IV unità
L’età arcaica (VIII-VI secolo
a.C.)
La Mesopotamia – Il grande impero assiro costruito da Tiglat-Pileser I iniziò a sgretolarsi a
causa di:
·
sovrani deboli ed incapaci,
·
logoranti guerre con la vicina Armenia
·
continue invasioni da parte dei nomadi aramaici.
Il declino del regno assiro durò
quasi due secoli fino al periodo neoassiro: dal IX secolo a.C., con Assurnasirpal
II (883-859 a.C.), infatti, ci fu una decisa affermazione politica e
militare sui popoli vicini e con Assurbanipal (668-629 a.C.) l’impero assiro
conobbe il suo culmine, quando annesse il regno di Babilonia, Israele, la
Fenicia la Siria e l’Egitto.
Alla morte di Assurbanipal,
l’impero fu preda della potenza meda che, coalizzata con i Babilonesi, pochi
anni dopo, conquistò Assur nel 614 e Ninive nel 612.
Alla caduta di Ninive nel 612, il
generale caldeo Nabopolassar creò
l’impero neobabilonese, Babilonia si liberò dal giogo assiro e divenne la
capitale del nascente Impero
neobabilonese (612-539).
Il re più importante di questo
periodo fu Nabucodonosor II (604-562)
che giunse fino al Mediterraneo, portando l’Impero babilonese al più alto grado
di potenza e di grandezza. Nabucodonosor distrusse il regno ebraico di Giuda,
deportando gli Ebrei a Babilonia. Volle anche la ricostruzione e l’abbellimento
di Babilonia che divenne la città più splendida d’oriente.
Dopo Nabucodonosor incominciò la decadenza dell’Impero
babilonese a causa di lotte dinastiche e della minacciosa vicinanza dei
Persiani. Nel 539 Ciro, re dei Persiani, dopo aver sottomesso la Media e la
Lidia, espugnò Babilonia e depose l’ultimo re Nabonide, abbattendo per sempre l’Impero babilonese.
I Medi – I Medi furono tributari
degli Assiri dal IX al VII secolo. Ogni anno dovevano consegnare loro i
migliori cavalli che possedevano. In seguito fondarono un Impero con capitale Ecbatana. Solo nel 612 a.C.
riuscirono ad avere ragione dei loro oppressori. Il re Ciassare (633-584 a.C.), con l'aiuto dei
Babilonesi, dopo un lungo assedio durato 3 anni, riuscì a conquistare Ninive.
L'Impero dei Medi raggiunse la sua massima espansione comprendendo Assiria,
Mesopotamia settentrionale e Cappadocia. Ciassare stipulò anche un trattato di
amicizia con la Lidia e assoggettò i Persiani.
Il
figlio Astiage (585-550 a.C.) non riuscì a conservare
ciò che il padre aveva costruito. Il disaccordo con i suoi stessi sudditi portò
a una crisi interna di cui seppe approfittare il persiano Ciro che con l'aiuto di alcuni ufficiali sconfisse Astiage in
battaglia e si proclamò re dei Medi
e dei Persiani.
I Persiani –
La Persia, regione storica del Medio Oriente, corrisponde all'odierna
repubblica dell'Iran.
L'ascesa del popolo persiano fu guidata da Ciro il Grande (590-529), della dinastia degli
Achemenidi. Succeduto al padre Cambise,
sconfisse i Medi (553-550), conquistò quindi la Lidia (546 a.C.) facendone
prigioniero il re Creso, le città greche dell'Asia Minore e Babilonia nel 539.
Tra il 546 e il 540 sottomise le province a oriente della Persia sino al fiume
Iassarte. Morì nel 529 a.C. combattendo contro gli Sciti Massàgeti. Nella
Bibbia è ricordato per aver liberato gli Ebrei prigionieri a Babilonia e aver
consentito loro di tornare in patria. Fu famoso per la sua tolleranza
religiosa, la clemenza verso i vinti, la sollecitudine per i sudditi. La sua
figura di sovrano ideale fu tratteggiata da Senofonte nella Ciropedia.
Il figlio Cambise assoggettò l'Egitto nel
525 riducendolo a provincia dell'Impero. Il successore Dario I si scontrò con gli Sciti e i
Greci; occupò la Tracia e la Macedonia. Fu duramente sconfitto dai Greci nella
battaglia di Maratona nel 490.
Nei secoli V e IV la Persia si inserì stabilmente
nelle dinamiche politiche e diplomatiche degli Stati greci, tentando di
instaurare invano una egemonia sul mondo ellenico.
Sull'Impero persiano governava il Re dei re. Egli aveva un potere assoluto di istituzione divina.
Ogni suddito, compresi i più alti funzionari, gli doveva obbedienza assoluta.
L'Impero era diviso in satrapie, distretti territoriali
retti da governatori di nomina regia, i satrapi.
L'esercito era molto potente ed efficiente: alle truppe di guarnigione di ogni città si affiancavano i diecimila immortali, così chiamati perché appena uno di essi veniva a mancare
era prontamente sostituito così che il loro numero restava invariato.
La religione persiana fu istituita dal profeta Zarathustra nel VI secolo tuttora praticata da
circa 100.000 fedeli, la maggior parte dei quali in Indio (Parsi). Responsabile
del culto è la casta sacerdotale dei magi. Dio, Ahura Mazda, è considerato nel suo
aspetto personale come Dio della luce, in continua lotta con Arimane il dio delle
tenebre e del male. L'uomo è considerato libero di scegliere fra il bene o il
male. Gli imperatori persiani erano vicari in terra di Ahura Mazda, incaricati
della missione di far trionfare il bene mediante un Impero universale.
La decadenza dell’Egitto - Dopo il regno di Ramses III era
cominciato un lungo periodo di decadenza, durante il quale l’Egitto si divise
più volte in diversi regni.
Seguirono secoli di vera e
propria decadenza:
·
nel 670 il re assiro Assaraddon invase il paese e conquistò Menfi.
·
nel 666 il re assiro Assurbanipal, dopo che gli Egiziani avevano riconquistato Menfi,
riprese la guerra, si spinse fino a Tebe e la saccheggiò.
Ma anche questa conquista assira
durò poco: Psammetico, aveva ereditato dal padre Neco il principato di Sais sul
delta del Nilo, ma ottenne dal Re d’Assiria il comando su tutto l’Egitto dopo
che gli Assiri avevano fiaccato la potenza egiziana e nel 667 avevano occupato
la capitale Tebe.
Psammetico, pur continuando ad
essere alleato fedele dell’Assiria, verso il 650 prese il titolo di Faraone e
si considerò vero sovrano. Psammetico I continuò a tenere la sua reggia a Sais,
sicché inizia il periodo di storia dell’Egitto detto appunto saitico dal nome
della capitale Sais.
Il periodo saitico fu
caratterizzato da un’intensa attività economica: i commerci furono sorretti con
la costruzione di una buona flotta ed il paese, sempre chiuso all’influenza
straniera, si aprì ai forestieri, che largamente vi affluirono come soldati
mercenari e funzionari. Il Faraone condusse anche guerre contro gli Etiopi che
tentavano di spingere i loro confini verso settentrione, ma poco sappiamo di
queste imprese.
Questa floridezza ebbe però una
durata relativamente breve (663-525): Cambise infatti minacciava ai confini lo
stesso Faraone Psammetico III fu catturato e tenuto prigioniero per qualche mese
a Menfi, quindi fu costretto ad avvelenarsi. L’Egitto assoggettato fu ridotto a
provincia dell’impero persiano[1].
I due regni di Israele - Il regno d’Israele, maledetto dai profeti,
ebbe una storia caratterizzata da molte discordie interne: non ci fu mai una
dinastia che riuscisse ad affermarsi a lungo, ma solo per poche generazioni,
poi con un colpo di stato o per altre vicende il potere passava ad una casa
diversa. Il regno di Israele terminò sotto il re Sargon II nel 722 che
conquistò la Samaria contro il re Osea e deportò gran parte del popolo in
Assiria.
Dopo la fine del regno d’Israele
gli unici Ebrei superstiti furono quelli del regno di Giuda.
Il Regno di Giuda durò un secolo
in più (586), cadde sotto la conquista babilonese del re Nabucodonosor e gran
parte della popolazione fu deportata in Babilonia (cattività Babilonese).
Durante i combattimenti tra Babilonesi ed Ebrei, Gerusalemme fu distrutta. La
cattività babilonese durò cinquanta anni, fino a quando Ciro, re di Persia,
conquistò la Babilonia e permise agli Ebrei con un editto di ritornare in
Palestina.
Gli Ebrei ricostruirono
Gerusalemme e il tempio, ma passarono prima sotto il dominio della Macedonia,
dell’Egitto, della Siria e infine dell’impero romano.
La Grecia arcaica - Quando finirono i movimenti migratori nella
regione dell’Egeo, la Grecia continentale, le isole e le coste dell’Asia Minore
erano occupate da popolazioni che, sebbene divise in unità territoriali
politicamente indipendenti, riconoscevano di avere una comune identità
culturale, basata sulla lingua, sulla religione e sulle comuni tradizioni; esse
adottarono anche la denominazione di Elleni.
L’età arcaica, sebbene
caratterizzata dall’assenza di invasioni dall’esterno e di conflitti con i
popoli confinanti, fu tuttavia un periodo travagliato da forti tensioni
sociali: i fenomeni più importanti furono
·
la nascita delle póleis (stato - città),
·
il passaggio dalla monarchia ai regimi aristocratici,
·
la colonizzazione.
La nascita della pólis greca – Le poleis si formarono
nel corso dell’VIII secolo, come effetto del progressivo allentarsi dei legami
aristocratici che nell’epoca precedente avevano avuto il sopravvento su quelli
politici. Alcune poleis si svilupparono da antiche città micenee, altre
invece furono fondate ex novo o in zone fertili o vicine al mare, che avessero
però anche facilità di comunicazione con l’interno; tuttavia, indipendentemente
dalla loro origine, gli stati-città caratterizzarono la storia greca per
quattro secoli e furono al tempo stesso centro politico, economico e militare.
Ogni polis era organizzata
autonomamente, secondo le proprie leggi e le proprie tradizioni.
Le poleis erano piccole comunità
autarchiche[3], rette da governi
autonomi; una sorta di piccoli staterelli indipendenti l'uno dall'altro. Il
carattere autonomo della città greca deriverebbe dalla conformazione geografica
del territorio greco, che impediva facili scambi tra le varie realtà urbane
poiché prevalentemente montuoso. Spesso, le varie poleis erano in lotta tra loro per l'egemonia del territorio greco.
Ciascuna pólis era
costituita:
·
dal centro urbano, cinto da mura, e dall'acropoli, cioè la città alta, la
parte più fortificata dell’abitato, dove i cittadini potevano rifugiarsi in
caso di pericolo e dove vi era il tempio della divinità protettrice della città
centro della vita politica e culturale della città stato;
·
dall'agorá dove si tenevano il mercato e
le assemblee del popolo e dove ci si dedicava di solito ad attività
commerciali, dalle abitazioni e dalle botteghe degli artigiani;
·
dal territorio
circostante, la cosiddetta chora
(χώρα) la parte fuori delle mura, era il luogo dove i contadini coltivavano i
campi e si dedicavano all'agricoltura o al pascolo.
Le strade principali, che univano
l'agorà, i santuari, le porte della città, avevano un aspetto monumentale ed
erano lastricate con grande cura. Per il resto, la rete stradale era fatta di
stradine piccole, che consentivano a stento il transito dei pedoni e degli
animali da soma. Questo perché le attività economiche e quelle residenziali
erano concentrate in aree specifiche. Questo assetto urbanistico riduceva il
traffico dei quartieri residenziali.
Oltre all'unità territoriale le
poleis erano caratterizzate da un'unità sociale ed una strettamente politica:
si trattava, infatti, di un gruppo di cittadini che si dotava di leggi che si
impegnava a rispettare. I cittadini, dunque, non erano più sudditi come nelle
società antecedenti, ma esercitavano il proprio potere eleggendo i
rappresentanti (magistrature).
Le póleis avevano una
dimensione limitata, ma erano politicamente indipendenti e autonome: ciascuna,
infatti, aveva culti, leggi e feste sue. Proprio la limitata estensione del
territorio che spesso non forniva sufficienti risorse agli abitanti spinse le
città a cercare di espandersi a discapito dei centri vicini, che talora persero
la loro autonomia a vantaggio della città più forte attraverso il meccanismo
del sinecismo[4].
Frequenti erano però le anfizionìe o leghe sacre, alleanze di
più póleis, solitamente limitrofe, che si riunivano intorno ad un santuario
molto venerato: i membri di ciascuna Anfizionia erano tenuti a cooperare
nell'amministrazione e nella difesa del santuario, e ad inviare periodicamente
ciascuno due delegati in occasione del sinedrio
anfizionico, l'organo collegiale preposto al controllo della
confederazione. In un primo momento le anfizionìe si occupavano solo di
finanziare il santuario e di organizzare le feste religiose, in seguito
cominciarono a risolvere le questioni sorte fra le póleis e,
trasformandosi in federazioni di contenuto sempre più politico, potevano
decidere anche una guerra sacra contro qualche città della lega che non
rispettava i patti. Leghe Anfizioniche erano quelle che sorgevano intorno ai
santuari di Zeus a Dodona e Olimpia, o al santuario di Poseidone a capo Micale,
in Ionia. L'Anfizionia più importante fu, però indubbiamente quella
Delfico-Pilaica, che associava i culti di Apollo, a Delfi, e di Demetra, alle
Termopili. L’anfizionìa più importante fu quella che aveva sede a Delfi.
Sebbene le poleis greche
avessero ciascuna una propria autonomia ed una vasta gamma di forme politiche (oligarchia[5], timocrazia[6], democrazia[7], tirannide), esse furono comunque
caratterizzate da un comune sviluppo politico e solo Sparta costituì
un’anomalia rispetto alla situazione generale, bisogna anche ricordare che essa
non ebbe mai eguali né nel mondo antico né in quello moderno. Alle originarie
monarchie che dominavano le poleis nella fase del loro consolidamento,
tra l’800 e il 650, si sostituirono governi aristocratici formati da
oligarchie, che detenevano, oltre al controllo delle terre, anche quello
politico.
La maggior parte della
popolazione, composta da piccoli proprietari terrieri, artigiani, contadini,
mercanti, aveva scarso peso politico; importanti erano invece le aggregazioni
tribali che talora prendevano forma più ampia, assumendo così il nome di fratrie[8].
La colonizzazione greca - Un
altro fenomeno di importanza rilevante fu la seconda colonizzazione, che
interessò vaste zone del Mediterraneo dall’VIII al VI secolo a.C. e alla cui
origine vi furono fattori determinanti:
·
la caduta dell'Impero assiro, nel VII secolo, e
la rinascita dell'antica Babilonia facilitarono gli scambi commerciali e quelli
culturali, favorendo una ripresa generale dell'area medio-orientale.
·
il bisogno di terre coltivabili (scaturito
dall’incremento demografico),
·
la connaturata povertà del suolo greco e
l’affermarsi del latifondo a discapito della piccola proprietà,
·
il desiderio di esportare le merci in
sovrabbondanza e la ricerca di materie prime.
Ma anche le lotte all’interno
delle città tra le opposte fazioni per la conquista del potere facevano sì che
gli esponenti delle fazioni sconfitte o scegliessero o fossero costretti ad
andare in esilio.
Questa seconda espansione
coloniale si diresse sia verso Occidente (Magna Grecia, Sicilia, Francia) sia
verso Oriente (penisola calcidica e costa della Tracia). I coloni greci non
incontrarono resistenza nelle zone in cui si insediarono e la convivenza con
gli indigeni fu solitamente pacifica.
La città fondata, pur mantenendo
un legame particolare con la metropolis (madrepatria,
città colonizzatrice) conservandone il dialetto, i costumi e le tradizioni, era
politicamente indipendente.
La colonizzazione fu importante
sia perché diffuse la cultura greca nel Mediterraneo sia perché accelerò lo
sviluppo economico e politico della Grecia.
L’espansione del mondo greco
provocò l’afflusso di molte ricchezze che contribuirono alla nascita di una
classe media economicamente indipendente, ben presto in lotta con gli
aristocratici. L’economia greca divenne mercantile e manifatturiera, grazie
anche alla diffusione della moneta, introdotta per la prima volta dagli Ioni
dell’Asia Minore nel VII secolo. I Greci investivano il denaro per creare nuova
ricchezza. I centri più produttivi erano situati nelle colonie dell’Asia
Minore, le città si ampliarono e si sviluppò l’arte nautica.
Le
classi sociali emergenti tolsero ben presto però il monopolio della difesa
militare della polis agli
aristocratici, introducendo l’arruolamento dei cittadini: il nuovo esercito, la
falange, poggiava sulla fanteria e sulla sua forza d’urto, anziché sul vecchio
duello cavalleresco. Era ormai inevitabile che il ceto emerso da questi
cambiamenti ambisse a ricoprire ruoli più importanti nella gestione della polis.
L’esistenza
di una borghesia ricca accanto all’aristocrazia non aveva eliminato il problema
di una classe di poveri sfruttati, ma anzi, sfruttando proprio questo
malcontento, la borghesia si alleò con il popolo per insidiare i privilegi
della nobiltà. Il valore su cui si basava il nuovo ceto sociale era il denaro
(censo) e proprio su questo esso voleva fondare un’organizzazione comunitaria
(timocrazia).
Il
primo passo in questa direzione fu costituito da un’intensa attività
legislativa, che non riuscì però ad eliminare le profonde disuguaglianze
sociali. Ben presto la crisi fra latifondisti e piccoli proprietari da una
parte e borghesia e popolo dall’altra riesplose, rendendo necessario
l’intervento di principi assoluti (tiranni).
Certo è che questa fase storica
contribuì a rafforzare le istituzioni statali, tanto che rappresentò il ponte
verso la successiva fase democratica di molte poleis.
Il passaggio dalla monarchia ai regimi aristocratici – Dall'VIII
secolo la crisi della monarchia condusse alla formazione della polis
aristocratica, dominata da proprietari terrieri, in costante competizione per
la supremazia.
In età arcaica le esigenze delle
poleis aumentarono considerevolmente. L’economia aveva sperimentato una
crescita grazie alla colonizzazione ed all’apertura della Grecia verso il
Mediterraneo da cui le condizioni di vita avevano ricevuto un netto
miglioramento. L’agricoltura è sempre più spesso affiancata da fiorenti
attività commerciali ed artigianali, che permettevano di arricchirsi e
guadagnare.
Questo ampliamento di interessi e
di orizzonti definisce l’aumentare dei bisogni e delle necessità amministrative
di uno stato, cui il re non può più far fronte: avviene una progressiva presa
di potere del consiglio degli anziani rispetto all’autorità del re. Se
precedentemente il re aveva avuto in mano il consiglio e l’assemblea popolare
ed aveva esercitato il proprio potere su entrambi, adesso la sua figura è
talmente sminuita da essere condannata all’estinzione.
Ciò avvenne perché il re non
possedeva molti più beni degli aristocratici e ciò contribuiva ad aumentare
l’importanza del consiglio rispetto all’autorità del monarca, contro la quale
egli non poteva far pesare neppure il suo predomino economico. Inoltre,
mancarono quelle situazioni da cui un re poteva ricavare un potere fuori del
comune, come le guerre ed i pericoli esterni.
L’età arcaica fu un periodo
relativamente pacifico, in cui nelle singole comunità si sviluppò un grande
senso della libertà, soprattutto nelle coscienze dei grandi proprietari
terrieri. Giocarono molto anche le migliorate condizioni economiche generali:
adesso molti più cittadini erano in condizione di collaborare alla vita della
comunità. I membri del consiglio, i magistrati,
affiancarono in misura sempre maggiore, fino a sostituire, il re.
In questo periodo si verifica una
rivoluzione del vecchio modo di
combattere affidandosi principalmente alla cavalleria ed ai carri da guerra.
Queste erano attrezzature che solo i nobili potevano permettersi, ed era quindi
inevitabile che il loro ruolo di primo piano fra le fila dell’esercito si
riflettesse anche all’interno della vita politica degli stati. Il più diffuso
benessere dell’età arcaica, permise a molta più gente di procurarsi
l’equipaggiamento da fante. Da qui nasce la classica figura dell’oplita
ellenico, inquadrato nella formazione a falange[9].
Queste nuove situazioni
convergevano tutte a vantaggio delle masse popolari che continuavano a crescere
per importanza e per condizioni economiche. Si inaugurò un periodo di vaste
riforme, nel tentativo di adattare la politica degli Stati alla nuova
situazione sociale.
Nacquero nuovi modelli
organizzativi, in cui la figura del re era definitivamente sostituita da alcuni
uomini aristocratici che ricoprivano delle cariche annuali e che erano eletti
dal popolo. Questo evento risultò di capitale importanza nel percorso che portò
alla democrazia, non solo perché la figura del monarca ereditario era stata
portata all’estinzione, ma anche perché la creazione della magistratura annuale
comportò un notevole allargamento della classe dirigente: nelle comunità che si
sono appena liberate dal regime monarchico, ci si vuole premunire affinché non
si verifichino più le condizioni per un eventuale ritorno delle precedenti
condizioni. Così si decide di evitare le rielezioni dei vari arconti per più
anni consecutivi, così come che i membri di una sola famiglia si guadagnino
tutte le posizioni di potere.
L’insorgere di tirannidi o di regimi democratici - Tra il VII e il VI secolo si
verificò una fase di forti tensioni sociali che opposero l’aristocrazia
fondiaria al popolo, il démos,
che, grazie allo sviluppo delle attività artigianali e commerciali, si
arricchiva sempre di più e aspirava ad un maggiore peso politico.
L’aristocrazia fondiaria si era
indebolita:
·
per il carattere competitivo dell'etica
aristocratica,
·
per lo sviluppo dei commerci e della
colonizzazione,
·
perché alla cavalleria subentrò, come nerbo
dell'esercito, la fanteria oplitica.
Le conseguenze socio-economiche
della colonizzazione greca furono notevoli: l'espansione e l'incremento degli
scambi commerciali e delle attività artigianali ed industriali e l'introduzione
della moneta favorirono la formazione di una nuova classe di commercianti ed
industriali, che progressivamente mise in crisi il predominio
dell'aristocrazia.
Il mutato assetto sociale ebbe
delle ripercussioni politiche, poiché il ceto medio, presa coscienza della
propria forza e della propria importanza, cominciò ad avanzare richieste per
una parificazione giuridica con l’antica aristocrazia.
Tra il VII e il VI secolo, Questi
continui contrasti sociali, aumentati dal malcontento delle classi meno
abbienti, portarono all’avvento di due nuove e diverse figure politiche: da un
lato i legislatori, con la codificazione scritta delle leggi, e dall'altro al
sorgere della tirannide.
A figure di legislatori dapprima
nelle colonie poi nella metropolis
(Licurgo a Sparta, Zaleuco a Locri, Dracone ad Atene), si affiancarono uomini
ambiziosi, (Gelone a Siracusa, Policrate a Samo), che, facendo leva sul
malcontento popolare con colpi di stato si impadronirono del potere degli
aristocratici, in moltissime città greche.
Alcune città, come Corinto, Tebe, Sparta ed Atene, salirono alla ribalta della scena
politica greca, espandendo la propria influenza sulle città vicine. Ad
eccezione di Sparta, una polis estremamente conservatrice che rimase per lungo
tempo legata alla costituzione di Licurgo e non conobbe rivolgimenti sociali e
fenomeni di emigrazione, le altre poleis greche sperimentarono il governo dei
tiranni.
A Corinto la famiglia dei Bacchiadi, che governava la città, fu
rovesciata da Cipselo nel 657 circa,
il quale assunse il titolo di tiranno trasmettendolo al figlio Periandro.
Ad Atene Pisistrato stabilì un governo tirannico che resse la città con fasi
alterne per circa trent'anni (561-528 circa), trasmettendo il potere al figlio Ippia.
