Il
Purgatorio
Per correr miglior
acque alza le vele
che lascia dietro a sé
mar sì crudele;
e canterò di quel
secondo regno
dove l’umano spirito
si purga
e di salire al ciel
diventa degno.
o sante Muse, poi che
vostro sono;
lo colpo tal, che
disperar perdono.
Dolce color d’oriental
zaffiro,
che s’accoglieva nel
sereno aspetto
a li occhi miei
ricominciò diletto,
tosto ch’io usci’ fuor
de l’aura morta
che m’avea contristati
li occhi e ‘l petto.
faceva tutto rider l’oriente,
velando i Pesci ch’erano
in sua scorta.
I’ mi volsi a man
destra, e puosi mente
Goder pareva ‘l ciel
di lor fiammelle:
poi che privato se’ di
mirar quelle!
un poco me volgendo a
l’altro polo,
là onde il Carro già
era sparito,
vidi presso di me un
veglio solo,
che più non dee a
padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di
pel bianco mista
portava, a’ suoi
capelli simigliante,
de’ quai cadeva al
petto doppia lista.
fregiavan sì la sua
faccia di lume,
ch’i’ ‘l vedea come ‘l
sol fosse davante.
fuggita avete la
pregione etterna?»,
«Chi v’ha guidati, o
che vi fu lucerna,
uscendo fuor de la
profonda notte
che sempre nera fa la
valle inferna?
Son le leggi d’abisso
così rotte?
Lo duca mio allor mi
diè di piglio,
e con parole e con
mani e con cenni
Poscia rispuose lui:
«Da me non venni:
de la mia compagnia
costui sovvenni.
Ma da ch’è tuo voler
che più si spieghi
ma per la sua follia
le fu sì presso,
Sì com’io dissi, fui
mandato ad esso
che questa per la
quale i’ mi son messo.
Mostrata ho lui tutta
la gente ria;
e ora intendo mostrar
quelli spirti
che purgan sé sotto la
tua balia
Com’io l’ho tratto,
saria lungo a dirti;
de l’alto scende virtù
che m’aiuta
conducerlo a vederti e
a udirti.
Or ti piaccia gradir
la sua venuta:
come sa chi per lei
vita rifiuta.
in Utica la morte, ove
lasciasti
Non son li editti
etterni per noi guasti,
ché questi vive, e Minòs me non lega;
di Marzia tua, che ‘n
vista ancor ti priega,
o santo petto, che per
tua la tegni:
per lo suo amore
adunque a noi ti piega.
grazie riporterò di te
a lei,
«Marzia piacque tanto
a li occhi miei
che fatta fu quando me
n’usci’ fora.
Ma se donna del ciel
ti muove e regge,
Va dunque, e fa che tu
costui ricinghe
sì ch’ogne sucidume
quindi stinghe;
d’alcuna nebbia, andar
dinanzi al primo
là giù colà dove la
batte l’onda,
porta di giunchi sovra
‘l molle limo;
null’altra pianta che
facesse fronda
Così sparì; e io su mi
levai
sanza parlare, e tutto
mi ritrassi
al duca mio, e li occhi a lui drizzai.
El cominciò:
«Figliuol, segui i miei passi:
volgianci in dietro,
ché di qua dichina
che fuggia innanzi, sì
che di lontano
conobbi il tremolar de
la marina.
Noi andavam per lo
solingo piano
com’om che torna a la
perduta strada,
che ‘nfino ad essa li
pare ire in vano.
Quando noi fummo là ‘ve
la rugiada
pugna col sole, per
essere in parte
ambo le mani in su l’erbetta
sparte
soavemente ‘l mio
maestro pose:
ond’io, che fui
accorto di sua arte,
porsi ver’ lui le
guance lagrimose:
Venimmo poi in sul
lito diserto,
che mai non vide
navicar sue acque
Quivi mi cinse sì com’altrui
piacque:
oh maraviglia! ché
qual elli scelse
l’umile pianta, cotal
si rinacque
subitamente là onde l’avelse.
Sorge il sole e appare in
lontananza la navicella dell’angelo nocchiero che trasporta le anime penitenti
dopo averle raccolte alla foce del Tevere. Le anime si affollano stupite
intorno a Dante vivo. Tra queste Dante riconosce Casella, l’amico musico, che
gli canta
Amar che ne la mente mi ragiona. Tutti sono rapiti dalla dolcezza
del canto. Catone li sollecita a correre al monte per purificarsi.
