La nascita dell’Assolutismo:
la Controriforma, lo sviluppo scientifico e il trionfo del Barocco
1. L’Assolutismo – Durante i
centocinquant’anni che vanno dalla pace di Cateau-Cambrésis (1559) agli inizi
del Settecento, le grandi monarchie sono riuscite, con una dura lotta, ad
indebolire in quasi tutti i paesi europei il potere della nobiltà feudale, fino
ad allora capace di condizionare lo stesso potere del re. A poco a poco infatti
i nobili hanno dovuto rinunciare a molti privilegi e rassegnarsi al ruolo di
cortigiani, limitandosi a fare da cornice all’autorità incontrastata del
sovrano. Anche i ministri e i funzionari, spesso d’origine borghese, che
circondavano il re, sono soltanto i suoi consiglieri: ogni decisione spettava
al sovrano, il quale esercitava così un potere assoluto, cioè illimitato.
Per questo, tale
periodo viene indicato come l’età della
monarchia assoluta, o età dell’Assolutismo [[1]].
L’affermazione
progressiva della sovranità e dell’impersonalità coincide con l’affermazione
(tra il XVI secolo e la Rivoluzione francese del 1789) della monarchia
assoluta. In questo lungo periodo la spersonalizzazione degli uffici non
escludeva il potere personale del re. La sua volontà poteva sovvertire le procedure
ordinarie e sovrapporsi alle decisioni di qualsiasi ufficio. Quando è suo
interesse fare un’eccezione nell’applicazione della legge, a favore o contro
questo o quel suo suddito, il re poteva sovvertire l’ordinaria attività degli
uffici.
Coesistevano,
insomma, aspetti diversi: lo Stato, spersonalizzato ai livelli inferiori, ha
al vertice il potere personale del re.
La sua
importanza è capitale poiché tutte le forme di Stato oggi esistenti derivano da
quella. In teoria, il re disponeva di un potere assoluto, cioè senza limiti
(anche se deve usarlo non per sé, ma nell’interesse dello Stato). Secondo
la teoria della monarchia assoluta, infatti, il potere del re
derivava dalla volontà (dalla grazia) di Dio. I sudditi, perciò,
sono totalmente soggetti alla volontà del sovrano, come alla volontà divina.
Tuttavia, contrariamente a quello che la formula «monarchia assoluta» poteva
far pensare, la pratica della monarchia assoluta è diversa.
Malgrado gli
sforzi per imporre la propria autorità assoluta, il re ha di fronte a sé un
regno composto di tanti poteri sociali e locali (la nobiltà, il clero, le
professioni, le città, ecc.), refrattari all’ubbidienza assoluta. Questi, anzi,
per tutto il periodo dell’assolutismo, lottarono tra di loro e contro il re
per strappargli privilegi e migliorare così le proprie posizioni. Nei periodi
di maggior forza, il re riusciva a imporre il proprio potere personale e
ridurre all’ubbidienza il suo regno. Nei periodi di maggior debolezza, il re è
costretto a venire a patti col suo regno e a cedere pezzi consistenti del suo
potere.
Ciò che
appare assoluto non è quindi il potere personale del re, il
quale a seconda dei casi è più o meno condizionato. Assoluto è invece il potere
della organizzazione politica centrale che, oltre al re, comprendeva gli alti
dignitari e il Parlamento, che rappresentava le tante divisioni e i tanti
interessi del regno.
Nella
concentrazione della politica consiste principalmente la novità delle monarchie
assolute rispetto al sistema feudale.
Tra i due
sistemi c’è una certa continuità, poiché non sono abolite del tutto le cariche
feudali, né gli ordini o ceti sociali, che continuavano ad avere uno status
giuridico privilegiato. Essi sono invece costretti, come in una costellazione,
a ruotare intorno ad un unico centro di potere, di cui il re è l’elemento
principale. L’assolutismo è dunque un sistema composto da elementi nuovi e
tradizionali: il potere del re coesisteva infatti con quello dei diversi corpi
sociali che derivavano dal feudalesimo. Si potrebbe dire che è un regime
monarchico non pienamente realizzato.
a)
Jean Bodin - Giurista e teorico politico
francese, espone il suo pensiero in un’opera che si intitola I sei
libri della repubblica del 1576; in essa l’autore definisce il
concetto di sovranità assoluta (priva di limitazioni) e indivisibile. Ciò
significa che chiunque eserciti il potere, sia esso una persona (re) o un
organismo politico, la fonte legittima dell’autorità (sovranità) rimane tutta
intera nelle sue mani, anche se alcuni poteri possono essere delegati a
magistrati o funzionari. Bodin individua nella monarchia la forma di
organizzazione statale nella quale meglio si incarna il
principio della sovranità; perciò è uno dei massimi teorici della monarchia
assoluta.
b)
Thomas Hobbes (1588-1679) è considerato il
teorizzatore dell’assolutismo. Egli affronta il problema del potere politico in
particolare nel saggio Leviathan del 1651, che prende il titolo dal nome del mostro biblico
dotato di una forza smisurata e incontenibile: Hobbes ne fa il simbolo del
potere assoluto dello Stato monarchico. Egli fonda queste sue idee sulla
constatazione che l’uomo, portato ad agire sotto la spinta delle passioni,
dell’istinto di conservazione e di possesso, si comporta come un lupo nei
confronti di tutti gli altri uomini (homo homini lupus). In questa visione
lo Stato nasce sì da un contratto sociale, che però, nel momento stesso in cui
viene fissato, determina la definitiva assunzione, da parte di chi si vede
riconosciuto il potere, di un’autorità assoluta e illimitata, la sola che può
assicurare una convivenza civile.
c)
Il crinale della
storia europea – Questo
periodo, e particolarmente il Seicento, può giustamente essere considerato come
un crinale della storia europea. In alcuni Paesi si posero le
premesse di trasformazioni economiche e sociali destinate a creare differenze
sempre più ampie tra essi e gli altri Stati europei. È allora che a zone
caratterizzate da una forte dinamica progressiva se ne contrapposero altre di
lenta crescita economica e di lenta trasformazione sociale ed altre ancora di
decisa stagnazione. Alla prima zona appartennero l’Inghilterra e l’Olanda; alla
seconda la Francia, la Germania e parte dell’Europa Centrale; alla terza la
Spagna, il Portogallo, la Polonia, l’Impero turco e l’Italia.
2. Gli Stati
europei dal 1559 al 1701 - Questo periodo, che per l’Italia può
essere considerato unitariamente, per la storia d’Europa deve essere suddiviso
in due periodi: il primo, dal 1559 al 1648, è caratterizzato dalla preponderanza
degli Asburgo d’Austria e dalle guerre di religione; il
secondo (1648-1701) dall’egemonia francese.
a) Le guerre
di religione - Le guerre di religione, conseguenza della rottura
dell’unità religiosa dell’Europa, trovarono il loro teatro principale nelle
Fiandre e in Francia. Nelle Fiandre Filippo II [[2]],
re di Spagna (1556-98) subì uno smacco da parte delle forze protestanti, con
l’insurrezione del paese e la conseguente nascita di un nuovo stato, l’Olanda
[[3]];
la Francia è sconvolta dalle lotte fra cattolici e ugonotti [[4]]
fra il 1562 ed il 1594, cui si intrecciò la contesa per la successione fra tre
pretendenti al trono.
I due campioni
europei delle opposte fedi sono il cattolico Filippo II e la
protestante Elisabetta, regina d’Inghilterra (1558-1603). Una
grande vittoria di quest’ultima che segna l’inizio della decadenza della Spagna
e dà avvio alla ascesa dell’Inghilterra a grande potenza, è la distruzione, ad
opera dell’agile flotta inglese, della possente, ma lenta flotta spagnola, l’Invincibile
Armada nel 1588.
Successivamente,
le guerre di religione hanno il loro teatro in Germania, con lo scoppio
della guerra dei Trent’anni
[[5]].
Essa, iniziata come una semplice rivolta interna della Boemia nei confronti
degli Asburgo, si estese presto alla Danimarca e successivamente alla Svezia e
alla Francia, coinvolgendo anche l’Olanda e alcuni sovrani italiani, fra cui
Vittorio Amedeo I di Savoia.
La guerra segna
lo scontro tra l’Impero cattolico degli Asburgo e i principi protestanti, che
volevano la rimozione di alcune limitazioni alla libertà religiosa, stabilite
dalla pace di Augusta [[6]]
del 1555; inoltre rappresentò lo sforzo dei principi tedeschi per acquisire
autonomia nei confronti dell’Imperatore; infine, offrì l’occasione ad alcune
potenze europee di abbattere l’egemonia degli Asburgo. La pace di Westfalia [[7]]
del 1648, con i due trattati, di Munster (tra gli Asburgo e le
potenze cattoliche), e di Osnabruck (fra gli Asburgo e le potenze
protestanti), riconosceva in Germania la libertà individuale di coscienza e di
culto, e segnava il crollo della potenza accentratrice degli Asburgo, riducendo
ad un puro nome l’autorità imperiale.
b) L’egemonia
francese - In Francia, al termine dei conflitti interni di religione
che l’hanno lasciata stremata, la monarchia riuscì, in un lungo processo dal
1598, iniziato con l’editto di Nantes, decreto emanato dal re di
Francia Enrico IV che pose termine alla serie di guerre di religione che hanno
devastato la Francia dal 1562 al 1598, regolando la posizione degli ugonotti
(calvinisti), al 1661, uscita di minorità e assunzione del potere da parte
di Luigi XIV), ad abbattere le resistenze della nobiltà feudale e quelle
della dissidenza religiosa (ugonotti), e a creare la forma più esemplare di
governo assoluto.
Le tappe di tale
processo sono le seguenti: Enrico IV (1594-1610) [[8]]
risollevò la nazione dalla rovina delle guerre civili; il cardinale
Richelieu (1624-42) [[9]],
ministro di Luigi XIII, contrasta con successo la potenza dei nobili feudali e
restrinse le libertà degli ugonotti; il cardinale Mazzarino (1642-61)
porta avanti il processo di accentramento dei poteri nella persona del re,
battendo le ultime resistenze della nobiltà feudale o fronda [[10]]; Luigi
XIV [[11]] realizzò
pienamente l’assolutismo monarchico.
In concomitanza
con questo processo di riorganizzazione e rafforzamento del potere monarchico,
la Francia riassunse l’iniziativa politica all’estero, partecipando alla guerra
dei Trent’anni. Alla conseguente pace di Westfalia riuscì ad ottenere l’Alsazia
e a giungere così per la prima volta al Reno che considerò da allora la sua
frontiera naturale, da conquistare integralmente. L’ampliamento del territorio
verso la frontiera renana continuò con la successiva guerra di Spagna,
conclusasi con la pace dei Pirenei del 1659. E è la direttiva della
politica estera di Luigi XIV: egli mirò a completare l’acquisizione dei
territori renani e a conseguire il primato in Europa lottando con la Spagna già
in decadenza, con l’Olanda all’apice della sua potenza e con l’Inghilterra in
ascesa. E questo il senso delle guerre di
devoluzione (1667-68) [[12]],
di Olanda (1672-78) e della lega di
Augusta (1688-97) [[13]].
c) L’ascesa
dell’Inghilterra - L’Inghilterra, che durante il regno di Enrico VIII
(1509-1547) si è rafforzata all’interno, sotto il lungo regno di Elisabetta [[14]]
(1558-1603) vede la trasformazione della sua economia da agricola in
commerciale. La ricchezza che ne venne incrementò la sua potenza marittima che
è sanzionata:
·
dalla
vittoria sulla Spagna (sconfitta dell’Invincibile Armada nel 1588)
·
dalla
guerra vittoriosa contro l’Olanda (1652-4), prima sotto l’impulso e poi sotto
la dittatura (1635-58) di Oliviero Cromwell [[15]],
·
nella
successiva guerra contro la Spagna (1654-59).
L’evoluzione
interna dell’Inghilterra in questo tempo conobbe il passaggio dall’assolutismo
dei Tudor e degli Stuart (con la parentesi della dittatura cromwelliana) alla
prima forma di monarchia di tipo costituzionale che trovava le sue radici
nella Magna Charta [[16]].
Deposto l’ultimo Stuart, Giacomo II (la rivoluzione senza sangue del
1688), il Parlamento invitava ad assumere la corona Guglielmo
d’Orange che, salendo al trono, giurava di osservare la Dichiarazione dei diritti [[17]],
cioè una carta costituzionale che limitava il potere del sovrano.
3.
L’emarginazione dell’Italia - Per quanto riguarda la storia d’Italia
il periodo di tempo compreso tra il Congresso di Bologna del 1530 e
il Trattato di Aquisgrana del 1748, può essere considerato in
modo unitario. Anche se è giusto distinguere il periodo del predominio spagnolo
nella penisola (fino al Trattato di Rastadt del 1714) da quello del
predominio austriaco, molto meno funesto; tuttavia, questi 220 anni sono
accomunati dal perdurare di almeno due condizioni le cui conseguenze sono
determinanti per la vita della penisola.
La prima è
la mancanza di autonomia politica degli Stati italiani, divenuti o
province di una potenza straniera o suoi satelliti; la seconda è l’emarginazione
economica e culturale dell’Italia in seguito alla perdita
dell’indipendenza politica.
Perduta la
posizione di primato che ha conquistato nei secoli precedenti, l’Italia si
trova esclusa dai processi di rapido sviluppo economico e di profonde
trasformazioni politiche e sociali, da cui sono investite alcune grandi potenze
(in particolare l’Inghilterra, l’Olanda e, in misura minore, la Francia) e è
relegata in una posizione marginale, dalla quale solo nel XIX secolo,
faticosamente e parzialmente, riuscirà ad emergere.
a) Assetto
italiano alla pace di Cateau-Cambrésis – La pace di
Cateau-Cambrésis ribadì, aggravandola, la dominazione spagnola in Italia. La
Spagna, infatti, oltre che nel regno di Napoli, dominava
direttamente nel ducato di Milano, di fatto trasformato in una provincia
dipendente da Madrid; e nello Stato dei Presidi (alcune terre
della Toscana). Con l’erezione a ducato delle città di Parma e Piacenza sorse
un nuovo stato, feudo della Chiesa. Ma anche gli Stati che conservavano la loro
autonomia - repubblica di Venezia, Stato della Chiesa, ducato
di Toscana, repubblica di Genova,ducato di Savoia, ducato
di Mantova, ducato di Ferrara, ducato di Modena e repubblica
di Lucca – di fatto dipesero dalla politica spagnola.
b) Il
malgoverno spagnolo –
L’assetto dato all’Italia dalla pace di Cateau-Cambrésis durò dal 1559
al 1701 (inizio della guerra di successione spagnola).
Gli Stati
italiani dominati in questo periodo direttamente dalla Spagna presentano uno
dei quadri più tristi della loro storia. Lo caratterizzarono la rapina e il
fiscalismo della burocrazia straniera, l’altezzosità della nobiltà dominatrice,
il servilismo dilagante della popolazione, l’arretramento delle condizioni
economiche generali, la miseria e l’ignoranza delle plebi; il tutto in un clima
di soprusi e di anarchia. Un’efficace rappresentazione della situazione del
Milanese ci è stata data dal Manzoni nei Promessi Sposi.
Nel ducato
di Milano, il più civile e il più ricco dei domini spagnoli, la
compressione della borghesia a vantaggio della nobiltà terriera, favorita dal
governo, che ne ricercava l’appoggio, porta, unitamente ad altri fattori di cui
si farà cenno più avanti, al decadimento delle città e delle connesse attività
industriali e mercantili.
Questa
decadenza, frutto del cattivo governo spagnolo, è meno evidente nel Meridione e
nelle isole, ma solo perché si innestava su una situazione già deteriorata dal
precedente malgoverno straniero, quello degli Aragonesi. Di fatto le condizioni
del Sud sono peggiori di quelle del ducato di Milano, a causa anche del
persistere delle istituzioni feudali che, diversamente che al Nord, non sono
state spazzate via dal sorgere dei Comuni.
Questa situazione
generò gravi malcontenti, che sfociarono in insurrezioni destinate fin dalla
nascita al fallimento. A Napoli Masaniello fece insorgere la
plebe chiedendo l’abolizione delle gabelle nel 1647, e finì ucciso dalla stessa
plebe abilmente eccitatagli contro dal viceré spagnolo; Gennaro Annese che
cercò di portare avanti l’insurrezione, con un disegno politico più chiaro, è
battuto dall’intervento delle armi spagnole. Anche a Palermo la rivolta,
guidata nello stesso anno da Giuseppe D’Alessio per rimuovere
le gabelle, ha una mesta conclusione: il D’Alessio finì col trovare contro di
sé la stessa folla che egli ha sollevato. Più complessa è, nel 1674, la rivolta
che, per l’insofferenza dei gravami fiscali, scoppiò a Messina; essa si
sostenne per quattro anni appoggiandosi alla Francia; ma anche in questo caso
la Spagna riuscì alla fine a prevalere sui rivoltosi e sui loro alleati.
c) Gli
Stati italiani indipendenti –
A Firenze, dopo i successi di Carlo V in Italia e il
Congresso di Bologna, rientrarono i Medici con il duca
Alessandro. Cosimo I (1537-74), successo al duca Alessandro e
insignito dal Papa del titolo di granduca (1569), dà un saggio ordinamento allo
stato, restaurando l’economia. Questa politica è continuata da Ferdinando
I (1587-1609), che dà incremento al porto di Livorno. La politica
estera medicea si mosse comunque nell’orbita della politica spagnola fino ai
tempi di Ferdinando I, che cercò di controbilanciare l’influenza della Spagna
con quella della Francia, alla quale si avvicinò.
Nello Stato
della Chiesa, in questo periodo, l’azione dei pontefici presentò un
notevole mutamento nei confronti di quella dei papi del Rinascimento. In
armonia con la Controriforma essi si impegnarono soprattutto nel campo
spirituale, premurosi degli interessi generali del cattolicesimo più che non di
quelli del loro Stato. Proprio per questo non si preoccuparono di esercitare
una politica indipendente dalla Spagna.
La Repubblica
Veneta agì invece in modo autonomo nei confronti della Spagna. Del
resto essa ha limitato la sua azione politica in terraferma per preoccuparsi
soprattutto della difesa delle sue posizioni in Levante, dove dovette far
fronte all’avanzata turca. Nonostante la vittoria nella battaglia di
Lepanto (1571), quando i maggiori stati cristiani affiancarono Venezia
per sconfiggere i Turchi, dovette però arretrare abbandonando le isole di Cipro
e Candia, perdita non certo compensata dall’effimera occupazione del
Peloponneso nel 1699. Dopo la perdita di Candia, la repubblica di Venezia si
chiuse nell’Adriatico, dove si limitò a sopravvivere ancora per un secolo, fino
alla venuta di Bonaparte in Italia.
Il Ducato
di Savoia è lo Stato che dimostrò il maggior dinamismo. La volontà di
attuare una politica espansionistica lo sottrasse, in alcune occasioni, alla
acquiescenza alla Spagna. Con Emanuele Filiberto, i duchi di Savoia
incominciarono a volgere la loro attenzione all’Italia, e precisamente al
Piemonte. Sintomatico al riguardo è il trasferimento, sotto Emanuele Filiberto,
della capitale da Chambery a Torino; la conquista del marchesato di Saluzzo da
parte di Carlo Emanuele I nel 1601 rappresentò il primo grosso
ampliamento dei possedimenti italiani.
d) La
decadenza del Mediterraneo – La situazione di depressione, che, sia
pure in misura diversa nei diversi Stati, caratterizza tutta la penisola, ha
altre cause oltre a quelle di cui ci siamo occupati finora: tra queste la più
importante è la perdita d’importanza del Mediterraneo, in seguito
alle scoperte dell’America e della nuova via marittima per le Indie. Il declino
del Mediterraneo non è improvviso: i porti di Genova e di Venezia mantennero la
loro importanza ancora per tutto il Cinquecento; ma è un declino inarrestabile.
A partire dal
Seicento, i traffici portuali genovesi e veneziani assunsero la caratterizzazione
regionale che neppure l’apertura del Canale di Suez nel secolo XIX riuscì a
modificare. Grandi porti internazionali divennero le città che si affacciavano
sull’Atlantico, prima quelle della penisola iberica (Lisbona, Siviglia e
Cadice), centri dei traffici con le Americhe, e poi, e più durevolmente, le
città olandesi e inglesi (Anversa, Londra, e soprattutto Amsterdam).
Lo spostamento
dell’asse dei traffici dal Mediterraneo all’Atlantico non è dovuto solo a
ragioni geografiche. Dipese soprattutto dalla capacità di nazioni, come
l’Inghilterra e l’Olanda (e parzialmente la Francia), di mettere in atto una
politica mercantile e industriale adeguata alle esigenze di un mercato nuovo
più esteso e meno elitario.
La Spagna e il
Portogallo non seppero attuare queste trasformazioni. Legate alla vecchia
concezione delle colonie come terre da razziare e da spogliare – soprattutto di
metalli preziosi – sono incapaci di compiere il passaggio alla nuova forma di
colonialismo attuata dagli Inglesi e dagli Olandesi, che seppero considerare le
colonie come fonti di materie prime e come vasti mercati di smercio per le
industrie nazionali.
e) L’involuzione
dell’economia italiana - L’emarginazione economica dell’Italia è
dovuta a più fattori, connessi tanto all’economia quanto alla modificazione
della situazione sociale e politica. All’economia cittadina chiusa
in forme sclerotizzate da una fortunata e consolidata tradizione e dagli
statuti vincolanti di potenti corporazioni, mancò l’elasticità necessaria per
passare dalla produzione e dal commercio di beni scarsi e costosi (spezie,
seta, panni fini di lana) alla produzione e al commercio di beni meno pregiati
e di più largo consumo (canna da zucchero, cotone, panni meno raffinati). Non
essendo in grado di ridurre i propri costi di produzione, inoltre, l’economia
cittadina perse competitività non solo sui mercati esteri, ma anche su quelli
italiani.
Contemporaneamente,
in connessione col minor reddito del commercio e della manifattura, si
assistette ad una fuga di capitali verso la terra che
divenne di nuovo la base predominante della ricchezza e del potere. Il ritorno
alla terra – con la parallela riduzione dell’importanza delle città, nelle
quali si verificò una diminuzione della popolazione – è tanto un atteggiamento
di riflusso, quanto un’operazione di investimento che consentì alti guadagni,
grazie anche alla libertà di sfruttare i contadini.
La triste
situazione di sudditanza politica, infine, subordinò l’economia degli Stati
italiani alle esigenze della potenza egemone (soprattutto alla Spagna),
privandola dei necessari incentivi a superare le difficoltà della concorrenza,
fattasi sempre più agguerrita. Le distruzioni e i danni operati dalle guerre
che trovarono così spesso nella penisola (soprattutto al Nord) il loro campo di
battaglia, costituiscono altri gravi fattori di freno allo sviluppo economico
degli Stati italiani.
f) La
semplificazione della società italiana - Il ritorno alla terra è solo
uno degli aspetti di un complesso fenomeno, che è stato indicato dagli storici
con il nome di rifeudalizzazione [[18]].
Con questo termine si vuole indicare il venir meno delle iniziative economiche
e del dinamismo sociale che hanno caratterizzato i secoli precedenti a partire
proprio dall’Italia, dove, per la prima volta, le forze della borghesia
emergente hanno spezzato e ridotto il potere della feudalità dominante. Nel
Seicento si ha una netta inversione di tendenza:
·
nel
Sud essa sboccò in una regressione permanente, che rafforzò l’antica nobiltà
feudale;
·
nel
Nord e nel Centro, dove più vivace è stata la vita comunale e più rilevante la
presenza della classe mercantile, quest’ultima, grazie all’acquisto della
terra, va ad ingrossare le fila della nobiltà feudale, assimilandosi ad essa.
Il risultato di
questo processo è una semplificazione e un irrigidimento della
struttura sociale: tutto il potere economico si accentrò nelle mani della
nobiltà, dalle cui fila soltanto uscivano i membri della classe dirigente. Al
di fuori della nobiltà non restarono che sparute forze produttive; quasi a
nulla sono ridotte le possibilità di ascesa delle altre classi sociali.
4. La
Controriforma - A
ribadire la situazione di emarginazione della vita italiana nel suo complesso
concorse la Controriforma che in Italia (e dovunque essa si
trova ad operare con l’appoggio della monarchia spagnola) fece sentire
pesantemente la sua azione repressiva. Ne risultò una progressiva contrazione
della vivacità creativa nel campo della letteratura, della filosofia, della
scienza e delle arti, campo nel quale l’Italia si è conquistata, nei secoli
precedenti, un indiscusso primato europeo.
a) Il
concilio di Trento - La Controriforma è motivata dalla volontà di
porre riparo al distacco di buona parte dell’Europa dalla Chiesa di Roma e di
arginare le eresie che vanno diffondendosi nei paesi latini e in particolare in
Francia. A questo fine il Papato si preoccupò di una precisa definizione
dogmatica e di una decisa riforma dei costumi ecclesiastici.
L’iniziativa pontificia si concretò nel Concilio di Trento che,
scartando la tesi che ricercava la conciliazione con i dissidenti, preferì
quella della contrapposizione recisa alla Riforma. Così, al principio
del libero esame si contrappose quello dell’autorità della Sacra
Scrittura secondo l’interpretazione della Chiesa; alla tesi luterana secondo
cui ogni uomo può porsi in rapporto diretto con Dio, si contrappose
l’affermazione che la salvezza è solo nella Chiesa attraverso i
sacramenti; infine si affermò l’assoluta superiorità del pontefice cui
solo spetta di convocare i concili. Le verità di fede sono compendiate dal
Concilio nella Professione di fede tridentina, un estratto della
quale è il catechismo romano, testo di insegnamento religioso in
tutte le scuole parrocchiali.
Per moralizzare
il clero si fissarono rigorose norme disciplinari, riconfermando l’obbligo del
celibato e, per prepararlo alle sue funzioni, si istituirono i Seminari.
b) I
nuovi ordini religiosi - L’opera del Concilio di Trento sarebbe stata
inutile se non fosse stata sostenuta dal sorgere di ordini religiosi che,
operando tra i fedeli, ravvivarono gli ideali di vita cristiana. Tra gli
ordini ricordiamo i Barnabiti, i Somaschi, gli Scolopi che
si preoccuparono tutti di aprire collegi per la gioventù; mentre i Teatini sono
istituiti per coadiuvare i parroci nel loro ministero, i Fatebenefratelli,
le Suore di carità e i Lazzaristi per assistere gli infermi;
i Cappuccini (un ordine francescano riformato) per la predicazione fra
il popolo; gli Oratoriani per la cura dei giovani delle classi
umili.
c) I
Gesuiti – Il più importante fra tutti gli ordini religiosi sorti in
questo periodo è senz’altro l’ordine dei Gesuiti, fondato da Sant’Ignazio di
Loyola (1491-1556) che si propose queste finalità:
·
difesa
della fede cattolica,
·
sua
diffusione,
·
formazione
di sacerdoti in grado di essere al passo con l’evoluzione culturale dei tempi,
·
creazione
di scuole aperte a tutti, ma mirate alla formazione cattolica delle classi
dirigenti.
Sant’Ignazio
crea una gerarchia di tipo militare, fondata sull’assoluta obbedienza ai superiori;
inoltre legò con un giuramento di fedeltà al Papa tutti i
gesuiti.
In pochi anni
questi divennero un pilastro della Chiesa cattolica; fondano missioni in tutti
i continenti, favorendo l’avvicinamento al cattolicesimo con una graduale
integrazione della nuova fede nelle culture e nei costumi dei vari popoli. Nei
Paesi cattolici seppero conquistare posizioni influenti come confessori e
consiglieri di re e principi, attuando politiche di mediazione e di prudenza.
I Gesuiti
scelsero come loro campo preferito di attività l’organizzazione di scuole ad
orientamento umanistico, destinate alla classe dirigente: dalle elementari
all’università, essi organizzarono percorsi didattici moderni ed efficaci, per
dare una preparazione culturale seria, senza mai perdere di vista l’obiettivo
principale, la formazione del buon cristiano.
I gesuiti che
dimostravano propensione per una disciplina sono destinati a coltivarla ai
massimi livelli, perciò molti hanno un ruolo di rilievo nello sviluppo della
scienza, della letteratura, dell’arte.
Il Collegio
romano, l’università dei gesuiti, è un centro di ricerca scientifica di cui
riconoscevano il prestigio anche gli studiosi non cattolici.
I gesuiti sono
totalmente indipendenti dalla gerarchia ecclesiastica e rispondevano della loro
azione esclusivamente al Papa; per questo, all’interno della Chiesa, si formò
un partito antigesuita che li accusava di allargare il proprio
potere tramite l’appoggio dei potenti e i molti compromessi nel campo del
comportamento e della morale.
d) Il
controllo del pensiero - Per combattere poi lo spirito critico da cui
è nata la Riforma e per avere il controllo sui testi scritti la Chiesa affiancò
all’Inquisizione un istituto di repressione, la congregazione dell’Indice
dei libri proibiti, voluta dal Papa Paolo IV Carafa nel
1559. Si trattava di una commissione con l’incarico di redigere e tenere
aggiornata la lista di opere e autori che i cattolici non possono leggere,
possedere e divulgare, perché veicoli di idee contrarie alla morale e alla
dottrina. L’Indice è diviso in tre parti: la prima degli autori messi
totalmente al bando, la seconda di singole opere, la terza di scritti anonimi.
Il fine
dell’Indice è di impedire la stampa dei testi proibiti e di bruciarne le copie
eventualmente sequestrate. L’efficacia dell’Indice è limitata, perché
impossibile il controllo capillare, ma serie sono le conseguenze indotte:
·
spinta
all’autocensura degli autori che, per evitare noie con la Chiesa, eliminavano
dai loro libri ogni idea o riferimento che potesse essere contestato; è una
delle cause del conformismo controriformista che si manifesta nel Seicento nei
Paesi cattolici in cui più potente è la Chiesa, come Spagna e Italia;
·
diffusione
di testi classici «purgati», con soppressione di parti, soprattutto a uso scolastico;
si diffondeva così un’idea distorta della letteratura, moralistica e staccata
dai comuni sentimenti;
·
sviluppo
delle stamperie clandestine e del contrabbando dei libri; gli autori che
temevano di non ottenere il permesso del vescovo facevano stampare i loro testi
nei Paesi protestanti, da dove poi rientravano di nascosto.
In molti casi
però si ricorreva al trucco di indicare nel volume come luogo di stampa una
città straniera.
Infine si
rafforzò la Congregazione del Sant’Uffizio come tribunale supremo
dell’Inquisizione che, già vigorosa nel secolo XIII, è poi decaduta.
La
preoccupazione della Chiesa di controllare il pensiero attraverso la censura
preventiva della stampa (non si poteva pubblicare un libro senza
l’autorizzazione ecclesiastica) limitò lo sviluppo della filosofia, della
scienza e delle arti. Ne seguirono spesso situazioni di lacerazione interna e
un clima di paura, che la condanna di alcuni filosofi (Bruno, Campanella) e
scienziati (Galileo) rafforzò.
5. La cultura nell’età della Controriforma
e del Barocco – L'età moderna è generalmente
considerata l'epoca posta tra la scoperta del continente americano nel 1492 e
la definitiva affermazione del liberalismo nel 1848. Questo arco di tempo è
caratterizzato da profonde trasformazioni che interessano ogni aspetto della
vita umana. I viaggi di esplorazione, le nuove rotte commerciali e la scoperta
di nuovi continenti trasformano gli orizzonti mentali ed economici dell'uomo
europeo e avviano un processo di interrelazione su scala mondiale della storia.
Analogamente,
le nuove forme statali si lanciano in conquiste e guerre a livello continentale
prima, planetario successivamente. L'unità religiosa dell'Occidente cristiano è
rotta dalla Riforma protestante, mentre il pensiero filosofico si avvale di
nuovi metodi sganciati dalla tradizione e dall'insegnamento delle autorità del
passato. Si teorizzano nuove forme di governo, e le rivoluzioni americana e
francese segnano il definitivo tramonto del sistema socio-politico basato sulla
divisione in ordini della società e, con l'avventura napoleonica, fondano le
basi dell'epoca contemporanea.
a) La
rivoluzione scientifica – L’aspetto
che maggiormente caratterizzò la prima età moderna
fu la grande rivoluzione scientifica alla cui base vi era l'affermazione
di uno dei principi cardine del Rinascimento: lo stretto rapporto intercorrente
fra il destino umano e la capacità di rintracciare e controllare le leggi
sottese alla realtà naturale.
Questo costituì il presupposto
della rivoluzione scientifica moderna e delle sue applicazioni.
La nascita della scienza moderna è
un fenomeno complesso, che affonda le proprie radici nel Rinascimento, di cui
eredita la fiducia nelle capacità conoscitive dell'uomo, l'abbandono di
principi trascendenti per spiegare la realtà naturale, la rivalutazione dei
sensi e dell'esperienza diretta, la pretesa di un sapere che non sia solo
contemplativo, ma pratico e operativo, il rifiuto del principio di autorità
come criterio di verità. Tuttavia, se nel '500 il concetto di scienza era ancora
legato a una visione del mondo di tipo qualitativo, in cui la natura era vista
come un essere vivente, ordinata con suoi propri fini come un organismo, nel
'600 si affermò una concezione della scienza come un sapere oggettivamente
verificabile e pubblicamente controllabile. La scienza moderna respinge dal
proprio ambito conoscitivo qualunque problematica di tipo metafisico, relativa
alle essenze o all'intima struttura delle cose, per analizzare solo le cause
dei fenomeni, alla ricerca di leggi, elaborate in conformità a ipotesi vagliate
da esperimenti, espresse in termini matematici. In particolare, questa
matematizzazione della natura porta a una riforma del metodo d'indagine e
all'adozione di modelli meccanici nella spiegazione della realtà naturale, concepita
come un insieme di corpi in movimento, che portò pian piano all'affermazione
del meccanicismo.
Il concetto di rivoluzione scientifica è
tradizionalmente riferito al periodo compreso fra il 1543, anno di
pubblicazione di Le rivoluzioni dei mondi celesti di
Copernico, e il 1687, in cui appaiono i Principi matematici di filosofia naturale di
Newton. Si
tratta di un periodo caratterizzato da un profondo cambiamento culturale, che vide la
nascita della moderna scienza
sperimentale e la sua
definitiva emancipazione
dalla filosofia, con il contributo decisivo di Galilei.
Tra i secoli XVI e XVII il modo di
affrontare la conoscenza del mondo naturale cambiò profondamente. Le scoperte
astronomiche, mediche, fisiche e le innovazioni del metodo filosofico si collegarono
a uno spirito nuovo che scalzò la dogmatica scolastica in nome del metodo sperimentale e della libera e autonoma ricerca, del
progresso della conoscenza, con straordinarie implicazioni culturali, religiose
e tecnologiche.
L'avvio è possibile rintracciarlo
nella rivoluzione copernicana che scosse profondamente la cultura
europea e influenzò nel XVII secolo il pensiero di Galileo Galilei, di Newton e
di Keplero.
L'astronomo polacco Copernico (1473-1543), nel suo De revolutionibus orbium coelestium,
espose la teoria eliocentrica secondo la quale la terra e i pianeti si muovono
attorno al sole. La rivoluzione copernicana nacque come revisione della teoria
astronomica tolemaica, fondata sulla centralità e immobilità della Terra
nell'universo e sulla circolarità dei moti dei pianeti, a favore della teoria
eliocentrica, che pose il Sole come unico punto di riferimento dei moti dei
pianeti. Le basi dell'ipotesi di Copernico sono strettamente astronomiche: il
desiderio di stabilire rapporti determinati tra le varie sfere del sistema
planetario (ampiamente sconnessi nella teoria di Tolomeo) e quello di eliminare
alcuni artificiosi metodi di calcolo. Tuttavia la sua riforma astronomica,
ponendo la Terra in movimento, apre enormi problemi di ordine fisico, cosmologico
e filosofico e avvia una riforma di gran parte della cultura. La Terra perse la
sua centralità, non solo astronomica, ma anche metafisica, proiettando l'uomo
in un universo non più chiuso e limitato, ma infinito, privo di centro e di
periferia, omogeneo e soggetto alle stesse leggi fisico-matematiche. La
rivoluzione copernicana costrinse così a ripensare non solo l'immagine della
natura, ma anche le questioni dell'origine e del destino dell'uomo e del suo
rapporto con la divinità, com'era delineato dalla lettura tradizionale del
testo biblico.
Galileo (1564-1642),
divulgatore delle teorie di Copernico sull'immobilità del sole e sul movimento
della terra, fece numerose osservazioni sperimentali su altri pianeti con
l'ausilio di un nuovo strumento: il telescopio. Per aver sostenuto la teoria
eliocentrica fu processato dal Santo Uffizio, condannato e costretto
all'abiura. Il suo caso divenne simbolo dello scontro fra la Chiesa cattolica e
la cultura scientifica moderna.
L'astronomo tedesco J. Keplero (1571-1630) studiò le orbite
planetarie e diffuse la conoscenza delle leggi del moto dei pianeti, oltre al
metodo per calcolarne la posizione.
Le nuove conoscenze astronomiche
permisero allo scienziato inglese Isaac Newton (1642-1727),
autore di fondamentali opere in campo matematico, meccanico e ottico, di
rivoluzionare la scienza moderna con la scoperta delle leggi della gravitazione
universale, da lui espresse in formule matematiche.
L'attenzione per le questioni
metodologiche e l'importanza attribuita all'osservazione furono alla base dei
progressi compiuti dalla medicina. Il belga Andrea
Vesalio, grazie alle
ricerche anatomiche svolte sui cadaveri dei soldati, mise in discussione alcuni
principi stabiliti a priori dal modello aristotelico e li sostituì con
l'osservazione anatomica della figura umana. L'anatomista inglese W. Harley (1578-1657) scoprì la
circolazione del sangue; furono poste le basi della clinica (ovvero lo studio
della malattia al letto del malato) e dello studio dell'anatomia patologica.
La
propensione dell’uomo occidentale all'innovazione tecnologica ebbe una notevole
conseguenza: contribuì a scavare progressivamente un solco fra la società
occidentale e le altre civiltà (araba, indiana, cinese) proprio dal XVI sec. In
alcuni settori, come la navigazione o gli armamenti, questo divario fu per gli
europei il punto di forza per affermare il proprio dominio sul resto del globo
attraverso la formazione di imperi coloniali. Anche il pensiero politico e
quello economico subirono un'importante evoluzione, scrittori e pubblicisti di
diverse nazioni, spinti da motivi religiosi o solo ideologici, sostennero la
legittimità dei diversi regimi.
b)
La
moderna gnoseologia – Se
la problematica relativa alla natura e al metodo della conoscenza non era una
novità per la tradizione filosofica, è solo con la filosofia moderna che
acquista un'assoluta centralità per l'emergere di nuove esigenze conoscitive,
legate agli sviluppi tecnici e scientifici del sapere. È questo il problema del
metodo, cioè di un insieme di criteri e di regole che permettano un uso
corretto delle facoltà conoscitive dell'uomo al fine di raggiungere un elevato
grado di certezza, che si afferma prepotentemente nel pensiero moderno a
partire dalla riflessione di Francesco Bacone e di Cartesio. In particolare sono le matematiche e la geometria, per la loro chiarezza e rigorosità, il modello metodologico
privilegiato a cui ispirarsi per una riforma del metodo del conoscere.
Se la problematica relativa alla natura e al
metodo del conoscere non è una novità per la tradizione filosofica, fu solo con
la filosofia moderna che acquistò un'assoluta centralità per l'emergere di
nuove esigenze conoscitive, legate agli sviluppi tecnici e scientifici del
sapere. È questo il problema del metodo, cioè di un insieme di criteri e di
regole che permettessero un uso corretto delle facoltà conoscitive dell'uomo al
fine di raggiungere un elevato grado di certezza, che si afferma
prepotentemente nel pensiero moderno a partire dalla riflessione di Francesco
Bacone e di Cartesio. In particolare sono le matematiche e la geometria,
per la loro chiarezza
e rigorosità, il modello metodologico privilegiato a cui ispirarsi per una
riforma del metodo del conoscere.
c)
La visione
estetica: il Manierismo – Il termine Manierismo
è assunto dalla critica per designare il complesso e ramificato movimento
stilistico italiano ed europeo che si colloca tra il 1520 e l'ultimo decennio
del Cinquecento (ossia tra il culmine del Rinascimento e il preannuncio del
Barocco).
Caratterizzato da un estetismo
antinaturalistico e lontano dalla razionalità rinascimentale, si espresse in
suggestive alterazioni dei rapporti spaziali e subordinò le proporzioni
naturali della figura umana al ritmo fluido ed elegante della composizione. Il Manierismo,
va inteso come incrinatura dell'equilibrio armonico classicista e, più in
generale, come crisi della cultura umanistica e dei suoi ideali razionalistici,
in connessione con il travaglio storico della riforma luterana, della
controriforma cattolica e le drammatiche crisi che accompagnarono la formazione
dei grandi Stati europei. I primi due centri di elaborazione del manierismo
furono inizialmente Firenze e Roma; da qui, si diffuse in tutt'Italia e in
Europa dando vita a esperienze locali differenziate.
Il Manierismo divenne lo stile delle corti, in
Italia come in Europa: un'arte colta, aristocratica, basata sulle iconografie
preziose, sui riferimenti dotti, sulle allegorie complicate. Ne fu un esempio
alla corte medicea l'attività (1540-70) di G. Vasari e dei manieristi
michelangioleschi. Il Manierismo fu cultura celebrativa e aulica, nell'ambito
della quale l'architettura si faceva scenografia, la scultura oscillava tra gli
opposti termini del gigantismo magniloquente (Ammannati, Fontana del Nettuno)
e del preziosismo dell'oggetto di oreficeria (Cellini, Saliera per Francesco I, Parigi, Louvre), la
pittura assumeva le diverse valenze del grande affresco celebrativo con Vasari
e del ritratto enigmatico e formale del Bronzino, il simbolo visivo e
concettuale più evidente è il celebre Studiolo di Francesco I a Fontainebleau.
A Roma la parabola architettonica di Jacopo Barozzi
detto il Vignola (1507-73), dalle licenze inventive di Villa Farnese a
Caprarola alla nuova codificazione della Chiesa del Gesù a Roma e l'attività di
pittori come Vasari, Francesco Salviati (1510-63), Daniele da Volterra aprirono
la via all'accademismo eclettico degli Zuccari (Taddeo, 1529-66; e Federico,
1540/43-1609) e di Giuseppe Cavalier d'Arpino (1568-1640).
Verso la fine del Cinquecento, proprio dal centro
manierista di Bologna, che aveva conosciuto l'arte raffinata del Parmigianino e
di Nicolò dell'Abate, partì quel movimento di reazione antimanierista bandito
dai Carracci che, rifluito a Roma, diede vita all'accademia.
Lo stile delle corti
ebbe vita più lunga in Europa, nella sua accezione più cortigiana: nella Praga di Rodolfo II con Bartholomeus Spranger
(1546-1611) e Hans von Aachen (1552-1616); nei Paesi Bassi, in Baviera e, in un
ultimo guizzo di autentica forza di stile, in Spagna, con l'esperienza del
Greco.
d)
Le reazioni al
Mainierismo: i Carracci e Caravaggio – Negli ultimi due decenni del Cinquecento
si affermarono due importanti artisti: Annibale Carracci e Caravaggio. Pur
essendo stati considerati dalla critica, soprattutto seicentesca, come rivali,
poiché le opere del primo erano intrise di idealismo e quelle del secondo di
schietto realismo, entrambi condivisero l'opposizione dell'arte manieristica,
pur esprimendo caratteristiche pittoriche differenti. Il clima culturale in cui
agirono era segnato dal rinnovato interesse della Chiesa post-tridentina per
l'arte, che doveva con le sue immagini sacre suscitare nel fedele sentimenti di
profonda devozione.
Alla famiglia di pittori bolognesi
Carracci si deve la fioritura a Bologna nel 1590, dell'Accademia degli Incamminati, un centro privato di educazione
autoctono che ripropose la conoscenza dei grandi maestri del Rinascimento,
meditati alla luce di una rinnovata coscienza della natura e della tradizione.
L'accento fu posto sull'importanza del disegno come mezzo per indagare la
realtà e la natura così da arrivare a un nuovo modo di dipingere che fosse
scevro degli aspetti convenzionali del manierismo. Si voleva restituire
spontaneità e immediatezza alle forme, in direzione di un nuovo classicismo. I
tre fondatori furono Agostino, Annibale e Ludovico Carracci.
e) Annibale Carracci – Annibale Carracci
(Bologna 1560-1609) fu il più eminente. Nelle sue prime opere, compiute tra il
1583 e il 1585, si individua l'interesse per soggetti della vita quotidiana, e
umili (Crocifisso,
Bologna, chiesa di S. Nicolò; Il mangiafagioli, Roma, Galleria Colonna; Bottega del macellaio,
Oxford, Christ Church).
Nel Battesimo di Cristo (1585,
Bologna, chiesa di S. Gregorio) invece l'artista lascia intravedere interesse alla
lezione del Correggio. Tra il 1588 e il 1590 lavorò col fratello Agostino e il
cugino Ludovico agli affreschi del Palazzo Magnani (ora Salem) a Bologna. Nel
1595 fu a Roma, incaricato dal cardinale Odoardo Farnese di dipingere il
Camerino Farnese, un lavoro quasi preparatorio per la decorazione della fastosa
Galleria Farnese. A quest'ultima, collaborando col fratello Agostino, si
applicò dal 1597 al 1602 con una straordinaria libertà compositiva e uno
stimolante approfondimento dei valori formali ed espressivi. Il programma
iconografico della Galleria (fatta costruire per raccogliere le collezioni di
sculture antiche del cardinale), con scene mitologiche e d'amore, venne
soprattutto derivato dalle Metamorfosi di Ovidio (scene con il Trionfo di Bacco e Arianna,
Paride e Mercurio e Pan e Diana). La
decorazione fu caratterizzata da una particolare scelta tecnica, ovvero l'uso
della quadratura e soprattutto la realizzazione delle architetture dipinte che
creano l'illusione di uno spazio tangibile. Questi affreschi sono così premessa
della decorazione tipica del Seicento che insisterà molto sul concetto di
illusionismo spaziale. Per Annibale dunque fu fondamentale sia la
rivivificazione della cultura classica in direzione naturalistica sia
l'intensità persuasiva dell'immagine.
Opere significative furono anche la
lunetta con la Fuga in Egitto (1604,
Roma, Galleria Doria Pamphili), in cui i personaggi si fondono armoniosamente
con il paesaggio; la Samaritana al pozzo e la struggente Pietà (ca 1603, Vienna, Kunsthistorisches
Museum).
f) Caravaggio – Michelangelo Merisi, detto
il Caravaggio (Caravaggio 1573 - Porto Ercole 1610), è uno dei pittori più
significativi del Cinquecento, creatore del cosiddetto luminismo caravaggesco, che definisce una caratteristica innovatrice
della funzione della luce, che fa emergere le cose dall'ombra e costruisce i
volumi.
Si formò a Milano nel 1584 nella
bottega del pittore bergamasco Simone Peterzano (notizie fra 1573-96) e sulle
opere dei maestri cinquecenteschi bergamaschi e bresciani (Lorenzo Lotto,
Savoldo e Moretto da Brescia), dai quali trasse l'attenzione al fatto reale,
quotidiano, e una religiosità schietta e priva di enfasi.
Degli anni successivi al periodo di
apprendistato sono riferite alcune opere: Bacco (Firenze,
Uffizi), Fanciullo morso da un ramarro (Firenze, collezione R. Longhi), Buona ventura (Parigi, Louvre; Roma, Musei
capitolini), il Riposo nella fuga in Egitto e la Maddalena (Roma, Galleria Borghese).
Intorno al 1593 Caravaggio si
trasferì a Roma, dove maturò e lavorò in aperta polemica con il gusto
manieristico ufficiale. Ai primi brani di realismo quotidiano, come il Bacchino
malato (Roma, Galleria Borghese), il più tardo I bari (Roma, Galleria Sciarra) e il
bellissimo Canestro di frutta (Milano, Pinacoteca Ambrosiana), che apre un
nuovo capitolo nella storia della natura morta, succedono composizioni più
complesse che culminano nel ciclo per la cappella Contarelli in S. Luigi dei
Francesi.
Nel 1595 firmò il contratto per le
tele in S. Luigi dei Francesi a Roma (S. Matteo e l'angelo, Vocazione e Martirio di S. Matteo), che suscitarono scandalo per
l'ardita interpretazione realistica degli episodi religiosi, narrati con
drammatico linguaggio chiaroscurale. Così si configura il cosiddetto luminismo caravaggesco, basato sulla
funzione espressiva e strutturante del contrasto luce-ombra.