L'elemento che accomuna tutti i
tiranni di prima generazione consiste nella loro appartenenza all'esercito e
mostra l'importanza dell'apparato militare nella crisi dell'aristocrazia e
nell'ascesa dei tiranni.
Alla fine del VI secolo, dopo il
rovesciamento della tirannide di Ippia nel 510, Clistene realizzò una profonda riforma della costituzione ateniese
che segnò la nascita della democrazia ad Atene e nel mondo nel 507.
L’età dei tiranni fu un momento
di grande sviluppo culturale: anche se il potere fu conquistato illegalmente, i
tiranni Periandro di Corinto, Gelone di Siracusa o Policrate di Samo furono
buoni governanti, che garantirono il rispetto di certe regole e in cui molti
poveri poterono migliorare la loro situazione economica: i tiranni, infatti,
erano nemici dell’aristocrazia e, in molti casi, alleati del popolo, pur
perseguendo un interesse privato.
La fioritura della cultura greca – Dagli
inizi dell'VIII secolo, la ripresa economica e la reintroduzione della
scrittura mediante l'alfabeto fenicio favorirono l'inizio della grande stagione
culturale greca.
Al rafforzamento economico e
politico si affiancò una notevole fioritura della cultura greca, anche grazie
alla reintroduzione della scrittura agli inizi dell’VIII secolo: si fissarono
per iscritto i poemi di Omero; nella Ionia[10]
nacque il pensiero filosofico[11].
Nel contesto della cultura greca
il significato del termine filosofia
oscilla tra due poli estremi:
·
da un lato esso indica la cultura in generale e
l’educazione;
·
dall’altro indica una determinata disciplina
scientifica che ha per oggetto i princìpi primi, le strutture generali
dell’essere e dio.
I fattori che hanno stimolato la
nascita della filosofia in una serie di elementi tipici della società greca di
quell’epoca sono:
·
la posizione geografica di ponte fra Europa e
Asia;
·
lo spirito amante del bello e del sapere;
·
una religione che non pone ostacoli allo
sviluppo della riflessione, ma anzi la favorisce;
·
una struttura politica che garantisce un certo
margine di libertà ai cittadini;
·
un commercio in costante sviluppo e che
richiedeva lo sviluppo di una riflessione che potesse essergli utile;
·
un primo tentativo di spiegare i fenomeni
secondo una visione naturalistica presente nei miti di Omero e di Esiodo.
Nel VI secolo la contrapposizione
fra mito e logos, dove il primo è
sostenuto dalla tradizione, mentre il secondo da operazioni logiche della
mente, costrinse il primo ai soli ambiti della religione e della poesia.
La riflessione filosofica non
coinvolse il pensiero di larghe masse di uomini, ma ebbe la sua base sociale in
una minoranza progressista appartenente alla classe dominante. Questi intellettuali
tolsero l’alone sacrale che ricopriva le cose per scoprire l’oggettività dei
fenomeni.
La nuova cultura, che i primi
filosofi creano, rispondeva ad una serie di problemi nuovi, nati nelle città
ioniche del VI secolo, problemi che difficilmente sarebbero potuti sorgere in
una società agricola, quale era quella greca precedente, dove la natura
consisteva nell’insieme dei fenomeni che non dipendono dall’uomo, e tutto si
risolveva nel culto della divinità e nel rituale.
È proprio la città che compie
questa rottura che toglie l’uomo dal contatto con la natura e lo porta ad
inventare nuovi mestieri e un modo diverso di vivere e di strutturarsi
socialmente.
Il filosofo prese il posto che nell’antica società tribale era
occupato dal sacerdote, e cioè quello
di depositario del sapere.
Tra VII e VI secolo il panorama delle produzioni letterarie d’area greca
era molto diversificato: anche politicamente siamo alla presenza di una
civiltà policentrica, si accentuano le caratteristiche cittadine, rispetto alla
fase esiodea e le letterature riflettono la maggiore complessità anche sociale.
Gli autori di cui conosciamo
l’opera, sono spesso biografici, si indirizzano a un gruppo di amici oppure a
un gruppo allargato fino a comprendere tutta la comunità dei cittadini liberi
delle poleis. Si composero elegie
gambi e monodie per piccole cerchie di persone, ma anche lirica corale per celebrazioni.
Questa poesia è molto vicino a
noi, per ciò che essi esprimono e per il modo con cui lo fanno: la loro individualità
e la loro capacità a esprimere qualcosa che noi definiamo come passione e
vivacità d’umore. Ma anche quando essi parlano di sé stessi, enucleano sensi
generali, che hanno valore per tutti e che riguardano il senso stesso della
vita, dell’esistere tra gli altri.
La lirica poteva essere, monodica
(a una sola voce) o corale. Tra questi poeti lirici si ricordano Archiloco, Mimnermo, Alcmane, Alceo, poeta spesso dell’amore, del vino, dell’esaltazione del piacere
quali esclusivi rimedi dinanzi al carattere effimero e precario della vita
umana e Saffo, considerata la più
grande poetessa dell’antichità.
Unità culturale del mondo
greco - Nel popolo greco non si era formata un’unità politica, ma solo la
coscienza di appartenere ad un unico gruppo etnico e linguistico. A differenza
degli orientali, i greci hanno un carattere particolarista che favorisce
l’inventiva personale e non ama l’accentramento del potere nelle mani di pochi.
La Grecia tuttavia riconosceva la
propria identità sul comune terreno della cultura, della lingua e della religione.
Il santuario di Delfi, con il suo
oracolo, acquisì grande importanza in tutto il territorio greco; a costituire
una coscienza religiosa comune contribuì la partecipazione ai quattro grandi
giochi panellenici, tutti a carattere religioso: i Giochi olimpici, istmici,
pitici e nemei; i primi (che si tenevano regolarmente ogni quattro anni) erano
così importanti che invalse l’uso di calcolare il trascorrere degli anni a
partire dalla prima Olimpiade, svoltasi nel 776.
Della religione, il mito
costituisce il filo conduttore; bisogna inoltre notare che manca una casta
sacerdotale che detiene il potere attraverso l’elaborazione di dogmi di fede,
per questo l’autorità del mito è affidata ai poeti. Per i greci il mito era religione,
poesia e filosofia, ovvero un modo di pensare i problemi dell’esistenza
attraverso immagini simboliche.
Comuni
sono anche i miti sorti in epoca micenea (Atridi,
Perseo, Edipo, Sette contro Tebe, Elena, Menelao) precursori dei poemi omerici,
comune è la scrittura ricevuta dai Fenici e l’alfabeto che i Greci ne hanno
derivato (designazione delle vocali con segni consonantici fenici superflui:
prima scrittura fonetica pura), comune è la religione con santuari di importanza
nazionale (Delfi, Delo, Samo, Olimpia).
Il
tipo di religione diffuso fra gli aristocratici non soddisfaceva però le
esigenze del popolo, per questo presto ci fu un’apertura agli influssi
religiosi orientali: si diffusero così le pratiche
misteriche che prospettavano la sopravvivenza dell’anima nell’aldilà e una
sua redenzione. Molto successo ebbe allora il culto di Dioniso, al quale si
opponeva la versione spirituale dell’orfismo.
Oligarchia e democrazia in
Grecia: Sparta e Atene - Tra l’VIII e il VI secolo a.C. Sparta e Atene
emersero come i centri più potenti della Grecia, dopo aver unito in una
confederazione, sotto la loro guida, le città vicine.
Sparta, stato - città
aristocratica a carattere militare, affermò la sua supremazia con la forza.
L’unificazione dell’Attica fu invece raggiunta attraverso accordi pacifici da
Atene, che riconobbe la cittadinanza ateniese agli abitanti delle città minori.
Sparta aveva un ordinamento
costituzionale antichissimo fra l’VIII ed il VII secolo, la cui natura
strettamente oligarchica si mantenne costante nel tempo; la tradizione fa
addirittura risalire la costituzione spartana al mitico legislatore Licurgo. A capo dello stato vi erano due
re, discendenti delle nobili famiglie degli Agiadi
e degli Euripontidi, che governavano
collegialmente. Accanto a loro fungeva da organo consultivo la gherusía,
ristretto consiglio di ventotto anziani eletti dai cittadini liberi, gli
spartiati, riuniti nell’apélla
(assemblea di uguali). Importante fu anche la presenza di cinque efori, originariamente ministri del culto
che assunsero sempre più funzioni di natura politico-giudiziaria.
Ad Atene e nella sua area di
influenza la monarchia fu abolita all’inizio del VII secolo dall’aristocrazia,
i cui esponenti, gli eupatrìdi,
esercitarono il potere attraverso la carica di arconte; nove arconti, eletti dall’ecclesia, si avvicendavano
annualmente e governavano col concorso dell’areopago,
consiglio di ex arconti che fu organo custode delle leggi e tribunale per i
reati più gravi.
Nel 621 il legislatore Dracone pubblicò il primo codice scritto
di leggi, limitando la discrezionalità del potere giudiziario dei nobili.
Successivamente l’arconte Solone nel 594 riformò il codice
draconiano, dividendo il corpo civico timocraticamente, cioè in base al censo,
in quattro classi, che furono, in ordine di ricchezza:
- i pentacosiomedimni
(gli unici che potessero aspirare all’arcontato);
- i cavalieri;
- gli zeugiti;
- i teti.
All’areopago affiancò la bulè,
consiglio di quattrocento nominati per sorteggio dalle prime tre classi, e il
tribunale popolare dell’eliéa.
Durante il regno del tiranno Pisistrato (560-527 a.C.) che salì al
potere facendo leva sul malcontento del ceto medio-basso, alcuni caratteri
democratici delle istituzioni ateniesi furono ulteriormente accentuati in
chiave demagogica.
Ippia e Ipparco, suoi
figli ed eredi, si rivelarono molto più dispotici del padre e, dopo l’uccisione
di Ipparco, Ippia fu cacciato da un’insurrezione scoppiata nel 510 a.C.: la
memoria collettiva di Atene associò questa fase alla figura dei due tirannicidi, Armodio
e Aristogitone, gli uccisori di Ipparco nel 514, salutati dalle generazioni
successive come campioni della democrazia.
Ne seguì una lotta politica che
vide vincitore, contro una fazione oligarchica, il partito democratico guidato
da Clistene che promulgò ad Atene una
nuova Costituzione basata su principi democratici e isonomici (cioè di uguaglianza politica), la cui entrata in vigore
nel 502 segnò l’inizio del periodo di maggior splendore della storia ateniese.
Alla base della costituzione di Clistene
c’era un complesso meccanismo di ripartizione territoriale dell’Attica,
suddivisa in tre regioni: città, costa, entroterra. Ma la vera novità fu la mescolanza
del popolo che si ottenne con l’istituzione di dieci tribù cui venivano
iscritti cittadini di vari démi di ognuna delle tre grandi regioni che
avrebbero dovuto fornire l’esercito di Atene, ciascuna sotto la guida di uno stratega. Gli arconti diventarono dieci
e i loro poteri furono ridotti, come quelli dell’areopago, ora unicamente
tribunale per i reati di sangue; la bulè (che si ampliò a cinquecento
membri) e l’ecclesía accrebbero invece le loro funzioni, diventando il
fulcro della vita politica di Atene: la bulè
come sede di proposte di provvedimenti legislativi, l’ ecclesìa come luogo della loro discussione ed eventuale
approvazione. A garanzia dell’istituzione democratica fu inoltre introdotto l’ostracismo un istituto politico ateniese
con cui erano banditi per dieci anni i cittadini ritenuti pericolosi per il
mantenimento dell’egualitarismo civico.
Attraverso il progressivo
sviluppo dell’agricoltura e del commercio, Atene divenne il centro più
importante di cultura artistica e del bacino del Mediterraneo.
La migrazione indoeuropea in Italia - Prima del 1200 gli abitanti
dell’Italia centrale erano gli Umbri, uno dei popoli più antichi
della penisola italiana, di stirpe indoeuropea.
Dopo il 1200 a.C. scesero,
attraversando le Alpi, in Italia gruppi indoeuropei provenienti dall’Europa
centro-orientale. Questi gruppi spinsero le tribù che li avevano preceduti
sempre più a sud e assunsero una fisionomia ben definita solo dopo essersi stabiliti
nelle loro sedi definitive. Tra queste popolazioni indoeuropee vi erano gli Italici, che occuparono la parte
centro-meridionale della penisola.
Alla fine della migrazione,
nell’VIII sec. a.C. gli stanziamenti sulla penisola erano definitivi, le principali
popolazioni in Italia erano così stanziate: Liguri e Veneti a
nord; Iapigi, Lucani e Bruzi a sud; Siculi e Sicani
in Sicilia; Sardani e Liguri in Sardegna; nell’Italia centrale vi
erano:
·
gli Osco-Umbro-Sabelli: divisi nelle
tribù dei Piceni, Sabini, Marsi, Peligni, Marrucini,
Sanniti;
·
i Latini: stanziati tra la foce del
Tevere e i Colli Albani, divisi nelle tribù dei Latini propriamente
detti, dei Volsci, Equi e Ernici.
In questo periodo, mentre
l’Italia meridionale era colonizzata dai Greci, si sviluppava al centro-nord la
civiltà etrusca.
Le colonie della Magna Grecia - I Greci frequentarono i porti
italici già in età micenea (sec XVI - XI a.C.).
Alla prima metà del secolo VIII.
risale l’insediamento calcidese sull’isola di Ischia che aprì la prima
fase della colonizzazione greca d’Italia. I Calcidesi fondarono poi
Cuma, Napoli, Reggio, Catania e Zancle; i Corinzi fondarono Selinunte e
Siracusa, i Rodiesi Gela e Agrigento; gli Achei dell’Acaia
Sibari, Metaponto e Crotone, mentre Taranto fu l’unica colonia fondata da
immigrati spartani.
Dal VI secolo si scatenarono tra
colonie greche feroci lotte per l’egemonia e successivamente furono
oggetto delle mire egemoniche dell’Atene di Pericle.
Le tre città achee distrussero
verso l’inizio del secolo Siri, mentre fallì il tentativo di Crotone di
sottometterne l’alleata Locri. Attorno al 510 a.C. ci fu uno scontro tra Sibari
e Crotone; Sibari fu rasa al suolo.
In età arcaica la Magna Grecia
costituì una delle aree culturalmente più vivaci del mondo greco: nel tardo VI
secolo la conquista persiana dell’Asia Minore produsse un movimento
migratorio verso Occidente che vi trapiantò un gran numero di filosofi,
intellettuali e artisti (tra i quali Pitagora e Senofane di Colofone), il
fenomeno contribuì al sorgere di scuole filosofiche (ad Elea, con Parmenide e
Zenone) e mediche (a Crotone) di primissimo piano.
La Magna Grecia svolse così un
ruolo cruciale nella trasmissione della cultura greca a Roma.
Gli Etruschi – La civiltà etrusca fu il frutto dell'innesto di elementi
stranieri (attorno ai quali non si hanno notizie certe) sulla preesistente
cultura villanoviana, nell'area compresa tra l'Arno e il Tevere. Essenzialmente
urbana, si organizzò in città-stato (Volterra, Fiesole, Arezzo, Cortona,
Perugia, Chiusi, Todi, Orvieto, Veio, Tarquinia ecc.) che, a scopi religiosi ed
economici, diedero vita a una Lega
formata da dodici città, la dodecapoli.
Ogni città era retta da re, detti lucumoni e magistrati eletti
tra i membri della casta aristocratica. Una prima fase espansiva (VIII-VI
secolo) portò gli Etruschi a contendere a Greci e Cartaginesi il controllo
delle rotte tirreniche e adriatiche e a estendere il proprio dominio dalla
pianura padana alla Campania, fondando centri come Bologna, Mantova, Piacenza,
Pesaro, Rimini, Ravenna, arrivando fino a Roma, che la tradizione vuole
governata da re etruschi dal 616 al 509.
L'autonomia di Roma e quindi la
crescita della sua potenza si intrecciarono con la decadenza etrusca,
acceleratasi dopo la sconfitta patita a Cuma nel 474 a opera dei Greci di
Siracusa. La Campania fu persa di lì a poco per opera dei Sanniti e
contemporaneamente i Galli dilagarono nella pianura padana. A partire dalla
distruzione di Veio nel 395, entro il sec. III a.C. Roma si impossessò di tutta
l'Etruria.
La scarsità di notizie precise
attorno agli Etruschi deriva dal fatto che non hanno lasciato una letteratura,
la loro lingua (che utilizza un alfabeto assimilabile a quello greco) è stata
decifrata con l'aiuto di testi brevissimi, perlopiù iscrizioni sepolcrali.
A speciali sacerdoti (gli
aruspici, la fama dei quali rimase viva anche in età romana) era affidato il
compito di prevedere il futuro e capire la volontà degli dei scrutando le
viscere degli animali sacrificati e analizzandone il fegato.
La centralità del culto dei morti presso gli Etruschi è attestata
dalle numerose necropoli e tombe isolate disseminate in Toscana e nel Lazio:
convinti che il defunto conservasse l'individualità congiunta alle proprie
spoglie mortali, concepirono il sepolcro come un abitazione sotterranea,
arredata con letti, tavoli, utensili e affrescata da vivaci pitture.
La società era formata da nobili, discendenti dei primi dominatori, e
servi, discendenti delle popolazioni preesistenti all'occupazione etrusca. Vi
erano schiavi adibiti ai lavori più pesanti, ma anche schiavi semiliberi che,
per i loro meriti, potevano condurre vita migliore e anche elevarsi
socialmente.
Le origini di Roma: l’età dei re - Tra
l'VIII e il VII secolo, per motivi di difesa dall'invasione etrusca, il
villaggio del Palatino, ingranditosi e sviluppatosi in età precedente, si fuse
con quelli vicini, Esquilino, Celio, Viminale, Quirinale, Capitolino. Da questo
processo di fusione (di cui rimane il ricordo della festa religiosa del Septimontium,
a sottolineare anche il carattere religioso dell'unione), unito all'arrivo di
popolazioni sabine, si formò la città di Roma.
Secondo
la tradizione, a Roma regnarono 7 re, fino al 509; probabilmente furono di più
e quelli ricordati sono solo i più importanti.
I primi
quattro avevano origine latino-sabina, gli ultimi tre etrusca.
Morto Romolo durante un temporale (i Romani
credettero in una sua ascesa al cielo e lo adorarono col nome di Quirino), gli
successe Numa Pompilio.
A lui vengono attribuite l'introduzione delle prime istituzioni religiose, la
riforma del calendario con l'anno di 12 mesi e 365 giorni e l'occupazione della
fortezza etrusca del Gianicolo.
A Tullo Ostilio sono legate le prime azioni militari,
la conquista di Albalonga, la vittoria dei tre fratelli romani, gli Orazi,
contro i tre fratelli albani, i Curiazi e l'espansione a danno delle
popolazioni confinanti.
Anco Marzio conquistò
Ostia e Roma ottenne l'accesso sul mare stabilendo contatti con Etruschi, Cartaginesi
e Greci.
Tarquinio
Prisco fu il primo re di
origine etrusca. Fece costruire il Circo
Massimo, il tempio di Giove
Capitolino, la Cloaca Massima. In
campo amministrativo aumentò il numero dei senatori (da 100 a 200) permettendo
l'accesso alla carica anche per meriti personali e non più solo per nobiltà di
nascita.
Servio Tullio (secondo re etrusco) espanse ulteriormente il dominio
verso sud; emanò una nuova costituzione basata sul censo (i comizi centuriati)
e portò a 300 il numero dei senatori.
Tarquinio il
Superbo (terzo re etrusco e
ultimo re di Roma) fu un re dispotico e crudele, sospese le costituzioni e
governò arbitrariamente con ogni tipo di sopruso. Secondo una tradizione,
Tarquinio fu cacciato dai Romani e chiese aiuto al lucumone di Chiusi, Porsenna, che fu però sconfitto dagli
eroi Orazio Coclite e Muzio Scevola. Secondo il racconto di Tacito, invece, fu
lo stesso Porsenna a cacciare l'ultimo re. Da allora cominciò a prendere corpo
l'ordinamento repubblicano. Dei sette re di Roma, quelli su cui comunque ci
sono notizie più attendibili sono gli ultimi tre, perché è certo che la potenza
etrusca influenzò anche Roma; per gli altri, purtroppo, spesso la fantasia si
sovrappone alla realtà.
L’ordinamento monarchico a Roma - Le principali istituzioni di
governo nella Roma monarchica erano tre:
·
Il re la cui carica non era ereditaria:
il sovrano aveva anche il potere religioso (era sommo sacerdote) militare (era
comandante dell’esercito) e giudiziario (era giudice supremo del popolo). Se il
re pronunciava delle condanne a morte, però, il cittadino poteva fare appello
all’assemblea del popolo, la provocatio ad populum, e rimettersi al suo
giudizio;
·
Le funzioni di governo, compresi
i poteri legislativo e giudiziario, erano svolte con l’assistenza di due
assemblee: il senato e i comizi curiati;
·
Il senato era composto da
membri dell’aristocrazia scelti dal re e consultati per decisioni sia di
politica estera sia di politica interna; il senato doveva anche approvare o
respingere le proposte di legge del sovrano e le deliberazioni dei comizi
curiati. Alla morte del re dieci senatori sceglievano un nuovo candidato e lo
proponevano ai comizi curiati;
·
Comizi curiati erano formati da cittadini
facenti parte delle 30 curie (ripartizioni della popolazione); ogni curia era
formata da 10 genti (o gentes, gruppi gentilizi) doveva fornire
all’esercito 100 fanti (una centuria) e 10 cavalieri oltre a un senatore per
ogni gens. Le curie potevano riunirsi in assemblea, dichiarare la
guerra, nominare il re, approvarne le proposte di legge e ratificare le
condanne a morte. La sede delle riunioni era il Foro.
Le classi sociali a Roma - Due erano le grandi classi sociali:
·
I patrizi, aristocratici proprietari
terrieri;
·
I plebei, contadini, commercianti e
artigiani, utilizzati anche dall’esercito.
I patrizi avevano l’accesso alle
cariche pubbliche, mentre i plebei ne erano esclusi. Con il miglioramento delle
condizioni economiche, anche alcuni plebei diventòrono benestanti e iniziarono
una serie di lotte per ottenere la parità di diritti. Al servizio dei patrizi
vi erano i clienti che ricevevano dai loro padroni terreni da lavorare,
bestiame e protezione in cambio del servizio militare e di un aiuto nella vita
pubblica.
Gli schiavi, prigionieri di
guerra o plebei insolventi ai debiti, erano completamente nelle mani dei loro
padroni, che potevano decidere della loro vita o anche donare loro la libertà;
gli schiavi liberati erano detti liberti.
La religione romana - I culti delle diverse divinità erano affidati
a dei collegi sacerdotali, il più importante dei quali era quello dei
Pontefici, retto dal Pontefice massimo. Questi, che in età monarchica e
imperiale coincideva con il re e con l’imperatore, presiedeva le cerimonie,
stabiliva le feste e annotava i fatti storici gli Annales.
Vi erano poi il collegio dei Salii
(che presiedeva il culto di Marte), quello delle Vestali (officiava il
culto di Vesta, simbolo dell’eternità romana), quello degli Auguri (che
dall’osservazione del volo e del canto degli uccelli e delle viscere degli
animali sacri, i polli, traeva consigli sulle vie da seguire in caso di
decisioni importanti) e quello dei Feziali (depositari del diritto
riguardante guerre e alleanze).
Tra gli dei, i tre più importanti
erano Iuppiter (Giove), Marte e Quirino. Rilevante era
anche l’importanza attribuita alle divinità familiari i Lari, gli
spiriti degli antenati, e i Penati, protettori della dispensa.
I Sanniti – I Sanniti erano un antico
popolo italico, insediato sugli aridi altipiani dell'Appennino meridionale, parlante lingua del gruppo osco. Ramo del
più ampio gruppo dei Sabini, i Sanniti erano a loro volta un popolo dalle molte
ramificazioni: i più importanti erano gli Irpini, i Caraceni, i Pentri e i Caudini.
