1.
L’Impero – Le due date indicate come inizio e
fine convenzionali dell'Impero Romano sono puramente arbitrarie per tre
ragioni:
1.
non vi fu mai una vera e propria
fine formale della Res publica romana[1],
le cui istituzioni non furono mai abolite, ma persero solo il loro potere
effettivo a vantaggio dell'imperatore;
2. nei
quattrocentoventidue anni tra esse compresi, si alternarono due fasi
caratterizzate da forme profondamente diverse di organizzazione e di
legittimazione del potere imperiale, il Principato, forma di
governo dell'impero in cui, senza abolire le precedenti istituzioni
repubblicane, il principe assumeva la guida dello stato e ne
costituiva il perno politico. Gradatamente rafforzatasi la forma assolutistica
con i successivi imperatori, il principato entrò in crisi con la fine della dinastia dei Severi nel 235, e si ebbe
il Dominato, forma di governo dell'Impero, nella quale
l'imperatore, non più contrastato dai residui delle antiche istituzioni della
Repubblica Romana, poteva disporre da padrone dell'Impero, cioè nella qualità
di dominus. La transizione dalle due forme di governo, avviata con
la fine della dinastia dei Severi, può dirsi completata nel 285 con l'inizio
del regno di Diocleziano, e l'inizio della Tetrarchia.
3.
dopo la divisione dell'impero le due
parti continuarono a sopravvivere, l'una sino alla deposizione dell'ultimo
cesare d'Occidente Romolo Augustolo nel 476, l'altra perpetuandosi per ancora
un millennio nell'entità politica nota come Impero Bizantino.
Nel
31 a.C., Ottaviano divenne arbitro e padrone dello Stato: inaugurò nel 27 a.C.
la definitiva forma del suo principato e governò, con una formula di primus
inter pares, pater patriae, princeps e,
soprattutto, augustus, titolo onorifico conferitogli in quell'anno
dal Senato, per indicare il carattere sacrale e propiziatorio della sua
persona. Il regno di Augusto era stato caratterizzato dal rispetto formale
delle istituzioni repubblicane; d’altra parte, il cumulo di poteri delle
diverse cariche portarono il princeps ad ottenere un
potere tale, che nessun altro uomo prima di lui a Roma aveva mai ottenuto,
aveva posto le basi per una nuova realtà politica: l’Impero.
L’impero
con alterne vicende durò fino al 476, convenzionalmente considerato come data
di passaggio tra evo antico e Medioevo.
La
morte di Agrippina
dagli Annali di Cornelio Tacito
Nessuno
sapeva escogitare in che modo nascondere un delitto a mano armata, e in più
Nerone temeva che colui che fosse stato scelto per un delitto così grande, si
rifiutasse di eseguire gli ordini. Un piano geniale lo propose il liberto
Aniceto, comandante della flotta presso Miseno, precettore dei figli di Nerone
e con reciproci sentimenti d’odio verso Agrippina. Dunque spiegò che era
possibile allestire una nave, una parte della quale, staccata ad arte in mare
aperto, scaraventasse in acqua Agrippina senza che se ne accorgesse; argomentò
che non c’è niente tanto capace di apportare disgrazie quanto il mare; e se
fosse stata inghiottita da un naufragio, chi sarebbe stato tanto malevolo da
attribuire ad un delitto ciò che i venti ed i flutti avevano causato? Il
principe avrebbe poi innalzato un tempio in onore della defunta per fare bella
mostra del suo affetto filiale.
L’idea geniale fu accolta, favorita anche dalle circostanze, dal
momento che Nerone celebrava presso Baia le feste quinquatrie. Qui attese
Agrippina, mentre andava ripetendo a tutti che si dovevano tollerare i malumori
della madre, e che gli animi si dovevano riappacificare; da ciò sarebbe sorta
la voce di una riconciliazione, ed Agrippina l’avrebbe accolta con la facile
credulità delle donne per le cose che suscitano piacere. Nerone, poi, sulla
spiaggia, mosse incontro a lei che veniva dalla sua villa di Anzio, ed avendola
presa per mano l’abbracciò e la condusse a Bauli. Questo è il nome di una villa
che è lambita dal mare, nell’arco del lido tra il promontorio Miseno e
l’insenatura di Baia. Era là ancorata, fra le altre navi una più fastosa, come
se anche ciò volesse rappresentare un segno d’onore alla madre; Agrippina,
infatti, era solita viaggiare su una trireme con rematori della flotta
militare. Fu allora invitata a cena, poiché era necessario attendere la notte
per celare un misfatto.
È opinione diffusa che vi sia stato un traditore e che Agrippina,
informata della trama, nell’incertezza se prestare fede all’avvertimento, sia
ritornata a Baia in lettiga. Qui le manifestazioni d’affetto del figlio
cancellarono in lei ogni paura; accolta affabilmente fu fatta collocare al
posto d’onore. Coi più svariati discorsi, ora con tono di vivace famigliarità,
ora con atteggiamento più grave, come se volesse metterla a parte di più serie
faccende, Nerone trasse più a lungo possibile il banchetto; nell’atto poi di
riaccompagnare alla partenza Agrippina, la strinse al petto, guardandola fisso
negli occhi, o perché volesse rendere più verisimile la sua finzione o perché
guardando per l’ultima volta il volto della madre che andava a morire sentisse
vacillare l’animo suo, per quanto pieno di ferocia.
Quasi volessero rendere più
evidente il delitto, gli dei prepararono una notte tranquilla piena di stelle
ed un placido mare. La nave non
aveva percorso ancora un lungo tratto; accompagnavano Agrippina appena due dei
suoi famigliari, Crepereio Gallo che stava presso il timone e Acerronia, che ai
piedi del letto ove Agrippina era distesa andava rievocando lietamente con lei
il pentimento di Nerone, e il riacquistato favore della madre; quando
all’improvviso ad un dato segnale, rovinò il soffitto gravato da una massa di
piombo e schiacciò Crepereio che subito morì. Agrippina ed Acerronia furono
invece salvate dalle alte spalliere del letto, per caso tanto resistenti da non
cedere al peso.
Nel generale scompiglio non si effettuò neppure l’apertura della nave,
anche perché i più, all’oscuro di tutto, erano di ostacolo alle manovre di
coloro che invece erano al corrente della cosa. Ai rematori parve opportuno
allora di inclinare la nave su di un fianco, in modo da affondarla; ma non
essendo possibile ad essi un movimento simultaneo ed anche perché gli altri che
non sapevano facevano sforzi in senso contrario, ne venne che le due donne
caddero in mare più lentamente. Acerronia, pertanto, con atto imprudente,
essendosi messa a gridare che lei era Agrippina e che venissero perciò a
salvare la madre dell’imperatore, fu invece presa di mira con colpi di pali e
di remi e con ogni genere di proiettile navale. Agrippina, in silenzio, e
perciò non riconosciuta (aveva avuto una sola ferita alla spalla), da prima a
nuoto, e poi con una barca da pesca in cui si era imbattuta, trasportata al
lago di Lucrino, rientrò nella sua villa.
Qui ripensando alla lettera piena d’inganno colla quale era stata
invitata, agli onori coi quali era stata accolta, alla nave che, vicino alla
spiaggia e non trascinata da venti contro gli scogli, s’era abbattuta dall’alto
come fosse stata una costruzione terrestre, considerando anche il massacro di
Acerronia e guardando la sua propria ferita, comprese che il solo rimedio alle
insidie era fingere di non aver capito. Mandò perciò, il liberto Agermo ad
annunciare a suo figlio che per la benevolenza degli dei e per un caso
fortunato , si era salvata dal grave incidente; lo pregava, tuttavia, che, per
quanto emozionato per il grave pericolo corso dalla madre, non pensasse per ora
di venirla a trovare, perché per il momento lei aveva bisogno di tranquillità.
Frattanto, affettando piena sicurezza, si prese cura di medicare la ferita e di
riconfortare il suo corpo; un solo atto non fu in lei ispirato a simulazione:
l’ordine di recare il testamento di Acerronia e di porre i beni di lei sotto
sequestro.
Nerone, intanto in attesa della notizia che il delitto era stato
consumato, apprese che invece (Agrippina) aveva corso un pericolo così grande
da non farla dubitare intorno all’autore dell’insidia. Allora Nerone, morto di
paura, cominciò ad agitarsi gridando che da un momento all’altro Agrippina
sarebbe corsa alla vendetta, sia armando gli schiavi, sia eccitando alla
sollevazione i soldati, sia appellandosi al senato ed al popolo, denunciando il
naufragio, la ferita e gli amici suoi uccisi. Quale aiuto contro di lei egli
avrebbe avuto se non ricorrendo a Burro e Seneca? Perciò fece subito chiamare
l’uno e l’altro che forse erano già prima al corrente della cosa. Stettero a
lungo in silenzio per non pronunciare vane parole di dissuasione o forse perché
pensavano che la cosa fosse giunta ad un punto tale che se non si fosse prima
colpita Agrippina, Nerone avrebbe dovuto fatalmente perire. Solo Seneca si
mostrò molto più deciso perché, guardando Burro, gli domandò se fosse mai
possibile ordinare ai soldati l’assassinio.
Burro rispose che i pretoriani, troppo devoti alla casa dei Cesari e
memori di Germanico non avrebbero osato compiere nessun atto nefando contro la
prole di lui; toccava ad Aniceto di assolvere le promesse. Costui senza alcun
indugio chiese per sé l’incarico di consumare il delitto. A questa
dichiarazione Nerone si affrettò a proclamare che in quel giorno gli era
conferito veramente l’impero e che il suo liberto era colui che gli offriva
dono sì grande: corresse subito via e conducesse con sé i soldati, deliberati
ad eseguire gli ordini. Egli, poi, saputo dell’arrivo di Agermo messaggero di
Agrippina, si preparò ad architettare la scena di un delitto e nell’atto in cui
Agermo gli comunicava il suo messaggio, gettò tra i piedi di lui una spada e,
come se lo avesse colto in flagrante, comandò subito di gettarlo in carcere,
per poter far credere che la madre avesse tramato l’assassinio del figlio e
che, poi, si fosse data la morte per sottrarsi alla vergogna dell’attentato
scoperto.
Frattanto essendosi sparsa la voce del pericolo corso da Agrippina,
come se ciò fosse avvenuto per caso, man mano si diffondeva la notizia, tutti
accorrevano sulla spiaggia. Gli uni salivano sulle imbarcazioni vicine, altri
scendevano ancora in mare per quanto consentiva la profondità delle acque.
Alcuni protendevano le braccia con lamenti e con voti; tutta la spiaggia era
piene delle grida e delle voci di coloro che facevano domande e di quelli che
rispondevano; un gran moltitudine si affollò sul lido coi lumi, e come si seppe
che Agrippina era incolume, tutti le mossero in contro per rallegrarsi con le,
quando all’improvviso ne furono ricacciati dalla vista di un drappello di
soldati armati e minacciosi. Aniceto accerchiò la villa con le sentinelle ed
abbattuta la porta e fatti trascinare via gli schiavi che gli venivano
incontro, procedette fino alla soglia della camera da letto di Agrippina, a cui
solo pochi servi facevano la guardia, perché tutti gli altri erano stati terrorizzati
dall’irrompente violenza dei soldati.
Nella stanza vi erano un piccolo lume ed una sola ancella, mentre
Agrippina se ne stava in stato di crescente allarme, perché nessuno arrivava da
parte del figlio e neppure Agermo: ben altro sarebbe stato l’aspetto delle cose
intorno se veramente la sua sorte fosse stata felice; non v’era che quel
deserto rotto da urli improvvisi, indizi di suprema sciagura. Quando anche
l’ancella si mosse per andarsene Agrippina, nell’atto di rivolgersi a lei per
dirle: “anche tu m’abbandoni?”, scorse Aniceto in compagnia del triarca
Erculeio e del centurione di marina Obarito. Rivoltasi allora a lui gli
dichiarò che se era venuta per vederla annunziasse pure a Nerone che si era
riavuta; se poi fosse lì per compiere un delitto, essa non poteva avere alcun
sospetto sul figlio: non era
possibile che egli avesse comandato il matricidio. I sicari circondarono
il letto e primo il triarca la colpì con un bastone sul capo. Al centurione che
brandiva il pugnale per finirla protendendo il grembo gridò: “Colpisci al
ventre!” e cadde trafitta da molte ferite.
La tradizione su questi fatti è concorde. Che Nerone abbia guardato la
madre morta e ne abbia lodato la bellezza, c’è chi lo afferma e chi lo esclude.
Venne cremata la notte stessa su un letto da convito e con esequie modestissime
e, finché Nerone fu al potere, non ebbe tumulo né pietra sepolcrale. Solo più
tardi, a cura dei suoi domestici, poté avere un piccolo tumulo sulla via di
Miseno, vicino alla villa di Cesare dittatore, che domina dall’alto i golfi
sottostanti. Acceso il rogo, un suo liberto di nome Mnestere si trafisse col
pugnale, non sappiamo se per amore verso la patrona o nel timore d’essere
ucciso. Agrippina, molti anni avanti, aveva previsto questa sua fine, ma non se
n’era data pena. Infatti a un suo consulto su Nerone, i Caldei risposero che
avrebbe regnato e ucciso la madre. E lei: “Mi uccida, purché abbia il potere.”
Cesare comprese solo a delitto compiuto l’enormità del misfatto. Per il resto della notte, ora
sprofondato in un silenzio di pietra, più spesso in preda a soprassalti di
paura e fuori di sé, attendeva la luce del giorno, quasi che dovesse portare la
sua rovina. Gli ridiede
speranza il primo atto di adulazione, quello, suggerito da Burro, dei
centurioni e dei tribuni, che gli prendevano le mani e si felicitavano con lui,
per essere scampato all’imprevisto pericolo e all’attentato della madre. Gli
amici poi corsero ai templi e, sul loro esempio, le città più vicine della
Campania manifestavano, con l’offerta di vittime e l’invio di delegazioni, la
loro gioia: ed egli, con rovesciata finzione, si presentava afflitto, quasi
insofferente della propria salvezza e in pianto per la morte della madre.
Ma poiché non muta, come il
volto degli uomini, l’aspetto dei luoghi, e poiché lo ossessionava la vista
opprimente di quel mare e della spiaggia (e c’era chi credeva che si udisse,
sulle alture circostanti, un suono di tromba e lamenti dal luogo in cui era
sepolta la madre), si ritirò a Napoli e inviò un messaggio al senato, la cui
sostanza era che avevano scoperto, con un’arma, il sicario Agermo, uno dei
liberti più vicini ad Agrippina, e che lei, per rimorso, come se avesse
preparato il delitto, aveva scontato quella colpa.
Tito
vincitore tratta con gli ebrei dalla Guerra giudaica di Giuseppe Flavio
Tito diede ordine
ai soldati di tenere a freno gli spiriti ardenti e le armi e, chiamato un
interprete, cominciò a parlare per primo, il che significava che era lui
il vincitore: “Siete dunque soddisfatti delle sventure della patria, voi
che senza valutare la nostra forza e la vostra debolezza con
furia sconsiderata e come dissennati avete provocato la rovina
del popolo, della città e del tempio, e che giustamente state per fare la
stessa fine, voi che fin da quando Pompeo vi assoggettò non avete mai smesso di
ribellarvi e alla fine siete scesi in guerra aperta contro i romani? Confidavate nel
vostro numero? Ma contro di voi è bastata una piccolissima parte
dell’esercito dei romani! Contavate sulla fedeltà degli alleati? Ma quale
dei popoli non racchiuso nel nostro impero avrebbe preferito i giudei ai
romani? Facevate affidamento sulla vostra prestanza fisica? Eppure ben sapete
che i Germani sono nostri schiavi! Sulla robustezza delle mura? Ma quale
muro rappresenta una difesa più sicura dell’oceano, che pur cingendo
tutt’intorno i Britanni non impedisce che costoro si prosternino dinanzi
alle armi romane? Sul vostro morale incrollabile e sull’astuzia dei capi?
Eppure sapevate che anche Cartagine noi l’abbiamo fatta cadere! E allora a
spingervi contro i romani è stata evidentemente la mitezza di noi stessi
romani, che in primo luogo vi concedemmo di abitare questa terra
e di essere governati da re nazionali, e poi vi facemmo conservare le
patrie leggi e vi lasciammo libertà di regolare come volevate
non solo i vostri rapporti interni, ma anche quelli con gli
stranieri. Ma soprattutto vi permettemmo di esigere tributi per il
Dio e di raccogliere doni votivi senza dissuadere né ostacolare coloro che
li offrivano, col risultato che, grazie a noi, diventaste più ricchi e, con
i mezzi che dovevano esser nostri, faceste preparativi contro di noi!
Alla fine, impinguati da tali vantaggi, sfogaste la vostra sazietà contro chi
ve li concedeva, e a guisa di serpenti non
addomesticati iniettaste il veleno in quelli che vi accarezzavano.
E’ chiaro che
dall’indolenza di Nerone foste spinti a non darci importanza, e come
fratture e strappi rimaneste malignamente latenti fino a che vi
manifestaste quando il male si aggravò, e dirigeste le vostre smodate
ambizioni verso sfrontate speranze. Nel vostro paese arrivò allora mio
padre, e non per punirvi di ciò che avevate fatto a Cestio, ma
per darvi un ammonimento. Se egli fosse venuto per sterminare la
nazione, avrebbe dovuto attaccarvi direttamente alla radice e distruggere
senza indugi questa città, mentre invece si trattenne a devastare la Galilea e
il territorio circostante per darvi così il tempo di rinsavire. Ma a
voi la mansuetudine parve debolezza,e dalla nostra clemenza traeste alimento
per il vostro ardire. Quando poi scomparve Nerone, assumeste un
atteggiamento quanto mai ostile prendendo animo dai nostri sconvolgimenti
interni, e allorché io e mio padre dovemmo raggiungere l’Egitto voi
approfittaste dell’occasione per i preparativi di guerra, e non
aveste ritegno di disturbare dopo la loro acclamazione a imperatori
coloro che già avevate sperimentato come duci pieni di umanità. E così quando
l’impero trovò rifugio nelle nostre mani, mentre tutti i sudditi in esso
compresi se ne stettero tranquilli, e anche i popoli esterni inviarono
ambascerie di felicitazioni, ecco che i giudei ancora una volta
ripresero le armi, e voi mandaste emissari ai vostri amici d’oltre Eufrate
per incitarli alla rivolta, innalzaste di bel nuovo baluardi di
mura, e vi abbandonaste alla ribellione e alle contese dei caporioni
e alla guerra civile, le sole cose che si addicevano a individui
così perfidi. Poi, contro questa città arrivai io con gli ordini
severissimi che mio padre, suo malgrado, aveva dovuto darmi. Mi fece piacere
di apprendere che il popolo nutriva intenzioni pacifiche. Quanto a voi,
prima che si riprendesse la guerra vi invitai a deporre le armi, e nel
corso delle ostilità vi usai a lungo clemenza: diedi garanzia ai
disertori, mi comportai lealmente con i supplici, risparmiai molti
prigionieri costringendo chi voleva torturarli a non farlo, a malincuore
accostai le macchine alle vostre mura, tenni sempre a freno i soldati
assetati del vostro sangue, dopo ogni vittoria vi esortai alla pace come
se il perdente fossi io. Arrivato vicino al tempio, di nuovo volentieri mi
dimenticai delle leggi di guerra e cercai di convincervi a
risparmiare i vostri luoghi santi e a preservare il tempio per voi stessi,
concedendovi libertà di uscire e garanzia d’incolumità, e insieme la
possibilità di riprendere la battaglia in un altro luogo se
aveste voluto; ma tutte queste proposte
le respingeste sprezzantemente e con le vostre mani appiccaste
il fuoco al tempio. E dopo tutto ciò, farabutti, venite ora a
chiedermi di trattare? Che cosa potreste cercare di salvare che valga
quanto avete distrutto? Quale salvezza credete di meritate dopo la
distruzione del tempio? E poi, anche ora vi siete presentati con le armi
in pugno, e neppure ridotti agli estremi vi decidete ad assumere atteggiamenti
da supplici: individui miserabili, su che cosa contate? Non è distrutto il
vostro popolo, incenerito il tempio, in mio possesso la città; non sono nelle
mie mani le vostre vite? Credete che dia fama di eroismo il cercare la
morte? Ad ogni modo io non mi metterò a competere con la vostra stoltezza;
prometto salva la vita a chi getterà le armi e si arrenderà, e come
fa nella sua casa un buon padrone, punirò gli schiavi incorreggibili
e conserverò gli altri per il mio comodo”.
A queste parole
essi risposero di non poter accettare condizioni di resa, poiché
avevano giurato che mai l’avrebbero fatto; chiesero invece di
poter attraversare la linea di circonvallazione assieme alle mogli e ai
figli: si sarebbero ritirati nel deserto abbandonandogli la città.
Tito andò allora
sulle furie al vedere che essi, pur trovandosi nella condizione di vinti,
gli presentavano delle proposte come fossero vincitori e fece loro
proclamare dal banditore di non disertare più, ormai, né di sperare
grazia, perché non avrebbe risparmiato nessuno; combattessero invece con tutte
le forze e cercassero scampo come meglio potevano, perché da quel
momento egli avrebbe sempre applicato le leggi di guerra. Diede quindi
licenza ai soldati di incendiare e mettere a sacco la città, ed essi per
quel giorno non si mossero, ma il giorno dopo appiccarono il
fuoco agli archivi, all’Acra, alla sala del Consiglio e al quartiere detto
Ofel; il fuoco si estese fino alla reggia di Elena, che sorgeva nel mezzo
dell’Acra, e le fiamme divamparono nelle strade e nelle case ricolme dei
cadaveri delle vittime della fame.
Quello stesso
giorno i figli e i fratelli del re Izate, accompagnati da un gran numero
di cittadini ragguardevoli, si presentarono a Cesare supplicandolo di
accettare la loro resa. Tito, sebbene fosse assai maldisposto contro tutti
i superstiti, non riuscì a far tacere la sua naturale clemenza e li accolse.
Per il momento li
rinchiuse tutti in prigione; i figli e i parenti del re li portò più tardi a
Roma in catene come ostaggi.
2.
L’alto Impero – È il periodo che va dalla morte di
Augusto fino all’anarchia militare[2].
I
primi imperatori, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone, erano appartenenti alla dinastia Giulio-Claudia. In questo primo periodo fu continuato il processo
di unificazione e di romanizzazione dell’Impero: si diffuse in Occidente il
latino e si concesse con parsimonia la cittadinanza romana ai provinciali.
Questo
contribuì alla fusione tra le due anime dell’impero, quella romana e quella
ellenica. I confini stabiliti al tempo di Augusto furono rafforzati: Claudio conquistò la parte meridionale
della Britannia nel 44, Tito
conquistò Gerusalemme e la fece distruggere nel 70. Nel complesso in Oriente,
mediante una serie di interventi, più o meno pacifici, i Romani riuscirono ad
accordarsi con i Parti[3]
e a stabilire una specie di dominazione romano-parta sull’Armenia, mentre altre
annessioni, verificatesi nella stessa epoca, non furono altro che
trasformazioni in province romane di Stati clienti, ossia già praticamente
assoggettati.
L’Impero
intanto, a causa della sua espansione ormai eccessiva, si avvicinava a un
periodo di crisi. Fino a quel momento, nonostante i successori di Augusto non
si fossero fatti scrupolo di far uccidere i personaggi che potevano intralciare
lo svolgimento della loro politica, la vita all’interno dell’Impero si era
svolta in una certa calma.
L'Impero
Romano arrivò all'apice della sua potenza nel II secolo, durante i principati
di Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio. Alla morte di quest'ultimo,
il potere passò al figlio Commodo, che portò il principato verso una forma più
autocratica e teocratica.
Il
potere delle istituzioni tradizionali si andò indebolendo e il fenomeno
proseguì con i suoi successori, sempre più bisognosi dell'appoggio dell'esercito
per governare. Il ruolo del Senato nei secoli successivi si ridusse
progressivamente, fino a divenire del tutto formale. La dipendenza sempre più
accentuata del potere imperiale dall'esercito condusse a un periodo di forte
instabilità, definito come anarchia militare.
a) La
dinastia Giulio-Claudia -
Affinché la sua politica fosse continuata anche dopo la sua morte, Augusto
aveva espresso il desiderio che la successione al principato fosse assicurata a
suo genero Agrippa. Essendo questi morto prima di lui, Augusto propose per la
successione il nipote, Marcello. Neppure il secondo designato gli sopravvisse
di conseguenza, alla scomparsa di Augusto, il potere supremo passò a Tiberio,
suo figlio adottivo e figlio naturale di sua moglie Livia e del primo marito
Claudio Nerone.
Tiberio,
dopo
molte esitazioni, assunse, nel 14
d.C., la carica di princeps, che mantenne fino alla morte, nel 37. Egli
era stato un valente e popolare generale, e ora, quasi obbligato dagli eventi,
doveva ricoprire in un ruolo che non sentiva suo: aristocratico conservatore e,
quindi, fautore dell’antica libertas senatoria. Ossequioso della tradizione,
più che come mediatore tra l’ordine senatorio e quello equestre, secondo il
programma augusteo, si presentò come sostenitore del senato e ritenne opportuno
rinunciare a tutte quelle onorificenze che potessero essere giudicate culto
della personalità. Tale atteggiamento filosenatorio mutò dopo alcuni anni,
quando, per riaffermare un prestigio che andava scemando, instaurò un vero e
proprio regime poliziesco. Sempre più schivo, nel 27, Tiberio si ritirò a
Capri, lasciando, in modo decisamente avventato, tutto il potere nelle mani di
Seiano, l’ambizioso prefetto del pretorio, che divenne il vero arbitro delle
sorti dell’impero. Per aver osato cospirare contro lo stesso principe, Seiano
fu condannato a morte. Un clima di sospetto e di paura, inasprito dal frequente
ricorso a condanne per lesa maestà, caratterizzò l’ultima fase del principato
di Tiberio, che, comunque sempre da Capri, prese a governare lo Stato con
maggiore energia.
Alla sua morte
gli successe il nipote Gaio, figlio di Germanico. Gaio Cesare, soprannominato Caligola (la
madre da piccolo gli faceva spesso calzare le scarpe in dotazione ai soldati,
le caligae), nei pochi
anni del suo mandato (37–41 d.C.), si rivelò una personalità di fragile
equilibrio psichico, facile ad impeti di follia, smaniosa di protagonismo.
Questi aspetti furono in abbondanza sottolineati dalla storiografia antica,
ostile ad un principe per niente incline ad una politica di
collaborazione con la nobilitas. Intenzione di Caligola era di avviare una
dispotica concentrazione del potere nelle proprie mani, sempre più modellando
lo Stato sul tipo delle monarchie ellenistiche. Gli
storici successivi, probabilmente alterando in parte la verità, riportano una
serie di suoi atti insensati che avrebbero avuto luogo dalla fine del 37. Il
suo ordine di erigere nel tempio di Gerusalemme una statua che lo raffigurasse,
sebbene fosse di normale amministrazione nelle province orientali (in cui il
culto riservato al sovrano aveva funzione di collante istituzionale), scatenò
l'opposizione degli Ebrei. Caligola dotò Roma di due acquedotti e di un circo.
I rappresentanti
delle più cospicue famiglie (fortemente provati nei propri interessi per la
politica di tassazione, a volte predatoria, a cui correntemente erano
sottoposti), organizzata una congiura, a cui non restarono estranei i
pretoriani, si liberarono con la violenza del principe: Caligola venne
assassinato dal comandante dei pretoriani,
Cassio Cherea, con la moglie e la figlia.
I pretoriani posero sul trono l'unico membro rimasto della famiglia imperiale,
l’altro nipote di Tiberio: Claudio.
Claudio (41–54 d.C.), un uomo di cinquant’anni, vissuto sempre un po’
appartato dalla vita pubblica, piuttosto dedito a studi eruditi, venne
acclamato imperatore dai pretoriani. Il nuovo principe tornò all’indirizzo di
Augusto, ma solo esteriormente: in effetti condusse a termine un accentramento
burocratico dei poteri. Riorganizzò l’amministrazione imperiale e la
cancelleria e, poco fidandosi della classe dirigente tradizionale, ne diede la
direzione a liberti (Pallante, Narciso, Polibio…), posti direttamente alle sue
dipendenze. Avviò una politica di conquiste e aprì le porte del senato a nuovi
elementi provenienti dalla Spagna e dalla Gallia, le province più romanizzate;
fece approvare alcune leggi intese a impedire un’eccessiva penetrazione in
Italia di motivi orientali. Claudio con i suoi provvedimenti diede prova di
notevole senso pratico; meno capace fu nel disimpegnarsi nelle faccende
private: fu nel complesso succubo delle donne della domus imperiale,
prima Messalina e poi Agrippina minor. Proprio quest’ultima, donna
spregiudicata e avida di potere, gl’impose di adottare un suo figlio di prime
nozze, L. Domizio Enobarbo, il futuro imperatore Nerone.
Claudio,
a lungo considerato un debole ed un pazzo dal resto della famiglia, fu invece
capace di amministrare l’Impero con responsabile capacità:
·
riorganizzò la burocrazia
·
mise ordine nella cittadinanza e nei
ruoli senatoriali
·
aggiunse all'Impero molte province
orientali.
·
costruì un porto invernale ad Ostia,
creando magazzini per accumulare granaglie e cereali provenienti da altre parti
dell'Impero e da usare nella cattiva stagione
·
compì lavori di prosciugamento che
permisero di valorizzare migliaia di ettari di terreno fino allora incolti;
·
Proseguì la conquista e
colonizzazione della Britannia, conducendo di persona una spedizione e, con una
campagna lampo, portò le legioni romane a una vittoria strepitosa e fondò la
città di Londinium, l’odierna Londra creando nel 43 la nuova
provincia. La pacificazione completa del Paese, però, si sarebbe dimostrata
lunga e difficile poiché i druidi continuarono per molto tempo
a nutrire un focolaio attivo di resistenza all’invasore.
La
successione al trono fu piena da intrighi: Claudio aveva avuto un figlio
legittimo, Britannico, dalla prima moglie Messalina che lo tradiva e quindi era
stata messa a morte. In seconde nozze aveva sposato, sua nipote Agrippina che,
con una serie di intrighi e di delitti, riuscì a fare adottare dall’imperatore
suo figlio Nerone, nato da un precedente matrimonio. Per favorire il figlio,
Agrippina fece uccidere Claudio e macchinò affinché il Senato esautorasse
Britannico.
Alla morte di Claudio
nel 54 Agrippina affrettò l’elezione al trono del figlio di soli 17 anni.
Questi seguì per
alcuni anni (il cosiddetto quinquennio felice) una politica filosenatoria,
lasciandosi guidare dal suo maestro, il filosofo Seneca, rappresentante della nobilitas, e dal
prefetto del pretorio Afranio Burro, che tutelava gli interessi della classe equestre.
Ma poi Nerone, si svincolò dalla tutela dei due e dalle pesanti interferenze
politiche della madre Agrippina, che nel 59 fece uccidere, riprese la politica
di concentramento monarchico del potere, che già era stata di Caligola. Prese a
sostegno del suo principato la classe popolare, il cui tenore di vita cercò di
elevare con provvedimenti vari, tra cui un’importante riforma monetaria che
colpiva i ceti abbienti: sempre più si definiva il profilo di una monarchia
ellenistica. La nobilitas fu colpita con condanne e confische di
beni, con le quali il principe tentò di toglierle le importanti leve economiche
di potere di cui ancora disponeva. Seneca, visto fallire il suo disegno di
educatore (fare di Nerone un principe illuminato), preso anche da un moto di
disgusto per la torbida atmosfera di corte, si allontanò dalla domus. La reazione
del ceto di governo contro questa politica antisenatoria si fece sempre più
forte. Nel 64 gran parte di Roma fu distrutta da un incendio, di
cui furono accusati i cristiani[4].
Corse però voce che Nerone stesso avesse provocato l’incendio, per fare spazio
al suo grande palazzo, la Domus Aurea. Nell’ultimo periodo di
regno si coagulò intorno alla figura del nobile Calpurnio Pisone una poderosa
congiura la congiura dei Pisoni che ed eliminò
molti oppositori aristocratici ed intellettuali come Lucano, Petronio e
lo stesso Seneca che si uccisero. Malvisto dalla classe
militare per l’uccisione del generale Corbulone, per le sue folli spese che
provocarono una crisi finanziaria, aggravata da una crisi politica, di una tale
vastità che Nerone per la sua incapacità di gestire le ribellioni e per la sua
sostanziale incompetenza divennero rapidamente evidenti cosicché perfino la
guardia Imperiale lo abbandonò e fu costretto a suicidarsi in seguito alla
rivolta delle truppe di stanza in Lusitania che proclamarono
imperatore il loro comandante Galba nel 68.
Nonostante
la personalità dei successori di Augusto, il regime da questi fondato si
conservò saldo:
·
il
Senato accrebbe le proprie prerogative;
·
numerosi
sudditi provinciali furono gratificati del diritto di cittadinanza, tanto che
nella sola capitale
·
il
numero dei cittadini aumentò di circa un milione;
·
furono
costruite molte opere pubbliche.
b) Il 69:
l’anno dei quattro imperatori – Con la morte di
Nerone terminava la dinastia Giulio-Claudia, ma quella duplicità di
orientamento politico, che aveva visto il succedersi di prìncipi inclini o ad
un regime dispotico ellenizzante (cesarismo) o ad una
linea politica rispettosa delle prerogative del senato (diarchia augustea), segnerà anche gli anni successivi.
L'anno
dei quattro imperatori indica un periodo che segue il regno di Nerone, che
va dal giugno 68 al dicembre 69, che vede succedersi sul trono dell'impero
romano tre imperatori, Galba, Otone, Vitellio, fino a che il potere non giunge
a Vespasiano. Si tratta della prima guerra civile dopo il regno di Augusto.
Fu
un anno di guerre civili, intervallati dal regno di tre effimeri imperatori,
generali innalzati al potere dai propri soldati e ben presto detronizzati:
Galba fu deposto dai pretoriani e sostituito da Otone, questi, a sua volta, fu
rovesciato da Vitellio, sostenuto dalle truppe stanziate al Reno. Alla fine
trionfò il capo dell’armata inviata in Oriente per combattere la rivolta degli
Ebrei proclamò imperatore il proprio comandante Flavio Vespasiano,
che fu accolto come un salvatore.
Vespasiano,
impegnato fin dal 66, in Palestina, nella repressione della rivolta giudaica, fu
acclamato da tutte le legioni orientali, e, sconfitto e trucidato Vitellio,
ottenne dal senato i pieni poteri (69).
c) La dinastia
flavia – Vespasiano, con cui iniziò la
dinastia Flavia, fu un autocrate, accentuò le tendenze monarchiche con la sua
insistenza che gli succedessero i figli Tito e Domiziano: il potere imperiale
non era visto allora come ereditario e Vespasiano, designando successori i
figli Tito e Domiziano, affermò il principio della trasmissione ereditaria del
potere ed ebbe molto meno appoggio dal Senato dei suoi predecessori
Giulio-Claudii.
Vespasiano, proveniente da
modesta famiglia della Sabina, ma dotato di acume politico, subito capì che,
per regnare in sicurezza doveva risolvere i due problemi più importanti legati
al governo: legittimare il suo potere nei confronti del senato, su di una
concreta base giuridica, e risolvere la crisi militare, per non dipendere dalla
volubilità delle truppe.
Suo primo atto
fu la promulgazione della Lex de imperio Vespasiani, con la quale si delimitavano
reciprocamente (de iure e non solo de facto) i poteri
del senato e quelli del principe. Quanto all’esercito, congedò le legioni
italiche, troppo inclini ad interferire nelle faccende politiche, e provvide ad
arruolare nuove truppe nelle province da più tempo legate a Roma: all’atto
dell’arruolamento garantiva, a chi non l’avesse, la cittadinanza romana.
La sua politica
si orientò al modello augusteo e, nel corso dei dieci anni (69–79) del suo
regno, diede frutti di rilievo:
·
il principe rinsaldò i confini occidentali dell’impero;
·
immise nel senato numerosi elementi della classe equestre e
del nuovo ceto medio italico e provinciale (sicché, dopo pochi anni del suo
governo, l’assemblea risultava profondamente mutata);
·
risollevò lo Stato dalla pesante crisi economica (il dissesto
economico iniziato con gli sperperi di Nerone, si era aggravato a seguito delle
recenti guerre civili);
·
superò l’ormai antiquata distinzione fra italici e
provinciali;
·
promosse opere pubbliche e migliorò le vie di comunicazione
tra le varie parti dell’impero, aumentando le tasse in modo
drammatico (talvolta più che raddoppiate);
·
Commissionò il Colosseo e costruì
un Foro il cui centro era il Tempio della Pace;
·
I suoi generali soffocarono
ribellioni in Siria e Germania;
·
rinsaldò le frontiere, aumentando il
numero delle legioni stanziate in Siria e in Giudea.
Nel
70, durante il suo impero, terminò la lunga guerra contro gli Ebrei, con
l’opera di repressione della rivolta dei Giudei, in Palestina, la distruzione
di Gerusalemme da parte delle truppe di suo figlio Tito, secondo le direttive
di Vespasiano: gli abitanti della città furono in parte massacrati e in parte
venduti come schiavi. A Roma si celebrò questa vittoria con un intero anno di
festeggiamenti e con la costruzione di un arco in onore di Tito; i Giudei,
sopravvissuti alla strage, si dispersero per tutto l’Oriente. Tornato a Roma
nel 71, Tito fu associato al potere dal padre.
Dopo
la morte di Vespasiano, con i suoi due figli, Tito e Domiziano, succedutisi l’uno
dopo l’altro sul trono.
Gli successe il
figlio Tito, che
regnò poco tempo (79–81). Al di là di certi atteggiamenti orientaleggianti,
continuò la politica paterna di pacifica coesistenza con il senato, al punto da
ottenere buona e duratura propaganda, basti pensare che Svetonio lo definisce amor et deliciae generis umani.
Tito si mostrò nel complesso più munifico del padre nelle spese per i giochi
del circo e nelle elargizioni al popolo. Sotto di lui venne, tra l’altro,
ultimato il Colosseo, che era stato iniziato per volontà di Vespasiano.
Tito tenne la cerimonia inaugurale nell'edificio non ancora terminato durante
gli anni 80, con un grandioso spettacolo in cui si esibirono 100 gladiatori e
che durò 100 giorni. Il suo regno non potette certo dirsi fortunato: Roma
bruciò ancora una volta un’eruzione del Vesuvio provocò la
distruzione di Ercolano e Pompei, catastrofe in cui trovò la morte Plinio
il Vecchio, capo della squadra navale dell’Occidente e dotto compilatore di
trattati scientifici, la peste decimò gli abitanti di Roma e costò la vita allo
stesso Tito. Tito fu pianto perché aveva cercato di fare il bene del suo
popolo: la sua generosità nella ricostruzione dopo le tragedie, lo rese molto
popolare.
Una svolta si
ebbe con suo fratello Domiziano (81–96) che gli successe nell’81.
Domiziano incominciò bene il suo regno fece erigere monumenti e istituì
i Ludi Capitolini; purtroppo di fronte a una rivolta scoppiata
nell’esercito ordinò repressioni estremamente rigorose, dando inizio a un
regime di terrore che lo rese inviso al senato per l’accentuazione da lui data
agli aspetti assolutistici del Principato. Il nuovo principe perseguì senza
incertezze un indirizzo politico che conduceva alla monarchia assoluta.
Guadagnandosi il favore del popolo, con ampie elargizioni, e delle milizie, con
l’aumento delle retribuzioni militari (soldo), diede
inizio ad una lotta a fondo contro la classe senatoria. Assunse il titolo di dominus et deus,
per affermare in modo indiscusso il suo primato, e volle la censura a vita, per
colpire i senatori con condanne e confische di beni. Ancora, poi, aprì le porte
del senato ad elementi nuovi, tra cui anche degli orientali, al fine di
alterare la composizione di quell’assemblea e di comprometterne il carattere di
oligarchia repubblicana: a questo punto il senato non risultava più il centro
di un potere politico ed economico omogeneo, quindi capace di contrapporsi con
efficacia alle iniziative assolutistiche del principe. La lotta iniziata da
Domiziano contro la nobilitas assunse forme persecutorie e suscitò una
vasta opposizione, che portò ad alcune congiure e alla rivolta di Lucio Saturnino nell’89, legato della Germania
Inferiore. Il tentativo sovversivo venne prontamente represso, ma la diffidenza
del principe nei confronti di coloro che lo circondavano aumentò: il risultato
fu un ulteriore inasprimento delle misure di sicurezza. Negli ultimi anni del
suo governo (i cosiddetti tempora saevitiae) s’instaurò un vero e proprio clima
di terrore, simile a quello di Tiberio e Nerone, che fu deleterio non solo
sotto l’aspetto politico, per l’inevitabile contrazione, e addirittura
paralisi, delle iniziative di governo, ma anche perché di fatto il principe
finì per alienarsi il favore di tutti. La parte finale del suo regno fu
macchiata dalla condanna dei filosofi e, nel 95, dalla persecuzione contro i
Cristiani. Nel 96 Domiziano fu vittima di una congiura, ordita da sua moglie
Domizia Longina e dai prefetti del pretorio. Con Domiziano i rapporti già tesi
tra la dinastia flavia ed il senato si andarono sempre più logorando. Le cause
di questo difficile sodalizio furono dapprima la divinizzazione del culto
personale dell'imperatore secondo modalità tipicamente ellenistiche ed in
seguito il divorzio dalla moglie Domizia, di estrazione senatoria.
In quest’età non
mancano iniziative poetiche di rilievo. Valerio Flacco, Silio Italico e Papinio
Stazio si riallacciano all’epica di Virgilio, pur in modo del tutto nuovo.
Quintiliano, teorico dell’oratoria, cerca di recuperare la lezione di Cicerone.
L’opera di Marziale si inserisce nella tradizione degli epigrammi e mira a
restituire il gusto dell’uomo e della vita, pur nei limiti di una vena spesso
caricaturale. Plinio il Vecchio dà un alto esempio di dottrina.
d) Il
brillante periodo degli ‘adottivi’ - Dopo l’uccisione di Domiziano,
i congiurati proclamarono imperatore il vecchio e saggio senatore Cocceio Nerva
(96–98),
molto stimato come anziano senatore e noto come persona mite e accorta. Nerva
acconsentì e fu acclamato imperatore in Senato da tutte le classi concordi sul
suo nome.
Esponente della nobilitas, Nerva
procedette subito a una reazione contro l’indirizzo dell’imperatore precedente:
egli diminuì, infatti, alcune imposte, concesse al senato una giurisdizione
speciale, ridusse entro limiti più ristretti la lex maiestatis,
annullò gli atti di governo di Domiziano, diede congrui donativi alle truppe e
al popolo.
Durante
il suo regno, breve ma efficace, Nerva apportò un grande cambiamento: il principato adottivo. Questa riforma
prevedeva che l'imperatore in carica in quel momento dovesse decidere, prima
della sua morte, il suo successore all'interno del senato fece sì che i
senatori fossero responsabilizzati. Egli scelse, mentre era ancora in vita, il
proprio successore affiancandoselo nel governo. Questo sistema di trasmissione
del potere per associazione anticipata sostituì quello dell’affiliazione, fino
allora approvato dal Senato, e per un secolo consentì all’Imperatore in carica
di designare il proprio successore.
Il suo tentativo di restaurare il
potere senatorio era però destinato a fallire: ormai la nobilitas non era
più il ceto dominante dell’impero, costituito ora dalla nuova borghesia e dalla
classe militare. Dell’ostilità dell’elemento militare Nerva si rese ben conto.
Dovette, infatti, scendere a patti con i Pretoriani, che pretesero prima la
condanna degli uccisori di Domiziano e poi che accettasse di adottare e di
associare alla dignità imperiale un ufficiale di origine spagnola, Traiano,
molto popolare tra le legioni occidentali. Per evitare motivi per un nuovo
conflitto civile, con molto senza pratico Nerva accettò le condizioni imposte.
Alla morte di Nerva, che fu
divinizzato nel 98, la successione di Traiano fu riconosciuta immediatamente.
La prassi dell’adozione (adoptio), ovvero
della scelta del migliore, con cui si escludeva la successione dinastica,
iniziata con Traiano restò in vigore per circa un secolo.
Marco Ulpio Traiano (98–117), nativo di Italica
(Siviglia), fu il primo principe non italico. Durante il suo ventennale
principato egli curò sempre che i rapporti con la nobilitas si
mantenessero buoni. Si mostrò così rispettoso del senato da saggiarne sempre
gli umori prima di prendere qualsiasi decisione: a questo scopo si servì, come intermediari,
di alcuni senatori suoi amici, personaggi di grande prestigio, tra i quali
Plinio il Giovane. Anche il senato, dal canto suo, non fece mai mancare al
principe la sua premura e la sua deferenza. Pur accogliendo molti provinciali
nel senato e negli alti gradi dell’amministrazione, il principe, con abile
mossa, volle mantenere la superiorità dell’elemento italico su quello
provinciale, com’era nella tradizione romana e nei desideri del conservatorismo
senatorio. In breve tempo si conquistò fama di liberalità. Anch’egli,
particolarmente attento ai problemi sociali, diede un grande impulso
all’istituzione per l’assistenza degli alimenta, creata dal suo predecessore, che aveva il
compito di allevare ed educare i giovani delle città italiane, col contributo
dello Stato (in scuole controllate dal governo), per assicurare in futuro un
sufficiente numero di funzionari e soldati italici. In realtà, però, i
provvedimenti finanziari furono dal principe sempre rivolti a favore
dell’elemento militare, della classe popolare e del nuovo ceto medio, col
risultato che la classe senatoria divenne sempre meno necessaria come gruppo
dirigente. In effetti, Traiano con il suo prudente conservatorismo di facciata,
senza contrasti ed aperti dissidi, riuscì ad imporre senza alcun limite la
propria volontà e a garantire quella concordia interna che consentì al regime
imperiale di ricompattarsi su nuove basi. Al di là della sua azione politica
Traiano non dimenticò mai di essere soprattutto un generale e, pertanto, volle
ampliare i possedimenti dell’Impero con la conquista della Dacia (l’attuale
Romania), una regione ricca di miniere d’oro e di salgemma. A seguito di una
spregiudicata e aggressiva campagna militare, la Dacia, con la sconfitta del
suo re Decebalo, fu ridotta a provincia. In tal modo il principe assicurò
all’impero lo sfruttamento di ricchezze ingenti e anche l’usufrutto immediato
di un enorme bottino di guerra, quale non si era più visto dai tempi della
vittoria sull’Egitto. Traiano mise rapidamente in circolazione tutto questo denaro,
spendendolo in una serie di grandi opere pubbliche (strade e acquedotti,
bonifica di zone paludose) feste e donativi per il popolo e l’esercito. In
seguito, tra il 106 e il 117, strappò al regno dei Parti vari territori, ricchi
e strategicamente importanti. I Parti erano rimasti tranquilli per circa
cinquant’anni, perché preoccupati dalla pressione dei Mongoli alle loro
frontiere, ma ora, sotto la guida del re Pacoro, avevano ripreso una politica
espansionistica verso Occidente, esercitando una pericolosa pressione al
confine dell’Eufrate. Le armi romane conquistarono in breve l’Armenia, la
Mesopotamia e l’Assira, che furono subito organizzate a province. Traiano morì
nel 117, dopo aver rafforzato il prestigio dell’Impero e lasciando ai suoi successori
un chiaro esempio di pragmatismo politico.
