7. Il Medioevo - Secondo la suddivisione più condivisa della Storia
d'Europa che prevede tre ere, classica, medioevale e moderna, il Medioevo è il
periodo intermedio, il cui inizio è collocato, per l'intera Europa, nel 476,
cioè con la deposizione dell'ultimo imperatore romano Romolo Augustolo e di
conseguenza con la fine dell'Impero Romano d'Occidente.
Diversamente, la conclusione del
Medioevo è collocata in ciascun paese in date diverse, che coincidono con la
nascita delle rispettive monarchie
nazionali ed il periodo rinascimentale.
Alcune date comunemente
utilizzate sono:
·
il 1453, con la caduta di Costantinopoli in mano
ai Turchi e la fine della Guerra dei Cent'Anni tra Inghilterra e Francia,
·
il 1492, con la fine del periodo islamico in
Spagna e la scoperta delle Americhe da parte di Cristoforo Colombo,
·
il 1517, con la Riforma protestante.
Il termine Medioevo, inteso come età di mezzo, fase di transizione tra due
stadi, implica già una visione negativa, che si radica già nel giudizio degli
umanisti che descrive avvilente e pericolosa la quotidianità nell'età storica
appena trascorsa, influenzati dalle recenti carestie e dall'arresto demografico
dovuto alle epidemie. In realtà è storicamente accertato come non mancarono
importanti innovazioni e conquiste. La visione negativa del Medioevo culminò
nell'Illuminismo, quando prevaleva la visione del Medioevo come epoca della prigionia dello spirito, come fanatismo
religioso che relegava l'uso della ragione e dell'arbitrio. I caratteri di rozzezza
e oscurità davano però una visione deformata e semplificata. I mille anni di
Medioevo, così ricchi di eventi e trasformazioni, hanno continuato ad essere
riproposti come tenebra, barbarie, violenza, perdita d'identità, sterilità e
carestia.
Per quanto numerosi possano
essere i lati negativi attribuibili al Medioevo, non si può accettare che tali
aspetti negativi siano assunti a linee guida per la descrizione della realtà
plurisecolare dell'Europa medievale e dei gruppi umani limitrofi.
Lo studio del Medioevo ebbe una
rivalutazione molto forte durante il Romanticismo, anche se non fu certo una
rivalutazione filologica, ma
piuttosto una distorsione in chiave contemporanea di un'idea di Medioevo. In
particolare interessavano aspetti legati alla fede, alla purezza, all'etica
cavalleresca e soprattutto legate alla nascita delle nazioni e delle
indipendenze comunali, che erano usate come fondamento delle rivendicazioni
indipendentiste dei movimenti rivoluzionari.
Anche oggi, per il Medioevo gli
studi storici sono condizionati dalle deformazioni del proprio modo di pensare
e delle influenze della società contemporanea.
Una suddivisione comunemente
utilizzata del Medioevo è tra:
·
L’Alto
Medioevo, che per convenzione va dalla caduta dell'Impero romano
d'Occidente, avvenuta nel 476, all'anno 1000. La carica imperiale rimase
vacante dopo la deposizione di Romolo Augusto nel 476. L'impero bizantino
mantenne la sovranità nominale sui territori appartenuti all'impero d'Occidente
e molte delle popolazioni germaniche che vi si erano stanziate riconobbero
formalmente l'autorità del sovrano di Costantinopoli. La restaurazione
bizantina in Italia mirò al controllo del papato, nell'ottica del tradizionale
cesaropapismo orientale, suscitando la viva opposizione dei pontefici. Alla
fine dell'VIII secolo, dopo le invasioni barbariche e la breve riconquista
operata da Giustiniano, si erano consolidati il regno dei franchi a Occidente;
il regno dei Longobardi nell'Italia settentrionale; l'Impero Bizantino nel sud
dell'Italia e nei Balcani. La Chiesa si riorganizzò e grazie al prestigio
politico e morale e all'accentramento esercitò un fermo controllo sulla
popolazione. L'unità dell'impero carolingio fu ben presto minata dalle lotte
fra i successori e dalle spinte disgregatrici delle aristocrazie.
·
Basso Medioevo che intende il periodo della
storia europea compreso tra il 1000 e la scoperta dell'America nel 1492.
8. L’Alto Medioevo - Il periodo compreso tra il V e l’XI secolo è
uno dei momenti più bui della storia
d’Europa.
Il
significato storico dei secoli di imbarbarimento che costituiscono l’Alto
Medioevo è però ambivalente: mentre
da una parte essi rappresentano la frattura con la civiltà classica i cui
valori sembrano andare perduti per sempre, dall’altra, invece, grazie all’assimilazione
di vari elementi, si attua la laboriosa gestazione di una nuova civiltà,
del tutto originale, la civiltà
europea che, progredendo e sviluppandosi,
imporrà poi la sua egemonia sul mondo.
La morte dell’Imperatore Teodosio nel 395 segnò la definitiva separazione
delle province occidentali, di lingua e
cultura latina, da quelle orientali,
ed il conseguente rapido declino
dell’Impero romano d’Occidente, meno abitato, meno urbanizzato, meno civile, meno ricco di risorse rispetto a quello d’Oriente o bizantino. I sintomi
dell’imminente dissoluzione dell’Impero già si delineavano:
·
nel 406 le difese della frontiera renana cedettero;
·
nel 410 Roma
fu saccheggiata una prima volta da
parte dei Visigoti di Alarico, i quali però, già cristianizzati, rispettarono
gli edifici religiosi;
·
nel 455 fu saccheggiata di nuovo da parte dei Vandali di Genserico che le infersero i
colpi più gravi;
·
nel 476, deposto l’ultimo Imperatore romano da
Odoacre, re degli Eruli, l’Impero d’Occidente cadde definitivamente e nuclei di
popolazioni germaniche (Goti, Vandali, Franchi) si insediano sul territorio imperiale, dando vita ai cosiddetti regni romano-barbarici[1].
9. Le grandi trasformazioni
sociali e politiche dell’Alto Medioevo: le
monarchie romano-barbariche.
a)
Decadenza della città – Roma, imponendo il suo dominio politico
sull’Europa occidentale, vi
introdusse quella civiltà urbana, lì sconosciuta, che aveva invece
caratterizzato tanto la Grecia quanto i grandi imperi dell’antichità.
Per
civiltà urbana si intende che la
città era il luogo delle decisioni politiche e amministrative, degli
scambi commerciali e culturali, la residenza usuale dei detentori del potere, mentre alla campagna era assegnata una posizione
subalterna in tutti questi campi, anche se essa rappresentava la principale e
quasi unica produttrice di ricchezza.
Il
modello di vita cittadina, portato dai legionari romani, si diffuse
rapidamente nei paesi europei conquistati. Fu un processo che toccò il suo
apice nel II secolo d.C., per avviarsi poi alla progressiva decadenza.
Fra le cause di questa decadenza
ai possono individuare molteplici fattori,
ma la ragione principale sta nell’effettiva inconsistenza
dell’economia legata alla
civiltà urbana. Nell’Occidente, a differenza dell’Oriente, la città fu un
organismo esclusivamente parassitario: essa[2]
non era produttrice di ricchezza e tanto meno
di ricchezza per un vasto mercato. Di qui la debolezza della civiltà
urbana romana, debolezza che condizionò negativamente anche la potenza militare dell’Impero d’Occidente, gli impedì di
resistere alla pressione dei barbari
e, assieme ad altre cause, ne determinò la fine.
Le
invasioni dei Germani, le scorrerie
degli Unni e degli Ungari, accelerarono il processo di decadenza della città
fino a portare, in molti casi, alla sua scomparsa materiale e comunque alla fine della sua posizione di predominio come
centro politico, culturale ed economico.
b)
La società rurale - È stato detto che l’Impero Romano d’Occidente
non morì di morte naturale, ma fu
assassinato dai barbari. L’affermazione
è vera nel senso che essa efficacemente
sottolinea la violenta frattura verificatasi con la civiltà precedente: senza le invasioni germaniche e le devastanti incursioni
di altre popolazioni barbariche che distrussero
la struttura materiale su cui si fondava la civiltà latina in Occidente, non si
spiegherebbe la totale scomparsa di
quella civiltà urbana che l’aveva caratterizzata dalla Spagna al Reno, dalla Britannia alle sponde
settentrionali dell’Africa; questa società lasciò il posto ad una società che ebbe i suoi centri
politico-amministrativi, commerciali
e culturali fuori delle città, nelle villae[3],
le estese tenute dei grandi proprietari fondiari, nei monasteri, nelle abbazie e nei castelli, residenza
dell’aristocrazia guerriera che
deteneva il potere sui paesi conquistati.
Intorno
a questi centri si addensava la
popolazione rurale: era una società che, per la forte regressione della produzione e degli scambi e la ridotta
circolazione monetaria, si basava esclusivamente, con poche eccezioni, su un’agricoltura che operava
in condizioni di estrema povertà e vedeva
ridursi progressivamente le sue potenzialità in terre coltivate e in braccia
lavorative.
La
popolazione, decimata, più che dalle guerre, dalle epidemie e dalle carestie che le accompagnavano, toccò livelli
bassissimi: nell’VIII secolo la popolazione dell’Italia non doveva superare i 4 milioni, mentre nel V secolo era di
quasi 8 milioni.
Le
terre coltivate erano divorate dalle selve che assediavano sempre più da
vicino gli insediamenti umani rarefacendo i
loro reciproci rapporti e dalle paludi, costituitesi per il dilagare e il ristagnare delle acque non più regolate.