Forte ed essenziale si presenta
l'impianto dei dipinti per S. Maria del Popolo, eseguiti tra il 1600 e il 1601:
la Crocifissione di S. Pietro e la Conversione di S. Paolo, che segnarono il
culmine della sua maturità artistica. Le ultime opere romane, la Madonna di Loreto (Roma, S. Agostino), la Madonna del serpe (1603-05, Roma, Galleria Borghese), la
Cena in Emmaus (1605, Londra,
National Gallery) e la Morte della
Vergine (1605-06, Parigi, Louvre), furono aspramente criticate per il crudo
realismo, specie l'ultima, per la quale correva voce che Caravaggio si fosse
servito come modello del corpo di una mondana annegata nel Tevere. Del resto
egli fu spesso oggetto di critiche e ritenuto un contestatore dell'ortodossia
religiosa al punto che molte sue opere non furono accettate per motivi di
decoro, poiché vi erano rappresentate figure in atteggiamenti troppo umili e
spesso ritratte con mani e piedi sozzi. Coinvolto nel 1606 in una rissa mortale,
ultima di una lunga serie di episodi di violenza dei quali era stato
protagonista, Caravaggio fu costretto a fuggire a Napoli. Le
opere qui realizzate, ovvero la Madonna del Rosario (1606-07, Vienna,
Kunsthistorisches Museum), le Sette opere
della Misericordia (1607, Napoli, Pio Monte della Misericordia) e la Flagellazione, mostrano un ulteriore frantumarsi
della luce e un accentuarsi del movimento delle figure. Nella sua fuga, da
Napoli passò a Malta e poi in Sicilia nel 1608. Nelle ultime opere il suo estro
divenne sempre più tragico, come testimoniano il Seppellimento di S. Lucia (1608, eseguito a Siracusa per l'omonima
chiesa) e la Resurrezione di Lazzaro
(1608 Messina, museo Nazionale).
6. Il Barocco – Il Barocco fu un movimento di vasta portata che investì i più svariati
campi della cultura, dal teatro alla musica, dalla poesia alla scienza, dalla
pittura alla scultura all'architettura e la concezione stessa della vita. Iniziato verso la
fine del Cinquecento, sviluppatosi lungo il Seicento, ha avuto diffusione, con
esiti di diverso valore artistico, su un’area molto vasta, cioè in quasi tutta
l’Europa (soprattutto in Italia, Spagna, Francia e Inghilterra) e, seguendo poi la
penetrazione dei Gesuiti, toccò anche l'America Latina in alcuni Paesi dell’America Latina
(Messico, Brasile).
Il Barocco divenne lo
stile artistico e architettonico proprio dell'epoca dell'Assolutismo e della
Chiesa della Controriforma. Le virtù ideali del Rinascimento (proporzione,
compostezza ecc.) furono stravolte da un'idea dell'arte che voleva persuadere,
emozionare e meravigliare il fedele. Così tra architettura, scultura e pittura
non esisteva più una stretta linea di demarcazione, poiché tutte e tre le
discipline concorrevano a dare una visione omogenea e spettacolare. Le personalità
più spiccatamente rappresentative di questo periodo furono Bernini, Borromini e
Pietro da Cortona (che operarono a Roma), cui fecero seguito altri artisti
italiani e stranieri, tra i quali Rubens e Rembrandt, quantunque né la sua
pittura né in generale la sua poetica siano classificabili come barocche in
senso stretto.
a)
Origine e significato del termine - Il termine
Barocco deriva, secondo alcuni, dal vocabolo ispano-portoghese barroco, che
indica una perla di forma anomala; secondo altri da baroco, tipo di
sillogismo irregolare divenuto sinonimo di ragionamento stravagante. In
entrambi i casi la denominazione tende a mettere in evidenza il carattere di
diversità, di lontananza dalla regola, di rottura quindi coi moduli e i canoni
della tradizione, che è appunto la caratteristica fondamentale del Barocco.
Poiché,
come abbiamo detto, il gusto e l’arte barocca caratterizzano il secolo XVII, tale
movimento fu chiamato anche, in Italia, Secentismo, e, per la
letteratura, Marinismo, dal nome del suo più tipico esponente nella
nostra letteratura, il poeta Gian Battista Marino.
b)
Il Barocco come espressione di una crisi conoscitiva - Alla base della
rottura coi modi e le forme della tradizione, sta una crisi conoscitiva che si
manifestò in quel periodo. Le scoperte di Copernico, e, sulla sua scia, di
Galileo, avevano ribaltato la visione che l’uomo aveva di se stesso, della
Terra e dell’Universo. La constatazione che la Terra non stava ferma al centro
del sistema solare, ma con gli altri pianeti ruotava nello spazio intorno al
sole, non era stata solo una scoperta astronomica; essa aveva rappresentato il
crollo di antiche certezze, e soprattutto della certezza fondamentale che la
scienza e la tradizione del passato garantivano all’uomo: di essere il centro
e il perno dell’Universo.
Ormai
nulla appariva più fermo e sicuro; tutto era messo o poteva essere messo in discussione;
la realtà appariva diversa se guardata da angolature differenti. Ne conseguiva
per gli uomini del tempo, stupiti e sconcertati, un senso diffuso di
inquietudine e di instabilità.
L’arte,
che esprime il senso che l’umanità ha del proprio tempo, ovviamente non poteva
più tradurre tale inquieta visione attraverso le forme salde, armoniche,
esatte, dell’arte rinascimentale; doveva trovare nuovi modi espressivi che
cercassero di esprimere i nuovi rapporti che si stabilivano fra le cose, le
nuove intraviste prospettive. Di qui, in letteratura, il sostituirsi, al
discorso disteso, organico, razionalmente costruito, la ricerca invece dell’immagine
fantasiosa, spesso bizzarra, che suggerisce nuove dimensioni della realtà,
intuite se anche non logicamente chiarite. Da questa nuova coscienza deriva
anche l’uso e l’abuso delle analogie, cioè l’accostamento di cose lontanissime
tra loro se i loro rapporti vengono giudicati con criterio logico, ma nelle
quali lo scrittore sembra invece intuire un nesso che le accomuna, almeno se si
guardano in prospettiva diversa da quella consueta.
c)
Lo «stupefacente» fine a se stesso – Peraltro questa
crisi conoscitiva, che costituisce l’elemento serio, addirittura drammatico,
dell’età del Barocco, non sempre sta alla base della produzione letteraria di
questo periodo.
Spesso gli scrittori barocchi
sono soltanto dei bizzarri ricercatori di immagini, dei creatori dì giochi
formali fine a se stessi, puro sfoggio di abilità tecnica che può sconfinare
persine nel grottesco. La «meraviglia» che essi dicono di voler suscitare nel
lettore, non è il riflesso dello stupore di fronte a una realtà che si
trasforma, ma è la sconcertante stupefazione che si prova di fronte ad
abilissimi e complicati fuochi d’artificio. Di tale tipo deteriore di
Secentismo, che fu dominante nella produzione letteraria italiana, sono
testimonianza il passo del Marino che qui riferiamo, e quello del padre Orchi,
rispettivamente per la poesia e per la prosa.
d)
Il Barocco nelle arti figurative - Il Barocco
segnò una rottura con la tradizione anche nel campo delle arti figurative: in
architettura, dove, in antitesi con l’equilibrio dell’arte rinascimentale, si
afferma la linea curva, il gioco delle sporgenze e delle rientranze, il gusto
coreografico (grandi scalinate, sfondi di giardini e di fontane), gli effetti
di chiaroscuro.
Lo stesso si dica per la pittura
e la scultura, nelle quali prevalgono le linee gonfie, sovraccariche, il
movimento e la tensione delle figure.
Le arti figurative inoltre si
scambiano le tecniche espressive: l’architettura sfrutta gli effetti del
chiaroscuro, che è retaggio tradizionale della pittura, si avvale del colore
con l’alternanza di diversi materiali (diversi marmi soprattutto); la pittura a
sua volta da grande spazio sulle tele a fastosi edifici, crea col colore
effetti di altorilievo e di basso-rilievo; nelle opere di scultura hanno gran
parte il panneggio, le pieghe, coi conseguenti giochi di luce.
Del resto anche in letteratura
tendono a confluire le tecniche di arti diverse, soprattutto della musica: il
vocabolo e la frase finiscono col non contare tanto per il loro significato,
ma per la carica musicale che contengono, e che crea nel lettore nuove
suggestioni ed emozioni.
7. Torquato Tasso
– Torquato Tasso, è stato uno dei maggiori
poeti italiani del Cinquecento. La sua opera più importante e conosciuta è la Gerusalemme liberata del 1575, in cui vengono descritti gli
scontri tra cristiani e musulmani alla fine della Prima Crociata, durante
l'assedio di Gerusalemme.
a) La vita – Torquato
Tasso nacque a Sorrento nel 1544, da Bernardo, che discendeva da una nobile
famiglia bergamasca anch’egli apprezzato poeta e gentiluomo al servizio, come
segretario, del Ferrante Sanseverino, principe di Salerno e da Porzia de’ Rossi,
nobile napoletana.
Il piccolo Torquato iniziò gli studi a Salerno quando
i Tasso si trasferirono a Salerno, al seguito dei Sanseverino, vi fu una
sollevazione popolare contro il tentativo del viceré d'introdurre nella città
l'Inquisizione, Ferrante Sanseverino si schierò dalla parte del popolo e, con
lui, il padre di Torquato. Per ragioni di sicurezza il padre trasferì Torquato
a Napoli, mandandolo a scuola dai gesuiti. Ma gli eventi precipitarono e i
Sanseverino, con i loro fedeli, furono costretti ad abbandonare il regno,
trasferendosi a Ferrara, poi a Bergamo, in Francia e a Roma.
Ma nel 1554 fu chiamato a Roma dal padre, che aveva
seguito il principe Sanseverino nell’esilio quando questi, caduto in disgrazia
del Viceré, era stato bandito dal Regno nel 1550. La partenza per Roma e il
distacco dalla madre, che morì due anni dopo, forse assassinata da
suoi stessi fratelli per impossessarsi
delle sue proprietà, senza
che egli avesse potuto più rivederla. Questo distacco fu per il ragazzo una
lacerazione; negli anni tardi egli l’avrebbe rievocata nella Canzone al
Metauro come la prima crudele piaga infertagli dalla sorte:
Me dal sen de la
madre empia fortuna pargoletto divelse...
ch’io non dovea
giugner più volto a volto
fra quelle
braccia accolto
con nodi così
stretti e sì tenaci.
Nel 1556 Tasso da Roma passò col padre ad Urbino,
presso la colta e signorile corte di Guidobaldo
II Della Rovere, dove fu educato secondo il modello del perfetto
cortigiano stabilito da Castiglione: culto delle lettere, della musica, delle
arti, esercizio delle virtù cavalleresche e dove Torquato divenne così compagno di studi del figlio del Duca.
Nel 1559, sempre col padre, a Venezia e poi a Padova
dove visse fino al 1565. Nel 1560-61 frequentò l'Università, seguendo gli studi
di legge, dove si dedicò agli studi di
filosofia ed approfondì la conoscenza dei classici, con una breve
interruzione bolognese, dove fu coinvolto in una vicenda goliardica, con
strascichi giudiziari, per aver scritto versi satirici che alludevano ai bassi
natali e all'effeminatezza di alcuni studenti e professori, e fu costretto a
lasciare in fretta e furia la città. Al
soggiorno padovano risalgono le prime liriche, composte per amore di Lucrezia
Bendiddio e, in seguito per la mantovana Laura Peperara (1564). Tali amori
seppero ispirare al giovane poeta alcune liriche che sono tra le più delicate e
melodiose del tempo.
Nel 1562 Tasso pubblicò il Rinaldo, dedicandolo al
cardinale Luigi d'Este.
Nel 1565 anche in virtù della fama poetica che già
cominciava a conquistarsi, Tasso fu invitato a Ferrara presso la Corte Estense,
prima al servizio del cardinal Luigi d’Este, poi del duca Alfonso II.
I dieci anni che seguirono, dal 1565 al 1575 furono
i più felici – e forse gli unici felici – dell’esistenza di Tasso.
Tra il 1570 ed il 1571
Tasso accompagnò il cardinale in Francia, ma qui il suo soggiorno non fu sereno
ed il poeta rientrò in Italia appena gli fu possibile.
Dal 1572 entrò a far parte, come cortigiano
stipendiato, del seguito del duca estense Alfonso II con il titolo di gentiluomo e nel 1576 poi con la carica di storiografo
di corte. Compone poesie per feste e matrimoni, madrigali che rendono
omaggio a dame e personaggi di corte. Ottiene un sempre più ampio
riconoscimento delle sue qualità di letterato e intellettuale ed è nominato
socio dell'Accademia ferrarese.
Nel 1573 compone la favola pastorale Aminta.
La vita di Corte non era per lui una tollerata
necessità come per Ariosto, ma rappresentava la forma ideale di esistenza, fra
mondanità eleganti, incontri culturali, gratificanti affermazioni personali.
Ammirato e invidiato dagli altri cortigiani, corteggiato dalle dame, libero da
preoccupazioni economiche, diede in questo periodo il meglio di sé anche come
poeta, come testimoniano le sue opere di questi anni, cioè l’Aminta e La Gerusalemme
liberata.
Col 1575 ebbe inizio la fase discendente della vita
del Tasso. Dopo aver portato a termine il Goffredo, iniziato
nell'adolescenza e la cui originaria
ispirazione risaliva alla fanciullezza allorché più volte Torquato Tasso fu
condotto alla Badia di Cava, il monastero dei Benedettini di Cava de' Tirreni,
dove si trova la tomba di Urbano II, il predicatore della prima Crociata, ed
ebbe modo di ascoltare dai monaci il racconto delle imprese dei Crociati.
Il poema diventò famoso col titolo di Gerusalemme liberata e, prima di pubblicarlo, Tasso volle
sottoporla al giudizio di cinque revisori dai quali si aspettava riconoscimenti
e lodi, e che invece, condizionati dalle teorie estetiche imperanti e da gretto
moralismo, mossero al poema numerose riserve di natura estetica e
religioso-morale. Ne derivarono a Tasso indebolito, spossato e già prostrato
dalla fatica della composizione, uno scontento e un’inquietudine che si trasformarono
presto in grave esaurimento nervoso. Assalito da forti febbri, Tasso cominciò a
manifestare i primi sintomi dello squilibrio interiore che lo tormentò fino
alla morte. Cominciò ad essere turbato da scrupoli religiosi pertanto decise di
rivedere la stesura di tutta l'opera e nel 1577 chiese addirittura di essere
esaminato dall'Inquisitore di Ferrara, per dissipare ogni dubbio
sull'ortodossia cattolica del suo pensiero. Fu assolto, ma non sentendosi
ancora soddisfatto, decise di recarsi presso gli inquisitori di Roma e di
denunciare addirittura le tendenze filocalviniste di alcuni Estensi. Il duca
Alfonso II, temendo che il papato potesse approfittarne per occupare la
signoria, lo fece vigilare. Cominciò inoltre a manifestarsi in lui una grave
mania di persecuzione che lo portò anche a gesti violenti. Un giorno,
sentendosi spiato da un servo mentre conversava con la sorella del duca, gli
lanciò contro un coltello ferendolo: per questo motivo Tasso fu rinchiuso, come
malato di mente, in una stanza del palazzo e poi liberato. Dopo altre
manifestazioni di follia, è rinchiuso in un monastero, da dove, però riesce a
evadere rifugiandosi presso la sorella, a Sorrento. Dopo qualche tempo riprende
la vita errabonda e avventurosa, recandosi a Mantova, Padova, Venezia, Urbino,
Torino.
Nel 1579, vinto dalla nostalgia per la sua città,
chiese il perdono del duca e fece ritorno a Ferrara, che, nella lontananza,
gli appariva pur sempre come un Eden perduto. Vi giunse però in un momento
inopportuno, mentre la Corte era impegnata nei preparativi delle nozze del
duca Alfonso II con Margherita Gonzaga. Non riuscendo a farsi accordare
udienza, Tasso ebbe l’impressione che poco si curassero di lui, e diede in
escandescenze contro il Duca. Questa volta fu rinchiuso come pazzo
nell’Ospedale di Sant’Anna, dove rimase dal 1579 al 1586, in una relegazione
che, durissima all’inizio, fu in seguito mitigata. Del resto egli stesso
alternava periodi turbati e tormentati da allucinazioni a periodi
assolutamente lucidi in cui si dedicava al suo lavoro letterario e poetico. Il reale motivo per cui il duca Alfonso tenne
a lungo rinchiuso l'infermo va cercato nel timore che il Tasso, con i suoi
dubbi religiosi, con l'ossessione eretica,
che lo aveva spinto ad accusarsi di eresia presso il tribunale
dell'Inquisizione, potesse recare danno politico alla Casa d'Este, già guardata
con sospetto dalla Curia Romana, dopo la conversione al calvinismo della
principessa Renata di Francia, figlia di Luigi XII e sposa di Ercole II d'Este.
Durante questi anni continuò a soffrire di allucinazioni e di manie di
persecuzione, ma scrisse anche molte lettere a illustri personaggi (soprattutto
per ottenere la libertà), molte poesie, i Dialoghi
filosofici, nei quali parla della sua sottomissione alle verità della
religione, e della sua concezione della politica, arte, letteratura, amore,
bellezza ecc., risentendo molto della filosofia platonica.
Nel 1580, mentre era ancora in carcere, alcuni
disonesti editori pubblicarono a sua insaputa la Gerusalemme: Tasso, per il
quale il poema non corrispondeva più ai suoi criteri, ne fu molto addolorato.
Tuttavia, quella pubblicazione determinò un acceso dibattito sul valore
dell'opera, soprattutto perché era messa a confronto con l'Orlando furioso di Ariosto. I suoi sostenitori
proclamarono che solo Tasso, fedele alle leggi aristoteliche, aveva saputo dare
il poema epico all'Italia; i denigratori invece lo accusavano di avere usato
delle impurità dialettali e
straniere, venendo così meno alla superiorità della lingua toscana. Tasso
stesso entrò nel dibattito pubblicando un'Apologia della Gerusalemme.
Nel 1586 Tasso ottenne la libertà per intercessione
dei principi Gonzaga di Mantova, che lo vollero presso la loro corte dove
compone la tragedia Torrismondo.
Tuttavia, dopo un anno di sereno e operoso soggiorno a Mantova, alla notizia
che per l'incoronazione di Vincenzo Gonzaga sarebbero giunti a Mantova Alfonso
e Margherita d'Este, fu ripreso di nuovo dall’inquietudine, fuggì da Mantova e
ricominciò a spostarsi di città in città: fu a Loreto, dove sciolse un voto, Roma,
a Napoli dove cercò di recuperare la dote materna, a Firenze dove ricevette
grandi onori dai Medici di nuovo brevemente a Mantova; ma più a lungo
soggiornò a Roma, dove ebbe la protezione di due nipoti del papa Clemente VIII
Aldobrandini e dove il papa stesso gli promise una pensione vitalizia e un
solenne riconoscimento del suo valore letterario: l'incoronazione in
Campidoglio di poeta laureato.
Conclusa la nuova redazione del poema, che intitolò Gerusalemme conquistata, pubblicata nel 1593, freddo rifacimento della Liberata, obbediente a
tutti i dogmi religiosi e letterari, morì a Roma nel 1595, alla vigilia
dell’incoronazione poetica in Campidoglio, che gli era stata decretata in
riconoscimento dei suoi meriti di scrittore.
b) Le opere – Precoce fu
l’attività poetica del Tasso.
Già al soggiorno urbinate risale la composizione di
alcune liriche; e liriche egli continuò poi a comporre per tutto l’arco della
vita. Il vasto corpus delle Rime tassesche (più di 1300)
comprende componimenti di diverso argomento (d’amore, religiose, di elogio
cortigiano) e di diverso valore: sempre dotate di indiscutibile decoro
letterario, esse peccano a volte, specie le encomiastiche, di convenzionalità;
ma a volte, soprattutto le amorose e in particolare i madrigali, raggiungono
la più alta poesia.
Nel periodo padovano compose il Rinaldo, poema
cavalleresco di imitazione ariostesca, che rivela nel giovane poeta facile
vena; e a questi stessi anni risale il primo abbozzo di un poema epico sulla
Crociata, il Gierusalemme, che sarebbe poi diventato la Gerusalemme
liberata.
Agli anni felici del primo soggiorno ferrarese
appartengono i due capolavori di Tasso:
l’Aminta, dramma pastorale composto per il teatro dì Corte e
rappresentato nel 1573, nel quale si rivela l’alta maturità artistica da lui
ormai raggiunta; e la sua opera maggiore, La Gerusalemme liberata, conclusa
nel 1575, poema epico-religioso in venti canti in ottave che ha per argomento
la prima crociata guidata da Goffredo di Buglione e predicata da Pietro
l’Eremita, e la liberazione del Santo Sepolcro dagli infedeli.
Si conclude a questo punto il momento alto della
produzione poetica tassiana. Le opere successive, anche se non prive a tratti
di lampi di poesia, riflettono anche artisticamente la parabola discendente
dell’esistenza del poeta. Fra esse, assai numerose, ricordiamo: La
Gerusalemme Conquistata, infelice rifacimento della Liberata, frutto
di scrupoli estetici e religiosi; un poema sulla creazione del mondo, Il mondo creato, e una cupa
tragedia di argomento nordico, Il re Torrismondo.
Accanto alla produzione tassiana in versi va
ricordata la sua vastissima produzione in prosa: le opere di riflessione
estetica sul poema eroico (i Discorsi dell’arte poetica e i Discorsi
del poema eroico), i Dialoghi, composti nella prigionia di
Sant’Anna, di argomento prevalentemente filosofico; e il vastissimo
epistolario, che è documento della travagliata esistenza del poeta.
c) Torquato Tasso, voce poetica fra Rinascimento
e Controriforma - Nella seconda metà del Cinquecento
cominciano a rivelarsi alcune incrinature in quella fiducia assoluta
nell’uomo, nelle sue capacità e nei valori terreni, che era stata la connotazione
fondamentale del trionfante Rinascimento, e che aveva trovato l’espressione
più matura nel pensiero del Machiavelli e nella poesia di Ariosto.
È un mutato stato d’animo cui ha concorso non poco
la situazione politica italiana, dove le speranze machiavelliane di dar vita a
un forte stato autonomo sono del tutto fallite, e dove è ormai in atto il lento
declino sotto le dominazioni straniere.
In questo periodo si va sottilmente insinuando nelle
coscienze il dubbio inquietante che non tutto all’uomo, neppure all’uomo
eccezionalmente dotato, sia possibile; e che egli debba fare i conti con forze
ostili che incombono su di lui, assai più oscure e misteriose della
machiavelliana «fortuna», e perciò ben più difficili da affrontare. È questo
uno stato psicologico che apre naturalmente la via alla dimensione religiosa, e
che perciò costituisce il terreno propizio all’affermarsi della Controriforma e
alla rinnovata religiosità che essa si propone di instaurare: una religiosità
peraltro spesso imposta dall’esterno con strumenti di pressione (il Tribunale
dell’Inquisizione), generatori, negli spiriti più sensibili o più deboli, di
sconcerto e di turbamento. Di questo periodo, in cui il Rinascimento ormai al
tramonto e i suoi valori terreni non del tutto spenti si scontrano, spesso
dolorosamente, con una rivalutazione dei valori religiosi, e quindi con
un’antitetica concezione della vita, Torquato Tasso rappresenta la voce poetica
più alta e drammatica.
d) La parabola tassiana dal «Rinaldo» alla
«Liberata» - Le opere maggiori che precedono la Liberata,
e cioè il Rinaldo e l’Aminta, sono ancora immerse nello
spirito rinascimentale. Il protagonista del poema omonimo, il paladino
Rinaldo, è tutto proteso, senza incertezze né inquietudini, verso i doni che la
vita offre alla sua giovinezza, l’amore e la gloria, e che egli vuole afferrare
a piene mani.
La stessa tensione verso i valori terreni alimenta
l’altra, e ben più alta, prova poetica, l’Aminta. È una favola pastorale
in cui l’amore è presentato nei suoi molteplici aspetti e goduto in totale
libertà di spirito. Esso è sentito come una forza vitale, e come tale positiva,
della natura. Nel bellissimo coro che conclude il primo atto è esaltata la mitica
età dell’oro non già perché in essa, come raccontavano le antiche favole, gli
alberi stillassero miele e nei fiumi scorresse latte, ma perché r«amore», cioè
il libero dispiegarsi degli istinti, non veniva contrastato dall’«onore», cioè
dalla legge morale. Questa antitesi fra «amore» e «onore», cioè fra le umane
passioni e il dovere e i condizionamenti etici, è invece tema fondamentale e
struggente nella Liberata, opera in cui è già ben presente la dimensione
religioso-controriformistica. Nel poema il «dovere» si configura concretamente
nella lotta contro gli infedeli, e si contrappone alle terrene passioni dei
crociati, siano esse la brama di personali conquiste e domini, o, assai più
frequentemente, la passione amorosa. Ne nascono situazioni di alta drammaticità
psicologica che si risolve in complessità e intensità poetica.
e) I temi della «Liberata» - Il poema inizia
narrando che al sesto anno di guerra dato che i principi si sono dimenticati
del sacro obiettivo da raggiungere Dio manda l'arcangelo Gabriele da Goffredo
(unico rimasto fedele) per rimettere in sesto un esercito con scopi più elevati
cosi abbiamo i primi scontri dei crociati sotto le mura di Gerusalemme. Ma Satana
contrasta i crociati attraverso i suoi demoni e la maga Armida, talmente bella
che parecchi soldati la seguono e sono imprigionati nel suo castello. Poi abbiamo
Argante che vuole porre fine all'assedio e così decide di sfidare Tancredi,
iniziano a duellare ma il duello è interrotto per il calar della sera e qui Erminia
travestendosi da Clorinda prova a raggiungere la tenda di Tancredi ma scoperta
dai cristiani fugge cosi il giorno seguente Tancredi cerca di raggiungerla
(pensando che fosse Clorinda la sua amata) ma viene imprigionato da Armida.
dopo altri episodi dove abbiamo l'intervento di angeli e demoni la battaglia
viene nuovamente interrotta. Al calar delle tenebre la vera Clorinda (amata di
Tancredi) viene uccisa in duello da Tancredi che non la riconosce e cosi inizia
la sua disperazione che lo conduce quasi alla morte ma lo salva la stessa Clorinda
che gli appare in un sogno dopo altre peripezie dio capisce che è ora di porre
fine alla guerra cosi manda a ripescare Rinaldo anch'egli prigioniero di Armida
(innamorata ormai di Rinaldo) cosi poi comincia nuovamente l'assalto definitivo
a Gerusalemme e termina con la morte del capo dell'esercito egiziano da parte
di Goffredo.
·
La componente eroico-religiosa - Tema della Gerusalemme
liberata è la prima Crociata, che, nella realtà storica, durò dal 1096 al
1099, ma che il Tasso, con dilatazione enfatizzante, immagina che sia durata
per ben sei anni. A somiglianza dell’Iliade, in cui la guerra di Troia è
descritta nella sua ultima fase, cioè nei decisivi quaranta giorni finali,
così nella Liberata sono rappresentate le vicende degli ultimi tre mesi,
cui le precedenti fanno da sfondo e da supporto: esse si concludono con la
sconfitta degli Infedeli, la caduta di Gerusalemme, e la liberazione del Santo
Sepolcro.L’argomento è dunque eroico-guerresco, quale si conveniva a un poema
epico, genere nel quale il Tasso ambiva di affermarsi e di acquistare gloria.
Ma la novità tassiana nei confronti della tradizione epica precedente è
costituita dalla componente religiosa, che rifletteva le aspirazioni e gli
ideali dell’età della Controriforma, nonché la diffusa sensibilità del tempo.
A
questo si aggiunga lo stimolo che veniva a Tasso da una precisa situazione
storica contemporanea che ridava attualità al mondo delle Crociate: il
rinnovarsi cioè di una minaccia turca sull’Europa, minaccia con Titro la quale
Venezia rappresentava un baluardo (e il primo progetto del poema nacque, come
sappiamo, a Venezia); e, dopo la battaglia di Lepanto del 1571, l’orgoglio
della cristianità per la vittoria riportata dalla «lega santa» sui Turchi.
Nel poema tassesco la guerra che i Crociati devono
combattere non è soltanto contro le forze del re di Gerusalemme, Aladino, ma
anche contro i forti alleati di costui, il re d’Egitto e il sultano turco
Solimano.
In campo e nell’altro spiccano individualisticamente
prodi personalità guerriere, e alla lotta partecipano anche forze
soprannaturali: celesti, diaboliche, magiche.
·
Gli «amori» e gli «incanti» - Se la
componente epico-religiosa costituisce la struttura portante della Liberata,
non è in tale dimensione che sono rinvenibili i suoi momenti poeticamente
più alti e intensi; ma vanno piuttosto ricercati negli episodi amorosi e di
suggestione magica che si innestano sul filone eroico e religioso, e con esso
strettamente si intrecciano.
Tasso
stesso ne aveva coscienza, tanto che difese strenuamente questi, che egli
chiama «gli amori» e «gli incanti», contro i revisori, che li consideravano
disdicevoli a un poema cristiano e li volevano da esso espunti.
L’amore è presente nella Liberata nella vasta
gamma delle sue manifestazioni, dall’amore sentimentale a quello sensuale, e tocca
tanto gli eroi cristiani che quelli pagani.
Ma sono ormai lontani gli amori felici del Rinaldo
e dell’Aminta. Gli
amori della Liberata hanno per denominatore comune il fallimento e
l’infelicità, o perché contrastati - come già abbiamo visto - dal «dovere», o
perché avversati dalla sorte, o semplicemente perché non ricambiati. Così il
cristiano Tancredi ama la pagana Clorinda che neppure si accorge di lui, e la
sorte si accanisce tanto che, non riconoscendola sotto l’armatura, l’uccide di
sua mano in combattimento; la pagana Erminia ama, non riamata, Tancredi; il
cristiano Rinaldo è conquistato dal fascino della pagana e maga Armida, ma deve
abbandonarla per riprendere il suo posto nelle file crociate, ecc. È una specie
di vana corsa verso la felicità che umanizza e conferisce poesia ai personaggi
che ne sono coinvolti, ma che crea intorno a loro un dolente senso di
sconfitta. Quanto agli «incanti», il Tasso indica con questo nome l’elemento
magico che non solo era congeniale al gusto del tempo, ma che egli considerava
essenziale per ottenere quel «meraviglioso» che giudicava ingrediente
irrinunciabile del poema eroico. Sono presenti nel poema le varie forme di
magia: la «magia naturale» o magia volta a buon fine, come quella del mago
d’Ascalona che concorre a sottrarre Rinaldo all’amore di Armida; la «magia
nera» o magia diabolica a fine perverso, utilizzata, ad esempio, dal mago
Ismeno che incanta la selva di Saron così che i Cristiani non possono più trame
legna per le loro macchine da guerra. A volte la «magia nera» prende bellissime
e seducenti fattezze femminili; ed è il caso della maga Armida, che col suo
fascino sottrae Rinaldo al combattimento; o prende l’aspetto selvaggio della
Furia Aletto, che scatena al combattimento e spinge al suo destino di morte il
solitario e prode eroe Solimano.
Permeati di influenze magiche sono taluni paesaggi,
come la selva di Saron su cui il mago Ismeno ha sparso la sua funesta
incantagione; e dalla natura stessa di altri sembrano emanare suggestioni
stregate e magiche, come dalla landa maledetta, sede un tempo di Sodoma e
Gomorra, ora occupata dalle acque bituminose e graveolenti del Mar Morto.
8. Galileo
Galilei – Galileo
Galilei è con Newton, Francesco Bacone e Cartesio uno dei grandi promotori
della rivoluzione scientifica del '600. Matematico, fisico e astronomo, la sua
figura ha avuto anche una grande rilevanza filosofica.
a) La vita – Nacque a Pisa nel
1564 e compì gli studi a Pisa e a Firenze. Fin dal 1583 aveva scoperto le leggi
dell’isocronismo del pendolo. Dal 1589 al 1592 insegnò matematica nello Studio
pisano; sono di questo periodo le sue esperienze sulla caduta dei gravi. Dal
1592 al 1610 insegnò presso l’Università di Padova; negli ultimi due anni del
soggiorno padovano, perfezionando un’invenzione venutagli dall’Olanda, costruì
il telescopio, che gli consentì importanti osservazioni astronomiche per le
quali fu spesso in urto con il conservatore e aristotelico ambiente accademico
padovano. Individuò in questi anni la costituzione della Via Lattea e scoprì
quattro satelliti di Giove. Nel 1610 tornò ad insegnare in Toscana, presso il
Granduca. Nel frattempo la sua adesione alle teorie del polacco Copernico
(1473-1543), secondo le quali la terra non sta immobile al centro
dell’Universo, ma ruota intorno al sole, che è il centro immobile del sistema
solare, gli sollevarono contro le diffidenze e poi la condanna dal Santo
Uffizio, cui pareva che la teoria copernicana contraddicesse alle Sacre
Scritture.
Chiamato
a Roma e sottoposto a processo, per non essere condannato a morte come eretico
dovette abiurare le sue teorie (22 giugno 1633). Morì ad Arcetri, presso
Firenze, dove, per ordine del Sant’Uffizio, era tenuto in controllata
segregazione.
b) Le opere - Fra le sue
opere ricordiamo il Saggiatore (1623), opuscolo polemico sulle comete
scritto contro il padre gesuita Orazio Grassi; il Dialogo dei massimi
sistemi (1632) in cui Galileo lascia chiaramente intendere la sua adesione
al sistema copernicano; il Dialogo delle nuove scienze (1638). Importantissime
sono poi la Lettera a don Benedetto Castelli (1613) e la Lettera alla
granduchessa Cristina di Lorena (1615) in cui Galileo chiarisce il suo
principio dell’autonomia reciproca dei Libri Sacri e della ricerca scientifica.
c) Dialogo sui
due massimi sistemi del mondo – Eccezionale diffusione ha avuto, tra i suoi
scritti, il Dialogo sopra i due massimi
sistemi del mondo.
Nel 1623 Maffeo Barberini, che era considerato un
patrono di artisti e scienziati, divenne Papa Urbano VIII. Galileo cercò di
riproporre la questione copernicana, ed ottenne dal Papa il permesso di
scrivere un dialogo, nel quale esporre i principi della teoria, senza però
arrivare ad una conclusione sulla sua validità, bensì trattandola come una
semplice ipotesi matematica.
Galileo lavorò al Dialogo fino al 1630.
Il testo è diviso in quattro giornate, durante le
quali il copernicano Salviati (che rappresenta lo stesso Galileo) e
l'aristotelico Simplicio si confrontano esponendo le due teorie; un terzo
personaggio, Sagredo, interviene spesso nel dialogo tra i due, a favore di
Salviati.
Durante le prime
tre giornate, i tre prendono in considerazione il moto terrestre e alcuni
fenomeni celesti che sembrerebbero invalidare la cosmologia aristotelica.
La quarta
giornata è dedicata invece all'analisi del fenomeno che più degli altri
convinse Galileo della validità della teoria copernicana, cioè quello delle maree. Egli spiegava il fenomeno in maniera errata,
semplicemente come la combinazione del moto annuale di rivoluzione terrestre
con quello diurno di rotazione; non prese invece in considerazione l'attrazione
gravitazionale della Luna.
Nel Dialogo sono presentate alcune
conclusioni a favore della teoria copernicana. Quando Galileo sottopose l'opera
al giudizio della Chiesa, Papa Urbano VIII gliene impedì la diffusione e
segnalò la questione al Tribunale dell'Inquisizione. Le autorità ecclesiastiche
erano però disposte ad ammettere il sistema copernicano solo come ipotesi di
calcolo e reagirono ai suoi tentativi dapprima ammonendolo nel 1616 e poi
processandolo, condannandolo definitivamente ed infine costringendolo
all'abiura nel 1632.
La fama di
Galileo tra i suoi contemporanei viene dalle sue osservazioni astronomiche, che
impiegarono una versione perfezionata del telescopio, già noto da alcuni anni,
e mettono in discussione alcuni punti fermi della cosmologia aristotelica. Già
da tempo convinto copernicano, Galileo sostiene la superiorità del sistema
eliocentrico con varie argomentazioni. Fondamentale a questo proposito è
l'elaborazione del principio d'inerzia (per cui un oggetto in moto non
sottoposto a forze esterne continua a muoversi con velocità costante), grazie
al quale Galileo riesce a vanificare quasi tutte le obiezioni di tipo fisico
che da secoli venivano sollevate contro l'idea di una Terra in movimento.
L'idea di movimento inerziale, movimento privo di cause, rappresenta una
rottura di enorme portata rispetto al pensiero precedente, non solo per le sue
implicazioni a favore delle teorie copernicane, ma anche perché inaugura una nuova
forma di rapporto conoscitivo tra il soggetto e l'esperienza: il principio non
trae la sua validità dall'esperienza comune, quotidiana, ma richiede uno sforzo
di astrazione che liberi l'esperienza da tutti i fattori perturbatori (in primo
luogo l'attrito) che impediscono al principio di manifestarsi in tutta la sua
purezza.
Il principio
d'inerzia costituisce il primo principio della scienza moderna, fondando la
dinamica. Galileo contribuisce all'edificazione della dinamica anche con le sue
ricerche sulla caduta dei gravi, con cui inaugura il moderno approccio
sperimentale. Per Galileo l'esperimento assume forme artificiali precise e
determinate, che permettono un controllo numerico di ipotesi quantitative,
consente la misurazione dei fenomeni: è la via con cui l'esperienza può essere
matematizzata. L'esperimento ha anche la funzione di portare alla luce
comportamenti naturali che altrimenti rimarrebbero nascosti, occultati dalla
complessità dei fenomeni perturbatori sempre presenti nell'esperienza quotidiana.
Galileo è
convinto che il copernicanesimo sia compatibile con le Sacre Scritture, purché
queste siano interpretate allegoricamente, e tenta di far accettare questa
posizione alla Chiesa.
d) Il metodo sperimentale e la
lotta contro il principio di autorità - Galileo, che si
colloca nella scia di Leonardo da Vinci, è l’instauratore deciso ed organico
del metodo sperimentale. Egli sostiene infatti che l’unico metodo valido di
conoscenza scientifica è quello che parte dall’esperienza, cioè dalla analisi diretta
dei fenomeni, e di lì induttivamente perviene alla formulazione delle leggi
scientifiche.
Tale metodo
sperimentale-induttivo si contrapponeva a quello deduttivo allora in auge, che,
partendo da un principio generale non conquistato sperimentalmente ma affermato
per autorità (era la «grande bugia» cui alludeva Leonardo) perveniva alle
applicazioni particolari di tale principio.
Contro il
principio di autorità Galileo combatte per tutta la sua vita di studioso. Esso
gli si presentava in due forme: l’autorità di Aristotele (l’ipse dixit), e
l’autorità dei Libri Sacri, cioè della Bibbia.
Negli anni in
cui Galileo maturava il suo pensiero e compiva le sue ricerche rivoluzionarie,
la cultura ufficiale italiana resisteva impavida sulle vecchie posizioni che
mettevano capo all’ipse dixit di Aristotele. Si narrava l’episodio di
quell’insegnante dell’Università di Padova, culla dell’aristotelismo, che,
invitato da Galileo a guardare le macchie solari attraverso il telescopio, si
rifiutava di farlo dicendo che non ci potevano essere macchie solari perché
Aristotele non aveva detto che c’erano. Gli aristotelici di stretta osservanza
fecero presto muro contro Galileo, e concorsero non poco alla sua rovina.
Ma l’«autorità»
più dura da combattere, e con cui Galileo dovette duramente scontrarsi fu
quella della Bibbia.
La Chiesa
rifiutava di considerare come valide, e considerava anzi ereticali, le conclusioni
scientifiche che si scostassero da affermazioni contenute nei testi sacri. E le
conclusioni della Chiesa erano affiancate, in campo operativo, dal Tribunale
dell’Inquisizione, le cui sentenze potevano portare all’imprigionamento, e
magari alla morte sul rogo, del dissenziente.
Nel caso
specifico di Galileo la Chiesa considerava eretica la teoria eliocentrica (élios
= sole) del polacco Copernico (sistema copernicano), teoria cui
Galileo aveva aderito, secondo la quale la Terra è uno dei tanti pianeti che
ruotano intorno al sole, che sta immobile al centro dell’universo. Tale teoria
era in antitesi con la tradizionale concezione geocentrica (gè = terra)
sostenuta dall’astronomo greco Tolomeo del II secolo dopo Cristo, che voleva la
Terra ferma al centro dell’universo, quasi perno di esso, mentre il sole le
ruotava intorno illuminandola (sistema tolemaico). La Chiesa ufficiale
giudicava che solo la concezione tolemaica sì accordasse ai testi sacri (si
citava l’episodio di Giosuè che fermò il sole, il che implicava il muoversi del
sole stesso); e inoltre sembrava che la concezione eliocentrica spodestasse il nostro
pianeta da quella posizione di privilegio per cui Dio vi sarebbe sceso
facendosi uomo per salvarne gli abitatori.
Galileo, che si
proclamò sempre cattolico, ribattè a queste accuse fra l’altro nella Lettera
alla granduchessa di Toscana, Cristina di Lorena. In essa sosteneva
l’autonomia della scienza dai Libri Sacri. Nella sua lucida esposizione il
Galilei vi affermava che Dio si è manifestato agli uomini per due vie: i testi
sacri e il libro della natura. Nei testi sacri stanno scritte verità eterne
religiose e morali, non già scientifiche; anzi il linguaggio scientifico della
Bibbia è volutamente adeguato alle cognizioni scientifiche degli uomini di
quelle lontane età. Le verità scientifiche stanno invece scritte nel libro
della natura, dove spetta agli uomini di ricercarle, portarle alla luce, ed
esporle infine, traducendole in formule matematiche.
e) La
lingua e il dialogo galileiani - Dopo le prime pubblicazioni
in latino, che era ancora la lingua ufficiale della scienza, Galileo usa
stabilmente il volgare, la lingua attuale che sentiva adeguata alla novità del
suo pensiero. L’italiano di Galileo è una lingua di un’eleganza non studiata,
essenziale, esatta a tratti mossa dall’emozione del ricercatore che tende alla
verità e la vede rivelarglisi.
La forma dei suoi scritti è prevalentemente
dialogica. Non si tratta però come nella maggior parte dei trattati del
Cinquecento in forma dialogica, di un dialogo formale, strumento per esprimere
dottrine già acquisite, ma di un dialogo che traduce lo scontro appassionato di
idee nel loro definirsi. Perciò anche i personaggi interlocutori hanno una loro
fisionomia e un loro rilievo psicologico.
9.
Giambattista Marino – Il napoletano Giambattista Marino è
lo scrittore più significativo del nostro Seicento e rappresentò un modello
imitato dagli scrittori dell'epoca in tutta Europa.
a)
La vita – Giambattista Marino nacque a Napoli il
14 ottobre 1569. Costretto dal padre giurista agli studi di legge fu spinto ad
andarsene di casa per il suo comportamento provocatorio e insubordinato. Nel
1596, entrato in contatto con gli ambienti letterari della città, diventò
segretario di Matteo di Capua, principe di Conca.
Nel 1598 fu
incarcerato per avere sedotto la figlia di un facoltoso mercante, morta di
aborto.
Nel 1559 fu incarcerato
una seconda volta per avere tentato di salvare dalla pena capitale un amico
facendolo passare per chierico con bolle vescovili falsificate. Fuggito a Roma,
entrò al servizio di Melchiorre Crescenzio, chierico di camera di papa Clemente
VIII, partecipando alla vita letteraria della città.
Dopo un
soggiorno veneziano (tra il 1602 e il 1603), fu accolto nel 1604 al servizio
del cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, che seguì nel 1606
nella sede vescovile di Ravenna e nel 1608 a Torino. Qui, alla corte di Carlo
Emanuele I di Savoia, ottenne i primi grandi riconoscimenti. Nel 1611 entrò in
conflitto con il poeta Gaspare Murtola, che arrivò a sparargli nella pubblica
via. Marino rimase illeso, ma un giovane fu ferito al suo posto. Murtola
dovette pagare con l’arresto e l’allontanamento dal Piemonte, ma lo stesso
Marino, per ragioni non ben chiarite, riprovò l’onta del carcere, da cui uscì
solo nel giugno del 1612.
Nel 1615 Maria
de’ Medici, la vedova di Enrico IV, lo invitò alla corte di Francia, dove, tra
gli onori e gli agi, Marino riordinò e concluse la sua produzione poetica.
Nel 1623,
ammalato e stanco della vita di corte, tornò a Roma, dove fu accolto
trionfalmente ed eletto Principe dell’Accademia degli Umoristi. Nel 1624 si
trasferì a Napoli, dove morì il 25 marzo 1625.
b)
Le opere - Marino fu poeta versatile e prolifico.
Egli deve la sua fama soprattutto all’Adone
edito a Parigi nel 1623. Le opere minori sono ordinate nelle seguenti raccolte:
La lira; gli Epitalami (1616), componimenti per le nozze di illustri
personaggi di corte; La Murtoleide,
81 sonetti contro Murtola (1619); La
galeria (1619), descrizioni in versi di opere d’arte reali o immaginarie; La sampogna (1620), serie di idilli e di
favole pastorali; La strage de gl’Innocenti
(1632, postumo), poemetto in ottave sulla storia evangelica.
Notevoli per
valore documentario sono le Lettere,
che costituiscono anche sul piano artistico un eccellente esempio di prosa
secentesca.
c)
L' Adone – Il capolavoro di
Marino fu l'Adone. Esso fu terminato
e stampato a Parigi nel 1623. Già pensato negli anni romani, questo poema si
dilatò dal nucleo originario di tre canti alla forma definitiva di 24, per un
totale di oltre 40 mila versi in ottave.
L'argomento[[19]]
è tratto dalla favola mitologica di Venere che si innamora di Adone, provocando
l'ira e la vendetta di Marte. In questa trama esile, Marino innesta una
lussureggiante fantasia, una serie di episodi e digressioni, come la
descrizione del giardino del piacere, la gara tra il musico e l'usignolo, la
tragedia di Atteone ecc., derivando spunti dagli autori antichi: Ovidio,
Apuleio, Claudiano.
Manca unità
d'azione: ma proprio questa è la novità della tecnica di Marino. In essa si
mettono in discussione i fondamenti del poema classicista: la narrazione si
svolge per successive stratificazioni, con passaggi arditi e inattesi, senza
nesso logico, con l'appoggio di un tessuto verbale prezioso, fitto di metafore,
iperboli, antitesi, con effetti di pianissimo
e di sonorità acuta.
Il poema diventa
così una fabbrica di meraviglie,
volta a produrre continua sorpresa nel lettore. La poesia è intesa come viaggio
nell'imprevedibile. Un virtuosismo tecnico-stilistico che ad un lettore odierno
risulta noioso; i momenti più interessanti sono quelli in cui la sensualità di
Marino diventa capacità di auscultare e riprodurre voci insolite e segrete
della natura, e quando il suo stile raggiunge astratte perfezioni di ritmo e
gioco formale.
d)
La poetica - La poesia di
Marino è tutta impostata sul principio della «meraviglia», pur attuando una
medietà stilistica che rifugge dai concettismi più arditi e dalle provocazioni
più astruse che saranno invece proprie di certi suoi emulatori.
Marino non è
poeta del facile effetto, ma ingegnoso inventore di immagini preziose, abile
falsario della tradizione, irriducibile paladino della ricerca fantastica. Le
sue metafore mirano all’intelligenza del lettore, non alla sua
impressionabilità, tanto che si riconoscono un disegno ordinato e un principio
di freddezza razionale nel pullulare delle metafore e nella mutazione continua
di lingua e registri.
Nella poesia di
Marino si compone un mondo umano e naturale di straordinaria ricchezza e
varietà, mobile e sensuale, lontanissimo dalle rarefatte ed eteree atmosfere
petrarchiste, senza tuttavia che la scrittura risulti concretamente realistica.
L’impegno
incessante del poeta nella ricerca delle variazioni letterarie non ha infatti
altro fine che il piacere della bravura e dell’eleganza.
e)
Il poeta di
professione - Marino è un
virtuoso della parola: fu ammiratissimo in vita, disprezzato dalla critica del
XVIII e XIX secolo. Egli fu un professionista, un letterato che viveva della
sua penna per cui doveva essere attento al proprio pubblico, che doveva stupire
con gli argomenti e con le proprie capacità tecniche.
La mirabolante
varietà metrica costituisce uno degli artifici pirotecnici del poeta. Il suo
godimento e la sua bravura supremi sono nel continuo accarezzamento delle
forme. Marino non arretra davanti a nessuno spettacolo, a nessuna descrizione,
la più vasta e alata o la più volgare e minuziosa.
La
prosa scientifica e storiografica nell’età del Barocco - Lontana dal
gusto lambiccato e ozioso del concettismo seicentistico è la prosa scientifica
e storiografica di questo periodo, che, nel rigore razionale del pensiero,
nella lucidità della forma esatta e aderente alle cose, sembra piuttosto
continuare la tradizione del Rinascimento.
Il
maggiore dei prosatori scientifici, oltre che il maggiore scienziato, è Galileo
Galilei; il maggiore degli storiografi è Paolo Sarpi (1552-1623), un frate
servita divenuto consultore della repubblica veneta, e difensore
dell’autonomia politica di Venezia, sua patria, dalle ingerenze della Chiesa.
La sua opera più famosa è Historia del Concilio di Trento.
Trattati sulla letteratura e la retorica - Si
tratta di una produzione cospicua nella quale si colgono con grande
evidenza le modificazioni avvenute
in questi ambiti rispetto alle teorizzazioni
e al gusto del secolo precedente. Nel momento in cui la cultura letteraria secentesca si afferma,
prende le distanze, anche violentemente, dal classicismo rinascimentale. Si
scrivono trattati contro le regole,
contro il petrarchismo, contro il culto
degli antichi, e si delinea in questo modo la contrapposizione presente/passato,
antico/moderno che diviene terreno di polemica
per tutto il secolo. In questo clima si segnalò la figura di Alessandro Tassoni, polemista acceso che
intervenne su quasi tutte le questioni aperte nel primo Seicento, ma che ricordiamo qui per le sue Considerazioni
sopra le Rime di Petrarca, un vero «manifesto» contro l’imitazione dei classici. Sul fronte non della polemica ma della
proposta teorica della letteratura barocca, si impose su tutti gli altri il
trattato di Emanuele Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, titolo che
mette audacemente insieme lo
strumento ottico «moderno» con
l’«antico» filosofo greco che più di tutti aveva fornito i modelli retorico-letterari e le regole al
classicismo cinquecentesco. Gran
parte del trattato del Tesauro è dedicata alla metafora, la figura retorica che contraddistingue le scelte stilistiche della letteratura barocca. Nel campo della critica letteraria si
deve ricordare anche Matteo Peregrini.