Dante e Virgilio giungono ai piedi
del ripido pendio del monte e scorgono le anime degli scomunicati costrette a
trascorrere nell’Antipurgatorio trenta volte il tempo della scomunica. Dante
parla allora con il re Manfredi.
Manfredi
E un di loro incominciò: «Chiunque
tu se’, così andando, volgi ‘l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque[51]».
Io mi volsi ver lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un[52] de’ cigli un colpo avea diviso.
Quand’io mi fui[53] umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto.
Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi[54],
nepote di Costanza[55] imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia[56], genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice.
Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte[57] mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.
Se ‘l pastor di Cosenza[58], che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio[59] ben letta questa faccia,
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno[60], quasi lungo ‘l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion[61] sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.
Vero è che[62] quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzion, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto;
ché qui[63] per quei di là molto s’avanza».
Faticosamente Dante e Virgilio salgono al primo balzo. Virgilio spiega a Dante il corso del sole nell’emisfero australe. Poco dopo Dante incontra Belacqua, tra le anime dei negligenti, che in terra tardarono a pentirsi e per questo devono attendere nell’Antipurgatorio tanto, quanto il tempo della loro vita.
Un’altra schiera di anime s’affolla intorno ai due poeti: sono i morti di morte violenta. Qualcuna prega Dante, poiché egli è vivo, di portarne notizia sulla terra. Dante si dichiara pronto a fare ciò. Ha poi un colloquio con Jacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e Pia de’ Tolomei, che narrano la loro triste sorte.
Buonconte da Montefeltro e Pia dei Tolomei
Poi disse un altro[64]: «Deh, se quel disio
si compia che ti tragge a l’alto monte,
con buona pietate aiuta il mio!
Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna[65] o altri non ha di me cura;
per ch’io vo tra costor con bassa fronte».
E io a lui: «Qual forza o qual ventura
ti traviò[66] sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?».
«Oh!», rispuos’elli, «a piè del Casentino[67]
traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino
Là ‘ve ‘l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Io dirò vero e tu ‘l ridì tra ‘ vivi:
l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno[68]
gridava: "O tu del ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di costui l’etterno[69]
per una lagrimetta che ‘l mi toglie;
ma io farò de l’altro[70] altro governo!".
Ben sai[71] come ne l’aere si raccoglie
quell’umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove ‘l freddo il coglie.
Giunse[72] quel mal voler che pur mal chiede
con lo ‘ntelletto, e mosse il fummo e ‘l vento
per la virtù che sua natura diede.
Indi la valle, come ‘l dì fu spento,
da Pratomagno[73] al gran giogo coperse
di nebbia; e ‘l ciel di sopra fece intento[74],
sì che ‘l pregno aere in acqua si converse;
pioggia cadde e a’ fossati venne
di lei ciò che la terra[75] non sofferse;
come ai rivi grandi si convenne,
ver’ lo fiume real[76] tanto veloce
si ruinò, che nulla la ritenne.
Lo corpo mio gelato in su la foce
trovò l’Archian rubesto[77]; e quel sospinse
ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce[78]
ch’i’ fe’ di me quando ‘l dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse».
«Deh, quando tu sarai tornato al mondo,
e riposato de la lunga via»,
seguitò ‘l terzo spirito al secondo,
«ricorditi di me, che son la Pia[79]:
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi[80] colui che ‘nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma».
Le anime continuano a far ressa intorno a Dante e a chiedere suffragi. Dante promette e Virgilio spiega l’efficacia della preghiera.
Un’anima è in disparte, si tratta del poeta mantovano Sordello.
Sordello e l’invettiva all’Italia
Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!
Ella non ci dicea alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,
ma di nostro paese e de la vita
ci ‘nchiese; e ‘l dolce duca incominciava
«Mantua...», e l’ombra, tutta in sé romita[81],
surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello[82]
de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.
Ahi serva Italia, di dolore ostello[83],
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna[84] di province, ma bordello!
Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin[85] suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei[86] ch’un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode[87]
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.
Che val[88] perché ti racconciasse il freno
Iustiniano, se la sella è vota?
Sanz’esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare[89] in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta fiera[90] è fatta fella[91]
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella[92].
O Alberto tedesco[93] ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio[94] da le stelle caggia
sovra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia!
