò neppure all’azione perché le congiure furono preventivamente scoperte e i patrioti incarcerati (tra questi Pellico). Nel 1831, sull’onda del felice esito della Rivoluzione francese del 1830, scoppiò a Modena un moto, che si allargò a parte dell’Emilia e fu soffocato militarmente, anche questa volta dall’Austria.
b)      La «Giovine Italia» e i moti mazziniani - I Carbonari fallirono nel loro intento per tre motivi fondamentali: perché avevano confidato nella solidarietà dei sovrani, che invece li tradirono (Ferdinando I a Napoli, Carlo Alberto in Piemonte, Francesco IV a Modena); perché si erano proposti finalità solo locali, senza coordinare i vari moti; perché, per segretezza, mancavano di comunicazione col popolo. Sono queste le critiche che Giuseppe Mazzini [[40]], carbonaro egli stesso, mosse alla Carboneria. Di conseguenza egli fondò una nuova società, la Giovine Italia [[41]], che, facendo leva sulle forze di tutto il popolo, mirava a costituire uno Stato unitario, libero, indipendente, repubblicano. La Giovine Italia organizzò una serie di moti, caratterizzati tanto dalla generosa disponibilità al sacrifico dei loro protagonisti, quanto da una mancanza di realismo destinò al fallimento: è del 1834 il tentativo di far sollevare il Regno di Sardegna con l’invasione della Savoia e la contemporanea sollevazione di Genova; è del 1844 lo sbarco in Calabria dei fratelli Bandiera per far insorgere le popolazioni del Napoletano. Tutti falliti.
c)      Le proposte moderate – L’insuccesso dei moti mazziniani e il radicalismo della Giovine Italia, che turbava particolarmente la coscienza dei liberali cattolici, favorì il tramonto del mazzinianesimo e il rafforzarsi di una corrente moderata che si attestò sostanzialmente su tre posizioni:
·         il neoguelfismo di Gioberti [[42]], autore del Primato morale e civile degli Italiani del 1843, per il quale la soluzione del problema italiano stava in una federazione di principi sotto la presidenza del Pontefice e nella concessione di limitate riforme liberali;
·         la soluzione filosabauda di Cesare Balbo [[43]], autore di Le speranze d’Italia del 1844, che proponeva anch’egli una federazione italiana sotto la presidenza del re di Sardegna, dalla quale però doveva essere esclusa l’Austria, compensata con territori nei Balcani;
·         la proposta filosabauda di Massimo D’Azeglio [[44]] negli Ultimi casi di Romagna del 1846, che sottolineava la necessità di cacciare l’Austria anche con le armi, fidando nell’esercito piemontese.
d)     Un posto a sé occupò il gruppo federalista repubblicano, nel quale primeggiava Carlo Cattaneo[45]. Poiché avversava le posizioni neoguelfe, questa corrente fu chiamata neo-ghibellina.
e)      Le riforme e la concessione delle Costituzioni - Le teorie del Gioberti ebbero larga diffusione fra gli spiriti moderati, che desideravano una soluzione non traumatica del problema politico italiano. L’elezione al pontificato di Pio IX Mastai Ferretti, le riforme concesse prima da lui e poi dagli altri principi, il progetto di un’unione doganale tra il Papa, il re di Sardegna e il granduca di Toscana, fecero credere che la federazione auspicata da Gioberti stesse per realizzarsi. Il processo riformistico, avviatosi con un’intesa fra prìncipi e popolazioni, si concluse con la concessione di Costituzioni in tutti gli Stati: concessione che fu però subìta dai prìncipi con riluttanza e sotto la pressione del popolo.
f)       La rivoluzione del ‘48 in Italia e la prima guerra d’indipendenza - Come conseguenza dell’insurrezione parigina, scoppiarono disordini a Berlino, Vienna e in altre città. Su questi moti si innestò la prima guerra di indipendenza contro l’Austria, capeggiata, pur dopo molte sue incertezze, da Carlo Alberto. La partecipazione di truppe provenienti dalla Toscana, da Napoli, dallo Stato Pontificio smbrò trasformare la guerra regia in una guerra nazionale per l’indipendenza della penisola. Sembrava avverarsi la tesi sostenuta da D’Azeglio: Carlo Alberto, con l’aiuto degli altri prìncipi, avrebbe cacciato l’Austria, dando vita a una federazione di Stati con costituzioni liberali.
g)      Il 1849 e la ripresa del mazzinianesimo - La sconfitta finale di Carlo Alberto a Novara nel 1849, rimasto solo dopo il ritiro dalla guerra degli altri prìncipi italiani, segnò la momentanea eclissi del programma moderato. Per contraccolpo si affermarono governi radicali di ispirazione mazziniana: in Toscana con Guerrazzi; a Roma, dopo la fuga del Papa, fu proclamata una repubblica al cui governo partecipò lo stesso Mazzini e la cui difesa fu demandata al mazziniano Garibaldi; a Venezia, fu proclamata la Repubblica democratica di San Marco. La difesa di Roma e di Venezia (che caddero dopo strenua resistenza), nel loro disperato eroismo e nel lucido olocausto di giovani patrioti, fu la più alta testimonianza del valore morale, religioso, che la causa italiana aveva assunto grazie anche alla predicazione di Mazzini.
h)      Il Piemonte si prepara a diventare lo Stato-guida (1849-1858) - Mentre la reazione imperversava negli Stati italiani, il Piemonte, il cui re, Vittorio Emanuele II, aveva mantenuto la Costituzione emanata da Carlo Alberto, e che era diventato rifugio di esuli e perseguitati, richiamò su di sé le speranze dei liberali italiani. Tanto più che, per l’opera soprattutto di Cavour diventato primo ministro (1852), il Piemonte si avviava ad assumere in campo politico, economico e sociale, la fisionomia di uno Stato moderno. Cavour riuscì, con la partecipazione alla guerra di Crimea e il successivo congresso di Parigi, a fare del problema italiano un problema europeo e a trovare consensi e alleanze militari per la sua azione contro l’Austria. La reviviscenza del mazzinianesimo che si manifestò in attentati e moti ed ebbe la sua espressione più rilevante nella spedizione di Sapri, fornì a Cavour motivi per sollecitare la soluzione del problema italiano.
i)        Il 1859 e la seconda guerra di indipendenza - La politica italiana è ormai nelle mani di Cavour, che nel 1859 tira le fila della trama precedentemente ordita: stretta un’alleanza con Napoleone III, desideroso di sostituire in Italia il predominio francese a quello austriaco, Cavour affronta l’Austria (seconda guerra di indipendenza) e ottiene, se non tutto il LombardoVeneto, almeno la Lombardia. Il dilagare dei moti filosabaudi nell’Italia centrale e la conseguente cacciata dei prìncipi, consente di annettere al Piemonte anche la Toscana e l’Emilia-Romagna.
j)        La spedizione garibaldina - Nell’impresa dei Mille che portò a una rapida occupazione della Sicilia e del Napoletano, si manifestò in modo quasi emblematico l’opposizione fra le due anime del Risorgimento: quella mazziniano-popolare e quella sabaudo-piemontese. La spedizione dei Mille, nonostante i proclami di lealtà di Garibaldi a Vittorio Emanuele, fu di chiara ispirazione mazziniana, sia per gli uomini che la costituirono, sia per il suo porsi al di fuori della politica diplomatica del Cavour. E del resto Mazzini aveva raggiunto Garibaldi a Palermo. Se l’impresa avesse potuto raggiungere indisturbata le mete che si prefiggeva, avrebbe dovuto concludersi con la convocazione di un’Assemblea Costituente, cui sarebbe spettato di decidere l’assetto da dare al nuovo Stato nazionale; Garibaldi inoltre non si sarebbe fermato a Napoli, ma avrebbe proseguito sino alla liberazione di Roma. Timoroso di questi sviluppi istituzionali e delle complicazioni interne ed estere che essi potevano portare (la rottura con la Francia), Cavour fece intervenire l’esercito regio e raccolse politicamente i frutti dell’impresa garibaldina. La Sicilia, il Napoletano, e le Marche (già appartenenti allo Stato Pontificio) furono così annesse al Piemonte mediante il solito plebiscito. Roma e il Lazio rimasero al Pontefice.
k)      1861: la proclamazione del Regno - Si era costituito un nuovo Stato: a Torino il primo Parlamento italiano, cui partecipavano rappresentanti di tutte le regioni annesse, ne prendeva atto, proclamando Vittorio Emanuele II «per grazia di Dio e volontà della Nazione, Re d’Italia» In un tempo brevissimo - dall’aprile del ‘59 all’ottobre del ‘60 - si era realizzata l’unità politica della penisola, spezzata dai tempi dell’invasione longobarda (VI secolo). Vi concorsero più fattori: la preparazione spirituale di una generazione che Mazzini aveva formata al culto del sacrificio per la causa nazionale; l’iniziativa popolare di stampo mazziniano prevalente nella spedizione dei Mille; la maturazione dell’idea unitaria grazie all’influsso dei pensatori moderati che avevano reso il problema italiano oggetto di pubblico dibattito; l’azione politico-militare del Regno di Sardegna e in particolare di Cavour, che seppe cogliere un complesso di circostanze favorevoli presenti nella politica internazionale. La soluzione cui si pervenne - la costituzione di un nuovo Stato, che nasceva per annessione al Piemonte dei territori degli Stati preesistenti, tramite plebisciti - privilegiava il momento sabaudo.
La proclamazione del nuovo sovrano «per grazia di Dio e per volontà della Nazione» accentuava questo aspetto, dando la preminenza al diritto divino sulla designazione popolare; il titolo di «secondo» che Vittorio Emanuele volle mantenere, mirava a far prevalere il carattere di continuità col precedente regno sabaudo. Erano fatti che sottolineavano la piemontizzazione dell’Italia, dando ragione a Mazzini che, al metodo delle annessioni per plebiscito, aveva sempre contrapposto quello della convocazione di una Assemblea Costituente che definisse l’assetto istituzionale del nuovo Stato nazionale. Si sarebbe, così, evitata l’impressione (e il fatto) di una aggregazione dall’esterno, quasi di una conquista, in luogo di una creazione popolare. E questo fatto avrebbe avuto le sue conseguenze.

3. Il Romanticismo - La civiltà europea della fine del Settecento e di buona parte dell’Ottocento è caratterizzata da quel grande movimento che va sotto il nome di Ro­manticismo.
Il Romanticismo è fenomeno complesso, che ha coinvolto tutte le manifestazioni dei pensiero e dell’arte e il senso stesso della vita. Ha avuto origine in Inghilterra e di lì è rapidamente giunto in Germania, dove si è definito nei suoi caratteri filosofici e nelle sue tendenze letterarie ed artistiche.
Dalla Germania il movimento romantico si è propagato per tutta Europa e, venendo a contatto con tradizioni ed esigenze storiche diverse, ha assunto orientamenti differen­ti nei diversi Paesi. Benché in esso le tendenze rinnovatrici siano convissute accanto a spinte reazionarie, tanto che con felice ironia è stato possibile dire che nel Romanticismo è rinvenibile tutto e il contrario di tutto, tuttavia le spinte progressiste furono di gran lunga prevalenti in molti Paesi europei e lo furono, in senso assoluto, in Italia.
Queste sono le principali linee di tendenza del movimento:
a)      La rivalutazione dei sentimento - Accanto alla ragione esaltata dagli illuministi i romantici sostengono l’importanza del sentimento. Anzitutto come mezzo conoscitivo: se il sentimento non può dare all’uomo una conoscenza esatta e sicura come quella razionale, rappresenta però il solo strumento che gli consenta di penetrare nelle zone dove non può giungere la ragione. Inoltre, il sentimento, se a volte genera ansia frustrante, abbandono al sogno, evasione dalla realtà, più spesso è sentito come forza di propulsione e stimolo vitale.
b)      L’individualismo - La rivalutazione del sentimento implica talune importanti conseguenze: ad esempio, il fenomeno tipicamente romantico dell’individualismo. Men­tre la ragione livella, il sentimento diversifica gli uomini stimolandone gli impulsi, le reazioni, che, varie da individuo a individuo, ne costituiscono la fisionomia specifica. Fra le individualità prendono naturalmente spicco, nell’interesse e nell’ammirazione dei contemporanei, quelle d’eccezione: i grandi artisti, i ribelli, gli eroi.
c)      La religiosità - L’ansia di sondare il senso della vita e della morte, di sopravvive­re oltre i limiti dell’esistenza terrena, la impossibilità della ragione di rispondere a que­sti interrogativi e a queste istanze, porta il sentimento a postulare risposte religiose. La religiosità è un elemento costante del Romanticismo. Essa si concreta a volte nell’adesione a religioni rivelate (si pensi alla conversione cattolica del Manzoni); a vol­te, invece, si esprime in forme indeterminate e vaghe: pensiamo, per rimanere in Italia, al Foscolo e alla sua religione laica del sepolcro e della «memoria» che consente all’uomo una sia pur limitata sopravvivenza dopo la morte; o alla religione leopardiana dell’infinito, che esprime l’inappagata ansia del poeta di superare i limiti angusti dell’esistenza e delle possibilità umane.
d)      Lo storicismo - Col Romanticismo nasce, nei vari Paesi, il culto per le loro tradizioni storiche; e al recupero del passato si volgono in questo periodo ricercatori e scrittori. Di qui il fiorire delle ricerche storiche e la moda dei romanzi, dei drammi, delle liriche, di argomento storico. I romantici non ignorano che nel passato vi sono innumerevoli errori da respingere, ma sostengono che vi sono anche importanti conquiste positive, di cui sì deve tener conto, e che, soprattutto, il passato costituisce la storia di un popolo, si identifica col complesso di vicende, di tradizioni, di sofferenze, di gioie che gli abitanti di uno stesso territorio hanno in comune; è quindi quel popolo, e solo partendo dal suo passato un popolo potrà conseguire il senso della propria identità. Non per niente Foscolo, nella introduzione alle sue lezioni all’Università di Pavia, esorta con calore appassionato gli Italiani allo studio della loro storia. È evidente che nello storicismo romantico troverà le sue radici il principio della nazione, che comincia a profilarsi in Italia nell’età napoleonica e che avrà sviluppo e maturazione nel Risorgimento.
e)      La poetica romantica - In campo artistico il Romanticismo propugna la libertà dell’artista da tutto quello che ne condiziona l’ispirazione, e il suo dovere di essere po­polare, cioè di accostarsi al gusto e alla mentalità del popolo e di esercitare fra il popo­lo una funzione educativa.

4. Romanticismo e Risorgimento – Il Risorgimento europeo, e italiano in particola­re, può essere visto come l’espressione, in campo politico, del più generale movimento romantico. Il Risorgimento nazionale ha infatti le radici nello storicismo romantico, da cui nasce il senso della identità specifica dei singoli popoli.
È significativo il fatto, ad esempio, che Mazzini, per definire il concetto di patria, faccia appello alla storia, alla tradizione: la patria, egli scrive, non è un territorio, il territorio non ne è che la base; la patria è l’insieme di esperienze, di sofferenze, di sen­timenti che legano gli abitanti della stessa terra. E Manzoni rivendica all’Italia il di­ritto di essere una e libera in nome non solo dell’unità etnica della sua gente, ma dell’unità delle sue tradizioni:
«una d’arme, di lingua, d’altare,
di memorie, di sangue, di cor».
Oltre al sentimento dell’identità nazionale, e la conseguente spinta alla liberazione dallo straniero, il Risorgimento deriva dal Romanticismo altri fondamentali caratteri:
1        la fiducia nelle forze della volontà e del sentimento capaci di «muovere le montagne» (donde le imprese temerarie, gli scontri impari sostenuti con impavido coraggio);
2        la convinzione che la storia è governata da una provvidenza
«Ma se il popolo si desta
Dio si mette alla sua testa,
la sua folgore gli da»
scrive Mameli;
3        il fascino per le figure di eccezionale rilievo (donde l’atmosfera mitica ed eroizzante che avvolge i personaggi-guida del Risorgimento, Garibaldi soprattutto, ma anche Mazzini, Cavour, e i martiri delle varie imprese).
Questa convergenza di Romanticismo e di Risorgimento ha i suoi riflessi nell’arte: nella musica, nella pittura, e soprattutto nella letteratura.
La letteratura italiana dell’età romantica fu per eccellenza letteratura «impegnata». Dalla maggior parte degli scrittori di questo periodo essa fu considerata come mezzo per intervenire nell’azione politica e sociale, per orientarla e stimolarla. Furono penetrati di spiriti patriottici tutti i «generi letterari», dal romanzo al teatro, dalle opere autobiografiche al giornalismo, alla poesia. Le liriche patriottiche furono a volte veri canti di guerra e di rivolta, come l’inno di Mameli ai «fratelli d’Italia», o le poesie di Berchet, cariche dell’odio antiaustriaco maturato negli esili, nelle carceri, presso i patiboli dei compagni di fede. A volte, invece, come nel caso di Manzoni, pur nella loro appassionata partecipazione alla contemporanea realtà politica, assursero ad alte meditazioni che inserivano il problema della libertà e dell’unità d’Italia nel più vasto proble­ma della giustizia fra gli uomini.
Del resto, molti scrittori e poeti romantici furono essi stessi combattenti e cospirato­ri. Per fare solo alcuni esempi fra i più famosi, Mameli morì nel 1849 difendendo la Repubblica Romana; Berchet e Pellico patirono rispettivamente esilio e prigionia; Nievo fu dei Mille di Garibaldi; Tommaseo fu l’anima della difesa di Venezia nel 1849.
La identificazione di patriota e di romantico a un certo punto fu così stretta da consentire a Pellico di dire: «romantico fu riconosciuto per sinonimo di liberale, né più osarono dirsi classicisti [cioè antiromantici] fuorché gli ultra e le spie».