Trattati scientifici - Al centro della trattatistica secentesca si colloca quella scientifica. Il dato non sorprende se si considera il
peso che la rivoluzione scientifica ebbe sulla cultura del l’intero periodo; ma occorre sottolineare la persistenza, forte e
indiscutibile, del legame tra letteratura scientifica e tradizione letteraria, nel senso che la nuova scienza, per descrivere e divulgare i risultati delle sue ricerche, non si
diede uno strumento nuovo, ma
adottò le forme letterarie del trattato dimostrativo (esposizione in prima persona dell’autore), dell’epistola e
soprattutto del dialogo, apportando in ognuna di queste un rinnovato
vigore. La teorizzazione scientifica legata a Galileo e alla sua scuola si realizza in un momento «rivoluzionario»:
deve convincere, difendersi dalle tesi avversarie, attaccare i detrattori, ed è pertanto naturale il
ricorso agli strumenti letterari e
retorici per costruire opere che abbiano questa forza.
La lirica - La
poesia lirica continua ad essere un genere centrale anche nel Seicento; lo testimonia
prima di tutto la vastità della produzione: centinaia sono i poeti che
provengono da ogni parte d’Italia, anche da quelle più periferiche e senza
legami coi grandi centri della cultura rinascimentale.
Tale
fioritura, non certo di livello qualitativo sempre accettabile, testimonia un
«uso» della poesia legato alle occasioni, all’omaggio galante, alla
lode, all’intento di procurarsi fama dando prova d’ingegno e di arguzia.
Si afferma insomma l’idea di una poesia che è capace di produrre diletto,
piacere e svago per la sua originalità.
Alla vastità della produzione corrisponde una
diversità di esperienze; al centro, come fenomeno dominante, sta la poesia
barocca che ebbe il suo maestro in Giambattista Marino, caposcuola di uno
stile poetico che da lui prese il nome: il marinismo.
I caratteri più rilevanti dell’esperienza marinista
stanno nella ricerca di novità che conduce alla rottura degli schemi e
delle tematiche tradizionali, e alla proposta di una infinita varietà di
situazioni e di motivi: anche la poesia d’amore e la figura femminile vengono
proposte in modi inusitati e spesso sorprendenti. Ad esempio, accanto
all’immagine tradizionale della bella donna compare quella della donna brutta
o zoppa o balbuziente; oppure l’attenzione del poeta si ferma su un gesto, su
un particolare, su un oggetto. Uno dei pregi di questa poesia consiste nella
capacità di stupire, di suscitare meraviglia; il lettore deve essere
continuamente stupito dalie immagini evocate dalla poesia, attirato dalla
fantasia dell’invenzione, colpito dalla brillantezza dell’ingegno. Per questo
l’uso della metafora è l’elemento che caratterizza più fortemente il
linguaggio poetico del Seicento, con la predilezione per le metafore audaci e
sorprendenti. Tutti questi caratteri della poesia vengono proposti anche in
via teorica, tanto che il marinismo divenne un fenomeno non limitato
all’Italia ma di diffusione europea. Accanto alla sperimentazione e alla novità
della lirica marinista rimane una poesia d’ispirazione classicista che
contrappone al «disordine barocco» gli ideali della misura e della sobrietà.
Illuminismo, riforme e rivoluzione; la parabola napoleonica
1. La politica di equilibrio in Europa e le guerre di
successione - Le tre guerre di successione di Spagna, di Polonia,
d’Austria che caratterizzarono la storia europea dal 1701 al 1748, furono in
sostanza guerre che miravano ad impedire l’instaurarsi del predominio di
un’unica nazione. La loro conclusione fu l’adozione di una politica di
equilibrio tra le grandi potenze.
Caratteristica
costante delle guerre di successione fu che, pur nel mutare delle alleanze, si
trovarono sempre di fronte Francia e Austria (la prima sostenuta dal ramo
Borbone di Spagna in grave decadenza, la seconda dall’Inghilterra), con la
conseguenza che il territorio italiano fu trasformato in permanente campo di
battaglia.
Durante
questi conflitti vennero alla ribalta come grandi potenze due nuovi stati, la
Russia e il regno di Prussia.
a)
Pietro
il Grande (1696-1725) fu lo zar che «portò» la Russia in Occidente: il
grande impero che si era formato attorno al principato di Mosca era rimasto per
religione (quella ortodossa), costumi, struttura feudale una realtà estranea
all’Europa; salito al trono nel 1689, dopo essersi sbarazzato della sorella,
Pietro I aveva compiuto alcuni viaggi in incognito in Europa; ne tornò
consapevole dell’enorme ritardo del suo Paese, sia sul piano economico, che su
quello militare e sociale. Sfruttando il potere che gli derivava dall’essere
zar, quindi sovrano assoluto, introdusse profonde modifiche nel modo di vivere
dei russi (per esempio fu il primo zar a tagliarsi la barba e impose questo ai
suoi funzionari e soldati). Sostenne guerre vittoriose contro la Svezia e
conquistò al suo impero la riva orientale del Baltico, dove fondò San Pietroburgo
che divenne la capitale. La sua opera di modernizzazione e di riforme rimase
comunque nell’ambito di una concezione del potere «orientale» e tirannica,
fondata sull’uso della forza.
b)
Federico
II di Prussia (1712-1786), educato dal padre con rigore militare, dedicò
la giovinezza agli studi, interessandosi di teoria politica (scrisse anche un
trattato, l’Antimachiavelli). Salito al trono nel 1740, si impossessò
della Slesia, togliendola all’Austria e seppe mantenerla anche quando la
Prussia fu attaccata e invasa dagli eserciti di Russia, Austria e Francia
(guerra dei Sette anni), perché la fortuna volle che divenisse zar Pietro III
che lo ammirava tanto da indurre anche gli alleati alla pace. In realtà
Federico si guadagnò l’appellativo il
Grande perché incarnò agli occhi dei contemporanei il tipo ideale di
despota illuminato: rafforzò l’amministrazione che fece funzionare con
efficienza e puntualità maniacali e rese l’esercito prussiano la macchina da
guerra più forte del tempo. Amico di Voltaire, che ospitò anche quando era in
guerra con la Francia, mise in atto alcune idee degli illuministi, come
l’istruzione elementare obbligatoria, la fondazione e il potenziamento delle
accademie scientifiche e dell’università, la riforma dei codici penale e
civile.
2.
Il predominio austriaco in Italia - Il predominio spagnolo,
instaurato in Italia dal 1530 e confermato dalla pace di Cateau-Cambrésis del 1559, continuò inalterato fino alla
prima delle tre guerre di successione, quella di successione spagnola,
conclusasi con le paci di Utrecht del 1713 e di Rastadt del 1714, quando esso
fu sostituito dal predominio austriaco.
La
guerra della Quadruplice, col trattato dell’Aia del 1720, e le due ulteriori
guerre di successione, polacca (trattato di Vienna del 1738) ed austriaca
(trattato di Aquisgrana del 1748), confermando il predominio austriaco, diedero
all’Italia un assetto tale da favorirne la ripresa.
E
per più ragioni:
·
il predominio austriaco era meno esteso e condizionante di
quello spagnolo, perché i domini dell’Austria si limitavano al ducato di Milano
e a quello di Mantova, anche se l’Austria poteva contare sull’appoggio del
granducato di Toscana, assegnato ai Lorena imparentati con la dinastia
austriaca;
·
con l’acquisizione da parte dei duchi di Savoia di tutto il
territorio piemontese, dell’isola di Sardegna e del titolo regio, si era
costituito un forte stato in grado di contrastare il predominio austriaco;
·
si era costituito un nuovo vasto regno (Napoli e Sicilia più
lo stato dei Presidi) assegnato ai Borbone di Francia, che lo avviarono ad una
ripresa dal lungo stato di degradazione in cui si trovava dal tempo del dominio
aragonese. Ad un ramo collaterale dei Borbone era stato assegnato anche il
ducato di Parma e Piacenza;
·
la diversa natura della dominazione austriaca, caratterizzata
da un’amministrazione onesta, impegnata nello sviluppo economico del paese ed
aperta alle riforme;
·
le dinastie straniere dei Borbone e dei Lorena si
assimilarono alla vita del paese, divenendo ben presto italiane.
Queste
condizioni daranno i loro frutti quando, dopo il trattato di Aquisgrana (1748),
si aprirà per la penisola un periodo di pace.
a)
Quarantotto anni di pace
- Per poco meno di 250 anni, dal 1494, quando Carlo VIII di Francia aveva
iniziato la sua impresa italiana, alla pace di Aquisgrana del 1748, l’Italia
era stata un perenne campo di battaglia tra le maggiori potenze straniere, in
lotta per la conquista del predominio in Europa. Dopo Aquisgrana ha inizio,
invece, un lungo periodo di pace finchè, nel 1796, sulle Alpi comparve l’armata
rivoluzionaria comandata dal generale Napoleone Bonaparte. La politica europea
con Aquisgrana aveva avviato un nuovo corso: esaurito l’antagonismo
Francia-Austria che aveva prima portato le due nazioni a scontrarsi nella
nostra penisola, e, attuato il rovesciamento delle alleanze che vedeva alleate
le due ex nemiche, le contese delle grandi potenze si erano spostate verso il
Nord d’Europa e nelle colonie d’America e d’Asia, mentre l’Italia diventava un
elemento marginale nei rapporti fra i grandi Stati europei.
b)
La
ripresa dell’agricoltura in Italia - Questa situazione
politica favorevole fu un elemento fondamentale per la ripresa dell’economia
italiana, ma non fu il solo. Vi concorsero altre condizioni, prima fra tutte,
la fine del dominio spagnolo, sostituito, già nel secondo decennio del secolo
XVIII, da quello austriaco che creò le condizioni favorevoli per una ripresa.
Anche le nuove dinastie insediatesi in Italia (i Borbone a Napoli, in Sicilia e
a Parma-Piacenza; i Lorena in Toscana), godendo ora di maggior autonomia, si
dimostrarono più aperte agli influssi provenienti dall’estero, e ruppero
l’isolamento dell’Italia nei confronti delle tendenze generali dell’economia
europea in netta ripresa. Domina nell’azione dei principi una chiara coscienza
della coincidenza dell’interesse dinastico col progresso dell’economia che
continua ad identificarsi con l’agricoltura. La ripresa lenta, ma costante, di
alcune regioni italiane (in particolare Lombardia, Toscana e parzialmente
Piemonte) non significa infatti una trasformazione della loro economia. Il ritorno alla terra, che aveva
caratterizzato il secolo precedente, non conosce inversione di tendenza. Anche
lo sviluppo, sia pur limitato, di nuove manifatture si disloca frequentemente
nella campagna, con esiti comunque positivi per un più equilibrato rapporto di
questa con la città. Ma il fattore forse più incisivo di questa ripresa fu il
ravvivato interesse europeo per l’agricoltura a seguito del trionfo delle idee
fisiocratiche [[20]], il cui nocciolo era costituito
dalla valorizzazione della terra. Non è senza significato il fatto che nuove
accademie eclissino le vecchie accademie letterarie; che si discutano studi e
ricerche sulle tecniche agricole, e che spesso i protagonisti siano uomini di
un patriziato che incomincia ad interessarsi, in modo attivo, della terra, in
cui gli avi avevano investito i capitali accumulati con il commercio e con le
manifatture. Si comincia inoltre ad interessarsi, con spirito filantropico, dei
contadini, delle loro condizioni di vita, della loro istruzione.
3. Cultura e politica: il dispotismo illuminato –
L’influsso esercitato sull’economia dalla dottrina fisiocratica è una
manifestazione del più generale influsso esercitato dalle idee sulla pratica,
che costituì un aspetto peculiare del Settecento. La convinzione che l’uomo di
cultura, l’intellettuale deve operare in vista del miglioramento della realtà
sociale, la fiducia nell’efficacia pratica delle idee costituiscono un aspetto
saliente dell’Illuminismo. Portare la filosofia sul trono, l’antico ideale
platonico del filosofo-re, costituì per gli illuministi una meta realistica. E,
in vario modo, la realizzarono: o diventando consiglieri di sovrani (Voltaire
di Federico II di Prussia, Diderot di Caterina di Russia), o partecipando di
persona al governo del re (Turgot, ministro di Luigi XVI). L’influenza della
filosofia sulla politica fu notevole: oltre a creare nei sovrani e nei sudditi
una tendenza favorevole all’innovazione nei vari campi (dal diritto
all’economia), portò alla diffusa accettazione della concezione paternalistica
del governo («il sovrano è per i sudditi come un padre per i figli, e deve aver
cura della loro felicità»), concezione che, pur con tutti i suoi limiti,
costituì un indubbio progresso nei confronti della concezione assolutistica. Da
questo spirito – la ricerca della felicità dei sudditi unita all’interesse del sovrano – nacquero le
riforme [[21]].
L’Illuminismo
dà forma a un’idea di società fondata su progresso, razionalità, tolleranza,
modernità, libertà di pensiero e di azione; ciò non è in conflitto col potere
dei sovrani e da molti di questi è accolto come un sostegno all’opera di
accentramento dello Stato.
Gli
anni di massima collaborazione sono tra il 1750 e il 1780: gli intellettuali
europei dànno il loro appoggio alle riforme promosse dai sovrani che agiscono
con la forza del loro potere assoluto, ma con intenti «filosofici» partecipano
alla diffusione dei Lumi; sono despoti illuminati Maria Teresa e Giuseppe II
d’Austria, Federico II di Prussia, Caterina II di Russia sono i protagonisti di
questa stagione.
Le
maggiori riforme riguardano:
·
il giurisdizionalismo: cioè limitazione dei poteri
della Chiesa, eliminazione di antichi privilegi (tribunali riservati agli
ecclesiastici, l’asilo, cioè l’impunità per chi si rifugiava nei conventi e
nelle chiese, ecc.), e controllo da parte dei sovrani sulle Chiese nazionali.
Molti ordini religiosi e leggi che impedivano la vendita dei beni ecclesiastici
furono aboliti. Il giurisdizionalismo riguardò i Paesi cattolici e provocò
l’espulsione dei gesuiti da molti Stati, fino a quando il papa soppresse la
Compagnia di Gesù (1773);
·
i diritti civili: furono estesi e fu riconosciuta la
libertà di culto a ogni religione; in alcuni Paesi fu introdotta la libertà di
stampa;
·
l’istruzione: i provvedimenti ebbero due scopi,
l’estensione dell’istruzione elementare (la Prussia introdusse per prima
l’obbligo nel 1763) e creazione di nuove scuole superiori, e la rottura del
monopolio ecclesiastico sull’istruzione;
·
l’ordinamento giuridico: si adottarono nuovi codici;
in Austria Giuseppe II abolì la tortura e limitò i casi di pena di morte
·
l’amministrazione: razionalizzazione della raccolta
delle imposte, anche attraverso la costituzione di catasti dei beni immobili
(campi, case, ecc.).
4. L’Illuminismo italiano e le riforme in Italia -
La situazione creatasi in Italia dopo Aquisgrana creò le condizioni favorevoli
alla introduzione di riforme, sull’esempio di quelle che erano state attuate
dai sovrani illuminati di alcuni grandi Stati europei: da Federico II in
Prussia, da Caterina in Russia, da Maria Teresa e Giuseppe II in Austria.
a)
Milano, Napoli e Firenze centri illuministici
– In Italia, infatti, già dopo la pace di Vienna (1738) si
erano insediate due nuove dinastie – i Lorena in Toscana e i Borbone a Napoli –
che, pur essendo straniere, godevano di notevole indipendenza; al retrivo e
chiuso dominio spagnolo in Lombardia si era sostituito quello austriaco, più
aperto alle nuove idee e caratterizzato da un’amministrazione onesta ed
efficiente, decisa a migliorare le condizioni della regione. La maggior
vivacità di scambi favorì, già prima della metà del secolo, il diffondersi
nella penisola delle nuove idee provenienti dall’Inghilterra e ancor più dalla
Francia. Ben presto si costituirono a Milano, a Napoli e a Firenze piccoli ma
attivi gruppi di intellettuali conquistati dalle nuove idee. La coscienza della
propria arretratezza culturale, e delle funeste conseguenze che ne derivavano
sul piano economico-sociale, creò in essi una decisa volontà di mettersi al
passo col pensiero europeo e li portò a ricercare i propri modelli a Londra e a
Parigi, stabilendo, in più casi, diretti contatti personali con i massimi
rappresentanti dell’Illuminismo francese e inglese. Si trattava, pertanto, di
un rinnovamento che partiva dal basso, strettamente connesso con la rinascita
della borghesia, che si risvegliava dal suo letargo secentesco.
Era una borghesia che, a diversità di quella comunale, non
trovava la base della sua ricchezza nella mercatura o nelle manifatture, ma
nella terra; e la sua rinascita fu una delle conseguenze della ripresa
dell’agricoltura.
A Milano le figure più eminenti di questi intellettuali
riformatori furono i due fratelli Verri,
Pietro ed Alessandro, e Cesare Beccaria.
I Verri furono al centro del gruppo che fondò la «Società dei Pugni» da cui nacque la rivista Il caffè, che nei suoi due anni di vita battagliera (1764-1766)
svolse un’efficace azione di critica agli aspetti negativi della società
lombarda (nella legislazione, nell’economia, nell’educazione, nelle lettere e
nel costume in genere), proponendo riforme ispirate alle innovazioni che
venivano d’oltralpe. Molti dei collaboratori, tra cui Pietro Verri, furono
chiamati, dal governo di Maria Teresa, a partecipare direttamente al
rinnovamento amministrativo della Lombardia. Cesare Beccaria, anch’egli
collaboratore de Il caffè e insegnante di economia politica a Milano, conseguì
fama internazionale con l’opera Dei
Delitti e delle pene del 1764, nella quale egli propugnava l’abolizione
della tortura e della pena di morte.
A Napoli le condizioni ambientali furono meno favorevoli allo
sviluppo della cultura illuministica, perché non esisteva una borghesia che la
promuovesse e sostenesse. Ciò spiega le incertezze, i ripensamenti e le
contraddizioni che caratterizzano pensatori pur acuti e preparati quali Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani, Gaetano
Filangeri e Giuseppe Palmieri.
L’oggetto privilegiato dei loro studi fu l’economia dove
accettarono, non senza limitazioni, le idee fisiocratiche: a Genovesi, autore
delle Lezioni sul commercio ossia
d’economia civile del 1765 fu affidata la prima cattedra di economia
politica istituita a Napoli da Carlo III; Galiani scrisse un Dialogo sul commercio dei grani del 1770
in francese, e un trattato Della moneta.
Essi approfondirono però anche il tema della legislazione statale, vista
soprattutto nei rapporti tra Stato e Chiesa, (sostenevano l’indipendenza del
primo nei confronti della seconda sulla quale esso aveva diritto di esercitare
un controllo) e il tema dell’istruzione: famosi furono il Piano delle scuole del 1740 di Genovesi e il Della pubblica e privata educazione del 1771 di Filangeri.
Sfortunatamente, l’azione culturale di questi autori non
trovò l’appoggio concreto della borghesia, praticamente inesistente e non in
grado di premere sul sovrano, per ottenere delle riforme.
In Toscana l’indirizzo empiristico, antimetafisico, proprio
della cultura toscana dai tempi di Galilei e della sua scuola, costituì un
terreno favorevole alla diffusione dell’Illuminismo, come dimostra anche il
fatto che l’Enciclopedia vi ebbe ben
due ristampe (a Lucca e a Livorno). Il centro culturale più attivo fu
l’Università di Pisa, nella quale si formarono quasi tutti gli intellettuali
che, con i loro scritti, stimolarono il granduca Pietro Leopoldo ad
intraprendere le riforme e che furono suoi collaboratori nel realizzarle. Tra
questi i più influenti furono gli economisti Pompeo Neri e Francesco
Gianni e il giurista Giulio Rucellai.
Strumento efficace per lo sviluppo e la razionalizzazione
dell’agricoltura fu poi l’Accademia dei
Georgofili, il cui indirizzo prevalente fu il rafforzamento della
mezzadria, considerata un’istituzione favorevole alla conservazione della pace
sociale.
b)
Le
riforme - Fu in questo clima di risveglio culturale e di fervore
sociale che maturarono le riforme. Non a caso la Lombardia, il Regno di Napoli
e la Toscana furono gli Stati in cui esse ebbero una realizzazione più vasta e
consapevole, perché in essi coincidevano gli interessi del sovrano con quelli
della borghesia, rappresentata dagli intellettuali illuminati. La soppressione
di vincoli feudali, infatti, e l’abolizione di privilegi, se corrispondeva alla
duplice esigenza della borghesia di un più libero sviluppo economico e di una parificazione
dei pesi fiscali, erano ben visti anche dal principe, perché rendevano più
piena la sua autorità, liberandola dalle limitazioni che tali vincoli gli
ponevano.
In particolare, lo sviluppo dell’economia dello Stato, se
andava a vantaggio dei sudditi, e in particolare dei grandi proprietari
terrieri, tornava a vantaggio anche del principe, che accresceva il suo potere
in relazione all’aumentata ricchezza del Paese, da cui poteva attingere
maggiori mezzi per la sua politica.
I principi illuminati che attuarono le riforme furono
l’imperatrice d’Austria Maria Teresa e l’imperatore Giuseppe II per la
Lombardia, il granduca Pietro Leopoldo per la Toscana, Carlo III di Borbone e
suo figlio Ferdinando IV a Napoli.
Le riforme interessarono tutti i piani della vita sociale e
politica e, pur nella diversità di attuazione nei diversi Stati, furono
accomunate da iniziative e disposizioni di legge molto simili: si soppressero
le corporazioni d’arti e mestieri che, con i loro statuti superati,
costituivano un impaccio per la manifattura e il commercio; applicando le idee
fisiocratiche e i consigli delle diverse accademie scientifiche, si curò la
razionalizzazione dell’agricoltura; si abolirono le limitazioni dei prezzi dei
prodotti agricoli; si costruirono importanti opere pubbliche quali canali,
bonifiche, strade. Per ottenere una più giusta distribuzione dei pesi fiscali
e, nel contempo, per incrementare le entrate, si abolirono le esenzioni e i
privilegi del clero e dei nobili; si ricorse ad un censimento generale delle
proprietà (il catasto); si abolirono gli appalti delle imposte. Per rispondere
alle diffuse esigenze umanitarie, si migliorò la legislazione penale, giungendo
perfino ad abolire la tortura e la pena di morte (in Toscana). Per rafforzare
l’indipendenza dello Stato dalla Chiesa e ridurre l’ingerenza di quest’ultima,
si limitarono o si abolirono alcuni privilegi, quali il foro ecclesiastico e il
diritto d’asilo dei luoghi sacri; si abolì l’inquisizione e la censura
ecclesiastica sui libri da stampare; si limitò il numero e l’entità degli
ordini religiosi che dipendevano direttamente da Roma e non dai vescovi locali;
si allontanarono i Gesuiti dall’insegnamento e poi li si espulsero dagli Stati.
La differenza più rilevante nell’attuazione delle riforme si
incontrò tra il regno di Napoli e gli altri due Stati italiani. A differenza
della Lombardia e della Toscana, a Napoli mancava una borghesia politicamente
attiva: quella esistente era costituita da professionisti, che miravano ad
inserirsi, direttamente o indirettamente, nell’apparato statale. Per questo
motivo le riforme, che miravano ad una trasformazione economico sociale contro
il potere dei baroni, non riuscirono ad acquistare incisività, non mutarono
sostanzialmente la situazione e arrivarono ben presto ad un punto morto, mentre
ebbero successo quelle contro il potere ecclesiastico, perché, in questo caso,
gli interessi e le richieste del sovrano, dei nobili e degli uomini di cultura,
coincidevano.
Il Piemonte, lo Stato Pontificio e Venezia restarono al di
fuori del moto di rinnovamento che, comunque, entrò in crisi, e finì col
bloccarsi del tutto, quando gli eventi rivoluzionari di Francia mostrarono che
le mete della borghesia non potevano più conciliarsi con gli interessi del
principe.
5. La rivoluzione industriale –
L’impulso innovatore delle idee degli illuministi provocò in tutta Europa un
grande interesse per i problemi connessi con la vita civile e in diversi paesi
mise addirittura in movimento processi di profonda trasformazione delle condizioni
economiche e sociali. Alle attività tradizionali dell’agricoltura e
dell’artigianato andarono a poco a poco affiancandosi, prima in Inghilterra,
poi nelle zone più ricche del continente, forme, via via più complesse, di
produzione industriale basata sull’impiego delle macchine e sull’organizzazione
sistematica del lavoro.
Questa
profonda trasformazione dei metodi produttivi è stata chiamata rivoluzione
industriale e non a torto, se si considera che l’avvento dell’industria ebbe
conseguenze importantissime sulla società e sul modo di vivere degli uomini e
influenzò profondamente anche il pensiero filosofico e la letteratura, creando
nuovi problemi e stimolando nuove idee.
Nasceva
così in modo ancora rudimentale una nuova civiltà, destinata a svilupparsi
nell’Ottocento e ad affermarsi pienamente, con sorprendenti conquiste, nel
nostro secolo.
·
Dall’artigianato
all’industria - Agli inizi del Settecento l’artigianato era ancora ciò che
era stato per tanti secoli: un’attività esclusivamente manuale, svolta con
l’aiuto di una tecnica poco progredita e sulla base di un’organizzazione del
lavoro che affidava al maestro-proprietario la direzione del laboratorio e a un
numero limitato di apprendisti e di operai le varie fasi dell’esecuzione
dell’opera. La qualità dei prodotti (tessuti, armi, attrezzi metallici,
gioielli, vasellame, vetri) era spesso assai buona, ma la produzione era
scarsissima e i manufatti, ottenuti con tante ore di lavoro, finivano per avere
un costo così elevato che soltanto pochi potevano permettersi di acquistarli.
Per
diminuire i prezzi e conquistare quindi strati sempre più larghi di compratori,
bisognava aumentare la produzione sottraendo lavoratori all’agricoltura che ne
aveva in abbondanza. I primi tentativi in questo senso furono fatti nel campo
della lavorazione tessile: gli imprenditori cominciarono ad affidare lavori di
tessitura, anche al di fuori della filanda, ai contadini, i quali vennero ad
avere una seconda occupazione più redditizia che associavano alla coltivazione
dei campi.
C’era
però una grave difficoltà: non tutte le fasi della lavorazione potevano infatti
essere svolte in questi laboratori domestici dove si poteva filare e anche
tessere, ma non pettinare o tingere i tessuti, operazioni per le quali erano
necessarie attrezzature più complicate e particolare competenza nei lavoratori.
Si sentì quindi l’esigenza di concentrare i lavoratori in ambienti attrezzati
per una data produzione, così da organizzare più efficacemente le varie fasi
del lavoro.
·
Le
prime fabbriche - Nacquero così, intorno alla metà del Settecento, le prime
fabbriche attrezzate via via con macchine sempre più perfezionate che
agevolavano il lavoro umano e consentivano una produzione in serie e di qualità
garantita, in tempi molto più brevi. L’avvento delle fabbriche modificò anche
profondamente la condizione del lavoratore: si impose il principio della
specializzazione e della divisione del lavoro, per cui ciascuna fase del lavoro
venne affidata a un determinato operaio.
I
lavoratori, reclutati nelle campagne, poterono disporre di un salario regolare,
ma le loro condizioni restarono spesso miserevoli e sorse tra la classe operaia
e quella degli imprenditori che controllavano la produzione, un conflitto
sociale destinato ad aggravarsi nel secolo successivo.
·
Le
grandi invenzioni e lo sviluppo della tecnica - I problemi
tecnici che si incontravano nell’organizzazione industriale del lavoro
portarono all’invenzione di nuove macchine che consentirono un più intenso
sfruttamento delle risorse naturali, oppure incrementarono la produzione dei
manufatti.
L’industria
tessile ebbe una spinta decisiva quando si introdussero nelle fabbriche la
macchina filatrice e il telaio meccanico ideato dall’inglese Arkwright: la
produzione aumentò e si poterono abbassare sensibilmente i prezzi dei manufatti
di cotone.
Nell’industria
la produzione di ferro ebbe, in Inghilterra, un fortissimo incremento quando
nella fusione di questo metallo, del quale il paese era ricco, si impiegò non
più il carbone di legna, ma quello fossile di cui si erano scoperti nell’isola
ricchissimi giacimenti.
L’invenzione
più importante fu però quella della macchina a vapore, ideata da James Watt:
dapprima essa fu usata soltanto per azionare le pompe che estraevano acqua dai
pozzi carboniferi, ma successivamente ebbe tutta una vasta serie di
applicazioni. Grazie a queste invenzioni e alle sue applicazioni l’Inghilterra,
nella seconda metà del Settecento, divenne il primo paese industriale del
mondo.
Sempre
al XVIII secolo risale la scoperta di un’altra fonte di energia naturale che
doveva in seguito rivelarsi importantissima: l’elettricità, studiata dal
francese Coulomb e da Alessandro Volta che inventò la pila.
Lo
stimolo della mentalità illuministica, tuttavia, non si sentì soltanto nel
campo della tecnica. In questo periodo nasce anche la chimica moderna
soprattutto per merito del francese Lavoisier che per primo distinse sul piano
teorico gli elementi dai composti e studiò la dilatazione termica e i fenomeni
connessi con la combustione.
Il
progresso della chimica ebbe ripercussioni favorevoli anche nella medicina.
Pian piano si debellarono i grandi mali che periodicamente decimavano con
terribili epidemie, favorite dalla mancanza di igiene e di rimedi adeguati, la
popolazione europea. L’inglese Jenner scoprì il vaccino antivaioloso, aprendo
così la ricerca medica a prospettive del tutto nuove.
·
Le
città industriali - La più importante conseguenza dell’affermazione
dell’industria e dei progressi scientifici e tecnici, fu che masse crescenti di
popolazione abbandonarono le campagne dove si guadagnava pochissimo e si
trasferirono nelle città. Tutt’attorno agli antichi centri cittadini sorsero
sterminati e squallidi quartieri operai, mentre nelle zone minerarie nacquero
addirittura nuove città, popolate esclusivamente da lavoratori dell’industria.
Per
dare un’idea concreta della misura in cui si concentrava la popolazione nelle
zone industriali dando vita a città sempre più grandi, basteranno queste cifre
che si riferiscono alla città inglese di Manchester: tra il 1685-1760 la città
passò da 6000 a 45.000 abitanti; nel 1800 ne aveva 72.000, nel 1850 303.000.
Lo
stesso paesaggio iniziò una profonda trasformazione e l’Inghilterra ne subì per
prima le conseguenze: sulla verde pianura, ricca di grano e di pascoli, si
levarono sempre più numerose le ciminiere e sui declivi delle colline boscose
si spalancarono i pozzi delle miniere.
6. La Rivoluzione americana (1765-1783) -
Nella seconda metà del secolo si verificò un evento storico determinante: la
ribellione alla madrepatria delle colonie inglesi d’America e la costituzione,
al di là dell’Atlantico, di uno Stato indipendente, gli Stati Uniti d’America.
La ribellione fu favorita dalla diffusione, tra i coloni, dei principi
dell’Illuminismo e dalla fine della pressione che la Francia esercitava sulle
colonie prima di essere sconfitta dall’Inghilterra nella guerra dei sette anni.
Quando, per rinsanguare l’erario esaurito dalle spese di
questa lunga guerra, il parlamento inglese e il governo di Giorgio III
pretesero di imporre nuove imposte alle colonie, senza aver avuto
l’approvazione delle assemblee locali, queste si rifiutarono di pagarle.
Dapprima (1764-1767) si tentò una soluzione di compromesso, poi, vista
l’intransigenza dell’Inghilterra, si passò alla lotta armata (1767-1783). Le
colonie riunitesi il 4 luglio 1776 dichiarano la loro indipendenza nel
Congresso di Filadelfia, confermata dalla vittorie militari ottenute da Giorgio
Washington a Saratoga (dicembre 1777) e a Yorktown (1781). Alle colonie
americane si erano affiancate nella guerra all’Inghilterra la Francia, la
Spagna e l’Olanda.
Fra gli atti approvati dai rappresentanti delle colonie ancor
prima della dichiarazione d’indipendenza, vi fu la famosa Dichiarazione dei
diritti (1774), nota come la «grande dichiarazione», che, rifacendosi alle idee
di libertà e di democrazia elaborate in Europa dai filosofi del Settecento,
affermava l’uguaglianza di tutti gli uomini e il loro diritto naturale alla
vita, alla libertà, alla felicità, e proclamava il diritto dei cittadini a ribellarsi
al sovrano che tali diritti non rispettasse.
7. La Rivoluzione francese (1789-1799)
- Verso la metà del Settecento, la Francia si presentava come la maggiore
potenza politica e militare del continente europeo.
Il
modello di vita proposto dalla corte di Versailles, simbolo della Francia in
uno dei momenti più gloriosi della sua storia, trionfava nei salotti di tutta
Europa, mentre i princìpi progressisti e umanitari propugnati dagli illuministi
non solo ricevevano entusiastica accoglienza presso gli uomini di cultura, ma
trovavano realizzazione pratica nelle riforme attuate dai sovrani illuminati.
Tuttavia dietro lo splendore della corte, dietro la floridezza economica e il
prestigio culturale, la Francia nascondeva un’altra realtà. Nonostante i tentativi
fatti da valenti ministri per dare un ordinamento razionale alla struttura
amministrativa dello Stato, questa restava per molti versi arcaica e
inefficiente, mentre profondi contrasti dilaniavano la società francese, ancora
fondata sul privilegio aristocratico e sulla proprietà terriera.
Avvenne
così che proprio la Francia che aveva proposto agli altri sovrani d’Europa il
modello di un Re Sole che traeva il suo potere direttamente da Dio e che
appariva il più sicuro baluardo della monarchia assoluta, divenne, a partire
dal 1789, teatro di una grandiosa rivoluzione, destinata a mutare la storia non
soltanto di quel paese, ma di tutta l’umanità.
a)
La
società francese prerivoluzionaria - Le radici storiche
della Rivoluzione francese, al di là delle circostanze particolari che ne
favorirono il verificarsi alla fine del secolo XVIII, si trovano nella ormai
insostenibile contraddizione tra la struttura sociale aristocratica della
Francia - con il predominio degli ordini privilegiati (nobiltà e clero) - e la potenza
economica che il Terzo Stato (o meglio la parte più elevata di esso, la
borghesia) aveva conseguita nel corso degli ultimi secoli. La monarchia,
realizzato con l’appoggio del Terzo Stato l’accentramento del potere nelle
proprie mani, nel Settecento aveva ripreso una politica di protezione delle
classi privilegiate, in particolare della nobiltà, riconfermandole tutti i
privilegi sociali, quasi a compensarla del potere politico che le aveva tolto,
e attribuendole onorari elevati, pensioni e stipendi militari e per le cariche
di corte. La nobiltà finiva così con l’assorbire circa la quarta parte del
bilancio dello Stato. Ciò avveniva mentre la borghesia registrava un momento di
grande espansione e, nel contempo, acquisiva coscienza di essere l’effettiva
forza della nazione. Era naturale che chiedesse di avere un corrispondente peso
politico.
b)
L’influenza
delle idee illuministiche - Questa consapevolezza fu
chiarita e confermata dall’opera degli illuministi. I letterati scrivevano per
il gran pubblico, ne chiarivano e sostenevano le rivendicazioni: la libertà,
l’uguaglianza, la sovranità popolare. Le venerabili istituzioni del passato, a
cominciare da quelle religiose, che erano il più saldo sostegno dell’antico
regime, cadevano sotto la critica spregiudicata dei filosofi, critica che gli
stessi nobili, inconsapevoli di preparare così la loro fine, condividevano e
aiutavano a diffondere. Era qui, nel mondo delle idee, che la rivoluzione era
incominciata. Una rivoluzione che pertanto non venne dal basso, dalle classi
popolari, ma dall’alto, così come dall’alto sarà guidata: dalla borghesia.
c)
La
borghesia - Il Terzo Stato, che stava al di sotto degli ordini
privilegiati e rappresentava la stragrande maggioranza della popolazione, era
estremamente composito. Ne facevano parte i contadini, gli artigiani, gli
operai, ma anche la borghesia, formata da intellettuali, professionisti,
banchieri, commercianti, imprenditori di opifici e manifatture, proprietari
terrieri. Era questa la forza che si contrapponeva alla vecchia classe feudale.
Nonostante le pastoie delle vecchie istituzioni, il commercio (interno ed
estero, con l’Europa e con le colonie) e l’industria si erano sviluppati, le
banche si erano moltiplicate, erano nate Società per azioni che operavano nel
campo del commercio, delle assicurazioni, dell’industria. La terra era passata
e continuava a passare dalle mani dei nobili indebitati a quelle dei borghesi,
che si erano arricchiti. Al di sotto dell’alta borghesia, che abbelliva con i
suoi palazzi le vie di Parigi e delle altre città di Francia, si era formata
una piccola borghesia, il cui livello di vita si veniva elevando. In altre
parole, mentre la nobiltà, rovinata dalla dispendiosa vita di corte, veniva
costantemente perdendo di peso, la borghesia ne acquistava ogni giorno di più.
Questo squilibrio di classi fu una delle cause della rivoluzione: la borghesia
volle abolire l’ordine sociale esistente per sostituirlo con uno nuovo, in cui
essa avesse il riconoscimento al quale riteneva d’avere diritto. La rivoluzione
pertanto non nacque in una Francia immiserita, ma in una nazione fiorente, e fu
la borghesia, che di questa floridezza godeva i frutti, ad assumerne la
direzione, per orientarla secondo i suoi interessi.
d)
I
contadini - La quasi totalità del terzo Stato era costituita da
contadini, perché la Francia, nonostante lo sviluppo del commercio e delle
manifatture, continuava ad essere una nazione prevalentemente rurale. E i
contadini erano anche il ceto più sfruttato e più oberato di carichi di ogni
genere. Su di loro pesavano gli antichi obblighi feudali (corvées, decime,
censi, imposte regie, proibizione di caccia, servizio militare), ai quali si
erano sovrapposte le richieste dei nuovi padroni borghesi, talvolta più esosi
degli antichi. La soppressione dei pascoli comuni e dei diritti di spigolatura
e di legnatico aveva privato i più poveri anche delle più piccole risorse. E’
comprensibile che i contadini, in queste condizioni di sfruttamento e di
miseria, fossero pronti per la rivolta. La situazione delle classi inferiori
era migliore nelle città, ove gli artigiani, nonostante i vincoli delle
corporazioni, avevano maggiori possibilità di avanzamento. Gli operai occupati
nelle manifatture spesso erano anche contadini per i quali il salario
industriale era un’integrazione del reddito agricolo. Comunque, mancando di
ogni coscienza di classe, nel momento rivoluzionario non ebbero difficoltà ad
identificarsi con i borghesi. Contadini e popolani costituiranno la massa che
fu la protagonista delle grandi azioni rivoluzionarie e diede al Terzo Stato il
peso necessario per far valere le proprie richieste e portare avanti con
successo le proprie rivendicazioni.
a)
L’Assemblea
Nazionale Costituente - Le difficoltà finanziarie in cui, nonostante la floridezza
dell’economia nazionale, si dibatteva la monarchia, incapace di risanare il
disavanzo del bilancio statale, furono la circostanza che fece scoppiare la
rivoluzione. Il Parlamento di Parigi non aveva approvato le proposte della
monarchia per risanare il deficit e il re si vide costretto a convocare gli
Stati Generali [[22]],
che da semplice assemblea consultiva, per un atto rivoluzionario del Terzo
Stato, si trasformarono in Assemblea Nazionale Costituente [[23]]
(9 luglio 1789) con l’impegno di non sciogliersi sino a che non avesse dato una
nuova Costituzione alla Francia. Questo primo passo rivoluzionario fu
rinsaldato dall’insurrezione popolare (presa della Bastiglia, 14 luglio) e
dalla costituzione della Guardia Nazionale, che assicurarono al Terzo Stato,
all’interno dell’Assemblea e nel Paese, la forza per fronteggiare i tentativi
dei nobili e della monarchia di fermare la rivoluzione. La rivolta dei
contadini estese la rivoluzione in tutta la Francia. L’abolizione dei diritti feudali (decretata dall’Assemblea la notte
del 4 agosto) e la Dichiarazione dei
diritti furono due tappe fondamentali per l’instaurazione di un nuovo
ordine, che trovò la sua codificazione nella Costituzione del 1791, una
costituzione monarchica moderata, in cui il re e i suoi ministri erano
affiancati da un’Assemblea legislativa che venne eletta quando l’Assemblea
Costiuente si sciolse.
b)
L’Assemblea
Legislativa - La borghesia poteva dire d’aver raggiunto il suo scopo, ma
presto si vide che la monarchia non era disposta ad accettare le limitazioni
impostele dalla costituzione. Così, sotto la spinta di più circostanze
(dichiarazione di guerra dell’Austria e della Prussia, tentativo di fuga del
re, prime sconfitte militari, tradimento di alcuni generali, timori di
complotti antirivoluzionari all’interno) la rivoluzione si radicalizzò: i
moderati, che numericamente prevalevano nell’Assemblea Legislativa, furono
travolti dalla sinistra, rappresentata da Girondini
[[24]]
e Giacobini [[25]],
e dalle pressioni della piazza, che concordemente volevano la fine della
monarchia e l’instaurazione di una repubblica. L’Assemblea Legislativa si
sciolse dopo aver indetto le elezioni per una nuova assemblea costituente che,
in omaggio alla dottrina della sovranità popolare del Rousseau si chiamò
Convenzione.
c)
La
Convenzione e la Repubblica - La Convenzione proclamò la
repubblica, processò Luigi XVI e lo condannò alla ghigliottina e s’impegno a
dare una nuova Costituzione alla Francia. Fu un’opera turbata da lotte feroci
tra i diversi gruppi politici. I Girondini, rappresentanti dell’alta borghesia
provinciale e dei moderati, furono travolti dai Giacobini e la politica della
Convenzione si spostò sempre più a sinistra. Fu votata una costituzione ultra
democratica (costituzione dell’anno I), che però venne subito sospesa e non fu
mai applicata. Si crearono organismi speciali con poteri dittatoriali: il Comitato di salute pubblica [[26]],
il Comitato per la sicurezza nazionale
e il Triumvirato (Robespierre,
Saint-Just, Couthon). Dal giugno 1793, si aprì il periodo del Terrore [[27]],
che fu dominato dalla figura di Robespierre [[28]],
e la repubblica, anche per le pressioni dei popolani (i Sanculotti [[29]]),
assunse atteggiamenti socialisteggianti, con viva attenzione per i problemi
sociali. Nonostante i suoi eccessi, il Terrore, grazie all’opera inflessibile
di Robespierre, ebbe il merito di soffocare i tentativi controrivoluzionari
interni, di fermare l’invasione straniera e portare le armate francesi al di là
delle proprie frontiere.
d)
Il
colpo di stato di Termidoro e la reazione borghese
- Quando la rivoluzione ebbe superati i gravi pericoli che la minacciavano,
Robespierre (che aveva combattuto su due fronti: contro l’opposizione moderata
di Danton [[30]]
e contro quella estremista di Hebert) si trovò isolato, e la borghesia,
contraria alle tendenze sociali che avevano caratterizzato il Terrore, riprese
in mano la situazione con un colpo di stato effettuato il 9 Termidoro [[31]]
(27 luglio ‘94). Robespierre e i suoi sostenitori furono ghigliottinati, fu
emanata una nuova costituzione (la Costituzione dell’anno III, 1795), che diede
vita ad una repubblica moderata, basata sul censo, il cui organo esecutivo era
il Direttorio, un collegio di cinque membri. Il Direttorio ebbe vita difficile,
insidiato da destra dai monarchici e da sinistra dagli estremisti democratici,
e fu presto abbattuto con un nuovo colpo di stato da Napoleone (18 brumaio
‘99), che getterà così le basi per la sua dittatura personale. Comunque,
nonostante queste evoluzioni, la borghesia col colpo di stato di Termidoro
aveva raggiunto il suo scopo, perché d’ora in avanti, pur nelle diverse forme
che successivamente assumerà, lo Stato francese riserverà alla borghesia, in
particolare ai suoi strati più elevati, effettive possibilità di governo. La
Rivoluzione si era conclusa con la nascita dello Stato borghese.
8.
Il periodo napoleonico - Il periodo che va dal 1798 al
1815 è dominato dalla figura di Napoleone che, da oscuro generale che comanda
l’Armata d’Italia, diventa prima console nel 1799, poi imperatore dei Francesi nel
1804 e crea un impero che abbraccia mezza Europa. Le tappe fondamentali della
sua carriera splendida e drammatica sono indicate nella cronologia. Quello che
qui ci interessa spiegare è il significato europeo e italiano della sua
vicenda, le ragioni del suo fulmineo successo e dell’altrettanto rapido crollo.
a)
Il
significato della vicenda napoleonica - Napoleone, da un
certo punto di vista, chiude la Rivoluzione francese, in quanto, instaurando
una dittatura personale, ne nega i princìpi fondamentali, quelli della
partecipazione dei cittadini al governo e delle libertà politiche. Anche sul
piano internazionale la creazione a suo arbitrio di nuovi Stati, che egli poi
assegna ai suoi familiari, contrasta con il principio rivoluzionario del
diritto dei popoli a scegliersi il proprio governo. D’altra parte, le sue
campagne, che portano le armate francesi in tutta Europa, dalla Spagna alla
lontana Russia, vi diffondono le idee rivoluzionarie, gettando i semi da cui
fioriranno le rivoluzioni nazionali dell’Ottocento. Proprio questa bivalenza
dell’opera di Napoleone spiega l’atteggiamento, a un tempo di ammirazione e di
ostilità, dei suoi contemporanei; atteggiamento così evidente ad esempio, nel
nostro Foscolo.
b)
Le
cause dei successi napoleonici - Le armate francesi,
guidate prima dai generali del Direttorio e poi da Napoleone, vinsero le
potenze nemiche e sconvolsero l’assetto europeo precedente. Che cosa rese
possibili successi di tanta portata? Vi ebbero certo gran parte le capacità
militari di alcuni di questi generali e di Napoleone, l’entusiasmo delle
truppe, che, pur malamente equipaggiate, combattevano per idealità da loro
condivise. Ma la spiegazione va cercata soprattutto nel fatto che, alle spalle
dell’esercito, era stata creata, prima dalla Convenzione e poi, e in misura ben
maggiore, da Napoleone, un’organizzazione politico-amministrativa che aveva
fatto della Francia uno stato moderno. Napoleone infatti, portando avanti
l’opera di Luigi XIV e quella del giacobino Comitato di Salute Pubblica, aveva
costruito un organismo fortemente centralizzato, in grado di disporre
rapidamente di tutte le energie del Paese. Un Paese che egli aveva curato in
modo che rifiorisse nella sua economia e nei cui confronti si era presentato
come il pacificatore tra le opposte fazioni, e tra la Chiesa e la rivoluzione,
assicurandosene il consenso. Infine, la diffusione dei princìpi rivoluzionari
precorse le armate francesi, creò all’interno degli stessi Stati nemici gruppi
filofrancesi, pronti a favorire il loro successo e ad accogliere come
liberatori quei soldati che prima si erano battuti contro il pericolo
dell’invasione della Francia da parte delle potenze che volevano soffocare la
rivoluzione, e poi erano passati al contrattacco per muovere «guerra ai
tiranni», e portare giustizia e libertà ai Popoli. Sotto il loro urto cadevano
le vecchie impalcature statali, sociali e giuridiche offrendo possibilità di
affermazione alle nuove forze nutrite dal pensiero illuministico. A differenza
delle precedenti guerre, che avevano a base gli interessi delle dinastie, ora
si trattava della lotta tra due opposte concezioni del mondo: l’una basata
sull’autorità e il privilegio, l’altra sulla libertà e la ragione.
c)
L’impero
napoleonico - Prima della spedizione in Russia nel 1812 Napoleone
dominava l’Europa: Francia: erano annessi allo Stato francese come territori
gli Stati tedeschi sulla riva orientale del Reno, Belgio, Olanda, Savoia,
Piemonte, Liguria, Toscana, ducato di Parma, Stato della Chiesa (tranne le
Marche), Carinzia (regione austriaca), Trieste, Istria e Dalmazia; Spagna:
cacciati i Borbone, divenne re Giuseppe, fratello di Napoleone (1808); regno di
Napoli: dato a Giuseppe, poi dal 1808 a Gioacchino Murat, cognato di
Napoleone;regno d’Italia: Lombardia, Trentino, Veneto, Friuli, Modena, Bologna,
Romagna e Marche costituirono (1804) il regno di cui era re lo stesso
Napoleone; Germania: alcuni Stati del Nord furono riuniti nel regno di
Westfalia dato al fra tello Gerolamo; restava indipendente la Prussia, ma
costretta al ruolo di alleato di Napoleone; Polonia: spartita fra Prussia e
Russia non esisteva come Stato; Napoleone creò il Granducato di Varsavia; Svezia:
possedeva anche la Norvegia; alleato della Francia, il re Carlo XIII nominò
successore il generale francese Bernadotte, che governò dal 1810 e fondò la dinastia
che regna tuttora; Austria e Ungheria: sciolto l’impero, gli Asburgo divennero
imperatori d’Austria; sconfitti, si allearono con Napoleone che sposò Maria
Luigia, figlia dell’imperatore. Russia: tra il 1808 e il 1812 anche lo zar
Alessandro I fu alleato di Napoleone. L’unica potenza nemica e indipendente era
l’Inghilterra che con la flotta proteggeva l’indipendenza del Portogallo, del
regno di Sardegna (la sola isola) dei Savoia, e il regno di Sicilia dove si
erano ritirati i Borbone cacciati da Napoli.
d)
Le
ragioni del rapido sfacelo - Ma, contrariamente alle comuni
aspettative e alle speranze, queste guerre non tardarono a rivelare un’altra
faccia: dimostrarono di essere lo strumento dell’ambizione dinastica di
Napoleone e degli interessi della borghesia francese. E allora i popoli, ai
quali le armate napoleoniche avevano portato il principio
dell’autodeterminazione, offesi nei loro sentimenti nazionali, si ribellarono.