Traiano
dotò le province di un’amministrazione e d’un complesso di funzionari pari a
quelli della capitale. Durante il suo regno, l’Impero raggiunse la sua massima
estensione.
Colpito
da una grave malattia, Traiano morì, mentre era in viaggio verso Roma.
Il
successore di Traiano fu il nipote adottivo Adriano (117- 138). Cosciente dei rischi connessi a un’eccessiva
espansione dell'Impero, Adriano si decise a consolidare le conquiste del
predecessore. All'interno dell'Impero favorì la colonizzazione delle terre
incolte e creò un efficiente corpo di funzionari. Compì numerosi viaggi di
ispezione, cultura e piacere nelle diverse province dell'Impero. Tra il 132 e
il 135 fece reprimere l'insurrezione
ebraica di Simone Bar Kocheba, Cosciente dei rischi connessi a
un’eccessiva espansione dell’Impero, Adriano si decise a consolidare le
conquiste del predecessore: egli restituì ai Parti la Mesopotamia e rese
all’Armenia l’indipendenza, pur conservando il diritto a mantenere guarnigioni
nei punti nevralgici. La pace sembrava così assicurata quando i Giudei, già
insorti una prima volta al tempo della spedizione di Traiano contro i Parti, si
ribellarono nuovamente tenendo impegnate per tre anni le forze imperiali.
Domati gli Ebrei, Adriano proseguì nella sua opera di consolidamento delle
frontiere, facendo costruire in Bretagna il muro che porterà
il suo nome, vallum Adriani, grande sbarramento difensivo tra
l’Inghilterra e la Scozia. Migliorie furono pure apportate al vallo che sorgeva
tra il Reno e il Danubio, tanto che i territori del Baden e della Svevia si
trasformarono in un vero bastione difensivo contro i Germani. Per tutto il
periodo del suo regno lottò contro la diserzione della popolazione dalle
campagne, abbandono che provocava la concentrazione nella città di una plebe
esigente e irrequieta che andava ad accrescere la massa dei disoccupati. Uomo
di grande cultura e di una profonda rettitudine cultore di filosofia, poesia e
arte, in cui espresse la completa fusione della cultura greca con quella
romana, fu tollerante nei confronti dei cristiani e promosse la costruzione di
molte grandi opere architettoniche.
Ad
Adriano succedesse un altro provinciale, di origine gallica, nel 138, Antonino
Pio.
Attento
amministratore, concesse sgravi fiscali, diede impulso al sistema stradale e
all'edilizia. Praticò con convinzione la religione tradizionale (da cui il
soprannome “il Pio”). All'estero rafforzò i confini facendo costruire in
Britannia il “Vallo di Antonino”.
Dopo di lui furono nominati imperatori i fratelli Marco Aurelio (161-180) e Lucio Vero nel 161.
Dal 165 i Parti
invasero la Siria, mentre i confini furono violati dalle tribù germaniche dei
Quadi e dei Marcomanni che furono respinti, tra il 167 e il 168, dai due
imperatori. Nel 167, poi, le tribù germaniche
dei Paesi danubiani invasero la pianura del Po e Marco Aurelio per allontanare
l’incombente pericolo dovette rassegnarsi ad arruolare anche i briganti e i
gladiatori e a utilizzare fino all’ultimo le risorse del tesoro imperiale. Nel 169 Lucio
Vero morì e Marco Aurelio restò unico imperatore. Nel 175 dovette reprimere in
Oriente la rivolta di Avidio Cassio
che si era fatto proclamare imperatore.
Tornato a Roma,
celebrò il trionfo sui Germani e si associò al potere il figlio Commodo.
In politica interna Marco Aurelio cercò l'appoggio del senato e, con un'accorta
politica finanziaria, riuscì a sostenere le forti spese militari. Fu avverso ai
cristiani e li perseguitò. Uomo di cultura, seguace della filosofia stoica,
scrisse un'importante opera in dodici libri A
se stesso un’opera nella quale sono enunciati
principi che oggi diremmo di carità, umiltà e fratellanza umana. Morì di peste
nel 180 lungo la frontiera danubiana, dove era accorso per fronteggiare di
nuovo i Germani.
Commodo (180 –
192) salì diciannovenne al trono. Diversamente dal padre instaurò una violenta
repressione antisenatoria. Inviso alla classe militare per aver patteggiato la
pace con i Quadi e i Marcomanni, fu vittima di una congiura ordita dal prefetto
del pretorio Leto nel 192. Commodo incrinò l'equilibrio
istituzionale raggiunto e con il suo atteggiamento dispotico favorì il
malcontento delle province e dell'aristocrazia. Il suo assassinio diede il via a
un periodo di guerre civili. Dopo un breve periodo di anarchia militare in
cui si avvicendarono per breve tempo, eletto dal senato, il generale Elvio
Pertinace, ma tre mesi dopo Dido Giuliano riesce a farlo eliminare dai
pretoriani in cambio di forti donazioni. Intanto dalle periferie arrivano
Albino, Nigro e Settimio, tre militari che aspirano a prendere il posto di
Giuliano.
e) La dinastia
dei Severi – L’esercito stanziato sul Danubio
proclamò imperatore il comandante Settimio Severo (193-211), fondatore di una nuova dinastia. Entrato a Roma,
dopo l'eliminazione del rivale Didio Giuliano, Settimio Severo fece ratificare la sua
nomina dal Senato e si assicurò la fedeltà del corpo pretoriano, immettendovi un gran numero di soldati
tratti dalle sue legioni e cancellandone così la fisionomia italica.
Si fece
simbolicamente riconoscere come figlio adottivo di Marco Aurelio e,
imponendo nuovamente il principio dinastico, si associò nell'impero i figli Caracalla e Geta. Convinto che, soltanto accentuandone il carattere
dispotico, l'istituto imperiale sarebbe potuto sopravvivere, Settimio Severo si
preoccupò di avere in pugno quelli che erano ormai i veri piedistalli dello
Stato, la burocrazia e l'esercito, che potenziò e rese più
efficienti. Contemporaneamente ridusse le prerogative del Senato nel quale fece
entrare numerosi elementi orientali e africani, mentre valorizzò gli esponenti
del ceto equestre affidando loro i posti di maggiore responsabilità
dell'amministrazione statale: in questo modo il prestigio di cui godevano
ancora l'Italia e, in essa, gli esponenti dell'antica nobiltà senatoria, era
definitivamente compromesso. Anche nella legislazione l'azione di Settimio
Severo incise profondamente con l'avvio di provvedimenti improntati all'umanitarismo sociale proprio dei grandi
giuristi del tempo, Ulpiano, Paolo, Papiniano.
In campo religioso non pare che Settimio Severo
abbia perseguitato i cristiani la cui religiosità però non poté non
contrariarlo. L'efficientismo di Settimio Severo si rivelò anche in politica
estera: nel 198, infliggendo ai Parti una grave umiliazione, occupò la loro capitale
Ctesifonte e consolidò il dominio romano in quella zona. Passò quattro anni in
Oriente, dove visitò l'Egitto, la Giudea e l'Arabia. Ispezionò poi i confini
danubiani accrescendone la sicurezza con opere di fortificazione; nel 203-204
visitò l'Africa settentrionale, territorio allora tra i più prosperi
dell'impero; nel 208 infine, quando le forze gli stavano già venendo meno, partì
per la Britannia per rendersi conto di persona della non chiara situazione
locale, ma morì a Eburacum (l'odierna
York).
Alla
sua morte furono nominati imperatori i due figli Antonino,
detto Caracalla e Geta:
essi, in un primo momento, regnarono insieme, ma presto Caracalla uccise il
fratello e restò solo sul trono, governando in modo arbitrario e dispotico; nel
202, tuttavia, prese una saggia decisione: un importante Editto,
la Constitutio Antoniniana, accordò il diritto di cittadinanza a
tutti gli uomini liberi dell’Impero. Caracalla tentò di
conquistare consenso con una politica espansionistica ottenendo buoni risultati
contro gli Alamanni nel 213 e facendosi oggetto di esaltazione religiosa. Nel
217, Caracalla morì in seguito a una congiura, ordita dal prefetto del pretorio
Macrino, che gli succedette.
Deposto
Macrino da una congiura militare, il potere tornò ai Severi con il quattordicenne
Eliogabalo (218-222). Sacerdote in Siria del dio solare El Gabal,
dedicò ogni energia a promuovere la propria religione. Nipote acquisito di
Settimio Severo, Eliogabalo nel 218 fu acclamato imperatore, appena quattordicenne, dai
legionari di Efeso. Dopo aver vinto l'imperatore regnante Macrino, che aveva
marciato subito contro di lui, nel 219 raggiunse Roma, dove introdusse il culto del dio Elagabalo, chiamandolo Sol Invictus[5],
un culto che comportava anche riti licenziosi. Il suo breve regno fu un seguito
di stramberie e dissolutezze. Circondatosi di elementi orientali, a capo dei pretoriani mise un ex attore, ai rifornimenti
della città prepose un parrucchiere. Quando nel 222 cercò di opporsi ad Alessandro Severo, che aveva già adottato per la
successione, i pretoriani lo uccisero.
Ad Eliogabalo succedette il cugino Alessandro
Severo il quale cercò di conciliarsi il senato, ma, per il suo
atteggiamento pacifista, fu avversato dai militari, che lo uccisero nel 235.
La decadenza dell’Impero era ormai
vicina.
Il
discorso della montagna dal Vangelo secondo Matteo
Vedendo le folle,
Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi
discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in
spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati
quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i
misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché
vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di
Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei
cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo,
diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed
esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti
perseguitarono i profeti che furono prima di voi. Voi siete il sale della
terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A
null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete
la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un
monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul
candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così
risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere
buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.
Non crediate che io
sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a
dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il
cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge,
senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi
minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato
minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà
considerato grande nel regno dei cieli. Io vi dico infatti: se la vostra
giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel
regno dei cieli.
Avete inteso che fu
detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto
al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello
dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà
essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco
della Geènna. Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi
che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono
davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a
offrire il tuo dono. Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei
in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice
alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non
uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!
Avete inteso che fu
detto: Non commetterai adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una
donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. Se
il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti
conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo
venga gettato nella Geènna. Se la tua mano destra ti è motivo di scandalo,
tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra,
piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. Fu pure detto:
“Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico:
chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la
espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.
Avete anche inteso
che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il
Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il
cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei
suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non
giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o
nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il
di più viene dal Maligno.
Avete inteso che fu
detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico
di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia
destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e
toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà
ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede,
e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle.
Avete inteso che fu
detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi
dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi
perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli
fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli
ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne
avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai
vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i
pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro
celeste.
La
resurrezione di Gesù
dal Vangelo di Luca
Il primo
giorno della settimana, al mattino presto esse si recarono al sepolcro,
portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono che la pietra
era stata rimossa dal sepolcro e, entrate, non trovarono il corpo del
Signore Gesù. Mentre si domandavano che senso avesse tutto questo, ecco
due uomini presentarsi a loro in abito sfolgorante. Le donne, impaurite,
tenevano il volto chinato a terra, ma quelli dissero loro: «Perché cercate tra
i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto. Ricordatevi come vi parlò
quando era ancora in Galilea e diceva: «Bisogna che il Figlio dell'uomo
sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo
giorno»». Ed esse si ricordarono delle sue parole e, tornate dal sepolcro,
annunciarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. Erano Maria
Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo. Anche le altre, che erano con
loro, raccontavano queste cose agli apostoli. Quelle parole parvero a loro
come un vaneggiamento e non credevano ad esse. Pietro tuttavia si alzò,
corse al sepolcro e, chinatosi, vide soltanto i teli. E tornò indietro, pieno
di stupore per l'accaduto.
Ed ecco,
in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome
Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano
tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e
discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma
i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono
questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col
volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei
forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò
loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu
profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il
popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato
per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli
fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre
giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre,
ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo
trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di
angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati
alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l'hanno
visto». Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che
hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste
sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da
tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.
Quando
furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare
più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il
giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a
tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede
loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì
dalla loro vista. Ed essi dissero l'un l'altro: «Non ardeva forse in noi
il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava
le Scritture?». Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme,
dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali
dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi
narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello
spezzare il pane.
Mentre
essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse:
«Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un
fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono
dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio
io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo
questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non
credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da
mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo
prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: «Sono queste le parole che io vi
dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte
su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la
mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il
Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome
saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati,
cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco,
io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città,
finché non siate rivestiti di potenza dall'alto».
Poi li
condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li
benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si
prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e
stavano sempre nel tempio lodando Dio.
3.
L’alba del Cristianesimo – Le origini del
Cristianesimo si perdono nel Giudaismo: i primi cristiani erano e
volevano rimanere ebrei e Gesù stesso non pensò mai, probabilmente, di fondare una nuova
religione.
Solo con la predicazione ai pagani si
pose il problema di distinguere tra cristiani, che avevano accolto la
predicazione di Cristo, ed ebrei che non l’avevano accolta. Fu infatti ad
Antiochia – una comunità di convertiti dal paganesimo – che la stessa
parola cristiano fece la sua comparsa.
a) L’ambiente
del Nuovo Testamento - Ai tempi di Gesù, il Giudaismo era
assai più variegato di quanto non si presenti ai nostri giorni:
esistevano, infatti, vari gruppi – diversi per costumi, credenze e interessi
politici – spesso in aperto contrasto tra loro.
Se il centro religioso del giudaismo era il ricostruito Tempio di Gerusalemme, a
esso si affianca l'istituzione delle sinagoghe, legata alla realtà della diaspora del popolo ebreo. Con la conquista, la
distruzione e la deportazione degli abitanti prima del regno del Nord fra il 722
e il 721 a. C., poi di Gerusalemme nel 587, una parte della popolazione d'Israele e di Giuda fu condotta
in terra straniera; un altro gruppo si era stabilito a Elefantina, nell'alto Egitto, alla fine del sec. V a.
C. Sono le tracce più antiche che abbiamo di quella che si trasformò in
un'importante catena di comunità giudaiche fuori della Palestina, per diventare
poi, dopo la distruzione finale di Gerusalemme nel
135, la maggior parte del popolo ebraico.
Tale realtà diede
luogo anche alla missione giudaica nel mondo pagano, cosicché a un giudaismo
palestinese si aggiunge un giudaismo ellenistico con caratteristiche sue.
L'interpretazione
e l'osservanza della Tôrāh, la Legge,
ovvero i primi cinque libri della Bibbia, diventarono la preoccupazione fondamentale del giudaismo
palestinese e ciò diede luogo, da un lato, alla costituzione di una classe
d'interpreti della Legge, gli Scribi, alla
produzione di complessi commentari della Scrittura e alla formazione di diverse
correnti interpretative di cui le principali furono quelle dei Farisei e
dei Sadducei; d'altro lato,
l'osservanza della Legge produsse un rigoroso legalismo, che contraddistinse in
maniera peculiare la religiosità giudaica. Un'ulteriore caratteristica di
questa religiosità era data dalla sua dimensione escatologica, che si
espresse tanto in un'attesa di tipo nazionalistico-messianico – portata a
conseguenze rivoluzionarie, durante il periodo della dominazione romana, dal
partito degli Zeloti – quanto nella speranza di una catastrofe cosmica,
che trovava la propria espressione nella letteratura apocalittica.
Il giudaismo
ellenistico era caratterizzato, oltre che dal suo esclusivismo etnico ed etico
nei confronti del mondo circostante, dalla fusione che d'altra parte realizzò
con la cultura filosofico-religiosa dell'ellenismo, donde si sviluppò un tipo
di pensiero ebraico nuovo rispetto a quello espresso nella più antica
tradizione biblica e nello stesso giudaismo palestinese.
Si osservino ora
i gruppi che costituivano la magmatica composizione del giudaismo
·
I sadducei erano
i membri
di un partito politico religioso attivo in Giudea dal
sec. II a. C. fino alla distruzione di Gerusalemme nel 70 d. C.; questo
partito, composto largamente dagli elementi più ricchi della popolazione,
sacerdoti, mercanti e aristocratici, ebbe una notevole influenza sulla vita
economica e politica al tempo degli ultimi re giudei, i Maccabei, e
ancora più intensamente durante la dominazione romana del Paese. I Sadducei
ripudiavano la tradizione orale, rifiutandosi di accettare un precetto che non
fosse direttamente basato sulla Torah; non
ammettevano la resurrezione dei morti e l'esistenza degli angeli e forse la
stessa immortalità dell'anima e di conseguenza l'al di là. Furono più rigidi
dei Farisei nell'applicazione della Legge e nella punizione dei crimini
soggetti alla pena capitale. I Sadducei si opposero a qualsiasi innovazione
anche nel culto sacrificale del Tempio di cui si considerarono i più rigidi e
degni conservatori. Anche dal punto di vista teologico c’era differenza tra le
due parti: i Sadducei cercavano di avvicinare Dio agli uomini in modo quasi
antropomorfico, mentre i Farisei cercavano di elevare l'uomo verso un Dio più
spirituale e trascendentale.
·
I farisei
erano i membri di un partito politico religioso attivo in Giudea tra il II secolo
a. C. fino alla distruzione di Gerusalemme nel 70. Non numerosi, i Farisei
diressero la loro azione verso le masse, alle quali cercarono d'infondere con
spirito di santità gli insegnamenti religiosi tradizionali. I Farisei
sostenevano, infatti, il principio d'evoluzione nelle decisioni legali e si
dimostravano indulgenti e comprensivi a differenza dei Sadducei, rigidi e
attaccati alla lettera del testo scritto. La loro dottrina fu protesa ad
abbracciare l'intera vita della comunità, toccandone anche i fondamenti
teologici. Il fariseismo, dando vigore alla moralità della legge e mostrando
duttilità nel modo di osservare le norme, pose l'ebraismo in condizione di
sopportare le vicissitudini e le innumerevoli tribolazioni dei secoli
successivi e di riuscire a sopravvivere. La critica moderna ha corretto il
giudizio che dei Farisei danno i Vangeli, rivendicando loro un vero spirito
religioso. Dal punto
di vista dottrinale, credevano in una vita ultraterrena e
nella resurrezione dei morti.
·
Gli zeloti erano
membri di una corrente politico-religiosa sorta e operante nel I secolo.
Praticavano una severa osservanza della Legge, simile a quella dei sadducei e, conseguentemente, un
acceso nazionalismo di
orientamento messianico politico, che si tradusse
nell'opposizione armata contro la dominazione romana della Palestina. Forse
inizialmente organizzati da Giuda Galileo che capeggiò un'insurrezione di oltranzisti ebrei contro i Romani in
occasione del censimento di Quirinio del
6. Il tentativo di Giuda, come il precedente di Teda, fallì ed egli fu ucciso.
Gli zeloti assunsero l'iniziativa dell'insurrezione antiromana che si concluse
con la distruzione di Gerusalemme del 70. Una seconda rivolta dal 132 al 135,
sotto l'impero di Adriano, si risolse in un insuccesso. Praticavano una tenace resistenza armata contro
i romani che occupavano la Palestina.
·
Una nota a
parte meritano gli esseni, membri di un altro
gruppo settario di tipo messianico, mai nominati nel Nuovo Testamento e diffuso, tra
il sec. II a. C. e il I d. C. Il gruppo
fu fondato da un sacerdote che, lasciata Gerusalemme, si era recato nel
deserto, nei pressi del Mar Morto. Gli esseni vivevano raccolti in comunità di tipo monastico,
cui si accedeva a pieno titolo dopo tre anni di noviziato: la vita comunitaria
era retta da regole quali la rinuncia alla proprietà privata e, per lo meno
nella maggior parte dei casi, al matrimonio. Nelle comunità era ammesso il
lavoro agricolo e artigianale, ma si respingeva il commercio, e l'astensione
dalla vita pubblica si concretava altresì nel rifiuto di esercitare il mestiere
militare o di prestare giuramento. Le dottrine degli esseni, prevalentemente
segrete, recano la traccia evidente d'influenze del pensiero orientale e di
connessioni con il sincretismo religioso caratteristico dell'epoca, mentre il
legame con il giudaismo palestinese si manifesta nella loro rigorosa osservanza
della legge ebraica e del sabato, e nei loro contatti con il Tempio;
grandissima importanza rivestivano inoltre le pratiche purificatorie e i pasti in
comune, ai quali era attribuito un carattere sacramentale. Nuove prospettive
sono state aperte allo studio sugli esseni che scomparvero dalla scena storica
dopo il 70 d. C.
·
I samaritani (abitanti
della Samaria) che riconoscevano la sola Torah che
interpretavano letteralmente e non
esercitavano il culto del Tempio di Gerusalemme e anche se non consideravano i Profeti e gli Agiografi come testi sacri, credevano nel messia e nella resurrezione dei morti dopo il Giudizio Universale. Buona parte delle
discordanze fra la versione samaritana del Pentateuco e quella giudaica mira peraltro a
stabilire sul monte Garizim, anziché sul Monte del Tempio di Gerusalemme, il vero luogo del culto di Yahweh.
·
I terapeuti,
numericamente meno rilevanti, erano i membri di una comunità giudaica di tipo monastico. La
sede della comunità – composta da uomini e donne dediti a realizzare un ideale
di vita ascetico e versati particolarmente nell'interpretazione allegorica
dell'Antico Testamento – era in Egitto, presso Alessandria. I terapeuti erano
affini in qualche misura agli Esseni.
b) Gesù e la sua predicazione – La
predicazione di Gesù[6],
durata circa tre anni, intorno al 30 fu di portata rivoluzionaria.
Il Vangelo, dal greco lieto annuncio, sovvertiva drasticamente l’impostazione
rigida della morale del tempo. Alla sua attività di annunciatore
del regno di Dio, Gesù associò un'intensa attività di guaritore e di esorcista:
egli, infatti, con la sola forza di una sua parola o con un gesto delle mani,
guarì le più diverse malattie e liberò gli indemoniati dal potere di Satana.
Queste guarigioni di ammalati e liberazioni di indemoniati accrebbero
enormemente la popolarità di Gesù, ma al tempo stesso suscitarono gelosia e
preoccupazione nei capi religiosi e politici del popolo d'Israele, in pratica,
nelle classi sacerdotali e dell'aristocrazia, appartenenti al partito dei
sadducei, strenui avversari dei farisei, ma
loro alleati nella lotta contro Gesù.
Non
sappiamo con precisione quanto sia
durata la vita pubblica di Gesù. Secondo lo schema adottato dai
Sinottici, l'attività di Gesù – predicazione in Galilea, viaggio a Gerusalemme,
attività in questa città conclusa con la crocifissione – sarebbe durata da sei
mesi a un anno. Lo schema dei Sinottici è tuttavia chiaramente artificiale.
Perciò è più attendibile storicamente il Vangelo di Giovanni, secondo il quale
Gesù sarebbe stato a Gerusalemme per tre Pasque successive: ciò significa che
la sua vita pubblica è durata da due anni a due anni e mezzo.
In
questo modo, Gesù si trovò di fronte una doppia serie di avversari: da una
parte, i sacerdoti e gli anziani del popolo, di tendenza sadducea e dall'altra,
i dottori della Legge (gli scribi), di tendenza farisaica. Il contrasto non fu
dovuto soltanto alla gelosia per il successo di Gesù presso il popolo; molto
più profondamente fu dovuto al fatto che, col suo insegnamento, Gesù sovvertì
da cima a fondo la religione tradizionale, quale si era venuta costituendo per
opera dei sacerdoti e degli scribi d'Israele e le cui istituzioni principali
erano la Torah e il Tempio. Di fatto, lo scontro di Gesù con
gli scribi-farisei avvenne
sulla Torah, mentre lo scontro
con i sacerdoti-sadducei avviene
sul Tempio. Questo doppio
scontro si finì con la morte di Gesù sulla croce.
Lo
scontro sulla Torah avvenne, anzitutto, a
proposito del riposo sabbatico
che, per gli scribi-farisei era assoluto, mentre per Gesù riguardò le necessità
dell'uomo, perché il sabato è stato fatto
per l'uomo e non l'uomo per il sabato: perciò Gesù guariva anche di sabato
e permetteva ai suoi discepoli, che avevano fame, di raccogliere le spighe in
quel giorno e mangiarle. Lo scontro avvenne, poi, sulla purità rituale. Gesù rigettava ogni
formalismo nella ricerca e nella tutela della purità rituale, dicendo ai
farisei: «Voi farisei purificate
l'esterno della coppa e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina e di
iniquità». Questo formalismo legalista era per lui ipocrisia. Quello che
valeva per Gesù era l'impegno per la purità interiore, del cuore, per una
religiosità non formalistica ma autentica e per un rapporto di giustizia e di
carità verso il prossimo.
Lo scontro sul Tempio avvenne
poiché questo, invece di essere un luogo di preghiera, era diventato un luogo
di mercato e una spelonca di ladri:
di qui il gesto audace e provocatorio della cacciata
dei mercanti dal Tempio, che decise la sorte di Gesù.
La
predicazione di Gesù – che dunque minava le basi della religione ebraica, come
era vissuta dai sacerdoti-sudducei e dagli scribi-farisei, e che perciò poneva
Gesù fuori di essa – non poteva che concludersi tragicamente.
Per questo motivo fu osteggiato e infine condannato
a morte e crocifisso. Gesù si proclamò come il Messia atteso dagli ebrei e
annunciato dai profeti nelle Scritture, predicò una morale fondata sulla totale
libertà dell’uomo, piuttosto che sulla rigida osservanza di regole e precetti.
c) La predicazione degli Apostoli – Dopo
la morte di Gesù, i primi discepoli cominciarono a organizzarsi e a diffondere
il kerygma ossia l’annuncio.
Questo
gruppo di persone, di origine eterogenea, decise di stabilirsi a Gerusalemme
nella probabile persuasione che da lì a poco sarebbe giunta la fine dei tempi. Il
gruppo, ebrei e proseliti, era considerato una delle tante sette giudaiche che
allora componevano il variegato mondo religioso ebraico ed era disomogeneo
anche nelle convinzioni: è possibile, infatti, riconoscere almeno tre
sottogruppi con visioni abbastanza differenti su come intendere il nuovo Vangelo, che peraltro allora non
esisteva ancora in forma scritta.
·
Gli Ellenisti, gruppo legato alla figura di Stefano, avevano un atteggiamento
piuttosto sovversivo nei confronti delle istituzioni ebraiche, in particolare
del tempio e ciò portò a uno scontro con il sinedrio, con la morte di Stefano e
l'allontanamento della comunità da Gerusalemme. Essi si trasferirono quindi ad Antiochia e lì cominciarono a predicare anche a
proseliti dell'ebraismo di origine non ebraica, costituendo le prime comunità
cristiane composte da membri non nati nell'ebraismo.
·
I giudeo-cristiani, gruppo maggioritario,
legato prima a Pietro e poi a Giacomo, fratello di Gesù, avevano un ruolo di primo piano nella Chiesa di Gerusalemme: questo
ruolo fu affidato a Giacomo da Gesù che divenne il capo della Chiesa di
Gerusalemme, dopo la morte di Gesù.
I giudeo-cristiani praticavano
integralmente la legge ebraica e pregavano regolarmente nel tempio di Gerusalemme; Pietro, però si dovette allontanare ben presto
dalla città, dopo che era stato imprigionato da Erode Agrippa I, e Giacomo morì nel 62 per lapidazione su comando del sommo
sacerdote Anania.
·
Un terzo gruppo,
legato a Giovanni, elaborò una teologia originale su Gesù e sulla sua
relazione con Dio, in seguito
divenne predominante in tutta la Chiesa, insieme al pensiero di Paolo.
Anche secondo
Paolo, la Chiesa di Gerusalemme era basata su tre colonne: Giacomo, Pietro e
Giovanni.
Inizialmente, i primi seguaci di Gesù si consideravano parte della
Religione ebraica. Certo, avevano alcune pratiche peculiari e nuove come il Battesimo e la
celebrazione della Eucaristia e vivevano in una comunità coesa e a sé stante,
ma tutti erano certi della propria ebraicità: si comportavano come Ebrei,
partecipavano ai culti del popolo ebraico, praticavano le forme tradizionali
della religiosità ebraica e osservavano strettamente l'antica Legge ebraica, discesa da Mosè.
Questo primo
Cristianesimo si sviluppò dalla Giudea romana e si sparse per tutto l'Impero Romano e
oltre cioè nell'Africa orientale e Asia meridionale, fino a raggiungere l'India
e, dapprincipio, questo sviluppo fu strettamente collegato ai centri di fede ebraica già esistenti, in Terra Santa e nella Diaspora ebraica.
I primi
seguaci del Cristianesimo erano ebrei, noti come timorati di Dio o anche ebrei cristiani: essi erano i membri del movimento
ebraico di riforma che più tardi divenne il Cristianesimo vero e proprio. Nella fase più
precoce, la Comunità era composta da tutti i giudei che avevano accettato Gesù di Nazareth come una persona venerabile o
addirittura il Messia, quindi equivalenti a tutti i gruppi cristiani
successivi, che continuavano a osservare le prescrizioni della Legge
mosaica dopo la loro conversione al Cristianesimo. Quando il Cristianesimo
cominciò ad evolversi e diffondersi, i giudeo-cristiani divennero solo un
filone minoritario della comunità cristiana.
Si ipotizza
che le Sedi Apostoliche siano
state fondate da uno o più apostoli di Gesù,
che si pensa siano partiti da Gerusalemme qualche
tempo dopo la sua Crocifissione,
verso il 26–36, probabilmente dopo il Grande
Mandato, la missione divina
degli apostoli. I primi cristiani
si riunivano in modeste case private, note
come chiese domestiche, ma la
comunità intera di una città era anch'essa chiamata chiesa – dal greco εκκλησια o Ecclesia che letteralmente significa assemblea,
riunione, o congregazione.
Molti di
questi primi cristiani erano mercanti, mentre altri avevano motivi pratici per
voler andare in Africa settentrionale, Asia minore, Arabia, Grecia e altri
luoghi. Oltre 40 di queste comunità furono istituite entro l'anno 100, nelle città intorno al Mediterraneo, comprese due in
Nord Africa, ad Alessandria e Cirene, e svariate in Italia molte in Asia Minore. Per la fine del I secolo, il Cristianesimo era già
arrivato a Roma, in India e nelle maggiori città dell'Armenia, Grecia e Siria,
servendo da base per la diffusione espansiva del Cristianesimo in tutto il
mondo.
La storia di come questa piccola comunità di credenti si sparse per
molte città dell'Impero Romano in meno di un secolo è una parte considerevole
della storia dell'umanità.
Si trattava, però, anche di una comunità in crescita che,
inevitabilmente, in almeno due occasioni, aveva ammesso al suo interno persone
che non condividevano il background ebraico. Il primo caso era avvenuto in
relazione un importante funzionario responsabile del Tesoro della regina di
Etiopia. Il secondo convertito era
stato il centurione romano Cornelio, che era stato ricevuto nella Chiesa direttamente
da Pietro. Ovviamente, questi due episodi dovevano essere solo due esempi di un
movimento certamente più ampio ed era logico che tali inglobamenti di esseri impuri, così come l'insistenza dei
proto-Cristiani nel predicare la divinità di Gesù, ben presto portassero ad un
conflitto aperto con le autorità della Religione ebraica, in particolare i
Farisei.
Non a caso per due volte ai seguaci di Gesù fu ordinato di desistere dal
loro modo di vivere e, al loro rifiuto, essi furono condannati a morte: la prima
persecuzione, a metà degli anni 30, portò alla lapidazione di Stefano, la seconda all'esecuzione dell'Apostolo Giacomo il
Maggiore intorno all'anno 44. In seguito a questa importante persecuzione
di Cristiani in Palestina molti Cristiani
fuggirono ad Antiochia, importante metropoli, capitale
della provincia romana d'Oriente e fondamentale centro della cultura greca.
Fu proprio ad Antiochia che il nome di Cristiani fu dato per la prima volta ai credenti in Cristo e che un
numero notevole di persone provenienti da altre religioni, in particolare
Greci, ma anche Ciprioti e Romani, accolse l'insegnamento evangelico. Insomma,
per la prima volta, verso il 42-45 d.C., la Chiesa cominciò ad apparire come
qualcosa di più di una delle numerose sette ebraiche: stava diventando cattolica, ossia universale.
Questo, però, poneva un problema: la grande maggioranza dei Cristiani
erano ancora Ebrei e, ad Antiochia come a Gerusalemme, si consideravano tenuti
alla circoncisione, a seguire le antiche leggi alimentari e a mantenere la
norma che vietava loro di mangiare con i pagani e, poiché l'Eucaristia era
celebrata in occasione di un pasto, gli Ebrei ritenevano impossibile
concelebrarla insieme con i loro nuovi fratelli Gentili.
Per l'Apostolo Pietro, ebreo osservante, il dilemma era di decidere se
un Ebreo doveva rifiutarsi di condividere la Comunione con gli ex – pagani, a
meno che essi non si fossero sottomessi completamente, all'atto del Battesimo,
ai rituali e alle leggi ebraiche, o se tali leggi dovessero essere sorpassate
in virtù del comando di Gesù di diffondere la sua Buona Novella a tutte le
nazioni.
Se Pietro era da
subito apparso propenso per la seconda soluzione, per molti osservanti Ebrei il
Battesimo di non circoncisi era un atto di tradimento verso il Giudaismo e che
l'Apostolo alloggiasse e mangiasse con pagani era una cosa sconcertante e
contraria alla Legge.
La questione
doveva essere risolta, soprattutto perché Ebrei e Gentili convertiti erano
sottoposti a forti pressioni anche da parte degli estremisti nazionalisti
antiromani, che vedevano nella loro comunanza una sorta di tradimento degli
ideali liberazione nazionale.
d) San Paolo – Nell’ambito della
predicazione apostolica, merita una menzione a parte la figura dell’Apostolo
Paolo[7] che
riuscì ad organizzare e dirigere un grande numero di comunità, da Roma all’Asia
minore, dando origine al Cristianesimo.
Paolo operò una revisione del messianismo tradizionale degli ebrei e lo trasformò
in una teologia destinata a staccarsi dalla matrice giudaica o, addirittura, a
porsi in conflitto con essa per i secoli successivi. Comunità di convertiti dal paganesimo nacquero così ad Antiochia, a
Corinto, a Roma e in altri grandi centri del tempo.
Paolo di
Tarso, giudeo e cittadino romano, dopo aver perseguitato per anni i primi
cristiani si convertì al Cristianesimo a 35 anni. Nonostante non avesse mai conosciuto
Gesù, in virtù della sua cultura e della sua retorica, Paolo, riuscì a far
prevalere la propria personale visione del Cristianesimo e la propria dottrina,
impregnata di cultura ebraica e di culti pagani, su quella delle prime comunità
cristiane che si stavano a fatica organizzando. Paolo iniziò la predicazione
senza prepararsi in alcun modo e senza mai consultare le comunità cristiane
guidate dagli Apostoli che incontrò solo tre volte: la prima volta quando andò a
Gerusalemme per la presentazione
a Pietro, per la quale fu necessario l'intervento di Barnaba, poiché Paolo non
godeva di buona fama; la seconda volta per il
Concilio causato dalla sua anomala predicazione e l'ultima
volta, ad Antiochia, dove avvenne lo scontro tra Paolo e Pietro in merito alle usanze imposte dalla Legge riguardo la possibilità di
prendere cibo con i pagani ed arrivò anche ad accusare lo stesso Pietro di
ipocrisia.
Paolo non
si lasciò mai correggere, al contrario, parlava di rivelazioni proprie e si
oppose in modo minaccioso alle rivelazioni dello Spirito delle prime comunità
che potevano mettere in discussione i suoi insegnamenti. Ponendosi al di sopra
degli Apostoli e delle Comunità del Cristianesimo originario e facendo
concentrare l’attenzione sulla propria persona e sulla propria dottrina, Paolo pose
di fatto le basi per cui il Cristianesimo diventasse in seguito una Religione
di Stato. Da questo momento la legge dei Dieci Comandamenti e il discorso della Montagna, fulcro del
messaggio evangelico, passarono in secondo piano.
Paolo
edificò la chiesa del culto, cosa a cui Gesù non aveva mai accennato, con
vescovi e sacerdoti, riportando in vita riti antichi, cerimonie sacerdotali e
altari che facevano parte delle vecchie religioni seguite fino a quel momento,
autorizzando i suoi seguaci, Tito e Timoteo, a nominare un vescovo da porre a
fianco degli anziani.
La presenza
della teologia paolina in tutto il Nuovo Testamento e talvolta anche tra gli
apocrifi, di testi che tentano di modificare la chiara interpretazione
documentale degli scritti autografi di Paolo e di dimostrare che Pietro e Paolo
operavano all'unisono, o anche, tutto l'operato antieretico promosso dalla
patristica, illuminano inconfondibilmente la storia delle prime comunità
cristiane: quella dello scisma tra le posizioni dei giudeo-cristiani
basate sulla predicazione dei 12 apostoli guidati da Pietro, Giacomo e Giovanni
e il Cristianesimo paolino, unico sopravissuto all'interno delle correnti del
Cattolicesimo primitivo.
Certamente esiste una certa continuità tra vita e messaggio
di Gesù e pensiero di Paolo, ma il vero centro del messaggio paolino è
rappresentato dalla risurrezione di Gesù, aspetto che non
poteva essere esplicitamente presente nella predicazione itinerante palestinese
di Gesù di Nazareth. Attorno a Gesù risorto si collocano le principali
intuizioni teologiche di Paolo che
vedeva nella nuova religione la possibilità di salvezza del mondo intero, possibilità che in
qualche modo era aspettata da molti altri. La sua predicazione ruppe con le
tradizioni del popolo ebraico e abbracciò le aspirazioni universali della koinè culturale ellenistica. Paolo,
cercando l'integrazione e la diffusione nel resto del mondo greco-romano,
ampliò la base sociale e numerica della nascente chiesa.
Gesù aveva predicato di guardare dentro di sé e di non abituarsi alla regole antiquate
della società. Paolo promise a tutti la salvezza e il paradiso eterno, chiedendo
in cambio solo di credere.
Più che a provocare una difficile rivolta interna all'animo umano oppure
un'inutile rivolta alle istituzioni – rivolte che avevano portato il messia ad essere crocifisso – Paolo puntò a
infondere pace e sicurezza all'intera popolazione, straziata da centinaia
d'anni di guerre e violenze. Fu Paolo ad affermare la preminenza della fede rispetto alle opere, la preminenza dello
spirito sulla materia. Convertendosi e semplicemente credendo, ogni persona avrebbe
partecipato alla venuta del Regno di Dio, che, secondo le visioni di
allora, non era affatto lontana. Paolo credeva che Gesù fosse christos, cioè il sacro messia, il salvatore aspettato dagli ebrei, ma lo
identificò anche come figlio di Dio, espressione che, in un
mondo totalmente politeista, identificava in pratica un dio a sua volta, ne
promosse il culto della personalità e iniziò a parlare
dei cristiani come separati dagli
ebrei.
I
successivi due secoli, però, sarebbero stati caratterizzati dallo scontro
sempre più forte fra il monoteismo (culto di un solo dio) e il politeismo
(culto di molti dei). Il culto verso la persona di Gesù, appaiandosi al culto
verso il Dio Padre e poi verso la Madre di Dio, avrebbe comportato numerosi
problemi dottrinali alla futura Chiesa, tendenzialmente monoteista.
Il Cristianesimo
faceva breccia nella popolazione impoverita, ma anche in strati sociali più
abbienti. I suoi valori offrivano delle vie di fuga all'angoscia e alla
disperazione causate da continue guerre e dal malessere dilagante, si rivolgeva
anche al mondo femminile, un mondo escluso quasi totalmente dalla vita pubblica
di allora. La nuova religione si diffuse rapidamente, anche grazie alla
predicazione di profeti itineranti che ripetevano l'esperienza messianica, e rapidamente
incorse in vari tentativi di repressione, che a volte raggiunsero livelli
maniacali. A Roma si parlava con orrore dei culti
giudaici, nacquero leggende
metropolitane e i cristiani furono utilizzati, allo stesso modo degli ebrei,
come capri espiatori per qualsiasi colpa o
disastro impressionante.
e) Il Concilio di Gerusalemme – Un
avvenimento particolarmente importante fu il Concilio di Gerusalemme o
Concilio Apostolico. La data precisa di questo summit
è incerta, ma certamente si può restringere il campo al periodo tra il 48 ed il
52.
Tutti gli Apostoli più importanti erano presenti: Pietro,
Giovanni, Giacomo il Minore, Vescovo della città, Paolo, il grande
evangelizzatore dei Gentili. Con loro vi erano tutti i loro più stretti collaboratori
e compagni: Barnaba, Silvano, Tito e molti altri ancora.
La prima
questione dottrinale che dovette
affrontare la cristianità e che determinò poi tutto il suo sviluppo successivo
era se il Cristianesimo fosse solo una filiazione, quindi un ramo del Giudaismo,
oppure se fosse qualcosa di diverso, di discontinuo con la tradizione giudaica,
quindi qualcosa di nuovo. Di conseguenza, ci si chiedeva se il Cristianesimo
fosse riservato a chi era divenuto un seguace del Giudaismo, oppure se era
possibile essere seguaci di Cristo senza osservare i rituali e le tradizioni
della fede giudaica. In altri termini per essere cristiani bisognava prima
essere ebrei, oppure potevano diventare cristiani anche i non ebrei?
Intorno a questo problema si
sviluppò il primo concilio della chiesa cristiana. Il concilio vide coinvolti
nella disputa Paolo, da una parte, e i giudei
capeggiati da Pietro e Giacomo, dall'altra.
Dopo un’accesa discussione tra le
diverse fazioni, l'una che avrebbe voluto imporre la legge mosaica ai pagani convertiti e l'altra che considerava questa
un giogo iniquo, si decide che il Cristianesimo
fosse qualcosa di nuovo rispetto al Giudaismo
e che i cristiani non devono avere col Giudaismo alcun legame.
Tuttavia, il fatto che sia stato
deciso dal concilio, non elimina il problema che diversi predicatori andassero per conto loro. Paolo fa proprio
riferimento a tali predicatori che impongono la legge giudaica ai cristiani non
Ebrei, in netto contrasto con quanto deciso dal Concilio di Gerusalemme. Un'altra
delle deliberazioni alla quale era giunto il Concilio di Gerusalemme fu l'accordo ufficiale sulla ripartizione
delle missioni: Giacomo e Pietro per i giudeo-cristiani circoncisi e Paolo per
i gentili provenienti dal Paganesimo.
Questo Concilio terminò
con la scelta di inviare alcuni rappresentanti ad Antiochia per comunicare la
decisione presa che è così sintetizzata in una lettera: «Gli apostoli e gli anziani ai fratelli di
Antiochia, di Siria e di Cilicia che provengono dai pagani, salute! Abbiamo
saputo che alcuni da parte nostra, ai quali non avevamo dato nessun incarico,
sono venuti a turbarvi con i loro discorsi sconvolgendo i vostri animi. Abbiamo
perciò deciso tutti d'accordo di eleggere alcune persone e inviarle a voi
insieme ai nostri carissimi Barnaba e Paolo, uomini che hanno votato la loro
vita al nome del nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo mandato dunque Giuda e
Sila, che vi riferiranno anch'essi queste stesse cose a voce. Abbiamo deciso,
lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di
queste cose necessarie: astenervi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue,
dagli animali soffocati e dall’impudicizia. Farete cosa buona perciò a
guardarvi da queste cose. State bene».
In tal
modo la Chiesa cristiana si svincolò ufficialmente dalla sua matrice giudaica: la
Chiesa madre di Gerusalemme continuò ad esercitare la sua influenza, ma sotto
la direzione di Giacomo. Paolo dominò nella diaspora e nei suoi viaggi
missionari presso i gentili. Fino a questo momento Gerusalemme era stato il
punto focale del Cristianesimo: le città o regioni della Palestina o Siria che erano
evangelizzate erano incorporate nella madre Chiesa dai suoi inviati. Dopo di
che la Parola, fatta libera e matura, proseguì la sua marcia fino all’estremità
della terra.
Le
decisioni relative alla dottrina cristiana diventarono un problema da subito e
il Cristianesimo non nacque a tavolino, ma iniziò da una vicenda e, da quella
vicenda, poi si allargò a tutto l'Impero romano e alla Storia. Rimane comunque
il problema storico e di fede, se la vicenda centrale del Cristianesimo, nucleo
e base di tutta questa religione, sia realmente accaduta oppure no, cioè la
morte e la resurrezione di Gesù. Per ora non esistono documenti storici originali e indipendenti che lo attestano e che lo testimoniano.
f) I primi cristiani - Negli Atti
degli Apostoli si legge: «Intanto
quelli che erano stati dispersi dopo la persecuzione scoppiata al tempo di
Stefano, erano arrivati fin nella Fenicia, a Cipro e ad Antiochia e non
predicavano la parola a nessuno fuorché ai Giudei. Ma alcuni fra loro,
cittadini di Cipro e di Cirene, giunti ad Antiochia, cominciarono a parlare
anche ai Greci, predicando la buona novella del Signore Gesù. E la mano del
Signore era con loro e così un gran numero credette e si convertì al Signore.
La notizia giunse agli orecchi della Chiesa di Gerusalemme, la quale mandò
Barnaba ad Antiochia. Quando questi giunse e vide la grazia del Signore, si
rallegrò e, da uomo virtuoso qual era e pieno di Spirito Santo e di fede,
esortava tutti a perseverare con cuore risoluto nel Signore. E una folla
considerevole fu condotta al Signore. Barnaba poi partì alla volta di Tarso per
cercare Saulo [Paolo] e trovatolo lo condusse ad Antiochia. Rimasero insieme un
anno intero in quella comunità e istruirono molta gente; ad Antiochia per la
prima volta i discepoli furono chiamati cristiani». (Atti degli Apostoli, XI, 19-26).
Queste poche righe fotografano in modo impressionante il momento in
cui gli Apostoli cominciarono ad aprirsi anche ai non ebrei, ai pagani.
g) Le prime
persecuzioni – Il Cristianesimo cominciò
presto a diffondersi in tutto il territorio dell’Impero Romano; i cristiani
furono presto conosciuti e identificati dai romani come una delle molte ramificazioni del mondo giudaico del
tempo.
I
primi anni furono di tolleranza: le prime persecuzioni furono condotte da ebrei
ostili alla parola dei discepoli dell'oscuro Nazareno, (si pensi al martirio di
S. Stefano o all'incarcerazione di S. Pietro).
I romani volevano in un primo
momento sostenere i cristiani
piuttosto che gli altri ebrei: era questo il periodo delle più cruente
rivolte antiromane (le ultime delle quali furono soffocate nel sangue) e i
cristiani, che predicavano la fedeltà ai poteri costituiti, secondo il detto
del rendete a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio, erano
evidentemente considerati meno pericolosi.
Questa
situazione di relativa calma subì però una svolta decisiva tra la fine del 62 e
l’inizio del 63, ad opera dell’imperatore Nerone, responsabile della prima
persecuzione anticristiana del 64: i cristiani considerati una setta ebraica, furono
accusati di essere i diretti responsabili dell’incendio di Roma.