5. Liberalismo e liberismo - L’ideologia che sta alla base del movimento risorgimen­tale è il liberalismo, che si può sinteticamente riassumere nelle richieste di libertà e di indipendenza.
Per libertà si intendeva il regime costituzionale e l’insieme di garanzie che esso assicurava: partecipazione dei cittadini (o almeno della parte di essi che sola si considerava adeguatamente preparata) al governo dello Stato; uguaglianza dei cittadini di fronte al­la legge; difesa dell’individuo dall’arbitrio del potere statale; libertà di espressione a co­minciare dalla libertà di stampa.
L’indipendenza era invece identificata con l’autodecisione dei popoli, i quali, presa coscienza della loro identità nazionale, non intendevano più tollerare dominazioni stra­niere.
La richiesta di indipendenza in Italia si tradurrà praticamente nella prospettiva di cacciare dalla penisola l’Austria, considerata il baluardo della reazione e il più grave ostacolo alla conquista delle libertà costituzionali.
Successivamente si andrà sempre più affermando la convinzione che i due problemi tra loro connessi della libertà e dell’indipendenza si legavano a quello dell’unificazione politica della penisola. Anticipando i tempi, già nel ‘21, Manzoni proclamava: «Li­beri non sarem se non siam uni». Sarà questo lo sbocco delle lotte, non sempre con­cordi, dei liberali italiani.
Alla ideologia politica del liberalismo si accompagnava coerentemente la dottrina economica del liberismo. Fiduciosa nella capacità di autoregolazione delle forze economiche, che si pensava portassero ad un effettivo progresso globale, tale dottrina soste­neva che lo Stato doveva lasciare libero campo all’iniziativa privata, non interferendo, con regolamentazioni e dazi protettivi, sul libero sviluppo dell’economia. «Lasciate fa­re» è il motto dell’economia liberista.

6. L’ascesa della borghesia in Italia – La borghesia è la classe sociale protagonista dei nuovi tempi, quella che cerca, in ogni modo, di mutare l’assetto politico e sociale, in senso liberale.
In Italia essa è ancora allo stato nascente; agli inizi, ad operare sono piccole avanguardie che mirano a sensibilizzare quello che esse chiamano il popolo, costituito da possidenti, professionisti e commercianti, che cercano alleanze con gli artigiani e, solo più tardi e marginalmente, col proletariato urbano.
Nella prima metà dell’800 sino alla costituzione del regno nel 1861, la borghesia si viene rafforzando grazie alla progressiva crescita dell’economia italiana. Nel contempo, l’opera chiarificatrice e stimolante di alcuni pensatori ne determina un sempre maggior coinvolgimento nella trasformazione delle istituzioni (esemplare è la funzione esercitata dal pensiero di Mazzini, di Gioberti, di D’Azeglio, di Cattaneo, di Balbo, ecc.).
Lo Stato costituzionale, che rappresenta il punto di arrivo di tale trasformazione, costituirà anche lo strumento dell’ulteriore affermazione e sviluppo della borghesia.

7. Alla rivoluzione nazionale non seguì la rivoluzione sociale - L’Italia, in questo periodo, è ancora ai margini della rivoluzione industriale. La sua economia, infatti, è ancora quasi esclusivamente una economia rurale che, per mancanza di investimenti, fruisce scarsamente dei processi di modernizzazione tecnica.
È vero che, parlando dell’economia in Italia, bisogna tener presente la grande diversità delle situazioni delle varie parti della penisola, diversità che ha le due espressioni estreme nell’Italia settentrionale (in particolare Lombardia e Piemonte) e nel Sud.
Nell’Italia settentrionale, e in Toscana, già nel Settecento l’agricoltura, anche per l’impulso dato ad essa da intellettuali (membri di Accademie e Associazioni agrarie) si era avvantaggiata dell’introduzione di innovazioni tecniche (bonifiche e irrigazioni) e della conseguente razionalizzazione delle colture.
Nel Sud, invece, dopo qualche tentativo di rinnovamento che rimase senza seguito, la situazione ristagnò, e il quadro era dominato dalla presenza schiacciante del latifondo. Il proprietario, appartenente di solito all’aristocrazia, non era interessato ad uno sfruttamento intensivo delle sue terre, che spesso rimanevano semincolte.
L’industria aveva uno sviluppo molto limitato e predominava ancora la forma di produzione artigianale. Di conseguenza, in questi anni non esisteva in Italia un proleta­riato operaio urbano; quello italiano era sostanzialmente un proletariato agricolo. Si trattava di una massa di contadini che costituiva la quasi totalità della popolazione.
La condizione di questi ultimi era, in generale, molto dura, anche se bisogna ancora una volta distinguere tra regione e regione. Era una condizione caratterizzata da una diffusa indigenza, da insufficiente alimentazione, dallo squallore delle abitazioni, dalla costante presenza di malattie endemiche derivate da carenze alimentari ed igieniche, dall’ignoranza aggravata dall’analfabetismo diffuso.
Né la rivoluzione nazionale, cioè la costituzione del regno nazionale unitario, contribuì a mutarne le condizioni. Diversamente dalle diffuse speranze suscitate nelle masse contadine, ad essa non si accompagnò la rivoluzione sociale, per cui i contadini, delusi, o si ripiegarono su se stessi assumendo un atteggiamento di indifferenza, o esplosero in furiose rivolte. Significative, in questo senso, le testimonianze, qui riportate, dell’Abba, del Nievo, e l’episodio di violenza e di sangue che ebbe luogo a Bronte in Sicilia.
Questa situazione di estrema indigenza risultava aggravata dalla sua immobilità, derivante da più cause:
a) il disinteresse per una migliore condizione contadina da parte della classe borghese impegnata a realizzare i propri progetti politici ed economici e ti­morosa di sbocchi socialistici;
b) la mancanza di organizzazione delle grandi masse ru­rali, che le privava di ogni forza politica;
c) la sovrabbondanza di manodopera, che consentiva alla borghesia di imporre salari al limite della pura sussistenza.

8. Iniziative culturali per il popolo - La situazione delle masse popolari era caratterizzata da una diffusa ignoranza denunciata da una elevata per­centuale di analfabetismo. Alcuni tentativi per modificarla furono fatti dai pensatori li­berali, preoccupati di adeguare l’istruzione del popolo alle esigenze tecniche richieste dal progresso nell’agricoltura e nell’industria, e timorosi che le condizioni di ignoranza delle plebi, unite alle tristi condizioni di vita, favorissero la diffusione del comunismo, il cui spettro si aggirava in Europa dopo le rivoluzioni del 1830 e del 1848. Le iniziative in questo senso consistettero fondamentalmente nella creazione di istituti per incrementare l’istruzione, sia a livello di istruzione elementare, sia a livello di specializzazione professionale, ad integrazione della insufficiente struttura scolastica ufficiale.
Esse furono più diffuse nelle regioni più progredite: nella Lombardia, nel Regno di Sardegna, in Toscana. Nel Mezzogiorno, invece, caratterizzato dalla assoluta mancanza di una struttura scolastica popolare, iniziative di questo tipo non ebbero le condizioni per nascere e svilupparsi. E fu un altro elemento che aggravò il distacco fra Nord e Sud.
La stampa popolare - e vi riuscì nei limiti consentiti dalla scarsa alfabetizzazione - mirò al progresso sociale e culturale delle masse: giornali, fogli ed almanacchi, che trattavano temi e problemi relativi al mondo della produzione agricola e industriale e alle condizioni di vita delle classi proletarie.
Infine, non va dimenticata l’opera, significativa per gli sviluppi futuri, anche se al momento assai limitata, delle Società di mutuo soccorso, che si proponevano il miglio­ramento delle condizioni retributivo-contrattuali e anche culturali degli operai e dei contadini.

9. L’intellettuale e la formazione dell’opinione pubblica - Se nel Risorgimento la letteratura e la poesia erano concepite come impegno civile, come mezzo per maturare il popolo alla coscienza nazionale, le scarne ma vivissime pattuglie dell’intellighenzia li­berale disposero anche di uno strumento più diretto e più efficace per agire sull’opinio­ne pubblica: il giornale e la rivista.
Giornali e riviste, che avevano preso piede in Italia per l’impulso degli illuministi mi­ranti a divulgare un sapere concreto, volto a incidere sulla realtà sociale, ebbero una intensa e appassionata fioritura nell’età romantico-risorgimentale, e consentirono agli intellettuali progressisti di compiere un’opera penetrante nell’opinione pubblica, in mo­do da orientarla in senso nazionale, e stimolarla alla costituzione e al rafforzamento di una società borghese.
Il pubblico, già esercitato da giornali e riviste ad affrontare con prospettiva naziona­le e di trasformazione civile i problemi concreti dell’economia (in primo piano dell’agricoltura), della tecnica, dell’industria, dell’educazione, del diritto, della lingua, sarà disponibile e preparato - specie quando le proposte neoguelfe e filosabaude cree­ranno il clima favorevole a questo tipo di dibattito - ad affrontare i problemi schiet­tamente politici delle istituzioni liberali (costituzione, rappresentatività, libertà di stam­pa ecc.), dell’indipendenza, dell’unità.
Non dobbiamo tuttavia dimenticare che si trattò pur sempre di un’opinione pubblica limitata ad una cerchia molto ristretta, i cui confini erano segnati dal saper leggere, il quale a sua volta era connesso alla condizione sociale e a un almeno relativo benessere economico. Perciò, non ne partecipavano le grandi masse proletarie, specie contadine, chiuse nel dramma della loro miseria e dell’analfabetismo.

10 La letteratura – Alcuni elementi tipici della nuova sensibilità romantica in Italia si possono già trovare in Ugo Foscolo, sebbene però risultino in parte legati alla corrente del Neoclassicismo. Un'altra estensione dell'ideale letterario a fatto politico e sociale della rinascita dell'Italia si ebbe con Vittorio Alfieri (1749-1803), che diede inizio a quel filone letterario e politico risorgimentale che si sviluppò nei primi decenni del XIX secolo.
La data vera e propria di inizio del Romanticismo italiano è il 1816: nel gennaio di tale anno, infatti, Madame de Staël pubblicò nella Biblioteca Italiana un articolo (Sulla maniera e utilità delle traduzioni) nel quale invitava gli italiani a conoscere e tradurre le letterature straniere come mezzo per rinnovare la propria cultura. Inoltre, sempre nello stesso anno, Giovanni Berchet scrisse quello che poi divenne il manifesto del Romanticismo letterario italiano: la Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo, nella quale si esalta la nuova corrente letteraria e si deridono i canoni del Classicismo (per questo l'opera è definita semiseria).
Successivamente alcuni letterati si staccarono dalla Biblioteca Italiana, rivista a carattere conservatore, e fondarono nel 1818 il Conciliatore, rivista diretta da Silvio Pellico con Ludovico Di Breme, Pietro Borsieri, Giovanni Berchet e Ermes Visconti. Il Conciliatore si proponeva di "conciliare" ricerca tecnico-scientifica con letteratura, sia illuminista che romantica, con pensiero laico e con il cattolicesimo. La rivista fu però chiusa nel 1819 per ordine degli austriaci.
Nel complesso il Romanticismo italiano fu soprattutto l'espressione del nuovo ambiente storico e sociale della borghesia, come si era sviluppato, specie in Lombardia, durante la Rivoluzione francese, in cui si esprimevano quelle esigenze di nazionalità e popolarismo che contraddistinsero quest'epoca rispetto alle precedenti esperienze settecentesche.
a)      I giornali - Quella che nel Settecento è stata definita «prosa di pensiero» confluisce nei giornali. Alcuni di questi si presenta­no come fascicoli composti di parecchie pagine (ad esempio «La Biblioteca italiana» usciva ogni mese in fascicoli di circa 150 pagi­ne, «L’Antologia», anch’essa mensile, di 150-200 pagine) e possono pertanto ospitare articoli che han­no la consistenza di piccoli saggi, mentre gli interventi più strettamente legati a una situazione, magari d’intonazione polemica, trovano posto in fogli che escono con una maggio­re frequenza, solitamente settimanali. Nei primi cinquant’anni del secolo nacquero molte nuove testate; il fenomeno non è limitato agli Stati italiani più avanzati, ma interessa anche zone fino ad ora ai margini del dibattito culturale. Il carattere che accomuna una produzione per altri versi assai diversificata è la matrice politica. Naturalmente i contenuti politici sono mediati e i temi affrontati possono dirsi politici solo in senso lato; tuttavia si deve riconoscere che il giornalismo del primo Ottocento ebbe piena consapevolezza del compito di dare voce ai processi culturali e sociali in atto e si attribuì la funzione di «formare opinione», di indirizzare e organizzare le cono­scenze dei lettori. E in effetti riuscì ad avere un ruolo signifi­cativo, nonostante la censura che, soprattutto nel Lombardo-Veneto, imponeva dei limiti oggettivi alla stampa e la costringeva a trovare strade indirette per compiere battaglie di opposizione. Inoltre la presenza della componente politica e ideologica favorì la trasformazione di giornali e gazzette in punti di riferimento per gruppi intellettuali che perseguiva­no finalità comuni. Il fenomeno fu più marcato nei periodici di maggior impegno culturale che rappresentavano anche uno schieramento politico, ci riferiamo alla «Biblioteca italiana» caldeggiata dal governo austriaco, al «Politecnico» fondato e diretto da Carlo Cattaneo, alla «Antologia» voce del gruppo liberale fiorentino, e soprattutto al «Conciliato­re» fondato a Milano nel 1818 e chiuso per problemi con la censura nel 1819. L’esperienza dei fondatori del «Conciliato­re», le battaglie che furono condotte dalle sue pagine per la difesa delle idee romantiche, del romanzo, per la diffusione dell’istruzione, l’ammodernamento dell’agricoltura, ne fanno un’efficace espressione del clima culturale e delle istanze politiche degli intellettuali romantici milanesi. Oltre a questo «Il Conciliatore», per il tono dei suoi articoli e per l’attenzione alla divulgazione, costituì un esempio di prosa rivolta a un pubblico ampio, digiuno di competenze specifiche intorno agli argomenti trattati.
b)      Il trattato - I trattati di argomento letterario-retorico appaiono in decli­no mentre, l’ideolo­gia, l’economia, la storia sono i temi che maggiormente atti­rano l’attenzione di scrittori e intellettuali. Ma un posto di as­soluta preminenza è occupato dalla politica: le questioni politico-ideologiche assorbirono quasi completamente l’impegno degli intellettuali e degli scrittori di trattati, che furono espressione di tutte le posizioni ideologiche interne al movimento risorgimentale e costituirono strumento assai rilevan­te nello scontro tra i diversi gruppi di opinione. Ad esempio, lo schieramento cattolico moderato ebbe un punto di riferi­mento in un trattato famosissimo, Del primato civile e mora­le degli italiani di Vincenzo Gioberti, gli ideali cavouriani trovarono espressione nelle opere di Massimo D’Azeglio, e Giuseppe Mazzini diffuse l’ideale repubblicano e unitario non solo attraverso i giornali, ma anche in opuscoli e trattati, mentre sono espressione della corrente democratica gli scrit­ti di Carlo Cattaneo e il saggio di Carlo Pisacane, La rivoluzione.
c)      Le memorie - Nella prima metà dell’Ottocento gli scrit­ti di memorie abbondano; molti di que­sti nacquero dalla volontà di testimo­niare la propria partecipazione e il pro­prio contributo ad avvenimenti storici che unanimemente furono sentiti come straordinari, siano essi legati alla rivoluzione o alle guerre d’indipendenza o all’impresa dei Mille. Co­sì ampia è la produzione di patrioti che seguirono Garibaldi che si parla di letteratura garibaldina come di un fenomeno let­terario ben definito. Fra questi scrittori Giuseppe Cesare Abba, autore delle Noterelle di uno dei Mille. Tuttavia il libro più importante nell’ambito delle memorie del primo Otto­cento restano Le mie prigioni di Silvio Pellico.
d)     Il romanzo - È il genere letterario per il quale più am­pia era stata la «distanza» fra l’Italia e l’Europa del Settecento: si può parla­re di un vero ritardo culturale, determinato sia da situazioni sociologiche (scar­sità del pubblico di lettori borghesi, debolezza dell’industria editoriale, ecc,), sia dalla forza di pregiudizi da parte di letterati che ritenevano il romanzo un genere minore, un ibrido non ben definito, dalle riserve di intellettuali, ecclesiastici che ne indicavano la «pericolosità». Soltanto alle soglie dell’Ottocento compaiono le Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, il primo romanzo che è tradizionalmente accolto nella nostra storia letteraria.
Una delle caratteristiche del romanzo moderno ed una delle caratteristiche del Romanticismo è il valore conferito alla storia. All’inizio del XIX secolo la letteratura inglese fu dominata da Walter Scott, divenuto celebre con romanzi fra i quali Ivanhoe del 1820, con cui Scott diede avvio al romanzo storico, il genere più diffuso nei primi decenni dell’Ottocento e con il quale quasi tutti i massimi scrittori europei, fino al 1860 circa, vi si cimentarono.
Nel momento in cui in Italia si accese la disputa italiana fra classicisti e romantici, questi ultimi indicarono proprio nel romanzo uno dei segnali più importanti del rinnovamento letterario ed anche l’Italia fu coinvolta nell’ondata della moda e dell’interesse per il romanzo storico; anche in Italia esso ebbe molto successo.
Il romanzo storico soddisfaceva le esigenze più vive del Romanticismo: comporre un'opera utile al popolo e, nello stesso tempo, rappresentare la realtà, il vero. In questo clima cul­turale nacquero I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, l’opera che fece compiere un salto qualitativo eccezionale al nostro romanzo. Il romanzo di Manzoni, di enorme portata innovativa per la scelta tematica di una vicenda che mette in scena personaggi umili, vessati dai soprusi dei potenti, e per il fondamentale lavoro di ricerca linguistica, si colloca come capostipite di tutta la tradizione romanzesca della letteratura italiana. La vicenda privata di Renzo e Lucia è narrata sullo sfondo delle vicende di tutto un paese e di tutto un popolo. La poetica romanzesca è nuova e si fonda su tre cardini: il vero come oggetto, l'interessante come mezzo, l'utile come scopo. A differenza dei romanzi storici di Walter Scott, ne I Promessi Sposi non vi è gusto per il romanzesco e il tema amoroso non è approfondito, mentre vi è più gusto per l'analisi psicologica dei personaggi.
Gli epigoni di Manzoni finirono con l'esasperare eccessivamente le caratteristiche, cadendo nell'esplicita propaganda politica e patriottica, o facendo degenerare il realismo nel fotografico. Le vicende narrate avevano la propria origine, spesso, nel Medioevo, epoca in cui si pensava di poter ritrovare i primi germi della futura nazione italiana. Dopo Manzoni, il romanzo storico non diede, in Italia, risultati rilevanti: sul modello manzoniano si scris­sero molti romanzi storici che tuttavia rimasero a un livello del tutto modesto.
Popolari furono i suoi romanzi storico-patriottici di Massimo d’Azeglio: Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta (1833), Nicolò de’Lapi (1841), caratterizzati da velocità di ritmo narrativo, disegno vivace di ambienti e figure, abile alternanza di elementi patetici e grotteschi, tragici e moderatamente comici: nel complesso però si tratta di romanzi di maniera. Sempre in ambiente lombardo fu Tommaso Grossi che nel 1834 pubblicò il romanzo storico Marco Visconti romanzo che riflette il suo un temperamento inquieto, incline al visionarismo del romanticismo appassionato, ma anche sensibile alle esigenze di compostezza e decoro formale.
Ci furono anche autori che intrapresero strade diverse da quella del romanzo storico scrivendo ope­re sostanzialmente irrisolte:
1.      Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo racconta la storia di Giovanni e Maria che si confidano il loro passato, le loro esperienze amorose: i due si sposano, continuando a confidarsi, anche durante il matrimonio, ogni più piccolo moto dell'anima. Giovanni viene ferito durante un duello, guarisce, soltanto per vedersi morire fra le braccia Maria, uccisa dalla tisi. La narrazione è complessa, condotta attraverso rievocazioni o pagine di diario. Il romanzo riflette la personalità dell'autore, combattuto da una sensualità congenita e un'aspirazione alla purezza, che gli deriva dalla profonda religiosità. Si oscilla fra misticismo ed erotismo, senso del peccato e fede contrastata. Con Fede e bellezza ci si sposta dall'analisi della realtà esterna all'analisi della realtà interiore dell'uomo. Possiamo finalmente parlare di romanzo psicologico compiuto.
2.      Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, un’opera che contiene elementi di novità e soluzioni apprezzabili, pubblicata postuma nel 1867, ma scritta negli anni 1857-1858 diede voce alla coscienza nazionale innestando elementi tipici del romanzo di formazione, in un vasto affresco dell’Italia tra la fine della Repubblica di Venezia e il 1856.
3.      Cento anni di Giuseppe Rovani, apparso sulla Gazzetta di Milano tra il 1857 e il 1858. Cento anni è un originalissimo affresco della vita milanese sotto la dominazione austriaca. Il romanzo, alternando un vivace cronachismo e un impulso antistoricistico, è ispirato all’idoleggiamento dell’età giovanile come stagione della felice libertà individuale e al conseguente dissidio causato dal contatto con il mondo adulto. Alla forma del romanzo storico e d’analisi risponde un ibridismo linguistico del tutto nuovo e una sensibilità decadente ed anticonformista, assolutamente ante litteram. Rovani, storico e letterato lombardo, è modello e precursore della generazione successiva, quella della Scapigliatura.
f) La lirica - Nella storia della poesia lirica i decenni tra la fine del Settecento e l’inizio del nuo­vo secolo non segnano mutamenti di rilievo: la poesia celebra gli eventi, grandi e piccoli, continua ad essere momento e occasione di vita sociale nelle acca­demie. Nello stesso tempo conservano vitalità le suggestioni della poesia notturna e sepolcrale sull’esempio della lirica d’oltralpe. In questo panorama si alza la voce altissima e originale di Ugo Foscolo, il quale riassume in sé le diverse istanze della cultura settecentesca. Negli stessi anni ha grande successo la poesia di Vincenzo Monti che si rifà alle idee e al gusto del neoclassicismo.
L’affermazione del romanticismo coincide con una produzione lirica di modesto valore: le novità investono tutti gli aspetti del far poesia, ma la nostra lirica non riesce a liberarsi quasi mai dal retaggio di un linguaggio accademico, aulico, «vecchio».
Solitaria e ini­mitabile è la figura e l’opera di Giacomo Leopardi.
Un’esperienza di qualità rilevante nella nostra letteratura di primo Ottocento, la poesia in dialetto, trovò due interpreti ec­cezionali nel milanese Carlo Porta e nel romano Giuseppe Gioachino Belli.

