Il viandante nella nebbia
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a
dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant' è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.
Io non so ben ridir com' i' v'intrai,
tant' era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m'avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de' raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m'era durata
la notte ch'i' passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l'acqua perigliosa e guata,
così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.
Temp' era dal principio del mattino,
e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch'a bene sperar m'era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l'ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test' alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l'aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch'uscia di sua vista,
ch'io perdei la speranza de l'altezza.
E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne 'l tempo che perder lo face,
che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove 'l sol tace.
Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d'Anchise che venne di Troia,
poi che 'l superbo Ilïón fu combusto.
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch'è principio e cagion di tutta gioia?».
«Or se' tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos' io lui con vergognosa fronte.
«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu' io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».
«A te convien tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo' campar d'esto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui s'ammoglia,
e più saranno ancora, infin che 'l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno,
là onde ‘nvidia prima dipartilla.
Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch'a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna,
perch' i' fu' ribellante a la sua legge,
non vuol che 'n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l'alto seggio:
oh felice colui cu' ivi elegge!».
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
a ciò ch'io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov' or dicesti,
sì ch'io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant' è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.
Io non so ben ridir com' i' v'intrai,
tant' era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m'avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de' raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m'era durata
la notte ch'i' passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l'acqua perigliosa e guata,
così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.
Temp' era dal principio del mattino,
e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch'a bene sperar m'era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l'ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test' alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l'aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch'uscia di sua vista,
ch'io perdei la speranza de l'altezza.
E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne 'l tempo che perder lo face,
che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove 'l sol tace.
Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d'Anchise che venne di Troia,
poi che 'l superbo Ilïón fu combusto.
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch'è principio e cagion di tutta gioia?».
«Or se' tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos' io lui con vergognosa fronte.
«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu' io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».
«A te convien tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo' campar d'esto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui s'ammoglia,
e più saranno ancora, infin che 'l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno,
là onde ‘nvidia prima dipartilla.
Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch'a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna,
perch' i' fu' ribellante a la sua legge,
non vuol che 'n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l'alto seggio:
oh felice colui cu' ivi elegge!».
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
a ciò ch'io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov' or dicesti,
sì ch'io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
La prima ragione del viaggio
Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m'apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch'io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s'ell' è possente,
prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l'avversario d'ogne male
cortese i fu, pensando l'alto effetto
ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale
non pare indegno ad omo d'intelletto;
ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero
ne l'empireo ciel per padre eletto:
la quale e 'l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u' siede il successor del maggior Piero.
Per quest' andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d'elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch'è principio a la via di salvazione.
Ma io, perché venirvi? o chi 'l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri 'l crede.
Per che, se del venire io m'abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono».
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec' ïo 'n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la 'mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.
«S'i' ho ben la parola tua intesa»,
rispuose del magnanimo quell' ombra,
«l'anima tua è da viltade offesa;
la qual molte fïate l'omo ingombra
sì che d'onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand' ombra.
Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto 'l mondo lontana,
l'amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt' è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
ch'io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c'ha mestieri al suo campare,
l'aiuta sì ch'i' ne sia consolata.
I' son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui".
Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m'apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch'io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s'ell' è possente,
prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l'avversario d'ogne male
cortese i fu, pensando l'alto effetto
ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale
non pare indegno ad omo d'intelletto;
ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero
ne l'empireo ciel per padre eletto:
la quale e 'l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u' siede il successor del maggior Piero.
Per quest' andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d'elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch'è principio a la via di salvazione.
Ma io, perché venirvi? o chi 'l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri 'l crede.
Per che, se del venire io m'abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono».
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec' ïo 'n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la 'mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.
«S'i' ho ben la parola tua intesa»,
rispuose del magnanimo quell' ombra,
«l'anima tua è da viltade offesa;
la qual molte fïate l'omo ingombra
sì che d'onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand' ombra.
Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto 'l mondo lontana,
l'amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt' è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
ch'io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c'ha mestieri al suo campare,
l'aiuta sì ch'i' ne sia consolata.
I' son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui".
La porta dell’Inferno
'Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e 'l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'.
Queste parole di colore oscuro
vid' ïo scritte al sommo d'una porta;
per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro».
Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov' i' t'ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto».
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond' io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l'aere sanza stelle,
per ch'io al cominciar ne lagrimai.
'Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e 'l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'.
Queste parole di colore oscuro
vid' ïo scritte al sommo d'una porta;
per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro».
Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov' i' t'ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto».