Intorno al 60 senz'altro a Roma
operano Pietro (morto martire a Roma nel 67) e Paolo (imprigionato a Roma nel
60 e morto martire nel 62). D'altra parte nella città trovano il martirio tanti
cristiani in seguito all'accusa di avere incendiato Roma nel 64. Più o meno
negli stessi anni muoiono martiri anche l'apostolo Bartolomeo in India e
Giacomo il Giusto, Vescovo di Gerusalemme. Inizia in questi anni (e durerà fino
al 125 circa) il periodo durante il quale sono scritti i 4 Vangeli, Atti,
Rivelazione, e qualche epistola (la gran parte erano state scritte prima da
Paolo).
Dal
64 al 313 ci fu un susseguirsi di periodi di persecuzione e periodi di
tolleranza.
È
importante però distinguere due distinte tipologie di persecuzione:
·
persecuzioni sistematiche ordinate
dall'autorità imperiale;
·
persecuzioni da parte del popolo.
Le ragioni delle persecuzioni erano
varie:
·
la preoccupazione delle autorità
politiche per la forza persuasiva delle comunità cristiane che, con la loro
organizzazione gerarchica, apparivano come uno Stato nello Stato;
·
il rifiuto dei cristiani di
riconoscere la divinità dell'imperatore;
·
l'inquietudine dell'opinione
pubblica che vedeva nella crisi dell'Impero una vendetta degli dei.
Spesso
lo Stato si trovò costretto a fare da braccio secolare al fanatismo
del popolo che spiegano i molti processi ed esecuzioni subiti dai cristiani
anche in tempi di tolleranza.
La persecuzione dei cristiani che
investì tutto l'impero e che durò quasi 300 anni. Questa persecuzione, oltre ai
drammi umani, causò la discesa del Cristianesimo nelle catacombe[8]
e una impossibilità di comunicare, di far circolare le idee. Si ebbe quindi la
nascita di mille rivoli dottrinali,
le cosiddette eresie, che trovarono una loro parziale composizione e
risoluzione solo nel Concilio di Nicea, che avvenne quasi 300 anni dopo il
primo concilio di Gerusalemme.
A questo si deve anche la
difficoltà di trovare testi risalenti a quel periodo. Già la scrittura era
riservata a pochi eletti. In più il Cristianesimo poteva essere vissuto solo in
clandestinità. Non si potevano quindi divulgare libri e documenti se non a
rischio della vita.
Esistono editti, rescritti e
provvedimenti di vario genere, più o meno intolleranti, ma non leggi vere e proprie.
Alcuni testi, come l'editto di Adriano, sembrano quasi scritti allo scopo di
evitare le persecuzioni. Ma l’assenza
di una legislazione
anticristiana a Roma offrì il fianco alle argomentazioni
della prima letteratura apologetica greca e latina (si pensi particolarmente a
Tertulliano che, da buon giurista, rilevò dettagliatamente questa incongruenza
legale).
Le
persecuzioni furono un autentico battesimo
di fuoco: a causa di esse il Cristianesimo nascente si fortificò, si
strutturò, si disciplinò in modo perfetto, riuscendo non solo a sopravvivere,
ma anche ad imporsi. Da ciò il detto di Tertulliano, secondo cui il sangue
dei cristiani è seme.
h) I padri apostolici – Sono i primi Padri della Chiesa in rapporto,
diretto o indiretto, con alcuni degli apostoli. È il caso di Clemente di Roma,
di Ignazio di Antiochia, di Policarpo di Smirne, i cui scritti hanno per
oggetto soprattutto tematiche ecclesiali e morali. Affrontano problematiche
connesse all'evoluzione del Cristianesimo e al controverso distacco della
Chiesa dall'originario ambiente giudaico, per aprirsi a una dimensione
universale che comprenda il mondo greco-romano.
È
la filosofia che favorisce le credenze eretiche
da Contro
gli eretici di Tertulliano
Sono queste le
dottrine di uomini e di demoni sorte da quel che sia lo spirito della pretesa
sapienza mondana, per le orecchie che non sanno trovar pace e tranquillità. Il
Signore, l'ha chiamata follia tale saggezza, e la
stoltezza del mondo ha scelto appunto, per confonder quella che sia l'umana
filosofia. È la filosofia stessa, invero, che dà materia a quella che si chiama
mondana saggezza, dal momento che, con molta libertà e pretesa arroganza,
interpreta la natura divina, i suoi disegni e i suoi procedimenti. Diciamolo
francamente: le eresie stesse sono quelle che attingono forza e consistenza da
tali principi filosofici. È dalla filosofia infatti, che Valentino prende la
concezione degli Eoni e di una quantità di forme, di cui non saprei dire
neppure il numero: infinite esse sono; e il concetto di una Trinità umana: o
non era costui stato discepolo di Platone? E non è da quella stessa fonte, che
scaturisce il dio di Marcione, preferibile agli altri? almeno ha un carattere
di tranquillità; e anche la sua dottrina deriva dagli Stoici. Sono stati gli
Epicurei quelli che hanno sostenuto il principio che l'anima è soggetta alla
morte, e se tu vuoi negare il principio della resurrezione della carne, tu
potrai attingere per questo punto dai dettami di tutti quanti gli antichi
filosofi: dove trovi che la materia è uguagliata con la natura di Dio, quivi
potrai riconoscere la dottrina di Zenone; ed ecco invece
che ti vien fuori Eraclito, quando si parli di una divinità che abbia in sé natura
ignea; è la stessa materia, in fondo, che viene trattata, agitata, e da eretici
e da filosofi: donde il male e perché? donde l'uomo e come egli è sorto? Ed
ecco il problema che ultimamente Valentino s'è posto: donde Iddio? Deriva
dall'Entimesi o dall'Ectroma? O Aristotele, mal facesti, tu, che hai
loro insegnato la dialettica, arte abile ugualmente e a costruire e a
distruggere, diversa e sfuggevole nelle sue asserzioni, immoderata, sforzata
nelle sue congetture; aspra, difficile nelle sue argomentazioni, che crea con
facilità contrasti; laboriosa e molesta talvolta a se stessa, che tutto pone in
discussione sottile, perché appunto nulla sfugga all'attento e minuzioso esame
di lei! Di qui proprio derivano quei racconti favolosi, quelle genealogie interminabili,
quelle questioni lunghe ed oziose, quelle discussioni sottili, che s'insinuano
negli animi come qualcosa di malefico che ti consuma e ti uccide.
L'Apostolo, quando
vuole preservarci da quello che è male, ci avverte appunto di star bene in
guardia contro l'opera della filosofia: egli la ricorda
chiaramente, espressamente: scrive ai Colossesi: Guardatevi, perché non vi sia
qualcuno che non v'inganni colla filosofia, che, con vane apparenze di verità,
non vi tragga fuori dalla retta strada, secondo l'umana tradizione e
contrariamente alla provvidenza dello Spirito Santo. Paolo era stato in Atene,
e questa specie di umana sapienza l'aveva ben conosciuta con le relazioni che
aveva avuto coi filosofi: pretende essa alla verità, ma non fa che impedire il
raggiungimento di questa, e, divisa com'è in una quantità di sette contrastanti
intimamente fra loro, da luogo a credenze varie e contraddittorie. Può esservi
forse qualcosa di comune fra Atene e Gerusalemme? quale relazione potrà
stabilirsi fra la Chiesa e l'accademia? fra gli eretici e i Cristiani? È dal
portico di Salomone che la nostra dottrina trae l'origine sua; fu lui stesso
che ci ha insegnato che Iddio si deve cercare nella semplicità e nella bontà
del nostro cuore. Se la vedano un po' coloro che hanno messo fuori un
Cristianesimo stoico, platonico, dialettico. Che bisogno abbiamo noi di
ricerche, dopo Gesù Cristo? che cosa dobbiamo richiedere noi, dopo che abbiamo
avuto il Vangelo? Noi fermamente crediamo, e non sentiamo più desiderio di
credere oltre: perché questo soprattutto è il canone fondamentale della
dottrina nostra: il non esservi altra cosa da credere, al di là di ciò che già
noi sinceramente crediamo.
4. Il II secolo del Cristianesimo – Il II secolo vede la Chiesa già
strutturata e in grado di confrontarsi e di scontrarsi con la cultura pagana.
Molti scrittori cristiani si pongono così a difesa della loro fede. Ma non
solo. Nei primi due secoli dell’era volgare, c’erano molte comunità cristiane e
ognuna di esse si rifaceva a tradizioni differenti non esisteva omologia su
diversi aspetti dottrinali pertanto questo periodo vide anche un moltiplicarsi
di varie eresie[9].
Rispetto a una religione, come a un’ideologia
politica o a una corrente culturale, l’eresia
indica l’allontanamento dall’ortodossia, cioè dalla dottrina prevalente che,
dai sostenitori, è considerata come verità.
Ma chi può stabilire se una dottrina è eretica? Per le istituzioni autoritarie non
ci sono difficoltà; non così per le istituzioni democratiche. Finché il
Cristianesimo fu una cultura minoritaria, nel mondo romano il concetto di
eresia fu relativo, giacché ogni gruppo riteneva eretico l’altro.
Alcune dottrine, condannate come eretiche,
tentavano di mettere a fuoco importanti questioni, com’è accaduto ad esempio
nei primi secoli del Cristianesimo, quando si cercava di chiarire il difficile
problema del Cristo e della sua duplice natura (divina e umana).
Nel Nuovo Testamento si trovano
anche altre prese di posizione contro tendenze eretiche. Paolo denuncia
influssi di tipo giudaizzante presenti in Galazia; altri cenni contro
deviazioni si colgono nelle Lettere di Giovanni e nelle Lettere pastorali. Quale
deve essere l’atteggiamento da tenere di fronte a casi del genere? Nel vangelo
di Matteo si dice che il fratello, invano ripreso, sarà condotto dinanzi alla
comunità e "se rifiuta di
ascoltare anche la chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano". Ossia, chi non è d’accordo con la comunità
ne è escluso, anche perché in realtà si esclude da sé. Si tratta di un
procedimento pienamente legittimo, che sarà per lungo tempo adottato dalla
chiesa delle origini. Solo in seguito, quando la degenerazione autoritaria si
diffuse, l’eretico fu processato, subì torture, fu condannato a morte.
Per queste ragioni prenderà
vita la prima letteratura eresiologica
cristiana.
a) La formazione della struttura ecclesiale - Tra la fine del I e l’inizio del II secolo, la concezione
della Chiesa ha già forma compiuta, come ci testimoniano le lettere di S. Ignazio d’Antiochia.
Come
appare dalle sette lettere di Sant’Ignazio, la gerarchia ecclesiastica si era
strutturata secondo tre gradi precisi:
·
il vescovo, capo della
Chiesa locale ed eletto dai fedeli;
·
i presbiteri o
sacerdoti, che assistono il vescovo nelle celebrazioni e in alcune altre
mansioni;
·
i diaconi, assistenti
diretti del vescovo, che svolgono un’importante funzione nelle celebrazioni e
nell’assistenza ai poveri.
In
questo periodo non esiste ancora alcun primato diverso da
quello del vescovo locale.
b) Il
confronto con la cultura pagana – Il II secolo
fu quello dell’incontro e, conseguentemente,
dello scontro tra Cristianesimo
nascente e cultura pagana.
Fu quindi soprattutto il secolo degli Apologisti: i
padri apologisti furono impegnati soprattutto in uno sforzo apologetico, cioè
di difesa delle verità fondamentali della fede cristiana dalle critiche dei
pagani e del giudaismo, utilizzando anche concetti filosofici. Per esempio,
Giustino rinvenne una profonda analogia fra le dottrine cristiane
dell'esistenza di Dio, della creazione del mondo e dell'immortalità dell'anima
e la filosofia platonica. In tutt'altra prospettiva si pone invece Tertulliano
(155-200), il più famoso apologista latino: egli sostiene la superiorità della
fede rispetto a ogni tipo di prova o argomentazione razionale, che non la
possono in alcun modo giustificare, e per definire questa dimensione
a-razionale della fede conia l'espressione latina credo quia absurdum credo poiché è assurdo.
I
loro scritti segnarono così un momento di incontro e di scontro tra Cristianesimo nascente e cultura pagana. quegli
scrittori cristiani che tentarono in ogni modo di difendere la fede cristiana
dagli attacchi della cultura del tempo.
Lo
scontro con il Paganesimo si attuò nel II secolo soprattutto sul versante
culturale.
Mancano
in questo periodo le grandi persecuzioni che caratterizzarono al contrario il I
e il III secolo, ma ciò non significa che si trattasse di un tempo di piena
tolleranza: lo dimostrano, tra gli altri, il martirio di S. Ignazio nel 110 e quello
di S. Giustino nel 165.
c) Le prime eresie – Le eresie conosciute dal Cristianesimo nel I secolo
furono soprattutto quelle dette giudaizzanti (ad esempio gli ebioniti),
ma già dal I secolo cominciavano a diffondersi le forme più primitive dello Gnosticismo[10], Doceti e Nicolaiti. Alcune grandi eresie si manifestarono,
in una situazione culturale molto ricca e composita, com’era quella del bacino
del Mediterraneo. Si trattava di eresie importanti, perché all’epoca trovarono
spesso largo spazio nelle comunità; ma anche perché talune di esse riaffiorano,
magari in forme diverse, nei secoli successivi e perfino ai giorni nostri.
Il II secolo segnò la vera
esplosione delle varie sette gnostiche dai marcioniti, ai valentiniani.
Marcione era un vescovo e teologo,
fondatore della dottrina cristiana che prende il nome di Marcionismo, considerata eretica dalla chiesa primitiva.
I suoi insegnamenti furono
rilevanti nel Cristianesimo del II
secolo, continuando poi ad essere influenti nei secoli successivi, e furono
percepiti come una notevole minaccia dai Padri
della Chiesa, in particolare dalla Chiesa
di Roma, che poi emerse vittoriosa dalla lotta contro le altre correnti dei
primi secoli per essere confermata nel concilio
di Nicea del 325.
Sebbene spesso incluso nella
corrente gnostica, Marcione accolse la dottrina di Paolo
di Tarso, che sottolineava come la salvezza non fosse ottenibile solo
attraverso la Legge, e la portò alle sue estreme
conseguenze: secondo Marcione esistevano due divinità, il Dio degli Ebrei,
autore della Legge e dell'Antico Testamento, e il Dio Padre di Gesù Cristo,
che aveva mandato il proprio figlio per salvare gli uomini; solo il secondo era
il vero dio da adorare e che portava la salvezza.
Per sostenere le proprie
dottrine, Marcione raccolse il primo canone cristiano di cui si ha notizia, che
comprendeva dieci lettere di
Paolo e un vangelo, probabilmente
il Vangelo secondo Luca epurato
di alcune parti, detto Vangelo di
Marcione; allo stesso tempo
rigettava completamente la Bibbia ebraica, considerandola ispirata da un dio
inferiore.
Ci fu anche la nascita dei
primi movimenti carismatici, come il montanismo.
Tutto ciò portò presto alla prima
produzione eresiologica cristiana: l’opera Contro le eresie di S.
Ireneo di Lione è degli ultimi anni di questo secolo.
d) La formazione del canone – Per la formazione del canone
neotestamentario, i primissimi cristiani consideravano i dodici il canone,
cioè il metro di riferimento, il modello per mezzo del quale si poteva
stabilire, finché essi vissero, l'autenticità del messaggio cristiano. Questa
constatazione sembra avvalorare l’ipotesi di una definizione del canone molto
vicina all’epoca apostolica: in caso contrario, più tempo sarebbe passato, e
maggiori difficoltà ci sarebbero state ad arginare gli scritti eretici, specialmente
quelli gnostici.
Il kerygma fu il principale criterio selettivo, ma non fu l’unico. Ad esso si affiancò anche l’armonia che gli Scritti dovevano
manifestare nei confronti di una lettura cristologica dell’Antico Testamento:
la Chiesa primitiva avviò quel processo esegetico e interpretativo che vide
nelle Scritture Ebraiche l’annuncio del vangelo; quindi non si potevano accogliere
nelle comunità cristiane delle lettere o degli scritti in conflitto con una
simile lettura. Nessun libro che, ad esempio, distinguesse il Dio degli Ebrei
dal Dio dei cristiani avrebbe potuto essere incluso nel canone.
In sintesi i criteri usati
dalla chiesa per stabilire la canonicità delle scritture, furono:
1. L’origine apostolica: furono considerati canonici gli
scritti degli apostoli, dei loro collaboratori più vicini, oppure approvati
dagli stessi.
2. La conformità e fedeltà alla predicazione di Gesù e
degli apostoli.
3. La cattolicità (nel senso di universalità), quando gli
scritti erano accettati da tutte, o quasi, le chiese.
Bisogna tuttavia tener presente
che il Nuovo Testamento non è
perfetto o esente da errori. È affidabile, ma sicuramente non perfetto.
Il Nuovo Testamento si è formato
durante tempi molto turbolenti e vi sono prove evidenti e inconfutabili di
manipolazioni di scribi durante la sua formazione. Ci sono state
sicuramente modifiche ai testi,
cambiamenti che di tanto in tanto hanno avuto un impatto con la dottrina.
La maggior parte di queste
differenze sono minime e non influiscono sulle verità che si trovano negli
scritti, tuttavia, altre invece sono notevoli e qualche volta influiscono o
possono influenzare la verità.
I manoscritti disponibili del
Nuovo Testamento sono realizzati da copie fatte a mano di copie di copie di
copie di copie: in altri termini, i manoscritti utilizzabili sono molto
lontani dagli originali, scritti da chi effettivamente li ha
compilati. Tenuto conto di tutte le possibilità di errore durante la
copia e il fatto che queste copie sono state spesso fatte da scribi prevenuti,
è certo che quello che abbiamo oggi non è una trasmissione perfetta di ciò che
si trova negli originali. Ci sono migliaia di varianti testuali presenti in un
documento che è considerato da molti come la parola perfetta di Dio.
Molti apologeti cristiani utilizzano
l'esistenza di migliaia di manoscritti come prova
di autenticità del Nuovo Testamento, ma nascondono che quei manoscritti
differiscono in alcuni passaggi importanti e praticamente nessuno dei
manoscritti è completamente d'accordo con un altro. Quindi la loro difesa della infallibilità del Nuovo
Testamento crolla. Osservando una buona versione della Bibbia che
presenta riferimenti in colonna centrale o in qualche altra forma di
riferimenti, si nota che ci sono numerose traduzioni
alternative o anche dubbi circa l'autenticità di alcuni passaggi.
La stessa identità degli autori
dei libri del Nuovo Testamento è solo ipotetica.
Molti dei padri della chiesa hanno respinto interi libri del Nuovo Testamento. Gli
studi sulla canonizzazione del Nuovo Testamento confermano che vi sia stato
effettivamente un disaccordo diffuso su cosa includere nel Nuovo Testamento che
fu in gran parte completato da Atanasio, vescovo di Alessandria e capo della
fazione trinitaria, famoso per essere tra i sostenitori più forti del suo tempo
della divinità di Gesù.
Atanasio fu un rovente oppositore
dell'Arianesimo, una dottrina cristologica elaborata dal monaco e teologo
cristiano Ario (256- 336), condannata al primo concilio di Nicea nel 325.
Sosteneva che la natura divina di Gesù fosse sostanzialmente inferiore a
quella di Dio e che, pertanto, vi fu un tempo in cui il Verbo di Dio non
esisteva e dunque che fosse stato creato in seguito. In tal senso contraddiceva
l'idea della Trinità maturata attorno agli scritti di Giustino
di Nablus (100 – 162/168).
Atanasio fu l’uomo forte tra i Trinitari del suo tempo, così egli fece una forte
pressione verso l'adozione di eventuali passaggi discutibili o scritti che
hanno sostenuto la sua opinione contro tutto ciò che era nei primi secoli
l'opposizione dominante alla trinità.
Fino al momento del concilio di Nicea, la posizione
Trinitaria non era stata necessariamente l'opinione di maggioranza. Così, ciò
che il vescovo Atanasio definì come "Scrittura" nell'anno 367 divenne
il Nuovo Testamento della
Bibbia. Lui, sopra tutti gli altri, è la fonte ultima del nostro
"Nuovo Testamento" canonico, e fu il principale fautore del
suo tempo per l'adozione, in realtà forzata, della teologia trinitaria.
Mentre
riflettevo e rievocavo nel mio animo il ricordo di Ottavio, caro e fedelissimo
amico, mi restò addosso tanta dolcezza e affetto per lui che mi parve di
ritornare al passato, più che semplicemente rievocare con la memoria cose ormai
compiute e passate: a tal punto la sua immagine, quanto più era sottratta alla
vista, era avviluppata al mio cuore e ai miei sensi più profondi. Giustamente
quell’uomo illustre e pio andandosene ci ha lasciato immensa nostalgia di lui,
perché aveva verso di me tale affetto che nelle cose sia gravi sia leggere si
trovava sempre in accordo con me, voleva e non voleva le stesse cose: si
sarebbe potuto credere che eravamo un’anima sola divisa in due. Era il solo a
conoscenza delle mie passioni, e il solo compagno anche dei miei errori, e
quando, dissipata la caligine, emersi dall’abisso delle tenebre alla luce della
sapienza e della verità, non respinse il compagno, ma, cosa più onorevole
ancora, lo anticipò. Mentre dunque ripassavo col pensiero tutto il tempo della
nostra comunanza e familiarità, fermai particolarmente la mia attenzione su
quella conversazione in cui egli convertì alla vera religione con serissimi
argomenti Cecilio, che era ancora attaccato alle vanità della superstizione.
Era venuto
a Roma per affari e per vedermi, lasciando la casa, la moglie, i figli che –
cosa che li rende più amabili – erano negli anni dell’innocenza e ancora
balbettavano parole a metà, con un accento reso più dolce dall’impaccio della
lingua. Non posso esprimere a parole quanta esultanza ho provato al suo arrivo,
perché la mia letizia era aumentata dalla sorpresa della presenza del mio
amico. Dopo uno o due giorni in cui l’assiduità della nostra compagnia aveva
saziato l’avidità del nostro desiderio, e ci eravamo reciprocamente raccontati quello
che a motivo della lontananza ignoravamo l’uno dell’altro, decidemmo di andare
a Ostia, bellissima città, perché la cura delle acque era a me gradita e
appropriata per asciugare gli umori del mio corpo, e anche perché le ferie per
la vendemmia avevano allentato le attività del Foro. Infatti la stagione estiva
stava declinando verso il clima temperato dell’autunno. Una mattina mentre
camminavamo verso il mare perché la brezza ristorasse dolcemente le nostre
membra e la sabbia cedesse mollemente, con nostro grandissimo piacere, sotto i
nostri passi, Cecilio vide una statua di Serapide e, come usa fare il volgo
superstizioso, la toccò e la baciò.
Ottavio
allora disse: “Non è da uomo onesto, fratello Marco, lasciare un uomo che a
casa e fuori ti sta sempre accanto in una tale cieca ignoranza da permettere
che in pieno giorno vada a sbattere in pietre, per quanto effigiate, profumate
e coronate: sai bene che la vergogna del suo errore ricade su di te non meno
che su di lui”. Durante queste sue parole avevamo già attraversato il centro
della città e ci trovavamo sulla spiaggia aperta. Là le onde lievi si
infrangevano all’estremità della sabbia come spianandola per il passeggio, e
poiché il mare è sempre in movimento anche quando non c’è vento, sebbene non
invadesse la terra con le onde bianche e spumeggianti, ci divertimmo moltissimo
a guardare le increspature e le sinuosità, mettendo i piedi proprio sul limite,
mentre le acque volta a volta fluivano verso di noi e si ritiravano assorbendo
nel loro seno le nostre impronte.
Così
camminando lentamente e tranquillamente costeggiavamo le dolci curve della
riva, ingannando il cammino con la conversazione, che riguardava soprattutto il
racconto che Ottavio faceva del suo viaggio per mare. Ma dopo aver percorso un
tratto di strada discorrendo, tornammo indietro sui nostri passi per la
medesima via, e quando arrivammo al punto dove stavano a riposo delle barche
tirate a secco e posate su tronchi d’albero al riparo dall’umidità del terreno,
vedemmo dei ragazzi che con grandi grida giocavano a gettare in mare dei
ciottoli.
Questo
gioco consiste nel raccogliere sulla spiaggia un sasso tondo e levigato dalle
acque; poi, tenendolo tra le dita dalla parte del palmo, ci si piega il più
possibile verso terra e lo si fa rotolare in mare in modo che il proiettile
rasenti il pelo delle acque o galleggi scivolando con un movimento leggero, o
balzi riemergendo sulla cresta dell’onde con continui rimbalzi. Vincitore della
gara fra i ragazzi era quello che mandava il suo ciottolo più lontano e con il
maggior numero di rimbalzi.
Mentre noi
ci divertivamo a quello spettacolo, Cecilio non ci badava e la gara non gli
dava piacere, ma taceva stando da parte angosciato: il suo volto dimostrava che
stava soffrendo. Io gli dissi allora: “Che succede? Come mai, Cecilio, non
ritrovo la tua vivacità e l’allegria che hai negli occhi anche nei momenti
difficili?”. Egli rispose: “Mi tocca e mi rimorde il discorso fatto poco fa dal
nostro Ottavio, che ti ha rimproverato di negligenza per accusare senza parere
me di una cosa più grave, l’ignoranza. Mi spingerò ancora più in là: devo
trattare di nuovo interamente la questione con Ottavio. Se è d’accordo,
discuterò con lui come adepto di quella setta, in modo che capirà subito che è
più facile discorrere tra amici che confrontare le teorie. Sediamoci dunque su
questi argini di pietra che si protendono in mare a protezione dei bagnanti, in
modo da riposarci dalla passeggiata e discutere con più attenzione”. Ci sedemmo
come lui aveva proposto: io stavo in mezzo avendo ciascuno di loro al mio
fianco non in segno di omaggio, di onore o di distinzione sociale, perché
l’amicizia rende sempre gli uomini uguali se già non li trova uguali, ma perché
in qualità di arbitro potessi ascoltare i due contendenti tenendoli separati.
5.
Il Cristianesimo del terzo secolo – Il III
secolo fu un periodo tra i più movimentati della storia
cristiana: esso vide infatti l’accrescersi della nuova fede e la sua capillare
diffusione in tutto l’impero, ma anche il propagarsi di eresie e, soprattutto,
vide persecuzioni da parte dello Stato e, con esse, l’insorgere di nuovi gravi
problemi disciplinari.
a) La
persecuzione di Decio – Decio che aveva conquistato
nel 248 il trono imperiale, seguì una politica di restaurazione religiosa,
inaugurata con il sacrificio annuale sul Campidoglio nel
Gennaio del 250, con
l’ordine che il sacrificio fosse ripetuto nei Campidogli di tutte le città
dell’impero.
Quello
che fino ad allora era stato un atto
formale divenne così una sorta di censimento religioso, con la persecuzione di quanti non si
fossero presentati per fare sacrifici e tra questi c’erano, ovviamente, i
cristiani.
Furono
immediatamente arrestati e uccisi i
vescovi delle più importanti città imperiali: Fabiano a Roma, Babila ad
Antiochia, Alessandro a
Gerusalemme e molti altri con loro.
La
persecuzione del 250 fu un duro
colpo per la Chiesa, anche a causa delle defezioni di molti cristiani.
b) I ‘lapsi’ e il Concilio di
Cartagine – Gli apostati, coloro che
avevano preferito rinnegare la
propria fede per aver salva la vita, furono generalmente definiti lapsi o caduti.
Quello
dei lapsi divenne presto un serio problema nella Chiesa
antica, soprattutto dopo la persecuzione di Decio: molti di loro chiedevano,
infatti, a persecuzione finita, di essere
riammessi nella Chiesa. Questo procurò molte preoccupazioni
pastorali.
Si
imposero così trattamenti diversi: ad esempio, lo scismatico Novato aveva
un atteggiamento di grande tolleranza
nei loro confronti, a differenza di Novaziano che
era invece particolarmente rigido.
Al Concilio di Cartagine,
nel 251, si decise, con un certo equilibrio, che i lapsi fossero
riammessi alla piena comunione con la Chiesa soltanto in punto di morte.
c) La
persecuzione di Valeriano – Una nuova persecuzione
scoppiò nel 257 ad opera dell’imperatore
Valeriano. Questi si limitò, in un primo momento, a confiscare i beni ecclesiastici e
a destituire i
cristiani che ricoprissero cariche pubbliche o comunque importanti.
In
seguito cercò soprattutto di colpire
le gerarchie della Chiesa. Trovarono così la morte in
questa persecuzione, tra gli altri, S. Cipriano e il vescovo di Roma Stefano.
Inno
a Roma da Il Ritorno di Rutilio Namaziano
Ascolta, o regina, tu la più bella
del mondo su cui signoreggi, o Roma,
o madre di dei, per i tuoi templi
noi non siamo lontani dal cielo:
te noi cantiamo e canteremo sempre,
sino a che lo concederanno i fati.
Nessun uomo, sino a quando ha vita,
può dimenticarsi di te.
Un colpevole oblio annienti il sole
prima che svanisca dal mio cuore
la venerazione che ho per te.
Tu estendi infatti i tuoi benefici,
simili a raggi di sole,
per le terre che sono circondate
dal fluttuante Oceano.
Lo stesso Febo, che il mondo intero
riveste e rischiara di sua luce,
compie il suo corso in tuo onore:
dalle tue terre esso risorge,
nelle tue terre tramonta.
La Libia dalle infuocate arene
non ostacolò il tuo cammino,
né ti respinge l’Orsa,
sebbene armata dal suo intenso gelo:
quanto le plaghe abitate si estendono
verso i gelidi poli, tanta terra
è al tuo valore aperta.
Tu hai fatto per genti diverse
un’unica patria: fu gran fortuna
per genti barbare di essere annesse
al tuo dominio. Mentre tu offri ai vinti
di essere partecipi del tuo diritto,
hai fatto città
quello che prima era il mondo.
Gli
Unni dalle Storie di Ammiano Marcellino
Il popolo degli Unni, poco noto agli antichi storici, abita
al di là delle paludi Meotiche [zona della Sarmazia corrispondente alla regione
dell’attuale Mare di Azov], lungo l’oceano glaciale, e supera ogni limite di
barbarie. Siccome hanno
l’abitudine di solcare profondamente con un coltello le gote ai bambini appena
nati, affinché il vigore della barba, quando spunta al momento debito, si
indebolisca a causa delle rughe delle cicatrici, invecchiano imberbi,
senz’alcuna bellezza e simili ad eunuchi.
Hanno membra robuste e salde, grosso collo e sono stranamente
brutti e curvi, tanto che si potrebbero ritenere animali bipedi o simili a quei
tronchi grossolanamente scolpiti che si trovano sui parapetti dei ponti. Per
quanto abbiano la figura umana, sebbene deforme, sono così rozzi nel tenore di
vita da non aver bisogno né di fuoco, né di cibi conditi, ma si nutrono di
radici di erbe selvatiche e di carne semicruda di qualsiasi animale, che
riscaldano per un po’ di tempo tra le loro cosce ed il dorso dei cavalli.
Non sono mai protetti da alcun edificio, ma li evitano come tombe separate dalla vita d’ogni
giorno. Neppure un tugurio con il tetto di paglia
si può trovare presso di loro, ma vagano attraverso montagne e selve, abituati
sin dalla nascita a sopportare geli, fame e sete. Quando sono lontani dalle
loro sedi, non entrano nelle case a meno che non siano costretti da estrema
necessita, né ritengono di essere al sicuro trovandosi sotto un tetto. Adoperano vesti di lino oppure fatte
di pelli di topi selvatici, né dispongono di una veste per casa e di un’altra
per fuori. Ma una volta che
abbiano fermato al collo una tunica di colore sbiadito, non la depongono né la
mutano finché, logorata dal lungo uso, non sia ridotta a brandelli. Usano berretti ricurvi e coprono le
gambe irsute con pelli caprine e le loro scarpe, poiché non sono state
precedentemente modellate, impediscono di camminare liberamente. Per questa ragione sono poco adatti a
combattere a piedi, ma inchiodati, per così dire, su cavalli forti, anche se
deformi, e sedendo su di loro alle volte come le donne, attendono alle consuete
occupazioni.
Stando a cavallo notte e giorno ognuno in mezzo a questa
gente acquista e vende, mangia e beve e, appoggiato sul corto collo del cavallo,
si addormenta così profondamente da vedere ogni varietà di sogni. E nelle assemblee in cui deliberano su
argomenti importanti tutti in questo medesimo atteggiamento discutono degli
interessi comuni.
Non sono retti secondo un severo principio monarchico, ma,
contenti della guida di un capo qualsiasi, travolgono tutto ciò che si oppone a
loro. Combattono alle volte se
sono provocati ed ingaggiano battaglia in schiere a forma di cuneo con urla
confuse e feroci. E come sono
armati alla leggera ed assaltano all’improvviso per essere veloci, così,
disperdendosi a bella posta in modo repentino, attaccano e corrono qua e là in
disordine e provocano gravi stragi. Senza
che nessuno li veda, grazie all’eccessiva rapidità, attaccano il vallo e
saccheggiano l’accampamento nemico.
Potrebbero poi essere considerati senz’alcuna difficoltà i
più terribili fra tutti i guerrieri poiché combattono a distanza con
giavellotti forniti, invece che d’una punta di ferro, di ossa aguzze che sono
attaccate con arte meravigliosa, e, dopo aver percorso rapidamente la distanza
che li separa dagli avversari, lottano a corpo a corpo con la spada senz’alcun
riguardo per la propria vita. Mentre
i nemici fanno attenzione ai colpi di spada, quelli scagliano su di loro lacci
in modo che legate le membra degli avversari, tolgono loro la possibilità di
cavalcare o di camminare. Nessuno
fra loro ara né tocca mai la stiva di un aratro. Infatti tutti vagano senza aver sedi
fisse, senza una casa o una legge o uno stabile tenore di vita.
Assomigliano a gente in continua fuga sui carri che fungono
loro da abitazione. Quivi le
mogli tessono loro le orribili vesti, qui si accoppiano ai mariti, qui
partoriscono ed allevano i figli sino alla pubertà. Se s’interrogano sulla loro origine,
nessuno può dare una risposta, dato che è nato in luogo ben lontano da quello
in cui è stato concepito ed in una località diversa è stato allevato. Sono infidi ed incostanti nelle
tregue, mobilissimi ad ogni soffio di una nuova speranza e sacrificano ogni sentimento
ad un violentissimo furore.
Ignorano profondamente, come animali privi di ragione, il
bene ed il male, sono ambigui ed oscuri quando parlano, né mai sono legati dal
rispetto per una religione o superstizione, ma ardono di un’immensa avidità di
oro. A tal punto sono mutevoli di
temperamento e facili all’ira, che spesso in un sol giorno, senza alcuna
provocazione, più volte tradiscono gli amici e nello stesso modo, senza bisogno
che alcuno li plachi, si rappacificano.
6.
Il basso impero – Dopo 42 anni di regno della dinastia
dei Severi, con l’assassinio nel 235 di Alessandro Severo da parte della
soldatesca ammutinata, la situazione politica del Basso Impero precipitò. I
militari elessero imperatore il centurione Massimino (primo
imperatore di umili origini). Dopo di lui, ucciso da una cospirazione del
senato, per trentacinque anni tra il 238 e il 284, in uno stato di anarchia militare,
il potere passò
tra le mani di 21 imperatori di cui 19 perirono assassinati.
Lo Stato era vicino al
tracollo: gruppi di Germani, tra cui i Goti varcavano i confini, a
Oriente premeva la dinastia dei Sassanidi, discendenti dei
Persiani.
Durante il regno di Gallieno (253-268), alcune regioni,
organizzatesi autonomamente pur rimanendo fedeli all’Impero, riuscirono a
contenere l’avanzata nemica. Le frontiere furono ristabilite al Reno e al
Danubio.
L’anarchia militare di
questo periodo fu arrestata dai cosiddetti imperatori illirici,
tutti nativi della Dalmazia, i quali furono tutti valenti soldati, fautori
della più rigida disciplina e fedeli all’ideale di Roma. I principali fra essi
furono Claudio II, soprannominato il Gotico (268-270) per le sue
vittorie sui Goti e gli Alamanni. Aureliano (270-275) che
continuando l’operato del suo predecessore cinse Roma di una poderosa cerchia
di Mura, le Mura Aureliane. Probo (276-282) e Caro (282-283)
che continuarono a difendere l’Impero contro le sempre più frequenti irruzioni
dei barbari.
Ma
l’Impero romano era travagliato da una crisi difficilmente sanabile.
La
pressione dei barbari alle frontiere, insieme con l’anarchia militare che
dilagava all’interno, sarebbe stata una delle cause della decadenza e, in
seguito, dello smembramento dell’Impero.
Alla
preoccupante situazione politica si era aggiunta anche una gravissima crisi socio-economica:
·
La borghesia, sulla quale l’Impero
aveva trovato appoggio nei suoi giorni migliori, si era ormai paurosamente
impoverita a causa delle continue rapine e violenze delle soldatesche
scatenate;
·
le campagne erano state abbandonate
dai coltivatori.
·
la sproporzione fra le masse sempre
più povere e la minoranza sempre più aggressiva dei privilegiati.
Questa
situazione provocò anche una crisi
demografica proprio nel momento in cui la pressione barbarica sui confini
germanici, danubiani e orientali richiedeva maggiori forze per essere
contenuta. Imperversava una grave crisi
monetaria che, in breve tempo, portò ad una altissima inflazione; i prezzi
salirono così alle stelle, aggravando la miseria dei ceti popolari.
a) Diocleziano -
Diocleziano dovette affrontare la disastrosa situazione quando nel 284 assunse
il potere imperiale. Divise il potere con il commilitone Massimiano a cui affidò il compito di governare l’Occidente. Sedi
degli Augusti erano Nicomedia e Milano, capitale d’Occidente fino al
404.
Domata
una ribellione in Egitto, Diocleziano si dedicò alla riorganizzazione
dell’Impero. Ripartì il territorio in 12
diocesi che comprendevano più province. Tentò di consolidare le finanze
stabilendo un tetto a salari e prezzi ed imponendo un regime di doppia
tassazione, sulla proprietà fondiaria e sulla persona.
Nel
293 creò la tetrarchia un sistema di governo nel quale
l’autorità sovrana si era divisa in quattro parti, tanto che, nei decreti
ufficiali, comparve per la prima volta il plurale maiestatis.
Divise
l’Impero in due parti, una orientale e una occidentale, ciascuna delle quali
avrebbe dovuto essere governata da un imperatore, un Augusto, assistito da un
Cesare, che sarebbe diventato, automaticamente, il suo successore. I due
Augusti scelsero rispettivamente come capitali Milano e Nicomedia, mentre Roma
conservò solo una preminenza morale in base alla quale il potere fu ripartito
tra due Augusti, lui e Massimiano.
In
questo modo veniva inaugurata l’epoca del dominato (da dominus,
signore).
L’Impero
conobbe di nuovo una certa prosperità, ma la libertà individuale subì molte
restrizioni:
·
fu
vietato abbandonare il proprio mestiere,
·
i
coloni furono vincolati alla terra,
·
la
qualifica di cittadino scomparve sostituita da quella di suddito.
Nel
303, di fronte all’opposizione suscitata dal rilancio del carattere divino del
l’imperatore, emanò una serie di editti di persecuzione contro i cristiani.
Nel
305, malato, depose il potere con Massimiano a favore dei Cesari.
Con
l’istituzione della tetrarchia, le spinte eccentriche furono in
qualche modo frenate. Nonostante il carattere autoritario, la tetrarchia non
si rivelò una formula di governo stabile, poiché subito dopo i primi tetrarchi
essa fu corrosa dalle inevitabili contese dei loro successori. Inoltre si
verificò in questi anni una progressiva marginalizzazione delle aree più
antiche dell'impero a vantaggio di un oriente assai più prospero quanto a
politica, amministrazione e cultura.
b) Costantino
- Dopo l’abdicazione di Diocleziano e
Massimiano sembrò funzionare il meccanismo della tetrarchia: i due Cesari
divennero Augusti e nominarono altri due Cesari.
Alla
morte di Costanzo Cloro si scatenò la lotta alla successione. Tra tutti i
pretendenti prevalsero:
·
in Occidente il figlio di Costanzo
Cloro, Costantino (che sconfisse il rivale Massenzio nella battaglia di
Ponte Milvio nel corso della quale Costantino avrebbe avuto la visione
della croce e del crisma cristiano e avrebbe udito queste parole: «In questo
segno vincerai» a Roma nel 312)
·
in Oriente Licinio (nominato da
Diocleziano, intervenuto per calmare i contrasti).
Nel
313 i due imperatori, incontratisi a Milano, emanarono un Editto, con il quale
concedevano libertà di culto ai cristiani e promulgavano leggi in loro favore
sebbene un editto di tolleranza fosse già stato emesso, in favore dei
Cristiani, da Galerio, nel 311.
Nel
324, quando Licinio cominciò a perseguitare di nuovo i cristiani, Costantino
gli mosse guerra e, sconfittolo, divenne unico imperatore sia per l’Occidente
sia per l’Oriente, con suo figlio Costanzo come Cesare, ristabilendo così oltre
che la riunificazione di tutti i domini romani anche l’ereditarietà del potere
imperiale.
Il
regno di Costantino fu contraddistinto da due fatti d’importanza capitale per
l’evoluzione dell’Impero: il riconoscimento ufficiale del Cristianesimo e la
fondazione di Costantinopoli.
Rese
quindi più efficiente l’esercito e ampliò l’apparato burocratico, inoltre la
figura dell’imperatore fu definitivamente assimilata a quella del sovrano
assoluto di stampo orientale, circondato da un’aura sacrale.
Sotto
il regno di Costantino la religione cristiana assunse se non ancora
ufficialmente, la posizione di religione privilegiata, per quanto Costantino
non avesse ripudiato nettamente il culto solare di Mitra e solo in punto di
morte si fosse convertito al Cristianesimo. Nei confronti del Cristianesimo
egli adottò una politica sempre più favorevole, arrivando a esortare i sudditi
orientali ad abbracciare questa religione e affidando ai cristiani incarichi
nell’esercito e nella pubblica amministrazione. Politicamente, Costantino seguì
molto da vicino le vicende della Chiesa, allora in fase di organizzazione,
nella quale le dispute teologiche si succedevano numerose e accese.
Nel
325, quando una di esse, sorta a proposito di un dogma sostenuto da Ario,
sembrò minacciare l’ordine interno, l’Imperatore convocò un concilio a Nicea[11],
un concilio di prelati che condannò formalmente l’eresia ariana.
Nel
332, dopo aver sconfitto i Goti, Costantino morì nel 337, mentre si preparava
ad affrontare i Persiani.
c) Da Giuliano
a Teodosio - Alla morte di Costantino gli succedettero i tre figli
Costante, Costanzo e Costantino II. Costanzo, prevalso sui fratelli, scelse
come successore Giuliano, il generale che aveva sconfitto gli Alamanni nel 357.
Questi, circondatosi di intellettuali e filosofi
pagani cercò di escludere i cristiani dalle cariche dirigenziali e tentò di
restaurare il Paganesimo (i cristiani lo soprannominarono l’Apostata,
cioè il Rinnegatore, poiché aveva abbandonato la religione
cristiana). Per acquistare prestigio presso il popolo progettò di eliminare totalmente
l’Impero persiano, ma morì in battaglia. Verso la fine del IV secolo i Goti,
spinti dagli Unni, arrivarono al confine danubiano e chiesero di essere ammessi
nell’Impero.
Valente, imperatore d’Oriente, accettò, sperando di
utilizzarli nell’esercito, ma i continui saccheggi nelle regioni imperiali
portarono alla guerra. Nel 378 a Adrianopoli, in Tracia, l’esercito romano fu
duramente sconfitto. I Goti dilagarono allora in Tracia, saccheggiando e
distruggendo. Graziano, già imperatore d’Occidente, rimase sul trono, mentre in
Oriente fu eletto imperatore un generale spagnolo, Teodosio nel 379.
Invece
di continuare a combattere, Teodosio contrattò la pace, i Goti
divennero alleati dell’Impero, sposarono donne romane ed ebbero incarichi
dirigenziali. Graziano e Teodosio, nel 380, promulgarono l’Editto di
Tessalonica, con il quale il Cristianesimo diventava l’unica religione
dell’Impero e veniva cancellata ogni usanza pagana (sacrifici, giochi olimpici,
templi).
d) Il crollo
dell’Impero d’Occidente – Morto Teodosio, unico imperatore
dalla morte di Graziano, gli succedettero i figli Arcadio a Oriente e Onorio
ad Occidente che, ancora giovani, furono affidati al generale di origine
vandala Stilicone.
I
Goti, controllati tramite concessioni di terre e denaro, divennero sempre più
esigenti e decisero di penetrare in Italia guidati da Alarìco. Stilicone,
nonostante li avesse sconfitti, patteggiò la pace. Altri barbari premevano in
Gallia e Spagna: Svevi, Alamanni e Vandali. La classe dirigente, trasferita la
capitale a Ravenna e fatto uccidere Stilicone, cercò di affrontare gli
invasori.
Alarìco,
nel 410, saccheggiò Roma; il suo successore, Ataulfo, fondò nelle
Gallie il primo Regno barbarico e sposò la sorella di Onorio. Nel frattempo, i Vandali di Genserico conquistarono Cartagine, impadronendosi della provincia
d’Africa nel 429.
Nel
430, l’Impero d’Occidente era costituito solo dall’Italia, da parti della
Gallia e da poche terre nei Balcani.
All’inizio
del V secolo fecero irruzione in Europa, saccheggiando molte città orientali,
gli Unni, popolazione asiatica guidata dal feroce Attila. Il
generale romano Ezio, alleatosi con i Visigoti, li affrontò e sconfisse
ai Campi Catalaunici, nella Francia del nord nel 451. Quando Attila
tornò in Italia, l’anno seguente, devastando il Veneto, gli fu mandato incontro
il papa Leone I, per contrattare la pace. Colpiti dalla peste, gli
Unni si ritirarono e Attila morì nel 453 in Pannonia.
Cessato
il pericolo degli Unni, l’Impero era ormai stremato. Capo effettivo, nonostante
l’imperatore fosse Valentiniano III,
discendente di Teodosio, era il generale Ezio.
Morto
Valentiniano III nel 455 i Vandali devastarono Roma, spogliandola di tutte le sue
ricchezze. Dopo un periodo in cui regnarono vari imperatori controllati dal
barbaro Ricimero, il patrizio Oreste fece proclamare imperatore il figlio
Romolo Augustolo.
Dopo
pochi mesi, costui fu deposto da Odoacre,
capo dell’esercito barbaro al servizio dell’Impero, che accettò da Zenone,
imperatore d’Oriente, di governare l’Italia. Di fatto era la fine dell’Impero
d’Occidente nel 476.
d) La cultura e l’arte – Nei primi secoli il Cristianesimo si espanse
rapidamente, sebbene la vita delle comunità cristiane si svolgesse in gran
parte nella clandestinità per sfuggire alle persecuzioni.
Nell'imporsi come nuova religione, il Cristianesimo influenzò profondamente anche la cultura, introducendo concetti originali
e nuovi impulsi per giungere a una definizione, anche razionale, delle
principali verità di fede. I primi scrittori cristiani che si cimentano in
quest'opera sono chiamati Padri della Chiesa. A loro, con il passare del tempo, fu riconosciuta un'autorità
dottrinale e normativa a un livello appena inferiore a quello della stessa
Bibbia.