Nei
secoli V e IV, alcune tribù si staccarono dal gruppo originario dirigendosi
verso le zone costiere alla ricerca di nuove terre più fertili e ricche: un
gruppo di Irpini si stabilì nella zona compresa tra il Sele e il
Bradano dando origine al popolo dei Lucani; un ramo di questi, i Bruzi, invasero la Calabria sottomettendo parecchie
città greche, tra cui Sibari; altri gruppi
occuparono invece la Campania dove si amalgamarono velocemente con Etruschi e
Greci dando origine a quella che è
indicata come civiltà osca.
A
differenza di questi gruppi di invasori che assimilarono facilmente la civiltà greco-etrusca, le tribù rimaste nel Sannio conservarono abitudini e forme di vita
originarie: dedite alla pastorizia e distribuite in villaggi, (tra cui la
capitale Bovianum Vetus, oggi Pietrabbondante), non riuscirono mai a costituire un'unità politica
o amministrativa; i vari gruppi, a capo di ognuno dei quali era un meddix (giudice), erano però riuniti in una
forte federazione. La figura arcaica del pastore-guerriero prende valenza rispetto alle tradizioni legate
alle attività di allevamento, praticate nell’area appenninica centromeridionale
fin dall’Età del Bronzo, ed il fondamento di una forte economia rurale sono i tratturi e la rete viaria della
transumanza.
Con la nascita della Lega Sannitica come organismo di
coordinamento militare già dal V secolo, altre tribù stanzianti nell’Italia
centrale si unirono a loro. Il cuore del popolo sannita era la tribù dei
Pentri: forti e temibili, essi erano la spina dorsale della nazione. Di stirpe
sannita erano sicuramente anche i Campani.
Cartagine - Intorno all’800 alcuni abitanti di Tiro migrarono in Africa
e fondarono Qart Hadasht, per i Greci
Carcedonia, per i Romani e per noi Cartagine.
Da qui
iniziò lo sviluppo della cultura
cartaginese, simile per molti versi a quella di Tiro sebbene la storia
della sua civiltà, in cui il fenicio si può difficilmente separare da ciò che è
libico, presenti un’alternanza di influssi ellenici e di ritorni alla
tradizione propriamente punica.
Fino nel
654 quando fu fondata una colonia ad Ibiza, mancano notizie precise sulle sue
vicende.
La
creazione dell’impero Cartaginese si basò innanzi tutto sul controllo dei
territori africani: Cartagine ampliò le sue conquiste in Nord Africa, occupando
e fondando città, soprattutto lungo le coste, per la natura desertica di molte
aree interne del continente africano, ma anche per la sua spiccata vocazione
commerciale.
Questo
progetto espansionistico fu attuato con una manovra a ventaglio sia verso
l’attuale Libia, sia verso le coste dell’Algeria e del Marocco. In questo modo
Cartagine diventò presto il principale centro fenicio d’Occidente, riuscendo ad
imporre la propria autorità e supremazia a tutte le altre colonie fenicie
preesistenti.
Le
ragioni cartaginesi della creazione di una propria zona d’influenza furono
determinate:
·
dall’infiltrazione
greca nell’area mediterranea, fonte di costante pericolo per le numerosissime
colonie fenicie sulle coste del Mediterraneo,
·
dalla natura stessa
delle colonie fenicie, che, diversamente dalle colonie greche, erano luoghi di
sosta o di approdo, indispensabili per le navi di piccolo cabotaggio che si
orientavano di giorno col sole e di notte con le stelle dell’Orsa Minore.
Il
crescente sviluppo di Cartagine è riconducibile alla progressiva crisi di Tiro
e dell’Oriente fenicio che, sotto i colpi di Assiri, Babilonesi e Persiani,
aveva perduto la propria autonomia, giungendo alla condizione di sudditanza.
Nel
654, epoca della fondazione della colonia di Ibiza, i Cartaginesi avevano
fissato basi anche in Sardegna ed in Sicilia e, già nel VII secolo, la
espansione di Cartagine nel Mediterraneo era complessivamente un fatto reale e
di grande rilievo.
Intorno
al 600 i Cartaginesi subirono una pesante sconfitta navale da parte dei Focesi
che erano riusciti ad insediarsi a Marsiglia, una colonia che permetteva loro
di controllare la ricca zona della valle del Rodano.
In
questa congiuntura, Cartagine strinse rapporti con gli Etruschi, nel tentativo
comune di ostacolare l’espansione greca nel Mediterraneo.
L’alleanza
etrusco-cartaginese permise una rivincita sui Focesi: nel 537, nella battaglia
di Alalia i Greci furono sconfitti in una dura battaglia sul mare, la potenza
Focese fu annientata: alcuni patti sancirono poi la zona d’influenza tra
Etruschi e Cartaginesi e determinarono un periodo di forti scambi commerciali,
ma anche culturali ed artistici tra le due civiltà.
La
vittoria di Alalia segnò un punto di rottura nell’equilibrio commerciale che si
era formato nei secoli precedenti tra Etruschi, Greci e Cartaginesi, il punto
di discesa della breve parabola Etrusca, e l’apparizione della coalizione
latino-cumana.
L’alleanza
fra Cartaginesi ed Etruschi ha però un significato più vasto sul piano
mediterraneo: essa, infatti, saldava in Occidente la politica anti-ellenica
stabilita dalle nazioni orientali sotto la tutela dell’impero persiano.
Con il
declino etrusco e con la proclamazione
dell’indipendenza di Roma sancita dalla cacciata dei Tarquini nel 510, la Repubblica Romana stipulò come primo
atto di politica internazionale un patto d’amicizia con Cartagine: questo
dimostra come nulla potesse accadere di politicamente rilevante in Occidente
senza suscitare immediatamente l’intervento di Cartagine che, in quel periodo,
era il vero fondamento della storia mediterranea. È sintomatico inoltre che,
quando la Grecia bloccò l’avanzata persiana, anche Cartaginese subì una serie
di rovesci in Sicilia, rinunciando alle sue pretese egemoniche sull’isola in
cui la presenza greca era forte.
Prima
di illustrare le fasi dello scontro con i Greci in Sicilia è opportuno
comprendere l’eccezionale grado di potenza militare e commerciale raggiunta da
Cartagine, citando le colonie più importanti sparse lungo le coste del
Mediterraneo occidentale.
È
difficile riconoscere gli insediamenti originalmente punici e quelli fenici
passati sotto il diretto controllo di Cartagine. Generalmente dove già c’erano
numerose colonie fenicie, Cartagine si sostituiva alla madrepatria nell’opera
di colonizzazione in Occidente.
I Celti –
La cultura dei Celti pare si sia formata già verso il III millennio a.C. Anche
se i Celti rappresentano il più importante nucleo di popolazione dell’Europa
dell’età del Ferro, le loro origini certe risalgono alla coltura dei campi di
urne della tarda età del Bronzo, diffusa nell’Europa centrale e orientale tra
il 1300 e l’800. Questa cultura comprendeva genti diverse unite da comuni
usanze funerarie.
Verso
il 1000 iniziò un vasto movimento migratorio cui parteciparono anche i Celti, i
quali discesero verso le regioni occidentali del continente europeo, occupando
vasti territori dell’attuale Francia, della penisola iberica e, muovendosi poi
verso nord, della Britannia e dell’Irlanda. Continuando le loro migrazioni,
oltrepassarono le Alpi e giunsero nella parte occidentale della pianura padana,
allora abitata dai Liguri.
Quella
avvenuta in Italia non fu un’invasione massiccia, ma continue infiltrazioni di
tribù diverse. Nell’ampia area lungo il corso del Po fino alla costa adriatica,
regione alla quale i Romani avrebbero in seguito dato il nome di Gallia
cisalpina, si stabilirono gli Insubri, i Cenòmani e i Sénoni. Verso est
penetrarono nel territorio occupato dai Veneti e verso sud raggiunsero invece
alcune zone sotto l’influenza etrusca. Continuarono le loro incursioni in
direzione sud.
Gli
archeologi dividono la preistoria celtica in fasi che prendono il nome da
località austriache e svizzere dove sono stati reperiti molti oggetti:
·
Periodo di Hallstatt
(VIII-VI secolo a.C.)
·
Periodo di La Tène
(VI-II secolo a.C.).
V unità
L’età
classica (V-IV secolo a.C.)
Le
guerre greco-persiane - Nel 499 la
confederazione ionica, assistita da Atene ed Eretria, sotto la guida di
Aristagora, tiranno di Mileto, si
ribellò al dominio dell’impero persiano la cosiddetta rivolta
ionica. Cinque anni dopo, il nuovo sovrano persiano Dario I marciò su Mileto e, dopo averla saccheggiata, ristabilì il
controllo assoluto sulla Ionia.
Postosi
quindi a capo di una grande flotta, nel 491 fece rotta verso Atene, per punirla
dell’appoggio fornito ai ribelli, ma la maggior parte delle navi naufragò al
largo del monte Athos. Dario mandò allora messaggeri in tutte le città greche
pretendendone un atto di sottomissione. Se la maggior parte di queste cedette,
Sparta e Atene respinsero però gli inviati persiani. Dario, a seguito di tale
provocazione, preparò una seconda spedizione, che partì nel 490 (prima guerra
persiana).
Distrutta
Eretria, l’esercito persiano procedette verso la piana di Maratona vicino ad
Atene. I capi della città inviarono una richiesta di aiuto a Sparta, ma il
messaggio giunse durante una festa religiosa che impedì agli spartani di
partire immediatamente. Le forze ateniesi, guidate da Milziade,
conseguirono nella battaglia di Maratona un’importante vittoria
sull’esercito persiano, molto più numeroso, che fu costretto a ritirarsi.
Dario
intraprese allora una terza spedizione (seconda guerra persiana), ma morì prima
di poterla portare a termine: lo sostituì il figlio Serse I, succeduto al padre nel 486, che si mise alla testa di un
ingente esercito.
Nel 481
i persiani attraversarono lo stretto dell’Ellesponto e si diressero a sud.
I greci
opposero il primo tentativo di resistenza nel 480 a.C. al passo delle Termopili, difeso dal re spartano Leonida. Dopo aver vinto l’eroica
resistenza del piccolo contingente greco (trecento spartani e settecento
tespiesi), i persiani raggiunsero Atene, ormai abbandonata, e la
saccheggiarono. Gli ateniesi, nel frattempo, avevano allestito una flotta in
grado di competere con quella persiana che seguiva l’esercito a terra.
Al
largo dell’isola di Salamina, di fronte ad Atene, 400 navi greche, guidate
dello stratega Temistocle, vinsero
sulle oltre 1200 nemiche, costringendo Serse a un’affannosa ritirata verso i
suoi possedimenti asiatici; nel 479, le residue forze persiane ancora presenti
in Grecia furono definitivamente sconfitte nella battaglia di Platea e nella battaglia
navale di capo Micale.
Nel 478
l’ultima guarnigione persiana che si trovava a Sesto sull’Ellesponto fu
cacciata. La lunga contesa ebbe fine solo nel 449 con la pace di Callia, che allontanò definitivamente la minaccia persiana
e diede ad Atene il pieno dominio dell’Egeo.
L’ascesa
di Atene - In seguito alla vittoria
conseguita sui persiani e quale maggiore potenza navale del suo tempo, Atene
divenne la città-stato più influente della Grecia, mentre Sparta perse
progressivamente prestigio e supremazia militare.
Nel 477
numerose città-stato si unirono, per iniziativa ateniese, nella lega delio-attica
allo scopo di liberare dalla presenza persiana l’intero territorio greco
(comprese le coste dell’Asia Minore).
Raggiunto
l’obiettivo grazie all’abile guida politica di Aristide e poi di Cimone,
Atene iniziò a esercitare un ruolo egemone all’interno della lega, trasformando
il rapporto di alleanza con gli altri membri in una sudditanza di fatto, tanto
da riscuotere regolari tributi e giungere a distruggere le fortificazioni
dell’isola di Náxos, quando questa annunciò di voler abbandonare la lega.
Nel V
secolo a.C. Atene segnò il culmine della sua supremazia politica e il punto di
massima fioritura culturale, in particolare con Pericle, capo del partito popolare e leader della città dal 460.
Rivestendo
per trent’anni consecutivi la carica di stratega, egli completò l’evoluzione
democratica della Costituzione di
Clistene, introducendo forme di retribuzione per i cittadini che
assumessero pubbliche funzioni: permise così anche a membri di classi meno
abbienti l’accesso alle magistrature e ai tribunali popolari. Fu inoltre il
massimo fautore di quella politica imperialistica nei confronti degli alleati
della lega delio-attica cui si è già
accennato. Politicamente, infatti, auspicava il sorgere ovunque di regimi
democratici, e debellò pertanto presso gli alleati ogni tentazione oligarchica.
Dal punto di vista fiscale, invece, accentuò nei loro confronti la pressione
tributaria, necessitato anche dalla politica di spesa per le opere pubbliche,
ad Atene e nell’Attica, della quale si era fatto promotore.
Nel
corso dell’età di Pericle, infatti, fu costruito il complesso
monumentale più significativo dell’arte greca, l’Acropoli di Atene su cui si insedia il Partenone[12].
Dopo la costruzione del Partenone i cantieri attivi sull’Acropoli continuarono
la loro attività e l’officina organizzata da Iktinos e Kallikrates
continuò a dominare la creazione architettonica in Grecia fino alla fine del V
secolo a.C. Sull’Acropoli il nuovo tempio esigeva un accesso monumentale. Il
precedente ingresso costruito nel VI secolo a.C. non rispondeva più alle
esigenze del grande tempio. I lavori cominciarono nel 437-436 a.C. ma non
furono mai terminati per l’inizio nel 432-431 a.C. della guerra del Peloponneso
tra Atene e Sparta. A un nuovo architetto Mnesikles
strettamente legato all’officina del Partenone per stile e modi costruttivi fu
affidato l’incarico per la costruzione dei Propilei.
A sud dei Propilei s’innalzava il Tempio
di Athena Nike mentre lungo
il lato sud delle mura fu costruito l’Eretteo.
Durante
il V secolo, inoltre, la letteratura greca raggiunse le sue più alte
espressioni con le tragedie di Eschilo,
Sofocle, Euripide e le commedie di Aristofane,
con le opere storiche di Erodoto e Tucidide e il sapere filosofico di Socrate: molti di loro vissero negli
anni del governo pericleo.
La
guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) –
Il declino politico di Atene si manifestò tuttavia nell’ambito della
politica estera.
Allo
scontento degli alleati-sudditi della lega delio-attica si aggiunse una
rinnovata capacità di competizione di Sparta. Una lega tra le città del
Peloponneso che gravitavano attorno a Sparta esisteva dal 550; nel 431, il
malessere a lungo rimasto sopito emerse quando gli abitanti dell’isola di Corcira
(attuale Corfù) chiesero aiuto a Sparta per liberarsi del legame imposto loro
da Corinto, alleata di Atene.
La
lotta che seguì tra le due confederazioni sfociò nella cosiddetta guerra del Peloponneso, che colse Atene
orfana di Pericle e in mano a politici o poco capaci come Cleone o
troppo ambiziosi come Alcibiade.
La
guerra fu distinta in tre fasi:
·
La prima, detta archidamica,
durò dieci anni e si finì con la tregua stipulata nel 421 con la Pace di Nicia che stabilì la
restituzione, non avvenuta, delle terre conquistate.
·
La seconda fase
riguardò il periodo tra la pace di Nicia e la spedizione in Sicilia (421-413).
Il nuovo capo della politica ateniese Alcibiade, alleatosi con una lega
antispartana, condusse una spedizione in Sicilia che si rivelò rovinosa per i
Greci.
·
La terza fase va dalla
conquista spartana di Decelea alla caduta di Atene, detta anche guerra deceleica. Mentre Atene era gravemente colpita nel
potenziale umano e finanziario ed era lacerata da conflitti interni, Sparta,
alleatasi con la Persia, isolò Atene dalle comunicazioni con l’Eubea
conquistando Decelea e le sollevò contro numerose città della lega delio-attica. Dopo alcune vittorie
e grandi sconfitte, Atene fu costretta a trattare la pace nel 404, che previde
la consegna delle navi, l’abbattimento delle lunghe mura che univano il Pireo
alla città, il richiamo dei fuoriusciti e l’imposizione dell’alleanza con
Sparta.
Il
conflitto, protratto fino al 404, portò alla supremazia di Sparta sulla Grecia
e all’imposizione del regime oligarchico dei trenta tiranni ad Atene;
sistemi di governo simili furono istituiti anche in tutte le città
greche dell’Asia Minore.
La dominazione spartana si
dimostrò però assai più dura e oppressiva di quella di Atene. Nel 403 la
fazione democratica degli ateniesi, guidata da Trasibùlo, si ribellò,
scacciò le guarnigioni spartane di occupazione e abbatté il potere dei tiranni
restaurando le istituzioni democratiche e la propria indipendenza.
Dall’egemonia spartana a
quella tebana - Per liberarsi del giogo spartano, molte delle città greche
non esitarono a rivolgersi al nemico di un tempo, la Persia, che dal 399 era
tornata a premere sulle colonie dell’Asia Minore, obbligando Sparta ad
effettuare ripetute missioni militari nella regione.
Nel 396 Argo, Corinto e Tebe
si unirono ad Atene per abbattere definitivamente il potere di Sparta.
La cosiddetta guerra di Corinto, che ne seguì, si
concluse nel 387 con la pace di Antalcida,
dal nome del generale spartano che si accordò con la potenza persiana,
cedendole l’intera costa occidentale dell’Asia Minore in cambio del
riconoscimento dell’autonomia delle città greche e del proprio ruolo di gendarme contro il risorgere delle
pretese egemoniche di Atene.
Nel 382 la rinnovata supremazia
di Sparta impose a Tebe un governo oligarchico, contro cui tre anni dopo si
ribellò, con l’aiuto di Atene, il generale Pelopida;
nel 371 questi, affiancato da Epaminonda,
inflisse nella battaglia di Leuttra
una disfatta militare a Sparta, che si vide così sostituita da Tebe nel ruolo
di potenza egemone in Grecia.
La nuova posizione raggiunta da
Tebe si basava tuttavia in gran parte sull’abilità politica e sulle doti
militari di Epaminonda e fu meno quando questi rimase ucciso nella battaglia di Mantinea del 362 contro le
forze di una coalizione antitebana promossa da Atene e Sparta, alleatesi tra
loro.
La supremazia macedone – Mentre
la Grecia era divisa da continue lotte interne, delle quali la battaglia di
Mantinea era stata un esempio chiaro, nel vicino regno di Macedonia salì al trono Filippo II nel 359, grande ammiratore della civiltà greca, Filippo
era consapevole della profonda debolezza cui essa era condannata a causa della
mancanza di unità politica.
Il nuovo sovrano procedette
all’annessione delle colonie greche sulle coste meridionali della Macedonia e
della Tracia, e nel giro di vent’anni, vinti i tentativi di resistenza
sostenuti dall’oratore ateniese Demostene,
stroncati con la vittoria nella battaglia
di Cheronea del 338 pose fine all’indipendenza della Grecia,
sottomettendone progressivamente tutte le città.
Nel 336 mentre si organizzava per
muovere guerra alla Persia, Filippo fu assassinato.
Sul trono gli succedette il
figlio ventenne Alessandro, che, nel corso di dieci anni, dal 334 al 323 estese
l’influenza della civiltà greca in tutto il mondo antico conosciuto, dando vita
a un impero che si estendeva dall’India all’Egitto: proprio per questo è
conosciuto con l’appellativo di Alessandro
Magno.
Dotato di una solida formazione
militare e di una cultura letteraria e filosofica secondo il modello greco,
essendo stato, tra l’altro, allievo di Aristotele, Alessandro si erse, nelle
sue imprese di conquista in Oriente, a campione della grecità contro i barbari.
D’altro canto, però, assunse su
di sé i poteri propri della dinastia achemenide, il cui sovrano era detto re dei re e cercò in ogni modo di
elevare la propria figura regale al di sopra dell’umanità comune, giungendo a
farsi proclamare, nel santuario di Ammone in Egitto, figlio del dio. Niente di
simile si era visto prima nel mondo greco, che mai aveva accettato, per i
propri governanti, alcuna forma di divinizzazione.
Conclusa la campagna di conquista
cominciò per Alessandro un anno di grandi scelte: tra il 331-325 si erano
accumulati molti problemi e pericoli per la solidità e l’unità del nuovo
impero.
La monarchia di tipo orientale
che Alessandro aveva adottato doveva fare i conti con popoli abituate a forme
diverse di regalità:
·
gli Egizi, per i quali il Faraone era un dio
·
i Macedoni, per i quali il re era solo il primo
fra i nobili
·
i Greci, contrari ad ogni tipo di monarchia per
le loro tradizioni democratiche.
Alessandro dovette affrontare il
problema dei rapporti fra le diverse nazionalità. La sua risposta fu una
politica di fusione tra Greci e Persiani: a Susa diede un segno simbolico
dell’integrazione tra le due razze con le nozze in massa tra Greci e Macedoni e
donne persiane; egli stesso, già sposato alla battriana Ròxane, prese come
mogli due donne della casa reale persiana.
Cartagine - Tra il V e il IV secolo, Cartagine raggiunse
completamente la sua affermazione, rispetto alla madrepatria e rispetto al
mondo greco: sulle coste africane aveva, infatti, realizzato uno stato potente
ed autonomo, dotato d’una politica propria e specifica.
In tale politica, che per il suo
intento commerciale richiama l’eredità fenicia, ma su nuove basi e da un nuovo
centro di gravità, non ha alcuno spazio l’affermazione di un’idea imperiale: le
colonie Cartaginesi restano colonie e non si legano con vincoli di sudditanza
alla loro madrepatria. Proprio questa caratteristica politica determinò il
crollo di Cartagine nello scontro con Roma.
Per la prima volta Cartagine è
l’ispiratrice di una tenace resistenza al mondo greco: i Cartaginesi avevano
come obiettivo la conquista dell’intera Sicilia, di cui controllavano
inizialmente solo l’estremità occidentale, dove già i Fenici avevano stabilito
dei centri commerciali.
L’offensiva punica era coordinata
con i Persiani che stavano invadendo la Grecia: nel 480 si svolsero la
battaglia di Salamina, terminata con la vittoria degli Ateniesi sulla flotta
persiano-fenicia, e la battaglia di Imera,
terminata con la vittoria di Gelone,
tiranno di Gela e poi di Siracusa, contro i Cartaginesi che avevano assediato
Terone, tiranno di Imera, e minacciavano di dilagare in tutta l’isola.
I danni per i Cartaginesi nella
battaglia di Himera furono gravi: l’esercito fu in parte distrutto e in parte
catturato, le navi furono quasi completamente perdute, pochi superstiti
salparono e portarono in Africa la triste notizia che sconvolse i piani e gli
animi dei Fenici e dei loro alleati Persiani.
La grecità italica - La vittoria nella battaglia di Himera diede a Siracusa gloria e ricchezza. Siracusa
iniziò una politica espansionistica ai danni di Atene, che dovette cedere le
armi.
Quando verso il 493-492 gli
Etruschi giunsero allo stretto di Messina, attaccando le isole Lipari, e quando
essi decisero di attaccare Cuma ed i Cumani chiamarono in aiuto i Siracusani,
nel 474 Ierone di Siracusa sconfisse
la flotta etrusca nella battaglia di Cuma.
La lotta di Siracusa continuò
contro Cartagine con esiti oscillanti e devastanti fino all’avvento dei Romani
che approfittarono della congiuntura a loro favorevole.
Negli anni centrali del V secolo,
su iniziativa degli Ateniesi, fu fondata sul sito dell’antica Sibari la colonia
di Turi, osteggiata dai Tarantini.
Più tardi, Dionigi I,
tiranno di Siracusa, passò gran parte della sua vita a combattere i
Cartaginesi.
Più volte questi furono sul punto
di conquistare Siracusa, ma Dionigi seppe riunire Siculi e Greci, le cui forze
congiunte riuscirono a respingere gli attacchi dei Cartaginesi che furono di
nuovo confinati nella parte occidentale dell’isola.