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond' io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l'aere sanza stelle,
per ch'io al cominciar ne lagrimai.
Virgilio spiega a Dante che
si trovano nell'Antinferno dove sono gli Ignavi.
I due poeti giungono poi
sulla riva del fiume Acheronte, dalla quale Caronte, traghettatore delle anime
infernali, tenta di allontanare D. Un improvviso terremoto fa cadere Dante
svenuto.
Al risveglio Dante si
trova oltre l'Acheronte, Virgilio gli spiega che in questa prima regione
infernale, il Limbo, sono le anime dei non battezzati, puniti solo della
privazione della vista di Dio, e accenna alla discesa di Cristo.
Insieme raggiungono un
luogo illuminato, dove Virgilio è accolto da Omero, Ovidio, Orazio e Lucano. I
sei poeti entrano in un ‘nobile castello’.
Qui sono mostrati a Dante
gli ‘spiriti magni’, coloro che conseguirono fama tra gli uomini.
Dante e Virgilio lasciano
il Limbo e riprendono il viaggio.
Scendono nel secondo
cerchio e trovano all’ingresso Minosse, il giudice infernale, che tenta invano
di trattenere Dante.
Qui una vorticosa bufera
trascina senza sosta le anime dannate dei lussuriosi, due di esse si
avvicinano a Dante: sono Paolo Malatesta e Francesca da Rimini.
Paolo e Francesca
I’ cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ‘nsieme vanno[1],
e paion sì al vento esser leggieri».
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor[2] che i
mena, ed ei verranno».
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega[3]!».
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere, dal voler portate;
cotali uscir[4] de la
schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido[5].
«O animal grazioso[6] e
benigno
che visitando vai per l’aere perso[7]
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ‘l vento, come fa, ci tace[8].
Siede la terra dove nata fui
su la marina[9] dove
‘l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende[10]
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo[11]
ancor m’offende.
Amor[12],
ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer[13] sì
forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte[14]:
Caina[15]
attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’io intesi quell’anime offense[16],
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ‘l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso[17],
quanti dolci pensier, quanto disio[18]
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio[19].
Ma dimmi: al tempo de’ dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri[20]?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa[21] ‘l
tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto[22],
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto[23] come
amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate[24] li
occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
Dante è miracolosamente
trasportato nel terzo cerchio, dove sono i golosi flagellati da una pioggia greve
e incessante. Cerbero, custode del cerchio, tenta d'opporsi al passaggio, ma è
placato da Virgilio. Dante si trattiene con l'anima del fiorentino Ciacco, che
interroga sul futuro di Firenze, venendo a sapere della rovina dei guelfi di
parte bianca. Chiede poi dove siano alcuni grandi fiorentini come Farinata
degli Uberti, Tegghiaio Aldobrandi e Jacopo Rusticucci.
All'ingresso del quarto
cerchio Dante e Virgilio trovano Pluto.
Ancora una volta Virgilio
interviene per evitare che un demone infernale ostacoli il loro cammino. Quindi
mostra a Dante i dannati, avari e prodighi, costretti a spingere in opposte
schiere enormi pesi.
Interrogato da Dante egli
spiega che la Fortuna è un ministro del volere divino, cui è stata affidata la
distribuzione dei beni mondani.
I due poeti scendono nel
quinto cerchio occupato dalla palude Stigia, dove sono immersi gli iracondi e
sommersi nel fango gli accidiosi.
Sulla barca di Flegiàs Dante
e Virgilio attraversano la palude Stigia.
Filippo Argenti, un
fiorentino di parte Nera, si scaglia contro Dante, Virgilio lo respinge.
Scesi dalla barca i due
poeti vedono le mura della città di Dite protette da diavoli minacciosi che
sbarrano le porte.
Dall'alto d'una torre le
Erinni, Megera, Aletto e Tisifone invocano Medusa perché impedisca a Dante il
viaggio. Interviene un messo del cielo che apre la porta, rimprovera i demoni
e permette a Dante e Virgilio di proseguire.
Entrati, essi si trovano
in una campagna coperta di sepolcri infuocati, nei quali sono le anime degli
eresiarchi.
Da
un sepolcro l'anima di Farinata degli Uberti riconosce Dante.
Farinata
degli Uberti
«O Tosco[25] che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela[26] ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
a la qual forse fui troppo molesto».
Subitamente[27] questo suono uscìo
d'una de l'arche; però[28] m'accostai,
temendo, un poco più al duca mio.
Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s'è dritto:
da la cintola in sù tutto 'l vedrai».
Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s'ergea col petto e con la fronte
com'avesse l'inferno a gran dispitto[29].