11. Alessandro Manzoni – Uno dei maggiori autori della letteratura italiana, Alessandro Manzoni è anche l’esponente più importante del Romanticismo italiano. Autore di molte opere, Manzoni vive il rapporto con il suo tempo interpretandone gli ideali e l’impegno morale, sempre teso alla ricerca di una lingua viva. 
a) La vita - Alessandro Manzoni nasce a Milano il 7 marzo 1785, unico figlio di Giulia Beccaria e del conte Pietro Manzoni (ma probabilmente il padre naturale fu il minore dei fratelli Verri, Giovanni). La madre era figlia di Cesare Beccaria. Un’infanzia e una fanciullezza passate tra balie e collegi con i genitori distanti o assenti e la disciplina chiusa e un po’ ottusa degli educatori (prima i frati barnabiti, poi i frati somaschi), mentre Napoleone diffonde per l’Europa gli ideali della Rivoluzione francese, spingono il giovane Manzoni ad accogliere le idee giacobine e anticlericali, registrate fedelmente nel poemetto Il trionfo della libertà del 1801.
L’uscita dal collegio nel 1801 rappresenta una svolta, perché permette a Manzoni di entrare in contatto con l’ambiente culturale milanese. L’incontro con Vincenzo Monti gli fa conoscere la poesia neoclassica, mentre quello con Vincenzo Cuoco lo mette in contatto con l’ala liberale e moderata del Risorgimento italiano, che sosteneva la necessità di privilegiare la via delle riforme rispetto ai metodi rivoluzionari e che eserciterà una notevole influenza su Manzoni, spingendolo ad attenuare il radicalismo dell’adolescenza. Del 1803 è l’idillio Adda, una delle prove più riuscite del suo neoclassicismo.
Nel 1805 Manzoni giunge a Parigi, accogliendo l’invito della madre e del conte Imbonati, con il quale Giulia conviveva da diversi anni dopo aver divorziato dal marito nel 1792. Imbonati, amico dei fratelli Verri e di altri intellettuali milanesi, muore però poco prima dell’arrivo di Manzoni, che ne onora la memoria con un componimento in endecasillabi sciolti intitolato Carme in morte di Carlo Imbonati.
Tornato nel 1807 a Milano per la morte del padre, Manzoni conosce Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere ginevrino. Il matrimonio è celebrato con rito calvinista nel 1808.
Dal 1807 al 1808 Manzoni risiede tra Milano e Brusuglio, in Brianza, poi torna con la madre e la moglie a Parigi, dove nasce la prima figlia, Giulia Claudia, ma nel 1810 è di nuovo in Lombardia. Del 1809 è la pubblicazione del poemetto neoclassico Urania (dedicato a una delle nove muse), in cui viene esaltata la funzione civilizzatrice della poesia. Ma si tratta dell’ultima opera neoclassica di Manzoni, che ormai si orienta sempre più verso un ben diverso orizzonte ideologico e poetico. In questi anni matura infatti la conversione religiosa dello scrittore, il quale, anche in seguito a lunghe conversazioni con religiosi di ispirazione giansenista, approda a un cattolicesimo estremamente severo e rigoroso.
Nel 1810 celebra il matrimonio secondo il rito cattolico con Enrichetta che abiura il calvinismo.
Del 1812 è il progetto degli Inni sacri, che avrebbe dovuto comprendere dodici poesie dedicate alle principali festività cristiane. In realtà, furono composti soltanto cinque inni: i primi quattro (La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale e La Passione) furono pubblicati nel 1815, mentre La Pentecoste, abbozzata per la prima volta nel 1817, fu completata nel 1822. 
Dal 1811 Manzoni vive tra il palazzo milanese di piazza Belgioioso e la villa di Brusuglio. Intensi restano però i rapporti con gli intellettuali parigini, che si concretizzano in nutriti scambi epistolari, soprattutto con Claude Fauriel, e in un nuovo soggiorno a Parigi tra il 1819 e il 1820. La famiglia intanto è sempre più numerosa: dopo Giulia (1808), nascono Pietro (1813), Cristina (1815), Sofia (1817), Enrico (1819) e Clara (1821), che muore a due anni. Sarebbero poi nati Vittoria (1822), Filippo (1826) e Matilde (1830).
Tra il 1816 e il 1820, con diverse interruzioni dovute alla stesura di altre opere, si colloca la composizione della tragedia Il conte di Carmagnola, seguita dalla Lettera al critico francese Chauvet, in cui Manzoni difende le sue scelte anticlassiciste e spiega le ragioni della propria adesione al romanticismo. Dopo le Osservazioni sulla morale cattolica del 1819, nel 1820 Manzoni comincia la stesura di una nuova tragedia, Adelchi, ambientata al tempo della caduta del regno longobardo in Italia a opera dei franchi e pubblicata nel 1822 insieme al Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia.
Sono anni di ininterrotto fervore creativo: le opere e i progetti si succedono gli uni agli altri senza che i precedenti siano stati terminati. Il 1821 è l’anno di composizione delle due odi civili Marzo 1821 e Il cinque maggio, che danno voce, rispettivamente, alle speranze presto deluse per il rapido raggiungimento dell’indipendenza italiana e a un bilancio, in chiave cristiana, della vicenda terrena di Napoleone, protagonista degli eventi storici accaduti durante la giovinezza dello scrittore.
Dall’aprile 1821 al settembre 1823 Manzoni si dedica alla composizione di un romanzo storico. Appena terminata la prima stesura del romanzo, oggi indicata come Fermo e Lucia, comincia un’impegnativa opera di rifacimento strutturale e di riscrittura linguistica, coronata dalla pubblicazione dei Promessi sposi nel 1827 (la cosiddetta edizione "ventisettana"). L’autore però, insoddisfatto della veste linguistica dell’opera, compie nello stesso anno, con tutta la famiglia, un viaggio in Toscana, con l’obiettivo di studiare dal vivo il linguaggio toscano e soprattutto il fiorentino. Il fiorentino parlato dalle persone colte – cioè, un dialetto distillato letterariamente – sarà il modello di riferimento della seconda edizione del romanzo, pubblicata, dopo lunghi studi e un’attenta revisione, tra il 1840 e il 1842. Insieme all’edizione definitiva dei Promessi sposi compare, completamente rifatta rispetto a una prima stesura mai data alle stampe, la Storia della colonna infame un testo di carattere saggistico in cui l’autore affronta il tema della giustizia ricostruendo un processo avvenuto nel 1630, ai tempi della peste a Milano.
La stagione creativa di Manzoni romanziere si chiude nel 1827; la successiva revisione dei Promessi sposi sarà infatti soltanto linguistica e la Storia della colonna infame può essere considerata un’opera storiografica. Alla base di questa rinuncia sta il rifiuto, maturato in sede teorica, del romanzo storico. Come si legge nel saggio Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione (elaborato intorno al 1830 e pubblicato, dopo numerose revisioni, nel 1850), il romanzo storico è per Manzoni un genere ibrido e incoerente, che non rispetta la storia e anzi la falsifica con elementi romanzeschi. Il romanzo storico, inoltre, non gode più, a parere di Manzoni, del successo di pubblico che aveva ai tempi di Walter Scott e ha pertanto perduto efficacia come forma di letteratura divulgativa.
Effettivamente, in Europa la fortuna del romanzo storico stava declinando: Stendhal, Balzac e poi Flaubert avrebbero attinto il materiale per i loro romanzi dal presente, ossia dall’attualità osservata e studiata con uno sguardo attento alle relazioni fra l’individuo, le dinamiche sociali e gli avvenimenti storici.
La vita familiare di Manzoni, a partire dagli anni Trenta, si fa sempre più cupa. La moglie Enrichetta Blondel muore dopo anni di malattia il giorno di Natale del 1833. La prima figlia, Giulia, dopo alcuni anni di infelice vita coniugale (il matrimonio con Massimo D’Azeglio era stato praticamente imposto dai familiari), muore nel 1834, lasciando una figlia di un anno. Altre tre figlie – Cristina, Sofia e Matilde – muoiono tra il 1841 e il 1856. I figli Enrico e Filippo, poi, sono una fonte continua di dispiaceri, a causa della loro vita dissoluta fra debiti e carcere. Filippo sarebbe morto nel 1868. Dei dieci figli soltanto Enrico e Vittoria sopravviveranno al padre.
Nel 1837 Manzoni, non sentendosi in grado di badare alla numerosa famiglia e vivamente consigliato dai parenti, si risposa con Teresa Borri vedova Stampa. Ospite spesso del figlio di Teresa, Stefano Stampa, a Lesa, in una villa sul lago Maggiore, frequenta il sacerdote e filosofo Antonio Rosmini, che dirige nella vicina Stresa il suo Istituto della Carità. All’influenza di Rosmini si deve la composizione del trattato Dell’invenzione del 1850, centrato su un’idea fondamentale della poetica manzoniana: il poeta non crea ma "inventa", nel senso latino del termine, cioè "trova" la poesia che è già nella realtà. Rosmini, di dodici anni più giovane di Manzoni, muore nel 1855. Nel 1853 era morto un altro caro amico, Tommaso Grossi, e nel 1861 scomparirà anche la seconda moglie.
In questa seconda fase della vita dello scrittore, la vena poetica manzoniana sembra quasi completamente inaridita. Degli inni Il Natale del 1833 (che non va confuso con l’inno sacro Il Natale) e Ognissanti, ultimi tentativi di meditazione religiosa in forma poetica, restano solo frammenti. Il Natale del 1833 cerca di risolvere in chiave cristiana il mistero della morte di Enrichetta Blondel, ma la parola poetica si arresta di fronte alla visione terribile della divinità: "Mentre a stornar la folgore / trepido il prego ascende / sorda la folgor scende / dove tu vuoi ferir!" (i frammenti sono datati 14 marzo 1835). L’inno Ognissanti, ideato intorno al 1830 e solo in parte realizzato nel 1847, è dedicato alle esistenze votate a Dio, che vivono nello spazio di una preghiera e muoiono in un sogno di santità. Dopo questo ultimo tentativo, il tempo della poesia sembra chiudersi sulla tragica consapevolezza della lontananza di Dio dalla vita e dalla storia.
Proseguono nel frattempo gli studi linguistici, che hanno tenuto costantemente impegnato lo scrittore a partire dagli anni Trenta, tanto da essere sintetizzati nella formula "l’eterno lavoro sulla lingua". Tali studi, culminanti nello strenuo lavoro di revisione linguistica dei Promessi sposi, mirano soprattutto a contribuire all’unità linguistica italiana. Il lavoro sulla lingua si traduce anche in intervento politico quando, nel 1868, Manzoni accetta di presiedere una commissione ministeriale incaricata di formulare progetti per diffondere in tutte le classi sociali la conoscenza della lingua italiana. Gli studi linguistici sono in questo periodo interrotti soltanto da quelli storici. La principale opera storica intrapresa da Manzoni è La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859, dove la prima rivoluzione è considerata illegittima e distruttiva perché mossa da folle violente di facinorosi che rappresentano soltanto una piccola parte della nazione francese, mentre la seconda è vista come legittima e costruttiva perché moderata e sostenuta dalla volontà dell’intera nazione italiana.
Il 6 febbraio 1873, andando a messa nella chiesa milanese di San Fedele, Manzoni cade sui gradini, batte la fronte e torna a casa insanguinato. Da allora la sua mente non è più lucida e il decadimento fisico procede rapidamente. Le sue condizioni si aggravano quando il figlio Pietro, presso il quale lo scrittore abita negli ultimi anni, si ammala gravemente. Nonostante la notizia della morte di Pietro, avvenuta il 24 aprile, gli sia tenuta nascosta, l’assenza del figlio torna negli incubi dello scrittore, che confonde le immagini della malattia con le memorie dell’epoca del Terrore, oggetto delle sue letture e dei suoi studi.
Il 22 maggio 1873 Manzoni muore a Milano.
b) Il «cattolicesimo democratico» del Manzoni - L’incontro giovanile con l’Illuminismo prima a Milano poi a Parigi concorse in grande misura ad orientare il cattolicesimo manzoniano. Nel Vangelo infatti lo scrittore cercò e trovò una risposta a quelle istanze di uguaglianza e di fraternità che erano state i punti chiave dell’Illumini­smo (si ricordi il famoso trinomio «libertà, uguaglianza, fraternità») e che egli aveva fatto sue. Con la differenza che, mentre gli illuministi ponevano a base di tali istanze il fatto che la ragione è bene comune a tutti gli uomini, e per tutti stabilisce parità di di­ritti e di doveri, egli le collegò alla comune paternità di Dio, che fa sì che tutti gli uo­mini, in quanto suoi figli, siano fra loro uguali e fratelli. In questo senso sì può parlare di un cattolicesimo democratico del Manzoni.
La sollecitudine per gli umili, per i diseredati della società e gli ignorati dalla storia ufficiale, è costante nello scrittore, dagli Inni sacri, alle tragedie, ai Promessi Sposi.
Nei Promessi sposi il ruolo di protagonisti è tenuto da due operai di estrazione contadina, «genti meccaniche e di piccolo affare», come dice Manzoni nell’introduzione al romanzo. E, con un capovolgimento rivoluzionario, coloro che nel giudizio del mon­do sono in alto nella scala sociale, i cosiddetti «personaggi d’autorità», sono qui valu­tati positivamente o negativamente a seconda che si mettano al servizio degli umili o che siano loro avversi.
c) I temi fondamentali della moralità manzoniana: la giustizia e la provvidenza - Alle ingiustizie del mondo, alla prevaricazione dei forti e alla sopraffazione costante dei debo­li, Manzoni contrappone l’istanza della giustizia.
Se, nella sua pienezza, la giustizia per il cristiano Manzoni potrà realizzarsi solo nell’aldilà, tuttavia gli uomini degni dì questo nome devono battersi perché anche su questa terra essa si attui il più possibile, perché l’ingiustizia venga sconfitta. Con questo spirito agiscono i personaggi positivi e combattivi del romanzo: padre Cristoforo, il cardinal Federigo, lo stesso Renzo per quanto glielo consentono le sue limitate forze.
Chi combatte per la giustizia ha Dio dalla sua parte. Al tema della giustizia si collega in tal modo quello della provvidenza, il tema che percorre tutta l’opera manzoniana e si dispiega soprattutto nel romanzo. In esso la provvidenza conforta gli umili nelle loro tribolazioni, da loro fiducia e persino sicurezza d’animo; ma anche confonde e annien­ta i prepotenti, così che alla fine la giustizia, sia pure faticosamente, trionfa, come dimostra la vicenda dei due promessi sposi, gente di «buona volontà», che dopo tante traversie riescono a raggiungere anche su questa terra la serenità che si sono meritata.
d) La soluzione manzoniana al problema della lingua - Il problema della lingua travagliò a lungo Manzoni e fu da lui sentito con particolare acutezza nel periodo della composizione del romanzo, un’opera che egli voleva rivolta ad un vasto pubblico e per la quale sentiva l’esigenza di una lingua che fosse popolare e viva, e che inoltre - poiché la sua aspirazione di patriota andava a un’Italia unita in nazione - non avesse caratte­re regionale, ma nazionale. Dopo lunga riflessione e sperimentazione, egli si convinse che la soluzione linguistica possibile in Italia era quella di estendere a tutta la penisola il più evoluto dei suoi dialetti, il fiorentino, e più precisamente il fiorentino parlato dalle persone colte, cioè da quella classe borghese che i romantici identificavano col «popolo».