Ch’avete[95] tu e ‘l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto.
Dopo aver saputo da Virgilio le ragioni del viaggio, Sordello guida i due poeti in una valletta fiorita che ospita i principi negligenti. Indica Rodolfo d’Asburgo, Ottocaro II di Boemia, Filippo II di Francia, Enrico I di Navarra, Pietro III d’Aragona, Carlo I d’Angiò, Enrico III d’Inghilterra, Guglielmo VII marchese di Monferrato.
Al tramonto le anime pregano e attendono l’arrivo di due angeli custodi contro la tentazione.
Con Sordello Dante e Virgilio scendono nella valletta e Dante riconosce l’amico Nino Visconti, giudice in Sardegna. S’avvicina Corrado Malaspina. Dante tesse un elogio della famiglia Malaspina e Corrado gli profetizza che presto avrà prova della veridicità di tale opinione.
Nella valletta
dei principi
Era già l’ora[96] che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin[97] d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia[98] il giorno pianger che si more;
quand’io incominciai a render vano[99]
l’udire e a mirare una de l’alme
surta, che l’ascoltar chiedea con mano.
Ella giunse e levò ambo le palme,
ficcando li occhi verso l’oriente,
come dicesse a Dio: "D’altro non calme[100]".
"Te lucis ante[101]" sì devotamente
le uscìo di bocca e con sì dolci note,
che fece me a me uscir di mente;
e l’altre poi dolcemente e devote
seguitar lei per tutto l’inno intero,
avendo li occhi a le superne rote[102].
[…]
E Sordello anco: «Or avvalliamo[103] omai
tra le grandi ombre, e parleremo ad esse;
grazioso fia lor vedervi assai».
Solo tre passi[104] credo ch’i’ scendesse,
e fui di sotto, e vidi un che mirava
pur me[105], come conoscer mi volesse.
Temp’era già che l’aere s’annerava,
ma non sì che tra li occhi suoi e ‘ miei
non dichiarisse[106] ciò che pria serrava.
Ver’ me si fece, e io ver’ lui mi fei:
giudice Nin[107] gentil, quanto mi piacque
quando ti vidi non esser tra ‘ rei!
Nullo bel salutar tra noi si tacque;
poi dimandò: «Quant’è che tu venisti
a piè del monte per le lontane acque?».
«Oh!», diss’io lui, «per entro i luoghi tristi[108]
venni stamane, e sono in prima vita[109],
ancor che l’altra, sì andando, acquisti».
E come fu la mia risposta udita,
Sordello ed elli in dietro si raccolse
come gente di sùbito smarrita.
L’uno a Virgilio e l’altro a un si volse
che sedea lì, gridando:«Sù, Currado[110]!
vieni a veder che Dio[111] per grazia volse».
Poi, vòlto a me: «Per quel singular grado[112]
che tu dei a colui che sì nasconde
lo suo primo perché[113], che non lì è guado,
quando sarai di là[114] da le larghe onde,
dì a Giovanna[115] mia che per me chiami
là dove a li ‘nnocenti si risponde.
Non credo che la sua madre[116] più m’ami,
poscia che trasmutò le bianche bende,
le quai convien che, misera!, ancor brami.
Per lei assai di lieve si comprende
quanto in femmina foco d’amor dura,
se l’occhio o ‘l tatto spesso non l’accende.
Non le farà sì bella sepultura
la vipera[117] che Melanesi accampa,
com’avria fatto il gallo di Gallura».
Così dicea, segnato de la stampa,
nel suo aspetto, di quel dritto zelo[118]
che misuratamente in core avvampa.
[…]
L’ombra[119] che s’era al giudice raccolta
quando chiamò, per tutto quello assalto
punto non fu[120] da me guardare sciolta.
«Se la lucerna[121] che ti mena in alto
truovi nel tuo arbitrio tanta cera
quant’è mestiere infino al sommo smalto»,
cominciò ella, «se novella vera
di Val di Magra o di parte vicina
sai, dillo a me, che già grande là era.
Fui chiamato Currado Malaspina;
non son l’antico, ma di lui discesi;
a’ miei portai l’amor che qui raffina».
«Oh!», diss’io lui, «per li vostri paesi
già mai non fui; ma dove si dimora
per tutta Europa ch’ei non sien palesi?