Napoleone sarà impotente di fronte alle guerre nazionali scatenategli contro in
Spagna, Russia e Germania, e sarà trascinato al crollo. Tanto più che i vecchi
sovrani, ai quali, per spirito nazionalistico, si erano avvicinati i popoli,
avevano appreso la lezione impartita loro da Napoleone, non solo sul piano
militare, ma anche su quello dell’organizzazione dello Stato, e si erano
affrettati a fare concessioni di tipo moderatamente liberale, che poi, passata
la bufera, ritirarono.
e)
L’eredità
napoleonica - Quando Waterloo porrà fine alla parabola napoleonica,
resterà di lui, oltre al suo mito, che avrà presa ancora sulle generazioni
future, una grande impronta nella società europea. Essa non sarà più la società
prerivoluzionaria; sarà ormai diventata una società moderna, fondata su una
maggiore uguaglianza giuridica dei cittadini, ad ognuno dei quali viene offerta
la possibilità di ascesa sociale in base ai propri meriti. Il Codice
napoleonico, acquisito da quasi tutti gli Stati, assicurava, oltre alla libertà
civile e alla tutela giudiziaria, i diritti della proprietà privata, instaurava
il matrimonio civile e consentiva il divorzio. L’impegno di Napoleone per tutto
quanto poteva favorire lo sviluppo delle attività economiche e per la
costruzione di grandi opere pubbliche, diventerà dopo di lui funzione
riconosciuta come doverosa dagli Stati moderni. Tra le istituzioni che questi
adotteranno per il controllo delle finanze vi sarà sempre quella di una Banca
nazionale sul tipo della Banca di Francia, creata da Napoleone per porre riparo
al disordine finanziario determinato dalla Rivoluzione. La laicizzazione dello
Stato, e conseguentemente della società, che Napoleone aveva conseguito
attraverso il Concordato col Pontefice, diverrà anch’essa un’altra
caratteristica di quasi tutti gli Stati europei nell’Ottocento. È però nel
campo amministrativo e in quello dell’istruzione che il modello creato da
Napoleone avrà il maggior successo. Egli centralizzò l’amministrazione creando
l’istituto dei prefetti, che reggevano il dipartimento in dipendenza dal potere
esecutivo centrale; tutta quanta l’amministrazione statale era in mano a una
burocrazia specializzata, costituita da funzionari di carriera; la giustizia
era affidata a giudici di nomina statale. Anche l’ordinamento dell’istruzione
diventerà un modello comunemente seguito: le scuole vennero divise da Napoleone
in elementari, medie, superiori, ed erano controllate e regolamentate dallo
Stato.
9.
L’assetto dell’Italia nell’età napoleonica – Lo scoppio della Rivoluzione
francese aveva trovato in Italia numerosi sostenitori, specialmente tra i ceti
borghesi, che avevano aderito con entusiasmo alle idee rivoluzionarie. Negli
anni successivi, però, la campagna antireligiosa e il Terrore, avevano
provocato un diffuso sentimento antifrancese nel popolo. E' in questo quadro
che si inserisce la discesa di Napoleone Bonaparte in Italia.
a)
Dopo
la prima campagna - La prima campagna militare che Napoleone condusse in
Italia quale generale del Direttorio (1796-1797) scardinò, con una serie di
brillanti vittorie che portarono alla pace di Campoformio (1797), l’assetto che
la penisola aveva avuto ad Aquisgrana, con il trattato di pace che nel 1748
pose fine alle cosiddette guerre di successione. Furono creati nuovi Stati: la
Repubblica Cispadana e la Repubblica Traspadana, che daranno origine con la
loro fusione alla Repubblica Cisalpina con capitale Milano; la Repubblica
Ligure, vassalla della Francia, in luogo della vecchia repubblica oligarchica;
e una Repubblica Romana creata dai Francesi dopo avere allontanato il
Pontefice. Breve vita ebbe una Repubblica Veneziana promossa dai Giacobini,
perché Venezia, col trattato di Campoformio, fu ceduta da Napoleone
all’Austria.
Successivamente,
durante la campagna di Napoleone in Egitto, si costituì a Napoli, cacciati i
Borboni che si rifugiarono in Sicilia, una Repubblica Partenopea. Così, agli
inizi del 1799, tutta la penisola si trovava sotto il controllo diretto o
indiretto della Francia.
Il rapido successo
delle armate francesi in Italia fu dovuto tra l’altro all’atteggiamento
favorevole di una minoranza di intellettuali che, conquistati dalle idee
rivoluzionarie, collaborarono con gli occupanti. La costituzione di più
repubbliche fu considerata da costoro solo un momento transitorio, che avrebbe
dovuto portare alla formazione di una federazione o di una grande repubblica unitaria.
La inconsistenza di
questi Stati si mostrò chiaramente quando le truppe francesi, battute dalle
potenze avversarie alleate nella seconda Coalizione dovettero abbandonare la
penisola: essi crollarono tutti. L’episodio più drammatico fu la fine della
Repubblica Partenopea (1799) e l’esecuzione dei patrioti che ne erano stati
l’anima.
b)
Dopo
la seconda campagna - La vittoria a Marengo (1800) di Napoleone, ormai primo
console, e la successiva pace di Lunéville (1801), portarono alla
ricostituzione della Repubblica Ligure e di una più ampia Repubblica Cisalpina
che, nel 1802, fu trasformata in Repubblica Italiana, con grande delusione
degli Italiani che vedevano eleggere presidente di essa lo stesso Bonaparte, il
che testimoniava concretamente la mancanza di autonomia del nuovo Stato. Quando
Napoleone si fece nominare imperatore di Francia (1804), la Repubblica Italiana
fu trasformata in Regno d’Italia, di cui era re lo stesso Napoleone e il cui
governo fu affidato al viceré Eugenio di Beauharnais, figliastro di Napoleone
(1805).
La condizione di
satelliti degli Stati italiani fu ribadita quando (dal 1805) i territori della
Repubblica Ligure, del Ducato di Toscana e del Lazio furono annessi
direttamente alla Francia, e il Regno di Napoli fu assegnato prima a un
fratello di Napoleone, Giuseppe, poi al cognato Gioacchino Murat. In Sicilia e
in Sardegna si erano rifugiati rispettivamente il sovrano borbonico e il
Savoia.
c)
I
patrioti italiani di fronte a Napoleone - Quando Bonaparte si
affacciò per la prima volta alle Alpi, nel 1796, si accelerò il formarsi di una
sinistra italiana singolarmente avanzata, che diede vita a discussioni e
polemiche sulla futura sistemazione dell’Italia. Si trattava di controbattere
le affermazioni di taluni circoli e giornali parigini che sostenevano
l’immaturità dell’Italia ad una politica autonoma. Il centro di queste
discussioni e polemiche fu Milano. A dimostrare la sensibilità sociale di
questi patrioti italiani sta il fatto che, nonostante la diversità delle loro
opinioni, tutti furono concordi nel riconoscere la necessità di porre riparo
alla miseria e all’arretratezza delle classi più povere.
La politica di
Napoleone che puntò alla formazione di tanti Stati vassalli, generò una grande
delusione; tanto più quando Napoleone, avendo già affermato la sua dittatura
personale come imperatore, trasformò la Repubblica Italiana nel Regno d’Italia,
di cui cinse egli stesso la corona.
Ai patrioti italiani si
prospettò allora la scelta tra questo nuovo dispotismo e l’antico; ma essi
seppero riconoscere la differenza fra i due. Il dispotismo napoleonico portava
con sé, anche se spesso traditi sul piano concreto, i princìpi della
Rivoluzione; risvegliava anche, suo malgrado, il sentimento nazionale; educava,
attraverso il servizio prestato nell’esercito, all’uso delle armi; apriva,
tramite l’amministrazione, possibilità di partecipazione attiva alla vita dello
Stato ad elementi sino ad allora esclusi.
E si trattò di
un’amministrazione quanto mai operosa, che portò a termine la trasformazione
dello Stato e della società solo timidamente avviata dai prìncipi riformatori
del Settecento. Furono soppressi i vincoli feudali ed economici, i privilegi
dei monasteri, dei tribunali particolari a cominciare da quelli ecclesiastici,
fu affermata l’uguaglianza civile, furono promosse l’istruzione pubblica,
l’agricoltura, i commerci e l’industria che si avvantaggiarono della caduta
delle barriere doganali e dei pedaggi, dell’ampliamento della rete stradale,
dell’unificazione dei pesi e delle misure.
Proprio per questo,
quando, sconfitto Napoleone, le grandi potenze vollero restaurare nel Congresso
di Vienna l’antico regime, erano già pronte anche in Italia le forze che,
tramite le congiure e le rivoluzioni, si sarebbero impegnate ad abbattere il
nuovo assetto: erano forze che avevano fatto il loro apprendistato nelle armate
e nell’amministrazione napoleonica.
10.
La cultura settecentesca – Il Settecento è l'età dei lumi, l'epoca dell'Illuminismo, delle
nuove esigenze razionali e della prima rivoluzione industriale. In tutta
l'Europa si sviluppa una nuova idea di modernità, che si basava sul senso laico
della cultura, sulla ricerca di una nuova e maggiore comunicatività del
pensiero.
a)
Il
self made man – La rivoluzione americana nel 1775 e quella francese nel
1789 generaronono il nuovo Stato borghese. La rivoluzione industriale modificò
radicalmente la sfera della produzione e della fruizione culturale.
1.
In primo luogo, l’industrializzazione tecnica, gestionale e
commerciale dell’editoria unita all’aumento della popolazione alfabetizzata
diede avvio alla rivoluzione del libro,
cioè all’abbassamento dei costi e alla diffusione di massa dei giornali, delle
riviste e soprattutto dei libri.
2.
In secondo luogo, nacque e si affermò la tendenza a estendere
e a riformare le istituzioni scolastiche per renderle adeguate alle esigenze
dello sviluppo industriale. I modelli di tale tendenza furono da un lato l’Ecole polytechnique fondata in Francia
nel 1795 e dall’altro la riforma dell’Università di Berlino nel 1810 ad opera
di Humboldt. In entrambi i casi, si valorizzarono il nuovo sapere
matematico-scientifico e la sua applicazione tecnica.
3.
In terzo luogo, la convergenza di questi due processi innescò
la progressiva laicizzazione e borghesizzazione del ceto intellettuale: mentre
prima la maggior parte degli intellettuali (insegnanti, giornalisti, scrittori,
poeti, scienziati, artisti) faceva parte del clero o dell’aristocrazia ora è di
estrazione soprattutto medio e piccolo borghese.
In
questo modo a una concezione dell’intelligenza come dote innata delle classi
superiori si sostituì quella dell’intelligenza come merito e talento proprio di
un individuo indipendentemente dalla sua nascita. Su questa base, inoltre, la
cultura diventa per il piccolo borghese uno strumento di ascesa economico-sociale.
Per comprendere
le novità culturali del 700 bastano pochi esempi:
1.
nel
1712 J. Addison e R. Steel pubblicano
a Londra lo Spectator,
primo esempio di giornale che vuole informare dei fatti e costituire un modello
sociale di comportamento, volto a formare l'opinione
pubblica;
2.
nel
1719 D. De Foe pubblica il Robinson Crusoe, romanzo realistico, che descrivendo la
laboriosità e la tenacia di un naufrago su di un'isola deserta, ripercorre le
tappe dell'incivilimento umano e definisce il lavoro, l'attività, l'insieme dei
valori borghesi dell'operare come altamente positivi;
3.
nel
1721 Montesquieu pubblica le Lettere Persiane, una sorta di pamphlet che
sconsacra alla luce della ragione i valori ufficiali e dominanti nella società
contemporanea;
4.
nel
1735 L. A. Muratori pubblica la Filosofia morale, che mette
in ridicolo le pretese nobiliari, distinguendo gli uomini sulla base delle
qualità personali e della fedeltà ai valori ufficiali.
Tutte queste
opere indicano sempre più chiaramente che i valori ritenuti positivi,
proponibili all'intera società sono quelli di una classe sociale nuova: la
borghesia. Il borghese è il self
made man, l'uomo che si fa da sè, che può contare sul proprio lavoro
e che trova come antagonista sulla propria strada la nobiltà, che vive di
rendita e che conta sulla proprietà rispetto a lui che nel profitto e nel
lavoro trova la dignità umana. E proprio il conflitto tra borghesi e nobiltà
caratterizzerà le vicende del secolo fino a sfociare nella Rivoluzione
Francese. La forma assunta all'inizio è la contestazione su
base logica e razionale dei privilegi, leggi, dogmi che andavano rimossi e
sostituiti con norme razionali e identificabili come tali.
b)
I luoghi della
cultura – I luoghi di produzione della cultura in parte si modificano
nel Settecento: le corti non scompaiono, ma perdono progressivamente
importanza, sopravvivono le accademie, che in Italia resistono molto di più che
nelle altre nazioni europee: mentre nel resto d’Europa, infatti, la borghesia
emergente diventa la classe trainante anche sul piano culturale, l’Italia
presenta una condizione di notevole arretratezza e, quindi, resta legata ai
luoghi tradizionali di organizzazione della cultura.
Ovviamente, le accademie devono almeno parzialmente
rinnovarsi, per sopravvivere in tempi notevolmente mutati. L’accademia più
importante e significativa è quella dell’Arcadia, attiva nella prima metà del
Settecento. Essa presenta innanzitutto novità nella sua struttura, perché ha un
centro di diffusione, ma affianca ad esso sedi sparse in molte città e, in
qualche modo, collegate tra loro: ciò favorisce lo scambio e la circolazione
delle idee.
Inoltre è uno dei primi centri culturali che avverte il
cambiamento dei tempi e l’esigenza di scelte nuove, esprimendo rifiuto per gli
eccessi, le stravaganze, il cattivo gusto
barocco, in nome di un ritorno ad ideali di equilibrio, di armonia, di
compostezza classici.
Importanti luoghi di aggregazione culturale diventarono i
caffè e i salotti.
c)
I
caffé – Luoghi di passaggio, di incontro, di conversazione. Sono
luoghi di aggregazione molto più informali, spontanei e non sistematici
rispetto a cenacoli ed accademie. Inoltre, si tratta di centri molto meno
elitari e selettivi. Infine, si tratta di luoghi aperti, immersi nella vita
cittadina, a contatto con la realtà (l’osservazione, l’analisi, lo studio dei
problemi concreti sono un elemento centrale per gli intellettuali dell’epoca);
tra l’altro, nei caffé si leggeva il giornale (nuovo strumento di diffusione
delle idee) e si commentano le notizie.
d)
I
salotti – Sono luoghi più esclusivi rispetto ai caffé perché si
tratta ovviamente dei salotti delle case dei nobili o dei ricchi borghesi. A
volte, i proprietari fanno a gara per invitare nel loro salotto personaggi di
particolare prestigio culturale e intellettuale. Nei salotti, come nei caffé, i
temi affrontati nelle conversazioni sono assai vari, mentre le diverse
accademie in genere si caratterizzano per interessi specifici diversi.
e)
Il
grand tour – Una caratteristica dell’intellettuale settecentesco è quello
di sentirsi cosmopolita, cioè cittadino del mondo: aumentano i viaggi per
l’Europa e non solo, per conoscere realtà diverse e confrontarsi con altri modi
di vita e con altre forme di pensiero. Il Grand Tour era un viaggio nei
luoghi della storia e dell’arte, dove poter apprezzare e conoscere tramite
un’esperienza diretta e tangibile ciò che si era fino a quel momento appreso
solo dai libri. Durante il Grand Tour i giovani appartenenti alle più facoltose
famiglie europee hanno occasione di completare il proprio ciclo di studi con la
visita dei maggiori centri culturali, artistici e politici dell’Europa
continentale. L’Italia è una delle mete preferite per questo viaggio, visto il
notevole patrimonio storico e architettonico di cui godono le sue principali
città. I viaggiatori del Grand Tour non mancano di acquistare riproduzioni
artistiche dei luoghi visitati, oggetti d’arte e d’antiquariato da portare in
patria a ricordo del loro viaggio. Nacque una vera e propria industria
turistica; escono i primi libri guida dei luoghi e
si vendono vedute dei paesaggi italiani. Uno strumento
importantissimo di comunicazione in quest’epoca è lo scambio epistolare. Alcune
lettere vengono scritte (o, comunque, revisionate) in vista della
pubblicazione. Tra fine Settecento e inizio Ottocento fiorirà il genere del
romanzo epistolare, cioè del romanzo costruito sotto forma di scambio di
lettere.
11. La filosofia – Il processo di
smantellamento della filosofia, iniziato con Machiavelli nel Cinquecento e
portato avanti con la grande rivoluzione scientifica del Seicento, fu
continuato durante il Settecento con la nascita di altre scienze con statuto
autonomo. Abbiamo, infatti, con Giambattista
Vico, i prodromi dello storicismo, e si sviluppa una attenzione agli aspetti dell'esperienza
estetica (si pensi alle dottrine del sublime).
In
questi anni si dissolse la divisione tra una casta di sapienti che lavorano
intorno alle università (come sono ancora Vico e Kant) e una comunità di laici curiosi e indipendenti, egualmente
versati in filosofia, scienze naturali, letteratura, capaci di usare l'arma del
trattatello o del pamphlet per far circolare nuove e corrosive idee (si pensi a
personaggi come Montesquieu, Voltaire e Diderot), in cui sono presentati
personaggi fantastici (persiani o abitanti di stelle lontane) per aiutarci a
guardare al nostro mondo con spirito critico e ironico. A questa atmosfera
appartiene anche il romanzo filosofico e la pleiade di romanzi utopici che
manifestano il gusto, l'ansia, l'eccitazione della scoperta di nuove terre e
nuove forme di società.
La
nuova filosofia, di cui certamente l'Encyclopédie è il manifesto, si piega a
riflettere sui nuovi portati della tecnica, sul valore del sapere artigiano; e
soprattutto si stabilisce un diverso legame tra cultura e industria, nel senso
che l'Encyclopédie è al tempo stesso una monumentale impresa
filosofico-scientifica e una impresa industriale, condotta calcolando costi e ricavi.
D'altra
parte in questo secolo ogni impresa culturale (compresa la letteratura) diventa
contemporaneamente impresa economica: gli autori del nuovo romanzo inglese
fanno i conti con un pubblico determinato di acquirenti, composto non più di
mecenati, bensì di mercanti e di donne; d'altra parte per questa nuova
borghesia nasce che un genere di divulgazione scientifica, in cui la
trasmissione del sapere tiene d'occhio anche le classi emergenti. Tutti questi
fenomeni non possono influire su uno stile di pensiero, che spesso acquista
anche una maggiore affabilità, evita le formule ipertecniche per assumere il
tono pacato della conversazione tra laici ansiosi di conoscere ma estranei alle
dispute scolastiche.
a)
Gian Battista Vico – Se il secolo precedente aveva
visto con la grande rivoluzione scientifica la nascita della scienza come
disciplina autonoma dalla filosofia, nel Settecento nasce grazie a Muratori e Vico, fondatori di una nuova
filosofia della storia, la nascita di una nuova scienza la storiografia moderna
che si affrancò definitivamente dalla letteratura.
Una
posizione di preminenza spetta al napoletano Gian Battista Vico un pensatore
controcorrente: oltre alla
geometria e alla matematica, per Vico una tipica produzione umana è la storia, quella
scienza nuova che Vico presenta nel suo capolavoro, i Principi di una scienza nuova dintorno alla natura delle nazioni.
Tale scienza si basa sulla sintesi fondamentale di astratto e concreto,
universale e particolare. La filosofia
è la scienza dell'universale, la filologia
quella del particolare. Esse non vanno intese come attività separate, perché
non è concepibile la filosofia senza la filologia, né questa senza quella.
L'idea, di cui si occupa la filosofia, è il vero; il fatto, di cui si occupa la
filologia, è il certo. La nuova scienza dovrà preoccuparsi di accertare il vero
e inverare il certo. Essa sarà scienza dell'universale applicato al concreto e
del particolare spiegato attraverso l'idea.
Studiata
nell'ottica di questa nuova scienza, la storia non è un succedersi di
avvenimenti slegati gli uni dagli altri, ma deve avere in sé un ordine fondamentale
e delle leggi che la governano. La storia si muove nel tempo, ma sul fondamento
di un ordine universale ed eterno, trascendente rispetto alla storia
particolare delle nazioni. Questa storia
ideale eterna costituisce la norma verso cui la storia concreta deve
elevarsi. Essa è tripartita: a un'età degli dei, caratterizzata dai bestioni o uomini primitivi privi di
capacità riflessiva, ma dotati di forti sensi, seguono l'età degli eroi,
caratterizzata dal predominio della fantasia sulla riflessione razionale e
l'età degli uomini, o della ragione dispiegata. La scansione di queste tre età
rappresenta il ciclo dell'incivilimento dell'uomo. Ma questo risultato di
incivilimento è del tutto sproporzionato alla modestia dei fini e dei mezzi
umani. Vico ritiene che l'incivilimento sia l'esito di una eterogenesi dei fini, cioè della collaborazione di due menti,
l'umana e la divina (sotto forma di Provvidenza), i cui fini diversi conducono
al medesimo risultato. La ragione dispiegata propria della terza età storica è
capace di chiudersi e ribellarsi alla Provvidenza, ma in tal modo provoca
l'arresto dell'incivilimento e la caduta nella barbarie della ragione. Il processo di incivilimento può assumere
così un carattere ciclico, perché, quando una civiltà riprecipita nella
barbarie, le forme mentali delle tre età storiche si ripresentano secondo la
loro scansione. Questa dottrina dei ricorsi
storici indica solo come la civiltà raggiunta non sia mai una conquista
definitiva.
b)
Nasce l’Estetica moderna – Nella considerazione
dell'arte l'Illuminismo mantenne un grande interesse per le regole tradizionali
di composizione, ma operò anche un rilevante spostamento verso il problema del
gusto, cioè verso l'ottica di chi fruisce dell'opera d'arte.
Si spiega così
come proprio nel '700 si può parlare con il filosofo tedesco Alexander Gottfried Baumgarten (1714-1762) di fondazione dell'estetica come
scienza autonoma. Il termine Estetica
comparve per la prima volta, nel significato moderno di Teoria del Bello e dell'Arte, nel 1750, come titolo dell'opera Aesthetica di Baumgarten: il termine
deriva dal verbo greco αισθάνομαι
(aisthànomai) che significa percepire con
i sensi, provare sensazioni, ma
anche comprendere. Per questo motivo molti hanno individuato con questa pubblicazione il vero atto di nascita dell’estetica come scienza autonoma,
tale da raccogliere in modo unitario le diverse riflessioni intorno al bello e
alle
arti mettendo a fuoco un insieme di
concetti nuovi: gusto, genio, sentimento.
Con Baumgarten il termine estetica fu per la prima volta esplicitamente usato e definito.
Esso era già apparso nel 1735, nelle Riflessioni
sul testo poetico, al posto dell’espressione, fino allora consueta, di critica del gusto. Nel 1750 Baumgarten
diede il titolo a un’opera intera: esso designa quella scienza della conoscenza
sensibile che avrebbe come oggetto centrale l’analisi del bello e delle arti.
L’estetica è scienza della perfezione
della conoscenza sensibile come tale, cioè della bellezza. L’estetica è teoria delle arti perché è nelle arti
che tale perfezione si realizza. È proprio in questa identificazione della
sfera del sensibile con quella della bellezza, e dell’idea di bellezza con
l’idea di arte, che è stato indicato uno dei momenti fondamentali della cultura
dell’estetica in quanto scienza moderna. A Baumgarten spetterebbe il primato
della fondazione dell’estetica, intesa come specifica disciplina filosofica.
Quanto al valore dell’estetica, ci si accorge che altri filosofi sono ritenuti
altrettanto essenziali. Vico, per esempio, o lo studioso inglese Edmund Burke
(1729-1797) che, ne La ricerca filosofica sull’origine delle idee del
sublime e del bello del 1755,
aveva individuato il sublime come un elemento contrapposto al bello. Si
tratterebbe cioè di quel sentimento di sgomento che l’uomo prova di fronte al
terrore, all’oscurità, alla potenza, alla privazione, alla vastità,
all’infinità, alla difficoltà, alla magnificenza.
Il
concetto di Sublime è correlato e
contrapposto a quello di Bello.
Nell'idea di Burke è Sublime "Tutto
ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un
certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo
analogo al terrore", il sublime può anche essere definito come "l'orrendo che affascina". La
natura, nei suoi aspetti più terrificanti, come mari burrascosi, cime innevate
o eruzioni vulcaniche, diventa dunque la fonte del Sublime perché “produce la più forte emozione che l'animo
sia capace di sentire”, un'emozione però negativa, non prodotta dalla contemplazione
del fatto in sé, ma dalla consapevolezza della distanza insuperabile che separa
il soggetto dall'oggetto.
Altra posizione importante è quella dello storico dell’arte
tedesco Winckelmann nella cui opera si individua non solo l’inizio del neoclassicismo, ma anche un grande
contributo alla nascita dell’estetica.
Nel suo libro più famoso, la Storia dell’arte
nell’antichità del 1764 Winckelmann
sancì la superiorità dell’arte greca
su tutte le altre e vi elaborò l’idea che l’armonia e la bellezza fossero il
risultato di un’operazione di razionalizzazione e di controllo delle passioni
realizzata dall’artista, sentendo con grande intensità e con vivo entusiasmo e
tenne sempre presente, il momento primario e insieme terminale dell’arte che è
la bellezza.
Winckelmann, teorizzò il concetto di bellezza ideale, che è
una sintesi perfetta di umano e divino e che può derivare solo dal superiore
controllo delle passioni e dei sensi, riassumendo le caratteristiche
fondamentali dell’arte classica nella seguente formula: “La nobile semplicità e la calma grandezza”. Il primo sintagma si
riferisce all’eleganza di quest’arte, che deriva essenzialmente dalla sua
semplicità; il secondo, invece, rimanda a un significato più profondo:
Winckelmann pensava che l’arte greca trasmettesse sempre un messaggio di tipo
etico, quello secondo il quale l’uomo, pur accettando la parte emozionale della
sua natura, debba costantemente esercitare un controllo razionale sulle proprie
passioni in modo da mantenere equilibrio interiore e serenità d’aspetto.
L’artista contemporaneo, quindi, non deve limitarsi a imitare le forme
dell’arte classica, ma deve accettare e far propri i suoi valori, sentiti come
ancora attuali, ed esprimerli nelle sue opere.
In conformità a tale concezione, l’equilibrio dell’arte
classica si propose come modello di fusione tra lo spirito e il corpo. Lo
studioso tedesco identifica l’attività dell’artista con un procedimento di
autocontrollo che renda l’opera capace di suscitare nell’animo il pathos che ne costituisce l’unicità. Tal
eccezionalità prende il nome di “sublime”.
Le riflessioni
di Burke e di Winckelmann ebbero qualche eco nell’opera di Immanuel Kant
(1724-1804), che, nella Critica del giudizio del 1790 sostenne che si ha un giudizio estetico quando, commossi per
la contemplazione di uno spettacolo della natura o di un oggetto d'arte,
proviamo un piacere che non ha legami con la conoscenza intellettuale. Tale
piacere deriva dalla corrispondenza tra il bello cui assistiamo e le nostre più
profonde aspirazioni. Il Bello deve produrre armoniosa quiete e Kant distingue
fra il semplice bello e il sublime, vale a dire quello che appare
in oggetti di potenza e proporzioni smisurate. Di fronte a spettacoli sublimi,
l'uomo non può non percepire, da un lato la propria insignificanza ma,
dall'altro, la coscienza della propria superiorità morale e del proprio destino
soprasensibile. Kant sosteneva inoltre che il bello è dettato da un libero
gioco delle facoltà intellettive, per cui al vedere un bel paesaggio proviamo
piacere perché è come se esso si adeguasse spontaneamente alle nostre categorie
intellettive; per il sublime, invece, Kant – che aveva in mente il cielo
stellato, le catene montuose, il mare in tempesta – intende qualcosa di
ambiguo, che desta al contempo piacere e senso di smarrimento: l'oggetto in
questione – il mare in tempesta, il cielo stellato o le montagne – non si
adegua spontaneamente a noi e alle nostre facoltà conoscitive, ma ci incute
timore perché manifesta la sterminata grandezza e la sterminata potenza della
natura di fronte alla sterminata piccolezza e impotenza dell'uomo; mentre il
bello è univocamente positivo, il sublime è positivo e negativo al tempo
stesso.
c) La rivoluzione copernicana di Kant –
Come Copernico, che nel campo astronomico capovolse la concezione dei Tolomeo
ponendo non più la Terra (geocentrismo) al centro del nostro sistema, ma il
Sole (eliocentrismo), allo stesso modo Immanuel Kant compì una rivoluzione nel
modo di intendere la filosofia: il soggetto (paragonabile al sole copernicano),
non gravitava più passivamente intorno all’oggetto (la terra), e non dipendeva
più da un mondo già costituito secondo propri principi e leggi, ma con la sua
attività a priori illuminava l’oggetto ordinando i dati sensibili.
Una volta
definito questo concetto, la riflessione di Kant si concentrò sull’analisi
critica di tutta l’attività dell’uomo, elaborando quella trilogia unitaria che
costituisce il cuore della filosofia kantiana: La Critica della ragion Pura, La
critica della ragion Pratica e La Critica
del Giudizio, tre passaggi fondamentali che indagavano rispettivamente il
modi di apprendere dell’uomo (conoscenza nella critica della ragion pura),
il suo modo di volere (azione nella critica della ragion pratica), ed
infine il suo modo di sentire (sentimento nella critica del giudizio).
12. L’Illuminismo - Il Settecento chiamò
se stesso l’età dei lumi, intendendo
significare che in questo secolo l’umanità, nella sua evoluzione storica, era
pervenuta all’età della ragione. Con i lumi della ragione l’umanità avrebbe
dissipato le tenebre dell’ignoranza che nel passato avevano consentito il
prevalere dell’arbitrio, delle ingiuste posizioni di privilegio, della
superstizione e dell’intolleranza.
L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dalla minorità. «Abbi il
coraggio di servirti della tua propria intelligenza. Questo è il metodo
dell’Illuminismo». Così scriveva nel 1784 Kant, il grande filosofo tedesco che,
pur affrontando una tematica diversa da quella dell’Illuminismo e con metodi e
risultati di tutt’altra natura, considerava l’Illuminismo come una conquista
irrinunciabile dello spirito umano nel suo sviluppo.
a)
Origine e diffusione
- L’Illuminismo permeò di sé tutta la cultura del XVIII secolo ed ebbe il suo
centro di diffusione nella Francia. Ma gli stessi filosofi illuministi,
Voltaire e gli enciclopedisti per primi, indicavano nell’Inghilterra la patria
delle idee che lo caratterizzavano. Locke
[[32]],
il filosofo empirista che sosteneva essere l’esperienza l’unica fonte di ogni
nostra conoscenza, e Newton, che
fondava la fisica sull’esperienza e sulla matematica, erano indicati a modello
per il loro metodo scientifico. Le istituzioni politiche e i costumi civili
degli inglesi erano messi a confronto con quelli francesi per mostrarne la
superiorità dovuta ai principi di libertà e di tolleranza ai quali essi si
ispiravano. Gli scritti brillanti, anticonformisti, spregiudicati, dal
linguaggio immediato ed efficace, diffusero rapidamente la nuova filosofia ben al di là della ristretta cerchia degli studiosi
e degli eruditi, raggiungendo i ceti della borghesia in ascesa, creando
un’opinione pubblica. I temi trattati erano tutti quelli che riguardavano la
vita associata e che avevano un carattere di attualità, non esclusi quelli
della politica e della religione. La spregiudicatezza procurò ai loro autori
gravi noie e li portò, in alcuni casi, a risponderne in tribunale ed a subire
condanne al carcere. Grazie alla pubblicistica le idee dell’Illuminismo
travalicarono le frontiere e si diffusero in tutta Europa e anche nelle colonie
d’America. Il carattere di lingua internazionale che il francese aveva nel
XVIII secolo, grazie alla posizione di prestigio di cui la Francia da tempo
godeva, ne favorì la diffusione.
b)
L’Enciclopedia - Lo
strumento che maggiormente concorse alla diffusione della mentalità
illuministica fu un’impresa culturale di eccezionale impegno, la pubblicazione
tra il 1751 e il 1772 dell’Enciclopedia o
dizionario ragionato delle scienze delle arti e dei mestieri ad opera di
una società di uomini di lettere in 24 volumi. Ideatore del progetto fu Diderot
che ne fu anche direttore, per un certo tempo, assieme a D’Alembert. L’opera, proponendosi di
offrire un inventario critico delle
conoscenze umane per propagare la cultura, rischiarare
le coscienze e combattere l'intolleranza e le superstizioni, offriva
una sistemazione generale del sapere umano nei suoi diversi settori, lontano da
ogni accademismo e facilmente accessibile ad un vasto pubblico. A fianco delle
ultime acquisizioni delle scienze, erano illustrate anche quelle della tecnica,
accompagnandole con la descrizione dei procedimenti e degli utensili dei
diversi mestieri. Era un accostamento del tutto nuovo, che rispecchiava la
posizione acquisita dalle nuove tecniche di lavoro, le cosiddette arti meccaniche che soltanto un secolo
prima erano considerate con disprezzo. Le autorità, in particolare quella
ecclesiastica, ostacolarono la pubblicazione dell’opera, che fu sospesa per un
certo tempo e che, per essere completata, dovette essere stampata fuori dalla Francia
e subire negli ultimi volumi tagli non indifferenti. Il gruppo di letterati e
tecnici che lavorò all’Enciclopedia era abbastanza numeroso e comprendeva nel
suo momento più felice personalità di primissimo piano, come Voltaire,
Rousseau, Quesnay, Turgot, Necker, D’Holbach, e tanti altri.
13. I caratteri fondamentali dell’Illuminismo -
Parlando dell’Illuminismo, occorre ricordare subito la varietà di posizioni che
si riscontrano tra quelli che ne sono considerati i rappresentanti; varietà che
a volte giunge a profonde divaricazioni anche su temi centrali, di politica e
di religione. Al di là di ogni diversità esiste, però, un atteggiamento mentale
comune e la comune accettazione di alcuni principi fondamentali.
a)
La società come tema privilegiato –
Mentre finora la filosofia aveva avuto come oggetto principale Dio o la natura
e i rapporti uomo-Dio, uomo-natura, gli illuministi si propongono come tema
principale la società e le sue istituzioni e il rapporto tra gli uomini. L’uomo
deve essere liberato, in nome della ragione, da tutti gli impacci e i legami
della tradizione. La critica alla tradizione è il procedimento tipico
dell’Illuminismo.
b)
La fiducia nella ragione come
metodo – La ragione è esaltata come la luce che disperderà
l’oscurantismo del passato e indicherà le soluzioni da prendere per realizzare
una società dalla quale sia bandito, assieme all’ignoranza e alla
superstizione, anche il vizio, e nella quale sia assicurata la felicità. È
chiaro che –
rispetto alla razionalità moderna, impegnata nei grandi problemi metafisici –
la ragione illuministica è soprattutto rivolta allo studio della realtà terrena
e quotidiana, con un'attenzione particolare alle dimensioni della felicità e
dell'utilità: per questo la ragione a cui ci si riferisce non è la ragione
astratta dei filosofi, ma è uno strumento di ricerca. Per questo sarebbe più
preciso parlare di fiducia nella scienza, o nel suo metodo, che si vuol
applicare oltre che allo studio della natura anche all’esame della società e
dei suoi problemi.
c)
L’uguaglianza degli uomini e la
libertà – Una delle prime verità che la ragione proclama è che gli
uomini sono per natura uguali. Le uniche differenze, ragionevolmente
accettabili, sono quelle dovute ai meriti personali; tutte le altre sono da
respingere, a cominciare dai privilegi connessi alla nascita. Come per natura
gli uomini sono uguali, così sono liberi, e nessuno può essere privato di
questo diritto fondamentale, che consiste nel poter disporre della propria
persona e dei propri beni, nel modo che si ritiene più conveniente alla propria
felicità. Se un sovrano pretende di disporre a suo arbitrio della vita e dei
beni dei sudditi, questi hanno il diritto di ribellarsi, perché, comportandosi
così, il sovrano va contro alla finalità dello Stato che consiste nella difesa
degli inalienabili diritti naturali.
d)
La tolleranza
– L'affermarsi
di una razionalità mondana e pragmatica si congiunge a una tendenza polemica
contro le religioni tradizionali e la Chiesa, considerate frutto di imposizione
autoritaria, strumento di dominio politico, di superstizione e intolleranza.
Insieme alla libertà e all'uguaglianza, trova enorme diffusione la parola
d'ordine della tolleranza. Non solo è affermata vigorosamente l'autonomia della
coscienza morale, ma vi si ravvisa il criterio e la garanzia dell'efficacia e
validità della religione stessa. La divinità è concepita come un ente supremo,
in un senso deistico più che teistico e spogliata di molti degli attributi
assegnati da secoli di teologia e metafisica. Per questi motivi, una
delle espressioni fondamentali della libertà fu la libertà di pensiero e, in
particolare, la libertà di religione. Unico limite a questa libertà è il
rispetto delle leggi, che garantiscono il diritto degli altri e un’ordinata
convivenza. Lo Stato, pertanto, non può imporre una religione, né perseguitare
i dissidenti, ma deve tollerare qualsiasi confessione. L’intolleranza e il
fanatismo religioso sono sempre stati causa di atroci delitti e di sanguinose
guerre: la tolleranza, invece, ha sempre favorito la convivenza civile e il
fiorire delle arti, delle scienze e delle attività economiche.
e)
L’universalismo – Affermare che tutti gli uomini
sono uguali davanti alla ragione significa considerare le differenze storiche e
nazionali come non essenziali. Per questo nelle Dichiarazioni dei diritti, come
quella americana e quella francese si pretende che esse siano valide «per tutti
gli uomini, per tutti i tempi, per tutti i Paesi». E l’uomo che ha assimilato
la nuova filosofia si considera, come scriveva Baretti, «cittadino del mondo»,
il cosmopolitismo che prende in
considerazione anche le civiltà extraeuropee, e laica della storia, che ne
amplia l'orizzonte rispetto a quella cristianocentrica e di ispirazione
teologica.
f)
Funzione sociale della cultura – Se ogni epoca
espresse un suo proprio ideale d’uomo, quello del Settecento fu il filosofo,
inteso come l’intellettuale che, libero da pregiudizi e da timori reverenziali,
affronta e dibatte i problemi della realtà sociale alla luce della ragione. La
più radicale messa in discussione dalla figura tradizionale del letterato di
corte si ebbe, però, nella metà del secolo quando si diffuse anche in Italia il
modello illuministico del philosophe, l’intellettuale politico che doveva
guidare l’azione dei governi: lo scrittore, insomma non era più rinchiuso nel
culto della parola fine a se stesso ma doveva partecipare alla vita politica. E
il suo fine non è puramente teoretico: con la sua ricerca egli si sente
impegnato in una grande opera a favore dell’umanità e del progresso. La cultura
è per lui uno strumento al servizio della «felicità degli uomini», perché la
lotta contro l’ignoranza è lotta contro il vizio e contro le miserie materiali
e morali. Una fiducia illimitata nel sapere gli fa guardare con ottimismo
all’avvenire che, grazie al trionfo dei lumi al quale egli ha portato il suo
contributo, non può che essere migliore del passato.
g)
L'Onnipotenza
dell'educazione –
Il disagio della civiltà e la nostalgia dello stato primitivo si combinano nel
produrre la convinzione, largamente diffusa nell’Età dei lumi che la natura
umana è buona e che sono le istituzioni sociali e politiche a corromperla. La
critica delle istituzioni e della disuguaglianza sociale (cui fa riscontro
l'uguaglianza degli uomini allo stato di natura) occupa gran parte della
letteratura illuminista. Poiché gli uomini sono resi malvagi dall'ambiente
sociale in cui vivono (non già dal peccato originale) e dalle cattive abitudini
che ne derivano, ne consegue che un'educazione buona, che assecondi le
inclinazioni naturali avviandole a maturazione produrrà uomini buoni e
cittadini rispettosi della libertà e dei diritti degli altri. A questo concetto
di educazione naturale, intesa come un sostanziale non intervento, si
accompagna l'ideale illuministico di fare dell'istruzione una funzione sociale
e pubblica, gestita dallo stato e offerta gratuitamente a tutti i cittadini.
h)
La concezione
della storia
– L'Illuminismo ebbe un senso fortissimo della propria identità e
dell'originalità dei propri connotati storici. Con l'Illuminismo e con l'ascesa
della classe borghese la nozione stessa di storia acquista quel carattere
universalizzante che le è dopo tutto essenziale. Nel contempo la storiografia
illuminista ridimensionò avvenimenti come le guerre, i trattati diplomatici, le
successioni al trono ecc., per concentrarsi piuttosto sull'analisi delle
istituzioni, dei costumi, delle leggi, dell'economia e dei vari poteri. Di qui
il concetto di «storia universale» che costituisce un tipico prodotto della
cultura illuminista. L'Illuminismo nonostante la nostalgia per lo stato
selvaggio e le critiche rivolte alla civiltà, inclina verso un cauto ottimismo.
La lotta dei lumi contro le tenebre dell'ignoranza appare garanzia di progresso
e di emancipazione umana lo sviluppo della tecnica e dell'industria, l'aumento
della ricchezza, il diffondersi della cultura, diventano strumenti di felicità
e di miglioramento per il genere umano.
14. La letteratura
– I primi decenni del Settecento si caratterizzano come rifiuto e
smantellamento dell’estetica barocca. Con gli anni ‘30 e ‘40 comincerà poi ad
affermarsi la nuova cultura dell’Illuminismo.
In Italia, la prima età del secolo è caratterizzato
dall’opera dell’Arcadia, mentre nella seconda metà del secolo penetreranno le
idee illuministiche.
Al Settecento appaiono di “cattivo gusto” l’abbondanza, lo
sfarzo, la libertà espressiva, la ricerca di squilibri e di eccessi tipici del
barocco. Per reazione, si propone un’estetica radicalmente diversa, che
reagisca al barocco recuperando la lezione del mondo classico.
Il Settecento è, dunque, una nuova epoca di classicismo,
anche se in forme diverse rispetto a quanto si era fatto in età umanistica.
Non si ricorre più all’imitazione di precisi modelli, ma si
riprendono valori fondamentali e generali tipici dell’estetica classica: arte
che sia manifestazione dell’uomo e della realtà in tutte le sue
caratteristiche, ma sempre sorvegliata dalla ragione (contro l’irrazionalità di
certi esiti barocchi); ne derivavano ideali di compostezza, armonia, equilibrio
delle parti, semplicità, rigore, cioè tutti i valori di fondo dell’arte antica.
Inoltre, si sostiene che l’arte non debba avere semplicemente fini edonistici
(come era stato tipico dell’arte barocca, che si proponeva di piacere, stupire,
intrattenere, non di insegnare), ma debba perseguire un equilibrio tra edonismo
e finalità educative. Questo concetto confluirà poi nell’estetica
illuministica, che mirerà soprattutto ad un’arte utile e finalizzata alla
realizzazione della “pubblica felicità”.
In Italia il Barocco resiste più a lungo, ma in Francia già
alla fine del Seicento esso fu rifiutato e spesso accomunato al Manierismo (che
in realtà è molto diverso): Barocco e Manierismo sono accusati di esser un’arte
che ha abbandonato la ragione per fare affidamento esclusivamente sui sensi e
sulle impressioni (si tratta di una
cultura profondamente influenzata dal razionalismo cartesiano). Anche l’arte è
una forma di conoscenza e dev’essere quindi guidata dalla ragione.
Ne derivano:
·
rifiuto della polisemia barocca (gioco delle metafore,
ambiguità, pluralità di suggestioni)
·
linguaggio semplice e comunicativo, che esprima significati
chiari e comprensibili.
·
L’influenza
di Condillac – In età illuminista si affermano, accanto al razionalismo,
anche l’empirismo e il sensismo. Teorico del sensismo è Condillac che afferma
la necessità dell’esperienza per attingere alla conoscenza. Poiché veicolo
fondamentale dell’esperienza sono i sensi, la sensazione diventa strumento
conoscitivo per eccellenza: senza la sensazione non si dà conoscenza. Condillac
analizza i vari livelli di sensazione, da quella più immediata a quella che
perdura nel tempo e che permette di avere memoria di determinate esperienze e,
quindi, di ripetere quelle piacevoli e di fuggire quelle spiacevoli. Condillac
distingue due grandi gruppi di sensazione: quelle che ci danno piacere e quelle
che ci danno dolore. Le sensazioni si distinguono anche in base ad altri
parametri, per esempio in base al diverso grado di interesse che noi
manifestiamo per ciascuna di esse.
Condillac ci interessa perché pone grandissima attenzione non
più sulla ragione, ma sui sensi, cioè su facoltà fisiche ed istintive,
influenzando notevolmente l’elaborazione delle idee estetiche dell’epoca. Si
comincia infatti a pensare all’arte e alla letteratura come a manifestazioni
che hanno per fine il piacere, cioè il benessere dell’uomo: quello che si
ricerca non è un piacere razionale, ma fisico e sensuale. Ciò implicherà un
forte soggettivismo, dal momento che il piacere non è esattamente uguale per
tutti.
·
La diffusione
dell’Illuminismo in Italia – In Italia l'Illuminismo fu quasi sempre
mediato da una perdurante eredità classica. L'Arcadia, Metastasio, persino
l'opera rigorosa di Parini, come il gusto neoclassico di fine secolo,
perseguivano un equilibrio tutto italiano fra ricerca razionale, reazione
antibarocca e recupero del miglior classicismo della tradizione.
Solo
a metà secolo l'Illuminismo italiano trovò un carattere originale soprattutto
in area lombarda e napoletana.
In Italia, le idee sensiste arrivano nella seconda metà del
Settecento, in un’epoca in cui gli intellettuali si sono fortemente orientati
verso l’impegno civile: gli intellettuali più vivaci dell’epoca sono Verri,
Beccaria ecc., quindi non letterati, poeti, narratori tradizionali, ma philosophes, che si occupano di
politica, di economia, di diritto, cioè di problemi concreti, collegandoli al
loro impegno letterario. Pertanto, non c’è contraddizione tra gli ideali più
tipici dell’illuminismo e le nuove istanze del sensismo (in comune c’è
l’attenzione alla concretezza delle esperienze): l’arte continua ad avere come
scopo primario l’educazione al bene e ai cosiddetti valori civili nell’ottica
del raggiungimento della pubblica
felicità; ma, al tempo stesso, deve trattarsi di un’arte capace di
procurare piacere fisico e sensoriale all’individuo e, quindi, attenta alla
piacevolezza e gradevolezza delle forme, dei colori, delle immagini. Sono abbandonate
tematiche tradizionali astratte e razionalistiche, in nome dell’adesione alle
esperienza che concretamente danno piacere ai sensi, quindi in nome di
un’adesione al fluire vero della vita.
I nuovi intellettuali rivendicano una lingua concreta,
aderente anch’essa ai problemi e ai bisogni di comunicazione reale. Beccaria
nel saggio Ricerche intorno alla natura
dello stile, rifiuta arcaismi, astrattismi ed espressioni convenzionali, in
nome di una lingua capace di creare immagini e significati chiari ed evidenti.
In epoca di sensismo, si sottolinea che il piacere della lettura deriva dalla
soddisfazione di comprendere bene ciò che l’autore vuole dire. Un’opera d’arte
non è bella perché ornata da fronzoli e capace di stupire e meravigliare con le
sue eccentricità (com’era tipico del barocco). Si rifiuta una sintassi spezzata
ed ambigua, a favore di sintassi chiara e fluida; si raccomanda un uso
sorvegliato degli accorgimenti retorici (possono essere utilizzati solo quelli
che servono ad esprimere più efficacemente e con maggiore evidenza un
concetto). Il lessico dev’essere denotativo più che connotativo; esso
dev’essere, al tempo stesso sentito,
quindi padroneggiato pienamente anche dal lettore, e non solo dallo scrittore
che lo usa (ovviamente, per quanto riguarda la lingua italiana, questo è un
obiettivo assai difficile da raggiungere, visto che la lingua italiana è ancora
una lingua esclusivamente letteraria).
In età illuminista anche in Italia fioriscono i giornali: i
primi fogli si rifanno al modello dell’inglese Spectator, in quanto non si occupano di tematiche specifiche, ma
offrono un quadro generale della società. Interesse predominante per gli
illuministi è la ricerca della felicità: anche l’arte è uno dei mezzi per
raggiungere la felicità.