Giacomo Leopardi
a) La vita – Giacomo Leopardi nacque nel 1798 a Recanati nelle Marche, da famiglia nobile e di spiriti conservatori; eb­be la fanciullezza e la giovinezza impegnate negli studi, che perseguì con appassionata perseveranza tanto che, a diciassette anni, non solo conosceva perfettamente il latino e il greco, ma aveva anche già composto due opere di erudizione, la Storia dell’astronomia ed il Saggio sugli errori popolari degli antichi: fu tanto lo sforzo di questo periodo che ne ebbe guastata la salute.
Nel 1816 Leopardi preparò una risposta ad una nota lettera della Stael, Lettera ai compilatori della ‘’Biblioteca italiana’’, che però non fu pubblicata.
Nel 1817 cominciò a scrivere lo Zibaldone, fondamentale quaderno di appunti, di osservazioni di carattere culturale, di confessioni autobiografiche, che continuò a farsi alterne e con varia intensità fino al 1832.
Secondo la consuetudine delle famiglie aristocratiche, il giovane Giacomo, fu educato in casa insieme con i fratelli da un precettore ecclesiastico, il quale ben presto non ebbe più nulla da insegnargli. Egli allora continuò a studiare autonomamente sui libri della sterminata biblioteca del padre; imparò il greco e l’ebraico e si dette a lavori di profonda erudizione, che ottennero il plauso e l’ammirazione di importanti studiosi del tempo, italiani e stranieri.
Furono sette anni di studio matto e disperatissimo, come egli stesso ebbe a definirli, che ebbero gravi ripercussioni sulla sua salute, già da tempo precaria. 
Il primo saggio importante di poetica fu il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, nato nel 1818 in risposta ad un articolo del di Breme, ma anche questo fu pubblicato solo postumo; nello stesso anno compose le prime canzoni, tra cui All’Italia.
Man mano che, col passare degli anni, si evolveva spiritual­mente, Leopardi sentiva sempre più intollerabile il chiuso ambiente familiare e quello paesano e gretto di Recanati.
Nel 1820, una crisi intellettuale e spirituale prima lo indusse al tentativo di suicidio, poi al tentativo di fuga da casa,  sventata dai suoi genitori; solo tre anni più tardi, nel 1822, ottenne di lasciare la famiglia e il paese per recarsi a Roma ma, deluso dall’ambiente, fece ritorno a Recanati nel 1824;  da al­lora soggiornò in varie città italiane, Milano, Bologna, Firenze, Pisa, ancora Roma, Napoli, con l’intervallo di alcuni più o meno lunghi ritorni a Recanati.
Rientratovi nel 1828, vi ritrovò l’atmosfera degli anni giovanili che, osservata con occhi nuovi, suscitò in lui emozioni e ricordi, ispirandogli la creazione delle sue liriche più alte, tra cui A Silvia, Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta, Il passero solitario, Le ricordanze, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Tornato a Firenze, Leopardi ritrovò l’amico Antonio Ranieri, conosciuto qualche anno prima, con il quale successivamente si trasferì a Napoli, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Nel periodo napoletano compose i Paralipomeni alla Batracomiomachia, la Palinodia.
Maturava intanto in lui un’amara filosofia della vita che trovò espressione poetica nelle sue liri­che, i Canti, e poetico-meditativa nelle prose delle Operette morali.
Nella prima opera, i Canti, che includeva tutte le opere più significative dell’intera produzione leopardiana (i cosiddetti piccoli e grandi idilli), egli dà voce al respiro della sua anima, cioè ai sentimenti, all’onda di ricordi e di emozioni, ma anche alle profonde riflessioni esistenziali che uno spettacolo naturale o un momento della vita del borgo suscitano in lui. In seguito alla morte di Leopardi, nel 1845, Ranieri curò un’edizione postuma dei Canti, che comprendeva anche il canto La Ginestra.
Oltre a queste due opere, che sono le maggiori, ricordiamo lo Zibaldone, vasta raccolta di osservazioni, di riflessioni di varia natura, assai utile per comprendere l’evoluzione del poeta, e i Pen­sieri.
Morì a soli 39 anni, in seguito ad un’epidemia di colera che aggravò i mali che lo tormentavano da tempo, senza aver ottenuto in vita quella fama che gli sarebbe stata ampiamente tributata, invece, dopo la sua morte.
b) L’arido vero  e gli ameni inganniLa caratteristica principale delle poetica leopardiana è quella di essere una lirica di taglio filosofico: essa trae origine quasi sempre da un’osservazione del mondo esterno e della natura e, attraverso le sensazioni e i sentimenti che tale osservazione suscita, sviluppa ampie parti meditative, nelle quali il poeta colloca la sostanza del proprio ragionamento poetico.
Fin dalla prima giovinezza Leopardi si con­vinse che l’unica verità è quella cui l’uomo perviene mediante la ragione, e a questa convinzione si mantenne fedele per tutta la vita.
Ma la verità che la ragione rivela all’uomo è squallida e amara, è quella che Leopardi chiama l’arido vero. La ragione, infatti, smaschera come inconsistenti quei va­lori in cui l’uomo istintivamente crede: la bellezza, la gloria, l’amore, la giovinezza. Es­si, guardati alla fredda e spietata luce della ragione, si rivelano ingannevoli e caduchi, illusioni.
Ma se questa è la verità che bisogna coraggiosamente accettare, è certo che, privata di questi valori, la vita perde ogni gioia e ogni bellezza, perché, se è vero che essi sono inganni, è altrettanto vero, come dice il poeta nelle Ricordanze, che sono ameni inganni, fonte unica di speranza e di gioia.
La civiltà, prodotto della ragione, condanna gli uomini all’infelicità. Leopardi infatti era convinto che l’anima umana trovasse un autentico piacere soprattutto nei pensieri vaghi e indefiniti che, spesso inafferrabili, lasciano dietro di sé molteplici suggestioni, desideri ed idee. Su questa base contenutistica, Leopardi avvia un profondo processo di rinnovamento della lingua della poesie italiana, abbandonando la metrica classica e lasciando che la sua poesia si snodasse sulla linea della musicalità e del ritmo, producendo un forte effetto evocativo.
Da questo contrasto fra la realtà e le esigenze profonde dello spirito umano nascono i temi più alti della poesia e del romanticismo leopardiani: e innanzitutto il tema della nostalgia e del rimpianto.
I Canti leopardiani traboccano di questi non valori vagheggiati e intensamente invocati, tanto che è stato detto giustamente che nessun poeta, forse, ha cantato la giovinezza e l’amore con l’intensità appassionata di Leopardi, che negava loro reale consistenza e che li vedeva perciò idealizzati dal desiderio e dalla nostalgia che hanno le cose amate e non possedute. Leopardi, nell’arco della sua vita, ideò ben due teorie sul piacere: nella prima, il poeta spiega che il piacere non poteva mai essere soddisfatto, in quanto l’uomo ha in sé connaturata l’esigenza di provare piacere, ma allo stesso piacere segue l’assuefazione; nella seconda, invece, Leopardi spiega come il piacere sia impossibile da raggiungere ed esista solo come cessazione del dolore.
Da questa constatazione nasce, oltre al rimpianto, anche la protesta: essa si rivolge soprattutto alla Natura, che dovrebbe essere madre ai suoi figli, e invece è per loro matrigna, e crudelmente promette gioie che poi non mantiene. Essa si mostra indifferente alle loro pene, e non teme di distruggere in un istante, con un terremoto, un’alluvione o l’eruzione di un vulcano, le opere pazienti costruite dall’uomo e la sua stessa vita.
c) Il natio borgo selvaggio – Recanati, scena di gran parte della vita di Leopardi, è presente anche in molte sue liriche. Il poeta ne soffre la chiusa grettezza, l’isolamento dalle correnti di civiltà e di pensiero, il difficile rapporto con i retrivi abitanti. E tutta­via Recanati vive poeticamente nei suoi versi, con un amore che supera l’intolleranza: vi è ritratta ora in una ferma notte lunare
Dolce, chiara è la notte e senza vento
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna e di lontan rivela
serena ogni montagna,
ne La sera del dì di festa; ora invasa nelle sue strade dal caldo sole di maggio, del maggio odoroso in A Silvia; si distende luminosa fra monte e mare
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lunge,
e quindi il monte;
è aperta verso la vicina campagna
passero solitario, alla campagna
cantando vai,
ne Il passero solitario, e su di essa nelle notti serene brillano le vaghe stelle dell’Orsa ne Le ricordanze.
d) Il non senso dell’esistenza umana e il pessimismo leopardiano - Nel Canto notturno la vita dell’uomo è paragonata alla corsa di un vecchio debole e infermo, gravato da pesi, su un terreno sassoso che gli lacera i piedi scalzi: corsa che ha per meta un abisso dove egli alla fine precipita.
La vita è dunque sofferenza senza senso, che non acquista senso neanche dalla morte. Infatti, a differenza di Manzoni, per Leopardi con la morte tutto ha termine, e non esiste una vita ultraterrena che ristabilisca la giustizia, che dia significato al dolore terreno.
Il non senso della vita umana, non confortata da alcuna provvidenza, si esprime nei grandi interrogativi presenti nei Canti leopardiani (che senso ha la vita? perché essa è solo dolore? perché la natura ci è matrigna?), interrogativi che suonano nel vuoto, che rimangono senza risposta.
Tuttavia l’uomo ha una stagione felice: quella della fanciullezza e della giovinezza, perché questa è un’età in cui domina il sentimento e la ragione ancora non gli ha rivelato la verità amara della sua condizione.
e) L’ultimo Leopardi: la social catena - Nell’ultimo periodo della sua vita, un nuovo atteggiamento psicologico si fa strada in Leopardi, e si esprime soprattutto nella lirica La ginestra.
Fermo restando il principio che la natura è matrigna e al mondo non esiste provvidenza, il poeta sostituisce all’elegiaco lamento sulla condizione umana una vigorosa e costruttiva presa di posizione. Pur sapendo di combattere una battaglia perduta – egli dice – bisogna che gli uomini si alleino fra loro in patto solidale, in social ca­tena, per combattere l’avversa sorte.
Leopardi giunge così a postulare, in nome del­la mancanza di provvidenza nel loro destino, quella fraternità fra gli uomini cui Manzoni perveniva in nome della provvidenziale paternità di Dio.