L’incolto e la foresta dominavano il
paesaggio di questi secoli.
In
queste condizioni l’agricoltura, utilizzando tecniche e strumenti primitivi,
riusciva a stento, pur integrata dalla
caccia, dalla pesca e dall’allevamento brado, a soddisfare i bisogni di sussistenza: il misero mantenimento dei
contadini, dopo che erano state soddisfatte
le esigenze della classe dominante, cioè i guerrieri e gli ecclesiastici.
10. Eclisse del primato dell’Occidente - La degradazione dell’Europa, ridotta a paese
spopolato e selvaggio, dominato da
un’aristocrazia turbolenta e ribelle ad ogni forma di ordine costituito, dove erano scomparse anche le
vestigia della civiltà classica,
comportò la perdita del primato dell’Occidente, come conseguenza della
impotenza di Roma.
Nel periodo che va dal V all’XI
secolo, le civiltà più fulgide ed evolute, gli organismi statali più vasti e potenti
avevano i loro centri altrove: a Bisanzio, a
Damasco e Bagdad, capitali dell’Islam, in Cina ed in India.
L’Europa,
prostrata, a stento riusciva a
difendere la sua indipendenza dagli assalti e dalla penetrazione dell’Islam e
solo faticosamente riuscì a riprendersi, a cominciare dal XII secolo.
Quanto
a Roma, anziché parlare d’eclissi del suo primato politico, è più preciso
parlare di tramonto, in quanto essa
non riuscirà più a conseguire la perduta posizione di primaria potenza mondiale. Di essa sopravvivrà però,
lungo tutto il Medioevo, il vivo ed affascinante ricordo cui ci si
richiamerà come ad un ideale di ordine civile e di grandezza politica da riconquistare. La Chiesa di Roma se ne considerò
l’erede e anche su questo fondò la sua rivendicazione di universalità.
Usi e costumi dei Germani
Dalla Germania di Tacito
13. Non trattano alcuna faccenda, né pubblica né privata, se non con le
armi indosso: ma è usanza che ognuno le prenda solo quando la città l’ha
riconosciuto in grado di servirsene. Allora, nell’assemblea stessa, o uno dei
capi o il padre o i parenti armano il giovane di scudo e di framea: questa è
per loro la toga virile, questa per i giovani la prima distinzione onorifica;
fino allora vengono considerati appartenenti alla famiglia: dopo, allo Stato.
Un altissimo titolo di nobiltà o grandi benemerenze di antenati conferiscono ad
alcuni dignità di principe fin dalla prima giovinezza; tutti gli altri si
aggregano a capi più robusti e già da tempo provati, e non è motivo di vergogna
farsi vedere nel loro séguito. Vi sono anzi delle distinzioni nel séguito
stesso, a giudizio di colui che esso accompagna: e grande è l’emulazione, sia
tra i compagni, per stabilire a chi tocchi il primo posto accanto al capo, sia
tra i capi, chi abbia i seguaci più numerosi e più agguerriti.
Questa è la dignità, queste son le forze: essere circondati sempre da
una schiera numerosa di giovani scelti è ornamento in tempo di pace, difesa in
tempo di guerra. E non soltanto nella propria patria, ma anche presso le genti
vicine acquista rinomanza e gloria chi è segnalato dal numero e dal valore del
séguito; lo si ricerca per le ambascerie lo si colma di doni, e spesso la sua
sola fama fa vincere una guerra.
14. Sul campo di battaglia è disonorante per il capo esser superato in
valore, per il séguito non uguagliare il valore del capo. È poi infamia e
vituperio per la vita intera ritornare salvi dalla battaglia senza di lui:
difenderlo, vegliare sulla sua sicurezza, ascrivere a gloria sua anche i propri
atti di coraggio è supremo dovere. I prìncipi lottano per la vittoria, il
séguito per il principe.
Se la tribù in cui sono nati s’intorpidisce in una pace lunga e inerte,
molti giovinetti nobili ne raggiungono volontariamente un’altra, che allora
conduca una guerra; tanto è sgradita a quel popolo la tranquillità, perché tra
i rischi è più facile divenire famosi e perché non si mantiene un séguito
numeroso se non con la violenza e con la lotta. Infatti dalla liberalità del
capo si ottiene quel famoso cavallo da guerra, quella famosa framea, cruenta e
vittoriosa; banchetti e imbandigioni non raffinate, ma copiose, tengono luogo
di soldo.
Le guerre e i saccheggi forniscono i mezzi alla munificenza; e indurli
ad arare la terra o ad aspettare il raccolto sarebbe meno facile che indurli a
provocare il nemico e a meritarsi ferite. Anzi, sembra loro pigrizia e viltà
acquistar col sudore ciò che potrebbero procurarsi col sangue. 15. Quando non
fanno guerra, trascorrono molto tempo a cacciare e ancora di più ad oziare,
dediti al sonno e al cibo; i più forti e bellicosi non fanno nulla, ché la cura
della casa, dei penati e dei campi è lasciata alle donne e ai vecchi e ai meno
validi della famiglia. Essi intanto poltriscono: strana contraddizione della
natura, che i medesimi uomini abbiano caro l’ozio e detestino la pace.
È usanza che le tribù rechino spontaneamente ai capi un tanto a testa
di bestiame o di biade, che, accettato in omaggio, sovviene pure alle loro
necessità. I doni più apprezzati sono quelli dei popoli confinanti, offerti o
da privati o a spese pubbliche: cavalli scelti, armi grandiose, medaglioni e
collane. Ora hanno imparato da noi a prendere anche denaro.
16. È noto che i popoli germanici non abitano alcuna città e non
sopportano nemmeno case riunite fra loro. Vivono in dimore isolate e sparse qua
e là, a seconda che una fonte o una pianura o un bosco li ha attirati. Fondano
villaggi non di edifici insieme connessi, all’uso nostro: ciascuno lascia uno
spazio libero intorno alla propria casa, o contro il pericolo d’incendio o per
imperizia del costruire. Non adoperano neppure pietre squadrate né tegole: per
tutto si servono di legname greggio, senza preoccuparsi di renderne piacevole
l’aspetto. Rivestono però accuratamente certe parti di una terra così fine e
lucida, da imitare la pittura e i disegni colorati. Son soliti anche scavare
dei sotterranei, e li caricano al di sopra di abbondante letame, per rifugio
contro l’inverno e per depositarvi le biade, perché in tal modo mitigano il
rigore del freddo; inoltre, se mai viene un nemico, saccheggia le località in
vista, ma ciò che è nascosto sotto terra o rimane ignorato, o sfugge per il
fatto stesso che bisogna farne ricerca.
17. Per abito portano tutti un saio trattenuto da una fibbia o –
mancando questa – da una spina; altrimenti, stanno nudi e passano intere
giornate accanto al focolare. I più ricchi si distinguono per una sottoveste
non fluttuante, come i Sarmati e i Parti, ma serrata e aderente alle membra.
Portano anche pelli di fiera, senza raffinatezze quelli più vicini alla riva,
con maggiore eleganza quelli dell’interno, dove non arriva il commercio a
portare alcun lusso. Scelgono gli animali e, dopo averli scuoiati, screziano i
velli con pezzi di pelle dei mostri che vivono nel più remoto Oceano e nel mare
sconosciuto.
Le donne vestono in maniera non diversa dagli uomini; senonché si
coprono per lo più con tessuti di lino guerniti di porpora, e non prolungano la
parte superiore del vestito a formare maniche. Le braccia sono nude fino alla
spalla, e anche il sommo del petto rimane scoperto.
18 I matrimoni però sono severamente regolati, e non vi è nei loro
costumi nulla che meriti maggior lode. Infatti, quasi soli tra i barbari, si
accontentano d’una moglie per ciascuno, eccettuati pochissimi, non per avidità
sensuale, ma perché la nobiltà del loro sangue fa sì che molte famiglie ne
ambiscano il connubio.
Non la moglie al marito, ma il marito alla moglie porta la dote.
Assistono alla cerimonia i genitori e i parenti e valutano i doni, scelti non
per appagare il gusto femminile né per fornire ornamenti alla sposa: sono buoi,
e un cavallo imbrigliato e uno scudo con framea e spada. In cambio di tali doni
si riceve la moglie, ed essa per parte sua porta qualche arma al marito: essi
considerano questo il vincolo più forte, questo l’arcano rito, queste le
divinità coniugali.
Perché la donna non si creda estranea ai nobili pensieri e alle vicende
della guerra, dagli auspici stessi, all’inizio del matrimonio, è avvertita
ch’essa viene associata alle fatiche ed ai pericoli, che in pace come in guerra
soffrirà e oserà tanto quanto il marito. Questo è il significato dei buoi
aggiogati, del cavallo bardato, delle armi donate. Così deve vivere e morire:
quanto essa riceve, dovrà consegnarlo inviolato e sacro ai figli, dai quali lo
riceveranno le nuore e a loro volta lo trasmetteranno ai nipoti.
19. Vivono dunque ben difese nel loro pudore, non corrotte da
attrattive di spettacoli né da eccitamento di conviti. Uomini e donne ignorano
ugualmente i segreti della scrittura. Rarissimi, tra gente così numerosa, gli
adulterii, dei quali il castigo è immediato. Ne è esecutore il marito, che
scaccia di casa la donna, dopo averla denudata e averle reciso le chiome, e
sotto gli occhi dei parenti la insegue a sferzate per tutto il villaggio. Non
c’è infatti perdono per colei che si è prostituita: né bellezza, né gioventù,
né ricchezza le farebbero trovare uno sposo. Perché là i vizi non destano riso,
e non si dà il nome di moda al corrompere e all’essere corrotti.