Nella predicazione di Cristo
emergono soprattutto l'annuncio della venuta del Regno di Dio, l'amore di Dio
verso tutti gli uomini, compresi i peccatori e un forte richiamo etico-spirituale
a uno stile di vita improntato all'amore, all'umiltà, alla fratellanza
universale.
La religione cristiana esercitò
un impatto notevole sulla cultura e sulla filosofia tardo ellenistica,
introducendo (o perlomeno rimodellando completamente) nuovi concetti, in parte
mutuati dalla tradizione giudaica, come:
1. l'affermazione del monoteismo,
del tutto sconosciuto al mondo greco;
2. la creazione del mondo dal nulla, tesi ritenuta
impossibile dalla filosofia classica;
3. la centralità dell'uomo, depositario di un
principio divino la sua somiglianza con Dio e non semplicemente razionale,
che lo rende superiore a tutti gli esseri.
Dei quattro Vangeli, sicuramente quello di Giovanni è
il più ricco di spunti filosofici: egli parla di Cristo in termini di Logos, concetto centrale nella
speculazione greco - ellenistica, ma al contrario di questa gli conferisce un
aspetto umano e storico e non un carattere atemporale e simbolico. Giovanni
sottolinea l'identità fra la persona storica di Gesù, che è Logos capace di provocare risposte e
miracoli, e il Logos che è la parola
stessa di Dio, creatrice e auto rivelatrice.
Nella successiva speculazione dei Padri della Chiesa
fu proprio il concetto di Logos che permise di compenetrare più profondamente
la filosofia greca con il messaggio cristiano.
L'elaborazione teorica della dottrina cristiana fu
molto complessa per una duplice serie di problemi:
1.
la determinazione
esatta del canone dei testi sacri: inizialmente il contenuto della predicazione
di Cristo fu affidato alle dirette testimonianze degli apostoli; quando questa
predicazione fu raccolta in testi scritti, si presentò il problema di vagliarli
e di stabilire i testi ispirati, espungendo gli scritti apocrifi, cioè quei
testi a cui non è attribuita autorità di rivelazione divina;
2.
l'edificazione di
una visione unitaria e coerente della fede cristiana per definire e
approfondire i contenuti della verità di fede, così da poterli comunicare al
mondo greco-romano, la cui cultura era profondamente diversa da quella ebraica,
e difenderli dagli attacchi di studiosi e filosofi pagani e dalle eresie.
Un gruppo di scrittori cristiani dei primi secoli, in
seguito denominati i Padri della Chiesa, concentrò i propri sforzi in
quest'opera di chiarificazione e definizione del contenuto dottrinale del
Cristianesimo, in particolare sulla natura umana e divina di Gesù Cristo. Già a
partire dalla fine del II secolo i cristiani sentirono il bisogno di
distinguere dalla propria generazione i maestri autorevoli di un'età
precedente, reputata qualitativamente superiore. Ai Padri fu riconosciuta
un'autorità dottrinale e normativa a un livello appena inferiore a quello della
stessa Bibbia. Nel corso dei secoli la citazione dei Padri si consolida come
prova teologica assai probante.
Tradizionalmente la storia dei Padri della Chiesa
viene distinta in tre fasi principali: quella dei padri apostolici, quella dei
padri apologisti – delle quali si è già trattato – e quella patristica.
La patristica (secc. III-VIII) sistemò e razionalizzò
le verità di fede, utilizzando soprattutto l'apparato concettuale del
platonismo. Trovò il suo primo centro propulsore nella scuola di Alessandria,
luogo di incontro di culture differenti, in cui spiccano le personalità di Clemente (secoli II e III) e di Origene (185-253).
Clemente sosteneva la superiorità della sapienza
cristiana rispetto a ogni altra forma di sapienza e considera il Cristianesimo
come il naturale coronamento e sbocco della filosofia greca.
Origene riprese l'interpretazione di tipo allegorico delle
Scritture, inaugurata dall'ebreo Filone
di Alessandria, e condusse un'esegesi biblica analitica, negando validità
al senso puramente letterale. A livello Origene teologico tese a interpretare
la Trinità come una gerarchia discendente, di chiara impronta neoplatonica, in
cui il Padre è superiore al Figlio e questi allo Spirito Santo.
Successivamente, nei secoli IV e V, i Padri della
Chiesa e i primi concili ecumenici furono sempre più impegnati nella
definizione delle verità di fede ortodosse in riferimento alla diffusione di
eresie che negavano la duplice natura, umana e divina, di Cristo, sostenendo o
il prevalere della natura umana sulla divina l’arianesimo o l'assorbimento dell'umana in quella divina il monofisimo o la divisione completa delle
due nature il nestorianesimo.
In quest'opera di definizione della fede cristiana si
distinguono i padri della Cappadocia, Gregorio
di Nissa (335-394) e Gregorio di
Nazianzo (330-390).
Gregorio di Nissa mutuò da Platone le categorie concettuali con cui
indagare gli argomenti di fede. Riconosceva allo Spirito Santo la natura divina
e la stessa sostanza del Padre, da cui procede per la mediazione del Figlio,
nel quale sono nettamente distinte la natura umana e quella divina, pur
ribadendo pienamente l'unità di persona.
Gregorio di Nazianzo, per dimostrare l'unità di sostanza delle tre persone
della Trinità, avvia lo studio delle loro relazioni: i termini Padre e Figlio indicano un rapporto preciso, anche se per l'uomo
inconoscibile, tra due ipostasi della stessa sostanza.
Nel quadro decadente dell’epoca
campeggia solitaria, nel IV secolo, la figura di Ammiano Marcellino, l’ultimo grande storico di Roma, al quale si
affiancano, fino alla tarda latinità, uno stuolo di prosatori che si occupano
di storiografia, studi di grammatica, filologia, giurisprudenza. Molti sono
declamatori e conferenzieri (conferiscono dignità di genere letterario al
panegirico, in precedenza semplice esercitazione retorica), dotati di buona
cultura, anche di profonda erudizione, ma di scarsa originalità, così come nel
complesso risultano i poeti, che, tra gli eccessi del loro virtuosismo
stilistico e metrico, manifestano un respiro poetico piuttosto arido.
Ammiano Marcellino nacque ad Antiochia in Siria
intorno al 330 da una benestante famiglia pagana di lingua e di cultura greca.
Intraprese la carriera militare sotto l'imperatore Costanzo e
partecipò come ufficiale agli
ordini del magister equitum Ursicino,
alle campagne in Germania, nelle Gallie e in Oriente. Nel 359 si salvò a fatica
quando la città di Amida fu conquistata dai parti, contro i quali combatté nel
363 al seguito dell'imperatore Giuliano. Fallita la spedizione, si ritirò a vita privata nella città natale. Dopo i viaggi in
Egitto, dove studiò i geroglifici, e in Grecia, nel 378 si stabilì
definitivamente a Roma, dove approfondì la conoscenza della lingua latina, che
aveva imparato nell'esercito. Nell'ultimo quindicennio della vita si dedicò alla stesura della
sua opera storica Rerum gestarum libri XXXI.
Morì probabilmente a Roma nel 400 circa.
La sua opera storica in 31 libri, Rerum gestarum libri, proseguiva le Storie di Tacito e
narrava gli avvenimenti dell'impero romano da Nerva nel 96 alla morte di
Valente nel 378. I primi 13 libri sono andati perduti; i 18 pervenutici
trattano il periodo 353-378: l'uccisione di Gallo e la persecuzione dei suoi
seguaci, le azioni militari di Ursicino in Oriente e il suo richiamo, i
principati di Giuliano e le sue campagne di Gallia, di Gioviano, di
Valentiniano I e di Valente, fino alla sua morte nella battaglia di Adrianopoli
contro i Goti. Il fatto che nei primi 13 libri siano esposte le vicende di più
di 250 anni e nei rimanenti 18 gli avvenimenti di solo 25 anni, indica
chiaramente che Ammiano Marcellino volle narrare approfonditamente soprattutto i fatti contemporanei,
dei quali era stato testimone se non partecipe.
Ammiano Marcellino è l'ultimo
grande storico della letteratura latina, l'unico che si possa
in qualche modo associare ai grandi narratori romani. Egli si riallaccia a Tacito,
non solo cronologicamente, ma ancheper metodologia.
"La storia dice è solita correre sulle alte vette degli avvenimenti e
non a indagare le minuzie delle umili cose": su questa premessa egli
tratta sia le vicende politiche e la vita interna dello stato sia gli intrighi
di corte sia le guerre esterne. Lo legano al grande predecessore, inoltre, la
narrazione di tipo annalistico, l'introduzione di discorsi, le riflessioni
filosofico-morali, il senso fatalistico della storia e il cupo pessimismo
sull'età contemporanea, che riserva solo amarezze e delusioni. Come lo storico
greco Polibio, Ammiano inserisce nella narrazione
acuti profili di popoli, descrizioni geografiche, tecniche e scientifiche;
molto efficaci sono le descrizioni delle battaglie e della vita militare. Lo
storico mostra libertà e imparzialità di giudizio: "Non ho mai osato
corrompere sia col silenzio sia con la falsificazione la mia opera che fa
professione di verità". Egli è infatti un interprete obiettivo del suo
tempo, lontano da ogni eccesso e da ogni intolleranza. Acceso assertore della grandezza di Roma,
"che sarà vittoriosa finché avrà uomini", ne denunzia senza remore la
decadenza; è ammiratore, da fedele soldato, dell'imperatore
Giuliano, cui dedica i libri dal 21 al 25, ma ne rileva puntualmente i difetti,
disapprova il suo editto con cui si allontanavano dall'insegnamento i retori e
grammatici cristiani e stigmatizza la sua avversione nei confronti del
cristianesimo. La tolleranza religiosa è per Ammiano Marcellino indice di umanità,
come per gli intellettuali antichi.
La poesie trovò la sua massima espressione in Claudio
Rutilio Namaziano,
pagano di origine gallica, figlio di un alto funzionario, a Roma praefectus Urbis nel
414. Nel 417 ritornò in patria per mettere ordine nelle sue proprietà dopo le
devastazioni dei Goti. Poeta garbato,
descrisse il viaggio nel poemetto De reditu suo (Il
ritorno), che ci è pervenuto interrotto al verso 68 del secondo libro.
Nell'opera hanno particolare risalto il sentimento di venerazione per l'alta
maestà di Roma e l'avversione per il Cristianesimo, responsabile, secondo
Rutilio, della rovina e della desolazione dell'impero. Il momento di
ispirazione più genuina è rappresentato dal saluto rivolto dal poeta a Roma, al
momento della partenza, in cui la città è celebrata come regina del mondo,
conquistatrice e unificatrice delle genti.
Per quanto riguarda l’arte, essa non manifestò una
precisa fisionomia cristiana fino
all'editto di Costantino del 313 e
soprattutto con l'editto di Teodosio
del 380, che proclamò il Cristianesimo religione dell'Impero.
Fiorirono allora l'architettura e
la pittura cristiane, mentre la scultura fu rappresentata soprattutto da una
rilevante produzione di sarcofagi e da rare sculture a tutto tondo, tra cui la
nota statua del Buon Pastore del Museo Lateranense a Roma.
È indispensabile parlare dell’uso
cristiano del simbolo. Se i romani esprimevano il loro concetto di forza e
supremazia con forme solide e grosse dimensioni, l’arte cristiana aveva un
problema quando doveva rappresentare la trascendenza del divino, doveva cioè
rendere visibile l’invisibile e conosciuto ciò che all’uomo non era possibile
vedere se non tramite l’atto di fede. Già i greci avevano dovuto affrontare
questa situazione ed erano giunti a raffigurare le divinità con forme umane
idealizzate, ma la religione cristiana ha radici sia nel mondo
ellenistico-romano, sia in quello ebraico, dove la rappresentazione di Dio è
vietata per non incappare nell’idolatria.
La soluzione si ottenne dando
agli oggetti significato simbolico, che oltre a conferire valore ideologico diede
alle rappresentazioni un valore didattico (tra i primi espedienti simbolici
troviamo la luce, da sempre simbolo del bene, e la bidimensionalità, che toglieva
corporeità agli oggetti e alle persone, che così sarebbero stati puro
spirito).
Fino all'editto di Costantino
furono usati come luoghi di culto le case private o anche le domus ecclesiae,
piccole costruzioni la cui tipologia si rifaceva forse alla casa romana con
atrio. Nello stesso periodo, per via dell’esigenza cristiana di sotterrare i
morti, invece di cremarli come facevano abitualmente i romani, nascono i
cimiteri sotterranei, le catacombe, nel tempo caddero in disuso e se ne persero
le tracce, tranne di quelle ubicate sotto le basiliche (San Sebastiano sulla
via Appia).
A partire dal IV secolo compare l'edificio tipico
della religione cristiana, ripreso dall'architettura civile romana: la basilica, sorta per soddisfare nuove
esigenze liturgiche di accogliere in un ambiente adeguato i fedeli durante la
celebrazione dei riti. La primitiva forma di basilica a semplice sala
rettangolare allungata, con struttura muraria continua e volta a concrezione,
si arricchì in seguito di colonnati paralleli all'interno (3 o 5 navate) e di
absidi nelle parti terminali. La presenza del transetto, a tre quarti della
lunghezza dell'edificio, porta a una pianta a croce di chiaro significato
simbolico. Tra le basiliche romane dei secoli IV e V si ricordano S. Maria
Maggiore, S. Sabina, S. Giovanni in Laterano, S. Pietro, S. Lorenzo, a Roma; e
inoltre S. Apollinare in Classe e S. Apollinare Nuovo a Ravenna, la basilica di
Aquileia e quella di S. Tecla a Milano.
Accanto alle basiliche a sviluppo longitudinale furono
costruiti edifici a pianta centrale (S. Stefano a Roma e S. Lorenzo a Milano),
adibiti a battistero, a mausoleo, a martyrium (per il culto dei martiri di cui si
venerava il sepolcro), con struttura interna ripresa dallo schema di
architetture imperiali, come il mausoleo di S. Costanza a Roma.
Costantino e sua madre, sant'Elena, e i successori
promossero numerose costruzioni anche a Costantinopoli come la primitiva S.
Sofia, in Siria e in Palestina (chiesa della Natività a Betlemme).
Le più importanti testimonianze della pittura sono
rintracciabili soprattutto negli affreschi delle catacombe romane: i più
antichi esempi (catacombe di Domitilla, Callimaco, Pretestato, Priscilla, degli
inizi del sec. III) mostrano una precisa derivazione dai moduli stilistici
della pittura romana, nell'evidente tendenza alla schematizzazione delle forme,
ma caratteri propri nella forte simbologia delle raffigurazioni
(rappresentazione del pavone che simboleggia la Resurrezione nella catacomba di
Priscilla).
In seguito all'editto di Costantino, pur continuando
l'uso di affrescare le catacombe, comparvero i primi cicli di decorazione a
mosaico come a Roma nella volta dell'ambulacro di S. Costanza e in S.
Prudenziana.
7. Medioevo – Secondo la
suddivisione più condivisa della Storia d'Europa che prevede tre ere, classica,
medioevale e moderna, il Medioevo è il periodo intermedio, il cui inizio è
collocato, per l'intera Europa, nel 476, cioè con la deposizione dell'ultimo
imperatore romano Romolo Augustolo e di conseguenza con la fine dell'Impero
Romano d'Occidente.
Diversamente, la conclusione del Medioevo è collocata in ciascun
paese in date diverse, che coincidono con la nascita delle rispettive monarchie
nazionali ed il periodo rinascimentale.
Alcune date comunemente utilizzate sono:
·
il 1453, con la caduta
di Costantinopoli in mano ai Turchi e la fine della Guerra dei Cent'Anni tra
Inghilterra e Francia,
·
il 1492, con la fine
del periodo islamico in Spagna e la scoperta dell’America da parte di
Cristoforo Colombo,
·
il 1517, con la
Riforma protestante.
Il termine Medioevo, inteso come età di mezzo, fase
di transizione tra due stadi, implica già una visione negativa, che si radica
già nel giudizio degli umanisti che descrive avvilente e pericolosa la
quotidianità nell'età storica appena trascorsa, influenzati dalle recenti
carestie e dall'arresto demografico dovuto alle epidemie. In realtà è
storicamente accertato come non mancarono importanti innovazioni e conquiste.
La visione negativa del Medioevo culminò nell'Illuminismo, quando prevaleva la
visione del Medioevo come epoca della prigionia dello spirito, come
fanatismo religioso che relegava l'uso della ragione e dell'arbitrio. I
caratteri di rozzezza e oscurità davano però una visione deformata e
semplificata. I mille anni di Medioevo, così ricchi di eventi e trasformazioni,
hanno continuato ad essere riproposti come tenebra, barbarie, violenza, perdita
d'identità, sterilità e carestia.
Per quanto numerosi possano essere i lati negativi attribuibili
al Medioevo, non si può accettare che tali aspetti negativi siano assunti a
linee guida per la descrizione della realtà plurisecolare dell'Europa medievale
e dei gruppi umani limitrofi.
Lo studio del Medioevo ebbe una rivalutazione molto forte
durante il Romanticismo, anche se non fu certo una rivalutazione filologica,
ma piuttosto una distorsione in chiave contemporanea di un'idea di Medioevo. In
particolare interessavano aspetti legati alla fede, alla purezza, all'etica
cavalleresca e soprattutto legate alla nascita delle nazioni e delle
indipendenze comunali, che erano usate come fondamento delle rivendicazioni
indipendentiste dei movimenti rivoluzionari.
Anche oggi, per il Medioevo gli studi storici sono condizionati
dalle deformazioni del proprio modo di pensare e delle influenze della società
contemporanea.
Una suddivisione comunemente utilizzata del Medioevo è tra:
·
L’Alto Medioevo,
che per convenzione va dalla caduta dell'Impero romano d'Occidente, avvenuta
nel 476, all'anno 1000. La carica imperiale rimase vacante dopo la deposizione
di Romolo Augusto nel 476. L'impero bizantino mantenne la sovranità nominale
sui territori appartenuti all'impero d'Occidente e molte delle popolazioni
germaniche che vi si erano stanziate riconobbero formalmente l'autorità del
sovrano di Costantinopoli. La restaurazione bizantina in Italia mirò al
controllo del papato, nell'ottica del tradizionale cesaropapismo orientale,
suscitando la viva opposizione dei pontefici. Alla fine dell'VIII secolo, dopo
le invasioni barbariche e la breve riconquista operata da Giustiniano, si erano
consolidati il regno dei franchi a Occidente; il regno dei Longobardi
nell'Italia settentrionale; l'Impero Bizantino nel sud dell'Italia e nei
Balcani. La Chiesa si riorganizzò e grazie al prestigio politico e morale e
all'accentramento esercitò un fermo controllo sulla popolazione. L'unità
dell'impero carolingio fu ben presto minata dalle lotte fra i successori e
dalle spinte disgregatrici delle aristocrazie.
·
Basso Medioevo che intende il periodo della storia
europea compreso tra il 1000 e la scoperta dell'America nel 1492.
8. L’Alto Medioevo -
Il periodo compreso tra il V e l’XI secolo è uno dei momenti più bui della storia d’Europa.
Il significato storico dei secoli di
imbarbarimento che costituiscono l’Alto Medioevo è però ambivalente: mentre da una parte essi
rappresentano la frattura con la civiltà classica i cui valori sembrano andare
perduti per sempre, dall’altra, invece, grazie all’assimilazione di vari elementi, si attua la laboriosa gestazione di una nuova civiltà,
del tutto originale, la civiltà
europea che, progredendo e
sviluppandosi, imporrà poi la sua egemonia sul mondo.
La morte dell’Imperatore Teodosio nel 395 segnò la definitiva separazione delle province occidentali, di lingua e cultura latina, da quelle orientali, ed il conseguente rapido declino dell’Impero romano
d’Occidente, meno abitato, meno
urbanizzato, meno civile, meno ricco
di risorse rispetto a quello
d’Oriente o bizantino. I sintomi dell’imminente dissoluzione
dell’Impero già si delineavano:
·
nel 406 le difese della frontiera renana cedettero;
·
nel
410 Roma fu saccheggiata una prima volta da parte dei Visigoti di
Alarico, i quali però, già cristianizzati, rispettarono gli edifici religiosi;
·
nel 455 fu
saccheggiata di nuovo da
parte dei Vandali di Genserico che le infersero i colpi più gravi;
·
nel 476, deposto
l’ultimo Imperatore romano da Odoacre, re degli Eruli, l’Impero d’Occidente
cadde definitivamente e nuclei di popolazioni
germaniche (Goti, Vandali, Franchi)
si insediano sul territorio
imperiale, dando vita ai cosiddetti regni
romano-barbarici[12].
Le condizioni dell’Italia nel VI secolo dalla Storia dei Longobardi di Paolo Diacono
In quei tempi scoppiò una pestilenza gravissima che colpì soprattutto
la provincia di Liguria […].
Dappertutto era lutto, dappertutto lacrime. Poichè si era sparsa la
voce che fuggendo si poteva scampare al flagello, le case venivano abbandonate
dagli abitanti e solo i cani vi restavano a fare la guardia. Le greggi
rimanevano da sole nei pascoli, senza più pastore. Le tenute e i castelli prima
pieni di folle di uomini, il giorno dopo, fuggiti tutti, apparivano immersi in
un silenzio totale. Fuggivano i figli, lasciando insepolti i cadaveri dei
genitori; i genitori, dimenticati l’amore e la pietà, abbandonavano i figli in
preda alla febbre […]. Non c’era traccia di uomini per le strade, non si vedeva
nessuno che colpisse, eppure i cadaveri dei morti giacevano a perdita d’occhio.
I pascoli si erano trasformati in luoghi di sepoltura per gli uomini e le case
degli uomini in rifugi per le bestie. Questi mali colpirono solo i Romani e
l’Italia, fino ai confini con le genti alamanne e bavare.
Alboino, in procinto di partire per l’Italia, chiese aiuto ai suoi
vecchi amici Sassoni, per avere un maggior numero di uomini con cui invadere e
occupare il vasto territorio italiano. Più di ventimila Sassoni, con donne e
bambini, accorsero al suo appello, per andare con lui in Italia. Quando lo
seppero, Clotario e Sigeperto, re dei Franchi, fecero trasferire gli Svevi ed
altre genti nelle terre da cui erano usciti i Sassoni.
Allora Alboino assegnò le sue sedi, cioè la Pannonia, ai suoi amici
Unni, con il patto che, se in qualsiasi momento i Longobardi si fossero trovati
nella necessità di tornare, avrebbero riavuto indietro le loro terre. I
Longobardi dunque, lasciata la Pannonia, si mossero con le mogli, i figli e
tutti i loro beni, per impossessarsi dell’Italia. In Pannonia erano rimasti
quarantadue anni. Ne uscirono nel mese di aprile, nella prima indizione, il
giorno dopo la santa Pasqua, la cui festa, secondo il computo, cadde quell’anno
il primo di aprile, trascorsi già cinquecentosessantotto anni dall’incarnazione
del Signore.
9. Le grandi trasformazioni sociali e politiche dell’Alto Medioevo: le monarchie romano-barbariche.
a) Decadenza della città –
Roma, imponendo il suo dominio politico sull’Europa occidentale, vi introdusse quella civiltà urbana,
lì sconosciuta, che aveva invece caratterizzato tanto la Grecia quanto i grandi imperi dell’antichità.
Per civiltà urbana si
intende che la città era il luogo delle decisioni politiche e amministrative, degli scambi commerciali e culturali, la residenza usuale
dei detentori del potere, mentre alla
campagna era assegnata una posizione subalterna in tutti questi campi, anche
se essa rappresentava la principale e quasi unica produttrice di ricchezza.
Il modello
di vita cittadina, portato dai legionari romani, si diffuse rapidamente nei
paesi europei conquistati. Fu un processo che toccò il suo apice nel II secolo
d.C., per avviarsi poi alla progressiva decadenza.
Fra le cause di questa decadenza ai possono individuare molteplici fattori, ma la ragione
principale sta nell’effettiva inconsistenza dell’economia
legata alla civiltà urbana. Nell’Occidente, a differenza dell’Oriente, la
città fu un organismo esclusivamente parassitario: essa[24] non era produttrice di ricchezza e tanto meno di
ricchezza per un vasto mercato. Di qui la debolezza della civiltà
urbana romana, debolezza che condizionò negativamente anche la potenza militare dell’Impero d’Occidente, gli impedì di
resistere alla pressione dei
barbari e, assieme ad altre cause, ne determinò la fine.
Le invasioni dei Germani, le scorrerie degli Unni e degli
Ungari, accelerarono il processo di decadenza della città fino a portare, in
molti casi, alla sua scomparsa materiale e comunque alla fine della sua posizione di
predominio come centro politico, culturale ed economico.
b) La società rurale -
È stato detto che l’Impero Romano d’Occidente non morì di morte naturale, ma fu assassinato dai barbari.
L’affermazione è
vera nel senso che essa efficacemente
sottolinea la violenta frattura verificatasi con la civiltà precedente:
senza le
invasioni germaniche e le devastanti incursioni di altre popolazioni barbariche
che distrussero la struttura
materiale su cui si fondava la civiltà latina in Occidente, non si spiegherebbe la totale scomparsa di quella
civiltà urbana che l’aveva caratterizzata dalla Spagna al Reno, dalla Britannia alle sponde
settentrionali dell’Africa; questa società lasciò il posto ad una società che ebbe i suoi centri
politico-amministrativi, commerciali
e culturali fuori delle città, nelle villae, le estese tenute dei
grandi proprietari fondiari,
nei monasteri, nelle abbazie e nei castelli, residenza dell’aristocrazia
guerriera che
deteneva il potere sui paesi conquistati. Le villae nella tarda
antichità divennero le grandi proprietà rurali incentrate su una corte (la
riserva) e altre terre dipendenti dalla medesima azienda chiamate mansi (o
massarici). In alcune regioni, e sempre più a partire dall’VIII secolo, il termine
acquistò il senso territoriale di villaggio o di distretto politico.
Intorno a questi centri si addensava la popolazione rurale: era una società
che, per la forte regressione della produzione
e degli scambi e la ridotta circolazione monetaria, si basava
esclusivamente, con
poche eccezioni, su un’agricoltura che operava in condizioni di estrema povertà
e vedeva ridursi
progressivamente le sue potenzialità in terre coltivate e in braccia lavorative.
La popolazione, decimata, più che dalle
guerre, dalle epidemie e dalle carestie
che le accompagnavano, toccò livelli bassissimi: nell’VIII secolo la popolazione
dell’Italia non doveva
superare i 4 milioni, mentre nel V secolo era di quasi 8 milioni.
Le terre coltivate erano divorate dalle selve che assediavano sempre più
da vicino gli insediamenti umani rarefacendo
i loro reciproci rapporti e dalle paludi, costituitesi per il dilagare e il ristagnare delle acque non più regolate.
L’incolto e la foresta dominavano
il paesaggio di questi secoli.
In queste condizioni l’agricoltura,
utilizzando tecniche e strumenti primitivi, riusciva a stento, pur integrata dalla caccia, dalla
pesca e dall’allevamento brado, a soddisfare i bisogni di sussistenza: il misero
mantenimento dei contadini, dopo che erano state soddisfatte le esigenze della classe dominante,
cioè i guerrieri e gli ecclesiastici.
I Germani dalla Germania
di Tacito
Personalmente inclino verso l'opinione di quanti ritengono
che i popoli della Germania non siano contaminati da incroci con gente di altra
stirpe e che si siano mantenuti una razza a sé, indipendente, con caratteri
propri. Per questo anche il tipo fisico, benché così numerosa sia la
popolazione, è eguale in tutti: occhi azzurri d'intensa fierezza, chiome
rossicce, corporature gigantesche, adatte solo all'assalto. Non altrettanta è
la resistenza alla fatica e al lavoro; incapaci di sopportare la sete e il
caldo, ma abituati al freddo e alla fame dal clima e dalla povertà del suolo.
[…]
Neppure il ferro abbonda, a giudicare dal tipo di armi. Pochi
usano spade e lance d'una certa lunghezza: portano delle aste o, per dirla col
loro nome, delle framee, dal ferro stretto e corto ma tanto aguzze e
maneggevoli che possono impiegare la stessa arma, secondo occorrenza, in
combattimenti da vicino e da lontano. Anche i cavalieri si limitano ad avere
scudo e framea; i fanti lanciano anche proiettili, molti ciascuno, e li
scagliano a grande distanza, a corpo nudo o coperti d'un mantello leggero. Non
ostentano ornamenti militari; soltanto gli scudi li tingono di colori vistosi.
Pochi indossano corazze, pochissimi poi un elmo di cuoio o di metallo. I
cavalli non spiccano né per bellezza né per velocità. Neppure li addestrano a
fare volteggi, come da noi: portano i cavalli in linea retta o fanno eseguire
loro una conversione a destra con un allineamento così compatto che nessuno
resta indietro. Ad una valutazione globale, è più forte la fanteria; e per
questo combattono mescolati, perché si uniforma armonicamente alla battaglia
equestre la velocità dei fanti, scelti fra tutti i giovani e disposti in prima
fila. Anche il loro numero è prestabilito: cento per ogni distretto, e appunto
questo è il nome che li indica fra loro, sicché quello che dapprima era un
numero diventa un titolo d'onore. La schiera si dispone a cunei.
L'indietreggiare, purché si contrattacchi, lo considerano saggia tattica
piuttosto che segno di paura. Anche nelle battaglie d'esito incerto, portano
indietro i corpi dei caduti. L'onta peggiore è abbandonare lo scudo e a chi
così si sia disonorato non si concede più di presenziare ai riti o di
intervenire alle assemblee, tanto che molti scampati alla guerra posero fine al
loro disonore con un laccio al collo.
[…]
Scelgono i re per nobiltà di sangue, i comandanti in base al
valore. I re non hanno potere illimitato o arbitrario e i comandanti contano
per l'esempio che danno, non perché comandano, facendosi ammirare, se sono
coraggiosi, se si fanno vedere innanzi a tutti, se si battono in prima fila.
D'altronde, mettere a morte, imprigionare, sferzare è concesso solo ai
sacerdoti e ciò non per punizione o per ordine del comandante, ma come per
imposizione del dio che credono presente fra i combattenti. Portano in
battaglia immagini di belve e simboli divini tratti dai boschi sacri, e - cosa
che più d'ogni altra sprona al coraggio - la formazione di uno squadrone di
cavalleria o di un cuneo avviene non per casuale raggruppamento, ma in base
alle famiglie e ai clan; i loro cari stanno nei pressi, da dove possono udire
le urla delle donne e i vagiti dei bambini. Questi i testimoni più sacri; da
loro la lode più ambita: presentano le ferite alle madri, alle mogli, che hanno
l'animo di contarle e di esaminarle; ed esse recano ai combattenti cibi ed
esortazioni.
[…]
Si ha ricordo di eserciti, ormai sul punto di ripiegare e di
cedere, rinsaldati dalle insistenti preghiere delle donne che mostravano il
petto e che indicavano loro lo spettro dell'imminente schiavitù; schiavitù che
temono per le loro donne assai più che per sé, tanto che si sentono più
saldamente vincolate quelle popolazioni dalle quali si pretendono, come
ostaggi, anche nobili fanciulle. Attribuiscono anzi alle donne un che di sacro
e di profetico e non ne sottovalutano i consigli o ne disattendono i responsi.
[…]
Sulle questioni di minore importanza decidono i capi, su
quelle più importanti, tutti; comunque, anche quelle di cui è arbitro il popolo
subiscono un preventivo esame da parte dei capi. Si radunano, tranne casi di
improvvisa emergenza, in giorni particolari, nel novilunio o nel plenilunio,
perché credono che siano i periodi più favorevoli per prendere iniziative. Non
contano il tempo, come noi, per giorni, ma per notti; con tale criterio fissano
date, così si accordano: per loro è la notte che guida il giorno. Dal loro
spirito di libertà deriva questo inconveniente, che non si presentano alle
riunioni contemporaneamente, come dietro comando, ma perdono due o tre giorni
per l'attesa dei partecipanti. Quando la massa dei convenuti lo ritiene
opportuno, siedono in assemblea, armati. Il silenzio viene imposto dai
sacerdoti che, in quelle occasioni, hanno anche il potere di reprimere. Quindi
prendono la parola i re o i capi, secondo l'età, la nobiltà, la gloria militare
e l'abilità oratoria e li stanno ad ascoltare più per l'autorevolezza che hanno
nel persuadere che per l'autorità. Se le idee espresse non piacciono,
manifestano disapprovazione con mormorii; se invece piacciono, battono insieme
le framee: il plauso espresso con le armi è il più onorevole.
[…]
In battaglia poi è disonorevole per un capo lasciarsi
superare in valore ed è disonorevole per il seguito non eguagliare il valore
del capo. Inoltre costituisce un'infamia e una vergogna, che dura per tutta la
vita, tornare dal campo di battaglia, sopravvivendo al proprio capo:
difenderlo, proteggerlo, attribuire a sua gloria anche i propri atti di valore
è l'impegno più sacro: i capi combattono per la vittoria, il seguito per il
capo. Se la tribù in cui sono nati intorpidisce nell'ozio di una lunga pace,
molti giovani nobili raggiungono volontariamente le tribù che al momento sono
impegnate in qualche guerra, sia perché la gente germanica non ama la pace, sia
perché più facilmente si acquista fama in mezzo ai pericoli, e si può mantenere
un grande seguito solo con la forza e la guerra. Dalla generosità del capo
pretendono quel cavallo adatto alla guerra o quella cruenta framea vittoriosa;
infatti cibo e imbandigioni, non raffinati ma abbondanti, valgono come paga. I
mezzi per largheggiare in doni derivano dalle guerre e dai saccheggi. È ben più
difficile indurli ad arare la terra e ad aspettare il raccolto dell'anno che a
provocare il nemico e a guadagnarsi ferite; pare anzi loro pigrizia e viltà
acquistare col sudore quanto possono avere col sangue.
[…]
Il vestito, per tutti, è un corto mantello allacciato da una
fibbia o, in mancanza, da una spina; il resto del corpo è nudo e passano intere
giornate accanto al focolare acceso. I più ricchi si distinguono per una
sottoveste, non ampia, come hanno Sarmati e Parti, ma attillata, e che mette in
rilievo le forme. Indossano anche pelli di fiere: senza voler apparire eleganti
quelli vicini ai fiumi, come segno di raffinatezza invece quelli dell'interno,
dove il commercio non porta alcun lusso. Questi ultimi scelgono gli animali
adatti, li scuoiano e poi ne screziano le pellicce con pezzi di pelle di altri
animali, che l'Oceano più lontano o il mare sconosciuto danno alla luce.
Analogo a quello degli uomini è l'abbigliamento delle donne, salvo che queste
si coprono spesso con mantelli di lino ricamati di porpora e non allungano la
parte superiore della tunica a formare delle maniche; hanno braccia e
avambracci scoperti e rimane scoperta anche la parte superiore del petto.
[…]
Per altro i rapporti coniugali sono severi e, nei loro
costumi, nulla v'è che meriti altrettanta lode. Infatti, quasi soli fra i
barbari, sono paghi di una sola moglie, salvo pochissimi, e non per sete di
piacere, ma perché, a causa della loro nobiltà, sono oggetto di molte offerte
di matrimonio. La dote non la porta la moglie al marito, ma il marito alla
moglie. Intervengono i genitori e i parenti e valutano i doni, scelti non per
soddisfare i piaceri femminili o perché se ne adorni la nuova sposa, ma
consistenti in buoi, in un cavallo bardato, in uno scudo con framea e spada.
Come corrispettivo di tali doni si riceve la moglie, che, a sua volta, porta
qualche arma al marito: questo è il vincolo più solido, questo l'arcano rito,
queste le divinità nuziali. E perché la donna non si creda estranea ai pensieri
di gloria militare o esente dai rischi della guerra, nel momento in cui prende
avvio il matrimonio, le si ricorda che viene come compagna nelle fatiche e nei
pericoli, per subire e affrontare la stessa sorte, in pace come in guerra:
questo significano i buoi aggiogati, questo il cavallo bardato, questo il dono
delle armi. Così deve vivere, così morire: sappia di ricevere armi che dovrà
consegnare inviolate e degne ai figli, che le nuore riceveranno a loro volta,
per trasmetterle ai nipoti.
Vivono dunque in riservata pudicizia, non corrotte da
seduzioni di spettacoli o da eccitamenti conviviali. Uomini e donne ignorano
egualmente i segreti delle lettere. Rarissimi, tra gente così numerosa, gli
adulteri, la cui punizione è immediata e affidata al marito: questi le taglia i
capelli, la denuda e, alla presenza dei parenti, la caccia di casa e la incalza
a frustate per tutto il villaggio. Non esiste perdono per la donna disonorata:
non le varranno bellezza, giovinezza, ricchezza, per trovare un marito. Perché
là i vizi non fanno sorridere e il corrompere e l'essere corrotti non si chiama
moda. Ancora più austere sono le tribù in cui solo le vergini si sposano e la
speranza e l'attesa del matrimonio si appagano una volta sola. Un solo marito
ricevono così come hanno un solo corpo e una sola vita, perché il loro pensiero
non vada oltre e non si prolunghi il desiderio e perché amino non tanto il
marito, bensì il matrimonio. Limitare il numero dei figli o ucciderne qualcuno
dopo il primogenito è considerata colpa infamante e lì hanno più valore i buoni
costumi che non altrove le buone
In ogni casa crescono nudi e sporchi, per poi svilupparsi in
quelle membra e in quei corpi che tanto ammiriamo. Ogni madre allatta al seno i
propri figli e non li affida ad ancelle o nutrici. Impossibile distinguere il
padrone o il servo da cure particolari nell'educazione. Vivono tra il medesimo
bestiame e sullo stesso terreno, finché l'età separa i giovani nati liberi e il
valore li fa conoscere tali. I rapporti sessuali non sono precoci e quindi la
loro virilità è inesauribile. Non c'è fretta di far sposare le giovani;
identico ai maschi è il vigore giovanile, simile la statura: si maritano quando
hanno prestanza e robustezza pari al loro compagno e i figli rinnovano la forza
dei genitori. Lo zio materno tiene nella stessa considerazione di un padre i
figli delle sorelle. Certe tribù privilegiano questo legame di sangue e, quando
ricevono ostaggi, lo preferiscono, perché, secondo loro, i nipoti impegnano più
in profondo gli affetti e in modo più esteso la famiglia. Gli eredi dei beni e
i successori sono però i figli che ciascuno ha e non si fanno testamenti. In
mancanza di figli, subentrano, in ordine di successione, i fratelli, gli zii
paterni e gli zii materni. Più numerosi sono i parenti di sangue e acquisiti,
più onorata è la vecchiaia; e a non aver eredi non c'è vantaggio alcuno.
[…]
Gli schiavi per altro non li impiegano, come noi, assegnando
loro compiti precisi: ciascuno di essi è libero di regolare a suo piacere la
propria abitazione e la propria famiglia. Il padrone pretende una certa
quantità di frumento, di bestiame o di tessuto, come da un colono, e lo
schiavo, entro questi limiti, deve obbedire; al resto delle incombenze
domestiche provvedono la moglie e i figli del padrone. Raro è il caso di uno
schiavo picchiato, messo in prigione o spedito ai lavori forzati. Capita che lo
uccidano, non in nome della disciplina o per severità, ma in un impeto d'ira,
come un nemico personale, e con la differenza che il gesto resta impunito. I
liberti sono in condizione non migliore degli schiavi e raramente hanno qualche
influenza nelle faccende private, mai nella vita pubblica, salvo per quelle
popolazioni che hanno un re. Là salgono più in alto dei liberi e dei nobili:
presso tutte le altre popolazioni l'inferiorità dei liberti è prova che esiste
la libertà.
L’inizio dell’iconoclastia
dalla Cronografia di Teofane
In
quell’anno[723], un giudeo proveniente da Laodicea, sulla costa fenicia, un
ciarlatano imbroglione, si recò da Izìd e gli assicurò che, se avesse eliminato
le sacre immagini venerate nelle chiese cristiane di tutto il territorio a lui
soggetto, avrebbe dominato sugli arabi per quarant’anni. Lo sciocco Izìd gli
prestò fede ed emanò un decreto universale contro le sante immagini: ma per
grazia di nostro Signore Gesù Cristo e per le intercessioni della Sua
immacolata Madre di tutti i Santi, Izìd morì in quello stesso anno e così il
suo demoniaco editto non giunse neppure alle orecchie della gente.
Gli
subentrò tuttavia in questa ripugnante, scellerata eresia, l’imperatore Leone,
la causa di molti nostri mali. E in questa ottusa ignoranza Leone ebbe al
fianco un tale di nome Bezér. Si trattava di un cristiano che, fatto
prigioniero dagli Arabi in Siria, aveva abiurato alla propria fede per aderire
alle credenze dei suoi nuovi padroni: poi liberato dalla schiavitù poco tempo
addietro, aveva assunto la cittadinanza bizantina, e si era guadagnato la stima
di Leone per la sua forza fisica e la sua convinta adesione all’eresia, tanto
da divenire il braccio destro dell’imperatore in questa così vasta e malvagia
impresa.
In
tali insani propositi si riconosceva anche un uomo traboccante di ogni
dissolutezza e nutrito della stessa rozza stupidità: il vescovo di Nacoleia.
In
quell’anno l’empio imperatore Leone cominciò a parlare della distruzione delle
sacre e venerande immagini. Quando il papa di Roma, Gregorio, lo apprese,
bloccò i tributi italiani e romani a Costantinopoli, e scrisse a Leone una
lettera di contenuto dogmatico: in essa si affermava che l’imperatore non doveva
affrontare discorsi in materia di fede e introdurre mutamenti negli antichi
dogmi della chiesa tramandati dai santi Padri.
Bellezza dalle Poesie di Ibn Hamdis
Ci affascinano
le belle che muovono gli occhi
di gazzella in
visi rotondi come lune.
Dalle chiome
fluenti, dall'incedere aggraziato,
dai glutei
pieni, dalla vita sottile.
La fresca
giovinezza
profuma la loro
bocca dalle labbra di corallo,
dai denti di
perla,
come quando lo
zefiro, impregnato di abir,
scorre sulla
rosa e sulla camomilla.
10. Eclisse del primato
dell’Occidente –
La degradazione dell’Europa, ridotta a paese spopolato e selvaggio, dominato da
un’aristocrazia turbolenta e ribelle ad ogni forma di ordine costituito, dove erano scomparse anche le
vestigia della civiltà classica,
comportò la perdita del primato dell’Occidente, come conseguenza della impotenza di Roma.
Nel periodo che va dal V all’XI secolo, le civiltà più fulgide
ed evolute, gli organismi statali più vasti e potenti avevano i loro centri
altrove: a Bisanzio, a Damasco e Bagdad,
capitali dell’Islam, in Cina ed in India.
L’Europa, prostrata, a stento riusciva a difendere la sua indipendenza
dagli assalti e dalla penetrazione dell’Islam e solo faticosamente riuscì a
riprendersi, a cominciare dal XII secolo.
Quanto a Roma, anziché parlare d’eclissi
del suo primato politico, è più preciso parlare di tramonto, in quanto essa non riuscirà più
a conseguire la perduta posizione di primaria
potenza mondiale. Di essa sopravvivrà però, lungo tutto il Medioevo, il vivo ed
affascinante ricordo cui ci si richiamerà come
ad un ideale di ordine civile e di grandezza
politica da riconquistare. La Chiesa di Roma se ne considerò l’erede e anche
su questo fondò la sua rivendicazione di universalità.
a) I Germani e i regni romano-barbarici -
Le infiltrazioni prima e le invasioni poi dei popoli germanici (Visigoti, Ostrogoti,
Franchi, Sassoni, Burgundi, Longobardi e altri) portarono sulla scena europea un fattore nuovo che,
insieme con la civiltà classica e con il Cristianesimo, contribuì alla
formazione della nuova
civiltà.
Fu una comparsa drammatica che sembrò
sommergere totalmente
la civiltà precedente e mandò in pezzi l’unità politica dell’Europa occidentale,
base di tale civiltà.
Vi si sostituì una molteplicità di stati
autonomi che
prefigurava così la condizione politica della futura Europa.
I regni romano-barbarici si erano formati nelle ex province romane dalle invasioni
del V secolo ed, inizialmente, erano stati formalmente
dipendenti dall'impero.
Il regno era l'unica istituzione politica nuova elaborata dagli
invasori, ma il regno barbarico non conobbe la separazione dei poteri,
concentrati tutti nelle mani del re che li aveva acquisiti per diritto di
conquista, al punto che la cosa pubblica tendeva a confondersi con la
sua proprietà personale e la stessa nozione di regno con la persona di chi
esercitava il potere politico ed assicurava la protezione militare dei sudditi,
dai quali esigeva in cambio fedeltà. La monarchia dei popoli barbarici non fu territoriale
bensì nazionale, ossia rappresentò chi era nato nella stessa tribù.
Nonostante il ruolo distruttivo che spesso i popoli invasori
svolsero sulle terre invase, quasi tutti i nuovi regni furono estremamente
vulnerabili. Alcuni, come quelli dei Burgundi o degli Svevi (Suebi), furono assimilati dai vicini; altri, come quelli
dei Vandali o degli Ostrogoti, crollarono sotto l'offensiva di Bisanzio, che tentò di
ricostruire l'unità dell'impero. Quelli dei Visigoti in Spagna e
dei Franchi nelle ex province galliche invece sopravvissero, sia per
la rapida integrazione tra le popolazione dei residenti e gli invasori, sia per
la collaborazione con la Chiesa e con esponenti del mondo intellettuale latino.
In tutti questi regni l’esercito, cioè il potere
effettivo, era nelle mani dei Germani conquistatori,
mentre le istituzioni giuridiche e amministrative romane continuavano a sopravvivere, anche se lo
spirito che le animava non era più lo stesso, ma era quello che
discendeva dalla cultura agraria e guerriera della gente germanica.
Altri importanti regni romano-barbarici
furono:
·
il regno dei Franchi[13], nel nord
dell’attuale Francia, da cui nascerà, con la dinastia dei
Carolingi, il più importante organismo statale dell’Europa;
·
il regno dei
Visigoti[14], nella Francia
occidentale e in Spagna, che fu quasi totalmente spazzato via nell’VIII
secolo dagli Arabi;
·
il regno
dei Vandali[15], in Africa settentrionale (Tunisia e
Algeria), che nel VI secolo fu abbattuto dai Bizantini nel
quadro dell’opera di ricostituzione dell’unità mediterranea da parte di
Giustiniano.
La violenta intrusione dei Germani apportò
al mondo occidentale nuovi costumi, nuovi istituti,
una diversa concezione del potere e della libertà personale e anche una nuova,
prorompente vitalità. Questi elementi
concorsero a dare alla civiltà europea la sua novità e la sua caratteristica di
varietà, di ricchezza di articolazione e di voci, che mancarono alla ben
più raffinata civiltà bizantina, che, al riparo da questa traumatica frattura col passato, venne esaurendosi in
se stessa, tanto che nei quasi
dieci secoli in cui sopravvisse all’Impero d’Occidente non creò nulla di
paragonabile a ciò che l’Europa produsse dal XIII al XV secolo.
b) L’Italia barbarica
– In Italia nacque il regno di Odoacre (476-493), di origine germanica, servì l’impero
romano sotto diversi capi militari, ma si ribellò nel 476. Uccise Oreste e
depose il figlio di questi Romolo Augustolo. Fu acclamato dalle truppe
barbariche e governò l’Italia finché fu assediato a Ravenna dal re degli
ostrogoti Teodorico, che lo fece uccidere.