E l'animose[30] man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte[31]».
Com'io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor[32] li maggior tui?».
Io ch'era d'ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel'apersi;
ond'ei levò le ciglia un poco in suso[33];
poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte[34],
sì che per due fiate li dispersi».
«S'ei[35] fur cacciati, ei tornar d'ogne parte»,
rispuos'io lui, «l'una e l'altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell'arte».
Allor surse a la vista scoperchiata[36]
un'ombra[37], lungo questa, infino al mento:
credo che s'era in ginocchie levata.
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s'altri era meco;
e poi che 'l sospecciar[38] fu tutto spento,
piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d'ingegno[39],
mio figlio ov'è? e perché non è teco?».
E io a lui: «Da me stesso non vegno[40]:
colui[41] ch'attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».
Le sue parole e 'l modo de la pena
m'avean di costui già letto[42] il nome;
però fu la risposta così piena[43].
Di subito drizzato gridò: «Come?
dicesti "elli ebbe"? non viv'elli ancora?
non fiere[44] li occhi suoi lo dolce lume?».
Quando s'accorse d'alcuna dimora[45]
ch'io facea dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
Ma quell'altro magnanimo, a cui posta[46]
restato m'era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa[47]:
e sé continuando al primo detto,
«S'elli han quell'arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto[48].
Ma non cinquanta[49] volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell'arte pesa.
E se tu mai nel dolce mondo regge[50],
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr'a' miei in ciascuna sua legge?».
Ond'io a lui: «Lo strazio e 'l grande scempio
che fece l'Arbia[51] colorata in rosso,
tal orazion[52] fa far nel nostro tempio».
Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò[53] non fu' io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
Ma fu' io solo, là[54] dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto».
Dante e Virgilio
riprendono il cammino.
Giunti sul ciglio d'una
ripa scoscesa, sentono esalare dalla valle sottostante un orribile puzzo. I
due poeti indugiano e Virgilio espone a Dante l'ordinamento morale
dell'Inferno.
Procedono poi verso il
luogo della discesa.
Discesi nel primo girone
del settimo cerchio, dopo aver superato il Minotauro, che custodiva l'ingresso,
per un declivio giungono al Flegetonte, fiume di sangue bollente, dove sono
immersi i violenti contro il prossimo.
Lungo le rive del fiume
corrono i Centauri.
In groppa al Centauro
Nesso, che indica alcune anime dannate, Dante e Virgilio attraversano il
Flegetonte.
Nel secondo girone del
settimo cerchio s'addentrano in una selva di alberi spogli e nodosi, tra i quali
svolazzano le Arpie. Sono le anime dei suicidi tramutate in piante.
Da uno di questi arbusti,
cui Dante ha spezzato un ramo, gli parla Pier della Vigna, segretario di
Federico II, accusato di tradimento e per questo suicida.
Dante assiste poi alla
pena degli scialacquatori inseguiti e sbranati da fameliche cagne.
Il terzo girone è una
landa sabbiosa battuta da una pioggia di fuoco che fiacca i violenti contro
Dio, la natura e l'arte. Virgilio riconosce Capaneo.
Spiega poi a Dante
l'origine dei fiumi infernali. Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito sono in
realtà nomi diversi d'uno stesso fiume formato dalle lacrime che sgorgano
dalla statua d'un vecchio, simbolo del genere umano, collocata in una grotta
del monde Ida, e che precipitano attraverso la roccia nell'Inferno.
Lungo gli argini del
Flegetonte Dante riconosce tra i sodomiti Brunetto Latini. Con lui parla dei
corrotti costumi di Firenze e da lui riceve una seconda predizione
dell'esilio. Salutando Dante Brunetto gli raccomanda il suo Trésor.
Tre fiorentini si fanno
incontro a Dante: lacopo Rusticucci, Tegghiaio Aldobrandi e Guido Guerra. Con
Jacopo parla della triste condizione di Firenze dove non esistono più
"cortesia e valer".
Dante e Virgilio, giunti
nel punto in cui il Flegetonte precipita in basso, vedono salire dal fondo,
nuotando per l'aria una figura mostruosa. È Gerione simbolo della frode.
Virgilio invita Dante a
visitare gli usurai, che si trovano sull'orlo del terzo girone. Flagellati
anch'essi dalla pioggia infuocata portano al collo un sacchetto con lo stemma
della famiglia. Dante ne riconosce alcune.
Poi con Virgilio, sulle
spalle di Gerione, discende nell'abisso infernale.