[1] Le fasi dell’assolutismo - L’assolutismo è una forma di regime monarchico nella quale il potere è esercitato da un sovrano che si ritiene libero da controlli e condizionamenti da parte di istanze politiche e rappresentative superiori o inferiori.
La monarchia assoluta è passata attraverso varie fasi.
a) Lo Stato personale è quello della prima fase, quando Luigi XIV di Francia, il «Re Sole», poteva dire: «Lo Stato sono io». La persona del re si considerava cosa pubblica (ogni avvenimento che la riguardava, la nascita, la morte, il matrimo­nio, la procreazione, ecc. era un avvenimento di Stato) e si identificava piena­mente con lo Stato. La volontà personale del re era volontà dello Stato.
b) Lo Stato patrimoniale fu la tappa successiva. Lo Stato, a cominciare dal terri­torio statale, era proprietà (o patrimonio) del re. I regni (territori e abitanti) potevano essere portati in dote nel matrimonio dei re e dei principi e gli Stati si accrescevano o si riducevano attraverso la politica matrimoniale. C’erano però le premesse di un’evoluzione: il re non era (più) lo Stato, secondo la formula di Luigi XIV. Si poteva fare un passo avanti e dire che lo Stato era del re, ma occorreva distinguere quel che serviva ai suoi interessi personali e quel che serviva all’interesse dello Stato . In effetti, il re non poteva disporre di tutto ciò che v’era nel suo regno, poiché la gran parte delle terre e dei beni si considerava patrimonio utile al regno, non al re. Era la premessa per la distinzione tra le risorse private del re e le risorse pubbliche.
c) Con l’espressione Stato di polizia si intende il tipo di Stato che si trova in Francia, Spagna, Austria, Prussia, Toscana, Piemonte nel corso del XVIII secolo. L’espressione «Stato di polizia» non indica solo quello Stato che mantiene l’ordi­ne pubblico (secondo la concezione attuale della «polizia») ma lo Stato che si occupa del «buon governo» (in greco, «politeia») e quindi ha come suo scopo la felicità dei sudditi.
Lo Stato di polizia, per la felicità dei sudditi, allargò la sua attività, controllando nuovi settori in precedenza totalmente liberi, oppure controllati autonomamente dalle città o dalle corporazioni: la religione, l’attività della Chiesa e la moralità della gente; la sanità, l’alimentazione, la sicurezza e la tranquillità pubblicarla viabilità e i lavori pubblici, le scienze e le arti, il commercio e le manifatture pri­vate (aprendone di pubbliche), i dazi doganali, le condizioni dei lavoratori, l’as­sistenza ai malati poveri e ai vagabondi, i catasti, ecc. Quali fossero i bisogni dei sudditi, erano però sempre il re e i suoi ministri a sta­bilirlo. Si trattava perciò di «dispotismi illuminati» o «regimi paternalistici» (che trattavano i sudditi come figli incapaci, di fronte al padre, il re), che sono all’ori­gine dello «Stato del benessere» del nostro tempo.
[2] Filippo II di Spagna – Filippo II di Spagna fu il primo Re di Spagna intesa come l’intera penisola iberica, re di Napoli, e diciottesimo re del Portogallo, nacque a Valladolid, erede dell’Imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo V, e della regina Isabella del Portogallo.
Non ancora re, sposò sua cugina, la principessa Maria Emanuela del Portogallo, che gli diede un figlio, Don Carlos di Spagna.
Nel 1545, in seguito alla morte della moglie Maria, strinse un’alleanza con l’Inghilterra sposando la cattolica Regina Maria I d’Inghilterra, della casata Tudor.
Nel 1556, Filippo salì al trono di Spagna per abdicazione del padre, ma non si trasferì in Spagna fino alla morte di questi, due anni dopo.
Filippo II, proclamatosi leader della Riforma Cattolica, assunse il trono ereditando enormi risorse: da suo padre i domini degli Asburgo in Spagna, Italia e Borgogna, comprendenti la Castiglia, l’Aragona, la Sardegna, i Paesi Bassi, la Franca Contea, Napoli, la Sicilia, il ducato di Milano e le colonie nell’America latina, che erano molto più redditizie dell’impero del padre in Germania.
Nel 1558 Carlo V morì e divise i territori degli Asburgo, liberando Filippo dall’impegno di governare gli instabili domini tedeschi, che sarebbero stati successivamente conquistati dal ramo austriaco della famiglia.
Nel 1558 morì Maria Tudor senza l’arrivo di un figlio, Filippo mostrò interesse a sposare la sorella minore, la protestante Regina Elisabetta I d’Inghilterra, ma il suo piano fallì.
Nel 1559 la guerra con la Francia si concluse con la firma della Pace di Cateau-Cambrésis e Filippo sposò Elisabetta di Valois, figlia di Enrico II di Francia,
Nel 1566, in seguito alla rivolta calvinista, Filippo si impegnò per eliminare il tradimento e l’eresia. Imponendo una nuova tassa sulle entrate di circa il 10% per le spese militari, la decima, fece solo peggiorare la situazione dei Paesi Bassi.
Nel 1568, la regione si ribellò apertamente sotto la guida di Guglielmo I d’Orange, principe di Nassau, detto il Taciturno. Egli fu sconfitto dalla brutale reazione spagnola capitanata dal Duca d’Alba, che convocò il Consiglio dei torbidi, per condannare a morte migliaia di persone e confiscarne le terre.
Nel 1568 Filippo dovette affrontare delle ribellioni contro il suo governo in Spagna, soprattutto la rivolta dei Moriscos, o la rivolta dell’Aragona in seguito alla vicenda di Antonio Perez, che Filippo cercò di arrestare attraverso l’Inquisizione, violando i diritti tradizionali (fueros) dell’Aragona.
Nel 1570 l’avanzata turca sul Mediterraneo continuò con la cattura da parte loro dell’isola veneziana di Cipro. Il Papa e l’Europa cristiana sollecitarono Filippo a fermare l’avanzata ottomana. Filippo formò una Lega Santa per contrastare il potere navale sul Mediterraneo dell’Impero ottomano.
Nel 1571 le navi da guerra spagnole e veneziane, rinforzate da volontari accorsi da tutta Europa, sconfissero i Turchi nella Battaglia di Lepanto. Quest’impresa rilanciò il ruolo della Spagna come potenza europea e del suo sovrano come guida della Riforma cattolica, oltre a sfatare il mito dell’invincibilità della potenza turca e riportare entusiasmo e fiducia tra i cattolici.
Nel 1576 dopo la pace di Gand, le truppe spagnole si ribellarono. I calvinisti olandesi dichiararono che i soldati spagnoli dovevano essere espulsi e che loro avrebbero dovuto governarsi con i propri Stati Generali. Ma gli spagnoli sfruttarono le differenze religiose, culturali e linguistiche tra le province settentrionali e meridionali, aizzando i nobili locali uno contro l’altro e riconquistando le province meridionali. Le province settentrionali dei Paesi Bassi si organizzarono come le Province Unite.
Nel 1580 il ramo regnante della famiglia reale portoghese si estinse in tutti i suoi elementi durante una disastrosa campagna militare in Marocco, dando a Filippo il pretesto per rivendicare il trono attraverso sua madre, che era una principessa portoghese. Quando Lisbona rifiutò il suo reclamo egli ne organizzò l’assorbimento, invadendo, annettendo, e salendo al trono, occupato dalla Spagna per 60 anni. In questo modo Filippo aggiunse ai suoi possedimenti un vasto impero coloniale in Africa, Brasile, e nelle Indie Orientali, portando un nuovo flusso d’oro a Madrid. Nella conquista del Portogallo comunque, Filippo mostrò tatto, tagliandosi la barba e vestendo alla maniera Portoghese, e governando da Lisbona per i due anni seguenti, mantenendo i privilegi e i fueros portoghesi.
Nel 1581 le sette Province Unite dichiararono definitivamente la loro indipendenza dal Regno di Spagna. Il loro leader, Guglielmo I d’Orange fu messo fuori legge da Filippo, e assassinato nel 1584 da un fanatico cattolico.
Nel 1587 l’esecuzione di Maria Stuart diede a Filippo il pretesto per un’invasione dell’isola. Filippo allestì così la famosa Invincibile Armata, con centotrenta galeoni e trentamila uomini a bordo. Nonostante l’imponenza della flotta spagnola la piccola e agile flotta inglese tartassò i galeoni spagnoli. Filippo allestì altre due armate, entrambe senza successo, e questa particolare guerra tra Spagna e Inghilterra arrivò ad uno stallo, fino alla morte dei due sovrani.
Tra il 1590 e il 1598 fu ancora in guerra contro il Re ugonotto Enrico IV di Francia, alleandosi con il Papa e il duca di Guisa nella Lega Cattolica durante le Guerre di religione in Francia. L’intervento di Filippo, per supportare la fazione Cattolica, anche se produsse vittorie militari, fu disastrosa sul fronte olandese, permettendo ai ribelli di riorganizzarsi e rinforzare le difese. Enrico IV di Francia fu inoltre abile ad identificare la fazione cattolica con un nemico straniero (Filippo e la Spagna) danneggiando la causa cattolica in Francia.
Nel 1596 Filippo fece bancarotta.
Nel 1598 morì e gli successe suo figlio, Filippo III.
[3] Le Province Unite - Nel XVI secolo la Riforma protestante fu accolta con favore da buona parte della popolazione olandese (ossia solo della parte settentrionale delle Fiandre: si badi bene che la regione meridionale, corrispondente all’attuale Belgio, restò di fede cattolica). Sebbene vi si fosse opposto con forza, l’imperatore Carlo V (nipote ed erede di Massimiliano) finì per accettare la situazione. Alla sua morte (1558) i Paesi Bassi furono staccati dall’Impero ed ereditati da suo figlio Filippo II, re di Spagna. Il dominio straniero suscitò il malcontento della popolazione, e come se ciò non bastasse Filippo tentò di perseguitare i protestanti e di eliminare le autonomie delle città fiamminghe. Appellandosi alla sopra citata "clausola di ribellione", gli olandesi oppressi esplosero in una rivolta (1568), che indusse le Sette Province del Nord a formare l’Unione di Utrecht (1579). Nel 1581 viene proclamata la Repubblica delle Sette Province Unite, guidata da Guglielmo il Taciturno, principe di Orange-Nassau, che assunse la carica di stadtholder (presidente: a dispetto del nome, il titolo rimase sempre appannaggio dei membri della casa di Orange. Per altri 70 anni la Spagna non riconobbe la secessione olandese e vi fu guerra fino alla Pace di Westfalia del 1648, con cui le Province Unite ottennero de iure l’indipendenza che ormai godevano di fatto.
In quegli anni, per quanto impegnati nella lotta con la Spagna, gli olandesi furono molto attivi anche fuori dall’Europa, fondando colonie in India, Indonesia, e nelle Americhe (ad es. New York fu fondata da olandesi col nome di Nieuw Amsterdam), tanto che il XVII secolo è considerato il secolo d’oro (gouden eeuw) dei Paesi Bassi.
Esso però terminò con una serie di sconfitte subite da parte di altri paesi (specialmente degli inglesi), che segnarono la fine dell’espansione commerciale e coloniale olandese.
Il successivo XVIII secolo fu segnato dal conflitto fra i sostenitori degli stadtholder ed i cosiddetti patrioti (avversi a trasformazioni in senso monarchico); nel 1748 la carica di stadtholder venne dischiarata elettiva, durante il regno di Gugliemo IV d’Orange. Così l’Olanda continuò ad essere relativamente tranquilla fino alla Rivoluzione Francese del 1789.
[4] Lotte fra cattolici e ugonotti - Prolungato conflitto civile tra cattolici e calvinisti francesi per motivi politici, economici e religiosi.
Gli scontri furono scatenati dai cattolici, insoddisfatti della politica oscillante della reggente Caterina de’ Medici verso gli ugonotti, protestanti francesi di tendenza calvinista guidati dal principe di Condé e successivamente da de Coligny.
Nonostante le misure repressive poste in atto nella prima metà del Cinquecento, si diffusero in diverse province, a partire dalle città universitarie e dai centri commerciali, come La Rochelle e Lione. Erano gruppi di operai, mercanti e piccoli proprietari, spesso sostenuti dalle autorità cittadine. Alla Chiesa di Parigi (creata nel 1555) e a quelle fondate in seguito aderirono anche membri dell’alta borghesia e dell’aristocrazia.
Con la morte di Enrico II (1559) e l’ascesa dei cattolici Guisa, nelle vicende degli ugonotti, guidati dai Borbone, si intrecciarono la lotta politico-dinastica e contrasti religiosi.
Dopo una prima fase, il conflitto riprese nel 1567 e la regina si decise a trattare: con la pace di Saint-Germain (1570) gli ugonotti ottennero la libertà di culto e alcune città (places de sûreté) completamente autonome sotto il loro controllo quattro piazzeforti e de Coligny entrò nel consiglio della corona. Fu poi però la stessa Caterina, contraria alla sua politica antispagnola, a ispirare l’omicidio di de Coligny e il massacro degli ugonotti nella notte di San Bartolomeo (1572), un massacro di 2300 ugonotti a Parigi e di altri 12.000 in provincia nei giorni successivi. L’eccidio fu deciso da Carlo IX su istigazione della regina madre Caterina de’ Medici, che voleva impedire che il re, su consiglio dell’influente capo ugonotto Gaspard de Coligny, appoggiasse la ribellione dei Paesi bassi, ostacolando così la sua politica filospagnola.
La strage dei capi ugonotti della notte di san Bartolomeo ne accelerò poi la trasformazione in partito politico e diede impulso alle dottrine della monarcomachia, una teoria politico-religiosa del XVI-XVII secolo che giustifica come legittima la resistenza contro un sovrano ritenuto ingiusto e nemico della fede. Tale dottrina fu elaborata e sostenuta soprattutto in Francia, nel contesto delle guerre di religione, da alcuni scrittori ugonotti. Più che un appello generico alla ribellione popolare, era l’idea che la resistenza al tiranno debba essere condotta dai magistrati e dalle istituzioni rappresentative del regno.
In conseguenza di ciò la guerra civile riesplose con maggiore violenza. Nasceva intanto la lega cattolica capeggiata dal duca Enrico di Guisa che limitò fortemente l’autonomia del nuovo re Enrico III (1574), giudicato troppo arrendevole.
Nel 1585 ci fu un’ultima recrudescenza degli scontri. Il re eliminò a tradimento i Guisa e cercò l’appoggio ugonotto, designando Enrico di Borbone suo successore. Questi, salito al trono con il nome di Enrico IV, nel 1593 abiurò il protestantesimo e, con l’editto di Nantes (1598), regolò la convivenza delle due confessioni per pacificare i rapporti fra cattolici e ugonotti, garantiva a questi ultimi la libertà di culto ovunque tranne Parigi e le residenze reali e dava loro in pegno un centinaio di piazzeforti, fra cui La Rochelle.
Ma la situazione peggiorò con la reggenza di Maria de’ Medici e con Luigi XIII. Nel 1628-1629 Richelieu, con l’assedio di La Rochelle e l’inglobamento di tutte le places de sûreté, segnò la fine della loro potenza politica. Il distacco della grande nobiltà, le repressioni e le conseguenti emigrazioni li indebolirono, fino alla revoca dell’editto di Nantes (1685). Luigi XIV, teso a riaffermare il gallicanesimo, colpì gli ugonotti con una serie di gravi misure, ricorrendo anche alle dragonnades (obbligo di alloggiare i dragoni) e alle conversioni forzate. Ne seguì un vero esodo, soprattutto verso l’Olanda e l’Inghilterra, che arricchì questi paesi di artigiani e professionisti di valore e fece tornare la Francia un paese esclusivamente cattolico.
L’editto del 1787 garantì ai protestanti residui l’esercizio dei diritti civili che la Rivoluzione estese paritariamente a tutte le confessioni religiose.
[5] Guerra dei trent’anni - (1618-1648). Conflitto che coinvolse l’Europa centrale. Combattuta soprattutto sul suolo tedesco e boemo, con eserciti ai quali era permesso il saccheggio, ebbe conseguenze fortemente negative per l’economia degli stati tedeschi provocando, tra l’altro, una forte caduta demografica. Le cause furono di ordine religioso, politico ed economico. La pace di Augusta del 1555 aveva lasciato insoluti molti problemi: la Controriforma stava creando gravi attriti. A ciò si aggiungeva la vecchia rivalità politica ed economica tra gli Asburgo e vari stati dell’impero. La monarchia francese inoltre, dopo un periodo di forti conflitti interni, aspirava a contrastare il ruolo egemonico degli Asburgo, mentre la Svezia era interessata a rafforzarsi sul Baltico. La guerra iniziò con la defenestrazione di Praga (23 maggio 1618), quando i rappresentanti del governo asburgico furono gettati dagli hussiti fuori dal palazzo dell’università. La successiva elezione a re di Boemia del protestante Federico V del Palatinato fece schierare gli stati europei in due campi: quelli favorevoli agli Asburgo (Spagna, Baviera, Sassonia, Polonia) e quelli che appoggiavano Federico (la maggior parte degli stati protestanti germanici, l’Inghilterra e l’Olanda). L’esercito asburgico sconfisse duramente i boemi nella battaglia della Montagna bianca (1620) e penetrò anche nel Palatinato. Cominciò così una dura repressione contro i protestanti, mentre la corona boema venne dichiarata eredità degli Asburgo. Frattanto la Spagnainiziò le ostilità contro le Province unite, e il re Cristiano IV di Danimarca, il re Gustavo Adolfo di Svezia e più tardi la Francia scendevano in campo contro l’Austria. La fine del conflitto (solo Francia e Spagna continuarono le ostilità tra di loro) fu sancita dalla pace di Vestfalia, firmata nelle due località di Münster e Osnabrück (1648).
[6] Pace di Augusta - Legge imperiale promulgata dalla dieta imperiale di Augusta, che sancì la libertà confessionale dei principi tedeschi per garantire la pace interna e la concordia religiosa dopo l’indebolimento dell’autorità imperiale in seguito alla guerra dei principi.
Il compromesso raggiunto tra il re di Boemia Ferdinando e i ceti imperiali riconobbe la confessione di Augusta. Secondo il principio cuius regio, eius religio, soltanto i ceti imperiali laici ottennero la libertà religiosa, mentre i loro sudditi di altre religioni avevano solo il diritto di emigrazione. La pace proteggeva infine i diritti delle minoranze religiose, che erano soprattutto cattoliche, nelle città imperiali. La pace di Augusta escluse l’imperatore dagli affari religiosi dell’impero e rafforzò i ceti imperiali, che acquistarono l’autorità religiosa sui propri territori.
[7] Pace di Westfalia - Il trattato aveva il valore di una costituzione del Sacro romano impero germanico, garantita dal diritto pubblico europeo. Essa bloccò ogni tentativo di governo monarchico dell’impero e attribuì ai ceti imperiali il diritto di alleanza e la quasi sovranità interna. Dal punto di vista religioso furono riconosciute le paci di Passau (1552) e Augusta (1555), estese ai calvinisti, con la conferma del principio cuius regio eius religio. La distribuzione delle proprietà ecclesiastiche e delle confessioni fu congelata nella situazione del 1624.