Al regno di Odoacre seguì il regno degli Ostrogoti (493-533).
Gli Ostrogoti erano una popolazione germanica attestata nel III secolo d.C.
nella Russia meridionale. Legati agli unni tra IV e V secolo, si stanziarono in
seguito tra Pannonia e Norico, dove strinsero patti con l’Impero d’Oriente, che
nel 488 li dirottò verso l’Italia, sotto la guida di Teodorico, figlio e
successore di Teodomiro.
Vissuto a lungo alla corte bizantina come ostaggio, Teodorico,
tra il 489 e il 493, con l’appoggio dell’imperatore Zenone, conquistò l’Italia,
sconfiggendo Odoacre. Impostò una pacifica convivenza e collaborazione tra le
aristocrazie gota e latina incaricate rispettivamente dell’attività militare e
di quella amministrativa, perseguendo un progetto di egemonia sulle stirpi
germaniche insediate nei territori dell’impero, in concorrenza con le
aspirazioni politiche dei franchi e di Bisanzio. Questa ambiziosa politica ebbe
però fine con la sua morte. Già nei suoi ultimi anni egli era entrato in duro
contrasto con la gerarchia cattolica. La sua figura ebbe grande rilievo nelle
leggende germaniche medievali.
Gli Ostrogoti costituirono in Italia un regno autonomo con
capitale a Ravenna che resistette fino alla guerra devastante greco-gotica
(535-553).
La guerra greco-gotica fu
combattuta fra Bizantini ed Ostrogoti per il dominio sull’Italia. Per la
ricostruzione dell’impero, Giustiniano inviò nella penisola un’armata guidata
da Belisario, che riconquistò la Sicilia e Roma nel 536, ma solo dopo
molte difficoltà riuscì a prendere anche Ravenna nel 540 e a catturare il re
Vitige.
La guerra riprese sotto il nuovo re ostrogoto Totila nel 541,
che riconquistò tutto il territorio tranne Ravenna. Soltanto con l’arrivo del
generale Narsete nel 552 i bizantini riuscirono a sconfiggerlo e a ucciderlo,
battendo poi anche il successore Teia. Stermini, assedi e razzie ebbero
conseguenze disastrose per l’Italia.
Una più netta frattura
con la civiltà latina si ebbe con l’ultima invasione germanica, quella dei Longobardi del 568. Gli
eccidi, le razzie, le distruzioni che accompagnarono l’occupazione violenta, il protratto conflitto con i
Bizantini che avevano precedentemente
riconquistata l’Italia con la guerra greco-gotica; l’anarchia dei capi Longobardi, i duchi,
portarono l’Italia alle massima prostrazione.
Solo in seguito allo stabilizzarsi della situazione politica e della
conversione dei Longobardi al cattolicesimo, la condizione degli
Italiani migliorò. L’invasione dei Longobardi
e la loro incapacità di occupare tutta la penisola ebbero come
conseguenza la fine dell’unità politica dell’Italia.
I Longobardi erano una popolazione originaria della Germania
settentrionale, si insediò nell’area danubiana alla fine del V secolo. Dopo
aver brevemente partecipato come mercenari dei bizantini alla guerra
greco-gotica, nel 568 iniziarono l’invasione dell’Italia, conquistando, tra VI
e VII secolo, la pianura padana, la Toscana e l’area tra Spoleto e
Benevento; il territorio italiano fu così segnato da numerose fratture
territoriali tra le dominazioni longobarde e bizantine, divise anche dalle
differenze religiose.
Distrussero il vecchio ceto senatoriale ed esclusero dal potere
la popolazione romana, mentre probabilmente i due gruppi etnici si assimilarono
abbastanza rapidamente. Persero in breve tempo le caratteristiche di nomadismo,
si insediarono per tribù, guidate da duchi, con una continua tendenza a
distaccarsi dal potere regio. I re quindi, tra VI e VII secolo, operarono per affermare
la propria superiorità e creare uno stato unitario. In questo processo
rientrarono la creazione di una capitale stabile, Pavia, e la redazione
dell’editto di Rotari nel 643, prima legislazione scritta longobarda, che unì
consuetudini germaniche e alcuni accenni del diritto romano. Questa azione
unificatrice del regno non ebbe mai pieno successo e fu in ogni caso limitata
alla pianura padana e alla Toscana, mentre i ducati meridionali mantennero
un’ampia autonomia.
Si realizzò nel contempo un avvicinamento politico e culturale
al mondo romano e al papato, che, pur tra grandi resistenze, fu sancito nella
prima metà del VII secolo dalla conversione al cattolicesimo.
Tuttavia continuarono, nel secolo successivo, i contrasti tra il
regno, che aspirava alla conquista del Lazio, e il papato, che iniziava in
questo periodo a costruire una propria dominazione politica attorno a Roma. Fu
decisivo, a metà dell’VIII secolo, l’intervento militare del re franco Pipino,
che obbligò i longobardi a restituire al papato alcune terre conquistate.
Questo intervento franco fu una premessa dell’invasione di Carlo Magno nel 774,
che segnò la fine del regno longobardo. Restò indipendente, seppur formalmente
sottomesso ai Carolingi, il ducato di Benevento, dove si realizzarono autonomi
sviluppi sociali e politici fino alla conquista normanna.
c) L’Impero Bizantino – L’Impero Romano d’Oriente[16],
più comunemente chiamato Impero Bizantino,
riuscì a sostenere vittoriosamente l’urto dei popoli slavi e germanici e, nell’VIII secolo, quello ancor più pericoloso degli
Arabi che assediarono ben due volte Costantinopoli. Le ragioni di questa sua
resistenza vanno trovate nella maggiore
solidità della sua economia urbana sostenuta da un consistente traffico commerciale, reso sicuro dal dominio bizantino del mare,
e da una produzione industriale cittadina. Queste condizioni assicurarono
stabilità per secoli al bisante[17],
la moneta bizantina, indice di
una situazione finanziaria sana.
Il punto di partenza della civiltà bizantina fu proprio l’Impero
romano in crisi. La nuova capitale, trasferita nell’oriente mediterraneo nel
330 d.C., era stata costruita sul modello dell’Urbe e fu proprio Costantinopoli[18] a
divenire la novella Roma tenendo così in vita fino al XV secolo, pur nelle
sostanziali differenze ideologiche, le grandi tradizioni ereditate da Roma.
Il trasferimento della capitale dell’Impero a Bisanzio fu dunque
un avvenimento determinante: alla nuova capitale si volle conferire l’aspetto
dell’antica Roma, perciò furono intrapresi grandiosi lavori per i quali
arrivarono pittori, scultori, architetti dalla Siria e da altre province
dell’Asia Minore. La nuova capitale si arricchì in breve di nuove mura, di una
grande piazza e di molti edifici pubblici. Nacque dunque una Roma novella, in cui
Costantino volle conciliare il potere imperiale e quello della religione
cristiana, da poco riconosciuta ufficialmente.
Verso il VI secolo, ad opera
dell’Imperatore Giustiniano[19] (527-565),
Bisanzio tentò di ricostituire
l’unità politica del Mediterraneo e riuscì a riconquistare le coste
settentrionali
dell’Africa, le coste meridionali della Spagna, l’Italia e le sue isole,
strappandole rispettivamente
ai Vandali, ai Visigoti e agli Ostrogoti.
La guerra per la conquista dell’Italia fu lunga (535-553) e rovinosa e
la dominazione bizantina che la seguì, interrotta dall’invasione dei Longobardi nel 568, fu caratterizzata da rapine
e vessazioni. Ciò nonostante, dove i Bizantini resistettero, ricacciando i Longobardi, e in particolare
a Ravenna e a Roma, la dominazione bizantina mantenne un legame con l’Impero
d’Oriente che rappresentava l’organizzazione statale, il mondo civile, la
cultura antica.
Bisanzio, per quasi dieci secoli, assolse il compito di baluardo
della cristianità contro l’Islam,
contrappose alla rozza Europa un centro di splendida raffinata civiltà,
operò come agente dì diffusione
del Cristianesimo tra i popoli slavi, conservò le testimonianze della letteratura e della scienza greca che i suoi
dotti portarono in Italia ai
letterati umanisti che si misero alla loro scuola per riapprendere il greco.
d) L’avanzata dell’Islam - Tra il
VII e l’VIII secolo l’Europa fu sul punto di essere soffocata dall’irrompente espansione dell’Islam.
Le tribù dell’appartata e arretrata penisola araba, unificate politicamente
dalla predicazione di Maometto[20] creò
come elemento propulsivo dell’Islam l’esaltazione della fede e della legge musulmana, che dovevano essere propagate
con la guerra santa[21], che
garantisce il paradiso a chi muore
combattendo contro gli infedeli.
Nel 632, alla morte di Maometto, fu creato l'istituto del califfato[22] che, tra il 632 e il
661, annoverò quattro successori politici di Maometto e che, per la sua
strutturazione tradizionale è ancor oggi chiamato ortodosso. Nel
corso di quest'epoca furono realizzate le prime conquiste della
Siria-Palestina, dell'Egitto, della Mesopotamia e di parte della Persia.
Dal 661 al 750 il califfato fu gestito invece dal clan omayyade della tribù meccana dei
Quraysh.
Dal 750 al 1258 il califfato fu appannaggio del clan hascemita degli Abbasidi, più
strettamente imparentato al Profeta.
Già dal IX secolo però il califfato si disintegrò per le enormi
dimensioni raggiunte e per le pressioni regionalistiche. Nacque una lunga serie
di Stati dinastici che furono in realtà estremamente vivaci da un punto di
vista sociale, economico e culturale.
Galvanizzati da questo fanatismo religioso, gli Arabi
si lanciarono alla conquista dei più
civilizzati Paesi confinanti: ad oriente sino all’Indo nel 711, ad occidente
assoggettarono le coste settentrionali dell’Africa, dominio bizantino, per
passare, attraversato lo stretto di Gibilterra nel 711, alla conquista della
Spagna visigota e puntare, superati i Pirenei, al cuore del regno
dei Franchi. Qui li fermò, sconfiggendoli a Poitiers, Carlo Martello[23] nel 732. Quattordici anni prima era
fallito, grazie alla resistenza dell’Imperatore bizantino Leone III
Isaurico[24], il tentativo
arabo di prendere Costantinopoli (717-18).
La cristianità era riuscita a sottrarsi
all’attanagliamento dell’Islam, che tuttavia conseguì ancora notevoli
successi, come la conquista delle grandi isole che fece del Mediterraneo un grande lago musulmano, e continuò per secoli
a costituire una minaccia per le pericolose incursioni contro i paesi costieri. Però nell’Europa occidentale gli Arabi non
riuscirono più ad avanzare, anzi furono, sia pure lentamente, ricacciati.
Il dominio arabo, stabilitosi per alcuni secoli nel bacino
del Mediterraneo (Spagna, Africa
settentrionale, Sicilia, Egitto), vi consentì la fioritura di una delle più
elevate civiltà che il mondo
abbia conosciuto. In essa confluivano culture diverse che gli Arabi avevano assimilato nel corso delle loro
conquiste: elementi della civiltà greca diffusasi nel periodo ellenistico in Asia minore e nel Medio
Oriente ed elementi delle culture cinesi
e indiane. Ne risultò una civiltà originale che diede i suoi frutti sia
nell’ambito delle conoscenze
teoriche (filosofia, matematica, astronomia) sia di quelle applicate (medicina, alchimia), con un rapido progresso
delle tecniche, particolarmente nel campo dell’agricoltura, ma anche in quello della lavorazione delle stoffe,
della carta, del cuoio, della seta, delle armi.
Nel campo artistico gli Arabi si segnalarono
soprattutto nell’architettura,
come testimoniano fra l’altro l’Alhambra di
Granada e l’Alcazar di Siviglia.
La Sicilia, sotto la dominazione araba protrattasi fino al 1072
quando l’isola fu occupata dai Normanni, diventò una delle regioni più
progredite del mondo occidentale: la tecnica
applicata all’agricoltura ne aveva fatto un unico grande giardino; Palermo fu
in quell’epoca una delle città più popolate e più raffinate del
mondo.
Lo splendore della civiltà araba tramontò
quando agli Arabi si sostituirono i Turchi, popoli
di razza mongolica che, convertiti all’Islam nell’VIII secolo, a partire dal
Mille conquistò progressivamente i territori occupati dagli Arabi.
I due poteri dalle Lettere di Gelasio I
Supplico
la tua pietà di non considerare arroganza l’ubbidienza ai princìpi divini. Non
si dica di un imperatore romano, ti prego, che egli giudichi ingiuria la verità
comunicata al suo intendimento. Due sono infatti i poteri, o augusto
imperatore, con cui questo mondo è principalmente retto: la sacra autorità dei
pontefici e la potestà regale. Tra i due, l’importanza dei sacerdoti è tanto
più grande, in quanto essi dovranno rendere ragione al tribunale divino anche
degli stessi reggitori d’uomini. Tu sai certo, o clementissimo figlio, che, pur
essendo per la tua dignità al di sopra degli uomini, tuttavia devi piegare
devotamente il capo dinanzi a coloro che sono preposti alle cose divine, e da
loro aspettare le condizioni della tua salvezza; e nel ricevere i santissimi
sacramenti e nell’amministrarli come compete, tu sai che ti devi sottoporre
agli ordini della religione, e non avere funzioni di capo, e che pertanto in
queste questioni tu devi essere sottomesso al giudizio degli ecclesiastici e
non volere che essi siano obbligati alla tua volontà. Se infatti anche gli
stessi sacerdoti ubbidiscono alle tue leggi, per quel che riguarda l’ordine
pubblico, sapendo che l’impero ti è stato dato per disposizione divina, e
perché non sembri che persino nelle cose puramente materiali essi si oppongano
a un giudicato, che esula dalla loro giurisdizione; con che sentimento, io ti
chiedo, conviene che tu obbedisca a coloro che sono stati assegnati ad
amministrare i divini maestri? Dunque, come sui pontefici incombe il non lieve
pericolo d’aver taciuto ciò che si conviene, in rapporto al culto della divinità,
così grave pericolo c’è per coloro – Dio non voglia – che serbano un
atteggiamento di disprezzo, quando debbono ubbidire. E se conviene che i cuori
dei fedeli siano sottomessi a tutti i sacerdoti in genere, che con giustizia
amministrano le cose divine, quanto più si deve dar consenso al capo della sede
apostolica, a colui che la somma Divinità volle superiore a tutti i sacerdoti,
e che sempre dopo la pietà di tutta la Chiesa onorò come tale?
12. La Chiesa - Dopo l’editto di tolleranza emanato
dall’Imperatore Costantino
a Milano nel 313, la vita della Chiesa era stata turbata dalle lotte tra le
diverse confessioni. La funzione religiosa della Chiesa richiese che essa si desse una struttura gerarchica,
amministrativa, politica ed economica.
Infatti il Papato ebbe sempre la necessità di gestire i
rapporti con i re, gli Imperatori, ma
anche con i signori a livello
locale.
Per quel che riguarda l’Italia, il
contrasto più importante fu quello fra cattolicesimo
e arianesimo. Non
si trattava di una semplice contrapposizione teologica in cui i cattolici
affermavano la divinità di Cristo, figlio di Dio; e gli ariani vedevano
in Cristo esclusivamente la
natura umana, ma di un contrasto politico:
·
i
sostenitori del cattolicesimo
erano anche i sostenitori della tradizione romana e dell’autonomia della Chiesa
nei confronti dell’Imperatore,
·
l’arianesimo,
invece, che aveva i suoi seguaci particolarmente fra le truppe germaniche,
tendeva a sottoporre la Chiesa all’Imperatore come strumento politico.
La vittoria del cattolicesimo
sull’arianesimo significò perciò il rafforzarsi dell’autonomia della Chiesa di Roma, così che,
quando l’Impero d’Occidente cadde,
la Chiesa non fu coinvolta nella rovina.
Mentre l’assetto economico-culturale
dell’Occidente diventava sempre più precario per la debolezza o
l’assenza del potere politico, la Chiesa
divenne sempre più un’istituzione
autonoma, contemporaneamente erede dell’antica organizzazione civile e maestra dei barbari.
Già nel VI secolo la Chiesa di Roma era il maggior proprietario
terriero dell’Occidente; dalle sue proprietà
traeva i guadagni necessari alle opere di carità, alla
sovvenzione delle Chiese locali più
povere e al mantenimento della corte che si andava formando a Roma attorno al papa.
La corte papale, composta dai cardinali, dagli ecclesiastici
che amministravano i beni e
svolgevano funzioni
diplomatiche, da intellettuali che scrivevano
i documenti ufficiali, fu definita Curia
romana. Attraverso questa organizzazione i papi riuscirono a far riconoscere la loro diretta proprietà
sul Patrimonio
di San Pietro (le
terre che si estendevano
dal Lazio fino alla Romagna, attraverso
l’Umbria e le Marche), nucleo del
futuro Stato pontificio[25];
la Curia gestì anche
i difficili rapporti con l’Impero bizantino e il vescovo di
Costantinopoli, che non riconosceva
l’autorità del papa di Roma, fino
alla definitiva rottura.
La Curia, secondo le scelte dei papi,
favorì anche
le alleanze di Roma con i vari re della
cristianità, molti dei quali accettavano di essere formalmente vassalli del papa in cambio del riconoscimento ufficiale del loro potere.
Fruendo di questo duplice prestigio, nelle
città, durante i regni romano-barbarici, la Chiesa, in quanto erede del sistema politico e amministrativo creato da Roma e depositaria del patrimonio culturale
latino-cristiano, assunse anche il potere civile, essendo l’unica autorità
sopravvissuta cui spettava il compito di fronteggiare la situazione storica, nata dal mutato rapporto tra latini e barbari.
Con i Longobardi il governo delle città fu
affidato ai duchi, ma nella realtà costoro furono soltanto i
comandanti delle
forze militari ivi stanziate ed il potere civile restò prevalentemente in mano
al vescovo, soprattutto dopo la conversione dei Longobardi al cattolicesimo ad
opera particolarmente
della regina Teodolinda[26] all’inizio VII secolo.
Il duplice potere, religioso e secolare, nelle mani degli ecclesiastici,
portò alla mondanizzazione della Chiesa, fenomeno che si aggravò con l’età feudale, quando
i vescovi, gli abati e i priori
dei conventi assunsero anche formalmente la veste di signori.
Un’ulteriore causa della degradazione della
Chiesa fu la costituzione dello Stato pontificio che si sviluppò dalla donazione
del castello di Sutri[27],
fatta al pontefice dal re longobardo
Liutprando nel 728. Trasformatosi il pontefice in un sovrano
temporale, la cattedra
di Pietro divenne l’oggetto di sfrenate e sanguinose lotte tra le grandi
famiglie romane.
La degenerazione della Chiesa toccò il fondo tra i secoli IX e X, la
cosiddetta età
ferrea del Papato.
Per tutto l’alto Medioevo la Chiesa ebbe un vero e proprio monopolio sulla cultura: fino al VII secolo gli
intellettuali erano quasi tutti uomini di
Chiesa e solo gli ecclesiastici erano
in grado di leggere, scrivere,
studiare e insegnare in strutture
scolastiche, riservate a chi aveva già scelto la vita religiosa. La Chiesa ebbe quindi il controllo della trasmissione del
sapere, in gran parte affidata all’attività degli ordini
monastici e delle abbazie.
Anche quando, dal IX secolo, le richieste di istruzione si allargarono e provenivano
da strati del mondo laico, fu soprattutto la
Chiesa che rispose alle nuove esigenze con
la creazione di scuole annesse alle sedi
vescovili e alle parrocchie.
Il
monaco fugga l’ozio dalla
Regola
di San Benedetto da Norcia
L’ozio è nemico
dell’anima, e perciò i fratelli in certe ore devono essere occupati nel lavoro
manuale, in altre ore nella lettura divina. Di conseguenza riteniamo che
entrambe le occupazioni siano ripartite nel tempo con il seguente ordinamento:
da Pasqua fino alle calende di ottobre, uscendo al mattino facciano i lavori
necessari dalla prima fin quasi all’ora quarta. Poi, dall’ora quarta fino
all’ora in cui faranno la sesta, attendano alla lettura. Dopo la sesta, alzandosi
da tavola si riposino nei loro letti in assoluto silenzio o, se qualcuno vorrà
leggere per conto suo, legga in modo da non disturbare nessuno. Si faccia nona
un poco in anticipo, verso la metà dell’ora ottava, e di nuovo lavorino a
quello che c’è da fare sino al vespro. Se le esigenze del luogo o la povertà
richiedono che essi si occupino personalmente di raccogliere le messi, non se
ne affliggano, giacché allora sono veramente monaci, se vivono del lavoro delle
proprie mani, come i nostri padri e gli apostoli. Tutto però sia fatto con
misura, avendo riguardo per i deboli. Invece dalle calende di ottobre
all’inizio della quaresima attendano alla lettura fino a tutta l’ora seconda.
Dopo l’ora seconda si faccia terza e fino a nona tutti eseguano il lavoro ché
viene loro assegnato. Dato poi il primo segnale dell’ora nona, ciascuno si
stacchi dal proprio lavoro e stia pronto finché suonerà il secondo segnale.
Dopo il pasto attendano alle proprie letture o ai salmi. Nei giorni di
quaresima, dal mattino sino a tutta l’ora terza attendano alle proprie letture
e sino a tutta l’ora decima eseguano il lavoro che è loro assegnato. In questi
giorni di quaresima tutti ricevano dalla biblioteca un libro a testa e lo
leggano ordinatamente per intero. Questi libri devono essere dati all’inizio
della Quaresima.
13. I monasteri
benedettini –
Importanti centri di resistenza alla degradazione della vita civile furono i monasteri
benedettini che si diffusero in tutta Europa a partire dalla fondazione del primo a Montecassino nel 528 ad opera di San
Benedetto da Norcia (480-547).
La regola[28] che
egli dettò per i suoi monaci che costituivano una comunità razionalmente
organizzata, imponeva, accanto alla preghiera e alla meditazione, il lavoro manuale
e intellettuale.
Dall’inizio del VI secolo la società intera fu modificata dall’imponente diffusione degli ordini
monastici che
fondarono in tutta Europa centinaia di conventi, dove si radunarono grandi masse di monaci.
Queste comunità si
collocarono in genere nelle campagne, inizialmente su terreni loro concessi da feudatari, vescovi, re e papi; ben presto divennero i centri più attivi non solo dal punto di vista religioso, ma
anche economico. I monasteri
benedettini crearono infatti organizzate e potenti aziende agricole, alle quali si dovette il
dissodamento e la bonifica di terre strappate alle selve e alle paludi.
Molti monasteri crebbero enormemente, sia per il
dissodamento di terreni resi
coltivabili, sia per le continue donazioni
e concessioni fatte dai signori locali;
perciò fu necessaria una rigida
organizzazione gerarchica, in cima alla quale si pose l’abate, il religioso
che aveva il governo della
comunità e dei suoi beni che, nel complesso, presero il nome di abbazia. Alcune di queste giunsero a controllare territori vasti come grandi feudi e i loro abati esercitarono un potere pari
a quello di baroni o marchesi.
Accanto alla chiesa
abbaziale e al convento, sorsero
molti altri edifici: biblioteche, magazzini, botteghe artigianali e anche veri opifici per la fabbricazione di merci. Molte abbazie
ebbero anche un’importanza strategica e
furono fortificate.
I monasteri furono i principali luoghi della conservazione e della trasmissione del sapere; i più importanti avevano una biblioteca e provvedevano,
nello scriptorium, alla trascrizione e allo studio dei manoscritti
di testi sacri, ma anche di opere profane.
I monaci che operavano nello scriptorium
avevano mansioni distinte
ed erano spesso affiancati da amanuensi salariati; diverse erano le competenze e le responsabilità
culturali poiché la scelta dei testi da
ricopiare era di fatto una selezione delle
opere che si ritenevano degne di essere tramandate.
Furono oasi in cui si salvò l’ideale di ordine, di vita regolata
dalla legge, che costituiva la più cospicua eredità della cultura romana in un
mondo in preda al disordine e alla
violenza.
I monaci, più dei vescovi cittadini,
ebbero il
merito della conversione delle popolazioni rurali ancora pagane, favoriti dalla vicinanza ai contadini e
dalla maggior comprensione per la loro cultura e il monastero, con il declino
del primato della città,
prese il posto del vescovado come centro della vita religiosa e dell’organizzazione ecclesiastica; nelle
biblioteche dei conventi, infine, sopravvissero
i documenti della cultura antica.
I monasteri ebbero una funzione di primaria importanza per la
circolazione non solo delle idee, ma anche delle tecniche e dei linguaggi figurativi
in tutto l’Occidente.
Nelle isole britanniche, dove dalla metà del V
secolo si erano insediati gli angli e i sassoni, ebbe un ruolo determinante,
per il tramandarsi delle tradizioni letterarie antiche e per la produzione di
opere miniate, l’apostolato dei monaci irlandesi; fra questi spicca la figura
di San Colombano (540-615), infaticabile
missionario e viaggiatore che fondò, fra l’altro, l’abbazia di Bobbio, centro
propagatore di spiritualità ma anche di copiatura e decorazione di straordinari
codici miniati.
I frequenti spostamenti dei monaci irlandesi e anglosassoni da
un monastero all’altro della Britannia e del continente favorirono gli scambi e
gli influssi reciproci fra i più attivi centri scrittori del continente e
quelli delle isole britanniche. I monasteri divennero un luogo d’incontro e
di scambio culturale tra monaci che
passavano da un’abbazia ad un’altra
e nei luoghi di sosta dei grandi pellegrinaggi.
Rinasce
l’Impero dalla Vita di Leone III, del Pontificale romano
Dopo qualche tempo lo stesso grande re, essendosi recato nella basilica
del beato Pietro Apostolo dove fu ricevuto con grande onore, fece riunire nella
medesima chiesa arcivescovi, vescovi, abati e tutta la nobiltà dei Franchi e
dei Romani. E sedendo entrambi, tanto il grande re che il pontefice, fecero
sedere anche i santissimi arcivescovi, vescovi e abati, mentre gli altri
sacerdoti e gli ottimati franchi e romani rimasero in piedi, affinché tutti
conoscessero i crimini che erano stati addebitati all’almo pontefice. Udendo
ciò, tutti gli arcivescovi, vescovi e abati dissero all’unanimità: “Noi non
osiamo giudicare la sede apostolica, che è alla testa di tutte le chiese.
Infatti siamo noi ad essere giudicati da essa e dal suo vicario, mentre essa
non sottoposta al giudizio di alcuno, secondo l’antica usanza. Ma poiché lo
stesso sommo pontefice lo ha stabilito, secondo i canoni obbediremo”. Disse
allora il venerabile presule: “Seguo le orme dei miei predecessori e sono
pronto a purificarmi di tali false accuse che, con malvagità, sono sorte
repentinamente contro di me”. Il giorno seguente, nella stessa basilica dal
beato Pietro, alla presenza tutti gli arcivescovi, i vescovi, gli abati, di
tutti i Franchi che erano al seguito dello stesso grande re e di tutti i
Romani, il venerabile prelato e pontefice, abbracciando i quattro santi vangeli
di Cristo, davanti a tutti salì sull’ambone e sotto giuramento disse con voce
chiara: “Non so nulla di questi falsi crimini che mi attribuirono i Romani che
mi hanno ingiustamente perseguitato, e so di non aver fatto tali cose”. Fatto
ciò, tutti gli arcivescovi, i vescovi, gli abati e tutto il clero, pronunciate
le litanie, innalzarono lodi a Dio e alla nostra signora Maria madre di Dio
sempre vergine e al beato Pietro, principe degli apostoli e di tutti i santi di
Dio.
Dopo di che, essendo arrivato il giorno del Natale di Nostro Signore
Gesù Cristo, si riunirono tutti insieme di nuovo nella medesima basilica del
beato Pietro apostolo. E allora il venerabile e benefico presule incoronò
[Carlo] con le sue mani con una preziosissima corona. Allora tutti i fedeli
Romani, vedendo quanta protezione e amore aveva avuto per la santa Chiesa
romana e per il suo vicario, per volontà di Dio e del beato Pietro possessore
delle chiavi del Regno dei Cieli esclamarono all’unanimità con voce
altisonante: “A Carlo, piissimo augusto coronato da Dio, grande e pacifico
imperatore, vita e vittoria!” Fu detto per tre volte, davanti alla sacra
confessione del beato Pietro apostolo, invocando contemporaneamente parecchi
santi; e così da tutti fu fatto imperatore dei Romani. Subito il santissimo
sacerdote e pontefice unse re il suo eccellentissimo figlio Carlo con l’olio
santo, nello stesso giorno del Natale di Nostro Signore Gesù Cristo.
14. Il Sacro Romano Impero - Il regno dei Franchi, che aveva
riacquistato la sua unità e potenza
grazie all’opera dei fondatori della dinastia carolingia[29] (Pipino
di Heristal e Carlo
Martello, il vincitore degli Arabi), fu, nei secoli VIII e IX, il vero centro
ove si elaborò
la nuova cultura medioevale.
L’alleanza fra la monarchia franca e il
Papato, che fece dei Franchi la
spada della Santa Sede e i difensori e organizzatori della cristianità, stette
alla base della nascita di quella che fu, accanto alla Chiesa, la massima istituzione medioevale: il Sacro Romano Impero[30].
Esso fu fondato da Carlo Magno[31] (742-814)
con l’intento di ricostituire, al di sopra dei singoli regni, l’unità politica
del continente. In realtà
esso era limitato nella sua estensione a una piccola parte dell’odierna Europa: comprendeva
·
il
regno dei Franchi, il regno dei Longobardi, di cui Carlo Magno assunse la
corona dopo averli sconfitti,
·
il
territorio dei Sassoni assoggettati,
·
al
di là dei Pirenei, la Marca spagnola, baluardo contro gli Arabi che Carlo
aveva respinto dalla
Francia.
L’Impero però era universale nell’intenzione, nel senso che esso doveva estendersi a tutta la cristianità, i cui
confini dovevano coincidere con quelli dell’umanità.
Lo Stato che così nasceva doveva rappresentare, nel programma
di Carlo Magno, la restaurazione dell’antico Impero romano,
alla cui tradizione Carlo si ricollegava come erede dei Cesari. In
realtà esso ne differiva profondamente: era infatti un agglomerato di popoli
con leggi e forme amministrative diverse,
la cui unità era costituita esclusivamente dalla comune fede cattolica che giustificava l’appellativo
di sacro con cui veniva denominato.
L’Imperatore era la spada che difendeva il Cristianesimo contro
gli infedeli i quali erano assoggettati e convertiti a forza, come i Sassoni, o
ricacciati al di là dei Pirenei fino all’Ebro, come gli Arabi musulmani.
Calo Magno fu particolarmente attivo nella promozione delle arti
e della cultura letteraria, filosofica e scientifica, al punto che si è
parlato, per gli anni del suo regno, di una vera e propria rinascita carolingia. Essa si appoggiò non tanto ai centri urbani,
quanto a istituzioni ecclesiastiche, soprattutto monasteri (spesso sedi di
celebri scriptoria e luoghi di istruzione per i figli dei nobili).
Parteciparono a quest’opera di diffusione della cultura intellettuali
provenienti da diverse parti dell’impero, che furono spesso anche consiglieri
del sovrano, considerati più tardi membri di una cosiddetta schola
palatina fra gli altri il diacono sassone Alcuino, Paolo Diacono, il
poeta visigoto Teodulfo, il teologo di origine italiana Paolino, il franco
Eginardo).
Destinato a restare per secoli simbolo dell’unità dei cristiani
e dell’Europa e simbolo della lotta contro gli infedeli, Carlo Magno poté
trasmettere il suo potere al figlio Ludovico I il Pio che gli succedette come
unico imperatore nell’814.
Dal punto di vista culturale, l'epoca di Carlo Magno, di suo
figlio Ludovico il Pio e dei suoi nipoti è conosciuta con il nome di rinascimento
carolingio. L'insegnamento classico, particolarmente quello del latino, fu
rivalorizzato, dopo essere stato snaturato e trascurato alla fine del regno dei
Merovingi. Tuttavia, la lingua latina era ormai quasi esclusivamente la lingua
del clero, mentre negli ambienti militari era preferito il francone: questa
evoluzione inevitabile fa del latino una lingua morta e fa nascere gli antenati
delle lingue nazionali odierne: il romanico
e il teutonico, rispettivamente del
francese e del tedesco.
La rinascita europea promossa dai Carolingi influenzò anche la
sfera artistica, determinando il recupero del linguaggio classico. Nelle grandi
chiese abbaziali, si affermò una nuova tipologia basilicale a tre navate con
abside, cripta e facciata tra torri, mentre nella Cappella Palatina ad Aquisgrana prevalse la pianta centrale di
derivazione bizantina.
Il giuramento di
Strasburgo da Le Storie
di Nitardo
Dunque, il 14 febbraio Ludovico e Carlo s’incontrarono
nella città chiamata un tempo Argentaria, oggi popolarmente Strasburgo, e si
scambiarono i giuramenti qui di seguito riportati, Ludovico in lingua romanica
e Carlo in lingua tedesca. E prima di giurare, arringarono come segue le
rispettive schiere, l’uno in lingua tedesca, l’altro in lingua romanica.
Ludovico, in quanto maggiore d’età, per primo prese la parola in questi
termini: “Voi sapete quante volte, dopo la scomparsa di nostro padre, Lotario
ha cercato di eliminare me e questo mio fratello, perseguitandoci a morte.
Poiché né la qualità di fratelli, né la religione di cristiani, né qualsivoglia
compromesso compatibile con la giustizia hanno potuto giovare a che tra di noi
ci fosse la pace, siamo stati finalmente costretti a rimettere la soluzione al
giudizio di Dio onnipotente, pronti a inchinarci al suo verdetto quanto ai
diritti di ciascuno di noi. il risultato, come sapete, è che per misericordia
di Dio noi siamo riusciti vincitori, ed egli, vinto, si è dovuto ritirare con i
suoi dove ha potuto. Dopo ciò, tuttavia, stretti dall’amore fraterno e mossi
altresì a compassione per il popolo cristiano, non abbiamo voluto perseguitarli
e distruggerli, ma soltanto abbiamo intimato che siano rispettati in futuro i
diritti a ciascuno già in passato spettanti. Malgrado ciò, egli, non contento
del giudizio di Dio, non cessa dal rinnovare ostilità armate contro di me e
contro questo mio fratello, e porta ancora la desolazione tra il nostro popolo
con incendi, saccheggi, massacri. Perciò, costretti dalla necessità, noi ci
siamo oggi incontrati, e poiché sospettiamo che voi possiate dubitare della
stabilità dei nostri sentimenti di fede e fratellanza, abbiamo deciso di
scambiarci questo solenne giuramento in vostra presenza. Ciò non facciamo
tratti da una qualsiasi iniqua cupidigia, ma per essere più sicuri del comune
profitto, se Dio con il vostro aiuto ci conceda tranquillità. Se poi, che a Dio
non piaccia, io osassi violare il giuramento che presterò ora a mio fratello,
ciascuno di voi sia sciolto dalla sudditanza nei miei riguardi e dal giuramento
che mi avete prestato”.
E dopo che Carlo ebbe ripetuto le medesime dichiarazioni in lingua
romanica, Ludovico, in quanto maggiore d’età, per primo giurò osservanza al patto,
in questi termini:
“Pro Deo amur et pro christian poblo et nostro commun salvament, d’ist
di in avant, in quant Deus savir et podir me dunat, si salvarai eo cist meon
fradre Karlo et in aiudha et in cadhuna cosa, si cum om per dreit son fradra
salvar dift, in o quid il mi altresi fazet et ab Ludher nul plaid nunquam
prindrai, qui, meon vol, cist meon fradre Karle in damno sit.”
Quando Ludovico ebbe terminato, Carlo ripeté alla lettera il medesimo
giuramento in lingua tedesca, in questi termini:
“In Godes minna ind in thes
christianes folches ind unser bedhero gehaltnissi, fon thesemo dage frammordes,
so fram so mir Got gewizci indi mahd furgibit, so haldih thesan minan bruodher,
soso man mit rehtu sinan bruher scal, in thiu thaz er mig so sama duo, indi mit
Ludheren in nohheiniu thing ne gegango, the minan willon, imo ce scadhen
werdhen.”
Il giuramento che poi prestò il popolo dell’uno e dell’altro, ciascuno
nella propria lingua, in lingua romanica suona così:
“Si Lodhuvigs sagrament que san fradre Karlo jurat conservat et Karlus,
meos sendra, de suo part non l’ostanit, si io returnar non l’int pois, ne io ne
neuls cui eo returnar int pois, in nulla aiudha contra Lodhuwig nun li iu er”.
E in lingua tedesca:
“Oba Karl then eid then er sinemo bruodher Ludhuwige gesuor geleistit,
indi Ludhuwig, min herro, then er imo gesuor forbrihchit, ob ih inan es
irwenden ne mag, noh ih noh thero nohhein, then ih es irwenden mag, widhar
Karle imo ce follusti ne wirdhit”.
Terminato ciò, Ludovico si diresse verso Worms seguendo il Reno e
passando da Spira, Carlo seguendo i Vosgi e passando da Wissenburg.
15. Il trattato di Verdun: la nascita
dell’Europa -
Alla morte di Carlo Magno l’Impero fu travagliato da un seguito di guerre fra gli eredi per la
successione. Un momento storicamente
importante fu il trattato di
Verdun dell’843, stipulato dai tre figli
di Ludovico il Pio, fu l’esito della sconfitta di Lotario a Fontenoy nell’841.
L’accordo istituzionalizzò lo smembramento dell’impero
carolingio: Lotario ebbe il titolo imperiale e una fascia verticale di
territori dal Reno al Rodano e all’Italia, ma fu stretto a occidente da Carlo
il Calvo e a oriente da Ludovico il Germanico.
Questo dava origine ai primi tre stati autonomi che avrebbero
costituito il nucleo della futura Europa.
L’Europa, nuovo organismo politico-culturale, per quanto debole,
divisa da discordie e minacciata da forze esterne, avendo ricacciato gli Arabi,
si era assicurata la sopravvivenza e la
possibilità di espansione.
Il Sacro Romano Impero di nazione franca scompariva
definitivamente con la deposizione
di Carlo il Grosso nell’887.
I tre regni di Francia, Germania, Italia,
iniziavano una vita autonoma che,
per l’Italia, fu caratterizzata da continue lotte fra i grandi feudatari per la conquista della corona, fino a che
Ottone di Sassonia, re di Germania, cinse la corona del regno d’Italia nel 961 e si fece incoronare
Imperatore nel 962, restaurando il Sacro Romano Impero, ma
questa volta di nazionalità germanica.
Verso il
feudalesimo dalle Storie
di Rodolfo il Glabro
Dunque, i discendenti di quella famiglia furono a lungo re o imperatori sia in
Italia che in Francia, fino all’ultimo loro re, Carlo il Semplice. Costui aveva
tra i notabili del suo regno un tale di nome Eriberto di Vennandois, di cui
aveva tenuto a battesimo un figlio, e che certamente per le sue doti di astuzia
avrebbe potuto essere sospetto al re, se non fosse intervenuto
contemporaneamente un inganno ben architettato. Eriberto aveva meditato di far
cadere il suo re in un tranello, col pretesto di un incontro per trattare un
certo affare, in modo da poterlo far venire senza sospetti in un suo castello,
come poi avvenne, e gettarlo in catene in una prigione. Da alcuni, tuttavia,
era stato dato al re il consiglio di comportarsi con molta prudenza nei
confronti di Eriberto, per non cadere nel suo inganno. Mentre il re, che era
uomo portato a credere, in base a questa notizia aveva deciso di diffidare di
Eriberto, accadde che un giorno costui giungesse con suo figlio senza alcun
imbarazzo al palazzo reale. Alzatosi, il re lo baciò ed egli prostrandosi
ricevette il bacio del sovrano. Poi il re baciò anche il figlio; ma il giovane,
che pure era a conoscenza dell’inganno, ma non era ancora abituato a fingere,
stava eretto e non prestava il dovuto omaggio. Il padre, che gli era a fianco e
lo aveva visto, gli diede con la mano un forte colpo sul collo, dicendogli:
«Non si può ricevere il bacio di un signore e di un re senza piegare il corpo.
Ricordalo!». Il re e tutti i presenti osservarono questa scena, e si convinsero
che Eriberto era estraneo al tradimento e all’inganno contro il sovrano.
Eriberto, vedendo il re riconciliato nei suoi confronti, più caldamente lo
pregò di recarsi da lui per decidere su quell’affare, come già prima gli aveva
chiesto. Subito il re promise di recarsi dove Eriberto avesse voluto. Stabilito
il giorno, Carlo giunse nel luogo dove Eriberto lo aveva pregato di andare,
facendosi scortare come prova d’amicizia solo da un piccolo drappello di soldati.
Fu ricevuto con straordinari onori, ma il giorno seguente Eriberto comandò,
come se si trattasse di un ordine del re, a tutti coloro che avevano scortato
il sovrano di tornarsene a casa, dato che egli stesso con i suoi era in grado
di garantire la protezione del re. Ascoltate le assicurazioni di Eriberto,
quelli se ne andarono senza rendersi conto di lasciare prigioniero il loro
sovrano. Eriberto lo tenne imprigionato fino al giorno della sua morte.
Re Carlo aveva avuto un figlio, Ludovico che allora era ancora un ragazzo e che
quando conobbe la sorte del padre fuggì oltre il Reno, dove rimase fino all’età
adulta.
Nel frattempo i maggiorenti di tutto il regno elessero come sovrano
Ludovico, figlio di quel Carlo di cui abbiamo già parlato, e lo unsero con il
crisma dei re riconoscendogli il potere di regnare su di loro per diritto
ereditario. Eriberto di Vermandois, infatti, aveva già trovato una morte
crudele: quando, tormentato continuamente dal male, era ormai prossimo alla
fine e i suoi congiunti lo interrogavano sia per la salvezza della sua anima
sia per conoscere le disposizioni che intendeva lasciare riguardo alla sua
famiglia e al suo patrimonio, non faceva altro che ripetere queste parole:
«Fummo dodici che giurando accettammo di tradire Carlo», e morì ripetendo più
volte questa frase.
Ludovico, poi, ebbe da Gerberga, vedova del duca di Lorena Gisleberto,
un figlio che chiamò Lotario. Riconosciuto re, Lotario, che era un uomo agile,
robusto e di buon senso, tentò di riportare ai confini di un tempo il suo
regno. Infatti la parte superiore dei suoi domini, conosciuta anche come
Lotaringia, era stata annessa al regno dei Sassoni da Ottone, re di Sassonia, o
meglio imperatore dei Romani.
Lotario tentò anche, una volta, di catturare Ottone, figlio del famoso
Ottone, mentre questi si trovava nel palazzo di Aquisgrana. Ma poiché della
cosa Ottone fu segretamente avvertito da qualcuno, di notte egli riuscì a
stento a salvarsi fuggendo con la moglie.
Ottone poi, riunito un esercito di più di 60.000 soldati, penetrò in
Francia, arrivando fino ad occupare Parigi per tre giorni; in seguito ritornò
in Sassonia, e di nuovo Lotario, radunato un esercito sul territorio della
Francia e della Borgogna, inseguì l’esercito di Ottone fino al fiume Mosa, e
capitò che molti dei fuggitivi trovassero la morte in questo fiume. Alla fine
entrambi i re cessarono le ostilità, sebbene Lotario avesse ottenuto meno di
quanto sperava.
Lotario generò un figlio, di nome Ludovico, e quando il giovane fu
adulto lo fece consacrare re perché potesse succedergli al trono; gli scelse
anche una sposa in Aquitania. Costei, accorgendosi che il giovane non aveva
certo le doti del padre, decise di chiedere il divorzio, ed essendo donna di
grande astuzia, gli fece scaltramente intendere che insieme avrebbero dovuto
recarsi nella sua terra d’origine, la quale per diritto ereditario sarebbe
stata sua. E giovane senza intuire l’astuzia della moglie acconsenti a partire
come gli era stato richiesto. Quando furono giunti in Aquitania la donna lo
abbandonò e raggiunse la sua famiglia. E padre, ricevuta la notizia, andò a
cercare il figlio e lo riprese con sé. Essi vissero insieme e qualche anno dopo
morirono tutti e due senza eredi.
Con questi due re si estinse la loro stirpe reale e imperiale.
16. Il feudalesimo – Il fenomeno che caratterizzò la civiltà
europea nel periodo che seguì la morte di Carlo
Magno fu il feudalesimo[32],
un nuovo sistema di organizzazione politica,
sociale ed economica. Si era sviluppato nella Francia tra l’VIII e il IX
secolo dall’elaborazione e dalla
fusione di elementi che risalivano al Basso Impero e alla originaria cultura germanica. Dalla Francia si diffuse poi
in tutta l’Europa occidentale e più tardi, con i Normanni, passò in
Inghilterra.
Il feudalesimo nacque dall’uso di assegnare terre in concessione
a dignitari laici ed ecclesiastici collaboratori del sovrano. Tale concessione
era detta beneficio[33], in quanto gli
assegnatari ne traevano rendite sia direttamente, sia con l’imposizione di
tributi e balzelli agli abitanti. Al beneficio si accompagnò
l’immunità[34], cioè l’esenzione dalla giurisdizione sovrana e il corrispettivo
diritto di amministrare in nome proprio la giustizia e di arruolare uomini. Al
beneficio corrispondeva il vassallaggio[35]: il
beneficiario, in compenso del
beneficio ottenuto, si considerava vassallo dell’Imperatore o del signore
che glielo aveva elargito, cioè si riteneva legato da un vincolo di fedeltà che
lo obbligava a garantire al signore servizi
militari e amministrativi, contributi in uomini e in denaro, e il suo
consiglio, sia in pace che in guerra.
L’unione del beneficio, dell’immunità e del vassallaggio costituiva
appunto il feudo.
a) La gerarchia feudale -
Si formava così una piramide gerarchica che aveva al suo vertice l’Imperatore, al di sotto i grandi
feudatari o vassalli[36],
al di sotto di questi i valvassori (vassalli dei
vassalli) e sotto ancora i valvassini (vassalli dei valvassori).
Connettivo di questa piramide era il legame di
vassallaggio, cioè un rapporto di carattere prettamente personale che subordinava ogni vassallo al suo
diretto signore.
Inizialmente, i feudi erano concessi alla
persona e, alla morte del beneficiario, ritornavano
all’Imperatore o al signore che li aveva concessi. Successivamente, prima i
grandi feudi con il Capitolare di Quiersy[37] dell’877,
poi i feudi minori con la Constitutio
de feudis[38] del
1037 divennero ereditari.
b) L’economia feudale: la curtis – Il
feudalesimo oltre che un sistema politico-giuridico, fu un’organizzazione di tutta la società, organizzazione
corrispondente alla civiltà rurale costituitasi col declino della città e
dell’economia industriale e mercantile. Il centro della vita feudale era il
castello del signore e il centro dell’economia la sua corte ocurtis.
La curtis[39] era
costituita dall’insieme delle terre di proprietà padronale (pars dominica),
degli edifici dove dimoravano i servi addetti alla coltivazione della terra
signorile, alla produzione artigianale e ai servizi indispensabili per la vita
del castello e dalle terre assegnate in lotti ai
contadini liberi (pars massaricia), in cambio di censi in natura o in
denaro e dell’obbligo di collaborare,
per due o tre giorni alla settimana, alla coltivazione della terra signorile.