L'ottavo cerchio di pietra
livida è Malebolge.
Nella I bolgia sferzati da
demoni sono i seduttori e i ruffiani. Virgilio gli indica Giasone.
Dal ponte della II bolgia
vede immersi nello sterco gli adulatori tra i quali riconosce Alessio
Interminelli e Taide.
Nella III bolgia confitti a testa in giù stanno
i simoniaci. Hanno le gambe fuori e le piante dei piedi bruciate da una
fiamma. Dante parla con papa Niccolo III e poi prorompe in un'aspra invettiva
contro la corruzione ecclesiastica.
Nella IV bolgia vede la
schiera degli indovini col capo stravolto all'indietro. Virgilio gli mostra i
più famosi ed espone le origini della città di Mantova.
Dal ponte Dante e Virgilio
vedono la V bolgia ricolma di pece bollente dove sono immersi i barattieri custoditi
da demoni. Il loro capo Malacoda parlamenta con Virgilio e sceglie dieci dei
suoi, comandati da Barbariccia, perché scortino Dante e Virgilio alla VI bolgia.
Scortati dai diavoli, Dante
e Virgilio proseguono lungo il margine della fossa dei barattieri. Uno di essi
si rivolge a Dante. È Ciampolo di Navarra, che gli indica altri dannati.
Sfugge ai diavoli che cercano di afferrarlo, due dei quali cadono nella pece
bollente.
Dante e Virgilio, che si vedono inseguiti dai diavoli, si precipitano nella VI bolgia e si pongono in salvo. Vi trovano gli ipocriti coperti di pesanti cappe di piombo. Parlano con Loderingo e Catalano, bolognesi frati gaudenti. Dante ne guarda stupito uno crocifisso a terra e Catalano gli spiega che si tratta di Caifa, uno dei giudici di Cristo.
Dante e Virgilio, che si vedono inseguiti dai diavoli, si precipitano nella VI bolgia e si pongono in salvo. Vi trovano gli ipocriti coperti di pesanti cappe di piombo. Parlano con Loderingo e Catalano, bolognesi frati gaudenti. Dante ne guarda stupito uno crocifisso a terra e Catalano gli spiega che si tratta di Caifa, uno dei giudici di Cristo.
Virgilio chiede come sia
possibile riprendere la serie dei ponti per uscire dalla bolgia e Catalano lo
avverte che quello verso il quale sono diretti è rovinato. Virgilio s'accorge così
dell'inganno tesogli da Malacoda.
Dante e Virgilio salgono a
fatica le macerie del ponte e raggiungono la VII bolgia.
Qui si trovano i ladri che
corrono atterriti in mezzo a una moltitudine di serpenti.
Un dannato morso da un
serpente incenerisce e poi riprende forma di uomo. È il pistoiese Vanni Fucci,
che riconosciuto da Dante, si turba d'essere stato visto dal poeta nella
condizione di dannato. Irato, gli predice la futura sconfitta dei guelfi
bianchi. Vanni Fucci bestemmia Dio con un gesto osceno e il centauro Caco corre
a punirlo.
Dall'argine Dante e Virgilio
assistono poi alle metamorfosi di dannati ladri fiorentini in serpenti.
Dopo una severa apostrofe
a Firenze, alla quale predice grandi sventure, Dante scende nella VIII bolgia,
dove sono i consiglieri fraudolenti vestiti di fiamma. Una delle fiamme è
biforcuta e Virgilio spiega che in essa sono puniti Diomede e Ulisse.
Il viaggio di Ulisse
Lo maggior corno[55]
della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando
mi diparti' da Circe[56],
che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta[57],
prima che sì Enea la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta[58]
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dovea Penelopè[59]
far lieta,
vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore[60];
ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna[61]
picciola da la qual non fui diserto[62].
L'un lito[63]
e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola de' Sardi,
e l'altre che quel mare intorno bagna.
Io e ' compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov'Ercule segnò li suoi riguardi[64],
acciò che l'uom più oltre non si metta:
dalla man destra mi lasciai Sibilia[65],
dall'altra già m'avea lasciato Setta[66].
«O frati», dissi «che per cento milia
perigli[67]
siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia[68]
de' nostri sensi ch'è del rimanente,
non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol[69],
del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza[70]:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza».
Li miei compagni fec'io sì aguti[71],
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino[72],
dei remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino[73].
Tutte le stelle[74]
giù dell'altro polo
vedea la notte e 'l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte[75]
racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,
quando n'apparve una montagna[76],
bruna per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto[77].