Negli ultimi anni del V secolo
Crotone, Turi, erede di Sibari, Caulonia e Metaponto si unirono nella Lega
italiota per difendersi dagli
attacchi dei Lucani e di Dionigi I
tiranno di Siracusa; alla Lega aderì in seguito anche Reggio, mentre Locri e Taranto
furono dalla parte del tiranno. Dionigi, nel 389 sconfisse l’esercito della
Lega, espugnò e distrusse Reggio, ridusse la Lega sotto il controllo di Taranto
che, col procedere del IV secolo, dovette spesso far ricorso a condottieri
greci per difendersi dalle popolazioni sabelliche e iapigie.
Ancora Timoleonte, generale
corinzio divenuto tiranno di Siracusa, nel 339 sconfisse i Cartaginesi nella battaglia del Crimiso e li costrinse a
ritirarsi al di là dell’Alico.
Agatocle, tiranno di Siracusa,
nel 310, per liberare la Sicilia, decise di portare la guerra in Africa, ma non
ebbe fortuna e, nel 307, dovette restituire le città liberate.
I Celti - Fin dal V secolo. i Celti (chiamati Galati dai
Greci e Galli dai Romani) avevano occupato la Pianura Padana ed erano scesi
fino alle Marche e all’Umbria. Tra il IV e il III secolo il mondo celtico
attraversò un periodo di instabilità, forse dovuto alla pressione dei popoli
nordici, che provocarono una serie di migrazioni: i Celti penetrarono nel mondo
greco-romano, invadendo l’Italia settentrionale, la Macedonia, la Tessaglia, e
saccheggiando Roma (390) e Delfi (279), ma qui senza successo, pur rimanendo
nei Balcani.
Nel 225 il loro potere cominciò a
vacillare in seguito alla sconfitta inflitta dai Romani a Talamone, e la loro
supremazia in Europa cominciò a declinare, anche se occorsero altri 200 anni
prima che Cesare sottomettesse la Gallia nel 58 e un altro secolo ancora prima
che la Britannia fosse annessa all’Impero Romano. Ma la loro storia non termina
con la conquista romana. I Celti infatti continuarono ad esistere in tutta
Europa e sono rimaste vive le loro idee, le loro superstizioni, le loro feste
popolari, i nomi che hanno dato alle località. Inoltre, i Romani non riuscirono
a conquistare l’Irlanda e la Scozia, e in queste regioni, come pure nel Galles
e nell’isola di Man, la cultura celtica continuò a sussistere, e con essa
l’arte, la religione e le lingue celtiche.
La crisi degli Etruschi – Alleati di Cartagine, gli Etruschi erano
riusciti ad imporsi alle colonie greche del meridione d’Italia, contrastandone
con efficacia l’espansione sia sulla terra che sul mare.
Nel frattempo nelle città etrusche si era consolidato il sistema istituzionale delle repubbliche
oligarchiche, dominate da un’oligarchia gentilizia, con magistrati
genericamente designati come principes.
Anche in Etruria si avverte la tendenza a spezzettare il potere ed a porlo
sotto un costante reciproco controllo, per evitare l’affermarsi del potere
personale.
L’irrigidimento delle istituzioni oligarchiche è molto accentuato in
Etruria: anche i movimenti di rivendicazione pubblica delle classi inferiori in
Etruria non hanno generalmente la possibilità di inquadrarsi in uno sviluppo
progressivo delle istituzioni verso l’avvento al potere della classe plebea, ma
si risolvono talvolta in parentesi di anarchia popolare.
La loro politica espansionistica
li portò a scontrarsi con i Greci e con i Romani a sud e con i Celti a nord. Verso
il 493-492, gli Etruschi giunsero allo stretto di Messina, attaccando le isole
Lipari, mentre gli Etruschi della Campania decisero di attaccare Cuma.
In seguito alla sconfitta subita
nel 474 nella battaglia di Cuma, la decadenza etrusca si accelerò e con
essa gli Etruschi persero il controllo del Mar Tirreno.
Dalla seconda metà del V secolo
a.C. lo scenario mutò radicalmente: mentre le città etrusche avevano, infatti,
raggiunto il massimo dello sviluppo economico, le colonie greche diedero vita
ad una travolgente crescita culturale
e politica. Nel 414-413, durante la
guerra tra Atene e Siracusa, gli Etruschi fornirono aiuti navali ad Atene, che
tuttavia fu sconfitta.
Roma fu la prima a liberarsi
dalla supremazia etrusca con la cacciata dei Tarquini verso il 510, poi se ne
liberarono i Latini, che, sostenuti da Aristodemo di Cuma, ad Ariccia, nel 506
li sconfissero in battaglia.
Gli avamposti degli Etruschi in
Campania rimasero in tal modo isolati si indebolirono dopo la sconfitta navale
a Cuma ed andarono del tutto perduti nel 423 con la conquista di Capua da parte
dei Sanniti.
Al nord la discesa dei Celti
travolse i centri etruschi della pianura Padana all’inizio del V secolo.
Anche ai confini tra Etruria e
Lazio era sorto un nuovo consistente pericolo: Roma, un tempo dominata e
governata da una dinastia etrusca si era resa indipendente quindi con la
crescita della sua potenza, passò all’offensiva, scontrandosi con gli Etruschi.
Con la caduta della monarchia
filoetrusca, la rivalità tra Roma e Veio si accese per il controllo del Tevere
e delle saline alla sua foce. Nel 485 i Romani iniziarono la lunghissima guerra contro Veio che si concluse nel 394 con la conquista di Veio.
Dalla Monarchia alla repubblica romana - Cacciato l’ultimo re,
Tarquinio il Superbo, dalla rivolta del nobile Collatino, la cui moglie era stata oltraggiata da Sesto, figlio del
re, la monarchia fu sostituita da un governo repubblicano a carattere
aristocratico. In quel periodo, per alcuni anni, Roma dovette combattere
contro Porsenna e contro le popolazioni latine, preoccupate della sua ascesa.
In realtà le ragioni erano più
profonde: Roma stava crescendo ed il re non riusciva più ad attendere a tutti
gli impegni; il suo governo si era fatto dispotico e i patrizi avevano perso il
loro potere politico. Tutto ciò fu motivo di ribellione. Il potere fu affidato
a due consoli, Bruto e Collatino nel 509.
Delle teorie proposte per spiegare il passaggio dalla monarchia romana
alle magistrature repubblicane due sono le più diffuse:
·
il
concetto dell’evoluzione continua e necessaria,
·
l’idea
di un’innovazione improvvisa ricollegabile all’imitazione di istituti stranieri
(greci, latini o anche etruschi).
Agli inizi dello stato repubblicano, prima dell’affermazione delle
magistrature collegiali, ci fu una fase di magistrature singole o preminenti, a
carattere prevalentemente militare, quasi dittature stabili, sostituitesi alla
regalità arcaica.
L’ordinamento repubblicano – Le maggiori cariche della Repubblica
romana, delineatasi tra il V e il IV secolo erano di carattere elettivo, erano rinnovate
periodicamente, erano un servizio
prestato gratuitamente ed erano collegiali, cioè vi erano almeno due
magistrati per ogni carica.
·
I due consoli, che restavano in carica un
anno, comandavano l’esercito, convocavano il senato e i comizi, e giudicavano i
reati più gravi.
·
i questori che si occupavano
originariamente della finanza ebbero in seguito parte dei compiti dei consoli.
·
un dittatore che poteva essere nominato nei
momenti di grande pericolo per lo Stato, in carica per sei mesi, sostituiva i
consoli.
·
i pretori, in origine comandanti delle
truppe fornite dalle tre tribù dei Ramnii, Tizii e Luceri
e poi amministratori di funzioni giudiziarie
·
i censori (dal 443) che rimanevano in
carica diciotto mesi, ogni cinque anni, con l’incarico di compilare le liste
del censo e dei senatori, in seguito, di vigilare sulla condotta morale dei
cittadini.
·
il senato era composto da coloro che
avevano già esercitato una delle magistrature superiori. Aveva un potere di
tipo consultivo, ma, di fatto, diventò l’organo più importante in quanto
doveva approvare le proposte di legge, controllare le finanze, deliberare sulla
guerra e sulla pace, concedere la cittadinanza e l’autonomia a città e
popolazioni e istituire le province.
·
i comizi curiati già esistenti in età
regia, conservarono il solo compito di conferire la formale investitura sacrale
ai magistrati
·
i comizi
centuriati costituivano le assemblee popolari, eleggevano consoli e
magistrati, approvavano le proposte del senato ed esercitavano funzioni
giudiziarie. La popolazione fu divisa in 193 centurie, ognuna portatrice
di un voto; le prime 98 erano costituite dai cittadini più ricchi (anche
plebei) che così avevano la maggioranza.
Le prime guerre di Roma repubblicana – Le prime guerre condotte
dalla Roma repubblicana mirarono a riaffermare la propria importanza in seno
della Lega latina: le città latine,
preoccupate del rafforzamento di Roma, la affrontarono federate nella Lega
latina, un’alleanza di tipo difensivo, e, dopo un conflitto (496-493) da
cui le città latine uscirono sconfitte, il console Spurio Cassio firmò con queste città il Foedus Cassianum, un patto favorevole a Roma.
Iniziò così la fase espansiva di Roma e fino al 430 Roma
combatté altre guerre: con l’aiuto delle città-stato latine, di cui si era
posta a capo in base al Foedus Cassianum,
la città si annesse nuovi territori, sconfiggendo i Volsci e gli Equi,
dando inizio alla pratica della deduzione delle colonie. Di queste due guerre
rimasero leggendarie le gesta di Coriolano che passò dalla parte dei
Volsci, ma poi si ritirò, andando incontro alla morte, e di Cincinnato
che ritornò all’attività di agricoltore dopo aver sconfitto valorosamente i
Volsci, senza pretendere alcun tributo di ringraziamento.
Dopo la sconfitta dei Volsci,
ragioni economiche spinsero Roma alla guerra contro la città etrusca di Veio
che, dopo un lungo assedio, fu espugnata e distrutta da Furio Camillo nel 396.
Roma, per la prima volta annesse i territori conquistati, che non diventarono
colonie latine, ossia cioè di tutta la compagine, ma territori esclusivamente
romani. Ciò perché Roma in questo caso agì da sola, non essendo la guerra
contro Veio e contro le città confinanti d’interesse per le altre città che
componevano la Lega.
La pratica dell’annessione d’ora
in avanti si diffuse sempre più, trasformando progressivamente Roma nella
massima potenza italica e permettendole di sciogliere la stessa Lega latina.
Successivi alla conquista dei
territori etruschi furono l’invasione ed il saccheggio gallico di Roma del 390.
Da questo episodio Roma ebbe una
nuova alleata, la vicina città etrusca di Caere,
col cui aiuto essa riuscì a frenare l’avanzata gallica nel 383: Caere ottenne i
legami più stretti con Roma, come ad esempio il diritto di ospitalità.
In questi anni Roma continuava a
crescere (sia a nord sia a sud), tanto sul piano dei territori quanto su quello
delle zone d’influenza.
Le tensioni interne a Roma tra patrizi e plebei - Fin dai primi
anni della Repubblica si diffuse il malcontento tra i plebei, costretti al
servizio militare senza ricevere il ricavato dei bottini ed esclusi
dall’accesso alle magistrature e dal matrimonio con i patrizi.
La prima protesta fu attuata nel
494 a.C. quando i plebei, ritiratisi sul Monte Sacro o, secondo un’altra
tradizione sull’Aventino, decisero di non lavorare e di non combattere. Il
patrizio Menenio Agrippa riuscì a convincerli a tornare, promettendo
delle riforme in loro favore.
I plebei ottennero così l’istituzione:
·
dei
tribuni della plebe, che difendevano i loro interessi e avevano
diritto di veto sulle decisioni dei magistrati,
·
dell’assemblea
·
dell’edilità, una magistratura in cui due rappresentanti plebei, gli edili, affiancando i tribuni, curavano
gli interessi della plebe.
Nel 451-450, alcuni patrizi,
riuniti nel collegio dei decemviri, redassero un corpo scritto di leggi
penali e civili, la Legge delle XII tavole, con cui i plebei ottenevano
diritti pari ai patrizi.
La lotta continuò e, con le leggi
Licinie Sestie del 367 i plebei ottennero:
·
l’abolizione del divieto dei matrimoni misti,
·
l’accesso alla questura, al consolato e ai
collegi sacerdotali,
Con la legge Ortensia del
287 i plebei ottennero il riconoscimento giuridico delle assemblee della plebe,
dette comizi tributi le cui deliberazioni, i plebisciti erano
vincolanti per tutto il popolo.
I Sanniti conquistano la Campania - La costituzione di uno stato
federale del Sannio, con la Lega
sannitica, nacque dall’esigenza di tutelare interessi economici comuni alle
genti appenniniche, ma anche delle attività economiche che si differenziavano
dalle popolazioni di pianura. I Sanniti erano stanziati nelle terre e negli
altipiani compresi nella catena montuosa degli Appennini, per un lungo tratto
del centro e del meridione d’Italia, avevano un’economia prevalentemente basata
sull’allevamento animale, rispetto alle popolazioni delle pianure che si
estendevano dagli Appennini verso i mari e dove l’agricoltura era l’attività
preponderante.
Durante il V secolo i Sanniti
iniziarono a scendere dai monti del Matese lungo la Valle del Volturno, per
espandersi nell’attuale Campania, ricca zona di confine tra le influenze
etrusca e greca. Alla metà del secolo, approfittando della debolezza etrusca e
delle discordie interne tra i Greci, i Sanniti si impadronirono di Capua e di
Cuma. Queste lotte di espansione dei Sanniti nascevano dall’esigenza di
reperire nuovi pascoli per il proprio bestiame a discapito delle terre
coltivate dalle popolazioni di pianura e quindi, da una contesa tra allevatori ed agricoltori.
All’epoca, i mercati più ricchi
erano gli insediamenti degli Etruschi dell’agro campano e, spostandosi verso la
costa tirrenica lungo il corso del Volturno, giungevano fino alle colonie di
Cuma e del suo golfo, da secoli dominio dei Greci.
Le direttrici d’espansione dei
Sanniti furono essenzialmente due:
·
la prima fu la conquista ed il controllo di
Capua, grande mercato nell’enclave
etrusco delle merci e delle mercanzie da e per i territori del Lazio e
dell’Etruria;
·
la seconda fu verso le colonie greche di Cuma e
di Poseidonia, dove si puntava a raggiungere ed a mantenere una discreta
presenza commerciale per usufruire della rete comunicativa esistente tra le
colonie della Magna Graecia e dei traffici tra queste e gli stanziamenti
dell’Etruria meridionale e dell’alto Lazio.
Il controllo di questi
stanziamenti rappresentò il traguardo da raggiungere, per portare a maggior
profitto le merci prodotte nel Sannio e per controllare che gli Etruschi non
ostacolassero lo sviluppo dell’economia pastorale a favore degli appezzamenti
di terreno coltivato, sottraendo così fertili aree alle grandi masse di mandrie
di cui i Sanniti avevano bisogno per l’allevamento.
La loro espansione si scontrò
quindi con gli insediamenti agricoli degli Etruschi, che dell’agro capuano
avevano fatto il loro ricco granaio.
Quando la Lega Sannitica si spinse verso i territori che si aprivano verso le
coste tirreniche, riuscirono a trasformare le sparse popolazioni indigene di
quelle terre in un’unità tribale e la città etrusca di Capua diventò capitale
dei Campani, estromettendo l’etnia etrusca a vantaggio delle popolazioni natie.
I rapporti commerciali e di
amicizia tra i Touti stanziati e
confinanti in quell’area si incrinarono, quando gli interventi romani per la
salvaguardia dei propri interessi economico-espansionistici verso il sud
dell’Italia diventarono pressanti.
La decadenza degli Etruschi - A metà del IV secolo gli Etruschi avevano
ormai perso la Campania, passata ai Sanniti, la Corsica, passata ai Greci, ed
ampie zone dell’Etruria meridionale, passate ai Romani.
Dalla metà del IV secolo la
potenza commerciale e militare degli Etruschi si era ridotta a città-stato,
arroccate nei loro territori di origine nell’Italia centrale. In Padania i
Celti continuavano infatti ad avanzare: avevano oltrepassato il Po ed erano
arrivati all’Adriatico. La Padania etrusca era scomparsa.
Alla distruzione romana di
Veio nel 395 seguì la conquista di
Sutri e Nepi, poi, avendo i Tarquinati cominciato a saccheggiare l’agro
romano nelle zone di confine dell’Etruria, Roma scese in guerra contro Tarquinia.
Nel 312 gli Etruschi decisero di
armarsi contro Roma, allora alle prese con i Sanniti. Una guerra su due fronti
era pericolosissima per Roma. Era la prima
guerra etrusca contro Roma. Nel 311 iniziarono le ostilità. Nel 302 scoppiò
una guerra civile ad Arezzo: la plebe si sollevò per scacciare la potente
famiglia etrusca dei Cilnii, di
stirpe reale, e questi chiamarono in aiuto i Romani, con cui avevano stretto
una pace trentennale: il dittatore Marco Valerio Massimo sconfisse le forze
etrusche nei pressi di Roselle e fu concluso un armistizio biennale.
Dall’irruzione dei Galli all’espansione di Roma nella penisola – Verso
il 400 i Celti superarono le Alpi, abbandonando il loro stanziamento nella
Germania meridionale ed entrarono nella pianura padana e continuarono la loro
calata verso sud. Quando i Celti valicarono l’Appennino, nessun esercito fu
schierato a difesa dell’Etruria: nel 390 alcune
migliaia di uomini, guidati da Brenno,
devastarono Chiusi e calarono sul Lazio, saccheggiando e incendiando anche
Roma. Lo scacco subito dalla città spinse i vecchi nemici, alleati o
sottomessi, a ribellarsi, ma Roma, in una serie di guerre svoltesi in circa 40
anni, riuscì a ristabilire il suo potere.
Lo scontro romano-sannita – Nel 343,
in cambio della completa sottomissione, Roma intervenne in aiuto di Capua
contro i Sanniti che, dopo il crollo etrusco, avevano occupato la Campania.
Iniziò così un conflitto per il controllo dell'Italia centro-meridionale che
durò oltre 50 anni.
Tra
il 343 e il 341 a.C. i Romani ottennero le prime vittorie.
Un
secondo conflitto, tra il 340 e il 338 a.C., oppose i Romani ai Sanniti
affiancati dalla Lega latina. Al termine i Romani vittoriosi trasformarono le
città laziali in municipi o città federate.
Tra
il 326 e il 304, Roma, nonostante lo scacco delle Forche Caudine (i militari denudati dovettero passare
sotto un giogo di lance davanti ai nemici) ottenne altre vittorie.
Con
l'ultimo conflitto, tra il 298 e il 290, i Sanniti furono definitivamente
sconfitti con i loro alleati Galli, Etruschi e Umbri. Roma, padrona dell'Italia
centrale, mirò alla Magna Grecia.
La patrios politeia
Alla base della società
greca primitiva intorno all'800 a.C. si collocavano le famiglie riunite in clan[1]
e in tribù[2].
Durante i secoli IX e X a.C., con l’espansione commerciale e coloniale, un gran
numero di Greci si era reso indipendente dai legami terrieri arcaici, segnando
l’inizio del declino della classe aristocratica.
Nel 630 a.C. ad Atene fu
suscitato un primo tentativo di tirannide da parte di Cilone che sfruttò una
condizione di malcontento popolare.
In un passato mitico il
primo sincretismo[3] politico, di natura
vagamente democratica, fu considerato attuato da Teseo. Teseo si configurò come
un basilèus cui fu
attribuito il ruolo di creatore di una prima democrazia, per aver ceduto almeno
una parte dei poteri al démos.
Il primo vero passo
verso la democrazia può essere considerato tuttavia l’opera attuata da Dracone
nel VII secolo a.C. che mise per iscritto le leggi di una tradizione orale, per
volere degli aristocratici.
Quando però l’Attica fu
scossa da una crisi agraria che causò disordini civili, fu nominato per la
città di Atene un aisymnetes (magistrato) affinché
regolasse la situazione politica e sociale.
Essendo stato nominato
Solone (ca.594/3 o 592/1 a.C.) per questa carica, dunque, si avviò il principio democratico,
ossia l'inizio evolutivo di questa forma di governo.
T 2 Elegia alle Muse
Di Solone[4]
La poesia di
Solone risente spesso del suo impegno politico.
Fra i testi a
lui attribuiti compaiono anche testi di carattere autobiografico, ma egli
trattò principalmente di politica e di morale.
La triade
concettuale da lui introdotta, fu fondamentale per la letteratura greca:
·
la ὕβρις (hýbris): il peccato di presunzione esso è il
male, inteso come tracotanza, ed è una scelta dell'uomo;
·
ἄτη (ate): è un
procedimento di degradazione (accecamento) a cui gli dei sottopongono chi si è
macchiato di ὕβρις;
·
δίκη (dike): è
il motore del processo di giustizia divina.
Nell’Elegia alle
muse raggiunge una consapevolezza maggiore: non sono le Muse a prendere
l’iniziativa di parlare all’uomo o di dare l’investitura, ma è l’uomo stesso
che si rivolge loro, non come servo, ma con un invito ad ascoltare la sua
richiesta di ottenere fama e celebrità e di poter trasmettere la verità con il
consenso di quelle depositarie della memoria e della verità collettiva. Le Muse
sono, infatti, le garanti della giusta relazione che s’instaura tra gli uomini.
O
di Mnemòsine[5]
figlie fulgenti e del Sire d’Olimpo,
Pièrie[6]
Muse, ascolto date a me che vi prego.
Fate
che felicità mi concedano i Numi, e ch’io goda
presso
i mortali fama perennemente buona,
ed
agli amici sia gradevole, amaro ai nemici,
esultino
a vedermi questi, e tremino quelli.
Ricchezza,
averne bramo, ma farne empio acquisto non bramo:
ché
sopraggiunse sempre, sia pur tarda, Giustizia.
Quanto
a Ricchezza, quella che i Numi concedono, salda
dalla
base alla cima rimane al possessore:
quella
che col Sopruso si lucra, non sa regolarsi,
anzi,
sedotta, i passi segue del Male Oprare,
sinché
piomba improvvisa su lei la Vendetta Divina.
Comincia
essa dal poco, come avviene pel fuoco:
debole
su le prime: ma niuno alla fin le resiste:
chè
Sopruso vantaggio non arreca ai mortali.
Ma
d’ogni cosa Zeus preordina il fine; e, improvviso,
come
subito vento primaverile sperde le nubi,
e
dal profondo sconvolge gl’innumeri[7]
flutti
del
mar che non si miete, poi della terra i campi
belli,
feraci di spelta[8],
distrugge, ed ascende alla sede
alta
dei Numi, al cielo torna sereno l’ètra.
E
su la pingue terra scintilla la forza del sole
bella,
né più si vede traccia di nube in cielo:
procede
la Vendetta di Zeus così; né lo sdegno
affila,
come gli uomini fanno, caso per caso;
ma
non le resta sempre nascosto chi cuore malvagio
chiude
nel seno; e tutto vien finalmente a luce.
E
questi lì per lì paga il fio[9],
quegli dopo; e se pure
gli
sfugge alcuno, e l’Ira dei Numi non lo coglie,
pure
il momento arriva: la colpa i figliuoli innocenti
per
lui scontano, oppure la più tarda progenie.
Tutti
noialtri mortali, sia buoni, sia tristi, nutriamo
opinione
grande di noi, sinché ci colga
qualche
malanno: allora son lagni[10];
ma fino a quel punto
ci
lusinghiam[11]
con vane speranze, a bocca aperta.
E
quegli ch’è schiacciato dal peso di gravi malanni,
s’illude
che fra poco godrà fior di salute:
un
altro, ch’è pusillo[12],
s’immagina d’essere un prode:
uno
di forme poco venuste, d’esser bello:
uno
senz’arte né parte, gravato d’eterna miseria,
spera
d’averne, quando che sia, ricchezza a iosa[13].