La fama che la vostra casa onora,
grida i segnori e grida la contrada,
sì che ne sa chi non vi fu ancora;
e io vi giuro, s’io di sopra vada,
che vostra gente onrata non si sfregia[122]
del pregio de la borsa e de la spada.
Uso e natura sì la privilegia,
che, perché[123] il capo reo il mondo torca,
sola va dritta e ‘l mal cammin dispregia».
Ed elli: «Or va[124]; che ‘l sol non si ricorca
sette volte nel letto che ‘l Montone
con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,
che cotesta cortese oppinione
ti fia chiavata in mezzo de la testa
con maggior chiovi che d’altrui sermone,
se corso di giudicio non s’arresta».
Dante, Virgilio,
Sordello, Nino e Corrado, si addormentano.
All’alba Dante sogna di
essere rapito da un’aquila sino alla sfera del fuoco.
Al risveglio non è più
nella valletta e gli è accanto solo Virgilio, che spiega il significato del
sogno: santa Lucia ha condotto Dante fino alla porta del Purgatorio, qui l’angelo
portiere incide sulla fronte di Dante sette P, che egli laverà risalendo la
montagna.
Dante e Virgilio
salgono nella prima cornice, dove espiano il peccato le anime dei superbi.
Curvi sotto pesantissimi macigni guardano scolpiti a terra esempi di umiltà: l’Annunciazione
alla Vergine, la traslazione dell’Arca Santa, l’imperatore Traiano che ascolta
il pianto d’una vedova.
I superbi intonano il
Pater Noster. Si avvicinano Omberto Aldobrandeschi, il miniatore Oderisi da Gubbio
e Provenzan Salvani. Con i loro racconti invitano Dante a riflettere sulla
vanità della gloria umana.
O vana gloria
delle umane posse
Oh vana gloria de l’umane posse!
com’poco verde in su la cima dura,
se non è giunta[125] da l’etati grosse!
Credette Cimabue[126] ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura:
così ha tolto l’uno a l’altro Guido[127]
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.
Non è il mondan romore[128] altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.
Che voce[129] avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il "pappo" e ‘l "dindi"[130],
pria che passin mill’anni? ch’è più corto
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto.
Colui che del cammin sì poco piglia[131]
dinanzi a me, Toscana sonò tutta[132];
e ora a pena in Siena[133] sen pispiglia,
ond’era sire quando fu distrutta[134]
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com’ora è putta.
La vostra nominanza è color d’erba,
che viene e va, e quei[135] la discolora
per cui ella esce de la terra acerba».
Lasciata la schiera di anime, Dante osserva sul pavimento e sulla parete i bassorilievi con gli esempi di superbia: Lucifero, Briareo, i Giganti, Nembrot, Niobe, Saul, Aracne, Roboamo, Erifile, Sennacherib, Ciro, Oloferne e la città di Troia. L’angelo dell’umiltà cancella una P dalla fronte di Dante e i due poeti salgono per una ripida scala.
Nella seconda cornice sono le anime degli invidiosi, che vestiti d’un saio e con gli occhi cuciti dal fil di ferro ascoltano voci aeree che narrano esempi di carità e invidia punita. Dante incontra la senese Sapia, a tal punto rosa dell’invidia d’aver desiderato la sconfitta dei suoi concittadini.
Un’altra anima, Guido del Duca, si rivolge a Dante e gli presenta Rinieri da Calboli. Guido e Dante deplorano la corruzione morale degli abitanti delle loro terre, la Val d’Arno e la Romagna, dove sono scomparsi i valori d’un tempo.
Dante e Virgilio sono illuminati dalla luce dell’angelo della misericordia che li invita a salire e cancella dalla fronte del poeta un’altra P.
Mentre salgono alla terza cornice a Dante appaiono visioni di mansuetudine.
Nella terza cornice, dove sono gli iracondi, i due poeti procedono attraverso un fitto fumo che punge gli occhi. Tra le anime espianti che intonano l’Agnus Dei, una dichiara di essere Marco Lombardo. Spiega la teoria del libero arbitrio e a Dante, che è tormentato dal desiderio di conoscere la causa della corruzione del mondo, risponde che questa va ricercata nella cattiva condotta di papi e imperatori.