Tre volte il fe' girar con tutte l'acque;
la quarta levar[78]
la poppa in suso
la prora ire in giù, com'altrui piacque[79],
infin che 'l mar fu sopra noi rinchiuso».
Un'altra fiamma si ferma a
parlare. È l'anima di Guido da Montefeltro, cui Dante espone le condizioni
della Romagna. Guido narra di come fosse stato indotto nuovamente al peccato
da un inganno di Bonifacio VIII, che gli concesse l'assoluzione prima che egli
desse il consiglio di frode richiesto.
Dante guarda lo spettacolo
della IX bolgia, dove, mutilati dalla spada di un demonio, stanno i seminatori
di discordia. Gli passano davanti Maometto, Pier da Medicina, Mosca dei
Lamberti e Bertram dal Bornio.
Dante indugia
impietosito al pensiero che nella bolgia si trovi lo zio Geri del Bello. Virgilio
lo rimprovera esortandolo a proseguire.
Giungono al ponte che sovrasta
la X bolgia, dove colpiti da malattie che li deformano stanno i falsari.
Parlano con due alchimisti (falsatori di metalli): Griffolino d'Arezzo e
Capocchio da Siena.
Irrompono due falsari
della persona, rabbiosi, Gianni Schicchi che si finse Buoso dei Donati e Mirra
che innamorata del padre si finse un'altra donna.
Dante parla poi con
Maestro Adamo, un falsario di moneta, che ha il ventre gonfio per l'idropisia.
Egli indica a Dante due anime tormentate da una febbre altissima; sono la
moglie di Putifarre, accusatrice di Giuseppe, e Sinone. Sinone e Adamo
s'azzuffano rinfacciandosi le colpe e le pene.
Dante e Virgilio passano
in silenzio dallo VIII al IX cerchio.
Dante scorge i Giganti,
che sporgono con il busto dal pozzo infernale. Vede Nembrot, Fialte, Antèo.
Virgilio prega Antèo di
porli nel fondo del pozzo.
II IX cerchio è costituito
dalla superficie ghiacciata del lago di Cocito.
Nella prima zona, Caina,
si trovano i traditori dei congiunti immersi nel ghiaccio. Dante parla con
Camicione de' Pazzi, che gli mostra i conti di Mangona e profetizza la venuta
del congiunto Carlino.
Nella seconda zona, Antenora,
Dante trova con Bocca degli Abati molti traditori della patria e vede un
dannato che rode il cranio di un altro.
È il conte Ugolino della
Gherardesca, che narra a Dante i particolari della prigionia e della morte sua
e dei suoi figli per volontà dell'arcivescovo Ruggeri.
Il conte Ugolino
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola[80] a'
capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli[81]
disperato dolor che 'l cor mi preme
già pur pensando[82],
pria ch'io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien[83] seme
che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,
parlar e lagrimar[84]
vedrai insieme.
Io non so chi tu se' né per che modo
venuto se' qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand'io t'odo.
Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino[85],
e questi[86] è
l'arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal[87]
vicino.
Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri[88];
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s'e' m'ha offeso[89].
Breve pertugio dentro da la Muda[90]
la qual per me[91] ha
'l titol de la fame,
e che conviene[92]
ancor ch'altrui si chiuda,
m'avea mostrato per lo suo forame
più lune[93] già,
quand'io feci 'l mal sonno
che del futuro mi squarciò 'l velame.
Questi[94]
pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ' lupicini al monte[95]
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studiose e conte[96]
Gualandi[97] con
Sismondi e con Lanfranchi
s'avea messi dinanzi da la fronte[98].
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ' figli, e con l'agute scane[99]
mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane[100],
pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli[101]
ch'eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se' crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava[102];
e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e l'ora s'appressava
che 'l cibo ne solea essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava[103];
e io senti' chiavar[104]
l'uscio di sotto
a l'orribile torre; ond'io guardai
nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.
Io non piangea, sì dentro impetrai[105]:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".
Perciò non lacrimai né rispuos'io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l'altro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per[106]
quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch'io 'l fessi[107] per
voglia
di manicar, di subito levorsi[108]
e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia".
Queta'mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l'altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t'apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
dicendo: ``Padre mio, ché non mi aiuti?''.
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid'io cascar li tre ad uno ad uno
tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond'io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che[109] fur
morti.
Poscia, più che 'l dolor[110],
poté 'l digiuno».
Quand'ebbe detto ciò, con li occhi torti[111]
riprese 'l teschio misero co'denti,
che furo a l'osso, come d'un can, forti.