Più sagge ancora sono quelle tribù, dove vanno a nozze soltanto le
vergini, e la speranza e i voti della sposa non si appagano che una volta; esse
prendono un solo marito, così come hanno un solo corpo e una sola vita, perché
il loro pensiero e il loro desiderio non vadano oltre e perché non il marito,
ma il matrimonio sia da loro amato. Limitare il numero dei figli o uccidere
qualcuno di quelli nati in soprannumero è ritenuto colpa infamante, e là i
buoni costumi valgono più che le buone leggi in altri paesi.
20. I bambini crescono in ogni casa nudi e sudici, eppure acquistano
quelle membra, quelle corporature che noi guardiamo con meraviglia. Tutti
vengono allattati dalla propria madre; non si affidano mai ad ancelle o a
nutrici. Nessuna raffinatezza di educazione distingue il padrone dal servo:
trascorrono la vita tra i medesimi animali domestici e sul medesimo terreno,
finché l’età viene a distinguere dagli altri i nati liberi e il coraggio a
rivelarli.
I giovani conoscono tardi il godimento sessuale, il che assicura loro
una inesauribile forza virile. Né vi è fretta di maritare le fanciulle, che
uguagliano gli uomini nel vigore giovanile e nella statura; vanno a nozze
quando forti al pari di loro, e i figli rinnovano la gagliardia dei genitori.
I figli delle sorelle sono tenuti dallo zio nello stesso conto che dal
padre. Alcuni ritengono anzi ancora più sacro e più stretto quel legame di
sangue, e quando ricevono ostaggi lo preferiscono, come se vincolasse più
saldamente gli animi e più largamente il parentado. Eredi però e successori
sono a ciascuno i figli, e non si fanno testamenti. In mancanza di prole,
subentrano nella successione i fratelli, gli zii paterni, gli zii materni.
Quanto più numerosi sono i parenti, sia dello stesso sangue, sia acquistati per
via di matrimoni, tanto più onorata è la vecchiaia; e non c’è alcun vantaggio a
non avere discendenti.
T Il viaggio a Costantinopoli
Dall’Antapodosis, di Liutprando di Cremona, Trad di M. Oldoni e P. Ariatta
1987.
Uscendo da Pavia il l° d'agosto (949),
giunsi in tre giorni lungo il corso del Po a Venezia, dove trovai l'eunuco
Salemone kitonite [4], ambasciatore
dei Greci, che, di ritorno dalla Spagna e dalla Sassonia, desiderava tornare a
Costantinopoli e conduceva con sé il messo del signore nostro, allora re, ora
imperatore[5], con grandi doni, cioè
Liutifredo, ricchissimo mercante di Magonza.
Partiti da Venezia il 25 agosto arrivammo il 17 settembre a
Costantinopoli, dove in che modo inaudito e meraviglioso fummo accolti, non ci
rincrescerà di scriverlo.
Vi è a Costantinopoli una casa, contigua al palazzo, di meravigliosa
grandezza e bellezza, che dai Greci è detta Magnaura, quasi grande aura, con la «v» posta al luogo del
«digamma». Costantino[6] fece così preparare
questa casa sia per i messi degli Ispani, che allora erano appena arrivati, sia
per me e Liutifredo. Innanzi al sedile dell'imperatore stava un albero di
bronzo, ma dorato, i cui rami erano pieni di uccelli ugualmente di bronzo e
dorati di diverso genere, che secondo le loro specie emettevano i versi dei
vari uccelli. Il trono dell'imperatore era. disposto con una tale arte, che in
un momento appariva al suolo, ora più in alto e subito dopo sublime, e lo
custodivano, per dir così, dei leoni di immensa grandezza, non si sa se di
bronzo o di legno, ma ricoperti d'oro, i quali percuotendo la terra con la
coda, aperta la bocca emettevano il ruggito con le mobili lingue. In questa
casa dunque fui portato alla presenza dell'imperatore sulle spalle di due eunuchi.
E sebbene al mio arrivo i leoni emettessero un ruggito, e gli uccelli
strepitassero secondo le loro specie, non fui commosso né da paura, né da
meraviglia, poiché di tutte queste cose ero stato informato da chi le conosceva
bene.
Chinatomi prono per tre volte adorando l'imperatore alzai il capo e
quello che avevo visto prima seduto elevato da terra in moderata misura, lo
vidi poi rivestito di altre vesti seduto presso il soffitto della casa; come
ciò avvenisse non lo potei pensare, se non forse perché era stato sollevato fin
là da un ergalion (argano),
con cui si elevano gli alberi dei torchi.
Allora non disse nulla di sua bocca, giacché, anche se lo volesse, la
grandissima distanza lo renderebbe sconveniente, ma per mezzo del logoteta mi
domandò della vita e della salute di Berengario[7]. Avendogli risposto
conseguentemente, ad un cenno dell'interprete uscii e mi ritirai subito
nell'ostello concessomi.
Ma non m'incresca di ricordare neppure questo, che cosa allora io abbia
fatto per Berengario, perché si conosca con quanto amore abbia prediletto
costui e che razza di ricompensa abbia da lui ricevuto per le mie buone azioni.
Gli ambasciatori degli Ispani ed il nominato Liutifredo, messaggero di
Ottone nostro signore, allora re, avevano portato molti doni da parte dei loro
signori all'imperatore Costantino. Io invece da parte di Berengario non avevo
portato nulla se non una lettera, per di più piena di menzogne. Il mio animo
ondeggiava non poco per questa vergogna e meditava attentamente che fare a questo
proposito. Mentre ondeggiavo e fluttuavo assai, la mente mi suggerì di
conferire i doni, che da parte mia avevo recato all'imperatore, come da parte
di Berengario e di ornare, per
quanto potevo, di parole il piccolo dono (Teren., Eunuch., 214). Offrii dunque nove
bellissime corazze, sette bellissimi scudi con borchie dorate, due coppe
d'argento dorato, spade, lanche. spiedi, quattro schiavi karzimasi, più preziosi per
l'imperatore di tutte le cose nominate. Infatti i greci chiamanoKarzimasio il fanciullo reso
eunuco per amputazione dei testicoli e della verga; il che i mercanti di Verdun
sogliono fare per grande guadagno e li vendono in Spagna.
Fatte queste cose, l'imperatore diede ordine di chiamarmi a palazzo tre
giorni dopo e, rivolgendosi a me di sua bocca, mi invitò a banchetto, dopo il
quale donò a me ed al mio seguito un grande regalo. Ma giacché si è presentata
l'occasione di narrarlo, ritengo bene non tacere, ma descrivere quale sia la
sua mensa, soprattutto nei giorni di festa e quali giochi si facciano a mensa.
Vi è una casa presso l'ippodromo rivolta a nord di meravigliosa altezza
e bellezza, che si chiama Dekaenneakubita[8], nome che ha
preso non dalla realtà, ma per cause apparenti; deka in greco è dieci in latino, ennéa è nove, kubita poi possiamo dire le cose
inclinate o curvate dal verbo cubare.
E questo pertanto, perché nella natività secondo la carne del signor nostro
Gesù Cristo (25 dicembre)
vengono apparecchiate diciannove mense. A queste l'imperatore e parimenti i
convitati banchettano non seduti, come negli altri giorni, ma sdraiati; in quei
giorni si serve non con vasellame d'argento, ma solo d'oro. Dopo il cibo furono
recati dei pomi in tre vasi d'oro che, per l'enorme peso, non sono portati
dalle mani degli uomini, ma da veicoli coperti di porpora. Due vengono posti
sulla mensa in questo modo. Attraverso fori del soffitto tre funi ricoperte di
pelli dorate sono calate con anelli d'oro che, posti alle anse che sporgono nei
vassoi, con l'aiuto in basso di quattro o più uomini, vengono sollevati sopra
la mensa per mezzo di un ergalion girevole,
che è sopra il soffitto, e allo stesso modo vengono deposti. Tralascio di
scrivere, che sarebbe troppo lungo, i giochi che ho visto lì; uno solo non mi
increscerà d'inserire qui per la meraviglia.
Venne un tale che portava sulla fronte senza aiuto delle mani un palo
lungo ventiquattro piedi o più, che aveva un altro legno di due cubiti per
traverso ad un cubito più in basso dalla sommità. Furono introdotti due
fanciulli nudi, ma campestrati, cioè con un cinto, i quali salirono sulla
pertica, vi fecero evoluzioni e discesero poi a capo in giù, mantenendola
immobile come se fosse infitta al suolo con le radici. Quindi, dopo la discesa
di uno, l'altro, che era rimasto e lassù aveva fatto giochi da solo, mi rese
attonito per ancor più grande meraviglia. In ogni modo, finché entrambi avevano
giocato, sembrava cosa possibile, perché, sebbene in modo mirabile, governavano
con un peso uguale la pertica su cui erano saliti. Ma quel solo che rimase
sulla sommità della pertica, poiché seppe equilibrare il peso così bene da
giocare e discendere indenne, mi rese così stupefatto che la mia meraviglia non
passò inosservata anche all'imperatore in persona. Perciò, fatto venire
l'interprete, mi chiese che cosa mi paresse più straordinario: il fanciullo che
si era equilibrato con sì gran misura che la pertica rimaneva immobile, oppure
quello che sulla fronte aveva sorretto il tutto con tanta abilità che, né il
peso, né le evoluzioni dei fanciulli lo piegarono neppure un po'. Dicendo io di
non sapere che cosa mi sembrassethaumastòteron,
cioè più meraviglioso, egli, scoppiato in una gran risata, rispose che
similmente non lo sapeva neppure lui.