Il latifondo, veniva suddiviso così in due tipologie di
territorio: la parte centrale, quella più vicina al polo amministrativo, era
detta pars dominica o indominicata cioè gestita a coltura
direttamente dal signore mediante il lavoro dei servi ed una pars
massaricia che era data in affitto o mezzadria a famiglie di coloni
che la coltivavano privatamente e sulla quale il proprietario, ne ricavava un
terzo della rendita. Oltre a questo, i coltivatori erano tenuti a pagare alcune
tasse ed a svolgere alcune giornate lavorative gratuite sui fondi gestiti dal
padrone, le corvées.
L’economia curtense[40] è
un’economia di sussistenza: si produce per il consumo diretto, e non vi sono eccedenze da commerciare. È pertanto
un’economia chiusa, e i rari scambi vengono fatti per lo più sulla base del
baratto dei prodotti, data la scarsità di denaro circolante.
c) La società feudale -
Dal punto di vista delle classi, la società feudale era caratterizzata da una rigida stratificazione:
·
sopra stavano i potentes,
coloro che detenevano il potere, che erano
o guerrieri (la gerarchia dei vassalli) o ecclesiastici: e spesso questi secondi
erano anch’essi guerrieri.
·
Sotto vi era una massa
amorfa, non articolata, costituita quasi
esclusivamente da contadini in condizione di semischiavitù, perché legati
alla terra del signore, dalla
quale non potevano allontanarsi senza correre il rischio di gravi pene, e
perciò chiamati servi della gleba[41].
Anche i coltivatori liberi che lavoravano
appezzamenti avuti in concessione dal signore, erano tenuti a fornirgli, oltre a un corrispettivo in
derrate, prestazioni in mano d’opera
le corvées[42] e a pagare balzelli per
l’uso di strade, ponti, mulini, forni che erano di esclusiva
proprietà del signore.
Pochi gli artigiani e scarsi anche i mercanti che aumentarono di
numero e di importanza solo con la ripresa
dell’economia e della vita civile che sboccheranno nella rinascita della società urbana.
d) La cavalleria -
Manifestazione caratteristica del mondo feudale fu la cavalleria. Essa sorse come conseguenza dell’istituto giuridico del maggiorasco[43],
per la quale il feudo era
trasmesso indiviso al primogenito. I fratelli minori, i cadetti, avevano due
possibilità: o darsi alla carriera ecclesiastica o mettersi al servizio, come
cavalieri, di qualche potente
signore, nella speranza di conseguire a loro volta un feudo in ricompensa
delle loro
prestazioni.
Per incanalare la violenza di questi guerrieri che, per
arricchirsi, non di rado si abbandonavano al
brigantaggio o al saccheggio, la Chiesa, verso l’inizio del secolo XI, propose
al cavaliere di mettere la sua forza e il suo coraggio al servizio della fede e
della giustizia, in difesa dei deboli e
degli oppressi. La cavalleria[44] si
trasformò così in una specie di grande confraternita sottoposta a severe
regole morali. Il significato religioso dell’istituzione era sottolineato da un
preciso rito che regolava la cerimonia dell’investitura.
Enrico IV a Canossa da Vita di Matilde di
Donizone di Canossa
Correndo la fama per
il mondo che il re [Enrico IV], dopo la morte della madre, era stato
scomunicato da papa Gregorio, i forti e i potenti di tutto il regno furono in
grande turbamento, e dicevano tra loro che era prova di superbia il non voler
ubbidire sinceramente, benignamente e con pio animo alla Romana sede la quale
tiene le chiavi della vita. Per la qual cosa stabilirono a buon diritto di
disprezzare il re, qualora non ritornasse nell'obbedienza del papa e non
cercasse di riconciliarsi con lui.
Il re, convinto di
non potere in nessun altro modo conservare il regno, mandò un messaggio a sua
cugina Matilde, affinché essa facesse venire da Roma il papa in Lombardia, dove
egli si sarebbe recato per chiedergli il dovuto perdono. Il papa vedendo le
preghiere della contessa Matilde, a lei quanto chiede concede; e da buon
pastore lasciò quindi Roma e venne a Canossa. Erano qui presenti molti sudditi
del re Enrico e molti sapienti, fra i quali l'abate Ugo di Cluny, che era stato
padrino dei re. Tutti facevano tra di loro discorsi di pace; e mentre essi continuavano
a parlare di pace, per tre giorni il papa non volle ricevere il re e
raccogliere la sua richiesta di perdono.
Enrico allora si avviò alla cappella di San Niccolò; nella quale pregò
in lacrime il pastore Ugo, perché si facesse garante per sé della pace. «Questo
non mi è permesso», l'abate al re risponde; ed essendo pure presente Matilde,
anch'essa lo pregò: ma egli a lei: «Questo nessuno potrà farlo», rispose, «se
non tu». A ginocchia piegate disse il re allora a Matilde: «Se tu non vieni ora
in aiuto, io non potrò più spezzare scudo, perché il papa mi ha condannato. O
valente cugina, fammi benedire, va!» Ed essa si alzò e fece promessa al re ed
uscì salendo in alto mentre il re rimane in basso. Parla al papa
manifestandogli le intenzioni e il pentimento di Enrico. Alle sincere parole
della contessa prestò fede il venerabile rappresentante di Pietro, a patto che
il re presti giuramento di fedeltà a lui stesso ed alla Romana sede. Tutto
quello che volle Papa Gregorio, il re lo fece... Il gennaio di quest'anno dava
neve più del solito e freddo eccessivo e grandissimo. Sette giorni prima che
gennaio avesse fine, il papa concesse al re che venisse in sua presenza con le
piante nude e intirizzite dal freddo. Il re giunse gettandosi con le braccia in
croce e gridando al papa ripetutamente «Perdonami, padre beato! o santo,
perdonami che te lo domando di cuore!» Il papa, vedendolo piangente, si sentì
preso di grande commiserazione per lui; difatti lo benedisse, gli diede pace e
gli somministrò il Corpo del Signore. Poi gli fece giurare fedeltà e infine lo
lasciò andare.
17. La riforma della Chiesa - A risollevare la Chiesa dalla
condizione in cui era caduta
in seguito alla sua mondanizzazione, intervennero due forze:
·
l’Impero
di nazionalità germanica sotto i tre Ottoni,
·
il
monachesimo con un movimento di riforma che prese le mosse dal monastero di Cluny in Francia.
a) Gli Ottoni e la feudalità ecclesiastica - Ottone I, per ridare dignità al
Papato, sottraendolo alle grandi famiglie romane che se lo contendevano, dopo
aver restaurato in veste
germanica il Sacro Romano Impero nel 962, stabilì, col privilegium Othonis, che l’elezione del papa dovesse essere
confermata dall’Imperatore.
Tale decisione all’inizio rappresentò un
risanamento della Chiesa, perché Ottone favorì la nomina di papi moralizzatori;
ma comportò in cambio una subordinazione della Chiesa al potere politico, tanto più che Ottone I, per contrastare i
feudatari laici, creò, con la nomina dei vescovi-conti[45], una feudalità ecclesiastica che, per il
fatto di non poter trasmettere il feudo in eredità, rappresentava una categoria
di feudatari la cui fedeltà all’Imperatore era più sicura. Tale estesa subordinazione della Chiesa
all’Impero contrastava col risanamento
programmato da Ottone ed era anzi causa di mali peggiori. La scelta delle persone cui conferire la dignità
ecclesiastica (un’abbazia, un vescovado, una pieve, un canonicato) dipendeva infatti non dalle loro
doti morali e dalla loro dottrina religiosa, ma dalle capacità di governo e militari, e,
ancor più, dalle garanzie di fedeltà che offrivano o, non ultima, dalla somma
in denaro che erano in grado di versare per ottenere l’investitura.
b) La riforma di Cluny - A
questo punto s’innesta il vero rinnovamento della Chiesa, quello portato avanti dai monaci benedettini
riformati dell’abbazia di Cluny[46] in
Francia che si proponeva dì
sottrarre la Chiesa al potere politico, incominciando col sottrargli l’elezione del papa e dei dignitari
ecclesiastici.
Qualunque ingerenza dei laici nella loro nomina
fu combattuta e bollata come peccato col termine di simonia (=vendita di cose sacre).
c) Il grande scisma –
Lo scisma[47] fu
la rottura definitiva tra la Chiesa di Roma e
quella di Costantinopoli, causata dalla crescente separazione politica e
culturale tra Oriente e Occidente cristiano iniziata dal IV secolo.
Il Papato, impegnato in un processo di rinnovamento e di
consolidamento della struttura della Chiesa, tentava di riprendere il controllo
effettivo della chiesa orientale; questo avrebbe significato per l’Impero
d’Oriente accettare la sovranità religiosa di un potere, come il Papato, che
l’Imperatore non era in grado di controllare.
Già in precedenza le due Chiese si erano trovate in contrasto:
·
sull'iconoclastia, ossia il movimento politico-religioso iniziato dall'Imperatore
bizantino Leone III Isaurico, che nel 726 condannò come idolatrico
il culto delle immagini della Madonna e dei santi, considerandolo idolatrico, e
ne ordinò la distruzione; la Chiesa occidentale si oppose all'iconoclastia e
condannò Leone III nel 731. Il VII concilio ecumenico di Nicea condannò
l'iconoclastia (787), che riprese tuttavia con gli Imperatori Leone Barda e
Teofilo; L'Imperatrice Teodora dichiarò nuovamente lecito il culto delle
immagini (843).
·
con il breve scisma di
Fozio infatti quando l’Imperatore d’oriente depose il patriarca di
Costantinopoli Ignazio che censurava la sua licenziosa condotta e mise al suo
posto Fozio, papa Nicola I scomunicò Fozio e l’Imperatore, restituendo la sede
patriarcale ad Ignazio, con il quale la scisma ebbe termine.
Saliti al soglio patriarcale di Costantinopoli Michele Cerulario
(1043) e a quello pontificio Leone IX (1049) ci fu lo scisma definitivo.
Il motivo occasionale si ebbe quando il patriarca Michele
Cerulario intervenne sull’uso del pane azimo nelle chiese dell’Apulia e della
Calabria che l’Imperatore Niceforo II Foca aveva proibito. Cerulario intervenne
facendo chiudere tutte le chiese dove veniva praticato questo rito.
Le divergenze investirono quasi subito il terreno dogmatico e
liturgico, sul quale nessuna delle due parti era disposta a venire a patti.
Erano vecchie questioni che avevano già diviso gli animi ai tempi di Fozio (IX
secolo):
·
la dottrina
occidentale della duplice processione dello Spirito Santo[48],
·
il digiuno
romano del sabato
·
il divieto del
matrimonio dei preti
·
l'uso del pane
lievitato o di quello azzimo[68].
La situazione precipitò nel 1054 quando Papa Leone IX inviò a
Costantinopoli il cardinale Umberto di Silva Candida per tentare di risolvere
questa situazione critica, ma la visita terminò nel peggior modo: il 16 luglio
1054, il cardinale Umberto depositò una Bolla di Scomunica contro il Patriarca
Michele Cerulario sull'Altare di Santa Sofia, atto inteso come scomunica di
tutta la Chiesa bizantina, al quale Cerulario rispose in modo analogo, con la
sottoscrizione degli altri Patriarchi, scomunicando il papa Leone IX (intendendo
la Chiesa occidentale). Le Chiese, inoltre, attraverso i loro rappresentanti
ufficiali, si scomunicarono l'una l'altra: si separarono così la Chiesa
Cattolica Romana e la Chiesa Ortodossa, ognuna delle quali rivendicante per sé
il titolo di Chiesa Una Santa Cattolica ed Apostolica.
Lo scisma non aveva dirette ragioni teologiche. I motivi che
scatenarono il Grande Scisma includevano:
·
dispute sul primato
del Papa, ossia se il Patriarca di Roma dovesse essere considerato un'autorità
superiore a quella degli altri Patriarchi[49].
·
dispute circa quale
Chiesa avesse giurisdizione[50] nei
Balcani.
·
la designazione del
Patriarca di Costantinopoli come Patriarca Ecumenico (attributo inteso da Roma
come patriarca universale, e quindi rifiutato).
·
il concetto di cesaropapismo[51],
un modo per mantenere unite in qualche modo le autorità politiche e religiose,
che si erano separate molto tempo prima, quando la capitale dell'Impero venne
spostata da Roma a Costantinopoli. Vi sono ora controversie su quanto tale
cosiddetto cesaropapismo esistesse effettivamente o quanto
invece fosse frutto dell'invenzione degli storici occidentali, alcuni secoli
dopo.
·
la relativa perdita di
influenza dei Patriarchi di Antiochia, di Gerusalemme e di Alessandria
conseguente alla crescita dell'Islam, fatto che portò le politiche interne alla
Chiesa ad essere viste sempre più come un rapporto Roma contro
Costantinopoli.
Sul piano immediato, le conseguenze furono gravi per l’Impero
bizantino, che restava una potenza cristiana, ma scismatica: ciò indebolì la
solidarietà nei sui riguardi degli stati europei legati al Papato. A lunga
scadenza, tuttavia, le conseguenze furono ancora più gravi per il Papato che
perse per sempre il controllo sulla cristianità di lingua greca e sugli Slavi
russi e balcanici.
d) La
lotta per le investiture - Si erano poste le
premesse della lotta per le investiture tra
Papato e Impero. Il Papato, infatti, dopo aver affermato con Nicolò II l’autonomia del pontefice e l’indipendenza della sua
elezione dall’Imperatore nel 1059, pretendeva che l’investitura
imperiale, o comunque laica, dei dignitari ecclesiastici, spettasse al
pontefice o alle altre autorità religiose.
La fase culminante della lotta vide, nel suo corso,
contrapporsi due personalità eccezionali, l’Imperatore Enrico IV[52] e il papa
Gregorio VII.
La conclusione della lotta si ebbe però
solo nel 1122 con un accordo tra Enrico V e Callisto II, il Concordato di Worms.
Quest’atto stabiliva che:
·
l'investitura
spirituale è separata da quella temporale
·
In Italia precede l'investitura
del papa, in Germania quella dell'imperatore.
In pratica l'imperatore, che voleva controllare le nomine dei
vescovi conti (senza eredi e quindi facilmente manovrabili alla morte del
feudatario) può farlo solo in territorio germanico. L'Italia è controllata dal
pontefice che nomina direttamente i vescovi.
Questo segnava nel
complesso una vittoria della Chiesa e di coloro che ne
avevano voluto la riforma.
[1] Res publica romana -
La Repubblica Romana, in latino Res
Publica Romana, fu quello Stato formato dalla città di Roma e dai suoi
territori di conquista nel periodo tra il 509 a.C. ed il 27 a.C., quando la sua
forma di governo era una Repubblica
oligarchica.
La sua fine coincide con la fine di un lungo periodo di
guerre civili che segnò la fine della forma di governo repubblicana a favore di
quella del Principato.
La Repubblica rappresenta una fase lunga, complessa e
decisiva della storia romana, che da piccola città stato divenne la capitale di
un grande e complesso Stato, formato da una miriade di popoli e civiltà
differenti.
In questo periodo si inquadra la maggior parte delle grandi
conquiste romane nel Mediterraneo ed in Europa, soprattutto tra il III ed il II
secolo a.C.
All'inizio della sua storia il territorio della repubblica
coincideva con quello della città. L'espansione militare portò il territorio
della repubblica, nel 27 a.C., ad includere tutta la penisola italiana, le
isole di Sardegna, Corsica e Sicilia, gran parte della Gallia, dell'Iberia,
della penisola balcanica, le regioni costiere dell'Asia Minore e del Nord
Africa, l'Egitto.
I poteri erano assegnati a due consoli e al pontifex
maximus. Con la crescita dello stato romano fu necessaria l'istituzione di
altre cariche che costituirono le magistrature. Per ognuna di queste cariche
venivano osservati due principi:
1.
l'annualità, ovvero l'osservanza di un mandato di un anno,
2.
la collegialità ovvero l'assegnazione dello stesso incarico ad almeno
due uomini alla volta, ognuno dei quali esercitava un potere di mutuo veto sulle
azioni dell'altro.
Tra i magistrati un’importante distinzione era quella tra:
1.
magistrati cum imperio
(consoli, pretori e dittatori) cui erano affiancate delle speciali guardie, i
littori.
2.
magistrati sine imperio,
(tutti gli altri);
Il secondo pilastro
della repubblica romana erano le assemblee popolari, che avevano
diverse funzioni, tra cui quella di eleggere i magistrati e di votare le leggi.
La loro composizione sociale differiva da assemblea ad assemblea; tra queste
l'organo più importante erano i comizi centuriati, in cui il peso
nelle votazioni era proporzionale al censo, secondo un meccanismo che rendeva
preponderante il peso delle famiglie patrizie. Nonostante il peso della plebe
fosse accentuato rispetto al periodo monarchico, in cui esisteva un solo organo
assembleare (i comizi curiati) costituito da soli patrizi, l'accesso della
plebe all'esercito sancito dalla riforma centuriata spinse il ceto popolare a
pretendere maggiori riconoscimenti, che nell'arco di due secoli vide tra
l'altro la costituzione della magistratura di tribuno della plebe, eletto dal
concilio della plebe.
Il terzo fondamento
politico della repubblica era il Senato,
già presente nell'età della monarchia. Costituito da 300 membri, capi delle
famiglie patrizie, i Patres, ed ex
consoli, aveva la funzione di fornire pareri e indicazioni ai magistrati,
indicazioni che poi divennero vincolanti. Approvava inoltre le decisioni prese
dalle assemblee popolari.
Esisteva
inoltre la carica di dittatore, che costituiva un'eccezione
all'annualità e alla collegialità. In periodi di emergenza (sempre militari) un
singolo dittatore era eletto con un mandato di 6 mesi in cui aveva da solo la
guida dello stato. Eleggeva un suo collaboratore detto maestro della
cavalleria. Caduto in disuso dopo il periodo delle grandi conquiste, il
ricorso a questo incarico tornerà ad essere praticato nella fase della crisi
della repubblica.
[2] Anarchia militare – Il cosiddetto
periodo di anarchia militare è quel periodo del tardo impero romano che va
dalla fine dei Severi con la proclamazione ad imperatore di Massimino il Trace nel 235, fino a Diocleziano nel 284. Fu un periodo di
guerre sanguinose, usurpazioni e frantumazione dell'impero in varie zone di influenza
del singolo generale o re alleato di
Roma. In questo periodo numerosi generali si autoproclamano imperatori, spesso
in contemporanea tra loro. Tutti questi imperatori morirono vittime di
congiure, rivolte o in battaglie e non lasciarono mai eredi al trono.
Questa mancanza
di una continuità dinastica lunga 50 anni, per il continuo sorgere di questi
diversi generali o imperatori scelti dall'esercito ha portato a definire questo
periodo anarchia militare.
[3] I Parti – Dominatori dell'antica Persia (attuale
Iran) dal 247 a.C. al 228 d.C., i Parti riuscirono a sconfiggere i Seleucidi
conquistando gran parte dell'Asia mediorientale e sudoccidentale, acquisendo il
controllo della Via della Seta e
trasformando la Parthia in una vera e
propria superpotenza. L'impero partico rivisse i fasti di quello achemenide,
riuscendo a controbilanciare l'egemonia di Roma in Occidente. La Parthia
comprendeva terre che ora si trovano in Iran, Iraq, Turchia, Armenia, Georgia,
Turkmnenistan, Afganistan, Tagikistan, Pakistan, Siria, Libano, Giordania,
Palestina e Israele.
Le
origini del popolo partico rimangono oscure. Strabone (XI, 515) sostiene che il
primo Arsace, da cui prese avvio la dinastia partica, fosse uno scita e che
riuscì a conquistare la Parthia con l'appoggio della tribù seminomade dei
Parni, stanziata lungo il corso del fiume Ochus. Probabilmente la cosiddetta
«invasione» della Parthia a opera dei Parni va considerata piuttosto alla
stregua di un movimento migratorio. La popolazione non fu conosciuta col nome
di «Parti» finché non si trasferì verso sud, nella provincia persiana di
Parthava in un periodo precedente al 250 a.C.
Nel 247
a.C. i Parti si sollevarono contro Andragora,
satrapo della Parthia per il re Antioco II Theos (261-247 a.C.). La rivolta fu
guidata dai fratelli Arsace e Tiridate: Arsace divenne re e il suo
nome divenne l'appellativo onorifico e dinastico di tutti i successivi sovrani
partici. Durante il II secolo a.C. i Parti riuscirono ad espandere il loro
dominio sulla Battriana, su Babilonia, sulla Media e sotto Mitridate II (123-88
a.C.) le loro conquiste si estesero dall'Armenia all'India. A seguito delle
vittorie di Mitridate II, i Parti cominciarono a proclamarsi
legittimi eredi sia dei Greci che degli Achemenidi. Parlavano un linguaggio
simile a quello achemenide, usavano la scrittura pahlavi e stabilirono un sistema amministrativo basato su quello
achemenide.
Il
periodo più confuso della storia partica è quello che va dalla fine del regno
di Mitridate II all'ascesa al trono di Orodes
II, nel 57 a.C. Quattro anni dopo, i Parti riuscirono ad annientare
l'esercito romano, forte di 40.000 uomini, che Crasso aveva condotto contro di
loro e tutte le genti dal Mediterraneo all'Indo conobbero allora la grande
potenza dell'impero partico. Nel 40 a.C. Roma conobbe un altro scacco militare
quando le forze partiche, sotto il comando congiunto del re Pacorus I e Q Labieno (un romano),
colpirono direttamente al cuore le regioni orientali dell'impero romano
conquistando le province di Asia, Panfilia, Cilicia e Siria. La parola dei
Parti diventò così legge fino alla lontana Petra, a sud. Per due anni questa
enorme area, così cruciale per gli interessi romani, fu sotto l'occupazione dei
Parti. Questi erano appena stati respinti dal generale romano Ventìdio che un
altro esercito romano, sotto il comando di Antonio, venne sconfitto e a stento
evitò di essere completamente annientato. I rapporti con Roma rimasero a lungo
conflittuali, anche quando una linea di confine venne gradualmente stabilita
lungo il corso del fiume Eufrate.
La
decadenza dell'impero partico, dovuta anche all'accresciuta potenza
dell'aristocrazia, che cominciò quindi a contendere il potere al sovrano,
favorì la riscossa romana. Nel 224 d.C. Ardashir, uno dei governatori partici,
rovesciò il re Artabano IV e stabilì la dinastia sassanide che governò l'Iran
fino alla conquista islamica, nel 641.
La dinastia
Sasanide fu fondata da Artaserse I nel 224 d.
C., prese il nome da Sāsān, un antenato di Artaserse I, ultimo sacerdote del tempio di Zarathustra
a Persepoli prima della distruzione compiuta da Alessandro Magno. Sotto
la guida di Artaserse I, i Sassanidi spodestarono i Parti e crearono un impero che, al tempo
della sua massima espansione sotto Sapore
II (309-379), andava dalla Georgia alla Penisola Arabica, dall'Indo alla Mesopotamia.
La dinastia
Sasanide svolse un ruolo politico e religioso fondamentale per tutta l'Asia
mediterranea nei secoli compresi tra il III e il VII. Con i Sassanidi lo zoroastrismo divenne religione di Stato e cementò
la rinascita nazionalista persiana, anche attraverso la persecuzione del cristianesimo e del manicheismo. La dinastia sassanide diede inoltre alla Persia
un notevole impulso alle lettere e alle arti con
traduzioni di opere dalla lingua greca e siriaca, e un'efficiente amministrazione su base feudale piramidale
che costituì un modello per i futuri dominatori arabi.
A differenza
della struttura adottata dai Parti, che riservava ampie autonomie alle città, i Sassanidi organizzarono uno
Stato fortemente accentrato, con
capitale a Ctesifonte sul
fiume Tigri. Il ruolo principale nell'amministrazione era
ricoperto dal Gran Visir, il primo
ministro incaricato di svolgere le mansioni del sovrano in caso di sua assenza.
Ministri o divan, agenti e
addetti alla riscossione delle entrate completavano
l'organico. L'esercito era organizzato e addestrato per reparti: fanteria, cavalleria e truppe corazzate, che impiegavano elefanti. I generali
rispondevano del proprio operato direttamente all'imperatore.
Per quattro
secoli l'impero sassanide sostenne lunghe guerre, con esiti alterni, contro
Roma e poi, dal V secolo, contro Bisanzio. La figura principale della dinastia è Cosroe I (531-579), che fu
rivale di Giustiniano.
Dopo questo
fiorente periodo lo stato sassanide fu sconvolto da lotte dinastiche, cui si
aggiunsero crisi economiche e sociali che portarono rapidamente al declino
della potenza persiana, costretta anche a fronteggiare a Est i barbari delle
steppe, dai Kusāna,
dinastia che regnò su gran parte dell'India centro-settentrionale
dal sec. I a. C. al III d. C.
agli Unni.
I Sassanidi
furono debellati, tra il 634 e il 651, da un nuovo nemico (la popolazione
araba), che giunse quasi inatteso ai confini dell'impero. L'ultimo re, Yezdegerd III, fu messo in fuga e assassinato nel 651.
[4] Cristiani – I cristiani erano i
seguaci di una setta religiosa che traeva la sua origine dalla predicazione di Gesù Cristo e che ha in seguito caratterizzato la
civiltà occidentale, diventandone la religione. È quindi una dottrina che non
scaturisce da un complesso di credenze religiose, ma da un fondatore, il quale
ha provocato una svolta rispetto al giudaismo, la religione
degli Ebrei, il cui centro religioso era il Tempio di
Gerusalemme.
Quasi tutte le
notizie che si possiedono su Gesù sono attinte ai Vangeli, soprattutto ai Sinottici (Matteo, Marco, Luca). Essi però non ci forniscono i dati sufficienti a una
biografia completa di Gesù, ma sono espliciti sui momenti essenziali della sua
vita: nascita a Betlemme, vita a Nazareth, attività della predicazione,
condanna a morte, morte sul Golgota, resurrezione, ascensione al cielo.
Fra le fonti non
cristiane che attestano l'esistenza di Gesù, le principali sono: Tacito, che negli Annali, XV, 44: «Nerone presentò
come rei (dell'incendio di Roma) e colpì con supplizi raffinatissimi coloro che
il volgo, odiandoli per i loro delitti, chiamava cristiani. L'autore di questa
denominazione, Cristo, sotto l'impero di Tiberio era
stato condannato al supplizio dal procuratore Ronzio Pilato»; Svetonio narra
che i Giudei «ad
impulso di Cristo, facevano frequenti tumulti» e furono espulsi da Roma; Plinio il Giovane (Epistola I, 10,96) parla dei cristiani adoratori del Cristo;
allusioni al Cristo si trovano anche in una satira di Luciano (De morte peregrini)
e nel libello di Celso.
Non tutti gli
storici sono d'accordo sul valore della testimonianza dello storico Giuseppe Flavio. Si
deve, però, considerare che il passo si trova in tutti i codici delle opere
dello scrittore e sembra difficile poter negare almeno i dati fondamentali
della sua testimonianza: «Ora ci fu verso
questo tempo Gesù, uomo sapiente, seppure bisogna chiamarlo uomo; era, infatti,
facitore di opere straordinarie, maestro di uomini, che accolgono con piacere
la verità. E attirò a sé molti Giudei, e anche molti dei Greci. E avendo
Pilato, per denunzia degli uomini principali fra noi, punito lui di croce, non
cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli comparve, infatti,
loro al terzo giorno nuovamente vivo...». Altre
testimonianze sono reperibili nel Talmūd ebraico – opera appartenente alla
letteratura religiosa dell'ebraismo, che contiene
la legge orale, complemento indispensabile della Torāh, la legge scritta,
e che abbraccia un periodo di otto secoli, dal sec. III a. C. al sec. V d. C.: una fonte si preoccupa di dare al processo
fatto a Gesù il crisma dell'irreprensibilità giuridica.
[5] Il culto del Sol Invictus – Sol Invictus o, per esteso, Deus
Sol Invictus era un
appellativo religioso usato per tre diverse divinità nel tardo Impero romano: El-Gabal, Mitra e Sol.
Il culto del Sol
Invictus ebbe origine in
oriente. Ad esempio le celebrazioni del rito della nascita del Sole in Siria ed Egitto erano di grande solennità e prevedevano che i celebranti
ritiratisi in appositi santuari ne uscissero a mezzanotte fra il 24 e il 25
dicembre, annunciando che la Vergine aveva partorito il Sole, raffigurato come
un bambino.
[6] Gesù di
Nazareth – Il Gesù
storico è il
tentativo di ricostruzione della figura di Gesù
di Nazareth secondo i moderni
metodi storici, attraverso l'analisi critica dei testi antichi e il confronto
con il contesto storico e culturale del
tempo.
Nato a Nazareth negli anni 7-2 a.C., Gesù trascorse la sua infanzia e giovinezza
nei territori della Giudea, che all’epoca era una provincia romana.
I vangeli ci hanno restituito
testimonianza precise e dettagliate della sua attività di predicatore,
esorcista e guaritore.
Secondo la religione cristiana Gesù è l’incarnazione di Dio sulla Terra,
il suo Figlio, il Messia mandato a salvare gli uomini dal peccato.
I Vangeli raccontano la nascita di Gesù da
Maria e Giuseppe, in una specie di stalla. Per adorare il Figlio di Dio sceso
tra gli uomini, pare che siano arrivati a Betlemme alcuni regnanti da ogni
parte del mondo (l’ascesa dei Re Magi). I Vangeli focalizzano poi l’attenzione
sull’attività di predicazione di Gesù, che si svolge attraverso parabole,
discorsi e miracoli.
L’operato di Gesù provocò un grande
seguito tra la gente soprattutto fra i più poveri e diseredati. La sua breve
vita termina con la morte sulla croce sul monte Golgota. Le autorità ebraiche
riunite nel Sinedrio chiesero che Gesù
fosse crocifisso e la decisione finale spettò al prefetto romano Ponzio Pilato,
tra l’anno 26 e il 36.
[7] Paolo - Paolo
era un personaggio molto legato e compromesso col mondo romano, soprattutto per
il fatto che la sua professione sarebbe stata quella di produrre tessuti per
tendaggi usati dalle legioni militari imperiali.
Ciò che caratterizza l'identità
culturale di Paolo è una ebraicità molto aperta, una estrema abitudine al
contatto con le culture gentili, o pagane. Non si può comprendere
storicamente Paolo e la sua opera, se non si parte dall'idea che le sue
formulazioni teologiche, sfociate nella nascita di una nuova religione, abbiano
origine nel contrasto stridente fra:
·
la ebraicità ottusa, fanatica, fondamentalista
e xenofoba, che nel I sec. trovò la sua principale espressione nel messianismo
esseno-zelota, e la sua collocazione geografica nell'ambiente palestinese,
·
la ebraicità aperta, maturata
attraverso il contatto e la convivenza con i popoli e con le culture gentili,
disponibile alla reinterpretazione delle scritture in senso molto elastico, per
niente interessata allo sviluppo di una conflittualità estrema fra Israele e
Roma, con una collocazione geografica rivolta soprattutto agli ambienti della
diaspora.
Le tensioni fra questi due modi di
essere ebrei e le drammatiche vicende politiche e militari della nazione
ebraica sotto il dominio imperiale fornirono i presupposti del processo
attraverso il quale si sviluppò per gradi:
1.
una coscienza contraria al messianismo
radicale degli esseno-zeloti,
2.
una corrente politica altrettanto
radicale, ma in senso anti-messianista,
espressione delle classi dominanti di Israele (sadducei e farisei di destra),
3.
una tendenza a rileggere le profezie
messianiche con significati contrari a quelli esseno-zelotici, e aperta ai
contributi teologici delle spiritualità gentili,
4.
una corrente militante, di cui il
San Paolo del dopo Damasco fu il fondatore e il promotore,
che, pur di contrastare il messianismo e i suoi estremi pericoli per la
sicurezza della nazione ebraica, era disposta a crearne un altro, aperto alle
teologie escatologiche straniere (il Soter greco, il Saoshyant persiano, il
Krishna e il Buddha indiani...), sopportando il rischio che ciò innescasse una
sorta di mitosi teologica il cui prodotto, alla fine, fosse la
nascita di una nuova religione e la sua scissione dal giudaismo.
In un primo tempo San Paolo sarebbe
stato senz'altro un esponente della seconda corrente. Facilmente egli, in
quanto benestante, colto, professionista con molte occasioni di viaggio e con
molti contatti in ambienti sia ebraici che greco-romani, sia stato coinvolto
nella politica di repressione delle "brigate
messianiste" che abbia collaborato come informatore o anche in modo
più consistente.
Non si dimentichi che i cristiani,
al centro della attenzione repressiva, in questa fase del processo di
evoluzione del cristianesimo, non erano ancora ciò che intendiamo oggi con quel
termine, bensì erano i giudei messianisti, ovverosia i membri delle sette che
aspiravano alla rinascita del regno di Yahwè e all'interno delle quali si
individuavano le figure degli aspiranti messia, capi religiosi con la spada in
mano.
Siamo noi che commettiamo il
gravissimo errore di interpretare il movimento dei seguaci diretti di Cristo
come se questi avessero già incorporato la filosofia espressa nel Nuovo
Testamento, che rende spoliticizzato, degiudaizzato e pacifista il messaggio
evangelico, prima ancora che Paolo lo avesse formulato.
In realtà, gli stessi Atti degli
Apostoli, sebbene siano stati redatti col preciso scopo di far apparire la
concezione neomessianica di Paolo come se fosse appartenuta a Gesù
Cristo, proponendo in modo del tutto artificiale la continuità e la conformità
là dove invece sussistono discontinuità e contrapposizione, finiscono per
mostrare loro malgrado, con innegabile chiarezza, l'esistenza di un grave conflitto fra una corrente
giudaizzante (identificata nelle persone come Simone e Giacomo, i fratelli di
Gesù) e una corrente riformista con aperture ellenistiche (identificata nelle
persone come Paolo e i suoi seguaci).
In un secondo tempo San Paolo
avrebbe maturato un atteggiamento diverso, probabilmente rendendosi conto che
la strada della semplice repressione politica, consistente nell'arresto e nella
eliminazione fisica degli esponenti messianisti, non avrebbe funzionato molto,
tanto più che le ideologie radicali del tipo esseno-zelotico non si fermavano
davanti al martirio (abbiamo visto il comportamento dei cittadini di Gamla e
degli assediati di Masada) ma, al contrario, ne traevano nuovo orgoglio e nuova
energia combattiva. In pratica Paolo
comprese che l'ideologia messianista tradizionale avrebbe potuto trovare un
antagonista valido solo in un'altra ideologia, e che l'argine per
ostacolare l'espansione del messianismo radicale nei diversi strati della
popolazione ebraica, e per allontanare i suoi gravi pericoli, avrebbe potuto
essere offerto solo da un altro messianismo, non così bellicoso, non così
ispirato al nazionalismo yahwista, non così frontalmente ostile ai romani, ma
comunque rispondente ad istanze che avessero una risonanza reale nella gente e
in larghi strati di popolo.
Insomma,
invece di seguire la via degli arresti e delle
esecuzioni, Paolo preferì offrire un'alternativa all'idea della salvezza
nazional-religiosa (questa fu la
sostanza reale della sua conversione) e si adoperò per
creare un messianismo più convincente di quello che, pur solleticando
l'orgoglio etnico, che è il tratto distintivo di ogni ebreo, metteva tutti
quanti di fronte al timore (poi confermato dalle vicende della guerra degli
anni 66-70) che i romani ricorressero alla soluzione definitiva e
che Israele precipitasse nella più sventurata delle catastrofi. È questa, e
soltanto questa, la corretta chiave interpretativa attraverso la quale noi
possiamo capire ciò che gli Atti degli Apostoli ci presentano, molto falsamente
e opportunisticamente, come una semplice divisione di competenze fra Paolo e
gli Apostoli giudaizzanti: evangelizzatore dei gentili l'uno, evangelizzatori
degli ebrei gli altri.
Altro che divisione di competenze!
La verità è che questi ultimi erano legati alla concezione messianica di
derivazione maccabea, ovvero al patriottismo nazional-religioso degli
esseno-zeloti, ostile per natura al mondo gentile; mentre Paolo
aveva già sparso i semi di una filosofia di apertura al pensiero extragiudaico,
al punto da rappresentare il suo Gesù Cristo con caratteristiche che
appartenevano assai più agli dei incarnati e risuscitanti delle teologie gentili che
non alla figura messianica delle profezie giudaiche.
Ora, noi abbiamo molti motivi per
credere che Paolo, nella sua città di origine, Tarso, in Cilicia, abbia avuto
contatti molto ravvicinati con le culture religiose ellenistiche ed orientali,
anzi, proprio con i culti detti misteriosofici, in cui si celebravano
complicati riti iniziatici. Di questi possiamo avere una bellissima descrizione
divulgativa, accessibile anche ai non addetti ai lavori, nell'opera di
J.G.Frazer, "Il Ramo d'Oro" (Newton Compton, 1992), dalla cui lettura
possiamo arrivare a capire che certi elementi teologici della figura di Gesù
Cristo devono essere stati mutuati dai culti extragiudaici come quelli di
Attis, Adonis, Osiride, Dioniso, Mitra... mi riferisco alla nascita verginale,
alla resurrezione dopo tre giorni di discesa agli inferi, all'innesto del
concetto teofagico (cibarsi della carne e del sangue del Dio) sui contenuti del
rito eucaristico esseno (la fractio panis di cui abbiamo visto
nel manuale di disciplina di Qumran).
Ora, la quasi totalità dei
cristiani nega che il Cristo giustiziato da Ponzio Pilato, con l'accusa di
avere militato per diventare "re dei Giudei", avesse l'intenzione di
diventare realmente "re dei Giudei" e abbia mai avuto a che fare col
messianismo nazional-religioso degli esseni e degli zeloti. E supportano questa
loro irremovibile convinzione sulla base della tradizionale immagine evangelica
di un Gesù che predica amore, pace, perdono, non violenza, che contraddice
alcune caratteristiche del pensiero ebraico messianista (Gesù siede a tavola
coi gentili, deroga alla regola del sabato...), e considerano la vicenda del
processo, della condanna e della esecuzione romana mediante crocifissione (il
tipico destino dei latrones e dei sicarii,
ovverosia degli zeloti) come un clamoroso equivoco giudiziario, da cui Pilato,
vittima dei raggiri dei sacerdoti del tempio, esce praticamente scagionato, e
con lui tutti i romani. Un equivoco generato dalle false accuse che i giudei
avrebbero prodotto nel presentare Gesù a Ponzio Pilato, al fine di indurre
proditoriamente i romani a giustiziarlo.
Ma il meccanismo non è questo! Il
punto falso non risiede in quelle accuse di militanza esseno-zelota, bensì
nell'immagine del Cristo apolitico, demessianizzato, addirittura quasi
degiudaizzato, che propone nell'imminenza della Pasqua ebraica, ad una
assemblea di giudei, cerimoniali di sapore nettamente gentile (l'eucarestia
teofagica come rito sacrificale del dio incarnato), una immagine costruita a
posteriori dalla scuola di San Paolo. E naturalmente non è legittimo dimostrare
che il Cristo era un pacifista, che non era il Messia, che era estraneo ai
movimenti esseno-zelotici, utilizzando a questo scopo i documenti che furono
costruiti apposta per sostenere l'ideologia antimessianista e per alterare la
figura di Cristo.
Insomma, quando noi leggiamo i
Vangeli (i Vangeli del canone ecclesiastico, naturalmente, non la letteratura
primitiva del giudeo-cristianesimo che, del resto, è stata opportunamente tolta
di mezzo), noi non abbiamo davanti agli occhi l'immagine storica di Gesù
Cristo, bensì l'immagine costruita artificialmente dalla revisione paolina come
base della catechesi neocristiana. I Vangeli sono il manifesto antimessianista
(e quindi anti-Cristo-della-storia) che ci mostra, non le idee di
Gesù, ma le idee di Paolo e dei suoi seguaci, ovverosia di colui che è
stato fra i nemici più accaniti di Cristo e che non si è affatto convertito ma
che, in un secondo tempo, ha convertito l'ideale di Cristo, appartenente al
pensiero giudaico più radicale, in una filosofia extragiudaica. Una conversione
che è stata ripetuta in modo assai simile, tre secoli dopo, dallo stesso
imperatore Costantino, che non si è mai convertito al cristianesimo di Gesù nel
modo in cui sostiene una certa interpretazione storica, ma che ha trovato
convenienti motivi per convertire ulteriormente la teologia
cristiana e renderla sempre più compatibile con le religioni già in voga
nell'impero romano (fu lui a volere energicamente il concilio di Nicea e a dare
inizio ad un'epoca plurisecolare di caccia all'eresia).
In pratica, dopo queste molteplici e
successive operazioni di ricostruzione teologica realizzate nell'arco di tre
secoli, le cose che leggiamo oggi nei Vangeli servono a indicarci ciò che Gesù non era molto più di
quanto non possano servire ad indicarci ciò che Gesù era. Anche se questa è un'idea inaccettabile da parte
di coloro che sono innamorati dell'immagine neo-cristiana del Gesù
figlio di Dio e che non possono tollerare che tale immagine sia ridotta
dall'analisi storica ad un prodotto di pura creatività teologica.
Non possiamo dimenticare le parole
scritte dai Padri della Chiesa Ireneo, Eusebio, Teodoreto: "...(gli
Ebioniti) seguono unicamente il Vangelo che è secondo Matteo e rifiutano l'apostolo Paolo,
chiamandolo apostata della legge...". (Ireneo, Adv. Haer., I, 26).
"...Gli Ebioniti, pertanto,
seguendo unicamente il Vangelo che è secondo Matteo, si affidano solo ad esso e
non hanno una conoscenza esatta del Signore...". (Ireneo, Adv. Haer.,
III, 11).
"...costoro pensavano che
fossero da rifiutare tutte
le lettere dell'apostolo (Paolo), chiamandolo
apostata della legge, e servendosi del solo Vangelo detto secondo gli ebrei,
tenevano in poco conto tutti gli altri...". (Eusebio di Cesarea, Hist.
Eccl., III, 27).
"...(I Nazareni) accettano
unicamente il Vangelo secondo gli Ebrei e chiamano apostata l'apostolo (Paolo)...".
(Teodoreto, Haer. Fabul. Comp. II, 1).
"...Essi sono Giudei che
onorano Cristo come uomo giusto e usano il Vangelo chiamato secondo Pietro...".
(Teodoreto, Haer. Fabul. Comp. II, 2).
Ma
questi ebioniti, nazorei (o nazareni)
ed ebrei, altri non erano che gli esseno-zeloti o i discendenti
degli esseno-zeloti che si erano messi a tavola col Messia e avevano spartito
il vino e il pane con lui, poco prima del suo arresto sul monte degli ulivi, e
coi quali Paolo si era sempre trovato in conflitto al punto da essere
considerato "uomo di menzogna" sia nei suddetti vangeli
giudeo-cristiani, sia nei documenti qumraniani come il Commentario di Abacuc
[vedi R.Eisenman "James the brother of Jesus"]. Ed è contro di loro
che si è scatenata, per secoli, una severa censura storica ed ideologica,
finalizzata agli interessi del riformismo neo-cristiano e della istituzione che
di esso si era fatta rappresentante.
[8] Le catacombe - strutture ipogee, poi
chiamate catacombe, furono usate fino
al IX secolo con funzione soprattutto di cimiteri. L'uso dei cimiteri e di
luoghi sacri costruiti sottoterra non va considerata comunque un'invenzione dei
primi cristiani, in tempi molto antichi, fin dal neolitico, sono esistite
parecchie popolazioni che hanno realizzato questo tipo di costruzioni, anche
tra gli stessi Romani alcuni culti pagani venivano celebrati in particolari
templi ipogei. I cimiteri sotterranei si diffusero rapidamente tra
le comunità cristiane sia in Italia sia in Africa.
Sono state
scavate in forma di cunicoli, gallerie sotterranee che formano una
rete sotto le città. Lungo le pareti dei cunicoli (cryptae) vi sono le
sepolture più modeste, i loculi, nicchie rettangolari distribuite in più
file, chiuse semplicemente da lastre di pietra o di cotto, decorate
configurazioni, simboli (per
esempio il pesce, simbolo di Cristo) o iscrizioni (per esempio vivas,
“che tu possa vivere”).
In certi punti
vi sono poi tombe più ricche e più grandi, costituite da una o più
camere per intere famiglie, decorate con pitture o stucchi. Si
tratta dei cubìculi dove si trovano i sarcofagi dei personaggi
più facoltosi. Sono stanze poligonali con soffitto a volte poggianti su
colonne. Sulle pareti si trovano le nicchie, anche queste coperte da volte
e spesso sovrastate da un timpano. Qui si trovano le decorazioni pittoriche.
Nei cubicoli si trova spesso un tipo di sepolcro monumentale,
l’arcosolio: profonda arcata cieca formante una nicchia che accoglieva
un’arca.
L’arca è un
sarcofago in pietra o marmo, ricoperto in genere da un coperchio in forma di
tetto e spesso ornato di rilievi ed elevato su un basamento. Sul fondo della
nicchia, la lunetta è spesso decorata con pitture.
Alla fine del
III secolo, con la vittoria del Cristianesimo, aumentano nelle catacombe le
sepolture dei personaggi facoltosi. Le più ambite sono quelle rese più illustri
dalla presenza dei martiri, sulle quali sorgeranno anche importanti edifici di
culto. L'imperatore Costantino, per esempio, farà erigere a Roma
un mausoleo (prima per sé, poi per la madre) sulla Catacomba dei
santi Pietro e Marcellino. Per sua figlia Costanza erigerà
un mausoleo sopra le Catacombe di Sant’Agnese, oggi meglio
conosciuto come chiesa di Santa Costanza.
Durante
il IV secolo d.C. le catacombe si estendono: oltre a quelle della
Chiesa di Roma ne sorgono altre gestite da privati, come L’Ipogeo nuovo
della via Latina, a Roma, ricco di sfarzose pitture. In seguito vari
fattori politici ed economici porranno fine ai grandi cimiteri cristiani.
[9] Eresia –
Il termine eresia deriva dal
greco hairesis che si
traduce scelta, opinione. Pertanto essa è una dottrina che si oppone a una verità
rivelata e proposta come tale dalla teologia di qualsiasi sistema religioso,
considerati come ortodossi.
L’eretico sceglie letteralmente
una parte della
dottrina nella fattispecie cristiana, tralasciando più o meno volutamente altre
parti.
Nel Nuovo
Testamento il termine s'incontra 9 volte ed equivale a “strane dottrine”, a “sette”. Già Paolo distinse eresia da scisma; gli Apologeti e
i Padri della Chiesa apportarono alla distinzione ulteriori precisazioni,
definendo l'eresia “errore dottrinale” e lo scisma “divergenza d'ortodossia”. Con Girolamo il
termine fu usato solo per indicare gruppi separatisi dalla Chiesa per false
dottrine (dissenso dottrinale), mentre si chiamò scisma il distacco per rifiuto
d'obbedienza alla gerarchia (dissenso disciplinare).
[10] Le origini dello Gnosticismo - Sin dal XIX secolo il problema
delle origini dello Gnosticismo ha appassionato e diviso gli studiosi, che non
hanno tutt’oggi una posizione univoca e definitiva sull’argomento.