L’Illuminismo tende a vedere la felicità non tanto sotto
l’aspetto del sentimento privato e individuale (nonostante il sensismo operi in
questa direzione), quanto sotto l’aspetto del benessere collettivo. Muratori
afferma che la felicità è prima di tutto pace e tranquillità sociale, poi
sicurezza della vita e dei beni individuali; poi essa è giustizia (anche a
livello fiscale e tributario); infine, essa è anche agiatezza. Quest’ultimo
aspetto si fonda sulla speranza nei progressi scientifici. Inoltre, questi sono
valori tipicamente borghesi.
Nel teatro la letteratura settecentesca diede gli esiti più
innovativi: Goldoni a Venezia riformò la commedia in senso borghese; Alfieri
rinvigorì la tragedia portando sulla scena l'odio per ogni forma di tirannide.
A cavallo fra Settecento e Ottocento, nell'epoca della rivoluzione francese e
dell'impero napoleonico, il Neoclassicismo fu rappresentato dall'importante
esperienza di Monti, mentre nuova mediazione fra classicità e romanticismo sarà
espressa dall'opera di Ugo Foscolo.
·
La lirica – Nella prima metà del secolo, la lirica si trovò al
centro di un programma innovatore
imperniato sulla polemica contro il barocco e sulla proposta di un ritorno a un linguaggio poetico più lineare. Si
trattò di una vera «battaglia» per il ripristino in letteratura del buon
gusto e della naturalezza; queste furono infatti le parole d’ordine
di un disegno riformatore che ebbe come
protagonista l’accademia dell’Arcadia, fondata a Roma nel 1690.
Tra i nomi più illustri degli accademici arcadi ricordiamo Pietro Metastasio, Paolo Rolli, Giambattista Felice Zappi. All’insegna del
programma dell’Arcadia si scrissero migliaia di versi, che si presentano come
innumerevoli variazioni del «già
detto» sia per quanto riguarda i temi, che ruotano in gran parte intorno a un amore «sospiroso», sia per
il linguaggio.
Qualche novità si affacciò solo nella seconda metà del
secolo, con la ripresa in poesia di tematiche ispirate all’impegno
civile.
Interessanti, sempre nella seconda metà del Settecento,
le influenze che giungono nella nostra letteratura dai modelli
stranieri: Melchiorre
Cesarotti traduce una raccolta poetica inglese, i Canti
di Ossian, che divenne uno dei maggiori casi
letterari del tempo e che introdusse anche da noi il gusto per una poesia indicata come sepolcrale, notturna per le scelte tematiche
che prediligono paesaggi notturni, lugubri, misteriosi, presagi di morte, stati d’animo indefiniti.
Una menzione meritano le Rime di Vittorio Alfieri che, utilizzando in prevalenza il sonetto, volle esprimere una poesia impregnata di senso morale, di adesione alla forza che promana dalla natura; Alfieri fu considerato un modello di linguaggio nobile e «forte» da molti poeti successivi, in particolare da
Foscolo.
·
Il trattato – La straordinaria ricchezza del dibattito culturale del
Settecento, l’esplosione del confronto di idee, la spinta alla diffusione del pensiero, si rispecchiano in una
trattatistica assai vivace e copiosa che si rivolge a un
pubblico più ampio e in forme differenziate, pensate anche
per la divulgazione. In particolare nella seconda metà del secolo il trattato, rinnovato nel linguaggio, trasformato in strumento di
intervento più diretto e immediato entro un dibattito culturale che coinvolge non soltanto gli specialisti, si conferma come la vera «arma» degli illuministi. Le idee dei Lumi, che vengono in gran parte dalla Francia, sono riassunte, spiegate e adattate alla realtà italiana, messe in circolazione attraverso una trattatistica che si differenzia profondamente dall’analoga produzione dei secoli precedenti. Infatti il trattato risente in maniera diretta del trionfo delle tendenze razionaliste e
della «rivoluzione scientifica» e
pertanto tende ad essere una esposizione razionalmente ordinata; si spoglia,
anche se non completamente, dei caratteri di scrittura
letteraria, per puntare di più sulla forza dimostrativa del
ragionamento. Si può dire, insomma, che nel Settecento si forma
una nuova prosa di pensiero volendo indicare con questa
espressione uno stile che, senza cadere nella lingua d’uso, è
tuttavia enormemente semplificato. Entro questo quadro prendono un’evidenza
particolare alcune novità:
·
la tendenza alla divulgazione
scientifica: l’esempio italiano più efficace è
l’opera di Francesco Algarotti Newtonianismo per le dame, nella quale l’esposizione delle moderne teorie fisiche
è affidata al dialogo fra l’autore e una marchesa, in una atmosfera da salotto, senza che questo tuttavia pregiudichi la sostanziale correttezza dei contenuti scientifici;
- l’attenzione
per i dati, l’erudizione: si tratta di una novità di rilievo, di un atteggiamento mentale e di metodo che deriva dallo sviluppo delle scienze sperimentali; esso sostiene l’importanza della qualità e della quantità dei dati e delle prove per qualsiasi processo di conoscenza. E in effetti l’erudizione settecentesca diede un apporto rilevante alla crescita della cultura moderna ed ebbe un particolare peso nel campo della ricerca storica, poiché l’importanza attribuita alla documentazione fece compiere un deciso passo in avanti verso una ricostruzione storica attendibile e scrupolosamente
verificata. La testimonianza più grande, che sorprende anche per la mole di lavoro che l’ha prodotta, è l’opera di Ludovico Antonio
Muratori che raccolse nei 25 volumi dei Rerum italicarum scriptores, salvandole
dalla dimenticanza, le «fonti» della storia
medievale in Italia;
- l’analisi della società e le
scienze umane: nella produzione di trattati del Settecento si
colgono bene le tendenze della cultura illuministica a spostare
l’attenzione sull’analisi della realtà sociale e politica, sui
comportamenti intesi come fenomeni sociali. Un tema centrale è
rappresentato dall’economia ricondotta all’analisi delle
leggi economiche e indagata nelle sue componenti come, ad
esempio, la circolazione del denaro, il prestito, il credito
finanziario, i problemi dello scambio e del mercato. Altri settori
particolarmente studiati sono testimoniati dai trattati
sulla superstizione
e in difesa della ragione, dai trattati sull’ordinamento giuridico e sulla pena di morte, dai
trattati sul carattere e il ruolo dell’istruzione e sul concetto di
«felicità pubblica», vale a
dire sulle possibilità di progresso e di miglioramento delle istituzioni. A tutti questi vanno
aggiunti i trattati di
letteratura tra i quali ha un posto di assoluto rilievo la Storia della
Letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi.
·
Il romanzo – Nel corso del
Settecento si consumò la crisi dei generi narrativi in
versi, in particolare scomparve il poema cavalleresco e il poema eroico; la lunga narrazione in versi di imprese straordinarie era ormai in aperta contraddizione con gli orientamenti della cultura e del gusto.
Il fenomeno segnò, in molte culture
europee, il decollo del romanzo come genere narrativo di più facile
lettura: nacque così e
si diffuse con straordinaria varietà di generi e forme il romanzo moderno rivolto
ad un pubblico di lettori non specialisti, i borghesi, che amano
identificarsi con la fantasia nell’eroe o nell’eroina.
Il
romanzo è un’opera di invenzione che si avvicina alla realtà: la vicenda
narrata è articolata secondo nessi logico-temporali ed i personaggi sono spesso
individui comuni con comportamenti che riflettono la mentalità degli ambienti
rappresentati.
In
questo secolo il romanzo divenne sempre più popolare, gli scrittori furono in
grado di analizzare la società con sempre maggiore profondità e i romanzi
rivelarono le condizioni di vita delle persone, schiacciate dai condizionamenti
della società o impegnate a liberarsene. Alcuni scrittori inglesi svilupparono
il genere, producendo modelli formali e strutturali destinati a influenzare tutta
la narrativa europea e americana.
Nel
corso del Settecento il romanzo, a seguito della grande diffusione e del
successo di pubblico, andò sempre più differenziandosi in molteplici varianti o
sottogeneri. Una caratteristica fondamentale del romanzo è infatti ciò che il
critico russo Michail Bachtin ha definito enciclopedismo, la capacità
cioè di assorbire al proprio interno ogni forma di sapere, ogni linguaggio e
soprattutto ogni aspetto della realtà: la straordinaria novità del genere
romanzo risiede nella sua plasticità e nel suo dinamismo, nel fatto di cambiare
continuamente, contaminando e modificando anche i propri sottogeneri.
Fra
i generi romanzeschi del XVIII secolo spicca quello allegorico-filosofico [[33]], quello di impianto didattico-pedagogico [[34]],
Il castello di Otranto del 1764 di Horace
Walpole è il primo esempio di romanzo gotico[[35]].
Richardson inaugurò un nuovo modello narrativo, il romanzo epistolare [[36]],
in cui la vicenda viene rappresentata indirettamente dal testo delle lettere
scambiate tra due o più personaggi.
Questa proliferazione in Italia non avvenne infatti il romanzo fu il genere
letterario per il quale più ampia era stata la «distanza» fra
l’Italia e l’Europa del Settecento. Si può parlare di un vero ritardo culturale, determinato sia da
situazioni sociologiche (scarsità del pubblico dì lettori
borghesi, debolezza dell’industria editoriale), sia dalla forza di pregiudizi da parte di letterati che ritenevano il romanzo un genere minore, un ibrido non ben definito, dalle riserve di intellettuali, ecclesiastici che ne indicavano la «pericolosità». Per questo la produzione di
romanzi restò infatti limitata ad opere di basso profilo
letterario e artistico.
·
Le ultime lettere di Jacopo Ortis – Soltanto
alle soglie dell’Ottocento compaiono le Ultime
lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, il primo romanzo che viene
tradizionalmente accolto nella nostra storia letteraria.
La
forma epistolare adottata da Foscolo si rifà a modelli narrativi rintracciabili
nella Clarissa di Richardson, ne La Nuova Eloisa di Rousseau e
nei Dolori del giovane Werther di Goethe, a cui Foscolo si ispira
direttamente. I caratteri principali dell'Ortis sono:
- il motivo
sentimentale: il romanzo indugia a descrivere i sentimenti personali del
protagonista di fronte alla realtà;
- l'autobiografismo:
il romanzo è espressione di una vicenda personale.
A differenza del Werher, nell'Ortis il
motivo sentimentale si complica con la delusione politica, causata nella
fattispecie dalla caduta di Venezia. La passione viene contrapposta
all'intelletto governato dalla ragione; la natura diviene lo sfondo delle
vicende umane. Il tono adottato è irruente, di sfogo.
Acquistarono invece un significativo rilievo le memorie e le autobiografie, fra le
quali troviamo testi che possono essere considerati fra i
capolavori del genere, come le Memorie inutili di Carlo Gozzi,
veneziano, autore di testi teatrali che si opponevano alle proposte
goldoniane di una nuova commedia, fondatore di giornali, e
le Memorie di Lorenzo Da Ponte, avventuriero, poeta, scrittore, autore di famosi libretti musicati da Mozart.
15. Giuseppe
Parini
- Parini fu un grande poeta. Fu un rinnovatore della materia poetica e un
artista capace di atteggiamenti assai disparati. Chi passa dall'Arcadia e dallo
stesso Metastasio a Parini, si meraviglia che in quel secolo sia nato un poeta
capace di tanta concretezza, e in campi del tutto ignoti alla poesia
contemporanea. L'ambiente elegante è sottinteso in gran parte della lirica del
tempo: solo in Parini è descritto. E la sua descrizione non è lo sforzo
retorico della poesia didascalica del secolo; ma uno specchio luminoso e
preciso. I salotti, i lunghi ordini di sale, gli scaloni, i mobili, gli arnesi
e i ninnoli sono ora delineati con un pennello largo e sicuro, ora delimitati e
intagliati dalla parola con un nitido rilievo: sicché anche l'ambiente
materiale, che di solito è assente dalla poesia o è cosa morta, qui diventa,
per questo sguardo attento e chiaro, vera e difficile poesia.
a) La vita - Giuseppe Parini
nacque a Bosisio in Brianza nel 1729 da famiglia di umili condizioni e di
scarsi mezzi economici (il padre era un modesto commerciante di seta). Poté
lasciare il paese natale per compiere gli studi superiori a Milano solo per
l’aiuto economico di una zia, che però condizionò l’appoggio che dava al nipote
al fatto che egli si facesse prete. Così il Parini fu indotto ad accettare un
orientamento di vita che sentiva poco congeniale alla sua natura. E benché
abbia poi sempre vissuto la condizione di prete con dignità ed onestà, è
frequente nella sua poesia il rimpianto per gli affetti e per una vita
familiare che non gli era stata concessa dalla sorte. Fu ordinato sacerdote
nel 1754. Coltivava intanto con passione lo studio dei classici e la poesia.
Fin dal 1753 la notorietà acquisita con un volumetto di versi giovanili gli
aveva consentito l’ingresso nell’Accademia milanese dei «Trasformati», un
ambiente che, pur nel culto della tradizione, era moderatamente aperto al
nuovo pensiero illuministico. Qui frequentò alcuni degli uomini più
significativi del mondo culturale milanese.
Aggravatasi
intanto, con la morte del padre, la condizione economica dei suoi, e costretto
a provvedere anche alla vecchia madre, cercò lavoro in qualità di precettore -
come era uso allora - presso famiglie nobili. Fu assunto in casa dei duchi
Serbelloni, dove rimase per otto anni, dal ‘54 al ‘62; e successivamente (1762)
in casa dei conti Imbonati, dove fu maestro di Carlo Imbonati cui dedicò la sua
ode L’educazione. Questo periodo segnò profondamente il Parini uomo e
poeta. Il suo lavoro lo metteva a contatto con quel mondo aristocratico che, se
da una parte, con la sua raffinata eleganza, esercitava su di lui, per natura
ammiratore del bello, un indubbio fascino, dall’altra suscitava il suo sdegno
morale per la vita fastosa e oziosa che la maggior parte dei nobili conduceva,
per la superbia insolente del loro comportamento, la loro vacuità
intellettuale e l’insensibilità morale. È uno stato d’animo bivalente, di
attrazione e di repulsione, in cui però la repulsione etica prevale, che
troveremo presente anche nella sua opera maggiore, Il Giorno.
Fu proprio la
pubblicazione delle prime due parti del Giorno, Il Mattino (1763) e Il Meriggio (1765), a richiamare
sul Parini, oltre all’ammirazione degli ambienti letterari, anche l’attenzione
del governo asburgico «illuminato», che intelligentemente cercava la
collaborazione dei più capaci e colti fra i sudditi lombardi. Così il ministro
plenipotenziario di Maria Teresa, il conte di Firmian, gli affidò prima la
direzione della Gazzetta di Milano (1768), e successivamente (1769) lo
chiamò a coprire la cattedra di eloquenza, cioè di letteratura, nelle Scuole
Palatine, trasformate poi nel Ginnasio di Brera. A questo incarico seguì più
tardi l’ufficio di soprintendente delle scuole pubbliche. «Il piccolo abate
plebeo - scrive il Sapegno - il povero e disprezzato pedagogo, era ormai un
letterato illustre e una figura importante nell’ambiente culturale di Milano,
partecipe di ogni impresa od iniziativa letteraria o artistica, pubblica o
privata». Lo scoppio della rivoluzione francese suscitò nel Parini, come in
tanti altri spiriti progressisti, la speranza che si instaurasse una società
più giusta; ma gli sviluppi sanguinosi del movimento rivoluzionario lo
riempirono di sgomento; le violenze del Terrore gli parve deturpassero, come
egli stesso disse, una delle più nobili cause dell’umanità. Tuttavia, quando,
nel 1796, i Francesi vennero in Italia con Bonaparte, accettò di col-laborare
col nuovo governo: fece parte della Municipalità, e in essa rappresentò la tendenza
più equilibrata e moderata. Vi difese anche, con libertà di spirito e di
parola, il diritto della Lombardia a darsi un’amministrazione autonoma,
indipendente dalla Francia. Spiacque perciò ai Francesi occupanti, e fu rimosso
dall’incarico. Morì nell’agosto del 1799, subito dopo il ritorno degli
Austriaci in Milano.
b) Le opere - Lasciando da parte la sua
produzione minore, ricordiamo le seguenti opere: il Dialogo sopra la
nobiltà (1757), dove è sostenuto, con passione e impeto polemico, il
principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini; il poemetto satirico in
endecasillabi sciolti Il Giorno, di
cui le due prime parti, Il Mattino e Il Meriggio, uscirono
rispettivamente nel 1763 e nel 1765, e le ultime due, Il Vespro e La notte uscirono postume, l’ultima
incompiuta; le Odi, che furono composte in tempi diversi, dal 1757 al
1795. I principi sul fine e sulla funzione della poesia furono esposti dal
Parini in alcuni scritti di riflessione estetica.
c) I fermenti illuministici
lombardi e Parini
- Negli anni in cui si formava e dava poi i suoi frutti la personalità del
Parini, in Francia l’Illuminismo era giunto al suo periodo più maturo. Nel 1772
si concludeva la pubblicazione di quella summa del pensiero illuministico
che fu l’Enciclopedia.
Ma gli stimoli
dell’Illuminismo erano già operanti anche in Italia (ne abbiamo visto la
presenza nello stesso teatro goldoniano), e soprattutto in Lombardia, nel
movimento che metteva capo all’Accademia dei Pugni e al periodico «II caffè».
Anche il Parini sentì l’influenza delle nuove idee e concorse coi suoi scritti
ad avvalorarle. Fra i temi proposti dal pensiero illuministico alcuni gli
furono particolarmente congeniali: anzitutto il principio dell’uguaglianza di
tutti gli uomini e il rifiuto del privilegio di nascita (e in questo caso
l’Illuminismo si incontrava con quel cristianesimo cui egli fu sempre fedele);
il principio della responsabilità sociale dell’individuo in quanto membro di
una comunità, princìpio che sottintende una rigorosa disciplina etica nella
vita privata; e infine la funzione della cultura e in particolare della poesia,
che, se deve dar diletto al lettore, deve anche e soprattutto educarlo, deve
cioè agire positivamente all’interno della società,
Alla poesia del
Marino che mirava a stupire il lettore, a quella frivola degli Arcadi, il Parini
sostituiva così una poesia che mirava « a render saggi e buoni i cittadini suoi
». L’Illuminismo del Parini fu sempre, come del resto tutto l’Illuminismo
lombardo, assai moderato, lontano da posizioni estreme. La stessa polemica
pariniana contro la nobiltà, che è motivo ispiratore del Dialogo sopra la
nobiltà e del Giorno, non ha carattere eversivo, ma riformistico.
Il Parini non mira a spazzar via questa corrotta e inutile classe sociale, come
avrebbe poi fatto la Rivoluzione francese, ma a correggerne i difetti e a
renderla migliore, così che potesse proficuamente agire nella vita pubblica
insieme e accanto all’emergente borghesia.
d) Il «lusinghevol canto» - In una delle Odi il Parini
sostiene che il poeta quale egli lo
intende può considerarsi lieto della meta raggiunta quando «Putii unir può al vanto /
di lusinghevol canto».
intende può considerarsi lieto della meta raggiunta quando «Putii unir può al vanto /
di lusinghevol canto».
Dalla funzione
educatrice della poesia («l’utìl») egli giudica quindi inscindibile il pregio
dell’arte, che da gioia e offre bellezza agli uomini (il «lusinghevol canto»),
A differenza degli Illuministi del Caffè, che nei loro scritti puntavano
esclusivamente sui contenuti e trascuravano la forma, il Parini della forma
ebbe il culto, e la voleva esatta, nitida, elegante; e perciò sottopose sempre
i suoi lavori a lunga e attenta rielaborazione. Maestri di bella forma
giudicava i classici, soprattutto Orazio, che aveva esortato i poeti all’uso
della lima, cioè all’attenta e paziente elaborazione formale. In questo senso
Parini, illuminista di spiriti, fu partecipe delle istanze del movimento
neoclassico.
e) Ispirazione e temi del «Giorno» - Come abbiamo
detto, il Giorno è un vasto poema in endecasillabi sciolti, suddiviso in
quattro parti: Mattino, Meriggio, Vespro e Notte. In questi
quattro tempi della giornata il Parini immagina di accompagnare e guidare, in
qualità di maestro, di «precettor d’amabil rito», un giovane patrizio, il
«giovin Signore».
Passa così
davanti al lettore la giornata futile, vuota, di tanta parte della società
aristocratica, la mancanza di ideali che la connota, la tronfia superbia e
l’arida crudeltà. Nel Mattino la scena si concentra intorno al
personaggio del «giovin Signore» intento alla lunga toilette, alle prime
frivole occupazioni della giornata, circondato da una schiera di servi. Poi via
via il paesaggio umano si dilata. Il giovin Signore si reca a pranzo dalla
dama di cui è «cavalier servente» (e la moralità del Parini si ribella a questa
istituzione che corrode il matrimonio); e intorno alla tavola sono raccolti
alcuni campioni curiosi di questa deteriore umanità. Nel Vespro la
coppia è rappresentata durante la passeggiata al corso, nei suoi rapporti con
gli altri aristocratici, che anch’essi non hanno altro scopo se non di farsi
ammirare. La Notte infine, rimasta incompiuta, descrive un fastoso
ricevimento nella casa di una nobile dama, ed è un largo affresco in cui si
muove una società ormai decrepita, in preda a una noia che cerca invano di
affogare in squallidi divertimenti e in hobbies maniacali.
Procedendo dalla
prima all’ultima parte del Giorno muta la tecnica rappresentativa usata
dal poeta: alla descrizione minuziosa e analitica del Mattino e del Meriggio
si sostituisce, nel Vespro e nella Notte, una
rappresentazione più rapida, a pennellate sempre più larghe.
Musa del poema è
l’ironia, qualche volta lieve, a volte dura fino al sarcasmo, là dove la
coscienza morale offesa del poeta si rivela più risentita. Significativo in
questo senso è l’episodio della «vergine cuccia».
Mentre Parini
componeva il Giorno, la Rivoluzione francese spazzava via nel sangue la
classe nobile. Forse per questo, perché cioè gli pareva di incrudelire contro
chi aveva duramente pagato le sue colpe, il Parini non pubblicò le ultime due
parti del poema, che, come abbiamo detto, uscirono postume.
f) Le Odi - Se nel Giorno
il Parini denuncia quello che una società non deve essere, in 16 delle 19 Odi
propone il modello di una società nuova e migliore. Fra di esse alcune sono
particolarmente significative. Nella Salubrità dell’aria, mettendo
Milano a confronto col suo salubre paese brianzolo, il Parini denuncia gli
speculatori che per lucro mettono a repentaglio la salute della città,
circondandola di malsane risaie e marcite; descrive poi con un linguaggio
nuovo, audacemente realistico, le intollerabili condizioni igieniche di cui è
responsabile «l’inerzia privata», cioè il cieco assenteismo dei cittadini che
si disinteressano dei problemi della collettività; e infine afferma
energicamente la funzione civile della poesia. Nell’Educazione delinea
un equilibrato ideale pedagogico che mira a sviluppare armonicamente nei
giovani la sanità fisica e quella morale, alimentata quest’ultima da una
religiosità non formalistica ma interiormente vissuta. Nella Caduta esprime
il suo sdegno amaro verso chi si prostituisce ai potenti, e, per avidità di
successo o di ricchezze, viene a patti con la propria dignità e la propria
onestà. Nell’ode Alla Musa infine, l’ultima in ordine di tempo, viene
rappresentato l’ideale pariniano di vita: una esistenza misurata e serena,
confortata dall’amicizia e dagli affetti familiari, improntata al vero, al
giusto, al godimento onesto del bello. È questa l’unica forma di vita - afferma
il Parini - dalla quale può nascere autentica poesia.
Carattere
diverso hanno le tre odi Il pericolo,
Il dono, Il messaggio, nelle quali il Parini si abbandona alla
contemplazione della bellezza femminile. Di esse la migliore è Il messaggio,
in cui sono presenti toni nuovissimi, di intensa e suggestiva
malinconia, quasi prefoscoliani.
16. L’arte
nell’età napoleonica: il Neoclassicismo e il Preromanticismo - Nell’età napoleonica,
accanto a un persistente e vigoroso filone culturale illuministico, vanno diffondendosi
un gusto e una cultura neoclassici; mentre già si fa strada una sensibilità nuova,
di tipo preromantico.
a) Il Neoclassicismo – Il Neoclassicismo
che, come dice il nome, rappresenta un ritorno al mondo classico, fu
originariamente un fenomeno germanico ed italiano. Trovò infatti il suo primo
stimolo nell’interesse di alcuni studiosi tedeschi della seconda metà del
Settecento (l’archeologo Winckelmann, il letterato Lessing) per l’arte antica,
e incontrò fortuna soprattutto in Italia dove apparve come una difesa e una
rivendicazione delle nostre tradizioni classiche.
Più tardi l’arte
neoclassica, assunta ufficialmente alla corte di Napoleone, il quale si
compiaceva di dare lustro al suo recente impero connotandolo con le forme
classiche «imperiali», si diffuse per tutta l’Europa al seguito dei vittoriosi
eserciti francesi.
·
Il «bello
ideale» - Il Neoclassicismo nel campo delle arti figurative, dove si
afferma più vigorosamente che altrove, propugna il perseguimento di un «bello
ideale», cioè dì una bellezza intesa come pura armonia, che trascende la stessa
bellezza naturale e che si identifica con le forme dell’arte classica,
soprattutto greca (si pensi alle sculture di Canova, ai dipinti di Appiani); in
letteratura sollecita un ritorno alle opere dei classici, considerate modelli
di perfezione.
Tuttavia la denominazione di Neoclassicismo è generica e comprende manifestazioni fra loro diversissime: dalle fantasie mitologiche di un Monti, alle immagini e figurazioni classiche di Foscolo maggiore, attraverso le quali questo poeta esprime una sensibilità appassionata e già di tono romantico.
Tuttavia la denominazione di Neoclassicismo è generica e comprende manifestazioni fra loro diversissime: dalle fantasie mitologiche di un Monti, alle immagini e figurazioni classiche di Foscolo maggiore, attraverso le quali questo poeta esprime una sensibilità appassionata e già di tono romantico.
·
Il «purismo
linguistico» - In
sede linguistica il neoclassicismo diede luogo al fenomeno del purismo, cioè a
una difesa della purezza della lingua tradizionale contro le infiltrazioni
straniere, soprattutto francesi.
b) Il preromanticismo - È prematuro qui
parlare di romanticismo vero e proprio; infatti i primi documenti romantici in
Italia saranno pubblicati solo nel 1816, e nei primi de cenni dell’Ottocento si
spiega appieno l’attività del Manzoni, che è considerato il caposcuola del
romanticismo italiano. Tuttavia, questo scorcio di Settecento italiano e inizio
di Ottocento può essere considerato preromantico perché vi si sente la presenza
di una sensibilità nuova, connessa a quel movimento romantico già in pieno
sviluppo in Germania e in altri Paesi dell’Europa.
Così ad esempio
sono preromantici certi atteggiamenti elegiaci, dolcemente malinconici, in cui
alcuni poeti si adagiano; la predilezione per i paesaggi cimiteriali; il senso
perenne d’esilio così vivo ad esempio nell’opera foscoliana; l’ansia di valori
assoluti quali la bellezza, l’immortalità; la violenta lacerazione delle
passioni.
17. Ugo Foscolo –
Ugo Foscolo è stato il principale esponente letterario
italiano del periodo, a cavallo fra Settecento e Ottocento,
nel quale si manifestano o cominciano ad apparire in Italia le correnti del Neoclassicismo, del Preromanticismo e del Romanticismo. “Se Vincenzo
Monti fu lo specchio dell'Italia fra i due secoli, Ugo Foscolo ne fu la
coscienza”: con queste parole Attilio Momigliano inizia il capitolo dedicato a
Foscolo nella sua Storia della
Letteratura italiana, sintetizzando un giudizio complessivo sulla validità
storica della presenza foscoliana.
a) La vita – Nel 1778, Ugo
Foscolo nacque a Zante, una delle isole Ionie, da padre veneziano, medico di
vascello e da madre greca, primo di quattro fratelli.
Nel 1785 si
trasferì con la famiglia a Spalato.
Nel 1789 la
madre si trasferì a Venezia con i figli Rubina e Costantino, mentre Ugo e Gian
Dionigi (Giovanni) rimasero a Zante, Giovanni presso la nonna materna e Ugo
presso una zia.
Nel 1793,
Foscolo, accompagnato dal Provveditore dell'isola, poté raggiungere la madre e
i fratelli.
Nel 1795,
Foscolo mutò il suo nome da Niccolò in Ugo e a Venezia, partecipò ad alcuni
circoli culturali, conoscendo fra gli altri Pindemonte e Cesarotti: Venezia
divenne la sua patria politica, così come Zante rimase la sua patria
sentimentale.
Nel 1796,
Foscolo scrisse alcuni articoli sul Mercurio
d'Italia che destarono i sospetti del governo veneto ed il giovane, per
prudenza si rifugiò sui colli Euganei.
Nel 1797, venuto
in sospetto del governo veneziano per le sue idee democratiche, si recò a
Bologna, dove Bonaparte aveva costituito la Repubblica
Cispadana, e si arruolò nell’esercito francese.
Nel 1797 si
rifugia a Bologna per poco tempo; nel frattempo si svolge la prima
rappresentazione del Tieste.
Il 12 maggio
1797 il doge Ludovico Manin e il Maggior Consiglio furono costretti da Napoleone ad abdicare, per proclamare
il Governo Provvisorio della Municipalità
di Venezia. Caduto il governo oligarchico e costituito il nuovo governo
giacobineggiante, Foscolo ritornò a Venezia e partecipò intensamente alla vita
politica della città, ma ne ripartì nell’ottobre del 1797, quando, col trattato di Campoformio, Bonaparte
cedette Venezia all’Austria: Foscolo giudicò questo trattato un tradimento
delle speranze di libertà degli Italiani. Il 17 ottobre del 1797 il giovane
Foscolo, sdegnato, si dimise dagli incarichi pubblici e partì in volontario
esilio per Milano, dove conobbe Parini.
Nel 1798,
Foscolo si trasferì a Bologna: Iniziò le stampe del romanzo epistolare Ultime
lettere di Jacopo Ortis che dovette interrompere per l'occupazione di
Bologna da parte degli Austro-Russi, che avevano invaso l’Italia durante
l’assenza di Bonaparte per la campagna in Egitto nell'aprile del 1799.
Negli anni
1799-1800 Foscolo combatté, come ufficiale dell’esercito francese, contro
l’Austro-Russi.
Nel 1804,
Foscolo fu a Boulogne-sur-mer, sulla
Manica, col corpo di spedizione là inviato da Napoleone con l’intenzione di
invadere l’Inghilterra.
Nel 1805,
Foscolo ritornò in Italia: all’intensa vita politica e militare si accompagnava
una altrettanto intensa attività letteraria. Durante questi anni Foscolo
scrisse un romanzo epistolare, le Ultime ledere di Jacopo Ortis, due odi, 12 sonetti.
Nel 1806,
Foscolo scrisse il carme dei Sepolcri, poi pubblicato nel 1807, e L’Esperimento di traduzione
dell’Iliade, in collaborazione con l’amico Vincenzo Monti.
Nel 1807, Foscolo si trasferì in Francia dove ebbe una relazione con
giovane donna inglese dalla quale nacque Floriana.
Nel 1808, a Foscolo fu affidato
l’insegnamento di letteratura italiana presso l’Università di Pavia, insegnamento che tenne per un anno.
Lo troviamo
successivamente a Milano,
Poi a Firenze,
dove dal 1811 al 1813 lavorò prevalentemente al Carme delle Grazie.
Nel 1813, caduto
Napoleone con la battaglia di Lipsia, Foscolo, non volendo accettare le
profferte di lavoro fattegli dagli Austriaci sopravvenuti, preferì l’esilio
all’asservimento del suo pensiero e della sua opera di scrittore.
Il 31 marzo del
1815, Foscolo lasciò l'Italia e prese la via del volontario esilio per
rifugiarsi a Hottinger, in Svizzera, dove pubblicò l’Ipercalisse, satira in latino contro gli avversari letterari.
Il 12 settembre
1816, Foscolo giunse a Londra dove trascorse l'ultimo periodo della sua vita
fra gravi difficoltà economiche e morali, dedicandosi all’attività
pubblicistica e in particolare alla critica letteraria,
Nel 1825 scrisse
il Discorso sul testo della Divina
Commedia.
Nel 1827,
Foscolo morì nel piccolo sobborgo londinese di Turnham Green, ammalato di
idropisia.
I suoi resti
furono traslati nella chiesa di Santa Croce a Firenze, da lui nominata nel
carme Dei Sepolcri nel 1871.
c)
Foscolo tra Illuminismo, Neoclassicismo e Preromanticismo – Vissuto alla
confluenza di tre grandi movimenti, l’illuminismo ormai maturo, il romanticismo
in via di affermazione, il neoclassicismo, Foscolo ne assorbì variamente le
influenze, preso dagli influssi europei del filosofo francese Jean-Jacques Rousseau e del poeta
tedesco Goethe, che insieme
concorsero a formare la sua originale personalità.
Illuminista come formazione
filosofica, egli apprezzò la ragione come il maggior strumento conoscitivo;
era inoltre illuministicamente convinto che, dopo la morte, l’individuo non
sopravvive in una trascendenza, e che tutti torniamo materia alla materia,
partecipando al ciclo meccanico di trasformazione che la materia subisce.
Romantico di temperamento,
sostenne il valore del sentimento accanto a quello della ragione. Nacque di qui
il suo mito delle «illusioni», che nel sentimento trovavano giustificazione e
appoggio: prima fra tutte le illusioni che l’uomo e i suoi valori positivi non
muoiono del tutto se possono sopravvivere nel ricordo dei superstiti.
Classico di cultura e di
gusto, tradusse la sua sensibilità di uomo moderno nelle forme e nei miti
della tradizione, che ne erano così rinnovati e attualizzati; e in questo senso
può essere definito neoclassico.
d)
Poesia e vita - L’opera di Foscolo è strettamente
legata alle sue esperienze biografiche, e in essa è costante il rapporto fra
poesia e vita, e di conseguenza fra poesia e società.
Accanito lettore
dei classici e seguace del materialismo illuminista, Foscolo sin dai precoci
inizi letterari si distinse per l’attenzione alle problematiche più discusse,
aderendo ai programmi di rivoluzione ed oscillando fra odio ed amore per i
Francesi e soprattutto per Napoleone: nel 1796 scrisse le Odi A Bonaparte e Ai novelli Repubblicani, ora acclamato come salvatore dalla patria;
ora additato come traditore delle speranze democratiche, ora incitato a farsi
leale garante della libertà italiana.
Proprio da uno
spunto politico nasce l’opera Le Ultime
Lettere di Jacopo Ortis, di carattere chiaramente autobiografico.
In questo
romanzo Foscolo disegna la figura del patriota deluso, che va in esilio ed è
pronto a morire per la propria patria. Jacopo Ortis è un eroe preromantico, che
aspira alla libertà della patria, ma quando questo sogno si infrange, decide di
togliersi la vita.
In questo
romanzo già si ritrovano molte caratteristiche del giovane Foscolo: gli stessi
temi trattati nel romanzo, come l’amor di patria, l’esilio, l’importanza della
sepoltura, il significato delle tombe, sono rintracciabili nelle sue opere,
nelle Odi, nei Sonetti, nei Sepolcri e nelle stesse Grazie.
e)
L’impegno politico e il ’liberal carme’ - Un aspetto
fondamentale di questo costante rapporto con la vita è l’impegno politico
foscoliano.
Se
Monti ebbe un interesse tutto superficiale per le vicende storiche del suo
tempo, e le considerò solo motivi occasionali per suoi versi, l’atteggiamento
foscoliano è invece dì autentica partecipazione e di responsabile
coinvolgimento.
Vissuto
in un periodo complesso e drammatico della storia europea, in quell’età napoleonica, che segnò la linea di
demarcazione fra le rivoluzioni con cui si chiudeva il Settecento e la
Restaurazione che trionfò nella Santa
Alleanza e nel Congresso di Vienna,
egli vi prese una lucida e decisa posizione politica. Fra i due blocchi che si
contrapponevano in Europa, l’uno aggregato intorno alla Francia, che, pur fra
deviazioni, ritorni ed abusi, portava avanti le idee progressiste ereditate
dalla Rivoluzione del 1789, e l’altro capeggiato dall’Austria, che
rappresentava l’immobilismo e la conservazione, scelse senza incertezze il
primo. Si arruolò, di conseguenza, nell’esercito napoleonico e vi militò fino
alla caduta di Napoleone.
Dopo
questo evento nel 1813, rifiutò di mettere la sua attività di scrittore al
servizio dell’Austria, succeduta alla Francia nel dominio del nostro Paese,
nonostante le lusinghe del governo austriaco e nonostante i pericoli che tale
rifiuto comportava e che lo costrinsero all’esilio.
Perché,
Foscolo sosteneva, se il poeta deve essere politicamente impegnato, deve, però
mantenersi libero nei confronti del potere politico; la sua poesia non deve
essere contaminata dal servilismo e dall’adulazione. Perciò, pur avendo
sostanzialmente dato la sua adesione alla Francia e all’indirizzo politico che
essa rappresentava, egli non esitò a denunciare con veemenza gli abusi delle
milizie francesi in Italia, e soprattutto alzò la voce contro Napoleone, quando
gli parve che con la sua politica avesse tradito le speranze di indipendenza
degli Italiani in seguito alla forte delusione verso Napoleone che, in nome di
un freddo calcolo politico, cedette Venezia, da sempre libera repubblica,
all’Austria.
Questa
autonomia di giudizio e di parola, che egli pagò di persona prima con
l’emarginazione nella sua carriera di ufficiale napoleonico e poi con l’esilio,
fu da lui ripetutamente rivendicata nei suoi versi.
Nei
Sepolcri egli definisce orgogliosamente liberal carme la sua poesia e chiama vergini, cioè incontaminate, le Muse che l’hanno ispirata.
f)
La funzione immortalatrice della poesia - La poesia, nel
pensiero foscoliano, consente all’uomo e ai valori che gli sono cari di
sfuggire alla distruzione operata dal tempo e di vincere la morte.
È
un tema ricorrente nei versi di Foscolo e che ha il suo più notevole
svolgimento nei Sepolcri, scritto
come risposta all’editto napoleonico di Saint-Cloud che decretava i
cimiteri fuori dei centri abitati, ma soprattutto stabiliva che le tombe dovevano
essere uguali e non portassero il nome dei defunti.
Nei
Sepolcri egli afferma che le glorie
dei grandi uomini otterranno l’immortalità, se affidate prima alla memoria
tramandata dai sepolcri e successivamente alla poesia, che non è sottoposta
all’erosione del tempo che distrugge anche i sepolcri. In uno dei passi più
alti del carme il poeta immagina che sui sepolcri degli eroi, distrutti dal
tempo, si levi il canto delle Muse, che raccolgono ed eternano le memorie fino
a quel momento conservate dai sepolcri.
g)
Altri temi della poesia foscoliana - Oltre a questo,
che è il tema centrale della poesia foscoliana, altri ne ricorrono
frequentemente, di volta in volta accennati, ripresi, ampiamente svolti.
Ricordiamo fra i più insistiti e suggestivi:
- l’attrazione per la morte e il
richiamo della vita;
- la bellezza femminile ristoro unico ai mali;
- la passione politica;
- il perenne senso di esilio;
- il rimpianto per Zacinto, l’isola
greca natale, e per la sua luminosa bellezza;
- la funzione civile della poesia;
- il sepolcro come collegamento fra i
vivi e i morti, come segno di civiltà e come conservazione di grandi
memorie.
6.
Restaurazione, Romanticismo e Risorgimento
1. Il congresso di Vienna: il mercato dei popoli -
La sconfitta di Napoleone era avvenuta nel segno del nascente sentimento
nazionale: la Rivoluzione francese lo aveva suscitato affermando il principio
dell’autodecisione dei popoli, Napoleone lo aveva calpestato nella costruzione
del suo impero personale e familiare.
Il congresso di Vienna,
riunitosi in seguito alla sconfitta napoleonica a Lipsia, era stato cieco di
fronte a questa realtà e l’ordine europeo fu da esso concepito in funzione
dell’interesse delle grandi potenze e i popoli furono considerati merce di
scambio. Il congresso ebbe il compito di stabilire un equilibrio nell’Europa
devastata dagli eserciti napoleonici e vi presero parte decine di delegazioni,
ma lo dominarono Metternich, rappresentante dell’impero d’Austria, lo zar
Alessandro I, Castlereagh, ministro inglese, e Tayllerand, il plenipotenziario
francese che riuscì a far passare l’idea che la Francia e Luigi XVIII erano
«vittime» di Napoleone.
a)
La
Restaurazione - Il congresso di Vienna volle dare l’idea di agire in nome
dei popoli e delle nazioni, fissando princìpi ideali ai quali ispirarsi, come
quello di legittimità: quanto fatto dalla rivoluzione e da Napoleone erano
infatti violazioni dei diritti dei sovrani e dei popoli, e occorreva perciò
ripristinare quei diritti; su questa base furono rimesse sul trono le vecchie
dinastie. Lo zar Alessandro, pervaso da un atteggiamento mistico, propose una
Santa alleanza che impegnasse tutte le potenze a sorvegliare sui popoli e
imporre una pace fondata sui princìpi cristiani; l’Inghilterra rifiutò di farne
parte e Metternich trasformò il progetto in impegno di reciproca assistenza
militare fra Austria, Prussia e Russia per soffocare eventuali nuove
rivoluzioni. Col congresso di Vienna la carta d’Europa non fu sconvolta, caso
mai fu riportata alla situazione precedente le grandi campagne napoleoniche e
si chiuse con la convinzione dei partecipanti di aver dato un assetto durevole
al vecchio continente. Nonostante i suoi limiti il congresso di Vienna rimane
tuttavia un fatto importante nella storia: inaugurò infatti la stagione delle
grandi «conferenze» fra potenze che dura ancora oggi; l’obiettivo è sempre lo
stesso e, forse, potremmo dire, identica l’illusione che, se le grandi potenze
che dominano il mondo si mettono d’accordo, possano creare un «ordine
internazionale garantito dalla loro forza» che instauri una situazione di pace.
b)
Debolezza
interna della Restaurazione - La restaurazione progettata dal
congresso di Vienna si rivelò un «ordine» destinato a non durare. In primo
luogo c’era una diversità fra le potenze europee: la Russia viveva la contraddizione fra modernità e concezione
autocratica (divina e assoluta) del potere dello zar; l’impero d’Austria spendeva le sue forze per mantenere un posto di
rilievo in Germania e il dominio su molte nazioni (slavi, ungheresi, italiani, croati,
polacchi, ecc.); la Prussia seguiva
una strada efficace di modernizzazione e di egemonia sul mondo tedesco basata
sulla forza militare. Con queste potenze poco avevano da spartire l’Inghilterra, già avviata da tempo a
rafforzare il regime parlamentare e liberale, e la Francia, che non poteva eliminare con un colpo di spugna le
abitudini di vita civile e politica assunti dalla rivoluzione in poi: la
spaccatura in Francia si rese infatti subito evidente con la rivoluzione di
luglio del 1830, quando il popolo e le classi borghesi si ribellarono al
tentativo di Carlo X di imporre una
monarchia assoluta: al suo posto fu instaurata la monarchia costituzionale di Luigi Filippo; il fronte delle potenze
vincitrici di Napoleone era di fatto rotto: da una parte le monarchie assolute,
dall’altra Francia e Inghilterra. In secondo luogo, accanto a queste grosse
diversità fra le varie potenze il dispregio delle aspirazioni nazionali suscitò
agitazioni, insurrezioni e rivoluzioni che avrebbero portato al crollo dell’assetto
stabilito a Vienna e al sorgere di nuovi stati nazionali: la Grecia, il Belgio,
l’Italia, la Germania; mentre la Polonia, l’Ungheria e gli Stati baltici
dovranno attendere la prima guerra mondiale per raggiungere l’indipendenza.
L’assetto dato all’Europa dal congresso di Vienna non teneva conto delle
aspirazioni dei popoli all’unità nazionale e all’indipendenza, e fu ben presto
scosso da moti rivoluzionari che esplosero in varie parti del continente.
Tuttavia, grazie agli sforzi della Santa Alleanza, esso poté essere
faticosamente mantenuto fino quasi alla metà del secolo, e costituì il quadro
entro il quale le maggiori potenze (soprattutto l’Inghilterra e la Francia) si
avviarono a un rapido sviluppo economico e industriale. Assai più lento e contrastato
fu il cammino dei paesi come la Germania e l’Italia, frazionate in molti
staterelli e sottoposte all’egemonia diretta o indiretta dell’Austria. Qui la
via del progresso economico e civile passava necessariamente per l’unificazione
nazionale e poteva essere imboccata solo dopo lunghe e difficili lotte.
c)
I
primi moti per la libertà - Nonostante la rivoluzione
americana e quella francese avessero affermato i diritti dell’uomo alla libertà
e all’uguaglianza di fronte alla legge, i sovrani rimessi sul trono dal
congresso di Vienna nel 1815 ripresero a governare in generale come sovrani
assoluti e restaurarono i privilegi della nobiltà. Contro questi sovrani, nei
diversi Stati europei, gli uomini più aperti e animati da idee innovatrici si
batterono con accanimento per strappare loro non solo l’uguaglianza dei
cittadini di fronte alla legge e le libertà di parola, di stampa, di
associazione, ma anche la partecipazione alla formazione delle leggi dello
Stato, mediante l’elezione di propri rappresentanti alle assemblee legislative
(parlamenti). In una parola, chiedevano la costituzione o carta o statuto: un
documento scritto, che doveva valere come legge suprema dello Stato, con il
quale il sovrano concedeva questi diritti e si impegnava a rispettarli. Coloro
che si batterono in favore delle libertà individuali e della costituzione,
furono detti liberali. Si trattava in genere di borghesi, cioè di
intellettuali, commercianti, professionisti, oppure degli elementi più avanzati
e aperti dell’aristocrazia; le masse popolari, condizionate dalla propaganda
reazionaria e dall’ignoranza, erano ancora assai arretrate e non potevano
ancora manifestare esigenze di progresso sociale e politico. Sul modo di
partecipare al potere politico i liberali non erano però tutti d’accordo.
Alcuni, i moderati, volevano una
costituzione sul tipo di quella inglese, con un parlamento eletto dalla parte
più ricca della popolazione. Altri, i cosiddetti democratici, volevano una vera e propria democrazia sul tipo di
quella espressa dalla rivoluzione francese, con un parlamento eletto, senza
distinzioni, da tutti i cittadini. Nei paesi soggetti a un sovrano straniero,
la lotta dei liberali divenne anche lotta per l’indipendenza nazionale. In
Italia i liberali si mossero in diverse direzioni; da un lato svolsero attività
cospirativa per tentare, con l’insurrezione armata, di costringere i sovrani a
concedere la costituzione; dall’altra presero iniziative culturali, fondando
giornali e riviste per diffondere le loro idee, e iniziative pratiche, adoperandosi,
soprattutto nell’Italia settentrionale, per apportare le più urgenti riforme in
ogni campo, per migliorare l’agricoltura e l’industria e fondare nuove scuole.
d)
Il
1848: una grande rivoluzione europea - Il 1848 segna una
svolta nella storia d’Europa; in quell’anno un’unica grande rivoluzione, di
carattere nettamente liberale, scuote tutta l’Europa; i popoli insorgono contro
i sovrani o per riscattare una condizione di miseria e di oppressione sociale
(così in Francia), o per realizzare le proprie aspirazioni alla libertà,
all’indipendenza e all’unità nazionale (così in Germania e nei Paesi
dell’impero asburgico, tra cui l’Italia). Si trattò, quindi, di una rivoluzione
europea, che nasceva da esigenze comuni. Per comprendere la vastità e la
rapidità del grande incendio rivoluzionario che avvolse l’Europa nel 1848-49
occorre tener presente innanzi tutto che lo sviluppo economico e sociale,
realizzato in Europa nei decenni precedenti, aveva reso la sistemazione
politica fissata dal congresso di Vienna sempre più insoddisfacente e
inadeguata alle nuove esigenze dei popoli. Inoltre, proprio negli anni
immediatamente precedenti il 1848 c’era stata una grande carestia per lo scarso
raccolto di frumento e di patate (in Irlanda oltre mezzo milione di persone erano
morte di fame), e nel 1847 si era avuta una crisi nel settore dell’industria
che aveva prodotto fallimenti, disoccupazione e miseria. Se comuni all’intera
Europa erano le condizioni di crisi e di disagio economico, diversi, almeno in
parte, erano nei singoli paesi i problemi da risolvere. Nei paesi
industrialmente più progrediti dell’Europa occidentale (come la Francia e le
regioni renane in Germania), le rivendicazioni liberali si intrecciavano con le
richieste del proletariato. Le condizioni di sfruttamento cui erano sottoposti
e il diffondersi delle idee socialiste, spingevano infatti i proletari
all’azione politica. Nel centro-sud del continente europeo, invece, gli
obiettivi della rivoluzione furono essenzialmente di tipo nazionale e liberale;
e le principali forze che la mossero furono la borghesia evoluta e il ceto
intellettuale. In Italia, in Germania, in Ungheria si lottò per conseguire
l’unificazione politica e l’indipendenza da un governo straniero, oltre che per
ottenere quelle riforme costituzionali che garantissero le libertà fondamentali
e i diritti dei cittadini. L’ondata rivoluzionaria investì nel febbraio del 1848 la Francia, dove al
governo sempre più reazionario di Luigi Filippo, repubblicani e democratici
risposero cacciando il re e costituendo un governo provvisorio, presieduto dal
poeta Lamartine, al quale parteciparono anche i socialisti, tra cui Louis
Blanc. L’Assemblea eletta a suffragio universale per dare alla Francia una
costituzione repubblicana risultò tuttavia composta in maggioranza di moderati
e conservatori; il proletariato, deluso nelle sue speranze, reagì con
l’insurrezione che tuttavia venne soffocata nel sangue dalle truppe regolari
del generale Cavaignac. In dicembre Luigi Napoleone Bonaparte fu eletto
presidente della repubblica. Nell’impero asburgico le rivendicazioni ebbero
carattere liberale e nazionale: oltre alle riforme e alla costituzione si
chiedeva da parte dei popoli soggetti una maggiore autonomia dal governo
austriaco. In marzo scoppiarono tumulti a
Vienna e Metternich fu costretto ad abbandonare l’incarico.