Ma nemmeno penso di dover tralasciare in silenzio quest'altra cosa che
colà vidi di nuovo e straordinario. Nella settimana prima del baiophoron, che noi diciamo i
rami delle palme, l'imperatore fa l'erogazione di monete d'oro sia ai militari,
sia a quelli preposti ai vari uffici, a seconda del merito di ciascun ufficio (24-30 marzo 950). E poiché volle che
io partecipassi all'erogazione, mi ordinò di venire. Fu una cosa di tal genere.
Era stata posta una mensa di dieci cubiti di lunghezza e quattro di larghezza,
che aveva le monete poste in scatolette, secondo che era dovuto a ciascuno, col
numero scritto all'esterno delle medesime. Entravano alla presenza
dell'imperatore non alla rinfusa, ma in ordine secondo la chiamata di colui che
recitava i nomi scritti degli uomini secondo la dignità dell'ufficio. Fra
questi è chiamato per primo il rettore della casa, al quale vengono posti non
nelle mani ma sugli omeri le monete con quattro scaramangi (mantelli). Dopo di lui ho domestikòs tes askalónes e ho deloggáres tes ploôs, dei quali il
primo è capo dei soldati, l'altro della flotta. Questi, siccome la dignità è
pari, ricevono monete e mantelli in pari numero e, per la gran quantità, non li
portarono già sugli omeri, ma se li trascinarono dietro a fatica con l'aiuto di
altri. Dopo questi furono ammessi i magistri nel numero di ventiquattro, ai
quali furono erogate libbre di monete d'oro, a ciascuno secondo lo stesso
numero ventiquattro, con due mantelli. Dopo questi seguì l'ordine dei patrizi,
che ricevettero in dono dodici libbre di monete con un mantello. Non so il
numero dei patrizi né quello delle libbre, ma soltanto ciò che era dato a
ciascuno. Dopo queste cose vien chiamata una turba immensa, deiprotospathari, degli spathari, degli spatharokandidati, dei kitoniti, dei manglaviti, dei protokarabi, dei quali uno aveva
preso sette libbre, altri sei, cinque, quattro, tre, due, una libbra, secondo
il grado di dignità. Non vorrei tu credessi che questa cosa si sia compiuta in
un sol giorno. Si cominciò il giovedì dall'ora prima del giorno fino all'ora,
quarta del venerdì e al sabato fu terminata dall'imperatore. A questi che
prendono meno di una libbra, non già l'imperatore ma ilparakoimómenos distribuisce per tutta la settimana che
precede la Pasqua. Assistendo io e considerando con meraviglia la cosa,
l'imperatore per mezzo del logoteta mi domandò che cosa mi piacesse di questa
faccenda. E a lui dissi: «Mi piacerebbe assai, se mi giovasse; come anche al
ricco assetato e ardente il riposo di Lazzaro apparsogli sarebbe piaciuto se
gliene fosse venuto pro; ma poiché non gliene venne, come, di grazia, avrebbe
potuto piacergli?» Sorridendo l'imperatore, un po' mosso da vergogna, accennò
con capo che andassi da lui e volentieri mi diede un grande pallio con una libbra
di monete d'oro, che ricevetti ancor più volentieri.
a)
I Germani e i regni romano-barbarici - Le infiltrazioni prima e le
invasioni poi dei popoli germanici
(Visigoti, Ostrogoti, Franchi, Sassoni, Burgundi, Longobardi e altri) portarono sulla scena europea un fattore nuovo
che, insieme con la civiltà classica e con il Cristianesimo, contribuì alla
formazione della nuova civiltà.
Fu
una comparsa drammatica che sembrò sommergere totalmente la civiltà precedente e mandò in pezzi l’unità politica
dell’Europa occidentale, base di tale civiltà.
Vi
si sostituì una molteplicità di stati autonomi che prefigurava così la condizione politica della futura Europa.
I
regni romano-barbarici si erano formati nelle ex province romane dalle invasioni
del V secolo ed, inizialmente, erano stati formalmente dipendenti dall'impero.
Il regno era l'unica istituzione
politica nuova elaborata dagli invasori, ma il regno barbarico non conobbe la
separazione dei poteri, concentrati tutti nelle mani del re che li aveva acquisiti
per diritto di conquista, al punto che la cosa pubblica tendeva a confondersi
con la sua proprietà personale e la stessa nozione di regno con la persona di
chi esercitava il potere politico ed assicurava la protezione militare dei
sudditi, dai quali esigeva in cambio fedeltà. La monarchia dei popoli barbarici
non fu territoriale bensì nazionale, ossia rappresentò chi era nato nella
stessa tribù.
Nonostante il ruolo distruttivo
che spesso i popoli invasori svolsero sulle terre invase, quasi tutti i nuovi
regni furono estremamente vulnerabili. Alcuni, come quelli dei Burgundi o degli
Svevi (Suebi), furono assimilati dai vicini; altri, come quelli dei Vandali
o degli Ostrogoti, crollarono sotto l'offensiva di Bisanzio, che tentò di
ricostruire l'unità dell'impero. Quelli dei Visigoti in Spagna e dei Franchi
nelle ex province galliche invece sopravvissero, sia per la rapida integrazione
tra le popolazione dei residenti e gli invasori, sia per la collaborazione con
la Chiesa e con esponenti del mondo intellettuale latino.
In tutti questi regni l’esercito, cioè il potere effettivo, era
nelle mani dei Germani conquistatori,
mentre le istituzioni giuridiche e amministrative romane continuavano a sopravvivere, anche se lo
spirito che le animava non era più lo stesso, ma era quello che
discendeva dalla cultura agraria e guerriera della gente germanica.
I
più importanti regni romano-barbarici furono:
·
il regno di
Odoacre[9](476-493) in Italia,
cui seguì il regno degli Ostrogoti[10] (493-533), ma una
più netta frattura con la civiltà latina si
ebbe con l’ultima invasione
germanica, quella dei Longobardi[11] del
568. Gli eccidi, le razzie, le distruzioni che accompagnarono l’occupazione violenta, il protratto conflitto con i
Bizantini che avevano precedentemente
riconquistata l’Italia con la lunga e devastante guerra greco-gotica[12]
(535-553); l’anarchia dei capi
Longobardi, i duchi, portarono l’Italia alle massima prostrazione. Solo in seguito allo stabilizzarsi
della situazione politica e della conversione dei Longobardi al cattolicesimo,
la condizione degli Italiani migliorò. L’invasione
dei Longobardi e la loro incapacità di occupare tutta la penisola ebbero come
conseguenza la fine dell’unità politica dell’Italia.
·
il regno
dei Franchi[13],
nel nord dell’attuale Francia, da
cui nascerà, con la dinastia dei
Carolingi, il più importante organismo statale dell’Europa;
·
il regno dei Visigoti[14], nella Francia occidentale e in Spagna, che fu
quasi totalmente spazzato via nell’VIII secolo dagli Arabi;
·
il regno
dei Vandali[15],
in Africa settentrionale
(Tunisia e Algeria), che nel VI secolo fu abbattuto dai Bizantini
nel quadro dell’opera di ricostituzione dell’unità mediterranea da parte di
Giustiniano.
La
violenta intrusione dei Germani apportò al mondo occidentale nuovi costumi,
nuovi istituti, una diversa concezione del potere e della libertà
personale e anche una nuova, prorompente
vitalità. Questi elementi concorsero a dare alla civiltà europea la sua novità
e la sua caratteristica di varietà, di ricchezza di articolazione e di voci,
che mancarono alla ben più raffinata civiltà bizantina, che, al riparo
da questa traumatica frattura col passato,
venne esaurendosi in se stessa, tanto che nei quasi dieci secoli in cui sopravvisse all’Impero d’Occidente non creò
nulla di paragonabile a ciò che l’Europa produsse dal XIII al XV
secolo.
b) L’Impero Bizantino -
L’Impero Romano d’Oriente[16], più
comunemente chiamato Impero Bizantino,
riuscì a sostenere vittoriosamente l’urto dei popoli slavi e germanici e, nell’VIII secolo, quello ancor più pericoloso degli
Arabi che assediarono ben due volte Costantinopoli. Le ragioni di questa sua
resistenza vanno trovate nella maggiore
solidità della sua economia urbana sostenuta da un consistente traffico commerciale, reso sicuro dal dominio bizantino del mare,
e da una produzione industriale cittadina. Queste condizioni assicurarono
stabilità per secoli al bisante[17],
la moneta bizantina, indice di una
situazione finanziaria sana.
Il punto di
partenza della civiltà bizantina fu proprio l’Impero romano in crisi. La nuova
capitale, trasferita nell’oriente mediterraneo nel 330 d.C., era stata
costruita sul modello dell’Urbe e fu proprio Costantinopoli[18] a divenire la novella Roma tenendo così in vita fino al XV
secolo, pur nelle sostanziali differenze ideologiche, le grandi tradizioni
ereditate da Roma.