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove 'l sì suona[112],
poi che i vicini[113] a
te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona[114],
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch'elli annieghi in te ogne persona!
Ché se 'l conte Ugolino aveva voce
d'aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea l'età novella,
novella Tebe[115],
Uguiccione e 'l Brigata
e li altri due che 'l canto suso appella.
Dante passa poi nella
Tolomea dove sono i traditori degli ospiti e degli amici.
Alberigo Manfredi racconta
di sé, di Branca d'Oria e di come in questa zona infernale l'anima scenda
quando si è ancora vivi mentre un demonio s'impossessa del corpo.
Nella Giudecca interamente
immersi nel ghiaccio stanno i traditori dei benefattori.
Dante scorge da lontano Lucifero, orribile a vedersi con tre facce e smisurate
ali da pipistrello. Nelle bocche dilania Giuda, Bruto e Cassio. Per un oscuro
cammino sotterraneo Dante e Virgilio escono a riveder
le stelle.
[1] che 'nsieme
vanno: soli tra i peccatori trascinati dalla bufera, Paolo e Francesca sono
uniti per l'eternità. Francesca da Polenta, moglie di Gianciotto Malatesta,
signore di Rimini, uomo deforme e zoppo, amò il fratello di questi, Paolo.
Gianciotto vendicò il suo onore, uccidendoli entrambi.
[2] per quello
amor che i mena: in nome di quell'amore che li ha perduti e che li conduce
ancora uniti nella violenta bufera.
[3] s'altri nol
niega: se l'imperscrutabile potenza divina non lo vieta.
[4] cotali uscir:
similmente uscirono dalla schiera ove è Didone.
[5] l'affettuoso
grido: il vocativo " O anime affannate " del v. 80.
[6] O animal
grazioso: o creatura cortese.
[7] perso: è
un colore "misto di purpureo e di nero ma vince lo nero, e da lui si
dinomina" (Conv. IV, XX, 2).
[8] Ci tace:
Paolo e Francesca si trovano momentaneamente al di fuori della bufera infernale
(cfr. v. 45 e n.).
[9] Su la marina:
Francesca nacque a Ravenna, città sita presso la foce ove sbocca il Po con i
suoi affluenti ("seguaci sui").
[10] Ratto
s'apprende: fa rapida presa. È immagine stilnovista, cara a Guinizelli e a
Dante stesso (cfr. V.N. XX)
[11] e'l modo:
la morte violenta che non le permise di pentirsi.
[12] Amor:
l'amore che non consente a nessuno che sia amato di non riamare.
[13] Del costui
piacer: della bellezza di questi.
[14] Ad una morte:
a morire insieme.
[15] Caina: è
la parte del nono cerchio dell'Inferno dove sono dannati i traditori dei
parenti.
[16] Offense:
offese, cioè colpite prima dalla travolgente passione, poi dalla fatale
tragedia.
[17] Oh lasso:
espressione di doloroso rammarico: ohimé!
[18] Quanto disìo:
quanto desiderio condusse costoro al tragico passaggio dalla vita alla morte
eterna.
[19] Tristo e pio:
mi rendono ("mi fanno")
triste e pietoso, tanto da piangere ("a
lagrimar").
[20] I dubbiosi
disiri?: l'amore, che ancor non si era rivelato.
[21] E ciò sa:
anche Virgilio è passato dal "tempo felice" all'infelicità
("miseria"); abita, infatti, il Limbo.
[22] Affetto:
desiderio di conoscere il primo manifestarsi ("la prima radice").
Tutta l'espressione è d'ispirazione virgiliana (cfr. En., II, 10).
[23] Lancialotto:
Lancillotto, cavaliere della Tavola Rotonda, innamorato della regina Ginevra,
moglie di re Artù, è il protagonista del "Lancelot du Lac", romanzo
francese del sec. XII: In esso si legge che Ginevra fu indotta a baciare il suo
cavaliere dal principe Galeotto, che fungeva da mezzano. Ciò spiega il v.137.
[25] O Tosco: o
toscano.
[26] Loquela: accento
[27] Subitamente: improvvisamente questa
voce proruppe.
[28] però: perciò.
[29] a gran
dispitto: in dispregio (cfr. c. IX, 91).
[30] l'animose:
incoraggianti, soccorrevoli.
[31] conte:
cognite, cioè chiare e non avventate (cfr. c. III, 76).
[32] Chi fuor...?:
da quali antenati discendi?
[33] in suso:
in alto. Cioè corrugò la fronte, nell'atto di ricordare.