Ed è giunta la
spada col pasturale
Soleva Roma, che ‘l buon mondo feo,
due soli[136] aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
L’un l’altro ha spento; ed è giunta[137] la spada
col pasturale, e l’un con l’altro insieme
per viva forza mal convien che vada;
però che, giunti, l’un l’altro non teme:
se non mi credi, pon mente a la spiga[138],
ch’ogn’erba si conosce per lo seme.
In sul paese[139] ch’Adice e Po riga,
solea valore e cortesia trovarsi,
prima che Federigo[140] avesse briga;
or può[141] sicuramente indi passarsi
per qualunque lasciasse, per vergogna
di ragionar coi buoni o d’appressarsi.
[…]
Dì oggimai che la Chiesa di Roma,
per confondere in sé due reggimenti,
cade nel fango e sé brutta e la soma[142]».
Usciti dal fumo Dante e Virgilio vedono esempi d’ira punita. L’angelo della mansuetudine cancella un’altra P.
Mentre salgono alla
quarta cornice Virgilio spiega l’ordinamento morale del Purgatorio.
Nella quarta cornice sono gli accidiosi, costretti a correre. Due di essi gridano esempi di sollecitudine, mentre l’abate di San Zeno indica la via verso la quinta cornice.
Nella quarta cornice sono gli accidiosi, costretti a correre. Due di essi gridano esempi di sollecitudine, mentre l’abate di San Zeno indica la via verso la quinta cornice.
Uditi esempi di
accidia punita Dante si addormenta e sogna. Sogna una donna brutta e deforme
che al suo sguardo diventa una bellissima sirena. Virgilio le strappa le vesti
e dal ventre emana un fetido odore che sveglia Dante.
L’angelo della
sollecitudine cancella la quarta P.
Mentre salgono, Virgilio
spiega che la sirena del sogno simboleggia la cupidigia dei beni materiali che
si espia nelle tre cornici rimanenti (avarizia, gola, lussuria).
Nella quinta cornice
sono le anime degli avari e prodighi, bocconi per terra con piedi e mani
legati.
Dante parla con papa
Adriano V.
Un’anima grida esempi
di povertà e liberalità. È Ugo Capeto, che nel colloquio con Dante biasima gli
ultimi discendenti dei Capetingi, da Carlo di Valois a Filippo il Bello, che
peccheranno per brama di ricchezze.
Un terremoto scuote
la montagna.
Le anime intonano il
Gloria.
Uno spirito spiega
che il terremoto avviene ogni qual volta un’anima si sente monda e pronta a
salire al Paradiso. Così egli si sente per aver scontata la colpa. Dichiara di
essere il poeta Stazio vissuto, a Roma sotto l’imperatore Tito, e si rammarica
di non essere vissuto al tempo di Virgilio, che considera un maestro.
Dante, al quale l’angelo
della giustizia cancella un’altra P, segue Virgilio e Stazio, che spiega di
essere rimasto nella V cornice a causa del peccato di prodigalità. Dice
inoltre che la lettura della IV Egloga di Virgilio lo ha avvicinato al Cristianesimo.
Chiede poi a Virgilio notizie di grandi poeti latini e viene a sapere che si
trovano nel Limbo.
I poeti giungono alla
VI cornice. Da uno strano albero risuonano esempi di temperanza.
Sotto l’albero carico
di frutti e vicino a una sorgente d’acqua si affollano i golosi, magri,
affamati e assetati. Tra loro Dante riconosce l’amico Forese Donati, che
esalta la moglie Nella e biasima la corruzione delle donne fiorentine.
Il dolce stil
novo
Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
"Donne ch’avete[143] intelletto d’amore"».
E io a lui: «I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto[144], e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando[145]».
«O frate, issa[146] vegg’io», diss’elli, «il nodo[147]
che ‘l Notaro[148] e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!
Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator[149] sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne;
e qual[150] più a gradire oltre si mette,
non vede più da l’uno a l’altro stilo»;
e, quasi contentato, si tacette.
Gli spiriti penitenti sono divisi in due schiere opposte, sodomiti e lussuriosi, che, quando s’incontrano, s’abbracciano e baciano gridando esempi di lussuria punita. Tra i sodomiti Dante incontra Guido Guinizelli, al quale manifesta affetto. Guinizelli gli indica Arnaldo Daniello, definendolo il miglior poeta in lingua romanza. Arnaldo si avvicina a Dante e in provenzale gli chiede di pregare per lui.
L’angelo della castità invita i poeti a penetrare nel fuoco e cancella l’ultima P.