Si può dire che esistono due
principali “scuole di pensiero” sull’argomento:
·
Alcuni
affermano, in vario modo, l’origine cristiana dello Gnosticismo
rilevando i punti di contatto con la dottrina cristiana. Questa ipotesi, a
lungo accantonata, è ritornata in auge dopo i contributi di Simone Petrement e,
per restare in Italia, di Manlio Simonetti e Edmondo Lupieri;
·
Altri
sostengono invece un’origine non cristiana, e precisamente orientale
(iranica), di questo movimento religioso. È la tesi oggi maggiormente
sostenuta: si pensi a Richard Reitzenstein, Mircea Eliade e Hans Jonas.
La biblioteca gnostica di Nag
Hammadi - La nostra conoscenza dello
Gnosticismo è molto migliorata dopo la scoperta di una vera e propria biblioteca gnostica a Nag Hammadi, in
Egitto. Il ritrovamento di testi sino a oggi sconosciuti ha,
infatti, permesso di verificare le citazioni e i sunti della dottrina gnostica
tramandatici dai Padri della Chiesa in opere antieretiche.
Quelle
citazioni e quei sunti erano - a quanto pare - abbastanza precise, anche se lo
studio diretto dei testi originali permette di allargare le conoscenze.
La dottrina gnostica in sintesi - Lo Gnosticismo non era un
movimento unitario ma lacerato da profonde divisioni e frammentato in una
moltitudine di sette e di scuole, a
volte dagli usi e dalle dottrine diametralmente opposti.
Ciononostante
è possibile riassumere sommariamente le loro dottrine in alcuni punti
fondamentali.
1. Secondo gli gnostici il
mondo non è stato creato dal Dio di Gesù Cristo ma da
un dio inferiore, il demiurgo, caratterizzato in modo negativo;
2.
La materia,
creata dal demiurgo, è negativa. “Vivere nel corpo è come
essere in esilio”, lontano dal vero Dio;
3.
Lo gnostico giunge a conoscenza di
questa condizione grazie allo pneuma, lo spirito, inteso quasi come
una scintilla divina sepolta nell’uomo, e per questa conoscenza è
in grado di salvarsi, ritornando a Dio.
La Chiesa contro lo Gnosticismo - L’eco degli scontri tra
cristiani e gnostici si fa sentire già negli scritti del Nuovo Testamento.
Il Prologo del Vangelo di Giovanni sembra
redatto proprio allo scopo di confutare la dottrina gnostica della creazione.
Allo stesso modo altri scritti di Giovanni portano traccia dello scontro con
alcune sette gnostiche particolari, come i nicolaiti e i doceti.
Il più
importante avversario dello gnosticismo fu il vescovo Ireneo di
Lione, autore di una monumentale opera dal titolo Contro le eresie.
In
quest’opera come in testi antignostici di altri autori si evidenziano i punti di
maggior distanza tra Cristianesimo e Gnosticismo: in
particolare, è ribadita la generale bontà della creazione e affermata
risolutamente la salvezza solo per l’opera mediatrice di Cristo, e
non per una qualche particolare conoscenza.
[11] Il Concilio di
Nicea – Costantino decise di tenere il primo grande concilio ecumenico nel 325 a Nicea, deciso per dirimere una questione
fondamentale per il Cristianesimo dei primi tempi. Il presbitero Ario sosteneva
la distinzione tra la figura del Padre (Dio) e quella del Figlio (cioè Gesù
Cristo).
Nel 325, l'imperatore si decise di convocare un
concilio per dirimere la questione fra cattolici e ariani. Il Concilio iniziò
il 20 Maggio 325 alla presenza di circa 220 vescovi, in larghissima maggioranza
della parte orientale dell'Impero.
Purtroppo non esistono documenti ufficiali di questo
concilio. Dalle ricostruzioni seguenti soprattutto quella di Eusebio di Cesarea, vescovo
amico e biografo di Costantino, sembra che gli interventi di Ario e dello
stesso Eusebio, anch'egli su posizioni ariane, affermava molto palesemente che
Cristo non era Dio, non furono tra i più felici: vinsero i moderati, che, dopo
estenuanti discussioni, aderirono al cosiddetto Credo Niceno, dove, a proposito
della natura di Cristo, si ribadiva il termine homooùsion (consustanziale,
cioè della stessa sostanza del Padre e generato, e non creato, che è quello che si recita oggi nel Credo).
L'Arianesimo fu condannato, Ario fu mandato in esilio
e i suoi libri bruciati, salvo poi ricomparire qualche anno più tardi,
riabilitato, quando – secondo alcune fonti – riuscì a convincere anche
Costantino stesso (ma su questo sarà necessario approfondire).
Molto si è discusso e si discute sul ruolo avuto
dall'Imperatore durante il Concilio. Quel che si sa è che egli – guerriero,
pagano, e assassino, ma mente assai illuminata – diresse personalmente i lavori, seduto su uno
scranno più piccolo di quello dei vescovi, ma di oro massiccio, avvolto da un
vestito di porpora splendente. Egli aveva programmato il concilio in modo
da esserne il protagonista esclusivo, riservandosi il ruolo di presidente e di
moderatore dei
lavori.
E stupisce pensare che da un tale consesso scaturì la
risoluzione di una questione teologica tra le più importanti per la storia del
Cristianesimo.
Così importante che la formula è contenuta nel Symbolum Apostolorum,
cioè il Credo fondante del Cristianesimo. Attenzione però, con una sottile
differenza: quello originale recita così: Credo in Deum Patrem
omnipotentem creatorem coeli et terrae. Et in Iesum Christum Filium eius
unicum, Dominum nostrum, qui conceptus est De Spiritu sancto natus ex Maria Virgine.
Qui, dunque, Gesù Cristo è soltanto il figlio di Dio. Nella
elaborazione post-concilio di Nicea, il Credo
diventa:
Credo in unum Deum,
Patrem omnipoténtem,
factórem cæli et terræ,
visibílium ómnium et invisibílium.
Et in
unum Dóminum Iesum Christum,
Fílium Dei Unigénitum,
et ex Patre natum ante ómnia sǽcula.
Deum de Deo, lumen de lúmine, Deum verum
de Deo vero,
génitum,
non factum, consubstantiálem Patri:
per quem ómnia facta sunt.
Qui
propter nos hómines et propter nostram salute
descéndit
de cælis.
Et
incarnátus est de Spíritu Sancto
ex
María Vírgine, et homo factus est.
Crucifíxus
étiam pro nobis sub Póntio Piláto;
passus
et sepúltus est,
et
resurréxit tértia die, secúndum Scriptúras,
et
ascéndit in cælum, sedet ad déxteram Patris.
Et
íterum ventúrus est cum glória,
iudicáre vivos et mórtuos,
cuius regni non erit finis.
Et in
Spíritum Sanctum, Dóminum et vivificántem:
qui ex Patre Filióque procédit.
Qui cum Patre et Fílio simul adorátur et
conglorificátur:
qui locútus est per prophétas.
Et
unam, sanctam, cathólicam et apostólicam Ecclésiam.
Confíteor unum baptísma in remissiónem
peccatórum.
Et exspécto resurrectiónem mortuórum,
et vitam ventúri sǽculi. Amen.
Come si vede, una differenza non da poco: Qui, il Figlio è
"generato e non creato, ed è della stessa sostanza del Padre".
Padre e Figlio, cioè sono la stessa cosa:
è la consustanzialità.
Eppure, questo principio - dopo
millenni - è ancora oggetto di scontri e dispute teologiche. Il Dio dei
cristiani è uno solo? O sono due – il padre e il figlio? O tre, come
sostiene il mistero trinitario, espresso dallo stesso Credo?
[12] Regni romano-barbarici - Regni nati dall’insediamento di popolazioni
germaniche nei territori dell’impero romano d’occidente.
Nella prima metà del V secolo questi popoli
furono accolti come federati nell’impero occidentale, che intendeva così
ottenere un rilevante appoggio militare ed evitare un loro insediamento in aree
troppo vicine all’Italia.
A questa fase risale la formazione dei regni:
·
visigoto
(tra Francia meridionale e Spagna),
·
suebo
(Spagna occidentale),
·
vandalo
(Africa)
·
burgundo
(bacino del Rodano).
Nel 476 Odoacre creò in Italia un regno di
tutte le popolazioni germaniche lì stanziate, ma dopo pochi anni fu travolto
dagli ostrogoti, mentre un altro regno fu istituito dai franchi in gran parte
della Gallia.
I germani insediati in questi regni imitarono
lo stile di vita delle popolazioni locali, conservando anche molte istituzioni
romane; lo stesso potere del re perse il precedente carattere puramente
militare, divenendo un potere di tipo territoriale.
I regni più solidi furono quelli in cui fu più
forte la solidarietà tra germani e latini, soprattutto dove gli invasori si
convertirono dall’arianesimo al cattolicesimo.
[13] Franchi – La
popolazione franca si formò nella prima metà del III secolo dall’unione di
diverse tribù germaniche. Comparsi intorno al 235 sulla riva orientale del
basso Reno, compirono incursioni nelle province romane Germania e Belgica,
apparendo ai Romani come dei giganti dai capelli rossi e dai lunghi baffi,
abili combattenti a piedi e specializzati nel lancio della scure a doppio
taglio.
Nel IV secolo, sconfitti da Aureliano, furono ammessi
nell’esercito romano come ausiliari
Nel 357 i Franchi che si stabilirono ad occidente della Mosa
ebbero da Giuliano l’Apostata lo status di foederati. Essi furono
allora chiamati con il nome di franchi salii, mentre quelli rimasti
sulla riva destra del Reno furono chiamatifranchi ripuari.
Nel 451 furono alleati di Ezio ai Campi catalaunici,
contro gli Unni
Alla fine del V secolo, i Franchi avevano fatto della
Renania e del Belgio settentrionale regioni interamente germanizzate: i Franchi ripuari si
impossessarono di Colonia e Treviri, mentre i Franchi salii arrivarono
fino alla Loira.
Dinastia di re dei franchi salii, stanziati nella regione di
Tournai, che con il re Clodoveo unificò e ampliò a tutta la Gallia il
regno franco.
Nel 486, Clodoveo eliminò i resti dell’esercito romano in
Gallia, nel 496 sconfisse sul Reno gli Alemanni e cominciò a penetrare nella
Gallia visigota.
Nel 498, con il battesimo di Clodoveo, i Franchi godettero
dell’appoggio dei vescovi della Gallia e condussero la guerra contro i visigoti
ariani anche in nome della religione.
Nel 507, dopo la battaglia di Vouillé, annetté la Gallia
visigota.
Prima di morire, Clodoveo riuscì ad imporre la sua autorità
anche sui ripuari.
Benché diviso in quattro regni, il popolo franco restò per
due secoli inquadrato dal potere dei Re merovingi, una dinastia che deriva il
nome dal loro capostipite, Meroveo, fu la prima dinastia dei franchi.
I re Merovingi sono stati chiamati a lungo re
fannulloni, per il fatto che il loro potere ben presto si affievolì a
favore di un casato di servi, i Pipinidi. Le implicazioni e le cause di ciò
sono tante, tra storicità e leggenda, e spiegano anche le ragioni di un altro
epiteto dei Merovingi: re taumaturghi. Al tempo dei Merovingi il
potere politico era diviso tra il re e il signore o maggiordomo di
palazzo. Allo stesso modo infatti, formalmente il Maggiordomo non poteva avere
un potere maggiore del suo sovrano, tuttavia era proprio il Signore di Palazzo
che radunava le truppe al campo Maggio (il campo Maggio era il campo nel
quale venivano reclutate le truppe dell'esercito) e portava avanti le campagne
militari.
Proprio questo potere che cresceva sempre di più nelle mani
dei maggiordomi, permise ai maestri di palazzo Pipinidi, dalla quale proveniva
la maggior parte dei signori di palazzo, prese progressivamente il sopravvento
sui Merovingi per poi sostituirli completamente assumendo nel 751 il titolo
regio con Pipino il Breve.
[14] Visigoti - Si installarono in Dacia nel III secolo. Nel
corso del secolo successivo si insediarono come federati nell’impero e si
convertirono all’arianesimo.
All’inizio del V secolo si spostarono verso
occidente, prima in Italia, dove saccheggiarono Roma nel 410, poi nell’area
compresa tra la Spagna e la Gallia sudoccidentale dove si
insediarono, abbandonando poi la Gallia all’inizio del VI secolo per
la pressione militare del franco Clodoveo.
Seppero creare, anche prima della conversione
al cattolicesimo, un’efficace convivenza con l’aristocrazia romano-iberica, di
cui rispettarono l’ordinamento religioso e da cui trassero importanti
collaboratori nell’organizzazione amministrativa del regno, con centro a Toledo.
Tuttavia solo la conversione e lo stretto legame tra la monarchia e
l’episcopato, dalla fine del VI secolo, favorirono la fusione culturale ed
etnica delle due stirpi, la cui aristocrazia unì modelli culturali romani con
uno stile di vita militare di tradizione germanica.
La loro costante debolezza politica permise
però la conquista araba, tra il 711 e il 713, che pose fine al regno visigoto.
[15] Vandali - Antica tribù
germanica originaria dello Jütland. Si scontrarono con i romani, quando,
occupata e devastata la Gallia nel 406, si trasferirono in Spagna e
vi si insediarono. Passati in Africa sotto la guida di Genserico, furono
riconosciuti come federati nel 435. Ma Genserico, dichiarata l’indipendenza,
attaccò e saccheggiò Roma nel 455.
[16] Impero bizantino - Organismo politico che per tutto il
Medioevo continuò in oriente l’impero romano, reggendosi intorno alla capitale
Costantinopoli (l’antica Bisanzio, restaurata e ribattezzata da Costantino nel
330).
Il suo atto d’origine può datarsi al 395, quando
alla morte di Teodosio l’impero fu diviso in una parte occidentale e in una
orientale, oppure al momento della caduta di Roma nel 476, quando Odoacre inviò
a Costantinopoli le insegne imperiali.
Fino a circa la metà del VII secolo, grazie
anche alla riconquista dell’Italia, dell’Illirico e dell’Africa da parte di Giustiniano (527-565), mantenne
aspirazioni di dominio universale, espresse dalla monumentale raccolta
del Corpus giuridico e dalla edificazione di Santa Sofia a
Costantinopoli.
Potenza e ricchezza dell’impero durarono
inalterate, nonostante le tensioni e le tendenze autonomistiche delle province
accese dai conflitti religiosi interni, fino al regno di Eraclio (619-641), il quale sconfisse i Persiani, ma dovette cedere
agli Arabi Siria, Egitto e Africa.
Nei decenni seguenti, furono persi i Balcani
continentali colonizzati dagli Slavi, gran parte dell’Italia invasa dai
Longobardi e gli Arabi arrivarono a minacciare direttamente Costantinopoli. La
salvezza e la resistenza dell’impero (ridotto sostanzialmente al dominio
dell’Asia minore, della penisola balcanica e di parte dell’Italia meridionale)
furono assicurate dall’azione militare e dall’opera di riorganizzazione e
riforma interna di nuove e forti dinastie, succedutesi fino alla fine del XII secolo.
Per primi gli Isaurici (717-802), che con Leone
III arrestarono l’avanzata degli Arabi battuti ad Akronos nel 739 e, nel
tentativo di consolidare il potere imperiale, promosse l’iconoclastia, scatenando violente reazioni interne e la scomunica
da parte di papa Gregorio III.
Quindi Basilio I il Macedone e i suoi
successori (867-1057) che riportarono l’impero alla sua antica potenza,
strappando agli Arabi parte dei territori perduti in Italia e soprattutto
riassoggettando i Balcani, con la sconfitta dei Bulgari nel 1014.
Un grave indebolimento del potere imperiale, a
vantaggio delle famiglie magnatizie dei grandi proprietari fondiari, coincise
con un nuovo più grave periodo di crisi, dovuto all’attacco dei turchi, che si
impadronirono dell’Armenia, della Cappadocia, della Mesopotamia e di parte
della stessa Anatolia, mentre i Normanni conquistavano tutta l’Italia
meridionale e attaccavano Macedonia ed Epiro.
I problemi interni e i pericoli esterni furono
combattuti ancora con grande energia dai Comneni
(1081-1185), specialmente i primi tre restaurarono l’impero rinvigorendo
l’apparato militare contro la burocrazia della capitale. Fecero larghe
concessioni fondiarie alle famiglie aristocratiche in cambio del servizio
militare. Da un lato ciò rafforzò l’esercito, ma dall’altro causò un processo
di feudalizzazione a danno del potere centrale. Con un’abile politica di
alleanze, in particolare con i crociati e con Venezia, i Comneni riuscirono per
lungo tempo a contenere i normanni dell’Italia meridionale e i russi. I Comneni
attuarono tuttavia quella politica di apertura all’Occidente e ai suoi mercanti
e di alleanza con le spedizioni crociate, che doveva infine condurre allo
scontro fra bizantini e latini e alla decadenza definitiva dell’impero
orientale.
Questa si manifestò sotto gli Angeli (1185-1204), quando nei Balcani
Bulgaria e Serbia riacquistarono l’indipendenza e la quarta crociata guidata
dai veneziani si impadronì di Costantinopoli nel 1204. Il suo territorio rimase
diviso in impero latino a Costantinopoli, imperi grecobizantini di Trebisonda
(sul mar Nero) e di Nicea (in Anatolia) e despotato bizantino in Epiro.
Nel 1261 Michele
VIII Paleologo imperatore di Nicea si alleò con Genova contro Venezia,
riconobbe la supremazia ecclesiastica di Roma e tentò di ripristinare i confini
del XII secolo. riconquistò Costantinopoli, ma gli occidentali e i veneziani
rimasero nel Peloponneso e nelle isole ionie ed egee, mentre i turchi si
impadronivano dell’Anatolia.
L’organizzazione militare e burocratica e il
governo autocratico dell’imperatore non ressero alle continue crisi di
successione dinastica, alla crescita della forza centrifuga delle potenti
aristocrazie fondiarie provinciali, alla lenta e inesorabile decadenza della
fortuna economica e della potenza navale, determinata dall’espansione prima dei
musulmani e poi dell’Europa latina: agli inizi del 1400 non restava più che la
provincia intorno alla capitale e una parte dell’Acaia.
Nel 1453 i turchi presero Costantinopoli e nel
1461 anche Trebisonda, ponendo fine alla millenaria storia dell’impero
bizantino.
[17] Bisante – Il bisante è il nome medioevale
delle monete d'oro bizantine. Nell'Europa del primo Medioevo le monete d’oro
non erano battute mentre le valute più diffuse erano in argento e bronzo,
tuttavia circolavano in piccole quantità, provenienti dalla regione del Mar
Mediterraneo, in particolare erano altamente stimate le monete d'oro del mondo
islamico (dīnār) e bizantino. Queste monete d'oro erano comunemente
chiamate bisanti, dalla parola Byzantium, forma
latinizzata del nome greco della capitale, Costantinopoli, da dove generalmente
venivano le monete d'oro e a cui erano associate. Il rapporto tra oro ed
argento in questo periodo era di 1:9 e, generalmente, le monete d'oro erano
usate quando i pagamenti avevano qualche speciale significato rituale o per
mostrare una qualche forma di rispetto.
La monetazione in oro fu reintrodotta in
Europa nel 1252, quando Firenze iniziò a battere la moneta d'oro conosciuta con
il nome di fiorino.
[18] Costantinopoli -
Il luogo prescelto da Costantino era un piccolo borgo chiamato Bisanzio, godeva
di una posizione strategica eccezionale, sulla punta di una penisola che
dominava le vie di comunicazione dei Paesi posti tra il Mar Nero e il
Mediterraneo; se vi si fosse stata costruita una piazzaforte, questa avrebbe
potuto sorvegliare e tenere a bada i Goti a nord del Mar Nero e i Persiani a
sud.
Il porto, d’altronde, poteva controllare tutto il commercio
tra i Paesi del Mediterraneo, quelli del Vicino Oriente e le terre ricche di
grano delle rive del Mar Nero. Per questi motivi Costantino incominciò a
edificare in quel luogo una «nuova Roma».
Nel 330 la città, chiamata Costantinopoli, fu solennemente
inaugurata.
Caduto l'Impero Romano d'Occidente, per tutto
il Medioevo, Costantinopoli restò capitale dell'Impero Bizantino, e la più
grande e ricca città d'Europa: nel X secolo contava un
milione di abitanti.
La base del diritto romano fu gettata a Costantinopoli
da Giustiniano, che tra il 528 e il 565 formò il Corpus
Iuris Civilis.
Dotata di un notevole impianto di fortificazioni, la città
rimase per secoli inespugnata, fino al 1204, quando fu saccheggiata dagli
eserciti della quarta crociata al comando di Enrico
Dandolo e Bonifacio I del Monferrato che insediarono
un Impero Latino, che durò per poco più di mezzo secolo, fino
a Baldovino II, quando nel 1261 la città fu riconquistata
dai bizantini.
La conquista crociata aveva accelerato il lento declino
della città, iniziato da tempo.
I bizantini la tennero per altri due secoli fino a Costantino XI, quando, il 29
maggio 1453, divenuta una testa senza corpo, capitale di un
impero inesistente, ospitava solamente 50.000 abitanti, cadde in mano ai
turchi ottomani guidati da Maometto II il Conquistatore,
che ne fece la capitale dell'Impero Ottomano.
La caduta di Costantinopoli, e quindi la fine dell'Impero
Romano d'Oriente, è indicata come l'evento che convenzionalmente chiude il
Medioevo e inizia l'Evo moderno.
[19] Giustiniano - Nipote e successore di Giustino col quale collaborò fin
dal 518, fu da lui associato al trono.
Il suo lungo regno fu caratterizzato da una
attenta restaurazione dell’antico impero romano in tutti i suoi aspetti. Questo
disegno politico si attuò soprattutto nel campo del diritto.
Abile nella scelta dei suoi collaboratori,
Giustiniano affidò la riforma della legislazione a Triboniano, incaricandolo di
mettere ordine nell’immenso materiale legislativo prodotto dall’impero romano,
così da renderlo immodificabile, pur lasciando spazio alle nuove leggi
bizantine.
Ne risultò il Corpus iuris civilis realizzato
in quattro parti:
·
il Codex,
raccolta degli editti imperiali;
·
il Digesto,
raccolta dei maggiori scritti dei giuristi romani;
·
le Institutiones,
manuale per lo studio del diritto;
·
le Novellae,
leggi successive al codice.
Dal punto di vista religioso l’imperatore
cercò di far prevalere la ragione di stato, perseguendo l’unità religiosa. Per
questo nel 533 fece condannare i cosiddetti tre capitoli del concilio
di Calcedonia, cercando nel contempo di salvare le altre decisioni di quel
concilio e di accontentare i monofisiti: in realtà la sua azione non portò ai
risultati sperati perché creò uno scontento generale che aumentò la tensione
preesistente.
Le sue ambizioni politico-militari erano
dirette alla riconquista dell’antico impero romano. Grazie all’aiuto di Belisario, riaffermò la pace sui confini
orientali con il regno persiano nel 532, recuperò le coste dell’Africa
(533-534), parte del sud della Spagna in mano ai Visigoti nel 554 e l’Italia,
dove gli Ostrogoti sostennero una resistenza ventennale che fu piegata solo dal
generale stratega Narsete nel 555.
Il progetto giustinianeo ebbe però breve
durata poiché la restaurazione territoriale mancava di solide basi e
l’imperatore lasciò ai suoi successori un impero in completa rovina economica e
finanziaria incapace di resistere alle pressioni esterne.
[20] Maometto (575-632) è il profeta che si
dice scelto da Dio per comunicare agli Arabi la vera religione rivelatagli dall’arcangelo Gabriele e registrata fedelmente nel Corano, il libro
sacro della religione
musulmana.
La nuova dottrina predica l’esistenza
di un solo Dio, Allah, al quale si deve una sottomissione
incondizionata (= Islam, termine che designò la religione nel
suo complesso e il mondo
che la pratica); questa richiede l’ubbidienza a cinque precetti fondamentali:
·
il
giuramento di fede,
·
la
preghiera rituale
cinque volte al giorno,
·
il
digiuno durante il mese del ramadan,
·
l’elemosina
legale
(una sorta di tassa da versare alla comunità),
·
il
pellegrinaggio alla Mecca.
Maometto organizzò i suoi fedeli in una specie di Stato teocratico ed i
suoi successori cominciarono un
processo di espansione che, tra il
VII e la prima metà dell’VIII
secolo, estese i confini dell’Islam dalla Spagna alla Siria, dall’Egitto all’Asia occidentale, amalgamando popoli e culture diverse.
[21] Guerra santa o gihâd - Termine
arabo che significa letteralmente sforzo o impegno. Esso indica per il musulmano,
la guerra santa, intesa sia come opera missionaria per la propagazione della
fede sia come vera e propria lotta armata contro gli infedeli.
[22] Califfo - Termine impiegato per indicare il Vicario o Successore di
Maometto alla guida politica e spirituale della Comunità islamica. La massima
magistratura islamica non è prevista nel Corano e neppure
nella Sunna di Maometto e fu quindi realizzata da alcuni fra i
primissimi compagni del Profeta nella stessa giornata della sua morte, l'8
giugno 632.
Per evitare probabilmente che i musulmani di
Medina scegliessero come successore politico di Maometto uno dei loro, un
gruppo di musulmani meccani riuscirono a far sì che il prescelto fosse per
l'appunto Abū Bakr che, per essere stato il miglior amico di Maometto e
verosimilmente il primo uomo convertitosi all'Islam, era assai apprezzato da
tutti e garantiva perciò una linea di comportamento non dissimile da quella
messa in atto dal Profeta.
L'espressione usata per indicarlo fu quindi "khalīfat rasūl
Allāh" (vicario, o successore, dell'Inviato di Dio).
[23] Carlo Martello - Maestro di palazzo dei
re franchi. Figlio naturale di Pipino di Héristal, resse di fatto il regno
franco come maggiordomo degli ultimi re merovingi, grazie al prestigio
conquistato con le vittorie militari. Sconfisse gli arabi a Poitiers nel 732.
Favorì la cristianizzazione delle popolazioni settentrionali sottomesse e
mantenne buoni rapporti con i longobardi.
[24] Leone III di Bisanzio - Noto anche come Leone III
l'Isaurico fu imperatore bizantino dal 717 sino alla sua morte nel 741.
Elevato al trono nel 717 in sostituzione di
Teodosio III, vinse l'anno dopo gli Arabi, che assediavano Costantinopoli, e li
respinse fino all'Eufrate.
Dopo la vittoria militare si dedicò alle
riforme interne dello stato, ormai precipitato nell’anarchia, provvide a
rappacificarsi con i popoli slavi e riorganizzò le forze armate. Grazie a tutto
questo poté con maggior facilità respingere i successivi tentativi da parte dei
Saraceni di invadere l'impero nel 726 e nel 739.
Nel suo regno introdusse numerose riforme
fiscali, liberò dalla schiavitù i servi e introdusse nuove leggi marittime,
sollevando molte critiche da parte dei ceti più nobili e del clero.
In campo religioso dapprima promosse una
campagna per il battesimo della popolazione, in seguito si batté per eliminare
il culto delle immagini sacre, l’iconoclastia, ormai troppo diffuso
nell'Impero, andando anche contro le opinioni della Chiesa di Roma e di Papa
Gregorio II che lo scomunicò. La condanna di Leone fu confermata anche dal
successore Gregorio III che, nel 731 riunì un sinodo apposito per condannarne
il comportamento.
Leone III decise allora di portare la Grecia ed il sud
dell'Italia sotto l'egida del Patriarca di Costantinopoli e, a tal fine,
promosse una campagna militare nel 737.
[25] Stato della Chiesa - La formazione del patrimonio temporale della
Chiesa romana risale a una serie di donazioni fondiarie (secoli IV-VI).
Nell’insufficienza del potere imperiale
bizantino, il patrimonium Sancti Petri divenne la base
territoriale per l’azione politica della sede apostolica nell’Italia centrale:
con gli accordi tra papa Stefano II e
Pipino il Breve nel 754 poggianti
sulla Donazione di Costantino, essa figurò come autorità sovrana su
vasti territori compresi tra il Po e Benevento.
La donazione
di Costantino è un documento apocrifo attribuito a Costantino I (IV
secolo). Rivolto a papa Silvestro I, si compone di due parti: una, agiografica,
narra la leggenda di san Silvestro, secondo la quale l’imperatore fu guarito
dalla lebbra dal papa; l’altra espone la gerarchia ecclesiastica e narra la
donazione da parte di Costantino alla Santa sede della parte occidentale
dell’impero, compresa la città di Roma. La redazione risale probabilmente alla
seconda metà dell’VIII secolo. È però opinabile anche una sua composizione in
occasione dell’incoronazione di Carlo Magno nell’800. Dopo l’età
carolingia la Donazione
fu riesumata da Leone IX nel 1053, passando
poi nel Decretum Gratiani e in altre raccolte di decretali,
essendo considerato documento di tutto rispetto dagli stessi avversari del
potere temporale dei pontefici. La falsità del documento, già ipotizzata da
Ottone III per motivi formali come la mancanza del sigillo, fu poi dimostrata
in base a incontrovertibili argomenti storici e linguistici da Nicolò Cusano e
da Lorenzo Valla nel De falso credita et ementita Costantini donatione
nel XV secolo.
Con la Riforma gregoriana il
papato si liberò della giurisdizione tutelare esercitata dall’impero sulle
terre della chiesa. La simonia, i patrimoni ecclesiastici, il matrimonio e il
concubinato dei preti erano così diffusi che le austere arringhe dei religiosi
più intransigenti trovarono ampi consensi fra gli strati popolari. Il movimento
della riforma mirò alla moralizzazione del clero, a togliere all’impero il
diritto di nominare i vertici della gerarchia ecclesiastica e alla
trasformazione del papato in una monarchia, tale da permettere una più agevole
riorganizzazione della chiesa. Le proteste e i fermenti di rinnovamento
arrivarono soprattutto dai monaci che avevano subito l’influenza dell’abbazia
di Cluny, che appoggiò il papato nella Riforma; in Italia si schierarono
contro il clero corrotto Romualdo di Ravenna, fondatore dell’eremo
di Camaldoli, e Giovanni Gualberto, fondatore dei vallombrosani,
mentre in Lombardia si diffondeva il movimento della pataria. Di
fronte a tutte queste richieste interne all’organismo ecclesiastico, il papato
si impegnò in un’azione di riforma; in particolare tutta l’opera di Gregorio
VII fu rivolta al risanamento del comportamento del clero e alla
riorganizzazione del mondo ecclesiastico in un sistema monarchico di governo.
Dal XIII secolo in poi i papi elevarono la
sovranità diretta sul loro territorio a garanzia della libertas
ecclesiae. Innocenzo III (1198-1216) divise lo Stato pontificio in
quattro province, affidate a rettori: Campania (basso
Lazio), Patrimonio (alto Lazio), ducato di Spoleto, marca di Ancona.
Durante la cattività avignonese (1309-1377) il
controllo dello Stato pontificio fu ripreso dal cardinale Albornoz, che con le Constitutiones del
1357 diede a esso una legislazione unitaria, rimasta in vigore fino al 1816.
Non fu però eliminato il problema delle signorie detenute come vicariati del
papa, rafforzatesi durante il Grande scisma (1378-1417): il
loro smantellamento, avviato nel Rinascimento mentre lo Stato pontificio si
inseriva nel sistema politico delle potenze europee, fu portato a termine da Giulio II (1503-1513) con il recupero di
Bologna, Perugia e della Romagna.
Il papato della Controriforma utilizzò le
risorse statali come supporto finanziario per il rilancio del suo
universalismo; tali esigenze portarono con Sisto
V (1585-1590) all’adozione di riforme centralistiche nell’amministrazione
dello stato, affidate alla Consulta e
poi alla Congregazione del buon governo,
che tuttavia non poterono vincere la rete dei particolarismi che, complice il
nepotismo e i favori della corte, bloccarono nei secoli XVII-XVIII lo sviluppo
economico e sociale dello Stato pontificio in una rete di gerarchie
parassitarie.
Sopravvissuto fino a Napoleone, con la
costituzione del Regno d’Italia esso fu privato delle regioni più sviluppate:
perdita di Emilia-Romagna con la pace di
Tolentino del 1797 e annessione delle Marche nel 1809. La sua esistenza,
salvata dal cardinale Consalvi al
congresso di Vienna nel 1815 ed emendata da Pio IX con la concessione dello
Statuto del 1848, fu dichiarata finita dalla Repubblica romana nel 1849 e poi
cancellata dalle truppe piemontesi che conquistarono i territori dello stato
(1859-1860) e poi la capitale nel 1870.
[26] Teodolinda - Di stirpe bavara, nel 589 sposò il re Autari e
nel 591, alla sua morte, trasmise il titolo regio al nuovo marito, Agilulfo,
duca di Torino. Fu protagonista dell’avvicinamento tra il regno e il papato,
con la conversione del popolo longobardo al cattolicesimo. Morto Agilulfo nel
616, resse il governo a nome del figlio minorenne Adaloaldo.
[27] Donazione di Sutri - Cessione formale a papa Gregorio II dei castelli di Sutri,
Bomarzo, Orte e Amelia da parte del re longobardo Liutprando. Contestuale alla
formulazione dell’apocrifa Donazione di Costantino, è
convenzionalmente ritenuta l’origine dello Stato della chiesa e del potere
temporale dei papi.
[28] La Regola Benedettina - Nel monastero di Montecassino
Benedetto compose la sua Regola. Prendendo spunto da regole precedenti, in
particolare quelle di san Giovanni Cassiano e san Basilio egli combinò
l'insistenza sulla buona disciplina con il rispetto per la personalità umana e
le capacità individuali, nell'intenzione di fondare una scuola del servizio del
Signore.
La Regola benedettina, in latino
denominata Regula monachorum o Sancta Regula,
dettata da San Benedetto da Norcia nel 534, consta di un Prologo e di
settantatre capitoli. È una dettagliata regolamentazione dei diversi
aspetti della vita monastica, che è organizzata intorno a quattro assi
portanti, volti a permettere di fare fronte alle tentazioni impegnando
continuamente ed in modo vario il monaco: la preghiera comune, la preghiera
personale, lo studio e il lavoro.
La Regola, dotta e misteriosa sintesi del
Vangelo, nella quale si organizza nei minimi particolari la vita dei monaci,
diede nuova ed autorevole sistemazione alla complessa, ma spesso vaga e
imprecisa, precettistica monastica precedente. I due cardini della vita
comunitaria sono il concetto di stabilitas loci e
la figura dell'abate, padre amoroso, mai chiamato superiore, e
cardine di una famiglia ben ordinata che scandisce il tempo nelle varie
occupazioni della giornata durante la quale la preghiera e il lavoro si
alternano nel segno del motto ora et labora.
I monasteri che seguono la Regola di san
Benedetto sono detti benedettini. Anche se ogni monastero è autonomo sotto
l'autorità di un abate, si organizzano normalmente in confederazioni
monastiche, delle quali le più importanti sono la congregazione cassinense e la
congregazione sublacense, originatesi rispettivamente attorno all'autorità dei
monasteri benedettini di Montecassino e di Subiaco.
[29] Carolingi –
I Carolingi regnarono in Europa dal 750 fino al X secolo. I Carolingi devono il loro nome a
Carlo Martello, maggiordomo di palazzo dell'Austrasia, del quale la
vittoria a Poitiers interruppe l’avanzata degli Arabi verso nord, e gli donò un’immensa
fama nell'occidente cattolico.
La dinastia dei Carolingi ha le sue origini nella famiglia dei Pipinidi, che ebbero la
carica di maggiordomi di palazzo sotto il regno dei sovrani merovingi
d'Austrasia. Man mano che il potere della dinastia merovingia andava
diminuendo, i maggiordomi di Palazzo Pipinidi accrebbero il loro potere: già Pipino di Herstal dirigeva in modo quasi
autonomo la politica del regno; così, nominavano i duchi, i conti, negoziavano
gli accordi con i paesi vicini, dirigevano l'esercito, estendevano il
territorio del regno e arrivavano perfino a scegliere i re merovingi.
Il territorio particolarmente apprezzato dai Pipinidi, fu la
regione di Liegi, Aquisgrana e Colonia.
Pipino il
Breve mise fine alla dinastia merovingia
nel 751: stanco di dover dipendere da re inutili e fastidiosi, fece rinchiudere
Childerico III, e si proclamò re al
suo posto, diventando così il primo re dei Franchi
carolingi.
Carlo Magno, figlio di Pipino il Breve, è senza alcun dubbio il sovrano
che segna maggiormente l'epoca carolingia, per la longevità del suo regno, ma
anche grazie al suo carisma, alle sue conquiste militari e alle sue riforme.
Dopo la morte del figlio di Carlo Magno, Ludovico il Pio, divise il regno tra i
suoi figli; il territorio fu diviso da est ad ovest in tre regni:
·
Lotario I
ereditò il titolo imperiale e la parte centrale del regno il suo regno
comprendeva inoltre le capitali politiche (Aquisgrana) e religiose (Roma)
dell'impero. Il titolo imperiale perse però la sua importanza: dopo il trattato
di Verdun, Lotario conservò la dignità imperiale, che non corrispondeva più a
nessun potere superiore a quello degli altri re.
·
Ludovico II il Germanico
ricevette la parte orientale dove fondò una dinastia che regnò sulla Germania
fino al 911.
·
Carlo il Calvo
ottenne la parte occidentale dell'impero dove rimarrà la dinastia carolingia
fino all'arrivo dei Capetingi nel 987.
Alla
fine del IX secolo, delle vere e proprie armate vichinghe portano devastazione
fino al cuore del regno occidentale. I re carolingi sembravano impotenti. Carlo
il Calvo cercò di costruire delle fortificazioni aggiuntive e chiese ai capi
dell'aristocrazia di difendere le regioni minacciate:
·
Roberto il Forte
fu messo dal re alla testa di una marca occidentale; morì combattendo contro i
Vichinghi nel 866.
·
Il conte Oddone difese Parigi contro un attacco venuto dalla Senna nel
885.
Questi nobili acquistarono un immenso prestigio che
contribuì all'indebolimento del potere reale. Le vittorie militari erano ormai
attribuite ai marchesi e ai conti.
L'incapacità dei Carolingi di risolvere il problema
scandinavo era manifesta: nel 911, Carlo
il Semplice cedette la Bassa Senna al capo vichingo Rollone, e si rimise a lui per difendere l'estuario e il fiume, in
aiuto di Parigi. Questo clima d'insicurezza
accelerò la disgregazione del potere carolingio.
Ad Est si profilò una nuova minaccia con l'arrivo dei Magiari, un popolo delle steppe che
occupò la Pannonia. Fanno le loro prime incursioni ai margini dell'impero, in
Moravia nel 894, in Italia nel 899. Nel 907, il regno slavo della Grande
Moravia cedette a causa dei nuovi invasori.
Dalla fine del IX secolo, i re Carolingi regnarono troppo
poco tempo per essere efficaci:
·
Carlo III il Grosso
fu re per 3 anni (879-882);
quindi, non riuscirono ad imporre una politica a lungo
termine.
Dalla
fine del IX secolo, alcuni aristocratici che non facevano parte della famiglia
dei Carolingi accedettero al potere: nel 888, dopo la morte di Carlo il Grosso, Berengario I gli succede sul trono
d'Italia.
Nel X secolo, le dinastie che si imposero
dappertutto nel territorio carolingio non discendevano più da quella
carolingia.
Alla fine del X secolo, l'autorità centrale carolingia
sparì, a vantaggio degli aristocratici, in particolare dei principi
territoriali; è la fine della dinastia carolingia e il trionfo delle stirpi aristocratiche.
[30] S.R.I. – Sebbene si consideri il 962 come
anno di fondazione del Sacro Romano Impero da parte di Ottone I, è preferibile
legare l'inizio del Sacro Romano Impero alla incoronazione di Carlo Magno come
Imperatore dei Romani nell'800.
La maggioranza degli storici considera che
l'instaurazione dell'Impero sia stato un processo avviato dalla spartizione del
Regno Franco attuata dal Trattato di Verdun nell'843 proseguendo la dinastia
Carolingia in modo indipendente nelle tre sezioni.
Il duca di Sassonia, incoronato Imperatore col
nome di Ottone I il Grande nel 962 ebbe la benedizione del Papa. Ottone aveva
guadagnato molto del suo potere, quando nel 955 aveva sbaragliato i Magiari
nella Battaglia di Lechfeld.
La sua incoronazione è indicata come una translatio
imperii, trasferimento dell'Impero, sottintendendo che c'era e ci sarebbe
stato sempre un solo Impero, iniziato con Alessandro Magno, passato ai Romani,
poi ai Franchi, e finalmente al Sacro Romano Impero.
Gli imperatori tedeschi si consideravano
quindi i diretti successori dell'Impero Romano; e per questo motivo
inizialmente si davano il titolo di Augusto. Inizialmente essi non
si chiamarono ancora Imperatori Romani, probabilmente per non
entrare in conflitto con l'Imperatore Romano che ancora esisteva a
Costantinopoli. Il termine Imperator Romanorum divenne comune solo
successivamente all'epoca di Corrado II il Salico.
A quel tempo, il regno di Germania fu non
tanto tedesco, quanto una confederazione delle vecchie tribù
germaniche dei Bavaresi, Alemanni, Franchi e Sassoni. L'Impero come unione politica
sopravvisse solo per la forte personalità di Ottone: anche se formalmente
eletto dai capi delle tribù germaniche, nella realtà riuscì a designare il loro
successori.
Questo cambiò dopo Enrico II, morto nel 1024
senza figli, quando Corrado II, primo della dinastia Salica, fu eletto Re nello
stesso anno solo dopo qualche controversia. Il re era scelto con una complicata
combinazione di influenza personale, lotte tribali, eredità ed acclamazione da
parte dei capi chiamati a formare l'assemblea dei Grandi Elettori.
Già a quel tempo il dualismo fra i territori,
quelli delle vecchie tribù radicate nelle terre dei Franchi, ed il
Re/Imperatore, divenne solo apparente. Ciascun Re preferiva passare la maggior
parte del tempo nei suoi territori. Questa pratica cambiò solo al tempo di
Ottone III Re nel 983, imperatore dal 996 al 1002, che cominciò ad utilizzare
le sedi vescovili sparse nell'Impero come sedi temporanee del governo. Anche i
suoi successori Enrico II, Corrado II ed Enrico III, apparentemente riuscirono
a legare i Duchi al territorio. Non è, quindi, una coincidenza se all'epoca la
terminologia cambia e si trovano le prime occorrenze del termine Regnum
Teutonicum.
La gloria dell'impero si estinse quasi
nella Lotta per le investiture, durante la quale Papa
Gregorio VII scomunicò Enrico IV (Imperatore dal 1084 al
1106).
Sebbene fosse stata tolta dopo il viaggio
a Canossa del 1077, la scomunica ebbe vaste conseguenze. Nel frattempo
i duchi tedeschi avevano eletto Re Rodolfo di Svevia, che Enrico IV sconfisse
solo dopo una guerra di tre anni nel 1080. Le radici mitiche dell'Impero erano
danneggiate per sempre; il Re tedesco era stato umiliato. Più importante
ancora, la Chiesa diveniva un giocatore indipendente sulla scacchiera
dell'Impero.
La
concezione della sacralità e dell'universalità dell'impero, sancita
dall'investitura papale dell'imperatore, che fu alla base dell'ideologia
imperiale da Ottone I a Enrico VII di Lussemburgo, provocò tuttavia un conflitto con il
papato, il quale rivendicò l'autorità temporale già dal tempo della lotta
per le investiture con Gregorio VII e giunse con Innocenzo III ad affermare la propria suprema autorità temporale e
spirituale. Inoltre l'autorità imperiale incontrò sempre più l'opposizione dei
poteri politici particolari, feudali e commerciali, in Italia e nella stessa
Germania. La mancata elezione di un imperatore per un ventennio nella seconda
metà del XIII secolo segnò la crisi definitiva dell'autorità universale
imperiale.
La Bolla
d'oro, promulgata nel 1356 a Norimberga da Carlo IV, che regolò per circa
tre secoli la procedura di elezione degli imperatori del Sacro romano impero,
che attribuiva il diritto di eleggere l'imperatore ai principi elettori, sancì
il carattere tedesco dell'impero, che si emancipò da allora dal papato.
Questa
fu affidata, a maggioranza, a sette grandi elettori (margravio del Brandeburgo,
duca di Sassonia, conte del Palatinato e re di Boemia, insieme agli arcivescovi
di Colonia, Treviri e Magonza), dei cui principati si stabilì la indivisibilità
e, per i laici, anche la ereditarietà secondo il principio della primogenitura.
Segno
della nuova situazione fu il termine Sacro romano impero di nazione germanica,
comparso nel Quattrocento, che univa la vecchia pretesa all'universalità con il
nuovo carattere nazionale dell'impero. Non riuscì il tentativo di Carlo V di
creare un impero universale. Egli fu costretto a dividere i possedimenti degli
Asburgo, mentre il titolo imperiale passò al ramo austriaco della dinastia.
Il
Sacro romano impero fu caratterizzato nell'età moderna dal dualismo
costituzionale di imperatore e ceti imperiali che si era cristallizzato alla
fine del Quattrocento.
Questo
dualismo fu confermato dalla pace di Augusta del 1555 e dalla pace di Vestfalia
del 1648. Il Sacro romano impero non era uno stato, ma un sistema di diritto
pubblico che univa politicamente non tutti i tedeschi e molti non tedeschi (V.
Press). L'esistenza al centro dell'Europa di un organismo politico incapace di
una politica estera aggressiva fu un fattore essenziale dell'equilibrio degli
stati europei. Il carattere di grandi potenze assunto dall'Austria e dalla
Prussia nel Settecento svuotò però progressivamente di significato il Sacro
romano impero.
Esso
divenne completamente obsoleto dopo la Rivoluzione francese e fu abolito nel
1806 da Francesco I d'Asburgo, in conseguenza del nuovo assetto dato alla
Germania da Napoleone.
[31] Carlo Magno - Re di Neustria (758-814), re di Borgogna
(768-814), re dei Franchi (771-814), imperatore del Sacro romano impero
(800-814). Figlio di Pipino il Breve, re dei franchi, e di Berta, figlia di
Cariberto, conte di Laon.
Alla morte del fratello Carlomanno nel 771
incorporò anche i suoi domini, costrinse alla fuga i suoi figli e si fece
acclamare unico re dei franchi. Nello stesso anno ripudiò la moglie Ermengarda,
figlia del re dei longobardi Desiderio, e sposò la nobile sveva Ildegarda.
Nel 773, su sollecitazione di papa Adriano I,
scese in Italia contro i Longobardi e assediò, prima a Pavia e poi a Verona, il
re Desiderio e suo figlio Adelchi. Nel giugno del 774, sempre con il sostegno
della chiesa, fece prigioniero Desiderio e annetté alla corona anche il Regno
longobardo.
Nel 776 sconfisse il duca del Friuli; nel 780
intervenne, di nuovo su richiesta del papa, contro Arechi, duca di Benevento e
genero di Desiderio, che avevaappoggio bizantino, e lo sconfisse
definitivamente nel 787. Contemporaneamente agli interventi nell’Italia
longobarda condusse numerose campagne diplomatiche e militari. Attuò sanguinose
campagne militari contro i sassoni che nell’804 furono forzatamente
cristianizzati.
Fra il 787 e il 793 combatté contro i Bavari
fino alla sconfitta del loro re Tassilone III. Gli Avari investiti dagli
eserciti franchi fra 791 e 796, furono in parte dispersi e in parte sottomessi
e convertiti al cristianesimo.