Contemporaneamente a Praga e a Budapest si costituirono governi provvisori.
Nonostante le pro messe iniziali della monarchia austriaca, le insurrezioni di
Vienna e di Praga furono rapidamente domate e anche in Ungheria, malgrado
l’eroica resistenza dei patrioti, venne ristabilito l’ordine con l’aiuto dello
zar di Russia (agosto 1849). Nella Confederazione
germanica [[37]],
dove in quegli anni si era andata affermando la potenza della Prussia,
scoppiarono nel marzo del ‘48 in vari Stati numerose insurrezioni che
costrinsero i principi a concedere riforme e a indire un’assemblea di
rappresentanti di tutti gli Stati per elaborare una nuova costituzione.
L’Assemblea si riunì a Francoforte e decise di dar vita a una nuova
Confederazione germanica, di cui fu offerta la corona al re di Prussia. Ma
questi, temendo l’ostilità dell’Austria, esclusa dalla Confederazione, rifiutò
l’offerta e fece sciogliere l’Assemblea. A poco più di un anno dall’inizio dei
moti rivoluzionari, la vittoria delle forze conservatrici appariva completa.
Nel 1849 Austria, Prussia e Russia riuscirono a soffocare le rivoluzioni, ma
l’Europa del congresso di Vienna era ormai morta: in realtà, gli avvenimenti
del 1848 avevano recato un grave colpo al prestigio delle monarchie europee,
costringendole a scendere a patti con le borghesie nazionali e in un caso
almeno, quello francese, a capitolare. Il processo di rafforzamento della
Prussia da un lato, e di disgregazione dell’impero asburgico dall’altro,
sebbene momentaneamente fermato, era destinato a continuare e ad aggravarsi.
Per la prima volta nella storia, masse di uomini ispirate da un programma e da
una fede socialista avevano combattuto per le strade a fianco dei liberali e
dei repubblicani. «Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del
comunismo»; con queste parole si apriva il Manifesto
del Partito Comunista [[38]]
pubblicato da Marx e Engels al principio del 1848. Se dalle prove del 1848
queste nuove forze uscivano indubbiamente sconfitte, grandi paassi avanti erano
stati fatti nell’elaborazione di quella dottrina socialista che nei decenni
successivi era destinata ad avere un peso sempre maggiore nella storia europea.
2. Fasi del Risorgimento italiano [[39]] – Il processo di
formazione dello Stato nazionale italiano (1815-61) va sotto il nome di
Risorgimento, inteso non come riconquista di una unità politica, mai esistita
nel nostro Paese, ma come rinascita dell’Italia alla libertà, all’indipendenza,
alla dignità di nazione, così da colmare il distacco che la separava dai
maggiori Stati europei.
Nel Risorgimento possiamo distinguere le seguenti fasi:
a)
I
moti carbonari - I primi tentativi di mutare la situazione determinata in
Italia dal congresso di Vienna furono opera delle società segrete e in
particolare della Carboneria, che fu l’artefice dei moti del 1820-1821 nel
Napoletano e nel Piemonte. L’obiettivo dei patrioti era di ottenere dai
prìncipi una moderata costituzione. Dopo un iniziale successo, i moti fallirono
per l’intervento dell’Austria. Nel Lombardo Veneto non si arrivò neppure
all’azione perché le congiure furono preventivamente scoperte e i patrioti
incarcerati (tra questi Pellico). Nel 1831, sull’onda del felice esito della
Rivoluzione francese del 1830, scoppiò a Modena un moto, che si allargò a parte
dell’Emilia e fu soffocato militarmente, anche questa volta dall’Austria.
b)
La
«Giovine Italia» e i moti mazziniani - I Carbonari
fallirono nel loro intento per tre motivi fondamentali: perché avevano
confidato nella solidarietà dei sovrani, che invece li tradirono (Ferdinando I
a Napoli, Carlo Alberto in Piemonte, Francesco IV a Modena); perché si erano
proposti finalità solo locali, senza coordinare i vari moti; perché, per
segretezza, mancavano di comunicazione col popolo. Sono queste le critiche che Giuseppe Mazzini [[40]],
carbonaro egli stesso, mosse alla Carboneria. Di conseguenza egli fondò una
nuova società, la Giovine Italia [[41]],
che, facendo leva sulle forze di tutto il popolo, mirava a costituire uno Stato
unitario, libero, indipendente, repubblicano. La Giovine Italia organizzò una
serie di moti, caratterizzati tanto dalla generosa disponibilità al sacrifico
dei loro protagonisti, quanto da una mancanza di realismo destinò al
fallimento: è del 1834 il tentativo di far sollevare il Regno di Sardegna con
l’invasione della Savoia e la contemporanea sollevazione di Genova; è del 1844
lo sbarco in Calabria dei fratelli Bandiera per far insorgere le popolazioni
del Napoletano. Tutti falliti.
c)
Le
proposte moderate – L’insuccesso dei moti mazziniani e il radicalismo della Giovine Italia, che turbava
particolarmente la coscienza dei liberali cattolici, favorì il tramonto del
mazzinianesimo e il rafforzarsi di una corrente moderata che si attestò
sostanzialmente su tre posizioni:
·
il neoguelfismo di
Gioberti [[42]],
autore del Primato morale e civile degli
Italiani del 1843, per il quale la soluzione del problema italiano stava in
una federazione di principi sotto la presidenza del Pontefice e nella
concessione di limitate riforme liberali;
·
la soluzione filosabauda di Cesare Balbo [[43]],
autore di Le speranze d’Italia del 1844,
che proponeva anch’egli una federazione italiana sotto la presidenza del re di
Sardegna, dalla quale però doveva essere esclusa l’Austria, compensata con
territori nei Balcani;
·
la proposta filosabauda di Massimo D’Azeglio [[44]]
negli Ultimi casi di Romagna del 1846,
che sottolineava la necessità di cacciare l’Austria anche con le armi, fidando
nell’esercito piemontese.
d)
Un posto a sé occupò il gruppo federalista repubblicano, nel
quale primeggiava Carlo Cattaneo[45].
Poiché avversava le posizioni neoguelfe, questa corrente fu chiamata
neo-ghibellina.
e)
Le
riforme e la concessione delle Costituzioni - Le teorie del
Gioberti ebbero larga diffusione fra gli spiriti moderati, che desideravano una
soluzione non traumatica del problema politico italiano. L’elezione al
pontificato di Pio IX Mastai Ferretti, le riforme concesse prima da lui e poi
dagli altri principi, il progetto di un’unione doganale tra il Papa, il re di
Sardegna e il granduca di Toscana, fecero credere che la federazione auspicata
da Gioberti stesse per realizzarsi. Il processo riformistico, avviatosi con
un’intesa fra prìncipi e popolazioni, si concluse con la concessione di
Costituzioni in tutti gli Stati: concessione che fu però subìta dai prìncipi
con riluttanza e sotto la pressione del popolo.
f)
La
rivoluzione del ‘48 in Italia e la prima guerra d’indipendenza
- Come conseguenza dell’insurrezione parigina, scoppiarono disordini a Berlino,
Vienna e in altre città. Su questi moti si innestò la prima guerra di
indipendenza contro l’Austria, capeggiata, pur dopo molte sue incertezze, da
Carlo Alberto. La partecipazione di truppe provenienti dalla Toscana, da
Napoli, dallo Stato Pontificio smbrò trasformare la guerra regia in una guerra
nazionale per l’indipendenza della penisola. Sembrava avverarsi la tesi
sostenuta da D’Azeglio: Carlo Alberto, con l’aiuto degli altri prìncipi,
avrebbe cacciato l’Austria, dando vita a una federazione di Stati con
costituzioni liberali.
g)
Il
1849 e la ripresa del mazzinianesimo - La sconfitta finale
di Carlo Alberto a Novara nel 1849, rimasto solo dopo il ritiro dalla guerra
degli altri prìncipi italiani, segnò la momentanea eclissi del programma
moderato. Per contraccolpo si affermarono governi radicali di ispirazione
mazziniana: in Toscana con Guerrazzi; a Roma, dopo la fuga del Papa, fu
proclamata una repubblica al cui governo partecipò lo stesso Mazzini e la cui
difesa fu demandata al mazziniano Garibaldi; a Venezia, fu proclamata la
Repubblica democratica di San Marco. La difesa di Roma e di Venezia (che
caddero dopo strenua resistenza), nel loro disperato eroismo e nel lucido
olocausto di giovani patrioti, fu la più alta testimonianza del valore morale,
religioso, che la causa italiana aveva assunto grazie anche alla predicazione
di Mazzini.
h)
Il
Piemonte si prepara a diventare lo Stato-guida (1849-1858)
- Mentre la reazione imperversava negli Stati italiani, il Piemonte, il cui re,
Vittorio Emanuele II, aveva mantenuto la Costituzione emanata da Carlo Alberto,
e che era diventato rifugio di esuli e perseguitati, richiamò su di sé le
speranze dei liberali italiani. Tanto più che, per l’opera soprattutto di
Cavour diventato primo ministro (1852), il Piemonte si avviava ad assumere in
campo politico, economico e sociale, la fisionomia di uno Stato moderno. Cavour
riuscì, con la partecipazione alla guerra
di Crimea e il successivo congresso
di Parigi, a fare del problema italiano un problema europeo e a trovare
consensi e alleanze militari per la sua azione contro l’Austria. La
reviviscenza del mazzinianesimo che si manifestò in attentati e moti ed ebbe la
sua espressione più rilevante nella spedizione
di Sapri, fornì a Cavour motivi per sollecitare la soluzione del problema
italiano.
i)
Il
1859 e la seconda guerra di indipendenza - La politica italiana
è ormai nelle mani di Cavour, che nel 1859 tira le fila della trama
precedentemente ordita: stretta un’alleanza con Napoleone III, desideroso di
sostituire in Italia il predominio francese a quello austriaco, Cavour affronta
l’Austria (seconda guerra di indipendenza) e ottiene, se non tutto il
LombardoVeneto, almeno la Lombardia. Il dilagare dei moti filosabaudi
nell’Italia centrale e la conseguente cacciata dei prìncipi, consente di
annettere al Piemonte anche la Toscana e l’Emilia-Romagna.
j)
La
spedizione garibaldina - Nell’impresa dei Mille che portò
a una rapida occupazione della Sicilia e del Napoletano, si manifestò in modo
quasi emblematico l’opposizione fra le due anime del Risorgimento: quella
mazziniano-popolare e quella sabaudo-piemontese. La spedizione dei Mille,
nonostante i proclami di lealtà di Garibaldi a Vittorio Emanuele, fu di chiara
ispirazione mazziniana, sia per gli uomini che la costituirono, sia per il suo
porsi al di fuori della politica diplomatica del Cavour. E del resto Mazzini
aveva raggiunto Garibaldi a Palermo. Se l’impresa avesse potuto raggiungere
indisturbata le mete che si prefiggeva, avrebbe dovuto concludersi con la
convocazione di un’Assemblea Costituente, cui sarebbe spettato di decidere
l’assetto da dare al nuovo Stato nazionale; Garibaldi inoltre non si sarebbe
fermato a Napoli, ma avrebbe proseguito sino alla liberazione di Roma. Timoroso
di questi sviluppi istituzionali e delle complicazioni interne ed estere che
essi potevano portare (la rottura con la Francia), Cavour fece intervenire
l’esercito regio e raccolse politicamente i frutti dell’impresa garibaldina. La
Sicilia, il Napoletano, e le Marche (già appartenenti allo Stato Pontificio)
furono così annesse al Piemonte mediante il solito plebiscito. Roma e il Lazio
rimasero al Pontefice.
k)
1861:
la proclamazione del Regno - Si era costituito un nuovo
Stato: a Torino il primo Parlamento italiano, cui partecipavano rappresentanti
di tutte le regioni annesse, ne prendeva atto, proclamando Vittorio Emanuele II
«per grazia di Dio e volontà della Nazione, Re d’Italia» In un tempo brevissimo
- dall’aprile del ‘59 all’ottobre del ‘60 - si era realizzata l’unità politica
della penisola, spezzata dai tempi dell’invasione longobarda (VI secolo). Vi
concorsero più fattori: la preparazione spirituale di una generazione che
Mazzini aveva formata al culto del sacrificio per la causa nazionale;
l’iniziativa popolare di stampo mazziniano prevalente nella spedizione dei
Mille; la maturazione dell’idea unitaria grazie all’influsso dei pensatori
moderati che avevano reso il problema italiano oggetto di pubblico dibattito;
l’azione politico-militare del Regno di Sardegna e in particolare di Cavour,
che seppe cogliere un complesso di circostanze favorevoli presenti nella
politica internazionale. La soluzione cui si pervenne - la costituzione di un
nuovo Stato, che nasceva per annessione al Piemonte dei territori degli Stati
preesistenti, tramite plebisciti - privilegiava il momento sabaudo.
La proclamazione del nuovo sovrano «per grazia di Dio e per
volontà della Nazione» accentuava questo aspetto, dando la preminenza al
diritto divino sulla designazione popolare; il titolo di «secondo» che Vittorio
Emanuele volle mantenere, mirava a far prevalere il carattere di continuità col
precedente regno sabaudo. Erano fatti che sottolineavano la piemontizzazione dell’Italia, dando
ragione a Mazzini che, al metodo delle annessioni per plebiscito, aveva sempre
contrapposto quello della convocazione di una Assemblea Costituente che
definisse l’assetto istituzionale del nuovo Stato nazionale. Si sarebbe, così,
evitata l’impressione (e il fatto) di una aggregazione dall’esterno, quasi di
una conquista, in luogo di una creazione popolare. E questo fatto avrebbe avuto
le sue conseguenze.
3. Il
Romanticismo -
La civiltà europea della fine del Settecento e di buona parte dell’Ottocento è
caratterizzata da quel grande movimento che va sotto il nome di Romanticismo.
Il Romanticismo
è fenomeno complesso, che ha coinvolto tutte le manifestazioni dei pensiero e
dell’arte e il senso stesso della vita. Ha avuto origine in Inghilterra e di lì
è rapidamente giunto in Germania, dove si è definito nei suoi caratteri
filosofici e nelle sue tendenze letterarie ed artistiche.
Dalla Germania
il movimento romantico si è propagato per tutta Europa e, venendo a contatto
con tradizioni ed esigenze storiche diverse, ha assunto orientamenti differenti
nei diversi Paesi. Benché in esso le tendenze rinnovatrici siano convissute
accanto a spinte reazionarie, tanto che con felice ironia è stato possibile
dire che nel Romanticismo è rinvenibile tutto e il contrario di tutto, tuttavia
le spinte progressiste furono di gran lunga prevalenti in molti Paesi europei e
lo furono, in senso assoluto, in Italia.
Queste sono le
principali linee di tendenza del movimento:
a)
La rivalutazione dei sentimento - Accanto alla
ragione esaltata dagli illuministi i romantici sostengono l’importanza del
sentimento. Anzitutto come mezzo conoscitivo: se il sentimento non può dare
all’uomo una conoscenza esatta e sicura come quella razionale, rappresenta però
il solo strumento che gli consenta di penetrare nelle zone dove non può
giungere la ragione. Inoltre, il sentimento, se a volte genera ansia
frustrante, abbandono al sogno, evasione dalla realtà, più spesso è sentito
come forza di propulsione e stimolo vitale.
b)
L’individualismo - La rivalutazione
del sentimento implica talune importanti conseguenze: ad esempio, il fenomeno
tipicamente romantico dell’individualismo. Mentre la ragione livella,
il sentimento diversifica gli uomini stimolandone gli impulsi, le reazioni,
che, varie da individuo a individuo, ne costituiscono la fisionomia specifica. Fra
le individualità prendono naturalmente spicco, nell’interesse e nell’ammirazione
dei contemporanei, quelle d’eccezione: i grandi artisti, i ribelli, gli eroi.
c)
La religiosità - L’ansia di sondare il senso
della vita e della morte, di sopravvivere oltre i limiti dell’esistenza
terrena, la impossibilità della ragione di rispondere a questi interrogativi e
a queste istanze, porta il sentimento a postulare risposte religiose. La
religiosità è un elemento costante del Romanticismo. Essa si concreta a volte
nell’adesione a religioni rivelate (si pensi alla conversione cattolica del
Manzoni); a volte, invece, si esprime in forme indeterminate e vaghe:
pensiamo, per rimanere in Italia, al Foscolo e alla sua religione laica del
sepolcro e della «memoria» che consente all’uomo una sia pur limitata
sopravvivenza dopo la morte; o alla religione leopardiana dell’infinito, che
esprime l’inappagata ansia del poeta di superare i limiti angusti
dell’esistenza e delle possibilità umane.
d)
Lo storicismo - Col Romanticismo nasce, nei vari
Paesi, il culto per le loro tradizioni storiche; e al recupero del passato si
volgono in questo periodo ricercatori e scrittori. Di qui il fiorire delle ricerche
storiche e la moda dei romanzi, dei drammi, delle liriche,
di argomento storico. I romantici non ignorano che nel passato vi sono
innumerevoli errori da respingere, ma sostengono che vi sono anche importanti
conquiste positive, di cui sì deve tener conto, e che, soprattutto, il passato
costituisce la storia di un popolo, si identifica col complesso di vicende, di
tradizioni, di sofferenze, di gioie che gli abitanti di uno stesso territorio
hanno in comune; è quindi quel popolo, e solo partendo dal suo passato
un popolo potrà conseguire il senso della propria identità. Non per niente
Foscolo, nella introduzione alle sue lezioni all’Università di Pavia, esorta
con calore appassionato gli Italiani allo studio della loro storia. È evidente
che nello storicismo romantico troverà le sue radici il principio della
nazione, che comincia a profilarsi in Italia nell’età napoleonica e che avrà
sviluppo e maturazione nel Risorgimento.
e)
La poetica romantica - In campo
artistico il Romanticismo propugna la libertà dell’artista da tutto
quello che ne condiziona l’ispirazione, e il suo dovere di essere popolare,
cioè di accostarsi al gusto e alla mentalità del popolo e di esercitare fra
il popolo una funzione educativa.
4. Romanticismo
e Risorgimento –
Il Risorgimento europeo, e italiano in particolare, può essere visto come
l’espressione, in campo politico, del più generale movimento romantico. Il
Risorgimento nazionale ha infatti le radici nello storicismo romantico, da cui
nasce il senso della identità specifica dei singoli popoli.
È significativo
il fatto, ad esempio, che Mazzini, per definire il concetto di patria, faccia
appello alla storia, alla tradizione: la patria, egli scrive, non è un
territorio, il territorio non ne è che la base; la patria è l’insieme di
esperienze, di sofferenze, di sentimenti che legano gli abitanti della stessa
terra. E Manzoni rivendica all’Italia il diritto di essere una e libera in
nome non solo dell’unità etnica della sua gente, ma dell’unità delle sue
tradizioni:
«una
d’arme, di lingua, d’altare,
di
memorie, di sangue, di cor».
Oltre al
sentimento dell’identità nazionale, e la conseguente spinta alla liberazione
dallo straniero, il Risorgimento deriva dal Romanticismo altri fondamentali
caratteri:
1
la
fiducia nelle forze della volontà e del sentimento capaci di «muovere le
montagne» (donde le imprese temerarie, gli scontri impari sostenuti con
impavido coraggio);
2
la
convinzione che la storia è governata da una provvidenza
«Ma se il popolo
si desta
Dio si mette
alla sua testa,
la sua folgore
gli da»
scrive Mameli;
3
il
fascino per le figure di eccezionale rilievo (donde l’atmosfera mitica ed eroizzante
che avvolge i personaggi-guida del Risorgimento, Garibaldi soprattutto, ma
anche Mazzini, Cavour, e i martiri delle varie imprese).
Questa
convergenza di Romanticismo e di Risorgimento ha i suoi riflessi nell’arte:
nella musica, nella pittura, e soprattutto nella letteratura.
La letteratura
italiana dell’età romantica fu per eccellenza letteratura «impegnata». Dalla
maggior parte degli scrittori di questo periodo essa fu considerata come mezzo
per intervenire nell’azione politica e sociale, per orientarla e stimolarla.
Furono penetrati di spiriti patriottici tutti i «generi letterari», dal romanzo
al teatro, dalle opere autobiografiche al giornalismo, alla poesia. Le liriche
patriottiche furono a volte veri canti di guerra e di rivolta, come l’inno
di Mameli ai «fratelli d’Italia», o le poesie di Berchet, cariche dell’odio
antiaustriaco maturato negli esili, nelle carceri, presso i patiboli dei
compagni di fede. A volte, invece, come nel caso di Manzoni, pur nella loro
appassionata partecipazione alla contemporanea realtà politica, assursero ad
alte meditazioni che inserivano il problema della libertà e dell’unità d’Italia
nel più vasto problema della giustizia fra gli uomini.
Del resto, molti
scrittori e poeti romantici furono essi stessi combattenti e cospiratori. Per
fare solo alcuni esempi fra i più famosi, Mameli morì nel 1849 difendendo la
Repubblica Romana; Berchet e Pellico patirono rispettivamente esilio e
prigionia; Nievo fu dei Mille di Garibaldi; Tommaseo fu l’anima della difesa di
Venezia nel 1849.
La
identificazione di patriota e di romantico a un certo punto fu così stretta da
consentire a Pellico di dire: «romantico fu riconosciuto per sinonimo di
liberale, né più osarono dirsi classicisti [cioè antiromantici]
fuorché gli ultra e le spie».
5. Liberalismo e
liberismo -
L’ideologia che sta alla base del movimento risorgimentale è il liberalismo,
che si può sinteticamente riassumere nelle richieste di libertà e di
indipendenza.
Per libertà si
intendeva il regime costituzionale e l’insieme di garanzie che esso assicurava:
partecipazione dei cittadini (o almeno della parte di essi che sola si
considerava adeguatamente preparata) al governo dello Stato; uguaglianza dei
cittadini di fronte alla legge; difesa dell’individuo dall’arbitrio del potere
statale; libertà di espressione a cominciare dalla libertà di stampa.
L’indipendenza era invece
identificata con l’autodecisione dei popoli, i quali, presa coscienza della
loro identità nazionale, non intendevano più tollerare dominazioni straniere.
La richiesta di
indipendenza in Italia si tradurrà praticamente nella prospettiva di cacciare
dalla penisola l’Austria, considerata il baluardo della reazione e il più grave
ostacolo alla conquista delle libertà costituzionali.
Successivamente
si andrà sempre più affermando la convinzione che i due problemi tra loro
connessi della libertà e dell’indipendenza si legavano a quello
dell’unificazione politica della penisola. Anticipando i tempi, già nel ‘21,
Manzoni proclamava: «Liberi non sarem se non siam uni». Sarà questo lo sbocco
delle lotte, non sempre concordi, dei liberali italiani.
Alla ideologia
politica del liberalismo si accompagnava coerentemente la dottrina economica
del liberismo. Fiduciosa nella capacità di autoregolazione delle forze
economiche, che si pensava portassero ad un effettivo progresso globale, tale
dottrina sosteneva che lo Stato doveva lasciare libero campo all’iniziativa
privata, non interferendo, con regolamentazioni e dazi protettivi, sul libero
sviluppo dell’economia. «Lasciate fare» è il motto dell’economia liberista.
6. L’ascesa
della borghesia in Italia – La borghesia è la classe sociale protagonista dei
nuovi tempi, quella che cerca, in ogni modo, di mutare l’assetto politico e
sociale, in senso liberale.
In Italia essa è
ancora allo stato nascente; agli inizi, ad operare sono piccole avanguardie che
mirano a sensibilizzare quello che esse chiamano il popolo, costituito
da possidenti, professionisti e commercianti, che cercano alleanze con gli
artigiani e, solo più tardi e marginalmente, col proletariato urbano.
Nella prima metà
dell’800 sino alla costituzione del regno nel 1861, la borghesia si viene
rafforzando grazie alla progressiva crescita dell’economia italiana. Nel
contempo, l’opera chiarificatrice e stimolante di alcuni pensatori ne determina
un sempre maggior coinvolgimento nella trasformazione delle istituzioni
(esemplare è la funzione esercitata dal pensiero di Mazzini, di Gioberti, di
D’Azeglio, di Cattaneo, di Balbo, ecc.).
Lo Stato
costituzionale, che rappresenta il punto di arrivo di tale trasformazione, costituirà
anche lo strumento dell’ulteriore affermazione e sviluppo della borghesia.
7. Alla
rivoluzione nazionale non seguì la rivoluzione sociale - L’Italia, in
questo periodo, è ancora ai margini della rivoluzione industriale. La sua
economia, infatti, è ancora quasi esclusivamente una economia rurale che, per
mancanza di investimenti, fruisce scarsamente dei processi di modernizzazione
tecnica.
È vero che,
parlando dell’economia in Italia, bisogna tener presente la grande diversità
delle situazioni delle varie parti della penisola, diversità che ha le due
espressioni estreme nell’Italia settentrionale (in particolare Lombardia e
Piemonte) e nel Sud.
Nell’Italia
settentrionale, e in Toscana, già nel Settecento l’agricoltura, anche per
l’impulso dato ad essa da intellettuali (membri di Accademie e Associazioni
agrarie) si era avvantaggiata dell’introduzione di innovazioni tecniche
(bonifiche e irrigazioni) e della conseguente razionalizzazione delle colture.
Nel Sud, invece,
dopo qualche tentativo di rinnovamento che rimase senza seguito, la situazione
ristagnò, e il quadro era dominato dalla presenza schiacciante del latifondo.
Il proprietario, appartenente di solito all’aristocrazia, non era interessato
ad uno sfruttamento intensivo delle sue terre, che spesso rimanevano
semincolte.
L’industria
aveva uno sviluppo molto limitato e predominava ancora la forma di produzione
artigianale. Di conseguenza, in questi anni non esisteva in Italia un proletariato
operaio urbano; quello italiano era sostanzialmente un proletariato agricolo.
Si trattava di una massa di contadini che costituiva la quasi totalità della
popolazione.
La condizione di
questi ultimi era, in generale, molto dura, anche se bisogna ancora una volta
distinguere tra regione e regione. Era una condizione caratterizzata da una
diffusa indigenza, da insufficiente alimentazione, dallo squallore delle
abitazioni, dalla costante presenza di malattie endemiche derivate da carenze
alimentari ed igieniche, dall’ignoranza aggravata dall’analfabetismo diffuso.
Né la rivoluzione
nazionale, cioè la costituzione del regno nazionale unitario, contribuì a
mutarne le condizioni. Diversamente dalle diffuse speranze suscitate nelle
masse contadine, ad essa non si accompagnò la rivoluzione sociale, per
cui i contadini, delusi, o si ripiegarono su se stessi assumendo un
atteggiamento di indifferenza, o esplosero in furiose rivolte. Significative,
in questo senso, le testimonianze, qui riportate, dell’Abba, del Nievo, e
l’episodio di violenza e di sangue che ebbe luogo a Bronte in Sicilia.
Questa
situazione di estrema indigenza risultava aggravata dalla sua immobilità,
derivante da più cause:
a) il
disinteresse per una migliore condizione contadina da parte della classe
borghese impegnata a realizzare i propri progetti politici ed economici e timorosa
di sbocchi socialistici;
b) la mancanza di
organizzazione delle grandi masse rurali, che le privava di ogni forza
politica;
c) la
sovrabbondanza di manodopera, che consentiva alla borghesia di imporre salari
al limite della pura sussistenza.
8. Iniziative
culturali per il popolo - La situazione delle masse popolari era
caratterizzata da una diffusa ignoranza denunciata da una elevata percentuale
di analfabetismo. Alcuni tentativi per modificarla furono fatti dai pensatori
liberali, preoccupati di adeguare l’istruzione del popolo alle esigenze
tecniche richieste dal progresso nell’agricoltura e nell’industria, e timorosi
che le condizioni di ignoranza delle plebi, unite alle tristi condizioni di
vita, favorissero la diffusione del
comunismo, il cui spettro si aggirava in Europa dopo le rivoluzioni del
1830 e del 1848. Le iniziative in questo senso consistettero fondamentalmente
nella creazione di istituti per incrementare l’istruzione, sia a livello di
istruzione elementare, sia a livello di specializzazione professionale, ad
integrazione della insufficiente struttura scolastica ufficiale.
Esse furono più
diffuse nelle regioni più progredite: nella Lombardia, nel Regno di Sardegna,
in Toscana. Nel Mezzogiorno, invece, caratterizzato dalla assoluta mancanza di
una struttura scolastica popolare, iniziative di questo tipo non ebbero le
condizioni per nascere e svilupparsi. E fu un altro elemento che aggravò il
distacco fra Nord e Sud.
La stampa
popolare - e vi riuscì nei limiti consentiti dalla scarsa alfabetizzazione -
mirò al progresso sociale e culturale delle masse: giornali, fogli ed almanacchi,
che trattavano temi e problemi relativi al mondo della produzione agricola
e industriale e alle condizioni di vita delle classi proletarie.
Infine, non va
dimenticata l’opera, significativa per gli sviluppi futuri, anche se al momento
assai limitata, delle Società di mutuo soccorso, che si proponevano il
miglioramento delle condizioni retributivo-contrattuali e anche culturali degli
operai e dei contadini.
9. L’intellettuale
e la formazione dell’opinione pubblica - Se nel Risorgimento la
letteratura e la poesia erano concepite come impegno civile, come mezzo per
maturare il popolo alla coscienza nazionale, le scarne ma vivissime pattuglie
dell’intellighenzia liberale disposero anche di uno strumento più
diretto e più efficace per agire sull’opinione pubblica: il giornale e la
rivista.
Giornali e
riviste, che avevano preso piede in Italia per l’impulso degli illuministi miranti
a divulgare un sapere concreto, volto a incidere sulla realtà sociale, ebbero
una intensa e appassionata fioritura nell’età romantico-risorgimentale, e
consentirono agli intellettuali progressisti di compiere un’opera penetrante
nell’opinione pubblica, in modo da orientarla in senso nazionale, e stimolarla
alla costituzione e al rafforzamento di una società borghese.
Il pubblico, già
esercitato da giornali e riviste ad affrontare con prospettiva nazionale e di
trasformazione civile i problemi concreti dell’economia (in primo piano
dell’agricoltura), della tecnica, dell’industria, dell’educazione, del diritto,
della lingua, sarà disponibile e preparato - specie quando le proposte
neoguelfe e filosabaude creeranno il clima favorevole a questo tipo di
dibattito - ad affrontare i problemi schiettamente politici delle istituzioni
liberali (costituzione, rappresentatività, libertà di stampa ecc.),
dell’indipendenza, dell’unità.
Non dobbiamo
tuttavia dimenticare che si trattò pur sempre di un’opinione pubblica limitata
ad una cerchia molto ristretta, i cui confini erano segnati dal saper leggere,
il quale a sua volta era connesso alla condizione sociale e a un almeno
relativo benessere economico. Perciò, non ne partecipavano le grandi masse
proletarie, specie contadine, chiuse nel dramma della loro miseria e
dell’analfabetismo.
10 La
letteratura – Alcuni elementi tipici della nuova sensibilità romantica in
Italia si possono già trovare in Ugo
Foscolo, sebbene però risultino in parte legati alla corrente del Neoclassicismo. Un'altra estensione
dell'ideale letterario a fatto politico e sociale della rinascita dell'Italia
si ebbe con Vittorio Alfieri (1749-1803), che diede inizio a quel
filone letterario e politico risorgimentale che si sviluppò nei primi decenni
del XIX secolo.
La data vera e propria di inizio del
Romanticismo italiano è il 1816:
nel gennaio di tale anno,
infatti, Madame de Staël pubblicò nella Biblioteca Italiana un articolo (Sulla maniera e
utilità delle traduzioni) nel quale invitava gli italiani a conoscere e
tradurre le letterature straniere come mezzo per rinnovare la propria cultura.
Inoltre, sempre nello stesso anno, Giovanni Berchet scrisse quello che poi divenne il
manifesto del Romanticismo letterario italiano: la Lettera semiseria di Grisostomo al
suo figliolo, nella quale si esalta la nuova corrente letteraria e si deridono i canoni del
Classicismo (per questo l'opera è definita semiseria).
Successivamente alcuni letterati si
staccarono dalla Biblioteca
Italiana, rivista a carattere conservatore, e fondarono nel 1818 il Conciliatore,
rivista diretta da Silvio Pellico con Ludovico
Di Breme, Pietro Borsieri, Giovanni Berchet e Ermes
Visconti. Il Conciliatore si proponeva di "conciliare"
ricerca tecnico-scientifica con letteratura, sia illuminista che romantica, con
pensiero laico e con il cattolicesimo. La rivista fu però chiusa nel 1819 per
ordine degli austriaci.
Nel complesso il Romanticismo italiano fu
soprattutto l'espressione del nuovo ambiente storico e sociale della borghesia, come si era sviluppato,
specie in Lombardia, durante la Rivoluzione francese, in cui si
esprimevano quelle esigenze di nazionalità e popolarismo che contraddistinsero
quest'epoca rispetto alle precedenti esperienze settecentesche.
a)
I giornali - Quella che nel
Settecento è stata definita «prosa di pensiero» confluisce nei giornali. Alcuni
di questi si presentano come fascicoli composti di parecchie pagine (ad
esempio «La Biblioteca italiana» usciva ogni mese in fascicoli di circa 150
pagine, «L’Antologia», anch’essa mensile, di 150-200 pagine) e possono
pertanto ospitare articoli che hanno la consistenza di piccoli saggi, mentre
gli interventi più strettamente legati a una situazione, magari d’intonazione
polemica, trovano posto in fogli che escono con una maggiore frequenza,
solitamente settimanali. Nei primi cinquant’anni del secolo nacquero molte
nuove testate; il fenomeno non è limitato agli Stati italiani più avanzati, ma
interessa anche zone fino ad ora ai margini del dibattito culturale. Il
carattere che accomuna una produzione per altri versi assai diversificata è la
matrice politica. Naturalmente i contenuti politici sono mediati e i temi
affrontati possono dirsi politici solo in senso lato; tuttavia si deve
riconoscere che il giornalismo del primo Ottocento ebbe piena consapevolezza
del compito di dare voce ai processi culturali e sociali in atto e si attribuì
la funzione di «formare opinione», di indirizzare e organizzare le conoscenze
dei lettori. E in effetti riuscì ad avere un ruolo significativo, nonostante
la censura che, soprattutto nel Lombardo-Veneto, imponeva dei limiti oggettivi
alla stampa e la costringeva a trovare strade indirette per compiere battaglie
di opposizione. Inoltre la presenza della componente politica e ideologica
favorì la trasformazione di giornali e gazzette in punti di riferimento per
gruppi intellettuali che perseguivano finalità comuni. Il fenomeno fu più
marcato nei periodici di maggior impegno culturale che rappresentavano anche
uno schieramento politico, ci riferiamo alla «Biblioteca italiana» caldeggiata
dal governo austriaco, al «Politecnico» fondato e diretto da Carlo Cattaneo,
alla «Antologia» voce del gruppo liberale fiorentino, e soprattutto al
«Conciliatore» fondato a Milano nel 1818 e chiuso per problemi con la censura
nel 1819. L’esperienza dei fondatori del «Conciliatore», le battaglie che furono
condotte dalle sue pagine per la difesa delle idee romantiche, del romanzo, per
la diffusione dell’istruzione, l’ammodernamento dell’agricoltura, ne fanno
un’efficace espressione del clima culturale e delle istanze politiche degli
intellettuali romantici milanesi. Oltre a questo «Il Conciliatore», per il tono
dei suoi articoli e per l’attenzione alla divulgazione, costituì un esempio di
prosa rivolta a un pubblico ampio, digiuno di competenze specifiche intorno
agli argomenti trattati.
b)
Il trattato - I trattati di
argomento letterario-retorico appaiono in declino mentre, l’ideologia,
l’economia, la storia sono i temi che maggiormente attirano l’attenzione di
scrittori e intellettuali. Ma un posto di assoluta preminenza è occupato dalla
politica: le questioni politico-ideologiche assorbirono quasi completamente
l’impegno degli intellettuali e degli scrittori di trattati, che furono
espressione di tutte le posizioni ideologiche interne al movimento
risorgimentale e costituirono strumento assai rilevante nello scontro tra i
diversi gruppi di opinione. Ad esempio, lo schieramento cattolico moderato ebbe
un punto di riferimento in un trattato famosissimo, Del primato civile e
morale degli italiani di Vincenzo Gioberti, gli ideali cavouriani
trovarono espressione nelle opere di Massimo D’Azeglio, e Giuseppe Mazzini
diffuse l’ideale repubblicano e unitario non solo attraverso i giornali, ma
anche in opuscoli e trattati, mentre sono espressione della corrente
democratica gli scritti di Carlo Cattaneo e il saggio di Carlo Pisacane, La
rivoluzione.
c)
Le memorie - Nella prima
metà dell’Ottocento gli scritti di memorie abbondano; molti di questi nacquero
dalla volontà di testimoniare la propria partecipazione e il proprio
contributo ad avvenimenti storici che unanimemente furono sentiti come
straordinari, siano essi legati alla rivoluzione o alle guerre d’indipendenza o
all’impresa dei Mille. Così ampia è la produzione di patrioti che seguirono
Garibaldi che si parla di letteratura garibaldina come di un fenomeno
letterario ben definito. Fra questi scrittori Giuseppe Cesare Abba, autore
delle Noterelle di uno dei Mille. Tuttavia il libro più importante
nell’ambito delle memorie del primo Ottocento restano Le mie prigioni di
Silvio Pellico.
d)
Il romanzo
- È il genere letterario per il
quale più ampia era stata la «distanza» fra l’Italia e l’Europa del
Settecento: si può parlare di un vero ritardo culturale, determinato sia da
situazioni sociologiche (scarsità del pubblico di lettori borghesi, debolezza
dell’industria editoriale, ecc,), sia dalla forza di pregiudizi da parte
di letterati che ritenevano il romanzo un genere minore, un ibrido non ben
definito, dalle riserve di intellettuali, ecclesiastici che ne indicavano la
«pericolosità». Soltanto alle soglie dell’Ottocento compaiono le Ultime
lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, il primo romanzo che è
tradizionalmente accolto nella nostra storia letteraria.
Una delle caratteristiche del romanzo moderno ed una delle
caratteristiche del Romanticismo è il valore conferito alla storia. All’inizio
del XIX secolo la letteratura inglese fu dominata da Walter Scott, divenuto
celebre con romanzi fra i quali Ivanhoe del 1820, con cui Scott diede
avvio al romanzo storico, il genere più diffuso nei primi decenni
dell’Ottocento e con il quale quasi tutti i massimi scrittori europei, fino al
1860 circa, vi si cimentarono.
Nel momento in cui in Italia si accese la disputa italiana fra classicisti
e romantici, questi ultimi indicarono proprio nel romanzo uno dei segnali più importanti del rinnovamento letterario ed anche l’Italia fu coinvolta nell’ondata della moda e
dell’interesse per il romanzo storico; anche
in Italia esso ebbe molto successo.
Il romanzo
storico soddisfaceva le esigenze più vive del Romanticismo: comporre un'opera
utile al popolo e, nello stesso tempo, rappresentare la realtà, il vero. In questo clima culturale nacquero I Promessi Sposi di
Alessandro Manzoni, l’opera che fece
compiere un salto qualitativo eccezionale al nostro romanzo. Il romanzo
di Manzoni, di enorme portata innovativa per la scelta tematica di una vicenda
che mette in scena personaggi umili, vessati dai soprusi dei potenti, e per il
fondamentale lavoro di ricerca linguistica, si colloca come capostipite di
tutta la tradizione romanzesca della letteratura italiana. La vicenda privata
di Renzo e Lucia è narrata sullo sfondo delle vicende di tutto un paese e di
tutto un popolo. La poetica romanzesca è nuova e si fonda su tre cardini: il
vero come oggetto, l'interessante come mezzo, l'utile come scopo.
A differenza dei romanzi storici di Walter Scott, ne I Promessi Sposi
non vi è gusto per il romanzesco e il tema amoroso non è approfondito, mentre
vi è più gusto per l'analisi psicologica dei personaggi.
Gli epigoni di Manzoni
finirono con l'esasperare eccessivamente le caratteristiche, cadendo
nell'esplicita propaganda politica e patriottica, o facendo degenerare il
realismo nel fotografico. Le vicende narrate avevano la propria origine,
spesso, nel Medioevo, epoca in cui si pensava di poter ritrovare i primi germi
della futura nazione italiana. Dopo Manzoni, il romanzo storico non diede, in
Italia, risultati rilevanti: sul modello
manzoniano si scrissero molti romanzi storici che tuttavia rimasero a
un livello del tutto modesto.
Popolari furono i suoi romanzi
storico-patriottici di Massimo d’Azeglio: Ettore Fieramosca o La disfida di
Barletta (1833), Nicolò de’Lapi (1841), caratterizzati da velocità
di ritmo narrativo, disegno vivace di ambienti e figure, abile alternanza di
elementi patetici e grotteschi, tragici e moderatamente comici: nel complesso
però si tratta di romanzi di maniera. Sempre in ambiente lombardo fu Tommaso
Grossi che nel 1834 pubblicò il romanzo storico Marco Visconti romanzo
che riflette il suo un temperamento inquieto, incline al visionarismo del
romanticismo appassionato, ma anche sensibile alle esigenze di compostezza e
decoro formale.
Ci
furono anche autori che intrapresero strade
diverse da quella del romanzo storico scrivendo opere sostanzialmente irrisolte:
1.
Fede e bellezza di Niccolò
Tommaseo racconta la storia di Giovanni e Maria che si confidano il loro
passato, le loro esperienze amorose: i due si sposano, continuando a
confidarsi, anche durante il matrimonio, ogni più piccolo moto dell'anima.
Giovanni viene ferito durante un duello, guarisce, soltanto per vedersi morire
fra le braccia Maria, uccisa dalla tisi. La narrazione è complessa, condotta
attraverso rievocazioni o pagine di diario. Il romanzo riflette la personalità
dell'autore, combattuto da una sensualità congenita e un'aspirazione alla
purezza, che gli deriva dalla profonda religiosità. Si oscilla fra misticismo
ed erotismo, senso del peccato e fede contrastata. Con Fede e bellezza ci si
sposta dall'analisi della realtà esterna all'analisi della realtà interiore
dell'uomo. Possiamo finalmente parlare di romanzo psicologico compiuto.
2.
Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, un’opera che contiene elementi di novità e soluzioni apprezzabili, pubblicata
postuma nel 1867, ma scritta negli anni 1857-1858 diede voce alla coscienza
nazionale innestando elementi tipici del romanzo
di formazione, in un vasto affresco dell’Italia tra la fine della
Repubblica di Venezia e il 1856.
3.
Cento anni di Giuseppe Rovani, apparso sulla Gazzetta
di Milano tra il 1857 e il 1858. Cento anni è un originalissimo
affresco della vita milanese sotto la dominazione austriaca. Il romanzo,
alternando un vivace cronachismo e un impulso antistoricistico, è ispirato
all’idoleggiamento dell’età giovanile come stagione della felice libertà
individuale e al conseguente dissidio causato dal contatto con il mondo adulto.
Alla forma del romanzo storico e d’analisi risponde un ibridismo linguistico
del tutto nuovo e una sensibilità decadente ed anticonformista, assolutamente ante
litteram. Rovani, storico e letterato lombardo, è modello e precursore
della generazione successiva, quella della Scapigliatura.
f) La lirica - Nella storia
della poesia lirica i decenni tra la fine del Settecento e l’inizio del nuovo
secolo non segnano mutamenti di rilievo: la poesia celebra gli eventi, grandi e
piccoli, continua ad essere momento e occasione di vita sociale nelle accademie.
Nello stesso tempo conservano vitalità le suggestioni della poesia notturna e
sepolcrale sull’esempio della lirica d’oltralpe. In questo panorama si alza la
voce altissima e originale di Ugo Foscolo, il quale riassume in sé le diverse
istanze della cultura settecentesca. Negli stessi anni ha grande successo la
poesia di Vincenzo Monti che si rifà alle idee e al gusto del neoclassicismo.
L’affermazione
del romanticismo coincide con una produzione lirica di modesto valore: le
novità investono tutti gli aspetti del far poesia, ma la nostra lirica non
riesce a liberarsi quasi mai dal retaggio di un linguaggio accademico, aulico,
«vecchio».
Solitaria e inimitabile
è la figura e l’opera di Giacomo Leopardi.
Un’esperienza di
qualità rilevante nella nostra letteratura di primo Ottocento, la poesia in
dialetto, trovò due interpreti eccezionali nel milanese Carlo Porta e nel
romano Giuseppe Gioachino Belli.
11. Alessandro
Manzoni – Uno dei maggiori autori della letteratura italiana,
Alessandro Manzoni è anche l’esponente più importante del Romanticismo italiano.
Autore di molte opere, Manzoni vive il rapporto con il suo tempo
interpretandone gli ideali e l’impegno morale, sempre teso alla ricerca di una
lingua viva.
a) La vita - Alessandro
Manzoni nasce a Milano il 7 marzo 1785, unico figlio di Giulia Beccaria e del conte
Pietro Manzoni (ma probabilmente il padre naturale fu il minore dei fratelli
Verri, Giovanni). La madre era figlia di Cesare
Beccaria. Un’infanzia e una fanciullezza passate tra balie e collegi con i
genitori distanti o assenti e la disciplina chiusa e un po’ ottusa degli
educatori (prima i frati barnabiti, poi i frati somaschi), mentre Napoleone
diffonde per l’Europa gli ideali della Rivoluzione francese, spingono il
giovane Manzoni ad accogliere le idee giacobine e anticlericali, registrate fedelmente
nel poemetto Il trionfo della
libertà del 1801.
L’uscita dal collegio nel 1801 rappresenta una svolta, perché
permette a Manzoni di entrare in contatto con l’ambiente culturale milanese.
L’incontro con Vincenzo Monti gli fa conoscere la poesia neoclassica, mentre
quello con Vincenzo Cuoco lo mette in contatto con l’ala liberale e moderata
del Risorgimento italiano, che sosteneva la necessità di privilegiare la via
delle riforme rispetto ai metodi rivoluzionari e che eserciterà una notevole
influenza su Manzoni, spingendolo ad attenuare il radicalismo dell’adolescenza.
Del 1803 è l’idillio Adda, una delle
prove più riuscite del suo neoclassicismo.
Nel 1805 Manzoni giunge a Parigi, accogliendo l’invito della
madre e del conte Imbonati, con il quale Giulia conviveva da diversi anni dopo
aver divorziato dal marito nel 1792. Imbonati, amico dei fratelli Verri e di
altri intellettuali milanesi, muore però poco prima dell’arrivo di Manzoni, che
ne onora la memoria con un componimento in endecasillabi sciolti intitolato Carme in morte di Carlo
Imbonati.
Tornato nel 1807 a Milano per la morte del padre, Manzoni
conosce Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere ginevrino. Il matrimonio è
celebrato con rito calvinista nel 1808.
Dal 1807 al 1808 Manzoni risiede tra Milano e Brusuglio, in
Brianza, poi torna con la madre e la moglie a Parigi, dove nasce la prima
figlia, Giulia Claudia, ma nel 1810 è di nuovo in Lombardia. Del 1809 è la
pubblicazione del poemetto neoclassico Urania (dedicato a una delle nove muse), in
cui viene esaltata la funzione civilizzatrice della poesia. Ma si tratta
dell’ultima opera neoclassica di Manzoni, che ormai si orienta sempre più verso
un ben diverso orizzonte ideologico e poetico. In questi anni matura infatti la
conversione religiosa dello scrittore, il quale, anche in seguito a lunghe
conversazioni con religiosi di ispirazione giansenista, approda a un
cattolicesimo estremamente severo e rigoroso.
Nel 1810 celebra il matrimonio secondo il rito cattolico con
Enrichetta che abiura il calvinismo.
Del 1812 è il progetto degli Inni
sacri, che avrebbe dovuto comprendere dodici poesie dedicate alle
principali festività cristiane. In realtà, furono composti soltanto cinque
inni: i primi quattro (La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale e La
Passione) furono pubblicati nel 1815, mentre La Pentecoste, abbozzata per
la prima volta nel 1817, fu completata nel 1822.
Dal 1811 Manzoni vive tra il palazzo milanese di piazza
Belgioioso e la villa di Brusuglio. Intensi restano però i rapporti con gli
intellettuali parigini, che si concretizzano in nutriti scambi epistolari,
soprattutto con Claude Fauriel, e in un nuovo soggiorno a Parigi tra il 1819 e
il 1820. La famiglia intanto è sempre più numerosa: dopo Giulia (1808), nascono
Pietro (1813), Cristina (1815), Sofia (1817), Enrico (1819) e Clara (1821), che
muore a due anni. Sarebbero poi nati Vittoria (1822), Filippo (1826) e Matilde
(1830).