I poeti giungono così alla scala. È sera, si fermano e si addormentano.
All’alba Dante sogna una donna giovane e bella che raccoglie fiori e dice di essere Lia.
Al risveglio Virgilio gli dice che egli è ormai pronto a salire.
Giunti alla sommità della scala Virgilio comunica a Dante che il suo compito è finito. Dante è ormai padrone di se stesso e deve attendere l’arrivo di Beatrice.
Dante si addentra nella divina foresta dell’Eden. Giunge presso il Lete e qui scorge una bella donna che coglie fiori, Matelda.
Ella spiega a Dante la presenza del vento e dell’acqua. Il vento è dovuto al movimento dei cieli, l’acqua scaturisce per volere divino da una sorgente perenne e forma il Lete, che cancella il ricordo del peccato, e l’Eunoé, che fa ricordare il bene compiuto.
Procedono lungo il Lete e dopo un’improvvisa luce appare una mistica processione. Sette candelabri d’oro lasciano dietro di sé scie luminose. Queste avvolgono ventiquattro seniori vestiti di bianco. Seguono quattro animali simili a quelli visti dal profeta Ezechiele e tra questi un carro trionfale trainato da un grifone. Accanto alla ruota destra avanzano tre donne, accanto alla sinistra quattro. Sette personaggi seguono il carro. La processione si arresta davanti a Dante.
Mentre i seniori cantano Veni sponsa de Libano, appare Beatrice e scompare Virgilio. Dante piange e Beatrice lo rimprovera aspramente. Gli angeli manifestano compassione per lui.
Beatrice invita Dante a confessare la ragione del traviamento ed egli ammette di aver seguito dopo la morte di lei falsi allettamenti. Guardandola, così bella e luminosa, Dante si pente e per l’emozione sviene.
Matelda lo immerge nel Lete, lo costringe a bere poi lo conduce davanti a Beatrice.
La processione torna verso oriente.
Dante, Matelda e Stazio la seguono, finché tutti si fermano presso l’albero spoglio di Adamo al quale il grifone lega il carro. Immediatamente l’albero rinverdisce, mentre tutti intonano un inno.
Dante cade addormentato.
Al risveglio vede Beatrice seduta presso l’albero circondata da sette donne con i sette candelabri. Il grifone e il resto della processione salgono al cielo. Un’aquila piomba sul carro e una volpe si avventa sul fondo di esso. Beatrice la scaccia.
La terra si apre sotto le ruote del carro e ne esce un drago che toglie una parte del fondo del carro, che si ricopre delle penne dell’aquila. Il carro si trasforma in un mostro con sette teste e dieci corna. Su di esso un gigante flagella una meretrice, scioglie il carro e lo trascina nella selva.
Beatrice profetizza a Dante l’arrivo di un personaggio che ucciderà la meretrice e il gigante e esorta Dante a riferire ciò che ha visto agli uomini. Poi invita il poeta a bere l’acqua dell’Eunoé.
Ora egli è puro e disposto
a salire a le stelle.
[13] Li raggi: la luce delle
quattro stelle, dette “sante” perché illuminano il cammino dell'anima purgante,
così come “sante” sono le Muse, invocate al v. 8, perché assistano guidate da
Calliope la rinascente poesia; quelle stesse Muse che saranno, poi, più
compiutamente, “sacrosante Vergini”.
[14] cieco
fiume: presumibilmente, il “ ruscelletto “ che scende al centro della Terra e
le cui rive i poeti hanno percorso contro corrente (“contro”).
[26] Tu: Virgilio si
rivolge a Catone, il veglio posto da
Dante a guardia del Purgatorio. Marco Porcio Catone il giovane o l'Uticense
(95-46 a.C.) è quel fiero repubblicano che, quando vide la libertà di Roma
calpestata dalle legioni di Cesare trionfante, non esitò a togliersi la vita in
Utica. Sebbene nemico di Cesare, che Dante considera il fondatore della
Monarchia Universale e dell'Impero, sebbene pagano, sebbene suicida, Catone è
assolto dal poeta, che gli assegna la “balìa” del Purgatorio, come al più
intransigente custode dell'integrità morale.
[28] del cerchio: il Limbo, ove si trova anche
Marzia, la casta moglie di Catone. E in nome di Marzia, Virgilio prega il
custode del Purgatorio di concedergli il permesso di procedere.