Minor successo ebbero le spedizioni verso
nord, contro danesi e normanni, e verso sud, contro gli arabi di Spagna. Qui,
dopo alcuni successi iniziali nel 778, Carlo fu sconfitto a Saragozza e a
Roncisvalle e solo nell’801 il figlio Ludovico, re d’Aquitania, poté concludere
una pace con l’emirato di Cordoba e provvedere alla creazione di una marca
ispanica.
Il grande impero costruito da Carlo fu
consacrato alla fine del secolo, quando papa Leone III, minacciato da una
congiura nobiliare, gli chiese protezione, lo accolse a Roma con i più alti
onori e nella notte di Natale dell’anno 800 lo incoronò imperatore.
L’opera di rafforzamento e di consolidamento
dell’impero continuò negli anni successivi. In particolare, la ricostruzione di
un impero d’occidente rese difficile i rapporti con l’impero bizantino sfociati
in una guerra che si finì soltanto nell’812 con un accordo di pace. Ma le
preoccupazioni maggiori di Carlo Magno si rivolsero all’organizzazione delle
strutture del potere, all’amministrazione e gestione dell’impero e all’omogeneizzazione
dei diversi territori. Egli provvide alle esigenze di questa politica
spostandosi continuamente, con tutta la sua corte, dall’una all’altra zona
dell’impero. In ambito economico cercò, anche attraverso una riforma monetaria
che favorì la circolazione della moneta d’argento, di rivitalizzare il
commercio. Sul piano politico e su quello del controllo sociale fece leva sulla
potente aristocrazia terriera laica ed ecclesiastica e sul rapporto
vassallatico-beneficiario che stabiliva una complessa rete di legami personali.
Si trattava di un sistema destinato a realizzare una sorta di compenetrazione
tra ordinamento pubblico e strutture vassallatico-beneficiarie, per cui divenne
abituale la concezione che la carica pubblica fosse essa stessa un beneficio,
anziché un servizio da compensare con un beneficio, cioè con la concessione di
beni.
Carlo Magno divise il suo impero in contee;
nelle zone meno pacifiche crea i ducati, e fa controllare le zone di frontiera
da degli uomini di sua confidenza, che più tardi diventeranno i marchesi.
La contea è la più importante di queste
circoscrizioni: alla sua testa, Carlo Magno mise un funzionario reale, scelto
generalmente tra le più potenti famiglie di proprietari terrieri franchi;
questo funzionario esercitava il potere militare e giudiziario, la potestas, normalmente per delega, e
riscuoteva le tasse per conto del sovrano. Era aiutato nel suo compito da dei
visconti. Solitamente era anche destituibile dall'imperatore.
Parallelamente Carlo Magno si appoggiava sulla
Chiesa, che riorganizzò privilegiando l'autorità dei vescovi metropoliti, gli
arcivescovi; per quello che concerne il monachesimo, diede alle principali
abbazie delle terre da coltivare e pose gli abati sotto la sua diretta
autorità.
Un'altra misura andava nella stessa direzione:
a degli uomini laici di confidenza ne aggiunse un altro, generalmente un
chierico, attraverso una nuova istituzione: i missi dominici.
Questi inviati erano incaricati di risolvere i conflitti tra i nobili e di
portare gli ordini del re presso i detentori delle cariche, ma anche di
raccogliere il giuramento di fedeltà dei suoi sudditi. Non si sa la reale
portata delle loro azioni, ma questo sembra indicare che il re aveva delle
difficoltà a far rispettare la propria autorità.
Sotto l'influenza dei numerosi cristiani
letterati della sua corte, il re era anche legislatore: egli faceva già
applicare la legge attraverso il bando germanico, e la riallacciò anche con la
concezione romana del diritto e rinnovò l'importanza degli atti scritti nel
regno. Dopo le assemblee che riunirono i nobili del regno furono emesse dalla
cancelleria del Palazzo delle ordinanze, divise in capitoli: Queste sono delle
importanti e precise fonti per lo studio di quel periodo storico.
A un altro livello si deve ai letterati
cristiani la nascita di una nuova concezione dello Stato. Si tratta di una
restaurazione dell'impero romano, sebbene essa in realtà poggi su fondamenti
molto differenti per legittimare la monarchia: è una concezione profondamente
cristiana, e fa del re dei Franchi addirittura un nuovo Davide. L'idea
dell'unità del regno sembra prevalere con la rinascita dell'Impero d'Occidente,
nel Natale dell'800.
[32] Feudalesimo - Sistema politico-sociale fondato sul feudo e
sul rapporto di vassallaggio, che caratterizzò l’Europa occidentale medievale.
Il termine fu introdotto, in un’accezione
negativa, dagli illuministi e dai rivoluzionari francesi alla fine del XVIII
secolo e fu poi usato da K. Marx per designare una precisa fase della storia
dei rapporti di produzione, intermedia fra lo schiavismo e il capitalismo
borghese.
Formatosi in epoca carolingia (IX secolo), in
seguito al diffondersi della prassi da parte della corona di affidare lotti di
terreno a cavalieri in cambio della garanzia di un loro appoggio al principe in
caso di necessità, ebbe un ampio sviluppo in seguito al dissolversi del potere
politico centrale, quando i vari signori poterono considerarsi i possessori a
tutti gli effetti dei territori avuti in distribuzione e cominciarono a
esercitare invece del principe dei diritti sulla popolazione contadina che li
abitava (formazione del dominatus loci). Si realizzò così una netta
separazione della società nelle due classi dei guerrieri, che
detenevano il monopolio dell’uso delle armi, e dei contadini, addetti
alla lavorazione dei campi e sottoposti alla interessata protezione dei primi.
Con il diffondersi dell’investitura a vescovi e abati (chierici), anche
la chiesa contribuì in maniera determinante all’affermazione del feudalesimo,
al quale tentò di dare una giustificazione morale con l’elaborazione
dell’ideologia cavalleresca, in cui si poneva l’accento sul significato
umanitario della protezione del cavaliere sulla popolazione sottoposta. Il
dibattito sul diritto della chiesa alla designazione di feudi portò inoltre a
un duro scontro con il potere imperiale (lotta per le investiture), fomentato
anche dai numerosi movimenti religiosi che a partire dall’XI secolo si
diffusero in tutta Europa, predicando la necessità di riforma morale della
chiesa.
Il sistema feudale raggiunse la sua piena affermazione tra il
XII e il XIII secolo, quando cominciò ad allentarsi il legame tra principe e
vassalli; di conseguenza questi ultimi acquisirono una sempre maggiore
autonomia. Esso ebbe tuttavia modalità di sviluppo assai differenti tra le
varie regioni d’Europa. Se infatti nell’Italia settentrionale e in alcune zone
della Francia furono proprio le forme feudali a sancire la completa
dissoluzione del potere centrale monarchico, altrove esse furono un mezzo per
la costituzione di solide monarchie. Ciò avvenne in Catalogna, nelle Fiandre e
in Normandia, dove il potere centrale riuscì a mantenere il controllo dei
signori insigniti dei feudi e a farne anzi un indispensabile tramite per il
controllo di tutte le regioni del regno. Tale sistema caratterizzò in
particolare i regni normanni, sia in Francia che in Inghilterra e nell’Italia
meridionale. Tentativi analoghi in Germania e nell’Italia settentrionale da
parte di Federico Barbarossa tra il 1158 e il 1183 si scontrarono
rispettivamente con la presenza di principati ormai da tempo consolidati e
autonomi e con la società dei comuni, che minò alle basi l’intero sistema,
svuotando di significato il concetto stesso di un potere e di una gerarchia
fondati sul diritto di nascita o sull’investitura da parte di un principe.
[33] Beneficio – Nel diritto romano originariamente ogni
concessione da parte dell’autorità pubblica a persone private o a enti di una
condizione di particolare vantaggio e favore era detto beneficio. Si definirono così nei secoli III-IV anche le
assegnazioni imperiali di terre ai veterani o ai barbari nelle regioni di
frontiera, oppure quelle ai propri commendati da parte dei grandi proprietari
fondiari. Tutte queste concessioni erano temporanee (precaria) e revocabili.
Costituivano formalmente un dono elargito liberamente in ricompensa di un
servizio reso, che andava restituito in caso di rottura del rapporto personale
che l’aveva causato, per la morte o il venire meno della lealtà e fedeltà del
beneficiario. Nella Francia carolingia dell’VIII secolo il beneficio andò
sempre più accompagnandosi di fatto al rapporto di vassallaggio. La fedeltà e
l’aiuto militare portati dal vassallo al signore diventavano il servizio e il
legame personale in cambio del quale veniva elargito il beneficio, consistente
per lo più in terre e possedimenti immobiliari. Nella costruzione e
nell’evoluzione dello Stato carolingio, carattere beneficiario assunse anche
l’incarico dell’ufficio pubblico esercitato per delega del sovrano da conti e
vassalli. Insieme alle terre, anche l’ufficio venne trasformandosi in beneficio
personale e non revocabile, salvo che per grave colpa detta fellonia.
Nel IX e X secolo divenne trasmissibile agli
eredi, e intorno a terre e uffici si strutturarono famiglie nobiliari
dinastiche. Dall’XI secolo, il termine, ormai indissolubilmente unito al legame
vassallatico, lasciò il posto a quello di feudo. Anche il beneficio ecclesiastico,
tuttora presente nel diritto canonico, si sviluppò come istituto nell’alto
Medioevo. Esso designa un insieme di beni di proprietà della Chiesa,
costituitosi nel tempo grazie a legati e donazioni pubbliche e private, che si
assegnava al titolare di un ufficio ecclesiastico (vescovo, canonico, parroco)
per il suo sostentamento. Quando il donatore del complesso patrimoniale che
costituiva il beneficio era anche il fondatore dell’ufficio (chiesa privata,
altare privato, monastero), questi per lo più conservava a sé e ai suoi eredi
il diritto di scelta del beneficiario.
[34] Immunità - Diritto, in età
medievale, di sottrarre le proprie terre alla giurisdizione degli ufficiali
pubblici. Questa istituzione, già abbozzata in periodo romano, fu sviluppata e
riorganizzata dai re merovingi e carolingi, che concedettero diplomi di
immunità a chiese e monasteri, più raramente a laici. I diplomi vietavano agli
ufficiali pubblici l’ingresso nelle terre degli immunisti, cui veniva ceduto il
diritto di esazione di alcune imposte pubbliche. Gli immunisti assunsero così,
nei confronti degli abitanti delle aree immuni, le funzioni tipiche degli
ufficiali pubblici, e in particolare l’amministrazione della giustizia.
L’immunità offrì lo spunto per la costruzione di solidi ambiti di potere
autonomo.
[35]Vassallaggio - In epoca feudale forma di rapporto personale costituito dalla
sottomissione di un uomo libero a un signore, a cui venivano assicurati fedeltà
e appoggio militare in cambio di protezione e di un feudo o beneficio,
consistente in una rendita, spesso fondiaria.
Nacque in Gallia tra il VII e l’VIII secolo; riprese alcuni
aspetti della commendatio romana, arricchendola delle
caratteristiche militari tipiche dei vincoli personali stretti tra i capi
germanici e integrandola con la concessione del beneficio, già diffusa tra i
franchi di età merovingia. Sotto i Carolingi la formazione di ampie clientele
rappresentò un importante strumento di lotta politica. Tra l’XI e il XII secolo
si affermarono da un lato la possibilità di giurare fedeltà a diversi seniores,
dall’altro il pieno controllo del vassallo sul beneficio, che divenne il vero
elemento costitutivo del rapporto. Si indebolì così il rapporto vassallatico,
che proprio in questa debolezza trovò una nuova funzione politica nel definire
giuridicamente i processi di ricomposizione territoriale; i poteri minori
poterono infatti riconoscere le forze maggiori giurando fedeltà vassallatica
senza per questo veder seriamente ridotta la propria autonomia.
[36] Vassallo – Nel mondo medievale, come vassallo
(dal latino medievale vassallum, «servo», derivato da vassus,
di origine germanica, che significa «giovane»), si intende colui che riceve dal
sovrano l'affidamento di incarichi amministrativi e contemporaneamente la gestione
di territori, ottenendo in cambio un giuramento di obbedienza e fedeltà, oltre
allo svolgimento delle funzioni amministrative delegate dal sovrano. Formavano
la casta dei vassalli i conti, i marchesi, i margravi,
e le cariche ecclesiastiche di vescovo e abate.
Una delle premesse della nascita del feudalesimo, e quindi del rapporto di
vassallaggio sta nella crisi dell'Impero Romano, che sollecita la formazione e
l'allargamento di clientele attorno ad un capo. Il senso di insicurezza che
invase il mondo antico dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente accrebbe
il peso di forme sociali diverse da quelle fiorite nel mondo antico, il
feudalesimo fu una di queste. La società, all'inizio del Medioevo, vedeva
riemergere forze elementari di solidarietà tra uomini, irrobustite dalle
invasioni dei barbari per i quali l'associazione parentale ed etnica erano
essenziali nella società. Il peso della coesione familiare e parentale
caratterizzò lo stesso vincolo che genererà il rapporto vassallatico: senior e
junior, vecchio e giovane, indicavano il signore ed il suo vassallo.
[37] Capitolare di Quiersy - Documento con cui Carlo il Calvo dispose che durante
l’assenza del re, impegnato in una spedizione militare, alla morte di un conte
le sue funzioni fossero provvisoriamente assunte dal figlio; conservò però al
re il potere di nominare in seguito un diverso successore. Fu il primo passo
verso l’ereditarietà dei feudi.
Come spiegare questa ascesa dell'aristocrazia e il
disgregamento del potere reale?
Ecco le principali fasi dell'ascesa dell'aristocrazia:
I regna esistevano già ai tempi
dei Merovingi e si prolungarono fino sotto i Carolingi.
Si trattava di territori dove l'unità poggiava in una forte identità etnica e culturale.
Un regnum poteva essere affidato ad un figlio di un re, senza
per questo diventare indipendente: questo fu il caso, in epoche diverse, dell'Aquitania, la Provenza, la Borgogna, la Sassonia,
la Turingia e la Baviera.
·
I conti: questa parola deriva dal
latino comes, che significa compagno
(del re); i conti esistevano già nell'epoca merovingia: i re dava loro alcune
terre, dei regali o una carica per ricompensarli dei loro servizi; ma i conti
assumono la loro massima importanza sotto i Carolingi; funzionari, sono
designati e revocati dal re che li recluta nell'aristocrazia; garantiscono
l'ordine pubblico presiedendo il tribunale, riscuotono le tasse ed organizzano le truppe in un pagus, circoscrizione territoriale, la
quale è sotto la loro responsabilità. Nel corso del IX secolo, i conti
diventano sempre più autonomi nei confronti del re.
·
I duchi: la parola ha
un'etimologia latina che significa conduttore dell'esercito. Il duca è una sorta di conte che raccogli
più pagi per lottare contro le invasioni scandinave. I Robertingi ottengono nel
X secolo il titolo di duca dei Franchi
(dux Francorum). Questi personaggi saranno i più potenti tra i "principi territoriali" come i duchi
di Aquitania, di Borgogna e di Normandia.
·
Il marchese, in latino marchio,
è un conte che custodisce una regione di confine chiamata marca e
la difende in caso d'attacco.
Alla fine del IX secolo, come conseguenza del capitolare di
Quierzy queste cariche di conte, duca e marchese diventano ereditarie: i re
carolingi non possono più destituirli, quindi il suo controllo s'indebolisce.
Si assiste allora alla costituzione di dinastie locali di conti, duchi e vassalli del re.
Il vassallaggio, che era stato ben controllato sotto Carlo Magno e serviva
per i suoi interessi politici, si ritorce contro l'autorità dei suoi
successori. L'aristocrazia laica ed ecclesiastica è quindi in posizione
predominante a metà del Medioevo, in Francia e in Germania.
I conti sono fisicamente più vicini al popolo dei Carolingi.
L'autorità del re sembra lontana ai contadini. La maggior parte degli
uomini liberi del regno vive in contatto diretto del conte e del suo delegato.
Essi li potevano sentire, per esempio, durante le sedute del tribunale. La
loro autorità è più immediata di quella del re. Si instaura quindi un rapporto
stretto e personale: i contadini si mettono sotto la protezione dei nobili ed
entrano sotto le loro dipendenze.
Nel X secolo, i segni dell'autonomia dei principi si
moltiplicano: i conti e i duchi si sono presi le funzioni pubbliche e i diritti
fino ad allora riservati al re: costruiscono delle torri e
dei forti, e veri e propri castelli in pietra che dominano un
territorio che è caduto nelle mani di un signore che conia
proprie monete con la loro effige e il loro nome che prende sotto la
loro protezione il clero e controlla le investiture episcopali.
[38]
Constitutio de feudis – Editto emanato dall’imperatore Corrado II il Salico col quale si riconobbe l’ereditarietà dei
feudi minori a un secolo e mezzo di distanza dal capitolare di Quierzy del 877.
Promulgato in occasione della discesa di Corrado II in Italia, dove valvassori
e mercanti si erano ribellati contro il vescovo di Milano Ariberto, alleato dei
grandi feudatari laici ed ecclesiastici, rappresentò il tentativo di sgretolare
il fronte feudale e di coalizzare al fianco dell’imperatore le forze della
nobiltà minore. Confermando un orientamento diffuso, l’editto ebbe applicazione
anche fuori d’Italia e accelerò il processo di disgregazione del sistema
feudale, specie nelle zone in cui più vivace era il processo di rinascita delle
città.
[39] Curtis - La corte è quell'insieme di villae e di
edifici dove il signore soggiornava ed espletava le sue funzioni di controllo
sul territorio.
Già alla fine del II
secolo i grandi possidenti terrieri nell'area dell'Impero Romano, tendevano ad
organizzarsi economicamente, creando latifondi più o meno estesi. Causa la
notevole pressione fiscale esercitata dalla tributaria, molti piccoli e medi
coltivatori diretti, preferivano mettersi alle dipendenze di questi signori
proprio per sfuggire agli oneri di natura economica contratti verso lo stato.
Gli stessi grandi imprenditori, accettavano ben volentieri di assumere questi
ultimi - vista la scarsa reperibilità di schiavi - in qualità di colono, dando
loro in usufrutto singoli lotti di terreno su cui usufruivano di una certa
percentuale della rendita dei campi. La grande proprietà diventò inevitabilmente
un polo di attrazione non soltanto per i contadini, ma anche per gli artigiani,
commercianti nonché per piccoli borghi che si venivano a trovare all'interno
del fondo. I grandi esponenti di questa classe dirigente riuscirono anche ad
ottenere delle agevolazioni da parte imperiale, ad esempio quella dell'immunitas ovvero:
il diritto a non pagare certe tasse e di respingere dal proprio territorio
qualsiasi agente - compreso quello del fisco - di nomina statale. Il signore
quindi, diventava il vero e proprio arbitro della situazione, esercitando
direttamente sul suo possedimento un certo controllo in ambito fiscale,
giuridico, militare e politico. Le cosiddette ville rustiche tesero
sempre di più ad attuare un'economia di sussistenza e ad organizzarsi non più
verso il senso dell'estetica quanto verso la funzionalità e la difesa. Queste
cellule ormai autonome presero ad essere sorvegliate da delle milizie personali
pagate dal signore, i cosiddetti buccellari, che divennero un piccolo esercito
privato.
Dopo le grandi invasioni barbariche e il
conseguente spopolamento delle città, i latifondi divennero un polo di
attrazione per la popolazione urbana: la città non essendo più in grado di
esercitare nessun controllo politico e direttivo per il territorio circostante,
venne sempre di più lasciata a se stessa. I Germani, si trovano di fronte al
problema di come controllare i territori conquistati. Visto lo stato pessimo
delle grandi vie di comunicazione e la contrazione dei centri urbani,
delegarono la nobiltà delle prerogative di controllo, che altrimenti sarebbero
state appannaggio dello stato. Ai nobili fu concesso in usufrutto un feudo:
ovvero, una parte del territorio sotto la sovranità del signore, con il quale
il nobile poteva finanziarsi e qualificare l'attività che era tenuto a svolgere
per conto del sovrano. La vecchia aristocrazia di stampo latino e senatoriale
fu completamente spazzata via dopo la calata dei Longobardi di re Alboino, nel
568. I vecchi possedimenti passarono quindi di padrone: dai Latini ai Germani.
La corte dell'Alto e quella del Basso Medioevo
si distinguevano fortemente: la prima altro non era che l'erede della villa
romana, dominata da un signore o da un cavaliere che esercitavano un potere
delegato dal concessore delbeneficium e che tendevano a rimanere
piuttosto isolati dai vicini; la seconda sviluppatasi nell'età feudale
propriamente detta era caratterizzata da un maniero centrale sorto durante l'età
dell'incastellamento ed era retta da un signore dotato d'autorità
di banno e legittimato a lasciare in eredità il beneficium ai
figli. La corte di questo periodo possedeva l'aspetto di un piccolo stato
dotato di un proprio esercito, di un tribunale e di un sovrano (il feudatario).
La curtis riproponeva
le stesse caratteristiche e costanti edilizie nelle diverse zone dell'Italia
centro-settentrionale, nella valle del Rodano in Francia ed in Germania. La
corte era il centro del feudo, ed era composta dagli edifici dove il signore
risiedeva ed esercitava il controllo del territorio. L'interno era composto dal
maniero del grande proprietario del fondo, dalle stalle e i granai, dalle
casupole dei servi e spesso vi era installato anche un mulino. Non mancava
anche una piccola cappella privata dove si svolgevano i battesimi e le messe.
Solitamente, di fianco al maniero era costruita l'abitazione del fattore
o balivo. Costui non era solo la persona delegata alla ripartizione
e allo stoccaggio nei magazzini delle derrate alimentari, ma era anche colui
che esercitava la giustizia per conto del signore, all'interno del feudo.
Esistevano varie
tipologie di corti nel bacino del Mediterraneo e nell'Europa
centro-settentrionale ed orientale. Le tenute organizzate in curtis si
distinguevano dal numero di mansi cui erano sottoposte: nell'Italia del nord,
in Germania e in Francia, vi erano corti vastissime a più mansi ed altre meno
estese che potevano a stento approvvigionare i padroni e la servitù. Spesso i
mansi erano situati anche molto distanti gli uni dagli altri, trovandosi in
territori retti da diversi feudatari o vassalli.
I cittadini dei borghi sub-urbani facevano
riferimento prevalentemente alle città più grandi presenti sul territorio ove
risiedevano i grandi margravi o adibite a sedi vescovili. I locatari dei
piccoli e medi fondi che si trovavano prevalentemente nelle zone rurali,
avevano come referente la villa signorile ed in seguito il castello.
All'interno di questi latifondi i borghi situati nella parte tributaria erano
difesi solo da uno steccato o completamente privi di sistemi difensivi, mentre il
centro indominicato, si incastellava ed era circondato da poderose mura
difensive.
Dall’XI
secolo, il sistema economico-sociale del feudalesimo entrò in crisi e già con
il Capitolare di Quierzy si riconobbe l'ereditarietà dei fondi
ai vassalli maggiori. Con la Constitutio de feudis poi abbiamo
la quasi definitiva frantumazione di questo sistema. Con queste nuove
normative, si riconosceva l'ereditarietà dei feudi anche ai vassalli minori.
Nonostante le nuove innovazioni in campo agricolo (aratro pesante, rotazione triennale delle
colture etc.) i piccoli fondi non riuscivano a produrre quanto richiesto e i
grandi signori preferirono inurbarsi ed investire sul commercio e sui prestiti
a interesse. Ma il colpo definitivo alla grande proprietà lo diedero le
crociate. I cavalieri, per finanziarsi le spedizioni in Terrasanta, dovettero
vendere parte dei loro feudi a delle nuove classi dirigenti che aspiravano al
monopolio attraverso l'utilizzo della moneta. Piccoli centri quindi, che in
principio erano stati appendice dei latifondi, si trasformarono in cittadine di
30.000 abitanti o anche più.
[40]Economia curtense - L'economia curtense, era, generalmente, di
sussistenza, si tendeva cioè a produrre il più possibile all'interno del feudo
in un'ottica di autoconsumo. Anche i prodotti di natura non agricola, come le
manifatture e gli attrezzi da lavoro, erano fabbricati all'interno del fondo
utilizzando i materiali a disposizione. Si cercava inoltre di sopperire alla
mancanza di alcuni beni producendone di simili, ma di qualità più bassa.
Spessissimo, perfino tra gli storici, si è considerata
questa economia come completamente chiusa, priva di sbocchi verso l'esterno.
Questo è errato, poiché alcune manifatture più rifinite ed altri
approvvigionamenti dovettero essere necessariamente acquistati in altre zone.
Ad esempio i nobili, potevano permettersi di comprare il vino da altri signori,
così come in periodi di carestia, quando i servi della gleba pativano la fame,
dovettero procedere all'acquisizione di derrate alimentari all'esterno. Non
bisogna dimenticare, poi, che le città, sebbene ridotte di dimensioni, rimasero
comunque dipendenti dalle campagne e dovettero sempre importare da esse i
prodotti agricoli.
Un fattore importante per la
notevole estensione di questo genere economico, fu la penuria di denaro liquido
e lo stato delle grandi vie di comunicazione. Il più delle volte, gli scambi
avvenivano tra beni in natura, tramite il baratto, ma non è del tutto vero che
la moneta scomparve completamente. Ad esempio, il bisante d'oro continuò a
circolare e quando si attuavano questi scambi, e i contadini dovevano vendere i
loro prodotti, ci si rifaceva sempre ad un ipotetico valore monetario. La
moneta corrente d'argento, poi, il soldo, continuò a circolare e la sua
continua svalutazione fa comprendere che si dovette adattare alle crisi
dell'economia.
Molte volte poi, le proprietà organizzate in curtis, si
trovavano a contatto con altri fondi di natura ecclesiastica o regia e persino
con residui di appezzamenti di terreno allodiali coltivati
direttamente da alcuni contadini liberi. Ciò si verificava, poiché i feudi,
almeno nell'Alto Medioevo, non costituivano piccoli staterelli dai confini ben
definiti, ma, nella maggior parte dei casi, piuttosto come un insieme di
proprietà diffuse sul territorio, tanto da far sì che alcuni villaggi fossero
addirittura divisi tra diversi feudatari. Come si vede quindi, le possibilità
di scambio furono necessariamente prese in considerazione.
Grazie
alla sua natura autarchica che faceva nascere lunghissimi periodi di relativa
pace, ed a una più razionale organizzazione agricola, si andarono a formare
delle eccedenze nella produzione che dovevano trovare sbocco - sia pure a
livello modesto e intermittente- in un mercato regionale. Il fatto è confermato
dagli ultimi ritrovamenti di magazzini, sopratutto nei grandi monasteri i
quali, essendo ancora in possesso delle antiche tecniche di agronomiadi
natura classica/romana producevano in abbondanza e potevano permettersi di
vendere i loro surplus.
Una
piccola rivoluzione si verificò, quando, con l'aumento del costo degli
equipaggiamenti guerreschi, i feudatari furono costretti a pretendere dai
contadini tributi in denaro. Ciò fece sì che i piccoli coltivatori fossero
costretti ad affiancare alle attività agricole anche quelle mercantili e di
piccolo artigianato. La moneta, così, cominciò a circolare con più diffusione e
gli orizzonti mercantili, prima più ristretti (sebbene, a differenza di quanto
creduto dalla vecchia storiografia, non assenti), ad allargarsi.
[41] Servi della gleba – Il termine indica i contadini dipendenti dalla
terra, sia medievali che moderni.
Distinti dagli schiavi romani in virtù di un
legame con la terra più forte di quello con un padrone onnipotente, si
sarebbero sviluppati in simbiosi con il passaggio dal sistema sociale e di
produzione antico a quello feudo-signorile fondato sul controllo delle risorse
economiche e politiche connesse alla terra.
Il termine è parzialmente erroneo se applicato
al Medioevo, perché mette troppo l’accento sui legami tra contadino e
territorio, lasciando da parte sia il complesso sviluppo di una stratificazione
giuridica e sociale inerente agli strati dominanti della società, sia il
passaggio della dipendenza contadina da un ambito reale (la terra) a un ambito
personale (il signore).
Dal IX secolo le trasformazioni della più
importante struttura produttiva rurale, la villa, in
Italia curtis, da azienda fondata su una riserva centralizzata il
cui sfruttamento era devoluto a schiavi ad azienda basata sull’utilizzo di
manodopera estranea alla riserva e radicata sul massaricio (manso),
portarono a uno spostamento di manodopera che ebbe importanti conseguenze
giuridico-sociali. Certo lo schiavo del massaricio tendeva così ad assimilarsi
agli altri massari liberi, ma al contempo lo sviluppo di legami con una
categoria priva di qualsiasi diritto giuridico e sociale contribuì a
trasformare buona parte dei liberi contadini, in servi alla mercé del loro
signore fondiario e territoriale.
Dopo il X secolo, con lo sviluppo della
signoria rurale come base dell’attività sociale ed economica, la stragrande
maggioranza delle vittime del banno signorile si trovò
costretta a subire oneri reali e personali (taglia, testatico,corvée)
che ne proclamavano lo status servile.
Alla fine dell’antico regime il termine aveva assunto una
dirompente forza simbolica, tale da far coincidere, nella Rivoluzione francese,
l’abolizione della servitù della gleba con la fine del regime feudale in
Europa.
[42] Corvées - Prestazione d’opera obbligatoria consistente
in alcune giornate di lavoro che il colono residente nella pars massaricia doveva
prestare gratuitamente sulla pars dominica della villa. Dal
diritto feudale la corvée passò al diritto pubblico regio in
relazione a lavori di manutenzione e di difesa. Abolita in Francia con la
Rivoluzione, sopravvisse in Europa orientale fino agli inizi del XIX secolo.
[43]Istituto del maggiorasco – Il diritto di maggiorasco (in
latino majoratus) era, nell'antico sistema successorio, il diritto
del primogenito di ereditare tutto il patrimonio familiare.
Connesso solitamente al diritto di
primogenitura, il maggiorasco era un istituto proprio del diritto successorio
feudale in base al quale un patrimonio veniva trasmesso integralmente al
parente di grado più prossimo all'ultimo possessore e, in caso di pari grado, a
quello più anziano. Comunque, il maggiorasco aveva una sua logica:
·
la maggiore ricchezza
era la terra la quale, se troppo frammentata, non produce più ricchezza.
·
il figlio maggiore era
anche quello che prima degli altri era in grado di difendere il feudo e la
proprietà.
Il diritto di
maggiorasco dunque mirava a perpetuare in qualche modo il potere e il
patrimonio familiare.
Gli altri figli, se maschi, potevano combinare buoni matrimoni,
darsi alla Cavalleria o al clero, se non preferivano il brigantaggio o la
prostituzione.
[44] Cavalleria medievale - La cavalleria
medievale seguì l'evoluzione che la società, l'economia e la tecnica bellica
ebbero nel medioevo.
Fu una evoluzione lenta ma costante, ma sempre
coerente con i cambiamenti del contesto socioeconomico che ne era il supporto.
Un cavaliere non si improvvisava,
veniva addestrato fin dalla fanciullezza e, quindi, armato con un
equipaggiamento il cui costo poteva superare quello di 20 buoi, in pratica una
piccola proprietà terriera.
Si formò spontaneamente un gruppo elitario,
separato e autoreferente che si autocelebrava anche attraverso il racconto
delle proprie imprese ed attraverso una vera e propria liturgia
dell'iniziazione e dell'accettazione o cooptazione in un circolo sempre più
chiuso. La letteratura epica si incaricherà di idealizzarne e celebrarne gli
aspetti eroici, il più delle volte usurpati.
Lentamente si consolidò una fraternitas,
la cavalleria medievale, con regole sempre più rigorose che subiranno continue
eccezioni.
La separazione dal mondo dei rustici aumentò
sempre di più ed il solco iniziale divenne una voragine. Da una parte pochi
eletti, dall'altra la massa disprezzata e sfortunata degli inermi o pauperes che
avevano una sola possibilità di riscatto: mettere la propria vita in gioco nei
campi di battaglia al servizio di qualche Senior.
Era un mito quello che il cavaliere medievale
coltivava, esaltandolo in quelle fraternitas che daranno luogo
ad una vera e propria classe sociomilitare particolarmente rigida ed
impermeabile alla cui base c'era lo spirito di gruppo e di corpo.
La storia concorrerà all'affermazione di
questa nuova classe di guerrieri, separandola sempre di più dal resto della
società, gli inermes, subordinati e sottoposti a quei bellatores equestri
che costituivano la base del potere.
Certo il servizio
militare, oltre ai rischi, offriva notevoli vantaggi a quei soggetti che ne
sapevano approfittare. Le opportunità di arricchimento a seguito delle azioni
belliche erano grandi, sia attraverso i bottini rapinati sia attraverso il
riscatto dei prigionieri. Ciò costituiva un valido compenso per il rischio di
perdere la vita.
Il miraggio era quello di passare dal servizio
presso altri alla formazione di una propria dinastia, ed acquisire una propria
signoria o conquistare un proprio regno. Fu quello che seppero fare i Normanni,
signori che prima aiutavano e che poi ad essi si sostituirono approfittando
della favorevole situazione politico-militare di quel residuo morente contesto
bizantino. I Normanni riuscirono non solo a
sostituirsi ai loro datori di lavoro, ma a fondare, oltre che un regno, una
dinastia dai cui lombi discese una progenie destinata alla dignità imperiale.
L'avventura dei cavalieri normanni prima nel meridione dell'Italia continentale
e successivamente in Sicilia è fantastica ed affascinante. È impressionante vedere
come un manipolo di uomini decisi, costretti a lasciare le loro terre di
origine, riuscirono a inserirsi nelle lotte intestine di quel che restava del
Ducato di Benevento e del declinante Impero Bizantino nell'Italia meridionale e
a prendere il sopravvento. Vi fu anche il fortunato gioco di circostanze
favorevoli che contribuirono alla loro affermazione politico-militare. I
Normanni ottennero il riconoscimento del loro potere e delle loro conquiste dal
papa Niccolò II prima di lanciarsi alla conquista della Sicilia: questo
riconoscimento papale legittimò un puro atto di violenza
Si svilupparono nuove
tecniche militari sotto la spinta delle milizie di fanti che non erano più
quella massa incoerente di contadini armati di forcone contro cui la carica
della cavalleria aveva avuto sempre successo. Le milizie cittadine si proposero
come strutture sempre meglio organizzate e coese, gare che avevano sviluppato
non solo lo spirito d'emulazione ma lo spirito civico rendendo i cittadini
combattenti consapevoli, decisi e temibili. Questi uomini che svolgevano nella
vita quotidiana altri compiti, che non le arti marziali, esprimevano, nel
momento del combattimento, sotto il gonfalone civico, tutta la loro
determinazione bellica, frutto del rancore contro l'aristocrazia militare: essi
trascuravano quell'aspetto ludico che era stato una caratteristica del
combattimento dei cavalieri. Questi cittadini nel combattimento erano
micidiali, le loro picche e le loro quadrelle non lasciavano scampo.
Le nuove armi vincenti
erano le picche, l'arco e la balestra, che costituivano per i cavalieri un
ostacolo quasi sempre letale. Il cavallo che era stato un'arma vincente si
trasformò in un gravissimo punto di debolezza ed impedimento. In questo nuovo
modo di combattere il cavallo soccombette sotto i colpi di coltello del fante
che lo sventrava, in un'azione inconcepibile per il cavaliere e per il suo
codice deontologico: al cavaliere rinchiuso nella sua pesante corazza d'acciaio
non rimaneva che fuggire o morire. Queste nuove battaglie si concludevano in
un'orgia di sangue, in un tripudio di vendette e di rivalse da parte dei
rustici contro il mondo feudale, che ormai volgeva alla fine.
Era un mondo impregnato di valori, che
sopravvivrà solo nelle chansons. I cavalieri andranno lietamente a
farsi scannare da rozzi bottegai e cupi artigiani che combattevano solo per
affermare la loro esistenza civile, la loro capacità economica e la necessità
di continuare a sviluppare liberamente quelle attività economico-commerciali
dal cui successo derivavano rilevanza sociale e forza politica.
Per queste gentes novae,
la guerra non era un gioco, una festa in cui mettere in mostra le proprie virtù
cavalleresche magari per gloriarsene agli occhi di una dama o nel caso
fortunato per appropriarsi di un bottino e di un ricco riscatto, bensì un
mortale e costoso incidente che metteva a rischio le conquista economiche
acquisite, oltre che la loro stessa sopravvivenza.
Laddove il cavaliere vedeva nel cavaliere
nemico un confratello in campo opposto, il mercante che combatteva vedeva nel
cavaliere solo un soggetto che interrompeva la sua attività facendogli perdere
denaro e rischiare la vita e perciò lo doveva eliminare, cioè uccidere.
Il mercante combatteva libero da qualsiasi
deontologia militare e sotto lo stimolo dell'urgenza di tornare presto ai
propri affari sospesi.
Tutto ciò era vissuto come scandaloso dai
cavalieri: guai al cavaliere che incontrava sul campo di battaglia qualche
macellaio armato che non aveva remora alcuna a fare altrettanto prima col cavallo
e poi con il cavaliere.
Il momento magico dei cavalieri medioevali fu
l'avventura delle Crociate trascorso il quale iniziò la loro crisi lentamente
per continuare, poi, sempre più rapidamente, crisi che culminerà nella
battaglia degli Speroni d'Oro a Courtrai, 1302. In questa battaglia le truppe formate da mercanti ed
artigiani delle Fiandre massacrarono i cavalieri francesi facendo mucchi dei
loro speroni dorati.
Fu il tramonto della cavalleria anche se le
sopravvisse quell'etica che era stata alla base della fraternitas,
cui una stessa mentalità ed aspirazione di vita aveva legato i cavalieri.
Questa specie di internazionale cavalleresca
perse davanti alle nuove fanterie comunali la propria funzione militare
lasciando un'eredità di valori e di miti che sarebbero durati nei secoli
successivi.
Era lo spirito cavalleresco con la sua carica
di leggenda che sopravviveva rappresentando valori che i posteri avrebbero
esaltato, per non dire creato.
Questo spirito sopravvisse anche grazie agli
ordini cavallereschi che ebbero una funzione reale fintanto che svolsero
un'attività politico-militare ma che successivamente o scomparvero come i
Templari ad opera di Filippo IV di Francia o si trasformarono in istituzioni
puramente simboliche.
[45] I vescovi conti - Ottone I
favorì il clero per creare un contrappeso alla potenza dei grandi feudatari
laici, che avevano ottenuto l'ereditarietà dei feudi maggiori.
Già dall’età carolingia e nel periodo
dell'anarchia feudale, i vescovi avevano assunto anche nel campo della vita civile
un’importanza che crebbe rapidamente quando la disgregazione dell'impero li
rese stabili elementi d'unione e di coesione sociale, anche per il fatto che
risiedevano stabilmente nelle città ed erano eletti dal popolo.
Non sempre i poteri civili dei vescovi ebbero formale
riconoscimento; in sostanza, tuttavia, il potere dei conti si circoscrisse
nelle campagne, mentre nelle città i nuovi compiti amministrativi indussero i
vescovi a giovarsi della collaborazione dell'elemento laico: primo passo verso
la resurrezione della vita municipale e verso l'ascesa di nuove forze che si
preparavano alla conquista di una sempre maggiore e marcata autonomia anche nei
confronti dei vescovi.
[46] Il monastero di Cluny – Il
monastero di Cluny fu sotto la direzione di uomini come Oddone (morto nel 943)
o Odilone di Mercoeur (morto nel 1043) che la comunità monastica visse il
momento di maggior splendore.
Il monachesimo nato con la riforma di Cluny
diede al Cristianesimo un'impronta fondamentale. La Congregazione cluniacense
fu una delle più profonde riforme dell'Ordine benedettino. Sue caratteristiche
furono:
·
il pronunciato
ritualismo,
·
la norma del silenzio
ed un accentuato spiritualismo,
·
gli ideali di libertà
del sistema feudale laico ed episcopale,
·
il centralismo
operante attraverso l'organizzazione del priorato e il diritto di visita
dell'abate maggiore nelle varie abbazie,
·
la stretta unione con
Roma che garantiva l'indipendenza dei cluniacensi dal sistema feudale civile ed
ecclesiastico e soprattutto la perfetta pratica delle virtù monastiche.
Da Cluny partì il rinnovamento della Chiesa.
Per i monaci cluniacensi la vita di questo mondo era il vestibolo
dell'eternità. Tutto doveva essere sacrificato a fini ultraterreni. La salvezza
dell'anima era tutto e non si poteva raggiungere che attraverso la Chiesa, che
doveva essere assolutamente pura da ingerenze temporali. Ovvio che queste
concezioni si scontrassero con gli interessi imperiali e con quelli dei vescovi
più collusi col potere dell'Impero. Non si trattava di aborrire l'alleanza ai
fini del buongoverno tra Chiesa e Stato, ma di subordinare completamente l'uomo
e la società alla Chiesa, vera, unica intermediaria tra lui e Dio in campo
spirituale.
La diffusione della riforma di Cluny fu assai
profonda e assai ampia, soprattutto in Francia, Germania, Italia centrale e
meridionale, Spagna settentrionale e Inghilterra.
Facilitarono la diffusione della Congregazione
la necessità di riforma di molte comunità benedettine, gli statuti ben definiti
e l'efficiente organizzazione internazionale, ma anche i mezzi coattivi e
disciplinari usati a volte, soprattutto dopo l'XI secolo, contro monasteri non
riformati.
Nel periodo di maggiore splendore di Cluny si
ebbero, secondo calcoli provvisori, 1629 case riformate e 1450 case annesse. L'organizzazione
della Congregazione era fondata sull'autorità del prior abbas di
Cluny e dei definitori; da Cluny dipendevano i cinque priorati più antichi, da
cui dipendeva direttamente a sua volta un certo numero di priorati, il gruppo
delle abbazie incorporate, quelle poste sotto la sorveglianza della
Congregazione e infine quelle affidate temporaneamente ai cluniacensi per
essere riformate; il prior abbas aveva il diritto di visita di
ciascuna abbazia dipendente e convalidava l'elezione di ciascun abate.
Grande fu l'influenza, soprattutto religiosa,
della riforma di Cluny; svolse un ruolo di enorme importanza nell'ambito della
lotta per le Investiture (1073-1122). Minore importanza ebbe l'influenza
culturale, limitata all'architettura; molto notevole fu invece l'influsso sulla
liturgia per la magnificenza dei riti, l'istituzione di particolari devozioni
come la commemorazione dei defunti, l'intensificazione del culto della Santa
Croce e della Vergine. Da Cluny uscirono i papi Urbano II e Pasquale II; pur senza
avervi appartenuto, Gregorio VII ne adottò e ne propagò lo spirito.
[47] Scisma – Atto di ribellione
che porta alla separazione di una parte dei fedeli dalla comunione della
propria Chiesa, sottraendosi all'obbedienza in materia di disciplina, ma non
rinnegandone il credo.
Tre sono i maggiori scismi che hanno
lacerato la Chiesa cattolica: il donatismo, lo scisma d'Oriente e il
Grande scisma d'Occidente.
[48] La questione del Filioque - del filioque nel
Credo Niceno nell'ambito della Chiesa Romana, atto definito non canonico dalla
Chiesa Orientale, anche perché in violazione allo specifico comando del
Concilio di Efeso (il Credo può essere cambiato solo per consenso conciliare).
La controversia circa il filioque sembra essersi originata
nella Spagna Visigota del sesto secolo, laddove l’eresia ariana era
particolarmente diffusa: gli ariani affermavano che la prima e la seconda
persona della Trinità non sono coeterne ed uguali. Per rafforzare la teologia
tradizionale, il clero spagnolo introdusse il filioque nel Credo Niceno ("Credo
nello Spirito Santo, [...] che procede dal Padre _e dal Figlio_ [filioque,
appunto], e con il Padre ed il Figlio è adorato e glorificato"):
all'Oriente teologicamente sofisticato tale inserzione parve affettare non solo
il credo universale, ma anche la dottrina ufficiale della Trinità.
[49]La questione dei
Patriarcati - Tutti i cinque Patriarchi della Chiesa
indivisa concordavano sul fatto che il Patriarca di Roma dovesse ricevere
onori più elevati degli altri, ma non erano in accordo se questi avesse
autorità sugli altri quattro e, se gli fosse spettata, quanto ampia potesse
essere tale autorità.
[68] La questione liturgica
- Alcune pratiche liturgiche occidentali che l'Oriente cristiano
interpretava come innovazione: un esempio ne sia l'uso del pane azzimo per
l'Eucaristia. Le innovazioni orientali, come l'intinzione del pane consacrato
nel vino consacrato per la Comunione, erano state condannate molte volte
da Roma ma mai in occasione dello scisma.
[50] Giurisdizione – In latino iurisdictio da ius
dicere, è la potestà di applicare la legge (interpretandone la portata e
rendendola operante nel caso concreto) attribuita ai giudici allorché
risolvono controversie in posizione di indipendenza rispetto alle parti e di
indifferenza rispetto all'esito delle medesime.
[51] Cesaropapismo - Sistema di
relazioni tra potere civile e religioso in forza del quale il primo si
attribuisce il diritto di intervenire in ogni ambito della vita religiosa.
Manifestatosi già con Costantino con
l'assunzione della vecchia carica imperiale di pontifex maximus da
parte degli imperatori romano-cristiani, si diffuse nel mondo bizantino, dove i
sovrani si definirono uguali agli apostoli. Questa teoria e prassi politica fu
poi fatta propria dagli zar di Russia.
Contro il cesaropapismo combatté la Chiesa cattolica,
in particolare con Gregorio VII, Innocenzo III e Bonifacio VIII, che gli
contrapposero, a loro volta, soluzioni teocratiche.
[52] Enrico IV e l'umiliazione di Canossa
- Il governo di Enrico
fu caratterizzato dal tentativo di rafforzare l'autorità imperiale. In realtà
si trattava di trovare un difficile equilibrio, dovendo assicurarsi da una
parte la fedeltà dei nobili, senza perdere l'appoggio del pontefice dall'altra.
Mise in pericolo tutte e due le cose quando, nel 1075, decise di assegnare la
diocesi di Milano, divenuta vacante. Ciò fece scoppiare un conflitto con papa
Gregorio VII, conflitto che è passato alla storia come lotta per le
investiture. Il 22 febbraio 1076 il papa scomunicò Enrico e lo dichiarò
decaduto. Precedentemente era stato Enrico a dichiarare decaduto il papa,
perché la sua nomina sarebbe stata irregolare, avendo il Re dei Romani il
diritto di intervenire nell'elezione del papa.
Per giungere alla revoca della scomunica,
Enrico e sua moglie si recarono in penitenza a Canossa, per incontrare Gregorio
VII. Per tre giorni, dal 25 al 27 gennaio 1077, rimase in attesa di fronte
all'ingresso del castello, e il 28 gennaio il papa decise di revocare la
scomunica, soprattutto grazie alla mediazione di Matilde di Canossa, signora
del castello.
Gregorio revocò la
scomunica a Enrico, ma non la dichiarazione di decadenza dal trono. Enrico IV
nomina un antipapa ed attacca direttamente il papa in Roma, con l'assedio in
Castel S.Angelo. Il papa è liberato dal normanno Roberto il Guiscardo. Si ha
l'esilio del papa a Salerno.
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