[34] e a miei primi
e a mia parte: ai miei antenati e al mio partito, si che li cacciai per due
volte ("due fiate"). Manente, detto Farinata, appartenne alla
famiglia fiorentina degli Uberti e fu il baluardo del partito ghibellino;
contribuì alla cacciata dei Guelfi nel 1248 e nel 1260 (battaglia di
Montaperti).
[35] S'ei: se
essi furono cacciati, tornarono però dopo entrambe le sconfitte: e cioè nel
1251 e nel 1266. Ma i Ghibellini ("i vostri") non riuscirono a
tornare più: infatti, dopo la Pasqua del 1267 persero ogni autorità politica e
gli Uberti non furono più riammessi in città, neppure dopo la pacificazione del
1280.
[36] A la vista
scoperchiata: all'apertura della tomba il cui coperchio era sollevato.
"Vista" equivale a finestra (cfr. Purg. c. IX, 67).
[37] Un'ombra: è lo spirito di Cavalcante
Cavalcanti, padre di Guido, poeta e amico di Dante.
[38] 'l sospecciar:
il sospettare, nel senso etimologico di guardare dal basso in alto (cfr. lat.
subspicere).
[39] per altezza
d'ingegno: per meriti intellettuali.
[40] Da me stesso non vegno: non vengo per
mio merito; c'è stato, infatti, l'intervento delle tre donne benedette.
[41] Colui: Virgilio rappresenta la ragione
umana illuminata dalla verità rivelata. E la Rivelazione, invece, disdegnò
Guido Cavalcanti che, come il padre, aveva fama di epicureo.
[42] Letto:
rivelato.
[43] Piena:
decisa.
[44] Fiere: ferisce, colpisce i suoi occhi
la dolce luce ("dolce lume") del sole?
[45] Dimora:
indugio, esitazione.
[46] A cui posta:
a richiesta del quale mi ero arrestato (cfr. v. 22 e segg.).
[47] Costa:
fianco.
[48] letto:
giaciglio, costituito dalla tomba.
[49] Ma non cinquanta: Ma non cinquanta
volte tornerà a risplendere la faccia della regina infernale...; la regina
(cfr. c. IX, 44) è Proserpina, la quale si identifica con Diana, in terra, e
con la Luna, in cielo. Tutta la frase vale: non passeranno cinquanta lunazioni,
cioè mesi; perciò quattro anni e due mesi. E' un'allusione all'esilio di Dante,
decretato nell'estate 1304, cioè dopo cinquanta mesi dall'aprile 1300, in cui
inizia il viaggio oltremondano.
[50] regge: ritorni, con valore ottativo
(cfr. lat. redeas).
[51] L'Arbia: fiume presso Montaperti, dove
il 4 settembre 1280 avvenne la battaglia sanguinosa vinta dai Ghibellini di
Farinata.
[52] Tal orazion: tali deliberazioni; per
conseguenza "tempio" va inteso come città.
[53] A ciò:
allo " strazio " e al " grande scempio".
[54] Là: là dove da ciascuno fu tollerato
di distruggere Firenze; Farinata allude al concilio di Empoli, riunitosi dopo
Montaperti,nel quale egli solo, si oppose ai colleghi ghibellini contro il
progetto di distruggere Firenze.
[55]
Lo maggior corno: quello che "invola" Ulisse.
[56]
Circe: figlia del Sole, esercitava i suoi incantesimi sui malcapitati
stranieri, trasformandoli in animali. Trattenne per oltre un anno Ulisse il
quale, ripartito, non tornò, afferma Dante, contrariamente alla tradizione
omerica, nella sua Itaca, ma volle vivere l'esperienza "del mondo sanza
gente".
[57]
Gaeta: il monte Circello, poi chiamato Gaeta dal nome della nutrice di
Enea, Caieta, che vi fu sepolta.
[58]
La pieta: l'amor filiale.
[59] Penelopè:
Penelope, la sposa di Ulisse.
[60]
Valore: virtù (cfr. lat. virtus)
[61]
compagna: compagnia, ciurma.
[62] Diserto:
abbandonato.
[63] L'un
lito: le coste europee e quelle d'Africa ("Morrocco").
[64]Riguardi:
limiti; le colonne d'Ercole, cioè Gibilterra.
[65]
Sibilia: Siviglia, in Spagna.
[66]
Setta: Ceuta, sulla costa d'Africa.
[67]
per cento milia: attraverso centomila pericoli.
[68] Vigilia:
veglia dei sensi che precede il sonno della morte.
[69] di
retro al sol: seguendo l'apparente moto del sole da oriente ad
occidente.