Tra il 1816 e il 1820, con diverse interruzioni dovute alla
stesura di altre opere, si colloca la composizione della tragedia Il conte di Carmagnola, seguita
dalla Lettera al critico francese Chauvet, in cui Manzoni difende le sue
scelte anticlassiciste e spiega le ragioni della propria adesione al
romanticismo. Dopo le Osservazioni
sulla morale cattolica del 1819,
nel 1820 Manzoni comincia la stesura di una nuova tragedia, Adelchi, ambientata al tempo
della caduta del regno longobardo in Italia a opera dei franchi e pubblicata
nel 1822 insieme al Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in
Italia.
Sono anni di ininterrotto fervore creativo: le opere e i
progetti si succedono gli uni agli altri senza che i precedenti siano stati
terminati. Il 1821 è l’anno di composizione delle due odi civili Marzo 1821 e Il
cinque maggio, che danno voce, rispettivamente, alle speranze presto deluse
per il rapido raggiungimento dell’indipendenza italiana e a un bilancio, in
chiave cristiana, della vicenda terrena di Napoleone, protagonista degli eventi
storici accaduti durante la giovinezza dello scrittore.
Dall’aprile 1821 al settembre 1823 Manzoni si dedica alla
composizione di un romanzo storico. Appena terminata la prima stesura del
romanzo, oggi indicata come Fermo e Lucia,
comincia un’impegnativa opera di rifacimento strutturale e di riscrittura
linguistica, coronata dalla pubblicazione dei Promessi
sposi nel 1827 (la cosiddetta
edizione "ventisettana"). L’autore però, insoddisfatto della veste
linguistica dell’opera, compie nello stesso anno, con tutta la famiglia, un
viaggio in Toscana, con l’obiettivo di studiare dal vivo il linguaggio toscano
e soprattutto il fiorentino. Il fiorentino parlato dalle persone colte – cioè,
un dialetto distillato letterariamente – sarà il modello di riferimento della
seconda edizione del romanzo, pubblicata, dopo lunghi studi e un’attenta
revisione, tra il 1840 e il 1842. Insieme all’edizione definitiva dei Promessi sposi compare, completamente rifatta
rispetto a una prima stesura mai data alle stampe, la Storia della colonna infame un testo di carattere saggistico
in cui l’autore affronta il tema della giustizia ricostruendo un processo
avvenuto nel 1630, ai tempi della peste a Milano.
La stagione creativa di Manzoni romanziere si chiude nel 1827;
la successiva revisione dei Promessi
sposi sarà infatti soltanto
linguistica e la Storia della
colonna infame può essere considerata un’opera storiografica. Alla base di
questa rinuncia sta il rifiuto, maturato in sede teorica, del romanzo storico.
Come si legge nel saggio Del
romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione (elaborato
intorno al 1830 e pubblicato, dopo numerose revisioni, nel 1850), il romanzo
storico è per Manzoni un genere ibrido e incoerente, che non rispetta la storia
e anzi la falsifica con elementi romanzeschi. Il romanzo storico, inoltre, non
gode più, a parere di Manzoni, del successo di pubblico che aveva ai tempi di
Walter Scott e ha pertanto perduto efficacia come forma di letteratura
divulgativa.
Effettivamente, in Europa la fortuna del romanzo storico stava
declinando: Stendhal, Balzac e poi Flaubert avrebbero attinto il materiale per
i loro romanzi dal presente, ossia dall’attualità osservata e studiata con uno
sguardo attento alle relazioni fra l’individuo, le dinamiche sociali e gli
avvenimenti storici.
La vita familiare di Manzoni, a partire dagli anni Trenta, si
fa sempre più cupa. La moglie Enrichetta Blondel muore dopo anni di malattia il
giorno di Natale del 1833. La prima figlia, Giulia, dopo alcuni anni di
infelice vita coniugale (il matrimonio con Massimo D’Azeglio era stato praticamente imposto dai
familiari), muore nel 1834, lasciando una figlia di un anno. Altre tre figlie –
Cristina, Sofia e Matilde – muoiono tra il 1841 e il 1856. I figli Enrico e
Filippo, poi, sono una fonte continua di dispiaceri, a causa della loro vita
dissoluta fra debiti e carcere. Filippo sarebbe morto nel 1868. Dei dieci figli
soltanto Enrico e Vittoria sopravviveranno al padre.
Nel 1837 Manzoni, non sentendosi in grado di badare alla
numerosa famiglia e vivamente consigliato dai parenti, si risposa con Teresa
Borri vedova Stampa. Ospite spesso del figlio di Teresa, Stefano Stampa, a
Lesa, in una villa sul lago Maggiore, frequenta il sacerdote e filosofo Antonio
Rosmini, che dirige nella vicina Stresa il suo Istituto della Carità.
All’influenza di Rosmini si deve la composizione del trattato Dell’invenzione del 1850, centrato su un’idea
fondamentale della poetica manzoniana: il poeta non crea ma
"inventa", nel senso latino del termine, cioè "trova" la
poesia che è già nella realtà. Rosmini, di dodici anni più giovane di Manzoni,
muore nel 1855. Nel 1853 era morto un altro caro amico, Tommaso Grossi, e nel
1861 scomparirà anche la seconda moglie.
In questa seconda fase della vita dello scrittore, la vena
poetica manzoniana sembra quasi completamente inaridita. Degli inni Il Natale del 1833 (che non va confuso con l’inno sacro Il Natale) e Ognissanti, ultimi tentativi di
meditazione religiosa in forma poetica, restano solo frammenti. Il Natale del 1833 cerca di risolvere in chiave cristiana
il mistero della morte di Enrichetta Blondel, ma la parola poetica si arresta
di fronte alla visione terribile della divinità: "Mentre a stornar la
folgore / trepido il prego ascende / sorda la folgor scende / dove tu vuoi
ferir!" (i frammenti sono datati 14 marzo 1835). L’inno Ognissanti, ideato intorno al
1830 e solo in parte realizzato nel 1847, è dedicato alle esistenze votate a
Dio, che vivono nello spazio di una preghiera e muoiono in un sogno di santità.
Dopo questo ultimo tentativo, il tempo della poesia sembra chiudersi sulla
tragica consapevolezza della lontananza di Dio dalla vita e dalla storia.
Proseguono nel frattempo gli studi linguistici, che hanno
tenuto costantemente impegnato lo scrittore a partire dagli anni Trenta, tanto
da essere sintetizzati nella formula "l’eterno lavoro sulla lingua".
Tali studi, culminanti nello strenuo lavoro di revisione linguistica dei Promessi sposi, mirano
soprattutto a contribuire all’unità linguistica italiana. Il lavoro sulla
lingua si traduce anche in intervento politico quando, nel 1868, Manzoni
accetta di presiedere una commissione ministeriale incaricata di formulare
progetti per diffondere in tutte le classi sociali la conoscenza della lingua
italiana. Gli studi linguistici sono in questo periodo interrotti soltanto da
quelli storici. La principale opera storica intrapresa da Manzoni è La Rivoluzione francese del 1789 e
la Rivoluzione italiana del 1859, dove la prima rivoluzione è considerata
illegittima e distruttiva perché mossa da folle violente di facinorosi che
rappresentano soltanto una piccola parte della nazione francese, mentre la
seconda è vista come legittima e costruttiva perché moderata e sostenuta dalla
volontà dell’intera nazione italiana.
Il 6 febbraio 1873, andando a messa nella chiesa milanese di
San Fedele, Manzoni cade sui gradini, batte la fronte e torna a casa
insanguinato. Da allora la sua mente non è più lucida e il decadimento fisico
procede rapidamente. Le sue condizioni si aggravano quando il figlio Pietro,
presso il quale lo scrittore abita negli ultimi anni, si ammala gravemente.
Nonostante la notizia della morte di Pietro, avvenuta il 24 aprile, gli sia
tenuta nascosta, l’assenza del figlio torna negli incubi dello scrittore, che
confonde le immagini della malattia con le memorie dell’epoca del Terrore,
oggetto delle sue letture e dei suoi studi.
Il 22 maggio 1873 Manzoni muore a Milano.
b) Il
«cattolicesimo democratico» del Manzoni - L’incontro giovanile con
l’Illuminismo prima a Milano poi a Parigi concorse in grande misura ad
orientare il cattolicesimo manzoniano. Nel Vangelo infatti lo scrittore cercò e
trovò una risposta a quelle istanze di uguaglianza e di fraternità che erano
state i punti chiave dell’Illuminismo (si ricordi il famoso trinomio «libertà,
uguaglianza, fraternità») e che egli aveva fatto sue. Con la differenza che,
mentre gli illuministi ponevano a base di tali istanze il fatto che la ragione
è bene comune a tutti gli uomini, e per tutti stabilisce parità di diritti e
di doveri, egli le collegò alla comune paternità di Dio, che fa sì che tutti
gli uomini, in quanto suoi figli, siano fra loro uguali e fratelli. In questo
senso sì può parlare di un cattolicesimo democratico del Manzoni.
La sollecitudine
per gli umili, per i diseredati della società e gli ignorati dalla storia
ufficiale, è costante nello scrittore, dagli Inni sacri, alle tragedie,
ai Promessi Sposi.
Nei Promessi
sposi il ruolo di protagonisti è tenuto da due operai di estrazione
contadina, «genti meccaniche e di piccolo affare», come dice Manzoni
nell’introduzione al romanzo. E, con un capovolgimento rivoluzionario, coloro
che nel giudizio del mondo sono in alto nella scala sociale, i cosiddetti
«personaggi d’autorità», sono qui valutati positivamente o negativamente a
seconda che si mettano al servizio degli umili o che siano loro avversi.
c) I temi
fondamentali della moralità manzoniana: la giustizia e la provvidenza - Alle ingiustizie
del mondo, alla prevaricazione dei forti e alla sopraffazione costante dei deboli,
Manzoni contrappone l’istanza della giustizia.
Se, nella sua
pienezza, la giustizia per il cristiano Manzoni potrà realizzarsi solo
nell’aldilà, tuttavia gli uomini degni dì questo nome devono battersi perché
anche su questa terra essa si attui il più possibile, perché l’ingiustizia
venga sconfitta. Con questo spirito agiscono i personaggi positivi e combattivi
del romanzo: padre Cristoforo, il cardinal Federigo, lo stesso Renzo per quanto
glielo consentono le sue limitate forze.
Chi combatte per
la giustizia ha Dio dalla sua parte. Al tema della giustizia si collega in tal
modo quello della provvidenza, il tema che percorre tutta l’opera manzoniana e
si dispiega soprattutto nel romanzo. In esso la provvidenza conforta gli umili
nelle loro tribolazioni, da loro fiducia e persino sicurezza d’animo; ma anche
confonde e annienta i prepotenti, così che alla fine la giustizia, sia pure
faticosamente, trionfa, come dimostra la vicenda dei due promessi sposi, gente
di «buona volontà», che dopo tante traversie riescono a raggiungere anche su
questa terra la serenità che si sono meritata.
d) La soluzione
manzoniana al problema della lingua - Il problema della lingua travagliò a
lungo Manzoni e fu da lui sentito con particolare acutezza nel periodo della
composizione del romanzo, un’opera che egli voleva rivolta ad un vasto pubblico
e per la quale sentiva l’esigenza di una lingua che fosse popolare e viva, e
che inoltre - poiché la sua aspirazione di patriota andava a un’Italia unita in
nazione - non avesse carattere regionale, ma nazionale. Dopo lunga riflessione
e sperimentazione, egli si convinse che la soluzione linguistica possibile in
Italia era quella di estendere a tutta la penisola il più evoluto dei suoi dialetti,
il fiorentino, e più precisamente il fiorentino parlato dalle persone colte,
cioè da quella classe borghese che i romantici identificavano col «popolo».
Giacomo Leopardi
a) La vita – Giacomo Leopardi nacque nel 1798
a Recanati nelle Marche, da famiglia nobile e di spiriti
conservatori; ebbe la fanciullezza e la giovinezza impegnate negli studi, che
perseguì con appassionata perseveranza tanto che, a diciassette anni, non solo
conosceva perfettamente il latino e il greco, ma aveva anche già composto due
opere di erudizione, la Storia dell’astronomia ed il Saggio sugli
errori popolari degli antichi:
fu tanto lo sforzo di questo periodo che ne ebbe guastata la salute.
Nel 1816
Leopardi preparò una risposta ad una nota lettera della Stael, Lettera ai compilatori della ‘’Biblioteca
italiana’’, che però non fu pubblicata.
Nel 1817
cominciò a scrivere lo Zibaldone,
fondamentale quaderno di appunti, di osservazioni di carattere culturale, di
confessioni autobiografiche, che continuò a farsi alterne e con varia intensità
fino al 1832.
Secondo la
consuetudine delle famiglie aristocratiche, il giovane Giacomo, fu educato in
casa insieme con i fratelli da un precettore ecclesiastico, il quale ben presto
non ebbe più nulla da insegnargli. Egli allora continuò a studiare
autonomamente sui libri della sterminata biblioteca del padre; imparò il greco
e l’ebraico e si dette a lavori di profonda erudizione, che ottennero il plauso
e l’ammirazione di importanti studiosi del tempo, italiani e stranieri.
Furono sette anni di studio matto e disperatissimo,
come egli stesso ebbe a definirli, che ebbero gravi ripercussioni sulla sua
salute, già da tempo precaria.
Il primo saggio
importante di poetica fu il Discorso di
un italiano intorno alla poesia romantica, nato nel 1818
in risposta ad un articolo del di Breme, ma anche questo fu pubblicato solo postumo; nello stesso
anno compose le prime canzoni, tra cui All’Italia.
Man mano che,
col passare degli anni, si evolveva spiritualmente, Leopardi sentiva sempre
più intollerabile il chiuso ambiente familiare e quello paesano e gretto di
Recanati.
Nel 1820, una
crisi intellettuale e spirituale prima lo indusse al tentativo di suicidio, poi
al tentativo di fuga da casa, sventata
dai suoi genitori; solo tre anni più tardi, nel 1822, ottenne di lasciare la
famiglia e il paese per recarsi a Roma ma, deluso dall’ambiente, fece ritorno a
Recanati nel 1824; da allora soggiornò
in varie città italiane, Milano, Bologna, Firenze, Pisa, ancora Roma, Napoli,
con l’intervallo di alcuni più o meno lunghi ritorni a Recanati.
Rientratovi nel
1828, vi ritrovò l’atmosfera degli anni giovanili che, osservata con occhi
nuovi, suscitò in lui emozioni e ricordi, ispirandogli la creazione delle sue
liriche più alte, tra cui A Silvia, Il
sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta, Il passero solitario, Le
ricordanze, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Tornato a
Firenze, Leopardi ritrovò l’amico Antonio Ranieri, conosciuto qualche anno
prima, con il quale successivamente si trasferì a Napoli, dove trascorse gli
ultimi anni della sua vita. Nel periodo napoletano compose i Paralipomeni alla Batracomiomachia, la Palinodia.
Maturava intanto
in lui un’amara filosofia della vita che trovò espressione poetica nelle sue
liriche, i Canti, e poetico-meditativa nelle prose delle Operette
morali.
Nella prima opera, i Canti, che includeva tutte le opere più
significative dell’intera produzione leopardiana (i cosiddetti piccoli e
grandi idilli), egli dà voce al respiro della sua anima, cioè ai
sentimenti, all’onda di ricordi e di emozioni, ma anche alle profonde
riflessioni esistenziali che uno spettacolo naturale o un momento della vita
del borgo suscitano in lui. In seguito alla morte di Leopardi, nel 1845,
Ranieri curò un’edizione postuma dei Canti, che comprendeva anche il canto La
Ginestra.
Oltre a queste
due opere, che sono le maggiori, ricordiamo lo Zibaldone, vasta raccolta
di osservazioni, di riflessioni di varia natura, assai utile per comprendere
l’evoluzione del poeta, e i Pensieri.
Morì a soli 39
anni, in seguito ad un’epidemia di colera che aggravò i mali che lo
tormentavano da tempo, senza aver ottenuto in vita quella fama che gli sarebbe
stata ampiamente tributata, invece, dopo la sua morte.
b) L’arido
vero e gli ameni inganni – La caratteristica
principale delle poetica leopardiana è quella di essere una lirica di taglio filosofico: essa trae
origine quasi sempre da un’osservazione del mondo esterno e della natura e,
attraverso le sensazioni e i sentimenti che tale osservazione suscita, sviluppa
ampie parti meditative, nelle quali il poeta colloca la sostanza del proprio
ragionamento poetico.
Fin dalla prima
giovinezza Leopardi si convinse che l’unica verità è quella cui l’uomo
perviene mediante la ragione, e a questa convinzione si mantenne fedele per
tutta la vita.
Ma la verità che
la ragione rivela all’uomo è squallida e amara, è quella che Leopardi chiama l’arido vero. La ragione, infatti,
smaschera come inconsistenti quei valori in cui l’uomo istintivamente crede:
la bellezza, la gloria, l’amore, la giovinezza. Essi, guardati alla fredda
e spietata luce della ragione, si rivelano ingannevoli e caduchi, illusioni.
Ma se questa è
la verità che bisogna coraggiosamente accettare, è certo che, privata di questi
valori, la vita perde ogni gioia e ogni bellezza, perché, se è vero che essi
sono inganni, è altrettanto vero,
come dice il poeta nelle Ricordanze, che sono ameni inganni, fonte unica di speranza e di gioia.
La civiltà,
prodotto della ragione, condanna gli uomini all’infelicità. Leopardi infatti
era convinto che l’anima umana trovasse un autentico piacere soprattutto nei pensieri vaghi e indefiniti che, spesso
inafferrabili, lasciano dietro di sé molteplici suggestioni, desideri ed idee.
Su questa base contenutistica, Leopardi avvia un profondo processo di
rinnovamento della lingua della poesie italiana, abbandonando la metrica
classica e lasciando che la sua poesia si snodasse sulla linea della musicalità
e del ritmo, producendo un forte effetto evocativo.
Da questo contrasto
fra la realtà e le esigenze profonde dello spirito umano nascono i temi più
alti della poesia e del romanticismo leopardiani: e innanzitutto il tema della nostalgia e del rimpianto.
I Canti leopardiani
traboccano di questi non valori
vagheggiati e intensamente invocati, tanto che è stato detto giustamente che
nessun poeta, forse, ha cantato la giovinezza e l’amore con l’intensità
appassionata di Leopardi, che negava loro reale consistenza e che li vedeva
perciò idealizzati dal desiderio e dalla nostalgia che hanno le cose amate e
non possedute. Leopardi, nell’arco della sua vita, ideò ben due teorie sul piacere: nella prima, il poeta spiega
che il piacere non poteva mai essere soddisfatto, in quanto l’uomo ha in sé
connaturata l’esigenza di provare piacere, ma allo stesso piacere segue
l’assuefazione; nella seconda, invece, Leopardi spiega come il piacere sia
impossibile da raggiungere ed esista solo come cessazione del dolore.
Da questa
constatazione nasce, oltre al rimpianto, anche la protesta: essa si rivolge
soprattutto alla Natura, che dovrebbe essere madre ai suoi figli, e invece è
per loro matrigna, e crudelmente
promette gioie che poi non mantiene. Essa si mostra indifferente alle loro
pene, e non teme di distruggere in un istante, con un terremoto, un’alluvione o
l’eruzione di un vulcano, le opere pazienti costruite dall’uomo e la sua stessa
vita.
c) Il natio borgo selvaggio – Recanati,
scena di gran parte della vita di Leopardi, è presente anche in molte sue
liriche. Il poeta ne soffre la chiusa grettezza, l’isolamento dalle correnti di
civiltà e di pensiero, il difficile rapporto con i retrivi abitanti. E tuttavia
Recanati vive poeticamente nei suoi versi, con un amore che supera
l’intolleranza: vi è ritratta ora in una ferma notte lunare
Dolce,
chiara è la notte e senza vento
e
queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa
la luna e di lontan rivela
serena
ogni montagna,
ne La sera
del dì di festa; ora invasa nelle sue strade dal caldo sole di maggio, del
maggio odoroso in A Silvia; si
distende luminosa fra monte e mare
Mirava
il ciel sereno,
le
vie dorate e gli orti,
e
quinci il mar da lunge,
e
quindi il monte;
è aperta verso
la vicina campagna
passero
solitario, alla campagna
cantando
vai,
ne Il passero
solitario, e su di essa nelle notti serene brillano le vaghe stelle dell’Orsa ne Le ricordanze.
d) Il non senso
dell’esistenza umana e il pessimismo leopardiano - Nel Canto
notturno la vita dell’uomo è paragonata alla corsa di un vecchio debole e
infermo, gravato da pesi, su un terreno sassoso che gli lacera i piedi scalzi:
corsa che ha per meta un abisso dove egli alla fine precipita.
La vita è dunque
sofferenza senza senso, che non acquista senso neanche dalla morte. Infatti, a
differenza di Manzoni, per Leopardi con la morte tutto ha termine, e non esiste
una vita ultraterrena che ristabilisca la giustizia, che dia significato al
dolore terreno.
Il non senso
della vita umana, non confortata da alcuna provvidenza, si esprime nei grandi
interrogativi presenti nei Canti
leopardiani (che senso ha la vita? perché essa è solo dolore? perché la natura
ci è matrigna?), interrogativi che suonano nel vuoto, che rimangono senza
risposta.
Tuttavia l’uomo
ha una stagione felice: quella della fanciullezza e della giovinezza, perché
questa è un’età in cui domina il sentimento e la ragione ancora non gli ha
rivelato la verità amara della sua condizione.
e) L’ultimo
Leopardi: la social catena - Nell’ultimo periodo della sua vita, un
nuovo atteggiamento psicologico si fa strada in Leopardi, e si esprime
soprattutto nella lirica La ginestra.
Fermo restando
il principio che la natura è matrigna e al mondo non esiste provvidenza, il
poeta sostituisce all’elegiaco lamento sulla condizione umana una vigorosa e
costruttiva presa di posizione. Pur sapendo di combattere una battaglia perduta
– egli dice – bisogna che gli uomini si alleino fra loro in patto solidale, in social catena, per combattere
l’avversa sorte.
Leopardi giunge
così a postulare, in nome della mancanza di provvidenza nel loro destino,
quella fraternità fra gli uomini cui Manzoni perveniva in nome della
provvidenziale paternità di Dio.
[1] Le
fasi dell’assolutismo - L’assolutismo è una forma di regime monarchico
nella quale il potere è esercitato da un sovrano che si ritiene libero da
controlli e condizionamenti da parte di istanze politiche e rappresentative
superiori o inferiori.
La
monarchia assoluta è passata attraverso varie fasi.
a) Lo
Stato personale è quello della prima fase, quando Luigi XIV di Francia, il «Re
Sole», poteva dire: «Lo Stato sono io». La persona del re si considerava cosa
pubblica (ogni avvenimento che la riguardava, la nascita, la morte, il matrimonio,
la procreazione, ecc. era un avvenimento di Stato) e si identificava pienamente
con lo Stato. La volontà personale del re era volontà dello Stato.
b) Lo
Stato patrimoniale fu la tappa successiva. Lo Stato, a cominciare dal territorio
statale, era proprietà (o patrimonio) del re. I regni (territori e abitanti)
potevano essere portati in dote nel matrimonio dei re e dei principi e gli
Stati si accrescevano o si riducevano attraverso la politica matrimoniale.
C’erano però le premesse di un’evoluzione: il re non era (più) lo Stato,
secondo la formula di Luigi XIV. Si poteva fare un passo avanti e dire che lo
Stato era del re, ma occorreva distinguere quel che serviva ai suoi interessi
personali e quel che serviva all’interesse dello Stato . In effetti, il re non
poteva disporre di tutto ciò che v’era nel suo regno, poiché la gran parte
delle terre e dei beni si considerava patrimonio utile al regno, non al re. Era
la premessa per la distinzione tra le risorse private del re e le risorse
pubbliche.
c)
Con l’espressione Stato di polizia si intende il tipo di Stato che si trova in
Francia, Spagna, Austria, Prussia, Toscana, Piemonte nel corso del XVIII
secolo. L’espressione «Stato di polizia» non indica solo quello Stato che
mantiene l’ordine pubblico (secondo la concezione attuale della «polizia») ma
lo Stato che si occupa del «buon governo» (in greco, «politeia») e quindi ha
come suo scopo la felicità dei sudditi.
Lo
Stato di polizia, per la felicità dei sudditi, allargò la sua attività,
controllando nuovi settori in precedenza totalmente liberi, oppure controllati
autonomamente dalle città o dalle corporazioni: la religione, l’attività della
Chiesa e la moralità della gente; la sanità, l’alimentazione, la sicurezza e la
tranquillità pubblicarla viabilità e i lavori pubblici, le scienze e le arti,
il commercio e le manifatture private (aprendone di pubbliche), i dazi
doganali, le condizioni dei lavoratori, l’assistenza ai malati poveri e ai
vagabondi, i catasti, ecc. Quali fossero i bisogni dei sudditi, erano però
sempre il re e i suoi ministri a stabilirlo. Si trattava perciò di «dispotismi
illuminati» o «regimi paternalistici» (che trattavano i sudditi come figli
incapaci, di fronte al padre, il re), che sono all’origine dello «Stato del
benessere» del nostro tempo.
[2] Filippo
II di Spagna – Filippo II di Spagna fu il primo Re di Spagna intesa
come l’intera penisola iberica, re di Napoli, e diciottesimo re del Portogallo,
nacque a Valladolid, erede dell’Imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo V, e
della regina Isabella del Portogallo.
Non
ancora re, sposò sua cugina, la principessa Maria Emanuela del Portogallo, che
gli diede un figlio, Don Carlos di Spagna.
Nel
1545, in seguito alla morte della moglie Maria, strinse un’alleanza con
l’Inghilterra sposando la cattolica Regina Maria I d’Inghilterra, della casata
Tudor.
Nel
1556, Filippo salì al trono di Spagna per abdicazione del padre, ma non si
trasferì in Spagna fino alla morte di questi, due anni dopo.
Filippo
II, proclamatosi leader della Riforma Cattolica, assunse il trono ereditando
enormi risorse: da suo padre i domini degli Asburgo in Spagna, Italia e
Borgogna, comprendenti la Castiglia, l’Aragona, la Sardegna, i Paesi Bassi, la
Franca Contea, Napoli, la Sicilia, il ducato di Milano e le colonie
nell’America latina, che erano molto più redditizie dell’impero del padre in
Germania.
Nel
1558 Carlo V morì e divise i territori degli Asburgo, liberando Filippo
dall’impegno di governare gli instabili domini tedeschi, che sarebbero stati
successivamente conquistati dal ramo austriaco della famiglia.
Nel
1558 morì Maria Tudor senza l’arrivo di un figlio, Filippo mostrò interesse a
sposare la sorella minore, la protestante Regina Elisabetta I d’Inghilterra, ma
il suo piano fallì.
Nel
1559 la guerra con la Francia si concluse con la firma della Pace di
Cateau-Cambrésis e Filippo sposò Elisabetta di Valois, figlia di
Enrico II di Francia,
Nel
1566, in seguito alla rivolta calvinista, Filippo si impegnò per eliminare il
tradimento e l’eresia. Imponendo una nuova tassa sulle entrate di circa il 10%
per le spese militari, la decima, fece solo peggiorare la situazione dei Paesi
Bassi.
Nel
1568, la regione si ribellò apertamente sotto la guida di Guglielmo I d’Orange,
principe di Nassau, detto il Taciturno. Egli fu sconfitto dalla brutale reazione
spagnola capitanata dal Duca d’Alba, che convocò il Consiglio
dei torbidi, per condannare a morte migliaia di persone e confiscarne le
terre.
Nel
1568 Filippo dovette affrontare delle ribellioni contro il suo governo in
Spagna, soprattutto la rivolta dei Moriscos, o la rivolta dell’Aragona in
seguito alla vicenda di Antonio Perez, che Filippo cercò di arrestare
attraverso l’Inquisizione, violando i diritti tradizionali (fueros)
dell’Aragona.
Nel
1570 l’avanzata turca sul Mediterraneo continuò con la cattura da parte loro
dell’isola veneziana di Cipro. Il Papa e l’Europa cristiana sollecitarono
Filippo a fermare l’avanzata ottomana. Filippo formò una Lega Santa per
contrastare il potere navale sul Mediterraneo dell’Impero ottomano.
Nel
1571 le navi da guerra spagnole e veneziane, rinforzate da volontari accorsi da
tutta Europa, sconfissero i Turchi nella Battaglia di Lepanto.
Quest’impresa rilanciò il ruolo della Spagna come potenza europea e del suo
sovrano come guida della Riforma cattolica, oltre a sfatare il mito
dell’invincibilità della potenza turca e riportare entusiasmo e fiducia tra i
cattolici.
Nel
1576 dopo la pace di Gand, le truppe spagnole si ribellarono. I calvinisti
olandesi dichiararono che i soldati spagnoli dovevano essere espulsi e che loro
avrebbero dovuto governarsi con i propri Stati Generali. Ma gli
spagnoli sfruttarono le differenze religiose, culturali e linguistiche tra le
province settentrionali e meridionali, aizzando i nobili locali uno contro
l’altro e riconquistando le province meridionali. Le province settentrionali
dei Paesi Bassi si organizzarono come le Province Unite.
Nel
1580 il ramo regnante della famiglia reale portoghese si estinse in tutti i
suoi elementi durante una disastrosa campagna militare in Marocco, dando a
Filippo il pretesto per rivendicare il trono attraverso sua madre, che era una
principessa portoghese. Quando Lisbona rifiutò il suo reclamo egli ne organizzò
l’assorbimento, invadendo, annettendo, e salendo al trono, occupato dalla
Spagna per 60 anni. In questo modo Filippo aggiunse ai suoi possedimenti un
vasto impero coloniale in Africa, Brasile, e nelle Indie Orientali, portando un
nuovo flusso d’oro a Madrid. Nella conquista del Portogallo comunque, Filippo
mostrò tatto, tagliandosi la barba e vestendo alla maniera Portoghese, e
governando da Lisbona per i due anni seguenti, mantenendo i privilegi e i
fueros portoghesi.
Nel
1581 le sette Province Unite dichiararono definitivamente la loro indipendenza
dal Regno di Spagna. Il loro leader, Guglielmo I d’Orange fu messo fuori legge
da Filippo, e assassinato nel 1584 da un fanatico cattolico.
Nel
1587 l’esecuzione di Maria Stuart diede a Filippo il pretesto per un’invasione
dell’isola. Filippo allestì così la famosa Invincibile Armata,
con centotrenta galeoni e trentamila uomini a bordo. Nonostante l’imponenza
della flotta spagnola la piccola e agile flotta inglese tartassò i galeoni
spagnoli. Filippo allestì altre due armate, entrambe senza successo, e questa
particolare guerra tra Spagna e Inghilterra arrivò ad uno stallo, fino alla
morte dei due sovrani.
Tra
il 1590 e il 1598 fu ancora in guerra contro il Re ugonotto Enrico IV di
Francia, alleandosi con il Papa e il duca di Guisa nella Lega Cattolica durante
le Guerre di religione in Francia. L’intervento di Filippo, per supportare la
fazione Cattolica, anche se produsse vittorie militari, fu disastrosa sul
fronte olandese, permettendo ai ribelli di riorganizzarsi e rinforzare le
difese. Enrico IV di Francia fu inoltre abile ad identificare la fazione cattolica
con un nemico straniero (Filippo e la Spagna) danneggiando la causa cattolica
in Francia.
Nel
1596 Filippo fece bancarotta.
Nel
1598 morì e gli successe suo figlio, Filippo III.
[3] Le
Province Unite - Nel XVI secolo la Riforma protestante fu accolta con
favore da buona parte della popolazione olandese (ossia solo della parte
settentrionale delle Fiandre: si badi bene che la regione meridionale,
corrispondente all’attuale Belgio, restò di fede cattolica). Sebbene vi si
fosse opposto con forza, l’imperatore Carlo V (nipote ed erede di Massimiliano)
finì per accettare la situazione. Alla sua morte (1558) i Paesi Bassi furono
staccati dall’Impero ed ereditati da suo figlio Filippo II, re di Spagna. Il
dominio straniero suscitò il malcontento della popolazione, e come se ciò non
bastasse Filippo tentò di perseguitare i protestanti e di eliminare le
autonomie delle città fiamminghe. Appellandosi alla sopra citata "clausola
di ribellione", gli olandesi oppressi esplosero in una rivolta (1568), che
indusse le Sette Province del Nord a formare l’Unione di Utrecht (1579). Nel
1581 viene proclamata la Repubblica delle Sette Province Unite, guidata da
Guglielmo il Taciturno, principe di Orange-Nassau, che assunse la carica di
stadtholder (presidente: a dispetto del nome, il titolo rimase sempre
appannaggio dei membri della casa di Orange. Per altri 70 anni la Spagna non
riconobbe la secessione olandese e vi fu guerra fino alla Pace di Westfalia del
1648, con cui le Province Unite ottennero de iure l’indipendenza che ormai
godevano di fatto.
In
quegli anni, per quanto impegnati nella lotta con la Spagna, gli olandesi
furono molto attivi anche fuori dall’Europa, fondando colonie in India,
Indonesia, e nelle Americhe (ad es. New York fu fondata da olandesi col nome di
Nieuw Amsterdam), tanto che il XVII secolo è considerato il secolo d’oro
(gouden eeuw) dei Paesi Bassi.
Esso
però terminò con una serie di sconfitte subite da parte di altri paesi
(specialmente degli inglesi), che segnarono la fine dell’espansione commerciale
e coloniale olandese.
Il successivo XVIII secolo fu segnato dal
conflitto fra i sostenitori degli stadtholder ed i cosiddetti patrioti (avversi
a trasformazioni in senso monarchico); nel 1748 la carica di stadtholder venne
dischiarata elettiva, durante il regno di Gugliemo IV d’Orange. Così l’Olanda
continuò ad essere relativamente tranquilla fino alla Rivoluzione Francese del
1789.
[4] Lotte fra cattolici e ugonotti - Prolungato conflitto civile tra cattolici e calvinisti
francesi per motivi politici, economici e religiosi.
Gli
scontri furono scatenati dai cattolici, insoddisfatti della politica oscillante
della reggente Caterina de’ Medici verso gli ugonotti, protestanti francesi di
tendenza calvinista guidati dal principe di Condé e successivamente da de Coligny.
Nonostante
le misure repressive poste in atto nella prima metà del Cinquecento, si
diffusero in diverse province, a partire dalle città universitarie e dai centri
commerciali, come La Rochelle e Lione. Erano gruppi di operai,
mercanti e piccoli proprietari, spesso sostenuti dalle autorità cittadine. Alla
Chiesa di Parigi (creata nel 1555) e a quelle fondate in seguito aderirono
anche membri dell’alta borghesia e dell’aristocrazia.
Con
la morte di Enrico II (1559) e l’ascesa dei cattolici Guisa, nelle vicende
degli ugonotti, guidati dai Borbone, si intrecciarono la lotta
politico-dinastica e contrasti religiosi.
Dopo
una prima fase, il conflitto riprese nel 1567 e la regina si decise a trattare:
con la pace di Saint-Germain (1570) gli ugonotti ottennero la libertà di culto
e alcune città (places de sûreté) completamente autonome sotto il loro
controllo quattro piazzeforti e de Coligny entrò nel consiglio della corona. Fu
poi però la stessa Caterina, contraria alla sua politica antispagnola, a
ispirare l’omicidio di de Coligny e il massacro degli ugonotti nella notte
di San Bartolomeo (1572), un massacro di 2300 ugonotti a Parigi e di
altri 12.000 in provincia nei giorni successivi. L’eccidio fu deciso
da Carlo IX su istigazione della regina madre Caterina de’ Medici, che voleva
impedire che il re, su consiglio dell’influente capo ugonotto Gaspard de
Coligny, appoggiasse la ribellione dei Paesi bassi, ostacolando così la sua
politica filospagnola.
La
strage dei capi ugonotti della notte di san Bartolomeo ne accelerò poi la
trasformazione in partito politico e diede impulso alle dottrine della monarcomachia,
una teoria politico-religiosa del XVI-XVII secolo che giustifica come legittima
la resistenza contro un sovrano ritenuto ingiusto e nemico della fede. Tale
dottrina fu elaborata e sostenuta soprattutto in Francia, nel contesto delle
guerre di religione, da alcuni scrittori ugonotti. Più che un appello generico
alla ribellione popolare, era l’idea che la resistenza al tiranno debba essere
condotta dai magistrati e dalle istituzioni rappresentative del regno.
In
conseguenza di ciò la guerra civile riesplose con maggiore violenza. Nasceva
intanto la lega cattolica capeggiata dal duca Enrico di Guisa che limitò
fortemente l’autonomia del nuovo re Enrico III (1574), giudicato troppo
arrendevole.
Nel
1585 ci fu un’ultima recrudescenza degli scontri. Il re eliminò a tradimento i
Guisa e cercò l’appoggio ugonotto, designando Enrico di Borbone suo successore.
Questi, salito al trono con il nome di Enrico IV, nel 1593 abiurò il
protestantesimo e, con l’editto di Nantes (1598), regolò la convivenza delle
due confessioni per pacificare i rapporti fra cattolici e ugonotti, garantiva a
questi ultimi la libertà di culto ovunque tranne Parigi e le residenze reali e
dava loro in pegno un centinaio di piazzeforti, fra cui La Rochelle.
Ma
la situazione peggiorò con la reggenza di Maria de’ Medici e con Luigi XIII.
Nel 1628-1629 Richelieu, con l’assedio di La Rochelle e
l’inglobamento di tutte le places de sûreté, segnò la fine della
loro potenza politica. Il distacco della grande nobiltà, le repressioni e le
conseguenti emigrazioni li indebolirono, fino alla revoca dell’editto di Nantes
(1685). Luigi XIV, teso a riaffermare il gallicanesimo, colpì gli ugonotti con
una serie di gravi misure, ricorrendo anche alle dragonnades (obbligo
di alloggiare i dragoni) e alle conversioni forzate. Ne seguì un vero esodo,
soprattutto verso l’Olanda e l’Inghilterra, che arricchì questi paesi di
artigiani e professionisti di valore e fece tornare la Francia un
paese esclusivamente cattolico.
L’editto
del 1787 garantì ai protestanti residui l’esercizio dei diritti civili
che la Rivoluzione estese paritariamente a tutte le confessioni
religiose.
[5] Guerra dei
trent’anni - (1618-1648). Conflitto
che coinvolse l’Europa centrale. Combattuta soprattutto sul suolo tedesco e
boemo, con eserciti ai quali era permesso il saccheggio, ebbe conseguenze
fortemente negative per l’economia degli stati tedeschi provocando, tra
l’altro, una forte caduta demografica. Le cause furono di ordine religioso,
politico ed economico. La pace di Augusta del 1555 aveva lasciato insoluti
molti problemi: la Controriforma stava creando gravi attriti. A ciò
si aggiungeva la vecchia rivalità politica ed economica tra gli Asburgo e vari
stati dell’impero. La monarchia francese inoltre, dopo un periodo di forti
conflitti interni, aspirava a contrastare il ruolo egemonico degli Asburgo,
mentre la Svezia era interessata a rafforzarsi sul Baltico. La guerra
iniziò con la defenestrazione di Praga (23 maggio 1618), quando i
rappresentanti del governo asburgico furono gettati dagli hussiti fuori dal
palazzo dell’università. La successiva elezione a re di Boemia del protestante
Federico V del Palatinato fece schierare gli stati europei in due campi: quelli
favorevoli agli Asburgo (Spagna, Baviera, Sassonia, Polonia) e quelli che
appoggiavano Federico (la maggior parte degli stati protestanti germanici,
l’Inghilterra e l’Olanda). L’esercito asburgico sconfisse duramente i boemi
nella battaglia della Montagna bianca (1620) e penetrò anche nel Palatinato.
Cominciò così una dura repressione contro i protestanti, mentre la corona boema
venne dichiarata eredità degli Asburgo. Frattanto la Spagnainiziò le
ostilità contro le Province unite, e il re Cristiano IV di Danimarca, il re
Gustavo Adolfo di Svezia e più tardi la Francia scendevano in campo
contro l’Austria. La fine del conflitto (solo Francia e Spagna continuarono le
ostilità tra di loro) fu sancita dalla pace di Vestfalia, firmata nelle due località
di Münster e Osnabrück (1648).
[6] Pace
di Augusta - Legge imperiale promulgata dalla dieta imperiale di Augusta, che
sancì la libertà confessionale dei principi tedeschi per garantire la pace
interna e la concordia religiosa dopo l’indebolimento dell’autorità imperiale
in seguito alla guerra dei principi.
Il compromesso raggiunto tra il re di
Boemia Ferdinando e i ceti imperiali riconobbe la confessione di Augusta.
Secondo il principio cuius regio, eius religio, soltanto i ceti
imperiali laici ottennero la libertà religiosa, mentre i loro sudditi di altre
religioni avevano solo il diritto di emigrazione. La pace proteggeva infine i
diritti delle minoranze religiose, che erano soprattutto cattoliche, nelle
città imperiali. La pace di Augusta escluse l’imperatore dagli affari religiosi
dell’impero e rafforzò i ceti imperiali, che acquistarono l’autorità religiosa
sui propri territori.
[7] Pace di Westfalia - Il trattato aveva il valore di una
costituzione del Sacro romano impero germanico, garantita dal diritto pubblico
europeo. Essa bloccò ogni tentativo di governo monarchico dell’impero e
attribuì ai ceti imperiali il diritto di alleanza e la quasi sovranità interna.
Dal punto di vista religioso furono riconosciute le paci di Passau (1552) e
Augusta (1555), estese ai calvinisti, con la conferma del principio cuius
regio eius religio. La distribuzione delle proprietà ecclesiastiche e delle
confessioni fu congelata nella situazione del 1624.
[8] Enrico IV - Re di
Navarra (1572-1610) e re di Francia (1589-1610). Figlio di Antonio di Borbone,
fu educato dalla madre Giovanna d’Albret alla fede calvinista e nel 1569
divenne capo indiscusso del partito ugonotto in lotta contro il potente partito
cattolico dei Guisa. Alla morte della madre (1572), ereditò il trono di Navarra
e contemporaneamente sposò la sorella del re Carlo IX, Margherita di Valois.
Dopo la morte di Carlo IX (1574) e di suo fratello Francesco (1584), divenne
presunto erede al trono di Francia, ma, per ottenerlo, dovette combattere
contro Enrico Guisa ed Enrico III la guerra dei tre Enrichi e tenere a
bada la Spagna di Filippo II venuta in aiuto alla Lega cattolica.
Enrico III, dopo essere stato colpito a morte in un agguato, lo riconobbe suo
successore, così che, sconfitta la Lega cattolica a Ivry (1590), il
25 luglio 1593 poté entrare trionfante nella capitale dopo essersi convertito
pubblicamente al cattolicesimo. Nel 1598 firmò la pace di Vervins con la
Spagna e promulgò l’editto di Nantes con cui proclamava il cattolicesimo
religione ufficiale ma assicurava la libertà di culto ai protestanti. Aiutato
dal duca di Sully, riordinò le finanze dello stato, rafforzò il potere regio e
assicurò alla Francia un relativo periodo di pace. Morì assassinato da un
fanatico cattolico.
[9] Cardinale Richelieu - Cardinale e politico francese. Il padre,
Francesco, era stato al seguito dei re Enrico III prima e Enrico IV poi,
guadagnando prestigio e favori, ma la sua morte precoce (1590) lasciò la vedova
e i cinque figli in una situazione difficile. Armand, terzo maschio, studiò nel
collegio aristocratico di Navarra e fu poi avviato alla carriera militare, ma
dovette intraprendere la carriera ecclesiastica per subentrare al fratello
secondogenito Alphonse, infermo, cui sarebbe toccato il vescovado di Luçon,
beneficio di famiglia. Col favore di Enrico IV e la dispensa papale per la sua
giovane età, fu eletto vescovo nel 1606 e consacrato nel 1607. Riorganizzò
quindi le finanze del vescovado lottando contro la corruzione e l’indisciplina
del clero e contro gli ugonotti. Agli Stati generali del 1614 Richelieu,
rappresentante del clero di Poitou, si mise in luce con la regina madre, Maria
de’ Medici, che lo nominò prima elemosiniere, poi segretario di stato alla
Guerra e agli Affari esteri. Nel 1622 fu nominato cardinale e nel 1624 entrò a
far parte del consiglio del re Luigi XIII, divenendone ben presto l’elemento
più influente. Richelieu si prefisse principalmente il compito di restaurare
l’autorità monarchica e di migliorare la situazione finanziaria del paese.
Primo obiettivo furono gli ugonotti che con i privilegi ottenuti con l’editto
di Nantes rischiavano di diventare un corpo separato all’interno dello stato.
Nel 1628 espugnò il loro forte della Rochelle e nel 1629 tolse loro le garanzie
militari e i diritti amministrativi. Anche gli aristocratici furono colpiti da
numerose condanne a morte per delitti contro lo stato. Le rivolte contadine
furono duramente represse. Riorganizzò l’amministrazione statale, aumentando i
poteri degli intendenti, e dette impulso alla marina, alle compagnie mercantili
e alle manifatture. In politica estera cercò di ripristinare il ruolo della
Francia in funzione antiasburgica, appoggiando all’estero quei protestanti che
aveva invece duramente colpito in Francia. Nel 1635 entrò direttamente nella guerra
dei Trent’anni, la cui gestione lasciò, morendo nel 1642, al suo successore
Mazarino.
[10] Fronda (1648-1653).
- Movimento di opposizione antiassolutista in Francia.
Si svolse in due fasi durante la minore
età di Luigi XIV e la reggenza di Anna d’Austria, coadiuvata dal cardinale
Mazzarino. Fu causata, oltre che dal malcontento popolare per la guerra
con la Spagna, dal dissesto economico e dall’inasprimento fiscale, dalle
resistenze dei corpi privilegiati alla politica di accentramento del potere perseguita
dalla monarchia. All’origine della prima fase (fronda parlamentare) vi
fu il rifiuto del parlamento di Parigi di registrare l’editto di sospensione
degli emolumenti alle corti sovrane (1648) e la sua rivendicazione dell’antico
diritto di controllo sulle decisioni regie in materia fiscale e della
soppressione degli intendenti. In seguito agli arresti disposti da Mazzarino,
il parlamento istigò la folla alla rivolta, che dalla capitale si diffuse nelle
province ma fu sedata dall’esercito guidato dal principe di Condé. Il momento,
favorevole alla grande nobiltà, indusse il Condé a capeggiare un movimento
antigovernativo che nel 1650 sfociò nella seconda fase (fronda dei principi),
costringendo la corte e Mazzarino a fuggire. Gli atteggiamenti assunti dal principe
vittorioso gli alienarono l’appoggio della borghesia e l’intervento delle
truppe regie ripristinò l’ordine nella capitale e nelle province.
[11] Luigi
XIV - Re di Francia dal 1643-1715, figlio e successore di Luigi XIII,
salito al trono sotto la reggenza della madre Anna d’Austria, fu dichiarato
maggiorenne nel 1651.
Fino
al 1661 il governo effettivo dello stato fu tenuto da G. Mazzarino, alla cui
morte, egli assunse personalmente il potere. Nei primi anni del suo regno,
anche se insidiati dalle fronde, la Francia trionfò nella guerra dei
Trent’anni e, con la pace dei Pirenei del 1659, sulla
Spagna.
Con
lui l’Assolutismo divenne un sistema di governo imitato da molti sovrani
europei: egli riunì in sé la coscienza della dignità del suo ufficio con una
grande ambizione e con una forte capacità di lavoro. Anche se la celebre
espressione attribuitagli, L’Etat c’est moi (lo stato sono
io), probabilmente mai pronunciata, esprime bene la concezione e la pratica
di governo del re. La sua figura fu esaltata anche dai modelli di comportamento
affermatisi alla corte di Versailles, la cui reggia fu trasformata, per suo
ordine, in una splendida residenza nella quale il sovrano attirò la grande
nobiltà del regno, completandone la trasformazione in nobiltà di corte,
legata al monarca da pensioni, cariche e titoli. Tutti i poteri erano
concentrati nelle mani del re che li esercitava con l’assistenza di un
consiglio segreto e di ministri, spesso di origine non nobile. Tra i più validi
collaboratori vi furono J.B. Colbert e F.M. Louvois. Il controllo capillare sul
territorio, raggiunto grazie all’impiego degli intendenti, e lo smantellamento
delle dogane interne, propugnato da Colbert, definirono un grande spazio
politico ed economico sul cui governo avevano scarsa presa gli organi
rappresentativi locali e le aristocrazie.
Anche
la politica religiosa di Luigi XIV non si discostò dalle direttive che erano
applicate in altri campi. Con gli articoli gallicani (1682),
il clero francese affermò, per le questioni non dottrinali, la propria
indipendenza da Roma; nel 1685 la revoca dell’editto di Nantes pose fuori legge
la confessione ugonotta. L’uniformità religiosa e la nascita di una chiesa di
stato sanzionarono il carattere sacrale della monarchia: Luigi XIV era
diventato il re Sole.
Tra
il 1667 e il 1714 promosse una serie di guerre tese a imporre l’egemonia della
Francia sull’Europa e a ingrandire lo stato: la guerra di devoluzione, la
guerra d’Olanda, la guerra della lega d’Augusta e quella di successione di
Spagna. Con questi conflitti solo in parte furono conseguiti gli obiettivi
sperati. La Francia ascese al rango di grande potenza, ma a costo di
immensi sacrifici e di tensioni che né la vita di corte né la splendida
fioritura delle arti riuscivano a nascondere.