[8] Enrico IV - Re di Navarra (1572-1610) e re di Francia (1589-1610). Figlio di Antonio di Borbone, fu educato dalla madre Giovanna d’Albret alla fede calvinista e nel 1569 divenne capo indiscusso del partito ugonotto in lotta contro il potente partito cattolico dei Guisa. Alla morte della madre (1572), ereditò il trono di Navarra e contemporaneamente sposò la sorella del re Carlo IX, Margherita di Valois. Dopo la morte di Carlo IX (1574) e di suo fratello Francesco (1584), divenne presunto erede al trono di Francia, ma, per ottenerlo, dovette combattere contro Enrico Guisa ed Enrico III la guerra dei tre Enrichi e tenere a bada la Spagna di Filippo II venuta in aiuto alla Lega cattolica. Enrico III, dopo essere stato colpito a morte in un agguato, lo riconobbe suo successore, così che, sconfitta la Lega cattolica a Ivry (1590), il 25 luglio 1593 poté entrare trionfante nella capitale dopo essersi convertito pubblicamente al cattolicesimo. Nel 1598 firmò la pace di Vervins con la Spagna e promulgò l’editto di Nantes con cui proclamava il cattolicesimo religione ufficiale ma assicurava la libertà di culto ai protestanti. Aiutato dal duca di Sully, riordinò le finanze dello stato, rafforzò il potere regio e assicurò alla Francia un relativo periodo di pace. Morì assassinato da un fanatico cattolico.
[9] Cardinale Richelieu - Cardinale e politico francese. Il padre, Francesco, era stato al seguito dei re Enrico III prima e Enrico IV poi, guadagnando prestigio e favori, ma la sua morte precoce (1590) lasciò la vedova e i cinque figli in una situazione difficile. Armand, terzo maschio, studiò nel collegio aristocratico di Navarra e fu poi avviato alla carriera militare, ma dovette intraprendere la carriera ecclesiastica per subentrare al fratello secondogenito Alphonse, infermo, cui sarebbe toccato il vescovado di Luçon, beneficio di famiglia. Col favore di Enrico IV e la dispensa papale per la sua giovane età, fu eletto vescovo nel 1606 e consacrato nel 1607. Riorganizzò quindi le finanze del vescovado lottando contro la corruzione e l’indisciplina del clero e contro gli ugonotti. Agli Stati generali del 1614 Richelieu, rappresentante del clero di Poitou, si mise in luce con la regina madre, Maria de’ Medici, che lo nominò prima elemosiniere, poi segretario di stato alla Guerra e agli Affari esteri. Nel 1622 fu nominato cardinale e nel 1624 entrò a far parte del consiglio del re Luigi XIII, divenendone ben presto l’elemento più influente. Richelieu si prefisse principalmente il compito di restaurare l’autorità monarchica e di migliorare la situazione finanziaria del paese. Primo obiettivo furono gli ugonotti che con i privilegi ottenuti con l’editto di Nantes rischiavano di diventare un corpo separato all’interno dello stato. Nel 1628 espugnò il loro forte della Rochelle e nel 1629 tolse loro le garanzie militari e i diritti amministrativi. Anche gli aristocratici furono colpiti da numerose condanne a morte per delitti contro lo stato. Le rivolte contadine furono duramente represse. Riorganizzò l’amministrazione statale, aumentando i poteri degli intendenti, e dette impulso alla marina, alle compagnie mercantili e alle manifatture. In politica estera cercò di ripristinare il ruolo della Francia in funzione antiasburgica, appoggiando all’estero quei protestanti che aveva invece duramente colpito in Francia. Nel 1635 entrò direttamente nella guerra dei Trent’anni, la cui gestione lasciò, morendo nel 1642, al suo successore Mazarino.
[10] Fronda (1648-1653). - Movimento di opposizione antiassolutista in Francia.
Si svolse in due fasi durante la minore età di Luigi XIV e la reggenza di Anna d’Austria, coadiuvata dal cardinale Mazzarino. Fu causata, oltre che dal malcontento popolare per la guerra con la Spagna, dal dissesto economico e dall’inasprimento fiscale, dalle resistenze dei corpi privilegiati alla politica di accentramento del potere perseguita dalla monarchia. All’origine della prima fase (fronda parlamentare) vi fu il rifiuto del parlamento di Parigi di registrare l’editto di sospensione degli emolumenti alle corti sovrane (1648) e la sua rivendicazione dell’antico diritto di controllo sulle decisioni regie in materia fiscale e della soppressione degli intendenti. In seguito agli arresti disposti da Mazzarino, il parlamento istigò la folla alla rivolta, che dalla capitale si diffuse nelle province ma fu sedata dall’esercito guidato dal principe di Condé. Il momento, favorevole alla grande nobiltà, indusse il Condé a capeggiare un movimento antigovernativo che nel 1650 sfociò nella seconda fase (fronda dei principi), costringendo la corte e Mazzarino a fuggire. Gli atteggiamenti assunti dal principe vittorioso gli alienarono l’appoggio della borghesia e l’intervento delle truppe regie ripristinò l’ordine nella capitale e nelle province.
[11] Luigi XIV - Re di Francia dal 1643-1715, figlio e successore di Luigi XIII, salito al trono sotto la reggenza della madre Anna d’Austria, fu dichiarato maggiorenne nel 1651.
Fino al 1661 il governo effettivo dello stato fu tenuto da G. Mazzarino, alla cui morte, egli assunse personalmente il potere. Nei primi anni del suo regno, anche se insidiati dalle fronde, la Francia trionfò nella guerra dei Trent’anni e, con la pace dei Pirenei del 1659, sulla Spagna.
Con lui l’Assolutismo divenne un sistema di governo imitato da molti sovrani europei: egli riunì in sé la coscienza della dignità del suo ufficio con una grande ambizione e con una forte capacità di lavoro. Anche se la celebre espressione attribuitagli, L’Etat c’est moi (lo stato sono io), probabilmente mai pronunciata, esprime bene la concezione e la pratica di governo del re. La sua figura fu esaltata anche dai modelli di comportamento affermatisi alla corte di Versailles, la cui reggia fu trasformata, per suo ordine, in una splendida residenza nella quale il sovrano attirò la grande nobiltà del regno, completandone la trasformazione in nobiltà di corte, legata al monarca da pensioni, cariche e titoli. Tutti i poteri erano concentrati nelle mani del re che li esercitava con l’assistenza di un consiglio segreto e di ministri, spesso di origine non nobile. Tra i più validi collaboratori vi furono J.B. Colbert e F.M. Louvois. Il controllo capillare sul territorio, raggiunto grazie all’impiego degli intendenti, e lo smantellamento delle dogane interne, propugnato da Colbert, definirono un grande spazio politico ed economico sul cui governo avevano scarsa presa gli organi rappresentativi locali e le aristocrazie.
Anche la politica religiosa di Luigi XIV non si discostò dalle direttive che erano applicate in altri campi. Con gli articoli gallicani (1682), il clero francese affermò, per le questioni non dottrinali, la propria indipendenza da Roma; nel 1685 la revoca dell’editto di Nantes pose fuori legge la confessione ugonotta. L’uniformità religiosa e la nascita di una chiesa di stato sanzionarono il carattere sacrale della monarchia: Luigi XIV era diventato il re Sole.
Tra il 1667 e il 1714 promosse una serie di guerre tese a imporre l’egemonia della Francia sull’Europa e a ingrandire lo stato: la guerra di devoluzione, la guerra d’Olanda, la guerra della lega d’Augusta e quella di successione di Spagna. Con questi conflitti solo in parte furono conseguiti gli obiettivi sperati. La Francia ascese al rango di grande potenza, ma a costo di immensi sacrifici e di tensioni che né la vita di corte né la splendida fioritura delle arti riuscivano a nascondere.
[12] Guerre di devoluzioneFu iniziata da Luigi XIV, re di Francia, per rivendicare i Paesi bassi come eredità di sua moglie, la regina Maria Teresa, figlia di primo letto del re di Spagna, sotto il cui dominio ricadevano. Contro le pretese francesi si schierarono Inghilterra e Svezia. La pace di Aquisgrana concluse la guerra a danno di Luigi XIV.
[13] Lega di Augusta – Alleanza difensiva stipulata nel 1686 tra l'impero, la Spagna, la Svezia e le Province unite per opporsi alle pretese di Luigi XIV riguardo alla successione nel Palatinato. Nel 1689 vi si unì l'Inghilterra e nel 1690 il Piemonte, trasformandola così nella Grande alleanza.
[14] Elisabetta I d’Inghilterra – Elisabetta I (1533 –1603) fu regina d’Inghilterra e d’Irlanda dal 17 novembre 1558 fino alla sua morte. Quinta ed ultima monarca della dinastia Tudor e succedette alla sorellastra, Maria Tudor. Il suo regno fu lungo e segnato da molti avvenimenti importanti.  Figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, fu dichiarata illegittima nel 1536, quando la madre fu decapitata sotto l'accusa di adulterio. Durante il regno della sorellastra, Maria Tudor, fu tenuta prigioniera nella torre di Londra, perché sospettata di complottare con gli oppositori della politica religiosa della regina (1554). Salì al trono il 17 novembre 1558 inaugurando una politica prudente ed equilibrata, esente da colpi di scena e da imposizioni violente, ma non per questo meno oculata ed efficace. In campo religioso Elisabetta promulgò, nel 1559, l'Atto di uniformità con cui rimetteva in vigore il Book of common prayer, il libro di preghiere ufficiale della Chiesa anglicana e, quattro anni dopo, l'Atto di supremazia, con cui ristabiliva l'autorità della corona sulla Chiesa. Rifuggì tutta la vita il matrimonio, evitando alleanze che potessero rivelarsi sbagliate. In politica interna Elisabetta dovette affrontare i problemi connessi alla presenza sul trono scozzese della cattolica Maria Stuart. Dopo una rivolta protestante quest'ultima fu costretta a rifugiarsi in Inghilterra (1568) dove diventò il principale punto di riferimento delle trame ordite ai danni di Elisabetta. La scoperta del complotto di Throckmorton (1584) e di quello di Babington (1586) fece ricadere su Maria Stuart l'accusa di alto tradimento ed Elisabetta colse l'occasione per condannarla a morte (1587). Sul piano internazionale Elisabetta assunse posizioni via via più nettamente anticattoliche e antispagnole. La lotta contro la Spagna prese dapprima soprattutto la forma degli attacchi corsari e del contrabbando ai danni di navi e colonie spagnole, ma l'esplosione del conflitto divenne inevitabile nel 1588 quando la flotta spagnola (Invencible armada) salpò alla volta di Calais, dove avrebbe dovuto congiungersi con le truppe di Alessandro Farnese: nelle acque della Manica venne attaccata e vinta dalla più piccola ma più efficiente e meglio organizzata flotta inglese. Iniziava così il definitivo declino della potenza spagnola e l'ascesa dell'Inghilterra come potenza militare, mercantile e marinara. Elisabetta regnò ancora per quindici anni e morì il 24 marzo 1603. Le sarebbe succeduto il figlio di Maria Stuart, Giacomo I, a cui era stata però impartita un'educazione protestante. 
Nel 1603 Elisabetta si ammalò, sofferente di debolezza ed insonnia. Morì all’età di sessantanove anni. Elisabetta fu seppellita nell’abbazia di Westminster, di fianco alla sorella Maria I. L’iscrizione sulla loro tomba recita: Compagne nel trono e nella tomba, qui noi due sorelle, Elisabetta e Maria, riposiamo, nella speranza di un’unica resurrezione.
[15] Oliviero Cromwell (1599 - 1658). Politico inglese. Figlio di un nobile di campagna, nel 1628 divenne deputato al parlamento nel quale propugnò apertamente le sue convinzioni calviniste. Con lo scoppio della guerra civile (1642) assunse un ruolo di primo piano: organizzò un corpo di cavalleria (gliIronsides) e, nel 1645, un esercito regolare (la New Model Army). Riuscì così a sconfiggere le truppe regie a Marston Moor (luglio 1644) e a Naseby (giugno 1645), costringendo Carlo I ad arrendersi.
L’unità del parlamento, intanto, era messa in pericolo dalle divisioni interne: i conservatori presero il sopravvento e proposero di sciogliere la New Model Army. L’esercito allora si rivoltò, espulse dal suo interno i conservatori e catturò il re. Cromwell, schieratosi a fianco dei soldati, marciò su Londra, assumendo il pieno controllo della situazione. Epurò il parlamento dalla maggioranza presbiteriana (conservatrice), soffocando al tempo stesso le spinte estremistiche presenti nell’esercito. Subito dopo Carlo I fu processato, condannato a morte e giustiziato il 9 febbraio 1649. Abolita la Camera dei lord e proclamata la repubblica, Cromwell dovette domare una rivolta in Irlanda (1649) e fronteggiare un tentativo realista in Scozia (1650); represse spietatamente le due sommosse e annetté i territori conquistati all’Inghilterra. La sua politica portò alla promulgazione dell’Atto di navigazione (1651) che mirava a colpire l’Olanda e il suo dominio commerciale sui mari, e fu all’origine della prima guerra anglo-olandese (1652-1654).
Nella primavera del 1653, davanti a nuovi dissidi sorti all’interno del troncone di parlamento rimasto (il Rump Parliament), Cromwell lo sciolse con la forza. Nel dicembre di quello stesso anno si proclamò Lord protettore di Inghilterra, Scozia e Irlanda, titolo che mantenne fino alla morte, nel settembre 1658. La sua azione tuttavia non riuscì a sanare i conflitti costituzionali e le divisioni all’interno del parlamento.
Assai più efficace fu invece il suo contributo all’espansione commerciale e al potenziamento della flotta. La sua politica economica, ispirata ai dettami del più ortodosso mercantilismo, diede un forte impulso allo sviluppo economico e commerciale del paese.
[16] Magna charta libertatum - Carta fondamentale delle libertà inglesi, concessa a Runnymedes nel 1215 dal re Giovanni Senzaterra ai baroni del regno e al parlamento della città di Londra. La monarchia, che si era rafforzata nei decenni precedenti, era indebolita dalle sconfitte patite da Giovanni in Normandia e dalla lotta contro il papato e i baroni. Questo documento accoglieva innanzitutto le richieste dei baroni, cui fu riconosciuto un insieme di libertà e di immunità; ma concedeva anche una tutela dei diritti di tutti gli uomini liberi. Contiene alcuni principi di grande importanza, soprattutto in campo giudiziario (Habeas corpus). Più volte riformata negli anni seguenti, è ancora in vigore ed è tuttora il primo testo delle collezioni di leggi vigenti in Inghilterra.
[17] Dichiarazione dei diritti - Con la Dichiarazione dei diritti (Bill of Rights, 1689) Guglielmo riconobbe i diritti del parlamento e la libertà di parola. Repressa nel sangue la resistenza giacobita dei cattolici irlandesi (1690), si instaurò un regime di tacita separazione dei poteri tra re (esecutivo) e parlamento (legislativo con controllo sui ministri). L’unione personale tra Paesi bassi e Inghilterra, da un secolo rivali sui mari, favorì la creazione di una potenza navale insuperabile.
[18] Rifeudalizzazione - Ricomparsa o rafforzamento di elementi di carattere feudale nella vita sociale, politica, economica italiana a partire dalla fine del Cinquecento sino a buona parte del Settecento. I residui feudali furono di varia natura: dalla ricomparsa di titoli nobiliari (marchese, conte ecc.), alla riaffermazione della nobiltà nelle gerarchie sociali e nelle cariche politiche, alla ripresa di forme di oppressione dei lavoratori nelle campagne. Rifeudalizzazione è, dunque, sinonimo d’involuzione sociale, politica ed economica e di crisi. Qualcosa di analogo sembra essere avvenuto anche in Francia (réaction seigneuriale).
[19] Adone - Amore, punito dalla madre Venere, per vendicarsi la fa innamorare del bellissimo Adone, che visita con la dea il Palazzo d'Amore. La descrizione di questo palazzo, inframezzata dal racconto di varie favole (Amore e Psiche, Eco e Narciso, Ganimede, Ila), dall'elenco delle delizie del Giardino del Piacere, dall'unione dei due amanti, da un excursus autobiografico sono l'argomento di molti canti successivi. Stravaganti avventure, provocate dalla gelosia di Marte e dalla maga Falsirena, separano i due amanti. Venere fa eleggere Adone ritrovato re di Cipro. Mentre la dea è a Citera, Marte fa uccidere Adone da un cinghiale. Venere celebra per l'amante esequie fastose, mutandone poi il cuore in un fiore.
[20] Fisiocrazia - Dottrina economica che si affermò in Francia verso il 1750 e si diffuse ben presto in Europa.
Il termine, che deriva dal greco phsis (natura) e kratêin (dominare), fu usato da P. S. Dupont de Nemours nel 1767, in una raccolta di scritti di François Quesnay (La Physiocratie).
La premessa fondamentale era che esiste un ordine naturale della società analogo a quello che si ritrova nella natura fisica. Ma questo ordine naturale esiste solo se gli uomini non ne ostacolano la realizzazione. Interessati soprattutto all’analisi economica, i fisiocratici si opponevano al mercantilismo, che individuava nel commercio internazionale la fonte della ricchezza dello stato. Per loro, invece, la fonte era la terra, dal momento che essa era l’unico fattore di produzione in grado di generare valori aggiunti. Solo la terra era capace di fornire un prodotto netto, un surplus rispetto agli investimenti apportati. L’agricoltura, perciò, era in grado di produrre, mentre l’artigianato e la manifattura trasformavano soltanto.
La classe agricola degli imprenditori e degli affittuari era quindi, per i fisiocratici, produttiva, mentre artigiani, commercianti, manifattori e liberi professionisti costituivano la classe sterile; i proprietari fondiari, il clero, i funzionari pubblici e il sovrano, infine, si identificavano con la classe oziosa. Costoro ricevevano sotto forma di rendite, decime o imposte il prodotto netto, che poi, attraverso i loro consumi, ridistribuivano alla classe sterile e a quella produttiva.
I fisiocratici erano quindi favorevoli al libero commercio dei prodotti agricoli e particolarmente interessati allo sviluppo dell’agricoltura. Poiché lo stato si doveva impegnare a garantire la libertà, la proprietà e la sicurezza, si giustificava il prelievo fiscale, che doveva essere però attuato sul prodotto netto attraverso un’imposta diretta e reale sulla terra, che gravava quindi unicamente sui proprietari fondiari.