Tutti,
chi qua, chi là, si danno da fare. Va errando
questi
sul mar pescoso, ché nel suo legno[14]
deve
portare
a casa il lucro: lo sbattono i venti funesti:
pure,
egli alla sua vita non ha riguardo alcuno.
Serve
per tutto l’anno, scalzando la terra alberata,
un
altro, a cui la cura spetta dei curvi aratri.
Un
altro che d’Atèna, d’Efesto, maestro dell’arti,
l’opere
apprese, il pane con le braccia guadagna.
Un
altro, a cui le Muse d’Olimpo largirono[15]
il dono,
apprese
i modi tutti dell’amabil scienza.
Concesse
a un altro il Dio dell’arco[16]
il profetico dono,
e il mal da lungi
vede che contro un uomo avanzi,
quando lo
inviano i Numi; ma quello che vuole il Destino,
nessun augurio[17]
può schermir, nessuna offerta.
Chi
l’arte di Peòne[18],
maestro di farmachi, apprese,
è
medico; e pur egli non va mai sul sicuro;
sovente
si sviluppa da piccola doglia un gran male,
né
veruno[19]
curarlo può coi farmachi blandi;
ed
uno ch’è gravato da pena d’orribile morbo,
basta
su lui la mano porre, ed eccolo sano.
Reca
la Parca ai mortali malanni commisti a fortune,
né
può l’uomo schivare ciò che mandano i Numi.
In
ogni opera a tutti sovrasta pericolo: e niuno
sin
da principio sa quale sarà la fine.
(traduzione di
Ettore Romagnoli)
Dall’intermezzo
costituito dalla tirannide di Pisistrato (561 a.C.) che donò splendore
artistico alla città di Atene, si passò alla riforma di Clistene (508 a.C.) che
rappresentò solo una forma più popolare
rispetto a quella di Solone.
Il momento della
democrazia radicale fu contrassegnato dall'abbattimento dell'areopagocrazia,
periodo centrale e di equilibrio politico nella concezione aristotelica. L'avvento
di questa forma radicale della democrazia (462/1 a.C.) fu segnato dalle figure
di Efialte, promotore della riforma del 462 e di Pericle.
Efialte,
sfruttando l’emergere a ruolo politico della classe dei teti che si era emancipata con la
partecipazione agli equipaggi navali, i quali avevano dato ad Atene il ruolo di
potenza marittima, Efialte ridimensionò ulteriormente i poteri dell’Areopago, l’antica assemblea aristocratica,
alla quale furono lasciate solo competenze religiose e giudiziarie.
Efialte
fu assassinato pochi mesi dopo, ma la sua caduta portò alla ribalta Pericle, uno stratego della nobilissima
famiglia degli Alcmeonidi, il quale fece del rispetto delle
istituzioni democratiche una prerogativa della sua politica, fondata su un
grande carisma che non volle però mai dotarsi di un potere personale.
Le
due principali riforme attribuite a Pericle sono:
·
l’introduzione del misthós, cioè la pratica della
retribuzione ai cittadini occupati in incarichi pubblici, cosa che divenne
grande collante per la democrazia, pur introducendo elementi destabilizzanti
proprio perché dava potere ai meno abbienti, ma spesso anche ai meno istruiti ed
ai meno dotati, accusa questa mossagli da molti fra cui Platone.
·
l’attribuzione della cittadinanza ateniese ai soli figli di
padre e madre ateniesi,
mentre in passato sarebbe bastato essere figli di padre ateniese. Questa norma
ebbe conseguenze stabilizzanti sul piano sociale, ma ampliò il divario
esistente tra cittadini e non cittadini.
Qui ad Atene noi facciamo così
Da La guerra del Peloponneso
di Tucidide
·
Il brano è tratto
dal discorso di Pericle in commemorazione dei caduti del primo anno di guerra (431
a.C.), riportato (o ricostruito) da Tucidide nel libro II della Guerra del Peloponneso.
·
Vi si trova una
rappresentazione orgogliosa della città che esercita un’egemonia incontrastata
nel mondo greco. Pericle ne sottolinea la superiorità sul piano culturale e
politico, conferendole i titoli di merito che ne fanno la «maestra» dei greci,
e lasciando in ombra i motivi per cui la sua egemonia è diventata pesante e
minacciosa per molte pòleis.
·
Il modello politico
e formativo qui delineato ha esercitato un fascino straordinario sulla cultura
umanistica occidentale. Nonostante si tratti evidentemente di
un’idealizzazione, ciò che Pericle dice sul senso della democrazia e sui valori
che costituiscono la persona umana ha fatto di Atene un mito che mantiene le
sue ragioni.
Abbiamo una costituzione che non emula[20] le leggi dei vicini, perché
noi siamo più d’esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo
che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è
chiamata democrazia: di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi
privati, a tutti spetta un piano di parità, mentre per quanto riguarda
l’amministrazione dello stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere
in un determinato campo, non per la provenienza da una classe sociale, ma più
che per quello che vale. E per quanto riguarda la povertà, se uno può fare
qualcosa di buono alla città, non ne è impedito dall’oscurità del suo rango
sociale.
Liberamente noi viviamo nei rapporti con la comunità, e in tutto quanto
riguarda il sospetto che sorge dai rapporti reciproci nelle abitudini giornaliere,
senza adirarci con il vicino se fa qualcosa secondo il suo piacere e senza
infliggerci a vicenda molestie che, sì, non sono dannose, ma pure sono
spiacevoli ai nostri occhi.
Senza danneggiarci esercitiamo reciprocamente i rapporti privati e, nella
vita pubblica, il rispetto soprattutto ci impedisce di violare le leggi, in
obbedienza a chi è nei posti di comando, e alle istituzioni, in particolare a
quelle poste a tutela di chi subisce ingiustizia o che, pur essendo non
scritte, portano a chi le infrange una vergogna da tutti riconosciuta. […]
Amiamo il bello, ma con semplicità, e ci dedichiamo al sapere, ma senza
debolezza; adoperiamo la ricchezza più per la possibilità di agire che essa
offre, che per sciocco vanto[21] di discorsi, e la povertà
non è vergognosa ad ammettersi per nessuno, mentre lo è assai più il non darsi
da fare per liberarsene.
Riuniamo in noi la cura degli affari pubblici insieme con quella degli
affari privati e, se anche ci dedichiamo ad altre attività, pure non manca in
noi la conoscenza degli interessi pubblici.
Siamo i soli, infatti, a considerare non già ozioso, ma inutile chi non se
ne interessa, e noi Ateniesi o giudichiamo o, almeno, pensiamo convenientemente
le varie questioni, senza pensare che il discutere sia un danno per l’agire, ma
che lo sia piuttosto il non essere informati dalle discussioni prima di entrare
in azione. E di certo noi possediamo anche questa qualità in modo differente
dagli altri, cioè noi siamo i medesimi e nell’osare e nel ponderare al massimo
grado quello che ci accingiamo a fare, mentre negli altri l’ignoranza produce
audacia e il calcolo incertezza. È giusto giudicare superiori per forza d’animo
coloro che distinguono chiaramente le miserie e i piaceri, ma non per questo si
lasciano spaventare dai pericoli.
E anche per quanto riguarda la nobiltà d’animo, noi ci comportiamo in modo
opposto a quello della maggioranza: ci procuriamo gli amici non già col
ricevere i benefici, ma col farli. Chi ha fatto il favore è un amico più
sicuro, perché è disposto con una continua benevolenza verso chi lo riceve a
tener vivo in lui il sentimento di gratitudine, mentre chi è debitore, è meno
pronto, sapendo che restituisce una nobile azione non per fare un piacere ma
per pagare un debito. E siamo i soli a beneficare qualcuno senza timore, non
tanto per aver calcolato l’utilità del beneficio, ma per la fiducia che abbiamo
negli uomini liberi.
Concludendo, affermo che tutta la città è la scuola della Grecia, e mi
sembra che ciascun uomo della nostra gente volga individualmente la propria
indipendente personalità a ogni genere di occupazione, e con la più grande
versatilità accompagnata da decoro.
E che questo non sia ora un vanto di parole più che una realtà di fatto, lo
indica la stessa potenza della città, potenza che ci siamo procurata grazie a
questo modo di vivere. Sola tra le città di adesso, infatti, essa affronta la
prova in modo superiore alla sua fama, e lei sola al nemico che la assale non
dà motivo d’irritazione quando costui considera da chi è vinto, né al suddito,
motivo di disprezzo, come se costui non fosse dominato da persone degne.
Noi spieghiamo a tutti la nostra potenza con importanti testimonianze e
molte prove, e saremo ammirati dagli uomini di ora e dai posteri senza bisogno
delle lodi di un Omero o di un altro, che nei versi può dilettare per il
momento presente, mentre la verità sminuisce poi le opinioni concepite sui
fatti, ma per aver costretto tutto il mare e la terra a divenire accessibili
alla nostra audacia, stabilendo ovunque monumenti eterni delle nostre imprese
fortunate o sfortunate.
Per una tale città combattendo, costoro, che nobilmente pretesero di non
esserne privati, sono morti, e ognuno dei sopravvissuti è giusto che sia
disposto ad affrontare sofferenze per lei.
Comprensione del testo
1) Quali sono le
caratteristiche e i vantaggi della democrazia, secondo Pericle?
2) Quali sono i valori
che ispirano la condotta di vita di un ateniese?
3) Che cosa
rappresenta Atene per i greci?
4) Come si è
guadagnata il rispetto dei nemici e dei sudditi, l’amore dei cittadini?
Analisi del testo
1) Ricostruisci
l’elogio della democrazia fatto da Pericle, mettendo in evidenza il rapporto
tra uguaglianza e merito, il rispetto delle leggi, da un lato, della libertà
individuale, dall’altro.
2) Prova a fare un
ritratto dell’ateniese secondo i valori guida indicati da Pericle per la
formazione e la vita sociale.
3) Spiega come Pericle
fornisca una giustificazione indiretta alla guerra che si sta combattendo,
sostenendo le ragioni dell’egemonia ateniese.
Contestualizzazione
Svolgi una ricerca
per comprendere meglio il contesto del discorso di Pericle, riassumendo, da un
lato, la storia della democrazia e delle guerre di Atene, e attingendo,
dall’altro, alla storia dell’arte le informazioni sui monumenti che rendono
bella la città nel periodo della sua egemonia.
Il dialogo dei Meli
Da
La
guerra del Peloponneso di Tucidide
·
Estate del 416
a.C. nell’ambito della guerra del Peloponneso (che oppone Atene e Sparta come
città egemoni in un gioco di alleanze che investe tutto il mondo greco) a Melo,
isoletta delle Cicladi legata a Sparta da vincoli di stirpe, Atene ingiunge
formalmente di accettare la propria egemonia pagando un tributo. Melo si trova
davanti a un’alternativa: accettare il dominio e salvarsi, o resistere, cosa
che avrebbe causato l’assedio, la conquista e la distruzione della città.
·
Il rifiuto dei
melii dà luogo a una punizione esemplare, uno degli episodi più tragici della
guerra: la distruzione della città, l’uccisione di tutti gli uomini e la
deportazione come schiavi di donne e bambini. Lo Tucidide presenta come
antefatto il dialogo che gli ateniesi e gli ambasciatori dei melii avrebbero
avuto per discutere un accordo. Nel brano, la difesa dei melii del loro diritto
alla neutralità si fonda su criteri di giustizia condivisa, che comprendono il
riconoscimento reciproco di autonomia tra le pòleis; gli ateniesi oppongono
invece ragioni strategiche, ma soprattutto negano il valore di qualunque regola
o patto che non tenga conto della disparità di forze.
·
Nella narrazione
di Tucidide, l’episodio segnala il prevalere di una logica di guerra nei
rapporti tra greci: l’affermazione del diritto del più forte su qualunque
criterio di giustizia, equità, accordo.
Poi
gli Ateniesi mossero anche contro l'isola di Melo con trenta navi loro, sei di
Chio e due di Lesbo: vi erano imbarcati 1200 opliti ateniesi, 300 arcieri a
piedi e venti arcieri a cavallo; inoltre circa 1500 opliti forniti dagli
alleati e dagli abitanti delle isole. I Meli, che sono coloni spartani, non
volevano assoggettarsi, come facevano gli abitanti delle altre isole, al
predominio di Atene; ma, dapprima, se ne stavano tranquilli, senza schierarsi
né con gli uni né con gli altri; poi, siccome gli Ateniesi ve li costringevano
tormentando il loro territorio, erano venuti a guerra aperta.
Or
dunque i generali ateniesi Cleomede, figlio di Licomede, e Tisia, figlio di
Tisimaco, accampatisi nell'isola con le forze di cui si è parlato, prima di
mettere a ferro e a fuoco il paese, mandarono un'ambasceria per intavolare
trattative.
I
Meli, però, non li condussero davanti al consiglio popolare e li invitarono
invece a esporre lo scopo della loro venuta alla presenza dei magistrati e dei
maggiorenti.
Allora
gli inviati di Atene parlarono così: "Poiché non volete che noi esponiamo
le nostre ragioni davanti al popolo, per timore che esso si lasci ingannare una
volta che abbia sentito le nostre argomentazioni serrate, persuasive e che non
ammettono replica (infatti, è per tale scopo, lo comprendiamo che ci avete
condotti davanti a questo ristretto consiglio), voi che qui siete adunati
garantitevi una sicurezza ancor maggiore. Non aspettate nemmeno voi di dare una
risposta unica e conclusiva; ma vagliate ciò che noi diciamo punto per punto e
replicate subito se qualche affermazione vi pare poco opportuna. E, tanto per
cominciare, diteci se la nostra proposta incontra il vostro favore.”.
86.
I consiglieri dei Meli risposero così: "Sull’opportunità che i vari punti
siano vicendevolmente chiariti in tutta tranquillità, non c'è nulla da
obiettare sennonché, la guerra ormai è alle porte; non è solo una minaccia e
questo, pare, non si accorda con quanto proponete. Noi vediamo, infatti, che
siete venuti in veste di giudici di ciò che si dirà e che, alla conclusione,
questo colloquio porterà a noi la guerra se com'è naturale, forti del nostro
diritto, non cederemo; se invece accetteremo, avremo la schiavitù".
87.
Ateniesi: "Se, dunque, siete convenuti per fare sospettose supposizioni
riguardo al futuro o per altre ragioni, piuttosto che per esaminare la
situazione concreta che avete sotto gli occhi e prendere una decisione che
comporta la salvezza della vostra città, possiamo far punto; se, invece,
quest'ultimo è lo scopo del convegno, noi siamo pronti a continuare il
discorso".
88.
Meli: "È naturale, e merita anche scusa, che quando ci si trova in simili
frangenti si volgano parole e pensieri in mille parti: tuttavia, questa
riunione ha come primo intento la salvezza: e il colloquio si svolga pure, se
vi pare; nel modo da voi suggerito".
89.
Ateniesi: "Da parte nostra, non faremo ricorso a frasi sonanti; non diremo
fino alla noia che è giusta la nostra posizione di predominio perché abbiamo
debellato i Persiani e che ora marciamo contro di voi per rintuzzare offese
ricevute: discorsi lunghi e che non fanno che suscitare diffidenze. Però
riteniamo che nemmeno voi vi dobbiate illudere di convincerci col dire che non
vi siete schierati al nostro fianco perché eravate coloni di Sparta e che,
infine, non ci avete fatto torto alcuno. Bisogna che da una parte e dall'altra
si faccia risolutamente ciò che è nella possibilità di ciascuno e che risulta
da un'esatta valutazione della realtà. Poiché voi sapete tanto bene quanto noi
che, nei ragionamenti umani, si tiene conto della giustizia quando la necessità
incombe con pari forze su ambo le parti; in caso diverso, i più forti
esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano".
90.
Meli: "Orbene, a nostro giudizio almeno, l'utilità stessa (poiché di
utilità si deve parlare, secondo il vostro invito, rinunciando in tal modo alla
giustizia) richiede che non distruggiate quello che è un bene di cui tutti
possono godere; ma quando qualcuno si trova nel pericolo, non gli sia negato
ciò che gli spetta ed è giusto; e anche, per quanto deboli siano le sue
ragioni, possa egli trarne qualche vantaggio, convincendone gli avversari.
Questa politica sarà soprattutto utile per voi, poiché, in caso di insuccesso,
servirete agli altri d'esempio per l'atroce castigo".
91.
Ateniesi: "Non siamo preoccupati, anche se il nostro impero dovesse
crollare, per la sua fine: poiché, per i vinti, non sono tanto pericolosi i
popoli avvezzi al dominio sugli altri, come ad esempio, gli Spartani (d'altra
parte, ora, noi non siamo in guerra con Sparta), quanto piuttosto fanno paura i
sudditi, se mai, assalendo i loro dominatori, riescano a vincerli. Ma, se è per
questo, ci si lasci pure al nostro rischio. Siamo ora qui, e ve lo
dimostreremo, per consolidare il nostro impero e avanzeremo proposte atte a
salvare la vostra città, poiché noi vogliamo estendere il nostro dominio su di
voi senza correre rischi e nello stesso tempo salvarvi dalla rovina, per
l'interesse di entrambe le parti".
92.
Meli: "E come potremmo avere lo stesso interesse noi a divenire schiavi e
voi ad essere padroni?".
93.
Ateniesi: "Poiché voi avrete interesse a fare atto di sottomissione prima
di subire i più gravi malanni e noi avremo il nostro guadagno a non
distruggervi completamente".
94.
Meli: "Sicché non accettereste che noi fossimo, in buona pace, amici
anziché nemici, conservando intatta la nostra neutralità?".
95.
Ateniesi: "No, perché ci danneggia di più la vostra amicizia, che non
l'ostilità aperta: quella, infatti, agli occhi dei nostri sudditi, sarebbe
prova manifesta di debolezza, mentre il vostro odio sarebbe testimonianza della
nostra potenza".
96.
Meli: "E i vostri sudditi sono così ciechi nel valutare ciò che è giusto,
da porre sullo stesso piano le città che non hanno con voi alcun legame e
quelle che, per lo più vostre colonie, e alcune addirittura ribelli, sono state
ridotte al dovere?".
97.
Ateniesi: "Essi pensano che, tanto agli uni che agli altri, non mancano
motivi plausibili per difendere la loro causa; ma ritengono che alcuni siano
liberi perché sono forti e noi non li attacchiamo perché abbiamo paura. Sicché,
senza contare che il nostro dominio ne risulterà più vasto, la vostra
sottomissione ci procurerà maggior sicurezza; tanto più se non si potrà dire
che voi, isolani e meno potenti di altri, avete resistito vittoriosamente ai
padroni del mare".
98.
Meli: "E con l'altra politica, non pensate di provvedere alla vostra
sicurezza? Poiché voi, distogliendoci dal fare appello alla giustizia, ci
volete indurre a servire alla vostra utilità, bisogna pure che noi, qui, a
nostra volta, cerchiamo di persuadervi, dimostrando qual è il nostro interesse
e se per caso non venga esso a coincidere anche con il vostro. Or dunque tutti
quelli che ora sono neutrali non ve li renderete nemici, quando, osservando
questo vostro modo di agire, si faranno la convinzione che un giorno voi
andrete anche contro di loro? E in questo modo, che altro farete voi se non
accrescere i nemici che già avete e trascinare al loro fianco, pur contro
voglia, coloro che fino ad ora non ne avevano avuto nemmeno
l'intenzione?".
99.
Ateniesi: "No, perché non riteniamo per noi pericolosi quei popoli che
abitano sul continente e che, per la libertà che godono, ci vorrà del tempo
prima che facciano a noi il viso dell'armi; sono piuttosto gli abitanti delle
isole che ci fanno paura; quelli che, qua e là, come voi, non sono sottomessi
ad alcuno; e quelli che mal si rassegnano ormai ad una dominazione imposta
dalla necessità. Costoro, infatti, molto spesso affidandosi ad inconsulte
speranze, possono trascinare se stessi in manifesti pericoli e noi con
loro".
100.
Meli: "Or dunque, se voi affrontate cosi gravi rischi per non perdere il
vostro predominio e quelli che ormai sono vostri schiavi tanti ne affrontano
per liberarsi di voi, non sarebbe una grande viltà e vergogna per noi, che siamo
ancora liberi, se non tentassimo ogni via per evitare la schiavitù?".
101.
Ateniesi: "No; almeno se voi deliberate con prudenza: poiché questa non è
una gara di valore tra voi e noi, a condizione di parità, per evitare il
disonore; ma si tratta, piuttosto, della vostra salvezza, perché non abbiate ad
affrontare avversari che sono di voi molto più potenti".
102.
Meli: "Ma sappiamo pure che le vicende della guerra prendono talvolta
degli sviluppi più semplici che non lasci prevedere la sproporzione di forze
fra le due parti. Ad ogni modo, per noi cedere subito significa dire addio a
ogni speranza: se, invece, ci affidiamo all'azione, possiamo ancora sperare che
la nostra resistenza abbia successo".
103.
Ateniesi: "La speranza, che tanto conforta nel pericolo, a chi le affida
solo il superfluo porterà magari danno, ma non completa rovina. Ma quelli che a
un tratto di dado affidano tutto ciò che hanno (poiché la speranza è, per
natura, prodiga) ne riconoscono la vanità solo quando il disastro è avvenuto; e,
scoperto che sia il suo gioco, non resta più alcun mezzo per potersene guardare
in futuro. Perciò, voi che non siete forti e avete una sola carta da giocare,
non vogliate cadere in questo errore. Non fate anche voi come i più che, mentre
potrebbero ancora salvarsi con mezzi umani, abbandonati sotto il peso del male
i motivi naturali e concreti di sperare, fondano la loro fiducia su ragioni
oscure: predizioni, vaticini, e altre cose del genere, che incoraggiano a
sperare, ma poi traggono alla rovina".
104.
Meli: "Anche noi (e potete ben crederlo) consideriamo molto difficile
cimentarci con la potenza vostra e contro la sorte, se non sarà ad entrambi
ugualmente amica. Tuttavia abbiamo ferma fiducia che, per quanto riguarda la
fortuna che procede dagli dei, non dovremmo avere la peggio, perché, fedeli
alla legge divina, insorgiamo in armi contro l'ingiusto sopruso; quanto all'inferiorità
delle nostre forze, ci assisterà l'alleanza di Sparta, che sarà indotta a
portarci aiuto, se non altro, per il vincolo dell'origine comune e per il
sentimento d'onore. Non è, dunque, al tutto priva di ragione la nostra
audacia".
105.
Ateniesi: "Se è per la benevolenza degli dèi, neppure noi abbiamo paura di
essere da essi trascurati; poiché nulla noi pretendiamo, nulla facciamo che non
s'accordi con quello che degli dei pensano gli uomini e che gli uomini stessi
pretendono per sé. Gli dèi, infatti, secondo il concetto che ne abbiamo, e gli
uomini, come chiaramente si vede, tendono sempre, per necessità di natura, a
dominare ovunque prevalgano per forze. Questa legge non l'abbiamo istituita noi,
non siamo nemmeno stati i primi ad applicarla; così, come l'abbiamo ricevuta e
come la lasceremo ai tempi futuri e per sempre, ce ne serviamo, convinti che
anche voi, come gli altri, se aveste la nostra potenza, fareste altrettanto. Da
parte degli dèi, dunque, com'è naturale, non temiamo di essere in posizione di
inferiorità rispetto a voi. Per quel che riguarda l'opinione che avete degli
Spartani, e sulla quale basate la vostra fiducia che essi accorreranno in
vostro aiuto per non tradire l'onore, noi vi complimentiamo per la vostra
ingenuità, ma non possiamo invidiare la vostra stoltezza. Gli Spartani,
infatti, quando si tratta di propri interessi e delle patrie istituzioni, sono
più che mai seguaci della virtù; ma sui loro rapporti con gli altri popoli,
molto ci sarebbe da dire: per riassumere in breve, si può con molta verità
dichiarare che essi, più sfacciatamente di tutti i popoli che conosciamo,
considerano virtù ciò che piace a loro e giustizia ciò che loro è utile: un tal
modo di pensare, dunque, non si accorda con la vostra stolta speranza di
salvezza.