Il trasferimento della capitale
dell’Impero a Bisanzio fu dunque un avvenimento determinante: alla nuova
capitale si volle conferire l’aspetto dell’antica Roma, perciò furono
intrapresi grandiosi lavori per i quali arrivarono pittori, scultori,
architetti dalla Siria e da altre province dell’Asia Minore. La nuova capitale
si arricchì in breve di nuove mura, di una grande piazza e di molti edifici
pubblici. Nacque dunque una Roma novella, in cui Costantino volle conciliare il
potere imperiale e quello della religione cristiana, da poco riconosciuta ufficialmente.
Verso
il VI secolo, ad opera dell’Imperatore Giustiniano[19]
(527-565), Bisanzio tentò di ricostituire
l’unità politica del Mediterraneo e riuscì a riconquistare le coste
settentrionali dell’Africa, le coste
meridionali della Spagna, l’Italia e le sue isole, strappandole rispettivamente ai Vandali, ai Visigoti e agli
Ostrogoti.
La
guerra per la conquista dell’Italia fu
lunga (535-553) e rovinosa e la dominazione bizantina che la seguì, interrotta dall’invasione dei Longobardi nel 568, fu caratterizzata da rapine e
vessazioni. Ciò nonostante, dove i Bizantini resistettero, ricacciando i Longobardi, e in particolare a Ravenna e a
Roma, la dominazione bizantina mantenne un legame con l’Impero d’Oriente che
rappresentava l’organizzazione statale, il mondo civile, la cultura antica.
Bisanzio, per quasi dieci secoli,
assolse il compito di baluardo della cristianità contro l’Islam, contrappose alla rozza Europa un centro di splendida raffinata
civiltà, operò come agente dì
diffusione del cristianesimo tra i popoli slavi, conservò le testimonianze della letteratura e della scienza greca che i suoi
dotti portarono in Italia ai
letterati umanisti che si misero alla loro scuola per riapprendere il greco.
c) L’avanzata dell’Islam
- Tra il VII e l’VIII secolo l’Europa fu sul punto di essere soffocata dall’irrompente espansione
dell’Islam.
Le tribù dell’appartata e
arretrata penisola araba, unificate politicamente dalla predicazione di Maometto[20]
creò come elemento propulsivo dell’Islam l’esaltazione della fede e della legge musulmana, che dovevano essere propagate
con la guerra santa[21], che garantisce il paradiso a chi muore combattendo contro gli infedeli.
Nel 632, alla morte di Maometto,
fu creato l'istituto del califfato[22] che, tra il
632 e il 661, annoverò quattro successori politici di Maometto e che, per la
sua strutturazione tradizionale è ancor oggi chiamato ortodosso. Nel corso di quest'epoca furono realizzate le prime
conquiste della Siria-Palestina, dell'Egitto, della Mesopotamia e di parte
della Persia.
Dal 661 al 750 il califfato fu
gestito invece dal clan omayyade della tribù meccana dei Quraysh.
Dal 750 al 1258 il califfato fu
appannaggio del clan hascemita degli Abbasidi, più strettamente imparentato al
Profeta.
Già dal IX secolo però il
califfato si disintegrò per le enormi dimensioni raggiunte e per le pressioni
regionalistiche. Nacque una lunga serie di Stati dinastici che furono in realtà
estremamente vivaci da un punto di vista sociale, economico e culturale.
Galvanizzate da questo fanatismo religioso, gli Arabi si
lanciarono alla conquista dei più
civilizzati Paesi confinanti: ad oriente sino all’Indo nel 711, ad occidente
assoggettarono le coste settentrionali dell’Africa, dominio bizantino, per
passare, attraversato lo stretto di Gibilterra nel 711, alla conquista della
Spagna visigota e puntare, superati i Pirenei, al cuore del regno dei
Franchi. Qui li fermò, sconfiggendoli a Poitiers, Carlo Martello[23] nel 732. Quattordici anni prima era
fallito, grazie alla resistenza dell’Imperatore bizantino Leone III Isaurico[24], il tentativo
arabo di prendere Costantinopoli (717-18).
La
cristianità era riuscita a sottrarsi all’attanagliamento dell’Islam, che tuttavia
conseguì ancora notevoli successi, come la conquista delle grandi isole che
fece del Mediterraneo un grande lago musulmano, e continuò per secoli a
costituire una minaccia per le pericolose incursioni contro i paesi costieri. Però nell’Europa occidentale gli Arabi non
riuscirono più ad avanzare, anzi furono, sia pure lentamente, ricacciati.
Il
dominio arabo, stabilitosi per alcuni
secoli nel bacino del Mediterraneo (Spagna, Africa settentrionale, Sicilia, Egitto), vi consentì la fioritura di una
delle più elevate civiltà che il mondo abbia conosciuto. In essa
confluivano culture diverse che gli Arabi avevano
assimilato nel corso delle loro conquiste: elementi della civiltà greca
diffusasi nel periodo ellenistico in
Asia minore e nel Medio Oriente ed elementi delle culture cinesi e indiane. Ne risultò una civiltà originale
che diede i suoi frutti sia nell’ambito delle conoscenze teoriche (filosofia, matematica, astronomia) sia di
quelle applicate (medicina,
alchimia), con un rapido progresso delle tecniche, particolarmente nel campo dell’agricoltura, ma anche in quello della
lavorazione delle stoffe, della carta, del cuoio, della seta, delle armi.
Nel
campo artistico gli Arabi si segnalarono soprattutto nell’architettura, come testimoniano fra l’altro l’Alhambra
di Granada e l’Alcazar di Siviglia.
La Sicilia, sotto la dominazione
araba protrattasi fino al 1072 quando l’isola fu occupata dai Normanni, diventò
una delle regioni più progredite del mondo occidentale: la tecnica applicata all’agricoltura ne aveva fatto
un unico grande giardino; Palermo fu in quell’epoca una delle città più
popolate e più raffinate del mondo.
Lo
splendore della civiltà araba tramontò quando agli Arabi si sostituirono i
Turchi, popoli di razza mongolica che, convertiti all’Islam nell’VIII
secolo, a partire dal Mille conquistò progressivamente i territori occupati
dagli Arabi.
11. La Chiesa – Dopo l’editto di tolleranza emanato
dall’Imperatore Costantino a Milano
nel 313, la vita della Chiesa era stata turbata dalle lotte tra le diverse confessioni. La funzione religiosa della
Chiesa richiese che essa si desse una struttura
gerarchica, amministrativa, politica ed
economica. Infatti il Papato ebbe sempre la necessità di gestire i
rapporti con i re, gli Imperatori, ma anche
con i signori a livello locale.
Per
quel che riguarda l’Italia, il contrasto più importante fu quello fra cattolicesimo
e arianesimo. Non si trattava di una semplice contrapposizione
teologica in cui i cattolici
affermavano la divinità di Cristo, figlio di Dio; e gli ariani vedevano in Cristo esclusivamente la natura umana, ma di un
contrasto politico:
·
i sostenitori
del cattolicesimo erano anche i
sostenitori della tradizione romana e dell’autonomia della Chiesa nei confronti
dell’Imperatore,
·
l’arianesimo,
invece, che aveva i suoi seguaci particolarmente fra le truppe germaniche,
tendeva a sottoporre la Chiesa all’Imperatore come strumento politico.
La
vittoria del cattolicesimo
sull’arianesimo significò perciò il rafforzarsi dell’autonomia della Chiesa di Roma, così che, quando l’Impero
d’Occidente cadde, la Chiesa non fu
coinvolta nella rovina.
Mentre l’assetto economico-culturale dell’Occidente diventava sempre
più precario per la debolezza o l’assenza del potere politico, la Chiesa divenne sempre più un’istituzione autonoma, contemporaneamente erede dell’antica organizzazione
civile e maestra dei barbari.
Già
nel VI secolo d.C. la Chiesa di Roma
era il maggior proprietario terriero dell’Occidente; dalle sue proprietà traeva i guadagni necessari alle opere
di carità, alla sovvenzione delle Chiese
locali più povere e al mantenimento della corte che si andava formando
a Roma attorno al papa.
La
corte papale, composta dai cardinali, dagli ecclesiastici che amministravano i beni e svolgevano funzioni diplomatiche, da intellettuali che scrivevano i documenti ufficiali, fu definita Curia romana. Attraverso questa
organizzazione i papi riuscirono a far riconoscere la loro diretta proprietà sul Patrimonio di San Pietro (le terre che si estendevano dal Lazio fino alla Romagna, attraverso l’Umbria e le Marche), nucleo del futuro Stato pontificio[25]; la Curia gestì anche i difficili rapporti con l’Impero bizantino
e il vescovo di Costantinopoli, che non
riconosceva l’autorità del papa di Roma,
fino alla definitiva rottura.
La
Curia, secondo le scelte dei papi, favorì anche le alleanze di Roma con i vari re della cristianità, molti dei quali accettavano di essere formalmente vassalli del papa in cambio
del riconoscimento ufficiale del loro
potere.
Fruendo
di questo duplice prestigio, nelle città, durante i regni romano-barbarici, la Chiesa,
in quanto erede del sistema politico e amministrativo creato da
Roma e depositaria del patrimonio culturale latino-cristiano,
assunse anche il potere civile,
essendo l’unica autorità sopravvissuta cui spettava il compito di fronteggiare la situazione storica, nata dal mutato rapporto tra latini e
barbari.