[34] per quella
legge: per la legge che fu fatta quando Cristo discese al Limbo ed io ne uscii
e in base alla quale non è più possibile alcun rapporto tra gli spiriti
dimoranti all'Inferno e gli altri. Prima della venuta di Cristo, le anime
scendevano o tra i dannati o si fermavano nel Limbo, alcune per restarvi
eternamente, altre in attesa che il Salvatore le rendesse beate.
[58] 'l pastor di
Cosenza: è Bartolomeo Pignatelli, vescovo di Cosenza; fu inviato dal papa (“per
Clemente”) a ricercare le ossa di Manfredi, sepolte in capo al ponte (“in co”:
lat. caput), sul Calore presso Benevento, in luogo sconsacrato, come si usava
per gli scomunicati, e sotto un pesante mucchio di sassi (“grave mora”)
raccolti dalla pietà degli stessi nemici.
[64] un altro: è Buonconte da Montefeltro, figlio del conte Guido. Nel 1289, fu con i ghibellini di Arezzo contro i Fiorentini e partecipò alla battaglia di Campaldino, (nella quale combatté anche Dante), perdendo la vita sul campo. II suo corpo non fu più ritrovato.
[65] Giovanna: è la moglie di Buonconte.
[66] ti traviò: ti trascinò così lontano da Campaldino.
[67] Casentino: il torrente Archiano, che scorre nel Casentino, nasce dall'Appennino sopra l'Eremo (“l'Ermo”) di Camaldoli e perde il nome (“'l vocabol suo diventa vano”), quando sfocia nell'Arno.
[68] quel d'inferno: un episodio analogo è già stato visto nell'Inferno (cfr. c. XXVII, 113).
[69] l'etterno: l'anima, per una lacrima di pentimento in punto di morte, che me la toglie (“che 'l mi toglie”).
[70] de l'altro: del corpo farò ben altro scempio.
[71] Ben sai: ben sai come si condensa nell'aria quell'umidità che si riconverte in acqua non appena sale in una zona fredda.
[72] Giunse: quella maligna volontà, che soltanto male chiede con la sua mente, unì (“giunse”) e agitò il vapore acqueo (“fummo”) e il vento.
[73] Pratomagno: tra Pratomagno (monte tra il Valdarno casentinese e il Valdarno superiore) e la Giogana (“ gran giogo “) si stende la piana di Campaldino.
[74] intento: denso di vapori.
[75] ciò che la terra: quanto la terra non assorbì.
[76] lo fiume real: erano detti reali i fiumi che sfociavano in mare. Qui si tratta dell'Arno.
[77] l'Archian rubesto: è il soggetto della frase.
[78] la croce: le braccia atteggiate in croce.
[79] la Pia: è la senese Pia de' Tolomei, moglie di Nello d'Inghirano dei Pannocchieschi, da lui uccisa in circostanze misteriose nel castello della Pietra, in Maremma. Sembra che Nello intendesse liberarsi di lei per passare a nuove nozze con Margherita Aldobrandeschi.
[80] salsi: dall'arcaico sallosi (forma
sincopata): lo sa colui che prima, sposandomi, mi aveva inanellato con la sua
gemma.
[81] romita: raccolta.
[82] Sordello: è Sordello da Goito (città
del Mantovano), celebre poeta e trovatore alla provenzale del secolo XIII. Da
giovane fu a Verona, ove cantò Cunizza da Romano, moglie del signore della
città, Riccardo di San Bonifacio; visse poi in Francia, in Spagna, in Provenza,
presso il conte Raimondo Berlinghieri IV e alla corte di Carlo I d'Angiò.
Famosi il suo compianto in morte di ser Blacatz, cavaliere provenzale, e il
poemetto Ensenhamen d'onor.
[83] ostello: albergo.
[84] non donna: non signora di province. Si
allude alle leggi di Giustiniano, secondo le quali l'Italia non era “provincia,
sed domina provinciarum”.
[85] cittadin: concittadino.
[87] intorno da le prode: lungo le spiagge.
[88] Che val: a che giova che Giustiniano
riordinasse il Corpus delle leggi (“il freno”) se nessuno le fa rispettare (“se
la sella è vota”).
[89] Cesare: si allude al detto del Vangelo “Date
a Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio” (Matteo, XXII, 21).
[90] fiera: è l'immagine dell'Italia
paragonata al cavallo (cfr. v. 88), che prosegue.