106.
Meli: Anzi, è proprio questa la ragione che ci infonde la massima fiducia in
quello che è un effettivo interesse loro: non vorranno essi, tradendo i Meli
che sono loro coloni, suscitare il sospetto fra i Greci amici e favorire in tal
modo i loro nemici".
107.
Ateniesi: "Voi, dunque, non siete convinti che l'interesse di un popolo s’identifichi
con la sua sicurezza, mentre giustizia e onestà si servono a rischio di
pericoli: e questo è un coraggio che, di solito, gli Spartani assolutamente non
dimostrano".
108.
Meli: "Eppure noi siamo sicuri che, per la causa nostra, essi
affronteranno più volentieri anche i pericoli e meno gravi li giudicheranno in
confronto agli altri; perché, come campo di azione, siamo vicini al Peloponneso
e, per disposizione d'animo, data la comune origine, diamo una garanzia di
fedeltà maggiore degli altri". 109. Ateniesi: "Non è tanto la simpatia
di coloro che invocano l'aiuto che garantisce la sicurezza di chi si accinge a
portarlo, quanto, piuttosto, la superiorità effettiva delle loro forze: a
questo gli Spartani badano anche più degli altri (non si fidano, si vede, della
propria potenza e, per marciare contro i vicini, hanno bisogno dell'appoggio di
molti alleati); sicché non c’è da pensare che essi facciano uno sbarco in
un'isola, quando siamo noi i padroni del mare".
110.
Meli: "Potrebbero, però, incaricare altri dell'impresa: è vasto il mare di
Creta, e sarà meno facile ai padroni del mare intercettare i convogli nemici,
che a questi mettersi in salvo se vogliono non farsi scorgere. E se anche qui
dovessero fallire, potrebbero volgersi contro il vostro paese e contro quello
dei vostri alleati che non sono stati attaccati da Brasida[22];
e così voi dovreste combattere non tanto per un paese estraneo, quanto per
difendere i vostri alleati e il vostro stesso paese".
111.
Ateniesi: "In tal caso non si tratterebbe di un’esperienza nuova, nemmeno
per voi, che ben sapete come gli Ateniesi non si siano mai ritirati da alcun
assedio, per paura d'altri. Osserviamo, invece, che, mentre dicevate di voler
deliberare per la vostra salvezza, nulla in così lungo colloquio avete ancora
detto, che possa giustificare in un popolo la fiducia e la certezza che esso sarà
salvato dalla rovina: la vostra massima sicurezza è affidata a speranze che si
volgono al futuro; le forze di cui al momento disponete non sono sufficienti a
garantirvi la vittoria su quelle che, già ora, vi sono contrapposte. Darete,
quindi, prova di grande stoltezza di mente, se anche dopo che ci avrete congedato,
non prenderete qualche altra decisione che sia più saggia di queste. Poiché non
dovrete lasciarvi fuorviare dal punto d'onore che tanto spesso porta gli uomini
alla rovina tra pericoli inevitabili e senza gloria. Molti, infatti, che pur
vedevano ancor chiaramente a quale sorte correvano, furono attirati da quello
che noi chiamiamo sentimento d'onore, dalla suggestione di un nome pieno di
lusinghe; sicché, soggiogati da quella parola, in effetto piombarono ad occhi
aperti in mali senza rimedio, attirandosi un disonore più grave di quello che
volevano fuggire, perché frutto della loro stoltezza, non imposto dalla sorte.
Da questo errore voi vi guarderete, se intendete prendere una buona decisione;
e converrete che non ha nulla di infamante il riconoscere la superiorità della
città più potente di Grecia, che ha propositi di moderazione; diventarne
alleati e tributari, conservando la sovranità nel vostro paese. Dato che vi si
offre la scelta tra la guerra e la vostra sicurezza, non ostinatevi nel partito
peggiore: il massimo successo arriderà sempre a quelli che s’impongono a chi ha
forze uguali, mentre con i più forti si comportano onorevolmente e quelli più
deboli trattano con moderazione e giustizia. Riflettete, dunque, anche quando
noi ci ritireremo; ripetetevi spesso che è per la patria vostra che deliberate;
che la patria è una sola, e la sua sorte da una sola deliberazione sarà decisa,
di salvezza o di rovina".
112.
Gli Ateniesi si ritirarono dalla sala del convegno; e i Meli, restati soli, costatato
che il loro punto di vista rimaneva presso a poco quale l'avevano esposto,
formularono questa risposta: "Noi, o Ateniesi, non la pensiamo
diversamente da prima; né mai ci indurremo a privare della sua libertà, in
pochi momenti, una città che ha già 700 anni di vita, ma, fidando nella buona
sorte che fino ad oggi, con l'aiuto degli dei, l’ha salvata e nell'appoggio
degli uomini, specie di Sparta, faremo di tutto per conservarla. Vi proponiamo
la nostra amicizia e neutralità, a patto che vi ritiriate dal nostro paese,
dopo aver concluso degli accordi che diano garanzia di tutelare gli interessi
di entrambe le parti".
113.
Tale fu la risposta dei Meli; e gli Ateniesi, mettendo fine ormai al colloquio,
dissero: "A quanto pare, dunque, da queste decisioni, voi siete i soli a
considerare i beni futuri come più evidenti di quelli che avete davanti agli
occhi; mentre con il desiderio voi vedete già tradotto in realtà ciò che ancora
è incerto e oscuro. Orbene, poiché vi siete affidati agli Spartani, alla
fortuna e alla speranza, e in essi avete riposto la fiducia più completa,
altrettanto completa sarà pure la vostra rovina".
114.
Gli inviati di Atene se ne tornarono, quindi, all'accampamento; e i generali
allora, vedendo che i Meli non volevano sentir ragione, subito si accinsero ad
atti di guerra, e, ripartitisi per città i vari settori, costruirono un muro
tutto intorno ai nemici. Poi gli Ateniesi lasciarono in terra e sul mare un
presidio formato di soldati loro e alleati; quindi, con la maggior parte delle
truppe si ritirarono. La guarigione rimasta sul posto continuò l'assedio.
115.
Nello stesso periodo, gli Argivi fecero irruzione nel territorio di Fliunte[23];
ma, sorpresi in un'imboscata dai Fliasii, che erano rinforzati dagli esuli di
Argo, lasciarono sul terreno circa ottanta uomini. Gli Ateniesi, rientrati da
Pilo, avevano portato un ricco bottino degli Spartani; questi, però, anche così
rifiutarono di rompere la tregua e far guerra aperta; tuttavia fecero
proclamare per mezzo di araldi che autorizzavano chiunque volesse dei loro a
depredare gli Ateniesi; i Corinzi per delle divergenze particolari dichiararono
guerra ad Atene: tutto il resto del Peloponneso se ne stava tranquillo. Una
notte i Meli attaccarono quella parte del muro degli Ateniesi che guardava la
piazza del mercato e l'espugnarono: uccisero alcuni difensori, introdussero in
città viveri e tutto quanto poterono trovare di generi utili, quindi si
ritirarono e stettero all'erta. Gli Ateniesi, in seguito, provvidero a
migliorare il servizio di guardia. Intanto anche l'estate volgeva al termine.
116.
Nell'inverno seguente gli Spartani fecero i preparativi per un’irruzione
nell'Argolide; ma, siccome i sacrifici fatti sui confini per il successo della
spedizione non erano stati favorevoli, si ritirarono. Gli Argivi allora, in
seguito a questo tentativo, sospettarono di complicità alcuni dei loro
concittadini: qualcuno fu arrestato, qualche altro si diede alla fuga. Nella
stessa epoca, i Meli con un nuovo assalto espugnarono un'altra parte del muro
ateniese, approfittando che le guardie non erano numerose. Ma più tardi,
siccome questi tentativi si ripetevano, venne da Atene una seconda spedizione,
al comando di Filocrate, figlio di Demeo; sicché, stretti ormai da un assedio
molto rigoroso, ed essendosi anche presentato il tradimento, i Meli si arresero
senza condizioni agli Ateniesi. Questi passarono per le armi tutti gli adulti
caduti nelle loro mani e resero schiavi i ragazzi e le donne: quindi occuparono
essi stessi l'isola e più tardi vi mandarono 500 coloni.
Comprensione
del testo
1. Con quali argomentazioni gli ateniesi chiedono ai
melii di sottomettersi?
2. Quali argomenti invocano i melii a difesa della loro
autonomia? Elencali, annotando quando lo fanno in nome del giusto o dell’utile.
3. Come giustificano i melii la decisione di non
arrendersi?
4. Come rifiutano gli ateniesi l’accusa di mettersi
contro la divinità e la giustizia?
5. Ricostruisci l’analisi strategica degli ateniesi che
giustifica l’esigenza di ottenere sottomissione e non amicizia dai melii.
6. Spiega quali valori, secondo i melii, andrebbero
completamente persi se si accettasse la logica del dominio e della sottomissione.
7.
Il dialogo
rivela un’irriducibile divergenza tra gli ateniesi e i melii. Pensi che ciò sia
frutto della differente posizione nei rapporti di potere o di una diversità di
principi?
Analisi
del testo
1. La forza giustifica il dominio?
2. Che cosa dà il diritto ad una popolazione di dominare altre popolazioni, se
a trarne vantaggio sono soprattutto, se non solamente, i dominatori?
3. Qual è l’inquietante risposta di
Tucidide.
4. Quali sono i punti salienti del dialogo e quali
sono le argomentazioni?
5. Vale la legge del più forte?
Approfondimenti
1.
Ragioni
strategiche e principi di giustizia sono spesso in conflitto nella politica
internazionale. Con l’aiuto dell’insegnante, puoi svolgere una ricerca
sull’argomento dei diritti umani, a partire dall’articolo 11 della Costituzione
italiana.
Mat 1 Il testo
argomentativo
Il testo argomentativo è un testo in cui l'autore esprime le proprie
opinioni o tesi su un determinato problema.
Questo tipo di testo serve a convincere il destinatario che il proprio
punto di vista è corretto. I testi argomentativi sono, le prediche in chiesa, i
discorsi politici, i discorsi degli avvocati, gli articoli culturali o di
fondo, i saggi, i testi pubblicitari, le recensioni di un avvenimento artistico e culturale, un tema
scolastico su un problema di attualità.
Per scrivere un testo argomentativo si usano delle argomentazioni cioè dei
ragionamenti per dimostrare che la tesi può essere condivisa.
Il testo argomentativo è formato dai seguenti elementi:
• Un problema da
discutere
• La tesi in cui l'autore esprime la
propria idea.
• Uno o più argomenti per convincere il
destinatario e eventualmente demolire le ipotesi contrarie (antitesi) attraverso dei ragionamenti
logici.
• Nelle argomentazioni
si può far riferimento a persone
autorevoli (Il premio Nobel Rita Levi Montalcini ha dichiarato…),
enti o Istituti (Il WWF ha confermato…; secondo le ricerche statistiche
dell'ISTAT…) per dare più forza alle proprie opinioni sul problema
trattato.
Di solito il lessico è
semplice e comprensibile, tranne quando il testo argomentativo è destinato a
riviste scientifiche o testi specialistici.
L'emittente può
presentare la tesi in due modi:
• esplicitamente (Secondo me, il buco nell'ozono è dovuto all'effetto
serra);
• affermando semplicemente (Il buco nell'ozono è dovuto all'effetto
serra).
Il discorso alterna
coordinate e subordinate. Si usano spesso degli avverbi, delle congiunzioni e
delle locuzioni per collegare le frasi e le parti delle argomentazioni:
• legami di causa-conseguenza (quindi, perciò, dal momento che,
pertanto, di conseguenza);
• con valore dimostrativo (in realtà, in effetti, insomma, in
conclusione);
• con valore avversativo (ma, nonostante, tuttavia, mentre, invece);
• con valore additivo (anche,
allo stesso modo, ancora, inoltre, infine).
Dopo
Pericle iniziò il declino, che sfociò nel IV secolo in una crisi delle
istituzioni democratiche.
Le
avvisaglie c’erano già state prima, quando il partito oligarchico aveva
denunciato la pericolosità di un sistema che coinvolgesse tutti, anche i meno
dotati. Ci furono episodi di instabilità politica che ebbero ripercussioni sul
piano militare, che a loro volta portarono a ripetuti tentativi di
restaurazione oligarchica, compreso quello ben riuscito imposto da Sparta nel 404 con il regime dei Trenta
tiranni.
I
successivi tentativi di restaurazione democratica non poterono poi fare a meno
di agire sul diritto di cittadinanza, ripristinando in merito la legge di Pericle, così come dal 403 a.C. dovette
essere introdotta la procedura legislativa della nomothesía, cioè la differenziazione tra le leggi (nómoi), approvate dalla commissione
dei nomoteti, ed i decreti approvati invece dal démos, ai
quali fu attribuito un peso minore e sui quali si cercò di convogliare le
questioni meno importanti, proprio per evitare i pericoli della volubilità
popolare.
Altro
elemento di degradazione democratica fu l’estensione della pratica del misthòs,
la retribuzione per le cariche pubbliche, per bloccare l’assenteismo ed evitare
la paralisi.
Circa mezzo secolo più tardi (nel
411 a.C.) si arrivò al secondo grande trauma della democrazia, di segno opposto
al precedente: il governo dei Quattrocento, favorito dai sostenitori
della pátrios politeía,
una posizione moderata e centrista che proponeva l'accostamento
Clistene/Solone, tipico di una concezione politica che voleva salvare i tratti
più moderati e conservatori della costituzione democratica. In forme assai più
aspre si presentò il colpo di Stato dei Trenta tiranni, che da un lato ripeté,
dall'altro aggravò, in senso negativo, l'esperienza dei Quattrocento.
La teoria costituzionale della
democrazia ateniese è molto semplice: il popolo è sovrano (kurios). Sieda nell’Assemblea o nei
tribunali, è il sovrano assoluto di tutto ciò che concerne la città e i
cittadini sono liberi e uguali sotto l’egida della legge.
La riflessione filosofica del V-IV
secolo a.C. fu però generalmente ostile alla democrazia.
Quando la filosofia, con Socrate,
Platone e, sia pure in misura meno radicale, con Aristotele, iniziò a
riflettere sistematicamente sui fondamenti della democrazia, assunse un
atteggiamento critico e polemico.
Non mancarono tuttavia, soprattutto
in ambiente sofistico, tentativi di legittimare teoreticamente la prassi
democratica. Il più interessante di questi tentativi fu compiuto da Protagora
di Abdera, uno degli intellettuali più prestigiosi e celebri, attivi ad Atene
nella seconda metà del V secolo.
Protagora racconta il mito di Prometeo
·
Nel Protagora Platone fa esporre al sofista il mito
sull'origine della civiltà.
·
In base al racconto di Protagora nella distribuzione
originaria delle capacità, che Zeus affidò al poco previdente Epimeteo, gli
uomini restarono privi di dotazioni naturali, cioè senza forza, velocità,
robustezza, ecc., e di conseguenza non erano in grado di sopravvivere di fronte
alla soverchiante forza degli altri esseri viventi. Per supplire a questa
carenza, Prometeo donò agli uomini la sapienza tecnica, cioè la competenza
artigianale (demiourgikè techne) sotto forma
di fuoco.
·
Per Protagora, tuttavia, il possesso di una competenza
tecnico-artigianale non è ancora sufficiente a garantire la sopravvivenza,
perché gli uomini sono naturalmente portati a sopraffarsi a vicenda e, sulla
base della sola dotazione tecnica, non risultano orientati ad associarsi tra
loro e a dare vita a forme di collaborazione e a nuclei associativi.
·
Per questa ragione intervenne direttamente Zeus, donando la
tecnica politica (politikè techne),
la quale si costituisce di due principi: il rispetto (aidòs),
cioè una forma di riconoscimento reciproco, e il senso di giustizia (dike).
·
A differenza delle dotazioni naturali e delle singole
competenze artigianali, la tecnica politica fu distribuita a tutti gli uomini,
i quali risultano così legittimati ad assumere le decisioni che riguardano la
vita della comunità.
·
Il mito di Protagora viene considerato il ‘manifesto’
dell'ideologia democratica perché in esso trova giustificazione una certa forma
di uguaglianza tra gli uomini, i quali sono tutti, almeno potenzialmente, in
possesso della virtù politica, cioè sia di una dotazione minima di competenze
utili a governare la città, sia di un'autonomia decisionale, che rinvia a una
soggettività autonoma e trasparente. In altre parole, Protagora sembra fondare
la tesi fondamentale dell'ideologia democratica, che stabilisce che i membri di
un gruppo chiamati a discutere, a deliberare e a istituire norme valide per
tutti, sono liberi e consapevoli, cioè perfettamente in grado di stipulare un
patto negoziale.
Ci fu un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali. Quando
giunse anche per queste il momento fatale della nascita, gli dei le plasmarono
nel cuore della terra, mescolando terra, fuoco e tutto ciò che si amalgama con
terra e fuoco. Quando le stirpi mortali stavano per nascere, gli dei ordinarono
a Prometeo e a Epimeteo[26] di dare con misura e
distribuire in modo opportuno a ciascuno le facoltà naturali.
Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione:
"Dopo che avrò distribuito - disse - tu controllerai".
Così, persuaso Prometeo, iniziò a distribuire. Nella distribuzione, ad
alcuni dava forza senza velocità, mentre donava velocità ai più deboli; alcuni
forniva di armi, mentre per altri, privi di difese naturali, escogitava diversi
espedienti per la sopravvivenza.
Ad esempio, agli esseri di piccole dimensioni forniva una possibilità di
fuga attraverso il volo o una dimora sotterranea; a quelli di grandi
dimensioni, invece, assegnava proprio la grandezza come mezzo di salvezza.
Secondo questo stesso criterio distribuiva tutto il resto, con equilibrio.
Escogitava mezzi di salvezza in modo tale che nessuna specie potesse
estinguersi. Procurò agli esseri viventi possibilità di fuga dalle reciproche
minacce e poi escogitò per loro facili espedienti contro le intemperie
stagionali che provengono da Zeus. Li avvolse, infatti, di folti peli e di dure
pelli, per difenderli dal freddo e dal caldo eccessivo. Peli e pelli
costituivano inoltre una naturale coperta per ciascuno, al momento di andare a dormire.
Sotto i piedi di alcuni mise poi zoccoli, sotto altri unghie e pelli dure e
prive di sangue.
In seguito procurò agli animali vari tipi di nutrimento, per alcuni erba,
per altri frutti degli alberi, per altri radici. Alcuni fece in modo che si nutrissero
di altri animali: concesse loro, però, scarsa prolificità, che diede invece in
abbondanza alle loro prede, offrendo così un mezzo di sopravvivenza alla
specie.
Ma Epimeteo non si rivelò bravo fino in fondo: senza accorgersene aveva
consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione. Il genere umano era
rimasto dunque senza mezzi, e lui non sapeva cosa fare.
In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide
gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era
nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi. Intanto era giunto il giorno
fatale, in cui anche l’uomo doveva nascere.
Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo,
rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco - infatti, era
impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco - e li donò all’uomo.
All’uomo fu concessa in tal modo la perizia tecnica necessaria per la vita, ma
non la virtù politica. Questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era più
possibile accedere all’Acropoli, la dimora di Zeus, protetta da temibili
guardie.
Entrò allora di nascosto nella casa comune di Atena ed Efesto, dove i due
lavoravano insieme. Rubò quindi la scienza del fuoco di Efesto e la perizia
tecnica di Atena e le donò all’uomo. Da questo dono derivò all’uomo abbondanza
di risorse per la vita, ma, come si narra, in seguito la pena del furto colpì
Prometeo, per colpa di Epimeteo.
Quando l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la
parentela con gli dei, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in
loro, e innalzò altari e statue di dei. Poi subito, attraverso la tecnica,
articolò la voce con parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e
l’agricoltura.
Con questi mezzi in origine gli uomini vivevano sparsi qua e là, non
c’erano città; perciò erano preda di animali selvatici, essendo in tutto più
deboli di loro. La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il
cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve (infatti, gli uomini non
possedevano ancora l’arte politica, che comprende anche quella bellica).
Cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che
stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non
conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano.
Zeus dunque, temendo che la nostra specie si estinguesse del tutto, inviò
Ermes per portare agli uomini rispetto e giustizia, affinché fossero fondamenti
dell’ordine delle città e vincoli d’amicizia.
Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire rispetto e giustizia
agli uomini: «Devo distribuirli come sono state distribuite le arti? Per
queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta
per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi
devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a
tutti gli uomini?»
«A tutti - rispose Zeus - e tutti ne siano partecipi; infatti, non
esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come
succede per le arti. Istituisci inoltre a nome mio una legge in base alla quale
si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e
giustizia».
Per questo motivo, Socrate, gli Ateniesi e tutti gli altri, quando si
discute di architettura o di qualche altra attività artigianale, ritengono che
spetti a pochi la facoltà di dare pareri e non tollerano, come tu dici -
naturalmente, dico io - se qualche profano vuole intromettersi. Quando invece
deliberano sulla virtù politica - che deve basarsi tutta su giustizia e
saggezza - ascoltano il parere di chiunque, convinti che tutti siano partecipi
di questa virtù, altrimenti non ci sarebbero città.
Questa è la spiegazione, Socrate. Ti dimostro che non ti sto ingannando:
eccoti un’ulteriore prova di come in realtà gli uomini ritengano che la
giustizia e gli altri aspetti della virtù politica spettino a tutti. Si tratta
di questo. Riguardo alle altre arti, come tu dici, se qualcuno afferma di
essere un buon auleta o esperto in qualcos'altro e poi dimostri di non esserlo,
viene deriso e disprezzato; i familiari, accostandosi a lui, lo rimproverano
come se fosse pazzo. Riguardo alla giustizia, invece, e agli altri aspetti
della virtù politica, quand’anche si sappia che qualcuno è ingiusto, se costui
spontaneamente, a suo danno, lo ammette pubblicamente, ciò che nell’altra
situazione ritenevano fosse saggezza - dire la verità - in questo caso la
considerano una follia: dicono che è necessario che tutti diano l’impressione
di essere giusti, che lo siano o no, e che è pazzo chi non finge di essere
giusto. Secondo loro è inevitabile che ognuno in qualche modo sia partecipe
della giustizia, oppure non appartiene al genere umano. Dunque gli uomini
accettano che chiunque deliberi riguardo alla virtù politica, poiché ritengono
che ognuno ne sia partecipe.
Ora tenterò di dimostrarti che essi pensano che questa virtù non derivi né
dalla natura né dal caso, ma che sia frutto di insegnamento e di impegno in
colui nel quale sia presente. Nessuno disprezza né rimprovera né ammaestra né
punisce, affinché cambino, coloro che hanno difetti che, secondo gli uomini,
derivano dalla natura o dal caso. Tutti provano compassione verso queste persone:
chi è così folle da voler punire persone brutte, piccole, deboli? Infatti, io
credo, si sa che le caratteristiche degli uomini derivano dalla natura o dal
caso, sia le buone qualità, sia i vizi contrari a queste. Se invece qualcuno
non possiede quelle qualità che si sviluppano negli uomini con lo studio,
l’esercizio, l’insegnamento, mentre ha i vizi opposti, è biasimato, punito,
rimproverato.
MAT 2 I miti in Platone
Gli studiosi hanno individuato le risonanze ed i
legami tra i poemi mitici ed i primi filosofi, i presocratici, che scrivono
anch’essi poemi, di cui abbiamo solo frammenti, intitolati "Περί φύσεος" (sulla natura). Ma con Platone ci troviamo ad una situazione paradossale: egli rifiuta
la poesia ed il mito, fonti di pura fantasia e di falsità, ma che nei suoi
dialoghi ricorre a spunti poetici e soprattutto a miti (gli studiosi ne hanno conteggiati ventitré).
Dunque per un verso Platone rappresenta il passaggio
definitivo dal μύθος, racconto favolistico, al trionfo del pensiero razionale,
al λόγος e sembra con le sue affermazioni dar ragione allo schema dal mito al
logos razionale. Ma poi qualcosa non funziona, questo schema che egli stesso
presenta non corrisponde del tutto a quello che troviamo poi nei suoi dialoghi.