[21] APPROFONDIMENTO: DIRITTO

La spersonalizzazione della posizione del re - Solo tra il XVIII e il XIX secolo, questa posizione fu superata. Anche il re divenne un funzionario statale, il cui primo e esclusivo dovere era di agire nell’interesse aggettivo dello Stato. Si teorizzò la «ragion di Stato» per esprimere questo interesse, superiore a quello di qualunque persona fisica, compresa la persona del re. La sintesi di questa visione è nella celebre frase di Federico II di Prussia, detto Federico il Grande (1740-1786), che si definiva il «primo servitore dello Stato».

Lo Stato poteva allora considerarsi un’organizzazione impersonale che non coin­cideva più con nessuna persona fisica, nemmeno con quella del re. Tutti coloro che agivano per lo Stato - dal più umile impiegato al re - ne erano divenuti funzionari.

Lo Stato, a sua volta, divenne titolare di situazioni giuridiche proprie. Esso assunse capacità giuridica attraverso la personificazione del «fisco», cioè delle risorse dello Stato, che vennero separate da quelle private del re come persona privata.

[22] Stati generali - Antica assemblea straordinaria dei rappresentanti di nobiltà, clero e Terzo stato in Francia e nelle Fiandre. Derivati dalle assemblee plenarie dei re capetingi, gli Stati generali francesi furono convocati la prima volta durante il conflitto tra papa Bonifacio VIII e Filippo IV (1301-1302). Nel 1317 Filippo V dispose che le città del regno scegliessero i propri rappresentanti all’assemblea, introducendo il principio dell’elettività dei deputati. Organo puramente consultivo, non avevano funzioni definite ed erano convocati saltuariamente per richiedere l’espresso consenso all’operato del sovrano. In alcune circostanze tentarono di accrescere le proprie prerogative assumendo iniziative politiche, ma la corona reagì evitando di convocarli. Nel secondo Cinquecento aumentò la loro importanza specie in materia fiscale e finanziaria, ma crebbe anche la conflittualità fra le tre componenti. Tali contrasti fecero fallire la riunione del 1614-1615. Dopo quella data non furono più convocati fino al 1789, quando la loro pretesa di costituirsi in Assemblea nazionale costituente segnò l’inizio della Rivoluzione francese. Nelle Fiandre gli Stati generali, delegati di quelli provinciali, furono convocati sotto la dominazione borgognona e asburgica (secoli XV-XVI) con funzioni consultive specie in ambito fiscale. Alla secessione dalla Spagna delle sette province settentrionali (1579), il nome fu trasferito al principale organo collegiale di governo, che fu abolito nel 1796, dopo l’arrivo delle truppe rivoluzionarie francesi.
[23] Assemblea nazionale costituente - Organismo formato, durante la Rivoluzione francese, dai delegati del Terzo stato agli Stati generali, proclamatisi nella Sala della pallacorda rappresentanti della nazione (17 giugno 1789) per elaborare una costituzione. Trasformatasi in Assemblea nazionale costituente dopo che vi si furono congiunti anche i membri della nobiltà e del clero (9 luglio), si sciolse il 30 settembre 1791. I suoi membri, pur non essendo organizzati in partiti, assunsero posizioni diverse, su cui si sviluppò una nuova terminologia politica. A destra del presidente sedevano i monarchici intransigenti. Successivamente in questo gruppo confluì anche il centro, costituito dai monarchici bicameralisti che, sul modello inglese, riconoscevano al re il diritto di nominare una seconda camera. Fatta eccezione per qualche estremista, a sinistra erano i fautori del parlamentarismo, prevalentemente del Terzo stato, integrati da aristocratici liberali ed esponenti del basso clero. I rappresentanti degli interessi della medio-alta borghesia desiderosa di partecipare alla vita politica, ma intenzionata a difendere l’ordine e la proprietà, riuscirono a imporre la propria linea. Furono così varate riforme fondamentali quali l’abolizione del regime feudale, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, l’incameramento dei beni ecclesiastici e degli emigrati, la Costituzione civile del clero e, infine, la Costituzione del 1791.
[24] Girondini - Gruppo politico nato durante la Rivoluzione francese. Riuniva i deputati all’Assemblea legislativa provenienti dal dipartimento della Gironda. In seno alla Assemblea i girondini assunsero un atteggiamento radicale e antimonarchico imponendo a Luigi XVI la dichiarazione di guerra all’Austria e alla Prussia (20 aprile 1792).
Contrari all’ideologia egualitaria dei sanculotti parigini, i girondini perseguivano obiettivi ideali e politici favorevoli alla borghesia, soprattutto alle sue componenti provinciali e mercantili. Il loro prestigio e il loro potere furono progressivamente ridotti dall’emergere dei giacobini e dai moti di piazza del 10 agosto 1792 diretti da questi ultimi.
La sconfitta divenne definitiva il 2 giugno 1793 quando i girondini furono costretti a cedere il potere sotto la spinta dei sanculotti parigini. L’arresto e la condanna a morte di molti di loro costituì il momento iniziale del terrore. Solamente dopo il 9 termidoro la frangia superstite del gruppo poté ritornare a sedere tra i banchi della Convenzione.
[25] Giacobini - Membri di un club creato durante la Rivoluzione francese, a Versailles, nel maggio 1789, da alcuni parlamentari bretoni capeggiati da J.R. Chevalier, e che si trasferì in ottobre a Parigi, insieme con l’Assemblea.
Sotto il nome di Società degli amici della costituzione i giacobini si insediarono nel refettorio dell’ex convento dei domenicani. Ben presto, sotto la guida di un triumvirato composto da A. Du Port, A. Barnave e A. De Lameth, riuscirono a costituire una fitta rete di società affiliate in tutto il paese, divenendo centro propulsore e cassa si risonanza nazionale della politica rivoluzionaria. Il club, in questa prima fase aderente a una linea monarchico-costituzionale, escludeva i ceti popolari a causa dell’elevata quota d’iscrizione che rendeva loro proibitiva l’adesione. Il suo principale obiettivo era la promozione di progetti di legge da sottoporre all’Assemblea e l’attività di propaganda delle leggi già rese esecutive. Ma la crisi di regime aperta dalla fuga di Varennes (giugno 1791) e aggravata dall’eccidio di Campo di Marte (luglio 1791), creò nel club parigino una profonda spaccatura, determinando la fuoriuscita della maggioranza, riunita intorno a Barnave e La Fayette, che andò a costituire il gruppo dei  foglianti.
Moderata fino ad allora, la politica giacobina assunse, da quel momento, un indirizzo più democratico, ma soprattutto più intransigente. Da luogo di discussione il club si trasformò in laboratorio di idee e forze rivoluzionarie volte alla conquista del potere. Mutato il suo nome dal settembre 1792 in quello di Club dei giacobini, la società eliminò dal suo interno le residue frange moderate e, nel maggio 1793, riuscì a esautorare il governo dei girondini. Divenne così il gruppo più organizzato ed egemone nella Convenzione ed ebbe in Robespierre il capo indiscusso. L’alleanza con i sanculotti parigini, pur non priva di momenti di tensione che si fecero particolarmente acuti nella primavera del 1794, spinse i giacobini a radicalizzare la lotta contro aristocratici e monarchici e ad appoggiare misure che limitavano la libertà economica. Durante il terrore i giacobini sostennero il Comitato di salute pubblica.
Il colpo di stato del termidoro e la conseguente svolta moderata determinarono la chiusura del club, nel novembre 1794.
[26] Comitato di salute pubblica  (1793-1795). - Organo di sorveglianza e poi di governo della Francia rivoluzionaria. Istituito il 6 aprile 1793 dalla Convenzione, in sostituzione del Comitato di difesa generale, e costituito da nove deputati, ebbe il potere esecutivo. Dopo la sconfitta della Gironda e la presa del potere da parte della Montagna (2 giugno), fu riorganizzato e diviso in sei sezioni, diventando il principale organo del governo rivoluzionario. Modificato anche nella struttura, il nuovo organismo, composto da dodici e poi da quattordici membri, fu, dopo l’esclusione di Danton, dominato dalla figura di Robespierre.
Intervenendo in tutti i problemi sia di politica interna sia estera, il Comitato bandì la leva di massa generalizzata, prese provvedimenti di carattere economico quali l’istituzione di un calmiere dei prezzi, realizzò la centralizzazione amministrativa e iniziò l’opera di scristianizzazione attraverso l’adozione di un nuovo calendario e l’istituzione del culto della Ragione.
Nel settembre 1793 ebbero luogo i primi grandi processi politici, mentre la Francia ottenne vari successi nella campagna di guerra allontanando la minaccia di una invasione del territorio nazionale e cogliendo alcune importanti vittorie. Il rinnovarsi di conflitti interni fra il Comitato di salute pubblica e il Comitato di sicurezza generale e il contrasto, in seno al primo, fra Robespierre e Lazare-Nicolas Carnot portarono alla reazione dei moderati e al colpo di stato del 9 termidoro (27 luglio 1794). Pur rimanendo in vita ancora per un anno il Comitato di salute pubblica fu epurato degli elementi più vicini a Robespierre e perse il suo ruolo centrale, venendo affiancato da altri comitati e quindi sciolto definitivamente alla caduta della Convenzione (26 ottobre 1795).
[27] Terrore - (1792-1794). Periodo della Rivoluzione francese in cui prevalsero le forze più radicali e si adottarono misure eccezionali per fronteggiare la controrivoluzione interna e gli eserciti stranieri che premevano alle frontiere. Un primo periodo di terrore si ebbe alla caduta della monarchia (10 agosto 1792), quando giacobini e sanculotti, organizzati nella Comune di Parigi, imposero all’Assemblea legislativa l’istituzione di un tribunale straordinario per giudicare traditori e sospetti e l’adozione di provvedimenti quali la spartizione tra i contadini dei pascoli comuni, la vendita in piccoli lotti dei beni nazionalizzati, il suffragio universale. Assunto il controllo della Convenzione da parte dei giacobini (2 giugno 1792), il Terrore infuriò a partire dal settembre 1793. Giustificato dalla volontà di salvare la Rivoluzione, fu applicato in tutti i settori di competenza dello stato: amministrazione, giustizia, finanze, esercito, economia, cultura. Il Tribunale rivoluzionario liquidò con processi sommari i controrivoluzionari e gli oppositori del governo. La leva di massa permise il successo militare mentre la regolamentazione dell’economia (requisizioni, calmiere dei prezzi) consentì di sostenere lo sforzo bellico e di controllare la crisi economica e sociale. Nonostante la sconfitta dei nemici interni ed esterni, si ebbe una recrudescenza del Terrore con la legge del 22 pratile (10 giugno 1794) che accentuò l’isolamento del gruppo dirigente. Il regime fu abbattuto il 9 termidoro (27 luglio 1794) e la cruenta reazione antigiacobina che seguì prese il nome di Terrore bianco (1794-1795).
[28] Maximilien de Robespierre (Arras 1758 - Parigi 1794). Politico francese. Avvocato, intellettuale illuminista seguace di Rousseau e critico nei confronti dell’assolutismo regio e del sistema giudiziario, fu eletto deputato agli Stati generali del 1789. Appassionato difensore della libertà e dell’uguaglianza tra gli uomini, esercitò la sua influenza nel club dei giacobini, divenendone leader indiscusso con le campagne a favore del suffragio universale e contro la monarchia dopo la fuga di Varennes. La vita austera e l’intransigenza morale gli valsero il soprannome di Incorruttibile. Ostile alla dichiarazione di guerra all’Austria, in cui identificava un pericolo per le sorti della rivoluzione, dopo lo scoppio del conflitto (aprile 1792) e i primi rovesci militari divenne strenuo sostenitore della difesa a oltranza. Eletto membro della Comune di Parigi dopo la rivolta popolare del 10 agosto 1792, fu poi deputato alla Convenzione dove si schierò con i montagnardi contro i girondini.
Disinteressato fino ad allora ai problemi dell’approvvigionamento, appoggiò il programma dei sanculotti che chiedevano il calmiere dei prezzi delle derrate nonché l’epurazione dei sospetti e il potenziamento delle sezioni popolari. Dopo che i montagnardi ebbero conquistato il controllo della Convenzione con l’aiuto dei sanculotti (giornate del 31 maggio e del 2 giugno 1793), si adoperò per contenere le spinte radicali di questi ultimi e sostenne la necessità di un potere dittatoriale. Animatore del Comitato di salute pubblica, adottò misure straordinarie per fronteggiare le difficoltà del momento e salvare la rivoluzione dai nemici interni ed esterni, non esitando a instaurare il regime del Terrore. La sconfitta della controrivoluzione e i successi militari riportati dalla Francia sugli eserciti coalizzati resero sempre più inviso e meno giustificabile il Terrore e favorirono l’alleanza degli oppositori che il 9 termidoro posero sotto accusa Robespierre di fronte alla Convenzione. Arrestato insieme ai suoi più stretti collaboratori, fu giustiziato il giorno successivo.
[29] Sanculotti - (sans-culottes). Termine coniato durante la Rivoluzione francese per designare i popolani che portavano i pantaloni lunghi invece delle culottes, calzoni corti e aderenti preferiti dall’aristocrazia. Adoperato dapprima in senso spregiativo dalla pubblicistica ostile alla Rivoluzione, con il radicalizzarsi della lotta politica l’appellativo divenne motivo di orgoglio per i militanti delle sezioni parigine. Quanto a provenienza sociale i sanculotti erano essenzialmente produttori indipendenti, piccoli commercianti e artigiani, ai quali si aggiungeva una modesta percentuale di salariati. Erano decisamente esclusi dalle loro file sia i poveri e gli indigenti, sia la borghesia agiata dei grossi rentiers, dei mercanti e dei capitalisti. Protagonisti delle giornate rivoluzionarie e reclutati in massa nelle armate, i sanculotti si imposero sulla scena politica dall’estate 1792 fino alla primavera 1795. Sensibili alle difficoltà d’approvvigionamento, all’aumento dei prezzi e alla svalutazione degli assegnati, reclamarono la regolamentazione dell’economia e la fissazione del maximum dei prezzi. Sostenitori della democrazia diretta, tollerarono male il sistema rappresentativo e la concentrazione di potere nelle mani del governo rivoluzionario. Indifferenti alle vicende del nove termidoro, furono in momentanea ripresa dopo la caduta di Robespierre, ma si disgregarono in seguito al fallimento delle giornate insurrezionali di germinale e pratile (aprile-maggio 1795).
[30] Georges Jacques Danton (Arcis-sur-Aube 1759 - Parigi 1794). - Di modeste origini borghesi, studiò diritto e si trasferì a Parigi. Scoppiata la Rivoluzione, vi aderì prontamente e, abile oratore, si distinse nella lotta contro le correnti più moderate. Leader del club dei cordiglieri e fervente repubblicano, ebbe un ruolo determinante nelle agitazioni che provocarono l’eccidio del Campo di Marte (1791) e nell’insurrezione del 10 agosto 1792 che portò alla caduta della monarchia. Nominato ministro della Giustizia, tollerò le stragi di settembre. Eletto alla Convenzione, tentò di mediare il contrasto tra girondini e montagnardi; infine si schierò con questi ultimi ed entrò nel Comitato di salute pubblica. Di fronte alle vicende della guerra del 1792-1793 si adoperò per reclutare un grande esercito e fronteggiare la coalizione austro-prussiana; tuttavia, mentre pubblicamente spingeva i francesi alla liberazione dei popoli e al raggiungimento dei confini naturali, intavolava trattative con gli avversari. Tale atteggiamento contraddittorio, gli arricchimenti illeciti e il coinvolgimento in alcuni scandali gli alienarono molti favori. Assunta la direzione dell’opposizione moderata a Robespierre, da quest’ultimo fu usato per sconfiggere gli oppositori di sinistra, ma poi venne egli stesso eliminato. Arrestato insieme ai suoi seguaci, gli indulgenti, fu giudicato dal Tribunale rivoluzionario e condannato a morte.
[31] Colpo di stato del Termidoro - Rovesciamento del governo giacobino durante la Rivoluzione francese. Il Comitato di salute pubblica fu privato dei suoi poteri e Robespierre e i suoi seguaci, accusati di ambizione e dispotismo di fronte alla Convenzione, furono arrestati e decapitati il giorno successivo.
Al successo della congiura antigiacobina avevano contribuito le vittorie riportate sui nemici interni ed esterni della rivoluzione che avevano reso inutile il regime del Terrore. Inoltre si erano allentati i legami tra il governo rivoluzionario e i sanculotti, scontenti per il calmiere sui salari e per le esecuzioni dei seguaci di Hébert. Infine, il gruppo dirigente aveva perduto l’appoggio della Convenzione dopo l’alleanza tra i moderati della Palude e i cosiddetti terroristi, rappresentanti in missione nelle province, richiamati da Robespierre a Parigi a causa dei loro misfatti.
[32] John Locke - Dal 1667 segretario e medico personale di lord Shaftesbury, lo seguì nel 1683 in Olanda quando, per la sua opposizione a Carlo II, questi fuggì dall’Inghilterra. In Olanda pubblicò la Lettera sulla tolleranza, nella quale combatteva il principio della chiesa di stato e difendeva la libertà di coscienza, sostenendo che la tolleranza andava negata alle confessioni intolleranti, come il cattolicesimo, e agli atei, per il carattere antisociale delle loro dottrine.
Nel 1689 tornò in patria al seguito di Maria Stuart e Guglielmo d’Orange e pubblicò, nel 1690, i Due trattati sul governo civile. Il primo confutava la legittimazione biblica e patriarcale dell’assolutismo data da Robert Filmer; il secondo teorizzava lo stato come garante dei diritti naturali (in particolare la libertà e la proprietà) e delineava i caratteri di una monarchia parlamentare fondata sul principio della divisione dei poteri. Nello stesso anno apparve anche la sua opera più importante, il Saggio sull’intelletto umano.
Dal 1696 al 1700 fece parte del Consiglio per il commercio e le colonie.
[33] che ebbe straordinari esempi nell’opera di Jonathan Swift e di Voltaire; nei Viaggi di Gulliver (1726) Swift mescola il gusto comico del paradosso a una vigorosa vena satirica.
[34] che ebbe straordinari esempi nel Candido (1759) di Voltaire, il romanzo che divenne strumento di confutazione intellettuale di teorie pedagogiche, sistemi filosofici e ideologie politiche e soprattutto il romanzo Emilio o dell’educazione (1762) di Jean-Jacques Rousseau