[91] Fella: ribelle.
[92] predella: è la briglia, nella parte
vicina al morso, che serve per condurre a mano il cavallo. Il rimprovero è
rivolto agli ecclesiastici (“gente che dovresti esser devota”), e in
particolare al papa, Bonifacio VIII; in più Dante sembra volerli accusare di insipienza
e d'incapacità, in quanto non sanno cavalcare la fiera, ma la conducono a mano con la predella.
[93] O Alberto tedesco: è Alberto I
d'Austria, imperatore dal 1298, morto nel 1308.
[94] giusto giudicio: una meritata punizione
ricada dal cielo sulla tua famiglia e sia inconsueta ed evidente, sì che il tuo
successore ne rimanga impressionato. La sciagura profetizzata sarà la morte del
primogenito Rodolfo; il successore é Arrigo VII, in cui Dante riponeva ogni
speranza di veder restaurato l'impero.
[95] Ch'avete: poiché tu e tuo padre Rodolfo
d'Asburgo avete tollerato, presi (“distretti”) dalla cupidigia di consolidare i
domini d'oltralpe (“di costà”) che il giardino dell'Impero, cioè l'Italia, sia
lasciato in rovinoso abbandono. Infatti, dalla morte di Federico II (1250) alla
discesa di Arrigo VII (1310), in
Italia l'Impero si può considerare vacante.
Italia l'Impero si può considerare vacante.
[104] Solo tre passi: il tre ha
valore generico; si ricordi, ad ogni modo, che il punto dove Dante si trova non
è molto elevato e che la valle in quel punto è poco profonda.
[107] giudice Nin: è Nino o
Ugolino Visconti, pisano, nipote del conte Ugolino della Gherardesca; fu
giudice di Gallura, in Sardegna, e capo della lega guelfa contro i ghibellini
di Pisa. Morì nel 1296. “Nessun'altra, forse, delle figure del poema, ha avuto
da Dante un tal fondo, dove luci ed ombre, immagini ed atteggiamenti dispongano
a maggior delicatezza e intimità d'affetti il cuore di chi legge” (Del Lungo).
[124] Or va: va, che
il sole non tramonterà sette volte nel segno dell'Ariete (“'l Montone”), cioè
non passeranno sette anni, che questa cortese opinione, che hai dei Malaspina,
ti sarà ribadita (“chiavata” cfr. Inf. c. XXXIII, 46) con ben altri argomenti (“chiovi”)
che i discorsi degli altri, se il corso del giudizio divino non s'interrompe.
Dante, infatti, sarà ospite dei Malaspina nel 1306.
[130] il “pappo” e 'l “dindi”:
voci infantili. Cioè: cosa rimarrà di te, morto in tarda età, più che se fossi
morto ancor bambino, prima che passino mille anni? Periodo (“spazio “) che in
confronto all'eternità è più breve di quanto un batter di ciglia sia in
confronto al moto del cielo stellato. (“cerchio”), che, più lento degli altri
cieli, è tratto a girare (“ è torto “) in una rivoluzione che dura 360 secoli.
[139] In sul paese: la Lombardia,
che nel Medioevo comprendeva quasi tutta l'Italia settentrionale, con la Marca
Trevigiana e l'Emilia.
[141] or può: “Ora chiunque si
vergognasse di ragionar coi buoni o di avvicinarli, può passare per quelle
contrade, sicuro di non trovarne nessuno” (Momigliano).
[143] Donne
ch'avete: così comincia la prima canzone della “Vita Nuova” di Dante, opera che
segna l'avvento dello Stilnovo (“le nove rime”), cioè della maniera di cantare,
nuova rispetto alla scuola provenzaleggiante, cui appartenne Bonagiunta e alla
scuola dottrinale, cui appartenne Guittone d'Arezzo. Nei versi seguenti, Dante
espone la propria poetica.
[148] 'l Notaro: Iacopo da
Lentini, poeta provenzaleggiante, esponente della scuola siciliana, detto per
antonomasia il Notaio, morto verso il 1250; Guittone d'Arezzo (1230 ca.-1294),
rimatore fra quelli detti “di transizione”, fu esponente della scuola
dottrinale in Toscana.
[150] e qual: e chiunque si pone a riguardare al
di là (“oltre”) di quel che abbiamo detto, non vede più la differenza tra l'uno
e l'altro stile.
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