In effetti, pur
attaccando il valore conoscitivo dei miti, poi li dissemina nella sua intera
opera di conoscenza. Ma allora i
miti non sono del tutto estranei a questa finalità conoscitiva. Non c’è quella
frattura totale tra mito e pensiero razionale. I miti in realtà hanno funzioni
diverse nei differenti dialoghi platonici. Essi sono di volta in volta:
1.
un semplice
espediente didattico-espositivo di cui Platone fa uso per comunicare in maniera
più accessibile e intuitiva le sue dottrine.
2.
Un mezzo per
superare quei limiti oltre i quali l'indagine razionale non può andare,
diventando un vero e proprio strumento di verità, una "via
alternativa" al solo pensiero
filosofico, grazie alla sua capacità di armonizzare unitariamente gli
argomenti.
3.
Un momento in cui
Platone esprime la bellezza della verità
filosofica, in cui questa si manifesta anche con immagini e figure sensibili, e
di fronte alla quale i discorsi razionali sono insufficienti Platone ha un
atteggiamento diverso nei confronti del mito, che ritiene vada rivalutato
perché utile, e anzi necessario, alla comprensione.
Il mito va inteso come esposizione di un pensiero ancora
nella forma di racconto, quindi non come ragionamento puro e rigoroso.
Esso ha una funzione allegorica e didascalica,
presenta cioè una serie di concetti attraverso immagini che facilitano il
significato di un discorso piuttosto complesso, cercando di renderne
comprensibili i problemi, e creando nel lettore una nuova tensione
intellettuale, un atteggiamento positivo nei confronti dello sviluppo della
riflessione.
La
degenerazione deriva dalla democrazia
da La Repubblica[27]
di Platone.
·
La parola demokratia è in sé stessa una
parola di rottura, in quanto esprime
la prevalenza di una parte e non, invece, la partecipazione di
tutti coloro che sono dotati di cittadinanza alla gestione della politeia.
·
Tra le definizioni
teoriche della democrazia antica vale la pena di prendere in considerazione
quella di Platone, secondo
la quale la democrazia nasce dalla violenza popolare, che induce il demos, dopo la vittoria politica, a
infierire penalmente (con l'esilio) e per via di fatto sui ricchi.
·
Lo stesso ostracismo,
che nasce per prevenire tentativi di accentramento del potere da parte di
individui dotati di eccessivo prestigio politico, può essere pensato come una
forma di repressione basata sul sospetto, sull'illazione o sull'inganno da
parte di una parte politica che alimenta la "cattiva stampa" di cui
gode l'avversario più in vista; queste osservazioni, tra l'altro, non perdono
di significato anche qualora si consideri l'ostracismo o qualsiasi altra forma
di controllo poliziesco come un prodotto inevitabile della vita in una comunità
ristretta, in cui ciascun membro ha l'effettiva possibilità di avere
quotidianamente dei contatti significativi coi concittadini.
Quando
la città retta a democrazia si ubriaca di libertà, confondendola con la licenza[28],
con l’aiuto di cattivi coppieri costretti a comprarsi l’immunità[29]
con dosi sempre massicce d’indulgenza verso ogni sorta di illegalità e di
soperchieria; quando questa città si copre di fango, accettando di farsi serva
di uomini di fango, per continuare a vivere e ad ingrassare nel fango; quando
il padre si abbassa al livello del figlio e si mette, bamboleggiando, a
copiarlo perché ha paura del figlio; quando il figlio si mette alla pari del
padre e, lungi da rispettarlo, impara a disprezzarlo per la sua pavidità;
quando il cittadino accetta che, di dovunque venga, chiunque gli capiti in
casa, possa acquistarvi gli stessi diritti di chi l’ha costruita e ci è nato;
quando i capi tollerano tutto questo per guadagnare voti e consensi in nome di
una libertà che divora e corrompe ogni regola ed ordine; c’è da meravigliarsi che
l’arbitrio si estenda a tutto e che dappertutto nasca l’anarchia e penetri
nelle dimore private e perfino nelle stalle?
In
un ambiente siffatto, in cui il maestro teme ed adula gli scolari e gli scolari
non tengono in alcun conto i maestri; in cui tutto si mescola e si confonde; in
cui chi comanda finge, per comandare sempre di più, di mettersi al servizio di
chi è comandato e ne lusinga, per sfruttarli, tutti i vizi; in cui i rapporti
tra gli uni e gli altri sono regolati soltanto dalle reciproche convenienze
nelle reciproche tolleranze; in cui la demagogia dell’uguaglianza rende
impraticabile qualsiasi selezione, ed anzi costringe tutti a misurare il passo
delle gambe su chi le ha più corte; in cui l’unico rimedio contro il
favoritismo consiste nella molteplicità e moltiplicazione dei favori; in cui
tutto è concesso a tutti in modo che tutti ne diventino complici; in un
ambiente siffatto, quando raggiunge il culmine dell’anarchia e nessuno è più
sicuro di nulla e nessuno è più padrone di qualcosa perché tutti lo sono, anche
del suo letto e della sua madia[30]
a parità di diritti con lui e i rifiuti si ammonticchiano per le strade, perché
nessuno può comandare a nessuno di sgombrarli; in un ambiente siffatto, dico,
pensi tu che il cittadino accorrerebbe a difendere la libertà, quella libertà,
dal pericolo dell’autoritarismo?
Ecco,
secondo me, come nascono le dittature. Esse hanno due madri.
Una
è l’oligarchia quando degenera, per le sue lotte interne, in satrapia. L’altra
è la democrazia quando, per sete di libertà e per l’inettitudine dei suoi capi,
precipita nella corruzione e nella paralisi.
Allora
la gente si separa da coloro cui fa la colpa di averla condotta a tale disastro
e si prepara a rinnegarla prima coi sarcasmi, poi con la violenza che della
dittatura è pronuba e levatrice.
Così
la democrazia muore: per abuso di se stessa.
E
prima che nel sangue, nel ridicolo.
I limiti della democrazia
Dalla Politica
(VI, 2) di Aristotele
·
Nel II libro della Politica Aristotele fa la famosa
distinzione tra le forme "buone" di governo dello Stato (monarchia,
aristocrazia e politeia) e le tre forme degenerate (tirannia, oligarchia e democrazia).
Ciò che Aristotele definiva politeia è quella che oggi noi chiameremmo
democrazia mentre quella che egli chiama democrazia (degenerazione della
politeia) è quella che oggi chiameremmo demagogia (nella prima governa il démos,
il popolo, nella seconda il potere è dell'oklos, la folla, la plebaglia guidata
dal primo capopopolo di turno. Per Aristotele la migliore forma di governo è
proprio la politeia quindi quella aristotelica è più una democrazia
"aristocratica".
·
Secondo Aristotele l'aspetto caratterizzante della democrazia è che in
essa il criterio del numero prevale su quello del giusto: i poveri perciò
prevalgono sui ricchi. Il fatto che poi, com’è tipico della democrazia
ateniese, le magistrature siano sorteggiate, va a discapito della competenza.
Base della costituzione democratica è la libertà (così si è soliti dire, quasi che in questa sola costituzione gli uomini partecipino di libertà, perché è questo, dicono, il fine di ogni democrazia).
Una prova della libertà consiste
nell'essere governati e nel governare a turno: in realtà, il giusto, in senso
democratico, consiste nell'avere uguaglianza in rapporto al numero e non al
merito, ed essendo questo il concetto di giusto, di necessità la massa è
sovrana e quel che i più decidono ha valore di fine ed è questo il giusto: in
effetti dicono che ogni cittadino deve avere parti uguali. Di conseguenza
succede che nelle democrazie i poveri siano più potenti dei ricchi perché sono
di più e la decisione della maggioranza è sovrana.
E questo, dunque, un segno della libertà
che tutti i fautori della democrazia stabiliscono come nota distintiva della
costituzione.
Un altro è di vivere ciascuno come vuole,
perché questo, dicono, è opera della libertà, in quanto che è proprio di chi è
schiavo vivere non come vuole. Ecco quindi la seconda nota distintiva della
democrazia; di qui è venuta la pretesa di essere preferibilmente sotto nessun
governo o, se no, di governare e di essere governati a turno: per questa via
contribuisce alla libertà fondata sull'uguaglianza.
Posti questi fondamenti e tale
essendo la natura del governo democratico, le seguenti istituzioni sono
democratiche: i magistrati li eleggono tutti tra tutti; tutti comandano su
ciascuno e ciascuno a turno su tutti: le magistrature sono sorteggiate o tutte
o quante non richiedono esperienza e abilità; le magistrature non dipendono da
censo alcuno o minimo; lo stesso individuo non può coprire due volte nessuna
carica o raramente o poche, a eccezione di quelle militari[31]; le cariche sono di breve
durata o tutte o quante è possibile; le funzioni di giudice sono esercitate da
tutti.
[1] Gruppo sociale intermedio tra la famiglia in senso ampio e la
tribù, il cui carattere fondamentale è dato dall’esogamia, e l’appartenenza al
quale si acquista per discendenza paterna o materna; i membri del clan si
considerano discendenti da un comune progenitore che ha per lo più carattere
mitico, e di conseguenza seguono regole di comportamento sociale simili a
quelle in uso fra consanguinei.
[2] La tribù indicava un raggruppamento sociale di carattere antropologico che più tardi ebbe un carattere politico.
[3] Fusione di dottrine di origine diversa, sia nella sfera delle
credenze religiose sia in quella delle concezioni filosofiche.
[4] Solone di Atene fu un grande
legislatore, che credeva in quello che faceva, e ciò che c’è giunto sotto il
suo nome c’è giunto testimonia della sua volontà di trasmettere ai suoi
concittadini le sue idee e la saggezza acquisita nella sua attività politica,
l'ispirazione morale delle sue riforme.
Solone nacque ad
Atene nel 640 da una famiglia aristocratica. Si era già segnalato come poeta
con una celebre elegia per la conquista di Salamina intorno al 600, quando fu
nominato arconte con poteri straordinari nel 594: gli aristocratici al potere
ebbero la paura di perdere il potere per cui nominarono lui. Solone respinse la
richiesta popolare di una ridistribuzione delle terre, ma sancì
retroattivamente l'abolizione delle ipoteche sui terreni dei contadini e
decretò l'illegalità della schiavitù per debiti. I suoi provvedimenti (legge
sull'eredità, riforma monetaria, legge sulla tutela statale degli orfani ecc.) fornirono
la base costituzionale alla repubblica ateniese.
La
sua opera poetica è il primo documento letterario di Atene. Restano frammenti
di elegie politiche e morali (intera c’è giunta la cosiddetta Elegia alle Muse, una specie di
repertorio delle sue idee).
Solone
è poeta della giustizia: su questa divinità fonda il benessere e la pace
sociale della città; basa la convivenza sulla legge. Le sue idee, familiari fin
dall'infanzia a tutti gli ateniesi, furono alla base della grandezza civile di
Atene.
[5] Nella
mitologia greca, Mnemosine (dea della memoria) è figlia di Gea, dea della
terra, e di Urano, il cielo stellato.
Il mito vuole che all’inizio fosse
solo il caos, una massa enorme e confusa che comprendeva in sé tutti gli
elementi, senza ordine né distinzione. Dal Caos nacque, un giorno, Gea, la
Terra ed essa generò l’Erebo (la notte), l’Etere (il giorno), Urano (il cielo
stellato), l’Oceano e i Monti.
Unendosi poi con Urano, Gea creò a
Mnemosine, dea della Memoria, di cui si invaghì Zeus.
Il re dell’Olimpo s’intrattenne con
Mnemosine per nove notti, generandone le nove Muse, protettrici delle arti.
Attribuire carattere divino alla figurazione astratta della memoria distingue
la concezione greca di memoria da quella di altre civiltà antiche. La presenza
di un Dio a sovrintendere alla memoria, significa ed implica la consapevolezza
della funzione fondamentale del ricordare come fattore di cultura e garanzia
della storia dell’uomo che è posta sotto il volere della divinità.
[6] lett. Della
Pieria, regione della Grecia, o del monte Pierio, sacro ad Apollo e alle Muse
[7] innumerevoli
[8] farro
[9] lett. Castigo, pena || pagare il fio, subire la giusta punizione
[10] Lamento provocato da sofferenza
[11] Illudiamo da lusingarsi
[12] servo
[13] In abbondanza
[14] Nave || per sineddoche
[15] Sta per elargirono.
[16] Apollo
[17] profezia
[18] Mitico medico degli dei
[19] Pron. e agg. Indefinito|| Alcuno, nessuno
[20] Imita
[21] millanteria
[22] militare spartano, protagonista della prima fase della guerra del Peloponneso.
[23] Fliunte o Flio era una città situata nella parte nord
orientale del Peloponneso, il cui territorio denominato Fliàsia era
indipendente e limitato a nord da Sicione, a ovest dall'Arcadia, a est da
Cleone, a sud dall'Argolide
[24] Protagora (o Dei Sofisti) è un dialogo di Platone. Interlocutori
sono Socrate, Ippia di Elide,Prodico di Ceo, Callia, Alcibiade e Protagora.
Apre la discussione Protagora, che
afferma essere la sofistica la
base del progresso umano e l'unica scienza capace d'insegnare la virtù politica
(l'arte di convivere assieme).
Socrate avanza dubbi su
quest'ultima affermazione e Protagora, per salvare la sua tesi, introduce un
mito: Giove diede agli uomini la giustizia e il pudore, fondamento della virtù
politica. Questa è quindi una virtù innata e quando la si insegna ai giovani si
cerca di farla armonizzare con la virtù in senso generale.
Socrate allora chiede se le singole
virtù fanno parte della virtù così intesa oppure se ognuna di esse fa parte a
sé. Protagora si dichiara per l'indipendenza delle varie virtù. Intervengono
gli altri presenti; Callia si schiera con Protagora, Alcibiade con Socrate. Ora
l'interrogante è Protagora, che però si slancia in un lungo excursus sulla
differenza fra la “difficoltà di diventar buoni” e la “difficoltà di essere
buoni”.
Socrate, usando le stesse arti di
Protagora, gli rivolta il discorso e gli dimostra che “nessuno fa il male
volontariamente”; quindi riprende le sue domande e chiede a Protagora se
rimanga del parere di prima.
Protagora ammette che le varie
virtù sono simili fra loro, ma che da esse si differenzia il coraggio.
Socrate incalza osservando che
anche il coraggio, se non è folle temerarietà, si riconduce alla saggezza con
cui l'uomo coraggioso disciplina le sue forze. Quindi la virtù è una e come
tale si deve insegnare.
[25] Platone – Platone nacque ad Atene nel
428 a. C. da nobile famiglia, discendente per parte di madre da Solone; secondo Aristotele si familiarizzò con la dottrina
eraclitea. Ma in questo primo periodo la sua attività fu rivolta a composizioni
letterarie, epiche e tragiche. A vent'anni conobbe Socrate, che lo guidò a
un contatto fecondo con la filosofia. A Socrate Platone si mantenne fedele per
tutta la vita, avendo visto in lui l'incarnazione del filosofare; l'intera sua
produzione fu un continuo approfondimento interpretativo della personalità di
Socrate, l'interlocutore principale di molti dialoghi e portavoce della
filosofia originale di Platone.
Il pensiero storico di Socrate è
pertanto trasceso e allo stesso tempo rimane connesso alla sua ispirazione
fondamentale. Già dalla giovinezza parve a Platone che la caratteristica prima
del filosofo, il rapporto con la verità, potesse manifestarsi nella vita
storica, fecondando e alimentando la politica, che riguarda la vita comune degli uomini.
Inizialmente Platone fu tentato di
partecipare alla vita politica della sua città, ma ne fu distolto prima dalle
delusioni provocategli dal governo dei Trenta tiranni, poi dalla restaurata democrazia che se lo
alienò del tutto per aver messo a morte Socrate.
Da allora a Platone fu chiaro che
solo un governo guidato dai filosofi poteva essere degno di venir detto buono.
Dopo la morte di Socrate, Platone
intraprese svariati viaggi, di cui uno forse in Egitto. Significativi per il
rapporto con la politica sono i tre viaggi in Magna Grecia. A Siracusa, dove
divenne amico di Dione, zio di Dionisio il Giovane, Platone tentò di attuare la sua idea
del governante illuminato dal filosofo. Ma Dionisio il Vecchio, allora tiranno della città,
preoccupato dei suoi progetti, lo fece allontanare.
Ritornato ad Atene, Platone
costituì l'Accademia, società culturale, alla quale diede la struttura
di un'associazione religiosa. Quando Dionisio il Giovane succedette al padre,
Platone tornò a Siracusa per riprendere il suo progetto, ma Dionisio deluse
Platone che se ne tornò ad Atene. Una terza volta egli tornò a Siracusa, ma ancora
fallì il suo tentativo di instaurare un governo retto dalla filosofia.
Platone morì ad Atene nel 347.
I dialoghi vengono ordinati in base
a vari criteri stilistici e di contenuto e raggruppati come segue:
1.
I periodo, scritti giovanili socratici, Apologia di Socrate, Critone, Ione, Alcibiade I, Lachete, Liside, Carmide, Eutifrone;
2. II periodo, di
trapasso, Eutidemo, Ippia Minore, Cratilo, Ippia Maggiore, Menesseno, Gorgia, Repubblica I, Protagora, Menone;
3.
III periodo, dottrina delle idee, Fedone, Simposio, Repubblica II-X, Fedro;
4.
IV periodo, autocritica fase finale, Parmenide, Teeteto,Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Le leggi.
A questi dialoghi vanno aggiunte 13 Lettere, di cui la
VII e l'VIII sono in genere date per autentiche. Il carattere dialogico degli
scritti di Platone rappresenta la sostanza stessa della sua filosofia. Il
dialogo platonico è sempre costituito da una tesi aperta, che nel
contraddittorio viene esplicandosi, mentre l'interlocutore-contraddittore
sposta di continuo le sue opposizioni di volta in volta che una verità va
affermandosi.
È lui stesso adeguatamente
sollecitato a riconoscere la verità. Notevole è il cambiamento di stile da un
dialogo all'altro: i dialoghi giovanili sono caratterizzati da interventi brevi
e vivaci da parte dei partecipanti e conservano intatta la loro natura
dialogica; gli ultimi sono appesantiti da lunghi interventi, che svisano
l'andamento del dialogo e ne fanno quasi un trattato. Socrate è quasi sempre il
protagonista, ma negli ultimi dialoghi la sua figura è sempre più sfocata o
addirittura scompare.
[26]
Prometeo, il previdente (il
nome in greco significa “colui che pensa prima”), e suo fratello Epimeteo, lo
stolto (“colui che pensa dopo”), erano Titani,
[27] La Repubblica - Il dialogo dei dieci
libri della Repubblica si svolge tra il 420 ed il 425 a.C.
Socrate si reca presso la casa del
ricco meteco Cefalo, proprietario di una manifattura produttrice di scudi,
durante le feste della dea tracia Bendis, e si avvia il dialogo cui partecipano
il figlio di Cefalo Polemarco ed i fratelli di Platone, Glaucone ed Adimanto.
Nella Repubblica si affrontano tre domande sulla
polis:
1.
qual
è lo scopo?
2.
chi
la deve governare?
3.
Ma
soprattutto qual è il fondamento di questa comunità?
Rispetto alla prima domanda lo
scopo è la coesione
sociale, detto in termini moderni l’equilibrio tra diverse classi, che
devono tutte praticare le virtù per garantire tale coesione.
Le diverse classi riflettono la
prevalenza di una parte dell’anima sulle altre: la parte razionale, la
irascibile, la concupiscibile.
I governanti assumono la parte
razionale e quindi devono essere i filosofi, i guerrieri la parte irascibile, i
produttori la parte concupiscibile, e ad ognuna corrisponde una virtù:
saggezza, coraggio, temperanza che deve essere propria non solo dei produttori
ma anche degli altri gruppi della società.
Ma c’è una virtù che sintetizza
tutte le altre ed è la stella
polare della polis per garantire il bene: la giustizia, che trova il
suo compimento nelle leggi della polis. Ma dove cercare la giustizia? Inoltre,
questo è il fondamento reale e praticato della polis in quanto è proponibile
che la giustizia sia il vero riferimento dei comportamenti umani? Questo è un
tema su cui la discussione sarà più prolungata ed accanita, in quanto Socrate
si troverà isolato e in difficoltà rispetto ai suoi interlocutori, molto
irruenti nelle loro argomentazioni contro una concezione che attribuisce vero valore etico alla pratica
della giustizia. Su questo punto si giocherà una partita filosofica
decisiva per tutta la teoria della polis sostenuta in questo dialogo e, più in
generale, per l’edificio teorico edificato da Platone. Infatti, considerando il
primo libro della Repubblica semplicemente introduttivo all’intera opera, il
tema verrà posto subito all’inizio del secondo libro e le sorti della
discussione saranno determinanti per quelli successivi.
[28] Abuso,
eccesso di libertà || Sregolatezza di costumi
[29]
privilegi
[31] Aristotele si riferisce alla carica di stratego che non era sottoposta ai
normali vincoli delle altre magistrature
VI unità
L’età ellenistica (323-146
a.C.) – L’età ellenistica è compresa tra la morte di Alessandro Magno e la trasformazione della Grecia in provincia
romana nel 146. Essa segnò il trionfo della cultura e della civiltà greche,
che si elevarono a modello universale in ogni regione del Mediterraneo antico.
La morte di Alessandro Magno, nel
giugno del 323, pose fine al progetto di uno stato universale. Il suo impero
era troppo vasto e vario per qualunque sistema politico e sicuramente il
sistema monarchico macedone non era all’altezza di questo compito.
Il potere macedone passò nelle
mani dei suoi generali, che entrarono ben presto in conflitto tra loro per la
suddivisione del vasto impero che Alessandro aveva creato, e la lunga serie di guerre, tra il 322 e il
281, ebbe come teatro la Grecia.
In mancanza di un erede diretto
di Alessandro la reggenza era stata affidata a Cratero e l’esercito a Perdicca,
ma ben presto prevalsero le forze disgregatrici, favorite:
·
dall’ambizione personale dei singoli generali,
·
dall’enorme estensione e dalla disomogeneità
dell’impero.
·
Ad Antipatro
fu affidato il governo della Macedonia e della Grecia, a Lisimaco la Tracia, ad Antigono
l’Asia Minore, ad Eumene la
Cappadocia, a Tolomeo l’Egitto e a Perdicca Babilonia e le province
orientali.
Alla fine dell’età dei diadochi (dal greco diádochos,
cioè successore), i generali di
Alessandro si erano consolidati tre grandi regni ellenistici:
·
il regno
di Macedonia, che comprendeva la Grecia, appartenente agli Antigonidi, discendenti del generale Antigono;
·
il regno
d’Egitto appartenente ai Tolomei,
discendenti del generale Tolomeo;
·
il regno
di Siria, comprendente anche la Mesopotamia e la Persia, appartenente ai Seleucidi, discendenti del generale
Seleuco;
A questi tre regni si aggiunse
poi il regno di Pergamo, appartenente
agli Attalidi, discendenti del
generale Attalo.
I regni ellenistici, nati dalla
frantumazione dell’impero di Alessandro, ebbero una storia durata quasi tre
secoli. Tuttavia lo stato di guerra continuò anche dopo il 281 tra gli epigoni, successori dei diadochi.
La fine dell’esperienza della polis – L’esperienza della libertà
civica delle singole póleis era ormai superata e, dopo la costituzione
dell’impero di Alessandro e dei suoi successori, assolutamente irripetibile;
non si era persa quella libertà intellettuale e quella creatività, che aveva
contraddistinto il genio dell’uomo greco nei secoli precedenti.
La Grecia aveva perso la sua
stabilità economica e subiva la concorrenza economica dei regni orientali, che
l’impoverivano.
Nel 290 le poleis greche tentarono di riguadagnare l’indipendenza, unendosi in
istituzioni di tipo federale come la Lega etolica e la Lega achea
280.