Con
i Longobardi il governo delle città fu affidato ai duchi, ma nella realtà costoro furono soltanto i comandanti delle forze militari ivi stanziate ed il potere
civile restò prevalentemente in mano al vescovo, soprattutto dopo la
conversione dei Longobardi al cattolicesimo ad opera particolarmente della regina Teodolinda[26]
all’inizio VII secolo.
Il
duplice potere, religioso e secolare,
nelle mani degli ecclesiastici, portò alla mondanizzazione
della Chiesa, fenomeno che si
aggravò con l’età feudale, quando i vescovi, gli abati e i priori dei conventi assunsero anche formalmente la
veste di signori.
Un’ulteriore
causa della degradazione della Chiesa fu la costituzione dello Stato pontificio
che si sviluppò dalla donazione del
castello di Sutri[27],
fatta al pontefice dal re longobardo Liutprando nel 728. Trasformatosi il
pontefice in un sovrano temporale, la cattedra di Pietro divenne l’oggetto di sfrenate e sanguinose lotte tra le
grandi famiglie romane. La
degenerazione della Chiesa toccò il fondo tra i secoli IX e X, la cosiddetta età ferrea
del Papato.
Per
tutto l’alto Medioevo la Chiesa
ebbe un vero e proprio monopolio sulla
cultura: fino al VII secolo gli intellettuali erano quasi tutti uomini
di Chiesa e solo gli ecclesiastici erano in
grado di leggere, scrivere,
studiare e insegnare in strutture
scolastiche, riservate a chi aveva già scelto
la vita religiosa. La Chiesa ebbe quindi
il controllo della trasmissione del sapere, in gran parte affidata all’attività degli ordini
monastici e delle abbazie.
Anche
quando, dal IX secolo, le richieste di istruzione si allargarono e provenivano da strati
del mondo laico, fu soprattutto la Chiesa che risponde alle nuove esigenze con la creazione di scuole annesse alle sedi vescovili e alle parrocchie.
T prologo
Dalla regola di san Benedetto
Ascolta, figlio mio, gli
insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i
consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica con impegno, in
modo che tu possa tornare attraverso la solerzia dell'obbedienza a Colui dal
quale ti sei allontanato per l'ignavia della disobbedienza.
Io mi rivolgo personalmente a te,
chiunque tu sia, che, avendo deciso di rinunciare alla volontà propria, impugni
le fortissime e valorose armi dell'obbedienza per militare sotto il vero re,
Cristo Signore.
Prima di tutto chiedi a Dio con
costante e intensa preghiera di portare a termine quanto di buono ti proponi di
compiere, affinché, dopo averci misericordiosamente accolto tra i suoi figli,
egli non debba un giorno adirarsi per la nostra indegna condotta.
Bisogna dunque servirsi delle
grazie che ci concede per obbedirgli a ogni istante con tanta fedeltà da
evitare, non solo che egli giunga a diseredare i suoi figli come un padre
sdegnato, ma anche che, come un sovrano tremendo, irritato dalle nostre colpe,
ci condanni alla pena eterna quali servi infedeli che non lo hanno voluto
seguire nella gloria.
Alziamoci, dunque, una buona
volta, dietro l'incitamento della Scrittura che esclama: "È ora di
scuotersi dal sonno!" e aprendo gli occhi a quella luce divina ascoltiamo
con trepidazione ciò che ci ripete ogni giorno la voce ammonitrice di Dio: "Se
oggi udrete la sua voce, non indurite il vostro cuore!" e ancora: "
Chi ha orecchie per intendere, ascolti ciò che lo Spirito dice alle
Chiese!". E che dice? "Venite, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il
timore di Dio. Correte, finché avete la luce della vita, perché non vi colgano
le tenebre della morte".
Quando poi il Signore cerca il
suo operaio tra la folla, insiste dicendo: "Chi è l'uomo che vuole la vita
e arde dal desiderio di vedere giorni felici?". Se a queste parole tu
risponderai: "Io!", Dio replicherà: "Se vuoi avere la vita,
quella vera ed eterna, guarda la tua lingua dal male e le tue labbra dalla
menzogna. Allontanati dall'iniquità, opera il bene, cerca la pace e
seguila".
Se agirete così rivolgerò i miei
occhi verso di voi e le mie orecchie ascolteranno le vostre preghiere, anzi,
prima ancora che mi invochiate vi dirò: "Ecco sono qui!".
Fratelli carissimi, che può
esserci di più dolce per noi di questa voce del Signore che ci chiama? Guardate
come nella sua misericordiosa bontà ci indica la via della vita! Armati dunque
di fede e di opere buone, sotto la guida del Vangelo, incamminiamoci per le sue
vie in modo da meritare la visione di lui, che ci ha chiamati nel suo regno.
Se, però, vogliamo trovare dimora
sotto la sua tenda, ossia nel suo regno, ricordiamoci che è impossibile
arrivarci senza correre verso la meta, operando il bene.
Ma interroghiamo il Signore,
dicendogli con le parole del profeta: "Signore, chi abiterà nella tua
tenda e chi dimorerà sul tuo monte santo?".
E dopo questa domanda, fratelli,
ascoltiamo la risposta con cui il Signore ci indica la via che porta a quella
tenda: "Chi cammina senza macchia e opera la giustizia; chi pronuncia la
verità in cuor suo e non ha tramato inganni con la sua lingua; chi non ha
recato danni al prossimo, né ha accolto l'ingiuria lanciata contro di
lui"; chi ha sgominato il diavolo, che malignamente cercava di sedurlo con
le sue suggestioni, respingendolo dall'intimo del proprio cuore e ha impugnato
coraggiosamente le sue insinuazioni per spezzarle su Cristo al loro primo
sorgere; gli uomini timorati di Dio, che non si insuperbiscono per la propria
buona condotta e, pensando invece che quanto di bene c'è in essi non è opera
loro, ma di Dio, lo esaltano proclamando col profeta: "Non a noi, Signore,
non a noi, ma al tuo nome dà gloria!".
Come fece l'apostolo Paolo, che
non si attribuì alcun merito della sua predicazione, ma disse:" Per grazia
di Dio sono quel che sono" e ancora: "chi vuole gloriarsi, si glori
nel Signore".
Perciò il Signore stesso dichiara
nel Vangelo: "Chi ascolta da me queste parole e le mette in pratica, sarà
simile a un uomo saggio il quale edificò la sua casa sulla roccia.
E vennero le inondazioni e
soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché
era fondata sulla roccia".
Dopo aver concluso con queste
parole il Signore attende che, giorno per giorno, rispondiamo con i fatti alle
sue sante esortazioni. Ed è proprio per permetterci di correggere i nostri
difetti che ci vengono dilazionati i giorni di questa vita secondo le parole
dell'Apostolo: "Non sai che con la sua pazienza Dio vuole portarti alla
conversione?"
Difatti il Signore misericordioso
afferma: "Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e
viva".
Dunque, fratelli miei, avendo chiesto
al Signore a chi toccherà la grazia di dimorare nella sua tenda, abbiamo
appreso quali sono le condizioni per rimanervi, purché sappiamo comportarci nel
modo dovuto.
Perciò dobbiamo disporre i cuori
e i corpi nostri a militare sotto la santa obbedienza.
Per tutto quello poi, di cui la nostra natura si sente
incapace, preghiamo il Signore di aiutarci con la sua grazia.
E se vogliamo arrivare alla vita
eterna, sfuggendo alle pene dell'inferno, finche c'è tempo e siamo in questo
corpo e abbiamo la possibilità di compiere tutte queste buone azioni, dobbiamo
correre e operare adesso quanto ci sarà utile per l'eternità.
Bisogna dunque istituire una
scuola del servizio del Signore nella quale ci auguriamo di non prescrivere
nulla di duro o di gravoso; ma se, per la correzione dei difetti o per il
mantenimento della carità, dovrà introdursi una certa austerità, suggerita da
motivi di giustizia, non ti far prendere dallo scoraggiamento al punto di
abbandonare la via della salvezza, che in principio è necessariamente stretta e
ripida.
Mentre invece, man mano che si
avanza nella vita monastica e nella fede, si corre per la via dei precetti
divini col cuore dilatato dall'indicibile sovranità dell'amore.
Così, non allontanandoci mai
dagli insegnamenti di Dio e perseverando fino alla morte nel monastero in una
fedele adesione alla sua dottrina, partecipiamo con la nostra sofferenza ai
patimenti di Cristo per meritare di essere associati al suo regno.
E' noto che ci sono quattro
categorie di monaci.
La prima è quella dei cenobiti,
che vivono in un monastero, militando sotto una regola e un abate. La seconda è
quella degli anacoreti o eremiti, ossia di coloro che non sono mossi
dall'entusiastico fervore dei principianti, ma sono stati lungamente provati
nel monastero, dove con l'aiuto di molti hanno imparato a respingere le insidie
del demonio; quindi, essendosi bene addestrati tra le file dei fratelli al
solitario combattimento dell'eremo, sono ormai capaci, con l'aiuto di Dio, di
affrontare senza il sostegno altrui la lotta corpo a corpo contro le
concupiscenze e le passioni.
La terza categoria di monaci,
veramente detestabile è formata dai sarabaiti: molli come piombo, perché non
sono stati temprati come l'oro nel crogiolo dell'esperienza di una regola, costoro
conservano ancora le abitudini mondane, mentendo a Dio con la loro tonsura.