[70] Semenza:
natura.
[71] Aguti:
disposti favorevolmente.
[72]Nel
mattino: ad oriente; perciò la nave va verso occidente.
[73]
Dal lato mancino: lungo la costa dell'Africa.
[74]
Tutte le stelle: la notte mostrava già tutte le stelle del polo
antartico mentre il polo artico ("'l nostro") non si levava al di
sopra dell'orizzonte. Cioè era stato oltrepassato l'equatore.
[75]
Cinque volte: il lume della luna si era riacceso e spento
("casso") cinque volte, cioè erano passati cinque mesi da quando ci
eravamo posti in viaggio.
[76]
Una montagna: è la montagna del
Purgatorio.
[77]
il primo canto: la prora.
[78]
levar: infinito narrativo come "ire" del v. seg.
[79]
altrui: ad altri, alla divina volontà.
[82] già pur
pensando: al solo pensarci, prima ancor che ne parli.
[83] dien:
devono essere ragione ("seme") d'infamia.
[84] parlar e
lagrimar: si ricordi il c. V, 126.
[85] conte Ugolino:
è Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico. L'arcivescovo è Ruggieri
degli Ubaldini, nipote del cardinale Ottaviano (cfr. c. X, 120 e n.119).
[86] questi: è
il cranio spolpato, il "fiero pasto".
[87] tal: simile, così fatto.
[88] dir nón è mestieri:
non è necessario dire che io fui preso e ucciso, fidandomi di lui, in
conseguenza dei suoi malvagi pensieri. La storia, alquanto incerta, è questa:
il conte Ugolino apparteneva a famiglia pisana di parte ghibellina ma,
accordatosi col genero Giovanni Visconti, tradì i suoi e contribuì
all'instaurazione del governo guelfo in Pisa. Esiliato, riuscì a tornare nella
sua città, nel 1278, sorretto dalle armi dei Guelfi; in seguito divenne capo
della flotta sconfitta dai Genovesi alla Meloria nel 1284. Fatto podestà di
Pisa nel tempo in cui Genova strinse alleanza con Firenze e Lucca contro la sua
città, Ugolino, per incrinare, come sembra, quella alleanza, cedette alle due
città toscane alcuni castelli pisani, il che gli fu imputato a tradimento (cfr.
vv. 85-86).
Tornato
a prevalere in Pisa il partito ghibellino, dopo il 1288, Ugolino tentò un
riaccostamento ai suoi antichi compagni, ma l'arcivescovo Ruggieri, acceso
ghibellino, fingendo di essergli amico, dopo averlo chiamato a Pisa, gli
suscitò contro l'odio popolare, sfruttando la voce del tradimento operato con
la cessione dei castelli; in conseguenza di ciò, Ugolino fu arrestato e
imprigionato con due figli e due nipoti finché, dopo otto mesi, nel febbraio 1289
fu lasciato morire di fame. Ugolino è punito nell'Antenora per il tradimento
verso i Guelfi e l'arcivescovo per quello verso Ugolino.
[92] e che conviene: e in cui sarebbe bene
rinchiudere anche altri più di me colpevoli.
[93] più lune: diversi mesi.
[94] Questi: l'arcivescovo Ruggieri, nel
sogno, mi appariva come direttore ("maestro") e signore
("donno") della caccia.
[95] al monte:
il monte San Giuliano, per il cui ostacolo i Pisani non possono vedere Lucca.
[96] studiose e
conte: bramose e ben ammaestrate.
[97] Gualandi:
con i Sismondi e i Lanfranchi era tra le più influenti famiglie ghibelline.
[102] s'annunziava: presagiva a sè stesso
[107] 'l fessi:
lo facessi per desiderio di mangiare ("manicar").
[108] levorsi:
si levarono.
[109] poi che:
dopo che.
[110] più che 'l dolor: mentre il dolore non
mi aveva ucciso, il lungo digiuno ebbe ragione delle mie forze residue. Ma
l'oscuro verso non respinge una diversa chiosa esegetica: "poi,
sull'angoscia, ebbe il sopravvento la fame", cioè "finii per
cibarmi dei cadaveri di figli e nipoti".
[111] torti: biechi.
[112] 'l sì suona: il paese ove si afferma
col sì è l'Italia.
[113] i vicini:
i Fiorentini e i Lucchesi.
[114] la Capraia e
la Gorgona: sono due isolette poste alla foce dell'Arno, fiume che
attraversa Pisa.
[115] novella Tebe: nell'antichità Tebe fu
famosa per le tragiche vicende della stirpe di Cadmo.
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