Entrambe le leghe cercarono di
porre fine al dominio macedone, ma la crescente potenza acquisita dalla Lega
achea, la spinse ad ottenere il controllo della Grecia: guidata da Arato di Sicione, entrò in conflitto con
Sparta, in una guerra in cui si appellò alla potenza macedone per avere ragione
della resistenza spartana, che infine fu piegata, ma a costo di consolidare
definitivamente la dipendenza della Grecia dalla Macedonia.
La cultura ellenistica – I regni ellenistici portarono in Oriente
ed in Egitto la cultura greca. Quest’espansione politica e culturale
rappresentò per il mondo greco-macedone un momento di forte crescita economica,
grazie alla circolazione di grandi quantità di metallo prezioso, bottino
conquistato nelle guerre persiane.
Nuove città furono fondate, altre
preesistenti furono rifondate o abbellite: le più importanti furono Pergamo in
Asia Minore, Antiochia in Siria e, soprattutto, Alessandria
(fondata dallo stesso Alessandro Magno nel 332) in Egitto.
L’Egitto ellenistico, sotto i Tolomei,
conobbe una nuova fase di prosperità e di ricchezza. I Tolomei utilizzarono le
loro ricchezze per richiamare a corte poeti, eruditi, artisti e scienziati, ed
Alessandria diventò il massimo centro economico, culturale e religioso di tutto
il Mediterraneo. Crocevia di razze, lingue, merci di ogni provenienza, i
Tolomei fondarono ad Alessandria una grande biblioteca,
presso la quale prosperarono parimenti le discipline scientifiche e quelle
umanistiche, ed il Museo, un
importante istituto di ricerca in cui letterati, astronomi, matematici, medici,
dove potevano dedicarsi ai propri studi a spese dello Stato.
Centri culturali ragguardevoli
furono anche:
·
Rodi, sede di un’importante scuola oratoria;
·
Antiochia, capitale del regno di Siria e sede di
una grande biblioteca, in competizione con Alessandria
·
Pergamo, sede di un’importante scuola di
scultura.
Questa nuova cultura
greco-orientale è giunta a noi attraverso Roma, Bisanzio e l’Islam. Questa è la
più importante eredità di Alessandro: a lui si deve, se la civiltà greca ha
esercitato una così forte influenza su tutta la cultura occidentale, perché fu
Alessandro che ne promosse la sua divulgazione attraverso l’ellenismo.
Le aristocrazie urbane di questi
regni utilizzavano il greco come lingua comune dell’economia e della tecnica,
perché il commercio era praticato soprattutto da mercanti greci che
svilupparono anche il credito e il sistema bancario; l’oro e l’argento furono
utilizzati per coniare nuove monete, le quali favorirono gli scambi commerciali
praticati su larga scala dalla Scizia meridionale, attraverso il mar Nero e il
Mediterraneo, fino alle coste celtiche e a Cartagine.
Ciò ebbe un’importanza enorme
nella diffusione della cultura greca. Ogni popolo continuò a mantenere le
proprie tradizioni e i propri valori, ma la cultura adottata dai gruppi sociali
più ricchi fu quella greca.
Le città furono costruite secondo
i modelli greci: con teatri, palestre, terme, ippodromi, biblioteche, templi e
altari. In queste grandi città, da Alessandria a Tiro, da Antiochia ad Atene,
poeti, storici, matematici, ingegneri, astronomi scrissero e pubblicarono le
loro opere in greco.
L’arte e la letteratura si
svilupparono attraverso la combinazione di elementi greci e di tradizioni
locali. Sorsero anche nuovi generi letterari, grazie a poeti come Callimaco,
Apollonio Rodio e Teocrito:
·
il mimo,
breve composizione teatrale di argomento comico;
·
l’idillio,
poema di argomento pastorale;
·
il romanzo
d’avventura e d’amore;
·
la novella;
·
la favola,
d’origine orientale, tradotta in greco da Esopo (VI secolo) .
Il settore scientifico ebbe un
grande sviluppo, vi furono studiosi di grande rilievo nel campo della
matematica, della geometria, dell’astronomia e della medicina, come Euclide, Archimede, Apollonio di Perge,
Eratostene, Aristarco di Samo, Ipparco di Nicea, Erone di Alessandria.
Molte conoscenze trasmesseci in
lingua greca dagli studiosi dell’epoca erano tuttavia frutto di studi e
ricerche precedenti.
Anche nella scultura e nella
pittura si ebbero alcune novità. La scultura in particolare tentò di
rappresentare i sentimenti e le emozioni dell’uomo, ma riuscì anche a cogliere
momenti della vita quotidiana, raffigurati con grande realismo.
Infine, l’influenza greca e la
diffusione in tutto il mondo orientale di una base culturale comune,
modificarono anche la vita religiosa. Ebbero un’enorme diffusione i culti
legati a divinità come Dioniso e Orfeo, i quali davano a tutti la speranza di
una vita oltre la morte.
Molto viva fu anche la
speculazione filosofica con pensatori come Epicuro e Zenone.
L’età ellenistica fu un periodo
fiorente per le arti, le lettere e le scienze: Alessandro aveva fondato città
greche in tutto il vicino Oriente, così la cultura greca non solo fu diffusa,
ma profondamente assimilata nelle culture delle varie regioni. Questo creò
spesso tensioni fra le popolazioni dell’ex impero alessandrino che spesso si dividevano
tra filo-greci e tradizionalisti. Non tutti i popoli furono capaci di
conservare le loro tradizioni di fronte all’influenza greca. Comunque
l’influenza culturale tra Grecia ed oriente fu reciproca, per questo l’Oriente
si impose nel campo religioso, gli Egiziani in campo filosofico e scientifico.
Ma il quadro politico
rappresentato dai regni ellenistici era destinato a mutare sotto la spinta
dell’emergente potenza di Roma.
La fine del mondo etrusco - Durante il III secolo le città stato
etrusche furono coinvolte nella lotta contro la potenza romana. Prive di una
forte identità nazionale le superbe città-stato, non riuscirono a coordinare
una resistenza efficace, e furono così sconfitte una ad una.
Con la perdita dell’indipendenza
politica si concludeva il ciclo di un antico popolo che per secoli aveva
primeggiato, per cultura e per ricchezza, nel bacino del Mediterraneo
occidentale.
La grecità italica – Logica conclusione delle guerre sannitiche fu per Roma lo scontro con le città magno-greche
del sud d’Italia.
La richiesta d’aiuto di Turi
contro i Lucani, la città magno-greca, governata da un’oligarchia in crisi,
minata dalla presenza di movimenti democratici, fu la molla che portò alla
guerra contro l’intera compagine greca.
Roma intervenne nelle questioni
interne di Turi, incontrò l’opposizione di Taranto con cui aveva firmato
un trattato di non interferenza nel 303.
Di lì a poco scoppiò la guerra
tra le due città nel 282. Taranto chiese contro i Romani, a loro volta intervenuti
in aiuto di Turi, l’intervento di Pirro,
re dell’Epiro, una regione della Grecia nord-occidentale, che nel 280 sbarcò in
Italia con 30 000 uomini e 20 elefanti.
I Romani furono inizialmente
sconfitti.
Quando Pirro intervenne in
Sicilia a favore delle città greche contro i Cartaginesi, la guerra riprese e
terminò con la vittoria romana nel 275 nella battaglia di Maleventum, nome che fu allora trasformato dai
Romani in Beneventum.
Pirro (dopo un conflitto lungo e logorante) tornò nel 275.
Il risultato del conflitto
(280-275) fu la sottomissione della Magna Graecia a Roma.
Per la prima volta, Roma si farà
sentire anche oltre gli angusti confini del mare Adriatico e la sua fama giunge
fin nei territori della compagine ellenistica, riconobbe in Roma una grande
potenza internazionale.
In questi anni Roma inizia una
propria attività di monetazione, smettendo di utilizzare per le proprie
transazioni commerciali le monete di altri paesi: un altro segno della sua
crescente importanza e della sua apertura ad un più ampio orizzonte economico e
culturale.
L’espansione di Roma nella penisola - Dopo aver combattuto l’invasione
dei Galli a nord ed aver
conquistato l’Italia meridionale, sconfiggendo i Sanniti ed occupando Taranto e la Magna
Grecia, Roma esercitava
ormai il suo potere fino allo stretto di Messina, secondo ordinamenti diversi:
·
i municipi avevano autonomia
amministrativa, ma dovevano fornire truppe e pagare un tributo, solo alcuni
avevano i diritti politici;
·
le città federate, liberamente alleatesi
con Roma, avevano autonomia amministrativa, non pagavano tributi, ma non
avevano diritti politici e dovevano fornire le truppe;
·
le colonie, pratica consistente nel
trasferire in veste di coloni alcuni dei propri abitanti sui territori sottratti
ai vinti, se gli abitanti erano Romani avevano diritti civili e politici,
mentre se gli abitanti erano Latini avevano gli stessi diritti delle città
federate.
Lo scontro Roma-Cartagine – Giunta al culmine del suo apogeo
economico e politico, Cartagine, che aveva acquisito il monopolio
commerciale nel Mediterraneo imponendo che le navi commerciali potessero
approdare solo a Cartagine e non nelle sue colonie, si vide sulla strada la
potenza crescente dei Romani che miravano ad impadronirsi della Sicilia. Cartagine
avvertì subito la pericolosità dell’avversario e l’urgenza di contrastarlo ad
ogni costo.
Conquistata l’Italia meridionale,
Roma si trovò a confronto con Cartagine, che dominava nel Mediterraneo
occidentale, possedendo parte della Sicilia e colonie in Sardegna, Corsica,
Spagna e Baleari. A causa degli intralci reciproci nei traffici commerciali, a
lungo andare, la convivenza di queste due grandi potenze, che erano state
alleate, subì una rottura.
Lunghi conflitti opposero allora
Roma e Cartagine tra il III e il II secolo, al cui termine Roma cominciò
l’ascesa a massima potenza del Mediterraneo. La terza guerra si concluse
addirittura con la completa distruzione della città africana.
Lo scontro tra Roma e Cartagine
durò più di cento anni e subito tutti si resero conto che il risultato avrebbe
deciso le sorti di tutto il Mediterraneo occidentale. Per questo, le guerre
romano-puniche assunsero dimensioni drammatiche, poiché c’era in gioco la
sopravvivenza stessa delle due potenti città e civiltà da esse scaturite.
Dal 510 al 306 Cartagine aveva
stretto con Roma tre patti di collaborazione, mantenendo intatti i traffici,
dando aiuto ai romani nei porti, aiutandosi a vicenda in caso di aggressione da
altri popoli, non costruendo città in Sardegna.
I primi rapporti tra le due città
furono di tipo amichevole: nel 508 fu stipulato un trattato di navigazione e di
commercio con cui entrambe le potenze si impegnavano a limitare le espansioni
l’una a danno dell’altra. Questo trattato fu rinnovato nel 348 e nel 306,
definendo ancora più precisamente le rispettive zone di influenza.
La rottura avvenne nel 264 quando
i Mamertini di Messina chiesero l’intervento dei Romani per difendersi
dai Cartaginesi. Roma inviò così un esercito, guidato dal console Appio
Claudio, contro Cartagine e il suo alleato Gerone II di Siracusa, che
però dal 263 passò dalla parte dei Romani.
La prima guerra sferrata da Roma
contro Cartagine (265-241) mirava alla conquista della Sicilia, secondo un
disegno strategico militare ed economico. Cartagine non seppe prevedere il
pericolo romano, né contrastarlo con tutta l’energia necessaria, dovendo anche
combattere contro le città della Magna Grecia, ed affrontare le sollevazioni
indipendentiste in Africa che cominciavano a guardare con favore l’Impero
romano nascente.
Decisiva per l’esito della guerra
fu la capacità dei Romani di fronteggiare la tradizionale superiorità navale di
Cartagine. Nel 260, grazie all’uso dei corvi (ponti mobili che
permettevano di agganciare le navi nemiche), la flotta romana comandata da Caio
Duilio sconfisse quella Cartaginese a Milazzo.
Dopo il fallimento della
spedizione in Africa di Attilio Regolo nel 256, che fu fatto prigioniero
ed ucciso, i Romani, al comando di Lutazio Catulo, colsero la vittoria
decisiva alle Egadi nel 241, costringendo i Cartaginesi ad evacuare la Sicilia
e a pagare una forte indennità di guerra.
La Sicilia, tranne il
territorio di Siracusa, divenne la prima provincia romana; nelle province che
dovevano pagare un tributo, ogni tipo di potere e amministrazione era nelle
mani dei Romani che vi inviavano ex consoli (proconsoli) o ex pretori
(propretori).
Da questo momento le costanti
nella politica cartaginese furono due:
·
guardare al nuovo colonialismo con favore contro
l’antico;
·
affrontarlo nella divisione e nel tradimento dei
capi l’un l’altro, fomentato dai nuovi conquistatori.
Oltre alla Sicilia, Roma
s’impossessò della Sardegna e cominciò la pirateria lungo le coste africane.
Nel frattempo, espulsi dalle
isole, i Cartaginesi si erano volti verso la Spagna. Sotto la guida di
Amilcare, Cartagine si riprese e costruì, assieme al successore, il genero
Asdrubale, un considerevole stato in Spagna. Fu fondata Cartagena, che sembrava
richiamare la leggenda della città punica. I Barca attuarono una politica più
personale che filocartaginese tra gli iberici.
Nel 238, a pace conclusa, i
Romani sottrassero ai Cartaginesi anche la Sardegna e la Corsica.
Prima di iniziare un secondo
conflitto con Cartagine, Roma conquistò la regione adriatica dell’Illiria (230-228), riducendola a un
piccolo principato e controllando così il canale d’Otranto.
Nel 226 i Cartaginesi firmarono
un trattato con i Romani in cui ci si impegnava a non superare il fiume Ebro.
Questo trattato costò l’indipendenza dei Celtiberi che furono combattuti da
entrambi. Intanto, Cartagine si rafforzava ed aveva un’economia sempre più
florida, mentre i Romani, in seguito ad un tentativo di incursione dei Galli,
affrontandoli, giunsero ad occupare Mediolanum (Milano), affacciandosi
sulla Pianura Padana nel 225.
La decisione di Annibale di
attaccare Sagunto, alleata di Roma, provocò nuovamente la guerra.
Nel 219 scoppiò la seconda guerra
punica: Roma riapriva le ostilità contro Cartagine per il possesso della Spagna
dove i Barca avevano cominciato a ricostruire un nuovo potente Impero. In un
primo momento, Roma subì soprattutto il genio di Annibale che inflisse pesanti
perdite agli eserciti romani. Prima che i Romani furono riusciti a mandare un
esercito in Spagna, Annibale invase l’Italia per via terra, con una
traversata delle Alpi, cogliendo vittorie al Ticino (218), al Trasimeno (217) e
soprattutto a Canne (216), ma senza riuscire a spaccare la confederazione
romano-italica. Nel frattempo, un esercito romano, comandato da Publio e Gneo
Scipione, impediva che dalla Spagna giungessero rinforzi ad Annibale, pressato
dalla tattica di logoramento di Quinto Fabio Massimo, eletto dittatore,
ma presto rimpiazzato dai consoli Lucio Emilio Paolo e Terenzio Varrone, che nel
216 ripresero il combattimento in campo aperto.
Nello scontro di Canne, in
Puglia, 30 000 dei 50 000 soldati romani rimasero uccisi; Annibale non poté
terminare la sua opera, più per l’opposizione politica in patria che per la
bravura dei Romani. Un esercito inviato in Sicilia espugnò Siracusa e la rese
tributaria di Roma (211); un altro in Macedonia combatté contro Filippo V
(prima Guerra macedonica) a scopo puramente difensivo (Pace di Fenice, 205
a.C.).
Quando Asdrubale, fratello di
Annibale, riuscì a portare in Italia un esercito dalla Spagna, fu sconfitto e
ucciso al Metauro (207).
Ma i Romani si assicurarono
l’appoggio dei Numidi che fu decisivo nell’ultima battaglia svolta sul suolo
africano. A contendersi il trono della Numidia, ci sono Siface contro
Massinissa, tutti e due innamorati di Sofonisba, figlia di Asdrubale, figlio di
Giscone e che finirà suicida.
Nel 206, Publio Cornelio
Scipione, chiamato l’Africano dopo la vittoria, subentrato al comando
dell’esercito romano in Spagna, colse una vittoria decisiva a Ilipa e invase
l’Africa, costringendo Annibale ad abbandonare l’Italia. La vittoria di
Scipione a Zama, nel 202 (determinante nella vittoria romana fu Massinissa, che
salì al trono di Numidia, sotto protettorato romano), e costrinse Cartagine
alla resa, all’abbandono di tutti i possedimenti europei e della Numidia e al
pagamento di una forte indennità di guerra.
Annibale governò, portando
Cartagine ad un certo benessere, ma Roma voleva Annibale e questi scappò prima
in Siria, formando un esercito che fu sconfitto, e poi in Bitinia, dove fu
tradito e preferì il suicidio nel 183.
Roma: dall’espansione in Oriente alla terza Guerra punica – Con
l’espansione romana in Illiria del 229 e del 219 Roma passò ben oltre i propri
stanziamenti e soppresse la pirateria illirica che aveva reso l’Adriatico un
mare pericoloso.
Con l’alleanza stipulata tra il
Regno di Macedonia e Cartagine, dopo la Battaglia di Canne, Filippo V di Macedonia era intenzionato
a procurarsi uno sbocco sul mar Adriatico. Il patto stretto tra Filippo e
Annibale si proponeva l’espulsione dei romani dal loro protettorato sulle coste
orientali dell’Adriatico.
Nel 214 il console Marco Valerio Levino guidò un piccolo
contingente militare romano sulla costa illirica e poi strinse un’alleanza con
la lega etolica, ostile a Filippo, e
con Attalo I re di Pergamo, che
voleva espandere il proprio regno nell’Egeo a scapito della Macedonia. La
coalizione riuscì così a contenere le mire espansionistiche del re macedone. La
guerra si esaurì da sola e si giunse alla pace di Fenice del 205: Filippo
ottenne uno sbocco sull’Adriatico.
Fra Roma e la Macedonia non
correva tuttavia buon sangue e la pace di
Fenice non era destinata a durare. Dopo la vittoria su Cartagine, Roma
intervenne ancora in Macedonia, per richiesta di Atene che chiedeva aiuto
contro Filippo V. I Romani dichiararono immediatamente guerra a Filippo,
sebbene il Senato incontrasse delle difficoltà a far accettare al popolo questa
iniziativa.
Nel 200 iniziò così la seconda
Guerra macedonica. Tito Quinzio
Flaminino sbarcò con un esercito, ma Filippo rifiutò di dare battaglia e
tentò di negoziare. Flaminino richiese che il re macedone abbandonasse la
Grecia: era una pretesa impossibile, e Flaminino lo sapeva, la dichiarazione di
guerra fu la logica conseguenza. Nel 197 i Romani sconfissero Filippo nella battaglia di Cinocefale, costringendolo
a consegnare la flotta, a pagare un’indennità di guerra ed a riconoscere la
libertà alle città greche: al protettorato macedone si sostituì quindi quello
romano. Il re però non fu deposto, infatti il regno di Macedonia era utile ai
Romani per contenere le invasioni dei barbari verso la Grecia, che senza
Filippo sarebbe stata vulnerabile.
Nel frattempo Roma strinse alleanza con Attalo II (197-159)
reggente di Pergamo, combattendo insieme contro altri sovrani ellenistici, in
particolare contro Antioco III il Grande,
re di Siria, che premeva sui confini.
In seguito della sconfitta di
Filippo V di Macedonia ad opera dei Romani, Antioco invase la Grecia per
rivendicare la supremazia su tutti i domini di Alessandro Magno. Poiché Antioco
III si rifiutò di ritirare le sue truppe dalla Grecia liberata dai Romani,
nel 191 Roma lo attaccò, sconfiggendolo alle Termopili. Nel 190 Lucio Cornelio
Scipione sbarcò in Asia e sconfisse le truppe siriache nella battaglia di Magnesia, ed Antioco III fu
costretto a cedere i territori in Asia Minore, a mandare ostaggi a Roma ed a
pagare un’esorbitante indennità di guerra.
Quando nel 171 salì al trono Perseo, figlio di Filippo V,
profondamente ostile ai Romani, si delineò un nuovo conflitto con la
Macedonia. Dopo tre anni Lucio Emilio Paolo sconfisse l’esercito macedone
nella battaglia di Pidna, la
Macedonia fu divisa in 4 repubbliche che diventarono alleate di Roma. Perseo
sfilò prigioniero per Roma in un trionfo.
Nel
frattempo, molti a Roma, tra cui il senatore Catone, sostenevano la necessità
di abbattere definitivamente Cartagine.
Massinissa, re dei Numidi,
provocava Cartagine con saccheggi, fino al punto che ci fu la risposta dei
punici, contravvenendo agli accordi di pace con Roma: i Romani attendevano il
momento propizio e nel scoppiò la terza
guerra punica.
Nonostante Cartagine fosse
ritornata sui suoi passi, avesse consegnato ostaggi e pagato altri debiti,
quando i Cartaginesi seppero che tra le condizioni di pace c’era la distruzione
della città, vi si asserragliarono e resistettero. La città fu difesa casa per
casa e dopo sei giorni capitolò, nonostante il generale Asdrubale l’avesse
difesa valorosamente. Rasa al suolo, Cartagine continuò a bruciare per 17
giorni consecutivi, infine, fu sparso del sale sul terreno per renderlo
sterile. Scipione Emiliano trasformò il suo territorio nella provincia
d’Africa.
Due rivolte seguirono alla
vittoria romana in Grecia, quella di Andrisco in Macedonia nel 149
sedata solo nel 146 da Cecilio Metello, e quella della Lega achea,
sedata anch’essa nel 146: il console Lucio Mummio espugnò e distrusse Corinto,
radendola al suolo dalle fondamenta e proibendo alla popolazione di tornare ad
abitarvi, dichiarando il luogo maledetto 146.
La ferocia romana si può
interpretare in due modi:
·
la distruzione come un segnale di forza, un
monito, una lezione che avrebbe dovuto far capire una volta per tutte che non
era più conveniente ritentare nuove insurrezioni.
·
la distruzione come fatto politico e commerciale
perché, distruggendo Corinto e Cartagine e ridimensionando Rodi, i tre più
grandi centri commerciali del Mediterraneo, Roma diventava la potenza marittima
dominante.
La seconda guerra punica era
stata combattuta anche sul suolo iberico e parte di esso era stato conquistato
dai romani: i territori erano stati divisi in due province, l’Hispania citerior e l’Hispania superior.
Le popolazioni iberiche al di
fuori del dominio romano erano ostili agli occupanti, mantenendo
un clima di continua guerriglia.
Fin dal 142 Cecilio Metello
combatteva nel nord dell’Iberia e aveva conquistato gran parte dei territori,
ad eccezione di alcune città: tra queste la più importante era Numanzia.
Nel 137 un esercito al comando
del console Caio Ostilio Mancino fu circondato e costretto ad arrendersi, e per
altri quattro anni la situazione non ebbe sviluppi.
Nel 133 Attalo III ultimo re di
Pergamo morì lasciando il regno in eredità ai romani, e il suo territorio
costituì la provincia romana d’Asia; nello stesso anno, dopo una lunga
guerriglia, Roma decise di inviare Publio Cornelio Scipione Emiliano in Spagna
per domare la resistenza di Numanzia: Scipione assediò Numanzia con una doppia
linea di fortificazioni, la città, ridotta alla fame, fu vinta, i suoi abitanti
furono fatti schiavi e la città fu distrutta. Iniziò la romanizzazione del
territorio spagnolo.
Con la caduta di Numanzia i
romani posero fine alle rivolte ed estesero il loro dominio in Spagna alle
regioni del nord.
Fu il termine del primo periodo
di espansione che vide i romani acquisire una netta supremazia nel Mediterraneo
trasformando profondamente le attitudini di uno stato che fino a un secolo e
mezzo prima estendeva i suoi domini alla sola Italia.