A due a due, a tre a tre o anche
da soli, senza la guida di un superiore, chiusi nei loro ovili e non in quello
del Signore, hanno come unica legge l'appagamento delle proprie passioni, per
cui chiamano santo tutto quello che torna loro comodo, mentre respingono come
illecito quello che non gradiscono.
C'è infine una quarta categoria
di monaci, che sono detti girovaghi, perché per tutta la vita passano da un
paese all'altro, restando tre o quattro giorni come ospiti nei vari monasteri, sempre
vagabondi e instabili, schiavi delle proprie voglie e dei piaceri della gola,
peggiori dei sarabaiti sotto ogni aspetto.
Ma riguardo alla vita sciagurata
di tutti costoro è preferibile tacere piuttosto che parlare. Lasciamoli quindi
da parte e con l'aiuto del Signore occupiamoci dell'ordinamento della prima
categoria, ossia quella fortissima e valorosa dei cenobiti.
T Arrivo all’abbazia
Era una bella mattina di fine novembre. Nella notte aveva nevicato un
poco, ma il terreno era coperto di un velo fresco non più alto di tre dita. Al
buio, subito dopo laudi[28], avevamo ascoltato la
messa in un villaggio a valle. Poi ci eravamo messi in viaggio verso le
montagne, allo spuntar del sole.
Come ci inerpicavamo per il sentiero scosceso che si snodava intorno al
monte, vidi l’abbazia. Non mi stupirono di essa le mura che la cingevano da
ogni lato, simili ad altre che vidi in tutto il mondo cristiano, ma la mole di
quello che poi appresi essere l’Edificio. Era questa una costruzione ottagonale
che a distanza appariva come un tetragono[29] (figura perfettissima
che esprime la saldezza e l’imprendibilità della Città di Dio), i cui lati
meridionali si ergevano sul pianoro dell’abbazia, mentre quelli settentrionali
sembravano crescere dalle falde stesse del monte, su cui s’innervavano[30] a strapiombo. Dico
che in certi punti, dal basso, sembrava che la roccia si prolungasse verso il
cielo, senza soluzione di tinte e di materia, e diventasse a un certo punto
mastio e torrione (opera di giganti che avessero gran familiarità e con la
terra e col cielo). Tre ordini di finestre dicevano il ritmo trino della sua
sopraelevazione, così che ciò che era fisicamente quadrato sulla terra, era
spiritualmente triangolare nel cielo[31]. Nell’appressarvici
maggiormente, si capiva che la forma quadrangolare generava, a ciascuno dei
suoi angoli, un torrione eptagonale[32], di cui cinque lati
si protendevano all’esterno – quattro dunque degli otto lati dell’ottagono maggiore
generando quattro eptagoni minori, che all’esterno si manifestavano come
pentagoni. E non è chi non veda l’ammirevole concordia di tanti numeri santi,
ciascuno rivelante un sottilissimo senso spirituale. Otto il numero della
perfezione d’ogni tetragono, quattro il numero dei vangeli, cinque il numero
delle zone del mondo, sette il numero dei doni dello Spirito Santo. Per la
mole, e per la forma, l’Edificio mi apparve come più tardi avrei visto nel sud
della penisola italiana Castel Ursino o Castel dal Monte[33], ma per la posizione
inaccessibile era di quelli più tremendo, e capace di generare timore nel
viaggiatore che vi si avvicinasse a poco a poco. E fortuna che, essendo una
limpidissima mattinata invernale, la costruzione non mi apparve quale la si vede
nei giorni di tempesta.
Non dirò comunque che essa suggerisse sentimenti di giocondità. Io ne
trassi spavento, e una inquietudine sottile. Dio sa che non erano fantasmi
dell’animo mio immaturo, e che rettamente interpretavo indubitabili presagi
iscritti nella pietra, sin dal giorno che i giganti vi posero mano, e prima che
la illusa volontà dei monaci ardisse consacrarla alla custodia della parola
divina[34]. Mentre i nostri
muletti arrancavano per l’ultimo tornante della montagna, là dove il cammino
principale si diramava a trivio, generando due sentieri laterali, il mio
maestro si arrestò per qualche tempo, guardandosi intorno ai lati della strada,
e sulla strada, e sopra la strada, dove una serie di pini sempreverdi formava
per un breve tratto un tetto naturale, canuto di neve.
“Abbazia ricca,” disse. “All’Abate piace apparire bene nelle pubbliche
occasioni”. Abituato come ero a sentirlo fare le più singolari affermazioni,
non lo interrogai. Anche perché, dopo un altro tratto di strada, udimmo dei
rumori, e a una svolta apparve un agitato manipolo di monaci e di famigli[35]. Uno di essi, come ci
vide, ci venne incontro con molta urbanità[36]: “Benvenuto signore,”
disse, “e non vi stupite se immagino chi siete, perché siamo stati avvertiti
della vostra visita. Io sono Remigio da Varagine, il cellario[37] del monastero. E se
voi siete, come credo, frate Guglielmo da Bascavilla, l’Abate dovrà esserne
avvisato. Tu,” ordinò rivolto a uno del seguito, “risali ad avvertire che il
nostro visitatore sta per entrare nella cinta!”
“Vi ringrazio, signor cellario,” rispose cordialmente il mio maestro,
“e tanto più apprezzo la vostra cortesia in quanto per salutarmi avete
interrotto l’inseguimento. Ma non temete, il cavallo è passato di qua e si è
diretto per il sentiero di destra. Non potrà andar molto lontano perché,
arrivato al deposito dello strame[38], dovrà fermarsi. È
troppo intelligente per buttarsi lungo il terreno scosceso…”
“Quando lo avete visto?” domandò il cellario.
“Non l’abbiamo visto affatto, non è vero Adso?” disse Guglielmo
volgendosi verso di me con aria divertita. “Ma se cercate Brunello, l’animale
non può che essere là dove io ho detto.” Il cellario esitò.
Guardò Guglielmo, poi il sentiero, e infine domandò: “Brunello? Come
sapete?”.
“Suvvia,” disse Guglielmo, “è evidente che state cercando Brunello, il
cavallo preferito dall’Abate, il miglior galoppatore della vostra scuderia,
nero di pelo, alto cinque piedi, dalla coda sontuosa, dallo zoccolo piccolo e
rotondo ma dal galoppo assai regolare; capo minuto, orecchie sottili ma occhi
grandi. È andato a destra, vi dico, e affrettatevi, in ogni caso.”
Il cellario ebbe un momento di esitazione, poi fece un segno ai suoi e
si gettò giù per il sentiero di destra, mentre i nostri muli riprendevano a
salire. Mentre stavo per interrogare Guglielmo, perché ero morso dalla
curiosità, egli mi fece cenno di attendere: e infatti pochi minuti dopo udimmo
grida di giubilo, e alla svolta del sentiero riapparvero monaci e famigli
riportando il cavallo per il morso.
Ci passarono di fianco continuando a guardarci alquanto sbalorditi e ci
precedettero verso l’abbazia. Credo anche che Guglielmo rallentasse il passo
alla sua cavalcatura per permettere loro di raccontare quanto era accaduto.
Infatti avevo avuto modo di accorgermi che il mio maestro, in tutto e per tutto
uomo di altissima virtù, indulgeva al vizio della vanità quando si trattava di
dar prova del suo acume e, avendone già apprezzato le doti di sottile
diplomatico, capii che voleva arrivare alla meta preceduto da una solida fama
di uomo sapiente.
“E ora ditemi,” alla fine non seppi trattenermi, “come avete fatto a
sapere?”
“Mio buon Adso,” disse il maestro. “È tutto il viaggio che ti insegno a
riconoscere le tracce con cui il mondo ci parla come un grande libro. […] Al
trivio, sulla neve ancora fresca, si disegnavano con molta chiarezza le
impronte degli zoccoli di un cavallo, che puntavano verso il sentiero alla
nostra sinistra. A bella e uguale distanza l’uno dall’altro, quei segni
dicevano che lo zoccolo era piccolo e rotondo, e il galoppo di grande
regolarità – così che ne dedussi la natura del cavallo, e il fatto che esso non
correva disordinatamente come fa un animale imbizzarrito. Là dove i pini
formavano una tettoia naturale, alcuni rami erano stati spezzati di fresco
giusto all’altezza di cinque piedi. Uno dei cespugli di more, là dove l’animale
deve aver girato per infilare il sentiero alla sua destra, mentre fieramente
scuoteva la sua bella coda, tratteneva ancora tra gli spini dei lunghi crini
nerissimi… Non mi dirai infine che non sai che quel sentiero conduce al
deposito dello strame, perché salendo per il tornante inferiore abbiamo visto
la bava dei detriti scendere a strapiombo ai piedi del torrione orientale,
bruttando[39]
la neve; e così come il trivio era disposto, il sentiero non poteva che
condurre in quella direzione.”
“Sì,” dissi, “ma il capo piccolo, le orecchie aguzze, gli occhi
grandi…”
“Non so se li abbia, ma certo i monaci lo credono fermamente. Diceva
Isidoro di Siviglia che la bellezza di un cavallo esige ‘ut sit exiguum caput
et siccum prope pelle ossibus adhaerente, aures breves et argutae, oculi magni,
nares patulae, erecta cervix, coma densa et cauda, ungularum soliditate fixa
rotunditas[40]’.