[35] A questo romanzo fecero seguito altri capolavori del sottogenere come I misteri di Udolfo (1794) di Ann Radcliffe, Il monaco (1796) di Matthew Gregory Lewis e Frankenstein (1818) di Mary Wollstonecraft Shelley. La tensione al gotico e all’orrore fu sempre molto viva nello sviluppo del romanzo, e negli ultimi anni si è anzi rinnovata, tanto da far sì che le horror stories siano oggi uno dei generi romanzeschi più frequentati.
[36] Il modello narrativo del romanzo epistolare annovera nel Settecento altri importanti capolavori come La nuova Eloisa (1761) di Jean-Jacques Rousseau (che allude fin dal titolo a un famoso archetipo del genere epistolare: il carteggio medievale tra Abelardo ed Eloisa), I dolori del giovane Werther (1774) di Johann Wolfgang Goethe e Le ultime lettere di Jacopo Ortis (prima edizione, incompleta, 1798) di Ugo Foscolo.
[37] Confederazione germanica - Associazione politica delle trentanove entità statuali tedesche. Fu fondata durante il congresso di Vienna e si sciolse dopo la guerra austro-prussiana. Sotto l’egemonia dell’Austria, i suoi poteri reali furono scarsi. La Prussia, dopo la diffusione dello Zollverein e la nomina di O. Bismarck a cancelliere nel 1862, ne minò la stabilità, fino a creare la Confederazione della Germania del nord.
[38] Manifesto del Partito Comunista - Opuscolo scritto da K. Marx con la collaborazione di F. Engels su incarico della Lega dei comunisti e pubblicato a Londra. Divenne il programma politico della prima Internazionale nel 1864 ed ebbe amplissima diffusione. Vi si identificava la storia come storia di lotta fra le classi, prospettando i mezzi con i quali il proletariato poteva sconfiggere la borghesia e instaurare il comunismo.
[39] APPROFONDIMENTO: Il Risorgimento italiano e l’Europa - Da questa rapida esposizione risulta chiaro che il Risorgimento italiano non fu un movimento a sé stante, ma si inserì nel più vasto movimento politico e culturale europeo e per più ragioni:
a) I moti insurrezionali e le successive guerre di indipendenza che portarono alla costituzione del Regno furono resi possibili dall’evolversi della situazione politica europea e dal conseguente venir meno della forza repressiva della Santa Alleanza; il che consentì il formarsi di un più libero gioco di potenze.
b) Gli eventi italiani rappresentarono il contraccolpo di analoghi eventi stranieri. Ad esempio, i moti italiani del ‘21 furono ispirati dalla insurrezione spagnola di Cadice (1820); quelli del ‘31 furono promossi dalla Rivoluzione francese del luglio 1830; le insurrezioni del ‘48 furono uno dei movimenti di rivolta che percorsero l’Europa a seguito della rivoluzione scoppiata in Francia nel febbraio dello stesso ‘48.
c) La politica di Cavour si inserì abilmente nel gioco europeo, sfruttando a proprio vantaggio l’ambizione di Napoleone III che mirava a porre un’ipoteca francese sul nuovo assetto che veniva delineandosi in Italia.
d) Il patrimonio di idee che costituì il supporto all’azione degli uomini del nostro Risorgimento era comune a tutta l’Europa liberale frutto di un lungo processo al quale l’Italia, rimasta appartata nei secoli XVI e XVII, si era ricongiunta a partire dalla seconda metà del secolo XVIII.
I protagonisti del Risorgimento ebbero coscienza del significato europeo della loro azione, sia i carbonari che si collegavano agli altri liberali europei, sia il Mazzini che vedeva il Risorgimento italiano come un momento del risorgimento europeo, sia il Cavour che considerava l’applicazione della concezione liberale, affermatasi in Inghilterra e Francia, come l’elemento che avrebbe portato l’Italia al livello dei grandi Stati d’Europa.
[40] Giuseppe Mazzini – Giuseppe Mazzini nacque a Genova il 22 giugno del 1805 da Giacomo, professore universitario ex giacobino e da Maria Drago.
A soli quindici anni fu ammesso all'Università, in un primo tempo venne avviato agli studi di medicina, poi a quelli di legge, ma sin dall'adolescenza si mostrò più interessato agli studi politici e letterari.
Nel 1826 scrisse il suo primo saggio letterario, Dell'amor patrio di Dante (pubblicato poi nel 1837). Nel 1827 si laureò in legge, e nello stesso periodo entrò a far parte della Carboneria, per la quale svolse incarichi vari di carattere organizzativo in Liguria e in Toscana.
Animo rivoluzionario, concepiva la rivoluzione non come rivendicazione di diritti individuali non riconosciuti, bensì come un dovere religioso da attuare in favore del popolo. Negli anni seguenti collaborò con l'Indicatore genovese, scrivendo articoli e note bibliografiche. Nel 1830 Mazzini iniziò a viaggiare in tutta Italia per trovare nuovi adepti per la carboneria. Tradito e denunciato alla polizia quale carbonaro venne arrestato e rinchiuso nella fortezza di Savona. L'anno seguente, prosciolto per mancanza di prove e quindi liberato, gli venne imposto di scegliere tra il confino, sotto la sorveglianza della polizia, o l'esilio. Scelse quest'ultimo, recandosi a Ginevra dove incontrò altri esuli.
Si laureò in giurisprudenza, ma era interessato allo studio della letteratura come impregno civile. Affiliato alla carboneria genovese svolse un’intensa attività sperando che la rivoluzione francese del 1830 aprisse prospettive rivoluzionarie anche in Italia. Fu arrestato nel 1830 e esiliato nel 1831.
In seguito, a Marsiglia, fondò la Giovine Italia, che ebbe come sottotitolo: Serie di scritti intorno alla condizione politica, morale e letteraria dell'Italia, tendenti alla sua rigenerazione, società con cui propugnò l'unità nazionale in senso repubblicano e democratico. Appena salito al trono Carlo Alberto, gli scrisse per esortarlo a prendere l'iniziativa della riscossa italiana, ma senza ottenere risultati. Allargò poi il suo impegno ideologico con la fondazione della Giovine Europa.
Giuseppe Mazzini morì a Pisa nel 1872, con la consolazione di spegnersi in patria, dopo aver vissuto quasi sempre in esilio.
[41] L'organizzazione Giovine Italia – Mazzini fondò a Marsiglia la Giovine Italia.
Nel 1832, a Marsiglia, inizia la pubblicazione della rivista "La Giovine Italia", che ha come sottotitolo "Serie di scritti intorno alla condizione politica, morale e letteraria dell'Italia, tendenti alla sua rigenerazione". Mazzini individuò nel tipo di azione politica svolta dalla carboneria e ancor prima dalla massoneria le cause del fallimento dei moti italiani. I difetti di questa organizzazione erano stati la segretezza e la mancanza di un programma ben definito. La segretezza aveva impedito ai cospiratori di avere ampia partecipazione da parte delle popolazioni che si erano trovate coinvolte in moti di cui non conoscevano né i capi né la finalità. La mancanza di chiari programmi aveva determinato anche negli stessi organizzatori incertezze e divisioni. Gli affiliati della Giovine Italia dovevano propagare le proprie idee perché l’opera di educazione era fondamentale per ottenere la rigenerazione morale e spirituale del popolo italiano.
L’opera di educazione doveva concludersi con l’impegno all’insurrezione e la partecipazione diretta alla guerra armata. Tra educazione ed insurrezione esisteva un rapporto di dipendenza. La propaganda avrebbe accresciuto il numero delle persone disposte a lottare e lo lotta avrebbe costituito un ulteriore momento di educazione. Lo sforzo di organizzazione compiuto da Mazzini da 1831 al 1843 fu enorme: la "Giovine Italia" era penetrata in tutti gli stati italiani, faceva proseliti soprattutto nei ceti borghesi, ma reclutava aderenti anche tra artigiani e proletari. Scarsa fu invece la penetrazione nelle campagne. Secondo il programma di Mazzini l’Italia doveva essere una – indipendente – sovrana. La Giovine Italia conobbe una rapida espansione caratterizzandosi nella sostanza come partito di quadri, composto cioè da persone preparate e pronte all'azione insurrezionale. Ma i tentativi insurrezionali compiuti si conclusero con l'insuccesso. Nel 1833 e poi nel 1834 l'organizzazione fu decimata da arresti e condanne. Mazzini, constatata l'immaturità politica italiana, fondò a Berna (Svizzera) la Giovine Europa
Mazzini non si riconosceva in alcuna Chiesa, malgrado ciò, il rivoluzionario genovese era uno spirito profondamente religioso, convinto che dio avesse assegnato agli uomini la missione di vivere nella pace e nella giustizia. Gli individui, pertanto, dovevano concepire la propria esistenza in primo luogo come un dovere e dedicare ogni energia alla costruzione del nuovo mondo libero e giusto che Dio chiedeva loro di costruire. Dio, inoltre, secondo Mazzini, aveva assegnato all’Italia un ruolo di primaria importanza. Proprio perché la sua condizione era particolarmente difficile, essa doveva dare l’esempio a tutti gli altri popoli e indicare la via della liberazione dal dominio straniero e dall’oppressione.
L’idea di nazione, dunque, era al centro del pensiero mazziniano. A giudizio di Mazzini, tutti i popoli avevano pari dignità e pari diritti alla libertà e all’indipendenza, non a caso degli fondò nel 1834 la Giovine Europa. La scelta repubblicana si spiega con il fatto che, per Mazzini, la sovranità apparteneva solamente al popolo: questi non poteva delegare a nessuno a governare al duo posto. Un popolo che con le proprie forze fosse riuscito a conquistare la libertà sarebbe riuscito pure ad esercitare il potere, senza far ricorso ai re, che per altro erano tutti, secondo Mazzini, dei potenziali tiranni e dittatori spietati.
Il contributo del mazzinianesimo al Risorgimento è da riconoscere in questa affermazione che il popolo italiano avrebbe conquistato la sovranità e la libertà solo assumendo direttamente l’iniziativa politica. La futura Italia avrebbe dovuto essere una repubblica perché solo la forma repubblicana avrebbe permesso al popolo italiano di attuare la missione affidatagli da Dio. La Giovine Italia determinò un salto di qualità nella organizzazione della lotta politica in Italia.
[42] Vincenzo Gioberti – Il filosofo, teologo, sacerdote e uomo politico Vincenzo Gioberti, nacque a Torino il 5 aprile 1801 figlio di Giuseppe, un piccolo borghese di condizione economiche modeste, che lo lasciò orfano in giovane età. Sotto l’influenza della madre, una donna di forti sentimenti religiosi, Gioberti. intraprese un percorso d’educazione e studi ecclesiastici, presso i Padri Oratoriani, culminato con la laurea in teologia nel gennaio 1823 e l’ordinazione a sacerdote nel marzo 1825.
Nel 1826 egli fu nominato cappellano di corte ed, in seguito, entrò progressivamente nella vita sociale e politica del Piemonte dell’epoca, dapprima allacciando rapporti con la società segreta dei Cavalieri della Libertà, d’orientamento costituzionalista liberale moderato, poi collaborando, sotto lo pseudonimo di Demofilo, con la rivista di Giuseppe Mazzini dal1805 al 1872, La Giovine Italia.
Tuttavia le sue idee filosofiche panteistiche e, soprattutto, il pensiero politico d’ispirazione repubblicana mazziniana, lo misero in cattiva luce: fu, infatti, arrestato dalla polizia nel giugno 1833, e, dopo qualche mese di carcere, costretto ad andare in esilio nel settembre dello stesso anno.
Visse quindi per ben quindici anni all’estero, dapprima a Parigi, poi lungamente a Bruxelles, dove campò come insegnante e scrivendo svariati trattati filosofici e politici. La sua fama è soprattutto legata alla pubblicazione, nel 1843, del trattato “Del primato morale e civile degli Italiani”, dedicato a Silvio Pellico. Accolto in maniera molto fredda, se non ostile dal mondo ecclesiastico. In particolare, esso diede inizio ad un’annosa polemica tra Gioberti e l’ ordine dei gesuiti, che proseguì con le “Prolegomeni al Primato” del 1845,” Il Gesuita Moderno” del 1847 e “l’Apologia del Gesuita Moderno” del 1848, e che portò, qualche anno dopo, alla messa all’Indice dei suoi libri.
Sempre al periodo franco-belga risalgono alcuni suoi scritti polemici contro Antonio Rosmini “Errori filosofici di Antonio Rosmini”, del 1842,  ”Felicité de Lamennais“, del 1840 e contro il filosofo hegeliano francese Victor Cousin.
Nel 1846 il re sabaudo Carlo Alberto (1831-1849) proclamò un’amnistia, ma Gioberti, che nel frattempo si era trasferito a Parigi, non ne usufruì e fece ritorno in patria solo nel 1848, il 29 aprile, dopo un rientro a Torino, a Gioberti,. fu offerto un seggio di senatore, ma egli preferì quello di rappresentante nella Camera dei Deputati del regno di Sardegna, di cui fu eletto primo presidente.
Poco dopo Gioberti. divenne capo del governo piemontese, tuttavia lo scoppio della seconda fase della 1° guerra d’indipendenza e le polemiche con gli altri ministri sulla sua proposta di restaurare il Granduca di Toscana e il papa,scacciati dai moti popolari del 1848 dai loro rispettivi troni, misero fine alla sua carriera politica. Non piaceva, tra l’altro, la sua idea di una federazione di stati italiani sotto la presidenza del papa, che gli valse il titolo di neo-guelfo.
Dopo la sconfitta di Novara del 23 marzo 1849, il nuovo re Vittorio Emanuele II re di Sardegna: 1849-1861; re d’Italia: 1861-1878 offrì a Gioberti. un incarico diplomatico a Parigi, dove si trasferì e da dove non fece mai più ritorno in Italia. A Parigi Gioberti, compose l’altra sua opera fondamentale dopo il “Primato morale e civile”, “il Rinnovamento civile d’Italia”;  morì per un colpo apoplettico il 26 ottobre 1852.
La sua filosofia è una miscela di ontologismo panteistico, tradizionalismo e neoplatonismo. Il tutto è riassunto in un processo ciclico, che presenta una fase discendente, la mimesi il processo di derivazione del mondo da Dio, ed una fase ascendente, la metessi il processo con cui il mondo e l’uomo ritornano a Dio.
Dio si presenta al nostro intuito come l’Idea, o l’Essere reale assoluto, o Ente (Ens), che non può essere causato da altro ed esiste quindi “necessariamente”.
Tutte le creature sono invece “esistenze” e sono state create ex nihilo da Lui ; per Gioberti. la mimesi era riassunta nella frase “l’Ente crea l’esistente”, e da Lui discendono, ma non possono essere confusi con Lui. La creazione non si conclude, in ogni caso, con l’atto creativo, ma con l’anelito dell’esistente – in particolare l’uomo – a ritornare all’Ente, sintesi della metessi era la frase “l’esistente torna all’Ente”.
[43] Cesare Balbo (Torino 1789-1853) – Conte di Vinadio, uomo politico e storico italiano. Figlio di Prospero e di Enrichetta Taparelli d'Azeglio, subì in gioventù l'influenza di Alfieri, e fondò, nel 1804, con alcuni coetanei l'Accademia dei Concordi, nelle cui discussioni cominciarono a prendere forma le sue idee liberal-moderate.
Durante la dominazione francese in Italia fu al servizio di Napoleone, ricoprendo successivamente le cariche di segretario generale della giunta governativa di Toscana (1808), di segretario della consulta per i territori già pontifici (1809) e infine di uditore al Consiglio di Stato di Parigi (1811).
In seguito al moto liberale piemontese del 1821, al quale peraltro non aveva partecipato, fu esiliato nel 1822. Si concentrò da allora negli studi storici e filosofici ed oltre alle Memorie sulla rivoluzione del 1821, la Storia d'Italia sotto i barbari, cioè dal 476 al 774 (1830), i Pensieri ed esempi di morale e di politica, scritti nel 1832-1833 e pubblicati postumi nel 1854, la Vita di Dante (1839), le Meditazioni storiche (1842-1845) e il classico Sommario della storia d'Italia (1846).
Iniziato, col Primato di Gioberti, il movimento d'opinione moderato per la soluzione della questione italiana, Cesare Balbo, in sostegno, aveva pubblicato nel 1844 Le speranze d'Italia.
Dopo la concessione dello statuto albertino Balbo fu il primo presidente del consiglio del regno di Sardegna (13 marzo - 25 luglio 1848), e in seguito fu capo della Destra nel parlamento subalpino. Ma negli ultimi anni della sua vita tornò a dedicarsi agli studi, scrivendo articoli e saggi che confluirono nella raccolta postuma Della monarchia rappresentativa in Italia (1857).
[44] Massimo d'Azeglio – Massimo d'Azeglio nacque a Torino nel 1798 da nobile famiglia.
Figura politica di primo piano , durante la sua vita si dedicò anche alla pittura e alla letteratura, sia in veste di scrittore politico che di romanziere.E' stato una persona liberale moderato, arrivò a ricoprire la carica di Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna dal 1849 al 1852. Nel 1860 fu nominato governatore di Milano.Fu anche pittore, noto per i paesaggi e i quadri di battaglie. Tra i suoi opuscoli politici sono famosi "Gli ultimi casi di Romagna" (1846) in cui invitava gli italici a abbandonare la via delle cospirazioni, e "I lutti di Lombardia" (1848)
Tra le sue opere più famose ricordiamo Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta (1833), accolto da grandissimo successo, e Niccolò de' Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni (1841). Durante gli ultimi anni della sua vita, trascorsi sul Lago Maggiore, si dedicò alla scrittura delle sue memorie, pubblicate postume col titolo I miei ricordi nel 1867. Più riuscito forse il libro autobiografico "I miei ricordi" (1867), ritratto di un gentiluomo moderato, combattuto tra il vecchio e il nuovo. Domina l'intento civile, la prosa scorre limpida e piena, colorita, ritrae con preciso gusto figure e paesaggi. D'Azeglio morì infatti a Torino nel 1866.
[45] Carlo Cattaneo – Carlo Cattaneo è stato patriota e politico italiano del XIX secolo. E' considerato uno dei padri del federalismo. Nasce a Parabiago (MI) il 15 giugno 1801.
Diplomatosi negli studi classici, intraprende la professione dell'insegnante e frequenta i circoli intellettuali nella Milano della prima metà del secolo. Nel 1848 partecipa alle cinque giornate di Milano e successivamente costretto a riparare in fuga a Lugano dove muore il 6 febbraio 1869.
Carlo Cattaneo è ricordato per il suo pensiero politico federalista. Pur avendo combattuto nelle cinque giornate di Milano, si oppone al progetto di unificazione dei Savoia preferendo al suo posto un modello di Stato confederato sulla stregua di quello svizzero.
Per non giurare fedeltà ai Savoia rifiuta di tornare in Italia, rinunciando anche al posto in Parlamento come neoeletto deputato nelle file dei repubblicani. Rispetto a Mazzini, Cattaneo è più pragmatico e più vicino alle idee illuministe. E' considerato uno dei padri del federalismo. Secondo Cattaneo i popoli possono gestire meglio la loro partecipazione alla cosa pubblica soltanto ricorrendo al federalismo ed evitando di delegare la propria libertà a popoli lontani dalle proprie esigenze. Da qui la sua contrarietà al Regno dei Savoia.
Carlo Cattaneo è anche ricordato per le sue forti convinzioni liberiste.

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