[12] Guerre di devoluzione
– Fu iniziata da Luigi XIV, re di
Francia, per rivendicare i Paesi bassi come eredità di sua moglie, la regina
Maria Teresa, figlia di primo letto del re di Spagna, sotto il cui dominio
ricadevano. Contro le pretese francesi si schierarono Inghilterra e Svezia. La
pace di Aquisgrana concluse la guerra a danno di Luigi XIV.
[13] Lega di Augusta
– Alleanza difensiva stipulata
nel 1686 tra l'impero, la Spagna, la Svezia e le Province unite per opporsi
alle pretese di Luigi XIV riguardo alla successione nel Palatinato. Nel 1689 vi
si unì l'Inghilterra e nel 1690 il Piemonte, trasformandola così nella Grande
alleanza.
[14] Elisabetta
I d’Inghilterra – Elisabetta I (1533 –1603) fu regina d’Inghilterra e
d’Irlanda dal 17 novembre 1558 fino alla sua morte. Quinta ed ultima monarca
della dinastia Tudor e succedette alla sorellastra, Maria Tudor. Il suo regno
fu lungo e segnato da molti avvenimenti importanti. Figlia di Enrico VIII
e di Anna Bolena, fu dichiarata illegittima nel 1536, quando la madre fu
decapitata sotto l'accusa di adulterio. Durante il regno della sorellastra,
Maria Tudor, fu tenuta prigioniera nella torre di Londra, perché sospettata di
complottare con gli oppositori della politica religiosa della regina (1554).
Salì al trono il 17 novembre 1558 inaugurando una politica prudente ed
equilibrata, esente da colpi di scena e da imposizioni violente, ma non per
questo meno oculata ed efficace. In campo religioso Elisabetta promulgò, nel
1559, l'Atto di uniformità con cui rimetteva in vigore il Book of common prayer, il libro
di preghiere ufficiale della Chiesa anglicana e, quattro anni dopo, l'Atto di
supremazia, con cui ristabiliva l'autorità della corona sulla Chiesa. Rifuggì
tutta la vita il matrimonio, evitando alleanze che potessero rivelarsi sbagliate.
In politica interna Elisabetta dovette affrontare i problemi connessi alla
presenza sul trono scozzese della cattolica Maria Stuart. Dopo una rivolta
protestante quest'ultima fu costretta a rifugiarsi in Inghilterra (1568) dove
diventò il principale punto di riferimento delle trame ordite ai danni di
Elisabetta. La scoperta del complotto di Throckmorton (1584) e di quello di
Babington (1586) fece ricadere su Maria Stuart l'accusa di alto tradimento ed
Elisabetta colse l'occasione per condannarla a morte (1587). Sul piano
internazionale Elisabetta assunse posizioni via via più nettamente
anticattoliche e antispagnole. La lotta contro la Spagna prese dapprima
soprattutto la forma degli attacchi corsari e del contrabbando ai danni di navi
e colonie spagnole, ma l'esplosione del conflitto divenne inevitabile nel 1588
quando la flotta spagnola (Invencible armada) salpò alla volta di
Calais, dove avrebbe dovuto congiungersi con le truppe di Alessandro Farnese:
nelle acque della Manica venne attaccata e vinta dalla più piccola ma più
efficiente e meglio organizzata flotta inglese. Iniziava così il definitivo
declino della potenza spagnola e l'ascesa dell'Inghilterra come potenza
militare, mercantile e marinara. Elisabetta regnò ancora per quindici anni e
morì il 24 marzo 1603. Le sarebbe succeduto il figlio di Maria Stuart, Giacomo
I, a cui era stata però impartita un'educazione protestante.
Nel 1603 Elisabetta si ammalò,
sofferente di debolezza ed insonnia. Morì all’età di sessantanove anni.
Elisabetta fu seppellita nell’abbazia di Westminster, di fianco alla sorella
Maria I. L’iscrizione sulla loro tomba recita: Compagne nel trono e nella
tomba, qui noi due sorelle, Elisabetta e Maria, riposiamo, nella speranza di
un’unica resurrezione.
[15] Oliviero
Cromwell (1599 - 1658). Politico inglese. Figlio di
un nobile di campagna, nel 1628 divenne deputato al parlamento nel quale
propugnò apertamente le sue convinzioni calviniste. Con lo scoppio della guerra
civile (1642) assunse un ruolo di primo piano: organizzò un corpo di cavalleria
(gliIronsides) e, nel 1645, un esercito regolare (la New Model
Army). Riuscì così a sconfiggere le truppe regie a Marston Moor (luglio 1644)
e a Naseby (giugno 1645), costringendo Carlo I ad arrendersi.
L’unità
del parlamento, intanto, era messa in pericolo dalle divisioni interne: i
conservatori presero il sopravvento e proposero di sciogliere la New Model
Army. L’esercito allora si rivoltò, espulse dal suo interno i conservatori e
catturò il re. Cromwell, schieratosi a fianco dei soldati, marciò su Londra,
assumendo il pieno controllo della situazione. Epurò il parlamento dalla
maggioranza presbiteriana (conservatrice), soffocando al tempo stesso le spinte
estremistiche presenti nell’esercito. Subito dopo Carlo I fu processato,
condannato a morte e giustiziato il 9 febbraio 1649. Abolita la Camera dei lord
e proclamata la repubblica, Cromwell dovette domare una rivolta in Irlanda
(1649) e fronteggiare un tentativo realista in Scozia (1650); represse
spietatamente le due sommosse e annetté i territori conquistati
all’Inghilterra. La sua politica portò alla promulgazione dell’Atto di
navigazione (1651) che mirava a colpire l’Olanda e il suo dominio
commerciale sui mari, e fu all’origine della prima guerra anglo-olandese
(1652-1654).
Nella
primavera del 1653, davanti a nuovi dissidi sorti all’interno del troncone di
parlamento rimasto (il Rump Parliament), Cromwell lo sciolse con la
forza. Nel dicembre di quello stesso anno si proclamò Lord protettore di
Inghilterra, Scozia e Irlanda, titolo che mantenne fino alla morte, nel
settembre 1658. La sua azione tuttavia non riuscì a sanare i conflitti
costituzionali e le divisioni all’interno del parlamento.
Assai più efficace fu invece il suo
contributo all’espansione commerciale e al potenziamento della flotta. La sua
politica economica, ispirata ai dettami del più ortodosso mercantilismo, diede
un forte impulso allo sviluppo economico e commerciale del paese.
[16] Magna
charta libertatum - Carta fondamentale delle libertà inglesi, concessa
a Runnymedes nel 1215 dal re Giovanni Senzaterra ai baroni del regno e al
parlamento della città di Londra. La monarchia, che si era rafforzata nei
decenni precedenti, era indebolita dalle sconfitte patite da Giovanni in
Normandia e dalla lotta contro il papato e i baroni. Questo documento
accoglieva innanzitutto le richieste dei baroni, cui fu riconosciuto un insieme
di libertà e di immunità; ma concedeva anche una tutela dei diritti di tutti
gli uomini liberi. Contiene alcuni principi di grande importanza, soprattutto
in campo giudiziario (Habeas corpus). Più volte riformata negli anni
seguenti, è ancora in vigore ed è tuttora il primo testo delle collezioni di
leggi vigenti in Inghilterra.
[17] Dichiarazione
dei diritti - Con la Dichiarazione dei diritti (Bill
of Rights, 1689) Guglielmo riconobbe i diritti del parlamento e la libertà
di parola. Repressa nel sangue la resistenza giacobita dei cattolici irlandesi
(1690), si instaurò un regime di tacita separazione dei poteri tra re
(esecutivo) e parlamento (legislativo con controllo sui ministri). L’unione
personale tra Paesi bassi e Inghilterra, da un secolo rivali sui mari, favorì
la creazione di una potenza navale insuperabile.
[18] Rifeudalizzazione - Ricomparsa
o rafforzamento di elementi di carattere feudale nella vita sociale, politica,
economica italiana a partire dalla fine del Cinquecento sino a buona parte del
Settecento. I residui feudali furono di varia natura: dalla ricomparsa di
titoli nobiliari (marchese, conte ecc.), alla riaffermazione della nobiltà
nelle gerarchie sociali e nelle cariche politiche, alla ripresa di forme di
oppressione dei lavoratori nelle campagne. Rifeudalizzazione è, dunque,
sinonimo d’involuzione sociale, politica ed economica e di crisi. Qualcosa di
analogo sembra essere avvenuto anche in Francia (réaction seigneuriale).
[19] Adone - Amore, punito dalla madre
Venere, per vendicarsi la fa innamorare del bellissimo Adone, che visita con la
dea il Palazzo d'Amore. La descrizione di questo palazzo, inframezzata dal
racconto di varie favole (Amore e Psiche, Eco e Narciso, Ganimede, Ila),
dall'elenco delle delizie del Giardino del Piacere, dall'unione dei due amanti,
da un excursus autobiografico sono l'argomento di molti canti successivi.
Stravaganti avventure, provocate dalla gelosia di Marte e dalla maga Falsirena,
separano i due amanti. Venere fa eleggere Adone ritrovato re di Cipro. Mentre
la dea è a Citera, Marte fa uccidere Adone da un cinghiale. Venere celebra per
l'amante esequie fastose, mutandone poi il cuore in un fiore.
[20] Fisiocrazia - Dottrina economica che si affermò in Francia verso il
1750 e si diffuse ben presto in Europa.
Il termine, che deriva dal greco phsis
(natura) e kratêin (dominare), fu usato da P. S. Dupont de Nemours nel 1767, in una raccolta di
scritti di François Quesnay (La Physiocratie).
La premessa fondamentale era che
esiste un ordine naturale della società analogo a quello che si ritrova nella
natura fisica. Ma questo ordine naturale esiste solo se gli uomini non ne
ostacolano la realizzazione. Interessati soprattutto all’analisi economica, i
fisiocratici si opponevano al mercantilismo, che individuava nel commercio
internazionale la fonte della ricchezza dello stato. Per loro, invece, la fonte
era la terra, dal momento che essa era l’unico fattore di produzione in grado
di generare valori aggiunti. Solo la terra era capace di fornire un prodotto
netto, un surplus rispetto agli investimenti apportati. L’agricoltura,
perciò, era in grado di produrre, mentre l’artigianato e la manifattura
trasformavano soltanto.
La classe agricola degli
imprenditori e degli affittuari era quindi, per i fisiocratici, produttiva,
mentre artigiani, commercianti, manifattori e liberi professionisti
costituivano la classe sterile; i proprietari fondiari, il clero, i funzionari
pubblici e il sovrano, infine, si identificavano con la classe oziosa. Costoro
ricevevano sotto forma di rendite, decime o imposte il prodotto netto, che poi,
attraverso i loro consumi, ridistribuivano alla classe sterile e a quella
produttiva.
I fisiocratici erano quindi
favorevoli al libero commercio dei prodotti agricoli e particolarmente
interessati allo sviluppo dell’agricoltura. Poiché lo stato si doveva impegnare
a garantire la libertà, la proprietà e la sicurezza, si giustificava il
prelievo fiscale, che doveva essere però attuato sul prodotto netto attraverso
un’imposta diretta e reale sulla terra, che gravava quindi unicamente sui
proprietari fondiari.
[21] APPROFONDIMENTO: DIRITTO
La spersonalizzazione della
posizione del re - Solo tra il
XVIII e il XIX secolo, questa posizione fu superata. Anche il re divenne un
funzionario statale, il cui primo e esclusivo dovere era di agire
nell’interesse aggettivo dello Stato. Si teorizzò la «ragion di Stato» per
esprimere questo interesse, superiore a quello di qualunque persona fisica,
compresa la persona del re. La sintesi di questa visione è nella celebre frase
di Federico II di Prussia, detto Federico il Grande (1740-1786), che si
definiva il «primo servitore dello Stato».
Lo Stato
poteva allora considerarsi un’organizzazione impersonale che non coincideva
più con nessuna persona fisica, nemmeno con quella del re. Tutti coloro che
agivano per lo Stato - dal più umile impiegato al re - ne erano divenuti
funzionari.
Lo Stato, a
sua volta, divenne titolare di situazioni giuridiche proprie. Esso assunse
capacità giuridica attraverso la personificazione del «fisco», cioè delle
risorse dello Stato, che vennero separate da quelle private del re come persona
privata.
[22] Stati generali - Antica assemblea
straordinaria dei rappresentanti di nobiltà, clero e Terzo stato in Francia e
nelle Fiandre. Derivati dalle assemblee plenarie dei re capetingi, gli Stati
generali francesi furono convocati la prima volta durante il conflitto tra papa
Bonifacio VIII e Filippo IV (1301-1302). Nel 1317 Filippo V dispose che le
città del regno scegliessero i propri rappresentanti all’assemblea,
introducendo il principio dell’elettività dei deputati. Organo puramente
consultivo, non avevano funzioni definite ed erano convocati saltuariamente per
richiedere l’espresso consenso all’operato del sovrano. In alcune circostanze
tentarono di accrescere le proprie prerogative assumendo iniziative politiche,
ma la corona reagì evitando di convocarli. Nel secondo Cinquecento aumentò la
loro importanza specie in materia fiscale e finanziaria, ma crebbe anche la
conflittualità fra le tre componenti. Tali contrasti fecero fallire la riunione
del 1614-1615. Dopo quella data non furono più convocati fino al 1789, quando
la loro pretesa di costituirsi in Assemblea
nazionale costituente segnò l’inizio della Rivoluzione francese. Nelle
Fiandre gli Stati generali, delegati di quelli provinciali, furono convocati
sotto la dominazione borgognona e asburgica (secoli XV-XVI) con funzioni
consultive specie in ambito fiscale. Alla secessione dalla Spagna delle sette
province settentrionali (1579), il nome fu trasferito al principale organo
collegiale di governo, che fu abolito nel 1796, dopo l’arrivo delle truppe
rivoluzionarie francesi.
[23] Assemblea
nazionale costituente - Organismo
formato, durante la
Rivoluzione francese, dai delegati del Terzo stato agli Stati generali, proclamatisi nella Sala
della pallacorda rappresentanti della nazione (17 giugno 1789) per
elaborare una costituzione. Trasformatasi in Assemblea nazionale costituente
dopo che vi si furono congiunti anche i membri della nobiltà e del clero (9
luglio), si sciolse il 30 settembre 1791. I suoi membri, pur non essendo organizzati
in partiti, assunsero posizioni diverse, su cui si sviluppò una nuova
terminologia politica. A destra del presidente sedevano i monarchici
intransigenti. Successivamente in questo gruppo confluì anche il centro,
costituito dai monarchici bicameralisti che, sul modello inglese, riconoscevano
al re il diritto di nominare una seconda camera. Fatta eccezione per qualche
estremista, a sinistra erano i fautori del parlamentarismo, prevalentemente del
Terzo stato, integrati da aristocratici liberali ed esponenti del basso clero.
I rappresentanti degli interessi della medio-alta borghesia desiderosa di
partecipare alla vita politica, ma intenzionata a difendere l’ordine e la
proprietà, riuscirono a imporre la propria linea. Furono così varate riforme
fondamentali quali l’abolizione del regime feudale, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino,
l’incameramento dei beni ecclesiastici e degli emigrati, la Costituzione civile del clero e, infine,
la Costituzione
del 1791.
[24] Girondini - Gruppo politico nato durante la Rivoluzione francese.
Riuniva i deputati all’Assemblea legislativa provenienti dal dipartimento della
Gironda. In seno alla Assemblea i girondini assunsero un atteggiamento radicale
e antimonarchico imponendo a Luigi XVI la dichiarazione di guerra all’Austria e
alla Prussia (20 aprile 1792).
Contrari all’ideologia
egualitaria dei sanculotti parigini, i girondini perseguivano obiettivi ideali
e politici favorevoli alla borghesia, soprattutto alle sue componenti
provinciali e mercantili. Il loro prestigio e il loro potere furono
progressivamente ridotti dall’emergere dei giacobini e dai moti di piazza del
10 agosto 1792 diretti da questi ultimi.
La sconfitta divenne definitiva il 2 giugno 1793
quando i girondini furono costretti a cedere il potere sotto la spinta dei
sanculotti parigini. L’arresto e la condanna a morte di molti di loro costituì
il momento iniziale del terrore. Solamente dopo il 9 termidoro la frangia
superstite del gruppo poté ritornare a sedere tra i banchi della Convenzione.
[25] Giacobini - Membri di un club creato durante la Rivoluzione
francese, a Versailles, nel maggio 1789, da alcuni parlamentari bretoni
capeggiati da J.R. Chevalier, e che si trasferì in ottobre a Parigi, insieme
con l’Assemblea.
Sotto il nome di Società degli amici della costituzione i
giacobini si insediarono nel refettorio dell’ex convento dei domenicani. Ben
presto, sotto la guida di un triumvirato composto da A. Du Port, A. Barnave e
A. De Lameth, riuscirono a costituire una fitta rete di società affiliate in
tutto il paese, divenendo centro propulsore e cassa si risonanza nazionale
della politica rivoluzionaria. Il club, in questa prima fase aderente a una
linea monarchico-costituzionale, escludeva i ceti popolari a causa dell’elevata
quota d’iscrizione che rendeva loro proibitiva l’adesione. Il suo principale
obiettivo era la promozione di progetti di legge da sottoporre all’Assemblea e
l’attività di propaganda delle leggi già rese esecutive. Ma la crisi di regime
aperta dalla fuga di Varennes (giugno 1791) e aggravata dall’eccidio di Campo
di Marte (luglio 1791), creò nel club parigino una profonda spaccatura,
determinando la fuoriuscita della maggioranza, riunita intorno a Barnave e La
Fayette, che andò a costituire il gruppo dei
foglianti.
Moderata fino ad allora, la
politica giacobina assunse, da quel momento, un indirizzo più democratico, ma
soprattutto più intransigente. Da luogo di discussione il club si trasformò in
laboratorio di idee e forze rivoluzionarie volte alla conquista del potere. Mutato
il suo nome dal settembre 1792
in quello di Club
dei giacobini, la società eliminò dal suo interno le residue frange
moderate e, nel maggio 1793, riuscì a esautorare il governo dei girondini.
Divenne così il gruppo più organizzato ed egemone nella Convenzione ed ebbe in
Robespierre il capo indiscusso. L’alleanza con i sanculotti parigini, pur non
priva di momenti di tensione che si fecero particolarmente acuti nella
primavera del 1794, spinse i giacobini a radicalizzare la lotta contro
aristocratici e monarchici e ad appoggiare misure che limitavano la libertà
economica. Durante il terrore i giacobini sostennero il Comitato di salute
pubblica.
Il colpo di stato del termidoro e la conseguente
svolta moderata determinarono la chiusura del club, nel novembre 1794.
[26] Comitato di
salute pubblica (1793-1795). - Organo di sorveglianza e poi
di governo della Francia rivoluzionaria. Istituito il 6 aprile 1793 dalla
Convenzione, in sostituzione del Comitato
di difesa generale, e costituito da nove deputati, ebbe il potere
esecutivo. Dopo la sconfitta della Gironda e la presa del potere da parte della
Montagna (2 giugno), fu riorganizzato e diviso in sei sezioni, diventando il
principale organo del governo rivoluzionario. Modificato anche nella struttura,
il nuovo organismo, composto da dodici e poi da quattordici membri, fu, dopo
l’esclusione di Danton, dominato dalla figura di Robespierre.
Intervenendo in tutti i problemi sia di politica
interna sia estera, il Comitato bandì la leva di massa generalizzata, prese
provvedimenti di carattere economico quali l’istituzione di un calmiere dei
prezzi, realizzò la centralizzazione amministrativa e iniziò l’opera di
scristianizzazione attraverso l’adozione di un nuovo calendario e l’istituzione
del culto della Ragione.
Nel settembre 1793 ebbero luogo i primi grandi
processi politici, mentre la
Francia ottenne vari successi nella campagna di guerra
allontanando la minaccia di una invasione del territorio nazionale e cogliendo
alcune importanti vittorie. Il rinnovarsi di conflitti interni fra il Comitato
di salute pubblica e il Comitato di sicurezza generale e il contrasto, in seno
al primo, fra Robespierre e Lazare-Nicolas Carnot portarono alla reazione dei
moderati e al colpo di stato del 9 termidoro (27 luglio 1794). Pur rimanendo in
vita ancora per un anno il Comitato di salute pubblica fu epurato degli
elementi più vicini a Robespierre e perse il suo ruolo centrale, venendo
affiancato da altri comitati e quindi sciolto definitivamente alla caduta della
Convenzione (26 ottobre 1795).
[27] Terrore - (1792-1794). Periodo della Rivoluzione francese in
cui prevalsero le forze più radicali e si adottarono misure eccezionali per
fronteggiare la controrivoluzione interna e gli eserciti stranieri che
premevano alle frontiere. Un primo periodo di terrore si ebbe alla caduta della
monarchia (10 agosto 1792), quando giacobini e sanculotti, organizzati nella
Comune di Parigi, imposero all’Assemblea legislativa l’istituzione di un
tribunale straordinario per giudicare traditori e sospetti e l’adozione di
provvedimenti quali la spartizione tra i contadini dei pascoli comuni, la
vendita in piccoli lotti dei beni nazionalizzati, il suffragio universale.
Assunto il controllo della Convenzione da parte dei giacobini (2 giugno 1792),
il Terrore infuriò a partire dal settembre 1793. Giustificato dalla volontà di
salvare la Rivoluzione, fu applicato in tutti i settori di competenza dello
stato: amministrazione, giustizia, finanze, esercito, economia, cultura. Il
Tribunale rivoluzionario liquidò con processi sommari i controrivoluzionari e
gli oppositori del governo. La leva di massa permise il successo militare
mentre la regolamentazione dell’economia (requisizioni, calmiere dei prezzi)
consentì di sostenere lo sforzo bellico e di controllare la crisi economica e
sociale. Nonostante la sconfitta dei nemici interni ed esterni, si ebbe una
recrudescenza del Terrore con la legge del 22 pratile (10 giugno 1794) che
accentuò l’isolamento del gruppo dirigente. Il regime fu abbattuto il 9
termidoro (27 luglio 1794) e la cruenta reazione antigiacobina che seguì prese
il nome di Terrore bianco (1794-1795).
[28] Maximilien de Robespierre (Arras 1758
- Parigi 1794). Politico
francese. Avvocato, intellettuale illuminista seguace di Rousseau e critico nei
confronti dell’assolutismo regio e del sistema giudiziario, fu eletto deputato
agli Stati generali del 1789. Appassionato difensore della libertà e
dell’uguaglianza tra gli uomini, esercitò la sua influenza nel club dei
giacobini, divenendone leader indiscusso con le campagne a favore del suffragio
universale e contro la monarchia dopo la fuga di Varennes. La vita austera e
l’intransigenza morale gli valsero il soprannome di Incorruttibile. Ostile alla
dichiarazione di guerra all’Austria, in cui identificava un pericolo per le
sorti della rivoluzione, dopo lo scoppio del conflitto (aprile 1792) e i primi
rovesci militari divenne strenuo sostenitore della difesa a oltranza. Eletto
membro della Comune di Parigi dopo la rivolta popolare del 10 agosto 1792, fu
poi deputato alla Convenzione dove si schierò con i montagnardi contro i
girondini.
Disinteressato fino ad allora ai problemi
dell’approvvigionamento, appoggiò il programma dei sanculotti che chiedevano il
calmiere dei prezzi delle derrate nonché l’epurazione dei sospetti e il
potenziamento delle sezioni popolari. Dopo che i montagnardi ebbero conquistato
il controllo della Convenzione con l’aiuto dei sanculotti (giornate del 31
maggio e del 2 giugno 1793), si adoperò per contenere le spinte radicali di
questi ultimi e sostenne la necessità di un potere dittatoriale. Animatore del
Comitato di salute pubblica, adottò misure straordinarie per fronteggiare le
difficoltà del momento e salvare la rivoluzione dai nemici interni ed esterni,
non esitando a instaurare il regime del Terrore. La sconfitta della
controrivoluzione e i successi militari riportati dalla Francia sugli eserciti
coalizzati resero sempre più inviso e meno giustificabile il Terrore e
favorirono l’alleanza degli oppositori che il 9 termidoro posero sotto accusa
Robespierre di fronte alla Convenzione. Arrestato insieme ai suoi più stretti
collaboratori, fu giustiziato il giorno successivo.
[29] Sanculotti
- (sans-culottes). Termine coniato durante la Rivoluzione francese
per designare i popolani che portavano i pantaloni lunghi invece delle
culottes, calzoni corti e aderenti preferiti dall’aristocrazia. Adoperato
dapprima in senso spregiativo dalla pubblicistica ostile alla Rivoluzione, con
il radicalizzarsi della lotta politica l’appellativo divenne motivo di orgoglio
per i militanti delle sezioni parigine. Quanto a provenienza sociale i
sanculotti erano essenzialmente produttori indipendenti, piccoli commercianti e
artigiani, ai quali si aggiungeva una modesta percentuale di salariati. Erano
decisamente esclusi dalle loro file sia i poveri e gli indigenti, sia la
borghesia agiata dei grossi rentiers, dei mercanti e dei capitalisti.
Protagonisti delle giornate rivoluzionarie e reclutati in massa nelle armate, i
sanculotti si imposero sulla scena politica dall’estate 1792 fino alla
primavera 1795. Sensibili alle difficoltà d’approvvigionamento, all’aumento dei
prezzi e alla svalutazione degli assegnati, reclamarono la regolamentazione
dell’economia e la fissazione del maximum
dei prezzi. Sostenitori della democrazia diretta, tollerarono male il sistema
rappresentativo e la concentrazione di potere nelle mani del governo
rivoluzionario. Indifferenti alle vicende del nove termidoro, furono in momentanea ripresa dopo la caduta di
Robespierre, ma si disgregarono in seguito al fallimento delle giornate
insurrezionali di germinale e pratile (aprile-maggio 1795).
[30] Georges
Jacques Danton (Arcis-sur-Aube 1759 -
Parigi 1794). - Di modeste origini borghesi, studiò diritto e si trasferì a
Parigi. Scoppiata la
Rivoluzione , vi aderì prontamente e, abile oratore, si
distinse nella lotta contro le correnti più moderate. Leader del club dei
cordiglieri e fervente repubblicano, ebbe un ruolo determinante nelle
agitazioni che provocarono l’eccidio del Campo di Marte (1791) e nell’insurrezione
del 10 agosto 1792 che portò alla caduta della monarchia. Nominato ministro
della Giustizia, tollerò le stragi di settembre. Eletto alla Convenzione, tentò
di mediare il contrasto tra girondini e montagnardi; infine si schierò con
questi ultimi ed entrò nel Comitato di salute pubblica. Di fronte alle vicende
della guerra del 1792-1793 si adoperò per reclutare un grande esercito e
fronteggiare la coalizione austro-prussiana; tuttavia, mentre pubblicamente
spingeva i francesi alla liberazione dei popoli e al raggiungimento dei confini
naturali, intavolava trattative con gli avversari. Tale atteggiamento
contraddittorio, gli arricchimenti illeciti e il coinvolgimento in alcuni
scandali gli alienarono molti favori. Assunta la direzione dell’opposizione moderata
a Robespierre, da quest’ultimo fu usato per sconfiggere gli oppositori di
sinistra, ma poi venne egli stesso eliminato. Arrestato insieme ai suoi
seguaci, gli indulgenti, fu giudicato
dal Tribunale rivoluzionario e condannato a morte.
[31] Colpo di stato del Termidoro - Rovesciamento del governo giacobino
durante la Rivoluzione
francese. Il Comitato di salute pubblica
fu privato dei suoi poteri e Robespierre e i suoi seguaci, accusati di
ambizione e dispotismo di fronte alla Convenzione, furono arrestati e
decapitati il giorno successivo.
Al successo della congiura antigiacobina avevano
contribuito le vittorie riportate sui nemici interni ed esterni della
rivoluzione che avevano reso inutile il regime del Terrore. Inoltre si erano
allentati i legami tra il governo rivoluzionario e i sanculotti, scontenti per
il calmiere sui salari e per le esecuzioni dei seguaci di Hébert. Infine, il
gruppo dirigente aveva perduto l’appoggio della Convenzione dopo l’alleanza tra
i moderati della Palude e i
cosiddetti terroristi, rappresentanti
in missione nelle province, richiamati da Robespierre a Parigi a causa dei loro
misfatti.
[32] John Locke
- Dal 1667 segretario e medico personale di lord Shaftesbury, lo seguì nel 1683
in Olanda quando, per la sua opposizione a Carlo II, questi fuggì
dall’Inghilterra. In Olanda pubblicò la Lettera sulla tolleranza, nella
quale combatteva il principio della chiesa di stato e difendeva la libertà di
coscienza, sostenendo che la tolleranza andava negata alle confessioni
intolleranti, come il cattolicesimo, e agli atei, per il carattere antisociale
delle loro dottrine.
Nel 1689 tornò in patria al seguito di Maria Stuart e
Guglielmo d’Orange e pubblicò, nel 1690, i Due trattati sul governo civile.
Il primo confutava la legittimazione biblica e patriarcale dell’assolutismo
data da Robert Filmer; il secondo teorizzava lo stato come garante dei diritti
naturali (in particolare la libertà e la proprietà) e delineava i caratteri di
una monarchia parlamentare fondata sul principio della divisione dei poteri.
Nello stesso anno apparve anche la sua opera più importante, il Saggio
sull’intelletto umano.
Dal 1696 al 1700 fece parte del Consiglio per il
commercio e le colonie.
[33] che ebbe straordinari esempi nell’opera di Jonathan
Swift e di Voltaire; nei Viaggi di Gulliver (1726) Swift mescola il
gusto comico del paradosso a una vigorosa vena satirica.
[34] che ebbe straordinari esempi nel Candido
(1759) di Voltaire, il romanzo che divenne strumento di confutazione
intellettuale di teorie pedagogiche, sistemi filosofici e ideologie politiche e
soprattutto il romanzo Emilio o dell’educazione (1762) di Jean-Jacques
Rousseau
[35] A questo romanzo fecero seguito altri capolavori del
sottogenere come I misteri di Udolfo (1794) di Ann Radcliffe, Il
monaco (1796) di Matthew Gregory Lewis e Frankenstein (1818) di Mary
Wollstonecraft Shelley. La tensione al gotico e all’orrore fu sempre molto viva
nello sviluppo del romanzo, e negli ultimi anni si è anzi rinnovata, tanto da
far sì che le horror stories siano oggi uno dei generi romanzeschi più
frequentati.
[36] Il modello narrativo del romanzo epistolare annovera
nel Settecento altri importanti capolavori come La nuova Eloisa (1761)
di Jean-Jacques Rousseau (che allude fin dal titolo a un famoso archetipo del
genere epistolare: il carteggio medievale tra Abelardo ed Eloisa), I dolori
del giovane Werther (1774) di Johann Wolfgang Goethe e Le ultime lettere
di Jacopo Ortis (prima edizione, incompleta, 1798) di Ugo Foscolo.
[37]
Confederazione germanica - Associazione
politica delle trentanove entità statuali tedesche. Fu fondata durante il
congresso di Vienna e si sciolse dopo la guerra austro-prussiana. Sotto
l’egemonia dell’Austria, i suoi poteri reali furono scarsi. La Prussia, dopo la
diffusione dello Zollverein e la
nomina di O. Bismarck a cancelliere nel 1862, ne minò la stabilità, fino a
creare la Confederazione della Germania del nord.
[38] Manifesto
del Partito Comunista - Opuscolo
scritto da K. Marx con la collaborazione di F. Engels su incarico della Lega
dei comunisti e pubblicato a Londra. Divenne il programma politico della prima Internazionale nel 1864 ed ebbe
amplissima diffusione. Vi si identificava la storia come storia di lotta fra le
classi, prospettando i mezzi con i quali il proletariato poteva sconfiggere la
borghesia e instaurare il comunismo.
[39] APPROFONDIMENTO: Il
Risorgimento italiano e l’Europa - Da questa rapida
esposizione risulta chiaro che il Risorgimento italiano non fu un movimento a
sé stante, ma si inserì nel più vasto movimento politico e culturale europeo e
per più ragioni:
a) I moti insurrezionali e le successive guerre di
indipendenza che portarono alla costituzione del Regno furono resi possibili
dall’evolversi della situazione politica europea e dal conseguente venir meno
della forza repressiva della Santa Alleanza; il che consentì il formarsi di un
più libero gioco di potenze.
b) Gli eventi italiani rappresentarono il contraccolpo di
analoghi eventi stranieri. Ad esempio, i moti italiani del ‘21 furono ispirati
dalla insurrezione spagnola di Cadice (1820); quelli del ‘31 furono promossi
dalla Rivoluzione francese del luglio 1830; le insurrezioni del ‘48 furono uno
dei movimenti di rivolta che percorsero l’Europa a seguito della rivoluzione
scoppiata in Francia nel febbraio dello stesso ‘48.
c) La politica di Cavour si inserì abilmente nel gioco
europeo, sfruttando a proprio vantaggio l’ambizione di Napoleone III che mirava
a porre un’ipoteca francese sul nuovo assetto che veniva delineandosi in
Italia.
d) Il patrimonio di idee che costituì il supporto all’azione
degli uomini del nostro Risorgimento era comune a tutta l’Europa liberale
frutto di un lungo processo al quale l’Italia, rimasta appartata nei secoli XVI
e XVII, si era ricongiunta a partire dalla seconda metà del secolo XVIII.
I protagonisti del Risorgimento ebbero coscienza del
significato europeo della loro azione, sia i carbonari che si collegavano agli
altri liberali europei, sia il Mazzini che vedeva il Risorgimento italiano come
un momento del risorgimento europeo, sia il Cavour che considerava
l’applicazione della concezione liberale, affermatasi in Inghilterra e Francia,
come l’elemento che avrebbe portato l’Italia al livello dei grandi Stati
d’Europa.
[40] Giuseppe Mazzini –
Giuseppe Mazzini nacque a Genova il 22 giugno del 1805 da Giacomo, professore
universitario ex giacobino e da Maria Drago.
A soli quindici anni fu ammesso
all'Università, in un primo tempo venne avviato agli studi di medicina, poi a
quelli di legge, ma sin dall'adolescenza si mostrò più interessato agli studi
politici e letterari.
Nel 1826 scrisse il suo primo
saggio letterario, Dell'amor patrio di Dante (pubblicato poi nel 1837). Nel
1827 si laureò in legge, e nello stesso periodo entrò a far parte della
Carboneria, per la quale svolse incarichi vari di carattere organizzativo in
Liguria e in Toscana.
Animo rivoluzionario, concepiva
la rivoluzione non come rivendicazione di diritti individuali non riconosciuti,
bensì come un dovere religioso da attuare in favore del popolo. Negli anni
seguenti collaborò con l'Indicatore genovese, scrivendo articoli e note
bibliografiche. Nel 1830 Mazzini iniziò a viaggiare in tutta Italia per trovare
nuovi adepti per la carboneria. Tradito e denunciato alla polizia quale
carbonaro venne arrestato e rinchiuso nella fortezza di Savona. L'anno
seguente, prosciolto per mancanza di prove e quindi liberato, gli venne imposto
di scegliere tra il confino, sotto la sorveglianza della polizia, o l'esilio.
Scelse quest'ultimo, recandosi a Ginevra dove incontrò altri esuli.
Si laureò in giurisprudenza, ma
era interessato allo studio della letteratura come impregno civile. Affiliato
alla carboneria genovese svolse un’intensa attività sperando che la rivoluzione
francese del 1830 aprisse prospettive rivoluzionarie anche in Italia. Fu
arrestato nel 1830 e esiliato nel 1831.
In seguito, a Marsiglia, fondò la
Giovine Italia, che ebbe come sottotitolo: Serie di scritti intorno alla
condizione politica, morale e letteraria dell'Italia, tendenti alla sua
rigenerazione, società con cui propugnò l'unità nazionale in senso repubblicano
e democratico. Appena salito al trono Carlo Alberto, gli scrisse per esortarlo
a prendere l'iniziativa della riscossa italiana, ma senza ottenere risultati.
Allargò poi il suo impegno ideologico con la fondazione della Giovine Europa.
Giuseppe Mazzini morì a Pisa nel
1872, con la consolazione di spegnersi in patria, dopo aver vissuto quasi
sempre in esilio.
[41] L'organizzazione Giovine Italia – Mazzini fondò a Marsiglia la
Giovine Italia.
Nel 1832, a Marsiglia, inizia la
pubblicazione della rivista "La Giovine Italia", che ha come
sottotitolo "Serie di scritti intorno alla condizione politica, morale e
letteraria dell'Italia, tendenti alla sua rigenerazione". Mazzini
individuò nel tipo di azione politica svolta dalla carboneria e ancor prima
dalla massoneria le cause del fallimento dei moti italiani. I difetti di questa
organizzazione erano stati la segretezza e la mancanza di un programma ben
definito. La segretezza aveva impedito ai cospiratori di avere ampia
partecipazione da parte delle popolazioni che si erano trovate coinvolte in
moti di cui non conoscevano né i capi né la finalità. La mancanza di chiari
programmi aveva determinato anche negli stessi organizzatori incertezze e
divisioni. Gli affiliati della Giovine Italia dovevano propagare le proprie
idee perché l’opera di educazione era fondamentale per ottenere la
rigenerazione morale e spirituale del popolo italiano.
L’opera di educazione doveva
concludersi con l’impegno all’insurrezione e la partecipazione diretta alla
guerra armata. Tra educazione ed insurrezione esisteva un rapporto di
dipendenza. La propaganda avrebbe accresciuto il numero delle persone disposte
a lottare e lo lotta avrebbe costituito un ulteriore momento di educazione. Lo
sforzo di organizzazione compiuto da Mazzini da 1831 al 1843 fu enorme: la
"Giovine Italia" era penetrata in tutti gli stati italiani, faceva
proseliti soprattutto nei ceti borghesi, ma reclutava aderenti anche tra
artigiani e proletari. Scarsa fu invece la penetrazione nelle campagne. Secondo
il programma di Mazzini l’Italia doveva essere una – indipendente – sovrana. La
Giovine Italia conobbe una rapida
espansione caratterizzandosi nella sostanza come partito di quadri, composto
cioè da persone preparate e pronte all'azione insurrezionale. Ma i tentativi
insurrezionali compiuti si conclusero con l'insuccesso. Nel 1833 e poi nel 1834
l'organizzazione fu decimata da arresti e condanne. Mazzini, constatata
l'immaturità politica italiana, fondò a Berna (Svizzera) la Giovine Europa
Mazzini non si riconosceva in
alcuna Chiesa, malgrado ciò, il rivoluzionario genovese era uno spirito
profondamente religioso, convinto che dio avesse assegnato agli uomini la
missione di vivere nella pace e nella giustizia. Gli individui, pertanto,
dovevano concepire la propria esistenza in primo luogo come un dovere e
dedicare ogni energia alla costruzione del nuovo mondo libero e giusto che Dio
chiedeva loro di costruire. Dio, inoltre, secondo Mazzini, aveva assegnato
all’Italia un ruolo di primaria importanza. Proprio perché la sua condizione
era particolarmente difficile, essa doveva dare l’esempio a tutti gli altri
popoli e indicare la via della liberazione dal dominio straniero e
dall’oppressione.
L’idea di nazione, dunque, era al
centro del pensiero mazziniano. A giudizio di Mazzini, tutti i popoli avevano
pari dignità e pari diritti alla libertà e all’indipendenza, non a caso degli
fondò nel 1834 la Giovine Europa. La scelta repubblicana si spiega con il fatto
che, per Mazzini, la sovranità apparteneva solamente al popolo: questi non
poteva delegare a nessuno a governare al duo posto. Un popolo che con le
proprie forze fosse riuscito a conquistare la libertà sarebbe riuscito pure ad
esercitare il potere, senza far ricorso ai re, che per altro erano tutti,
secondo Mazzini, dei potenziali tiranni e dittatori spietati.
Il contributo del mazzinianesimo
al Risorgimento è da riconoscere in questa affermazione che il popolo italiano
avrebbe conquistato la sovranità e la libertà solo assumendo direttamente
l’iniziativa politica. La futura Italia avrebbe dovuto essere una repubblica
perché solo la forma repubblicana avrebbe permesso al popolo italiano di
attuare la missione affidatagli da Dio. La Giovine Italia determinò un salto di
qualità nella organizzazione della lotta politica in Italia.
[42] Vincenzo Gioberti – Il filosofo, teologo, sacerdote e uomo politico
Vincenzo Gioberti, nacque a Torino il 5 aprile 1801 figlio di Giuseppe, un
piccolo borghese di condizione economiche modeste, che lo lasciò orfano in
giovane età. Sotto l’influenza della madre, una donna di forti sentimenti
religiosi, Gioberti. intraprese un percorso d’educazione e studi ecclesiastici,
presso i Padri Oratoriani, culminato con la laurea in teologia nel gennaio 1823
e l’ordinazione a sacerdote nel marzo 1825.
Nel 1826 egli fu nominato
cappellano di corte ed, in seguito, entrò progressivamente nella vita sociale e
politica del Piemonte dell’epoca, dapprima allacciando rapporti con la società
segreta dei Cavalieri della Libertà, d’orientamento costituzionalista liberale
moderato, poi collaborando, sotto lo pseudonimo di Demofilo, con la rivista di
Giuseppe Mazzini dal1805 al 1872, La Giovine Italia.
Tuttavia le sue idee filosofiche
panteistiche e, soprattutto, il pensiero politico d’ispirazione repubblicana mazziniana,
lo misero in cattiva luce: fu, infatti, arrestato dalla polizia nel giugno
1833, e, dopo qualche mese di carcere, costretto ad andare in esilio nel
settembre dello stesso anno.
Visse quindi per ben quindici
anni all’estero, dapprima a Parigi, poi lungamente a Bruxelles, dove campò come
insegnante e scrivendo svariati trattati filosofici e politici. La sua fama è
soprattutto legata alla pubblicazione, nel 1843, del trattato “Del primato
morale e civile degli Italiani”, dedicato a Silvio Pellico. Accolto in maniera
molto fredda, se non ostile dal mondo ecclesiastico. In particolare, esso diede
inizio ad un’annosa polemica tra Gioberti e l’ ordine dei gesuiti, che proseguì
con le “Prolegomeni al Primato” del 1845,” Il Gesuita Moderno” del 1847 e “l’Apologia
del Gesuita Moderno” del 1848, e che portò, qualche anno dopo, alla messa
all’Indice dei suoi libri.
Sempre al periodo franco-belga
risalgono alcuni suoi scritti polemici contro Antonio Rosmini “Errori
filosofici di Antonio Rosmini”, del 1842, ”Felicité de Lamennais“, del
1840 e contro il filosofo hegeliano francese Victor Cousin.
Nel 1846 il re sabaudo Carlo
Alberto (1831-1849) proclamò un’amnistia, ma Gioberti, che nel frattempo si era
trasferito a Parigi, non ne usufruì e fece ritorno in patria solo nel 1848, il
29 aprile, dopo un rientro a Torino, a Gioberti,. fu offerto un seggio di
senatore, ma egli preferì quello di rappresentante nella Camera dei Deputati
del regno di Sardegna, di cui fu eletto primo presidente.
Poco dopo Gioberti. divenne capo
del governo piemontese, tuttavia lo scoppio della seconda fase della 1° guerra
d’indipendenza e le polemiche con gli altri ministri sulla sua proposta di
restaurare il Granduca di Toscana e il papa,scacciati dai moti popolari del
1848 dai loro rispettivi troni, misero fine alla sua carriera politica. Non
piaceva, tra l’altro, la sua idea di una federazione di stati italiani sotto la
presidenza del papa, che gli valse il titolo di neo-guelfo.
Dopo la sconfitta di Novara del
23 marzo 1849, il nuovo re Vittorio Emanuele II re di Sardegna: 1849-1861; re
d’Italia: 1861-1878 offrì a Gioberti. un incarico diplomatico a Parigi, dove si
trasferì e da dove non fece mai più ritorno in Italia. A Parigi Gioberti,
compose l’altra sua opera fondamentale dopo il “Primato morale e civile”, “il
Rinnovamento civile d’Italia”; morì per un colpo apoplettico il 26
ottobre 1852.
La sua filosofia è una miscela di
ontologismo panteistico, tradizionalismo e neoplatonismo. Il tutto è riassunto
in un processo ciclico, che presenta una fase discendente, la mimesi il
processo di derivazione del mondo da Dio, ed una fase ascendente, la metessi il
processo con cui il mondo e l’uomo ritornano a Dio.
Dio si presenta al nostro intuito
come l’Idea, o l’Essere reale assoluto, o Ente (Ens), che non può essere
causato da altro ed esiste quindi “necessariamente”.
Tutte le creature sono invece
“esistenze” e sono state create ex nihilo da Lui ; per Gioberti. la mimesi era
riassunta nella frase “l’Ente crea l’esistente”, e da Lui discendono, ma non
possono essere confusi con Lui. La creazione non si conclude, in ogni caso, con
l’atto creativo, ma con l’anelito dell’esistente – in particolare l’uomo – a
ritornare all’Ente, sintesi della metessi era la frase “l’esistente torna
all’Ente”.
[43] Cesare Balbo (Torino 1789-1853) – Conte di Vinadio, uomo politico e
storico italiano. Figlio di Prospero e di Enrichetta Taparelli d'Azeglio, subì
in gioventù l'influenza di Alfieri, e fondò, nel 1804, con alcuni coetanei
l'Accademia dei Concordi, nelle cui discussioni cominciarono a prendere forma
le sue idee liberal-moderate.
Durante la dominazione francese
in Italia fu al servizio di Napoleone, ricoprendo successivamente le cariche di
segretario generale della giunta governativa di Toscana (1808), di segretario
della consulta per i territori già pontifici (1809) e infine di uditore al
Consiglio di Stato di Parigi (1811).
In seguito al moto liberale
piemontese del 1821, al quale peraltro non aveva partecipato, fu esiliato nel
1822. Si concentrò da allora negli studi storici e filosofici ed oltre alle
Memorie sulla rivoluzione del 1821, la Storia d'Italia sotto i barbari, cioè
dal 476 al 774 (1830), i Pensieri ed esempi di morale e di politica, scritti
nel 1832-1833 e pubblicati postumi nel 1854, la Vita di Dante (1839), le
Meditazioni storiche (1842-1845) e il classico Sommario della storia d'Italia
(1846).
Iniziato, col Primato di
Gioberti, il movimento d'opinione moderato per la soluzione della questione
italiana, Cesare Balbo, in sostegno, aveva pubblicato nel 1844 Le speranze
d'Italia.
Dopo la concessione dello statuto albertino Balbo fu
il primo presidente del consiglio del regno di Sardegna (13 marzo - 25 luglio
1848), e in seguito fu capo della Destra nel parlamento subalpino. Ma negli
ultimi anni della sua vita tornò a dedicarsi agli studi, scrivendo articoli e
saggi che confluirono nella raccolta postuma Della monarchia rappresentativa in
Italia (1857).
[44] Massimo d'Azeglio – Massimo d'Azeglio nacque a Torino nel 1798 da
nobile famiglia.
Figura politica di primo piano ,
durante la sua vita si dedicò anche alla pittura e alla letteratura, sia in
veste di scrittore politico che di romanziere.E' stato una persona liberale
moderato, arrivò a ricoprire la carica di Presidente del Consiglio del Regno di
Sardegna dal 1849 al 1852. Nel 1860 fu nominato governatore di Milano.Fu anche
pittore, noto per i paesaggi e i quadri di battaglie. Tra i suoi opuscoli
politici sono famosi "Gli ultimi casi di Romagna" (1846) in cui
invitava gli italici a abbandonare la via delle cospirazioni, e "I lutti
di Lombardia" (1848)
Tra le sue opere più famose
ricordiamo Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta (1833), accolto da
grandissimo successo, e Niccolò de' Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni
(1841). Durante gli ultimi anni della sua vita, trascorsi sul Lago Maggiore, si
dedicò alla scrittura delle sue memorie, pubblicate postume col titolo I miei
ricordi nel 1867. Più riuscito forse il libro autobiografico "I miei
ricordi" (1867), ritratto di un gentiluomo moderato, combattuto tra il vecchio
e il nuovo. Domina l'intento civile, la prosa scorre limpida e piena, colorita,
ritrae con preciso gusto figure e paesaggi. D'Azeglio morì infatti a Torino nel
1866.
[45] Carlo Cattaneo – Carlo Cattaneo è stato patriota e politico
italiano del XIX secolo. E' considerato uno dei padri del federalismo. Nasce a
Parabiago (MI) il 15 giugno 1801.
Diplomatosi negli studi classici,
intraprende la professione dell'insegnante e frequenta i circoli intellettuali
nella Milano della prima metà del secolo. Nel 1848 partecipa alle cinque
giornate di Milano e successivamente costretto a riparare in fuga a Lugano dove
muore il 6 febbraio 1869.
Carlo Cattaneo è ricordato per il
suo pensiero politico federalista. Pur avendo combattuto nelle cinque giornate
di Milano, si oppone al progetto di unificazione dei Savoia preferendo al suo
posto un modello di Stato confederato sulla stregua di quello svizzero.
Per non giurare fedeltà ai Savoia
rifiuta di tornare in Italia, rinunciando anche al posto in Parlamento come
neoeletto deputato nelle file dei repubblicani. Rispetto a Mazzini, Cattaneo è
più pragmatico e più vicino alle idee illuministe. E' considerato uno dei padri
del federalismo. Secondo Cattaneo i popoli possono gestire meglio la loro
partecipazione alla cosa pubblica soltanto ricorrendo al federalismo ed
evitando di delegare la propria libertà a popoli lontani dalle proprie
esigenze. Da qui la sua contrarietà al Regno dei Savoia.
Carlo Cattaneo è anche ricordato per le sue forti
convinzioni liberiste.
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