Se il cavallo di cui ho inferito[41] il passaggio non
fosse stato davvero il migliore della scuderia, non spiegheresti perché a
inseguirlo non sono stati solo gli stallieri, ma si è incomodato addirittura il
cellario. E un monaco che considera un cavallo eccellente, al di là delle forme
naturali, non può non vederlo così come le auctoritates[42] glielo hanno
descritto, specie se”, e qui sorrise con malizia al mio indirizzo, “è un dotto
benedettino…” “Va bene,” dissi, “ma perché Brunello?”
“Che lo Spirito Santo ti dia più sale in zucca di quel che hai, figlio
mio!” esclamò il maestro.
“Quale altro nome gli avresti dato se persino il grande Buridano17, che
sta per diventare rettore a Parigi, dovendo parlare di un bel cavallo, non
trovò nome più naturale?”
Così era il mio maestro. Non soltanto sapeva leggere nel gran libro
della natura, ma anche nel modo in cui i monaci leggevano i libri della
scrittura, e pensavano attraverso di quelli. Dote che, come vedremo, gli doveva
tornar assai utile nei giorni che sarebbero seguiti. La sua spiegazione inoltre
mi parve a quel punto tanto ovvia che l’umiliazione per non averla trovata da
solo fu sopraffatta dall’orgoglio di esserne ormai compartecipe e quasi mi
congratulai con me stesso per la mia acutezza. Tale è la forza del vero che,
come il bene, è diffusivo di sé. E sia lodato il nome santo del nostro signore
Gesù Cristo per questa bella rivelazione che ebbi.
T Lo scriptorium
Mentre salivamo vidi che il mio maestro osservava le finestre che
davano luce alla scala. Stavo probabilmente diventando abile come lui, perché
mi avvidi subito che la loro disposizione difficilmente avrebbe consentito a
qualcuno di raggiungerle. D’altra parte neppure le finestre che si aprivano nel
refettorio (le uniche che dal primo piano dessero sullo strapiombo) parevano
facilmente raggiungibili, dato che sotto di esse non vi erano mobili di sorta.
Arrivati al sommo della scala entrammo, per il torrione settentrionale,
allo scriptorium e quivi non potei trattenere un grido di ammirazione. Il
secondo piano non era bipartito come quello inferiore e si offriva quindi ai
miei sguardi in tutta la sua spaziosa immensità. Le volte, curve e non troppo
alte (meno che in una chiesa, più tuttavia che in ogni altra sala capitolare
che mai vidi), sostenute da robusti pilastri, racchiudevano uno spazio soffuso
di bellissima luce, perché tre enormi finestre si aprivano su ciascun lato
maggiore, mentre cinque finestre minori traforavano ciascuno dei cinque lati
esterni di ciascun torrione; otto finestre alte e strette, infine, lasciavano
che la luce entrasse anche dal pozzo ottagonale interno.
L’abbondanza di finestre faceva sì che la gran sala fosse allietata da
una luce continua e diffusa, anche se si era in un pomeriggio d’inverno. Le
vetrate non erano colorate come quelle delle chiese, e i piombi di riunione
fissavano riquadri di vetro incolore, perché la luce entrasse nel modo più puro
possibile, non modulata dall’arte umana, e servisse al suo scopo, che era di
illuminare il lavoro della lettura e della scrittura. Vidi altre volte e in
altri luoghi molti scriptoria, ma nessuno in cui così luminosamente rifulgesse,
nelle colate di luce fisica che facevano risplendere l’ambiente, lo stesso
principio spirituale che la luce incarna, la claritas, fonte di ogni bellezza e
sapienza, attributo inscindibile di quella proporzione che la sala manifestava.
Perché tre cose concorrono a creare la bellezza: anzitutto l’integrità o
perfezione, e per questo reputiamo brutte le cose incomplete; poi la debita
proporzione ovvero la consonanza; e infine la clarità e la luce, e infatti chiamiamo
belle le cose di colore nitido. E siccome la visione del bello comporta la
pace, e per il nostro appetito è la stessa cosa acquetarsi nella pace, nel bene
o nel bello, mi sentii pervaso di grande consolazione e pensai quanto dovesse
essere piacevole lavorare in quel luogo.
Quale apparve ai miei occhi, in quell’ora meridiana, esso mi sembrò un
gioioso opificio di sapienza. Vidi poi in seguito a San Gallo uno scriptorium
di simili proporzioni, separato dalla biblioteca (in altri luoghi i monaci
lavoravano nel luogo stesso dove erano custoditi i libri), ma non come questo
bellamente disposto. Antiquarii[43], librarii[44], rubricatori[45] e studiosi stavano
seduti ciascuno al proprio tavolo, un tavolo sotto ciascuna delle finestre. E
siccome le finestre erano quaranta (numero veramente perfetto dovuto alla
decuplicazione del quadragono, come se i dieci comandamenti fossero stati
magnificati dalle quattro virtù cardinali) quaranta monaci avrebbero potuto
lavorare all’unisono, anche se in quel momento erano appena una trentina.
Severino ci spiegò che i monaci che lavoravano allo scriptorium erano
dispensati dagli uffici di terza, sesta e nona per non dover interrompere il
loro lavoro nelle ore di luce, e arrestavano le loro attività solo al tramonto,
per vespro[46].
I posti più luminosi erano riservati agli antiquarii, gli alluminatori[47] più esperti, ai
rubricatori e ai copisti. Ogni tavolo aveva tutto quanto servisse per miniare e
copiare: corni da inchiostro, penne fini che alcuni monaci stavano affinando
con un coltello sottile, pietrapomice per rendere liscia la pergamena, regoli
per tracciare le linee su cui si sarebbe distesa la scrittura. Accanto a ogni
scriba, o al culmine del piano inclinato di ogni tavolo, stava un leggio, su
cui posava il codice da copiare, la pagina coperta da mascherine che
inquadravano la linea che in quel momento veniva trascritta. E alcuni avevano
inchiostri d’oro e di altri colori. Altri invece stavano solo leggendo libri, e
trascrivevano appunti su loro privati quaderni o tavolette.
Non ebbi peraltro il tempo di osservare il loro lavoro, perché ci venne
incontro il bibliotecario, che già sapevamo essere Malachia da Hildesheim. Il
suo volto cercava di atteggiarsi a una espressione di benvenuto, ma non potei
trattenermi dal fremere di fronte a una così singolare fisionomia. La sua
figura era alta e, benché estremamente magra, le sue membra erano grandi e
sgraziate. Come procedeva a grandi passi, avvolto nelle nere vesti dell’ordine,
v’era qualcosa di inquietante nel suo aspetto. Il cappuccio, che venendo di
fuori aveva ancora levato, gettava un’ombra sul pallore del suo volto e
conferiva un non so che di doloroso ai suoi grandi occhi melanconici. Vi erano
nella sua fisionomia come le tracce di molte passioni che la volontà aveva
disciplinato ma che sembravano aver fissato quei lineamenti che ora avevano
cessato di animare. Mestizia e severità predominavano nelle linee del suo volto
e i suoi occhi erano così intensi che a un solo sguardo potevano penetrare il
cuore di chi gli parlava, e leggergli i segreti pensieri, così che
difficilmente si poteva tollerare la loro indagine e si era tentati di non
incontrarli una seconda volta.
Il bibliotecario ci presentò a molti dei monaci che stavano in quel
momento al lavoro. Di ciascuno Malachia ci disse anche il lavoro che stava
compiendo e di tutti ammirai la profonda devozione al sapere e allo studio
della parola divina. Conobbi così Venanzio da Salvemec, traduttore dal greco e
dall’arabo, devoto di quell’Aristotele che certamente fu il più saggio di tutti
gli uomini. Bencio da Upsala, un giovane monaco scandinavo che si occupava di
retorica. Berengario da Arundel, l’aiuto del bibliotecario. Aymaro da
Alessandria, che stava ricopiando opere che solo per pochi mesi sarebbero state
in prestito alla biblioteca, e poi un gruppo di miniatori di vari paesi,
Patrizio da Clonmacnois, Rabano da Toledo, Magnus da Iona, Waldo da Hereford[48].
L’elenco potrebbe certo continuare e nulla vi è di più meraviglioso
dell’elenco, strumento di mirabili ipotiposi[49]. Ma devo venire all’argomento
delle nostre discussioni, dal quale emersero molte indicazioni utili per capire
la sottile inquietudine che aleggiava tra i monaci, e un non so che di
inespresso che gravava su tutti i loro discorsi.
Il mio maestro iniziò a discorrere con Malachia lodando la bellezza e
l’operosità dello scriptorium e chiedendogli notizie sull’andamento del lavoro
che ivi si compiva perché, disse con molta accortezza, aveva udito parlare
ovunque di quella biblioteca e avrebbe voluto esaminare molti dei libri. Malachia
gli spiegò quello che già l’Abate aveva detto, che il monaco chiedeva al
bibliotecario l’opera da consultare e questi sarebbe andato a reperirla nella
biblioteca superiore, se la richiesta fosse stata giusta e pia. Guglielmo
domandò come poteva conoscere il nome dei libri custoditi negli armaria
soprastanti, e Malachia gli mostrò, fissato da una catenella d’oro al suo
tavolo, un voluminoso codice coperto di elenchi fittissimi.
Guglielmo infilò le mani nel saio, dove esso si apriva sul petto a
formare una sacca, e ne trasse un oggetto che già gli avevo visto tra le mani,
e sul volto, nel corso del viaggio. Era una forcella, costruita così da potere
stare sul naso di un uomo (e meglio ancora sul suo, così prominente e aquilino)
come un cavaliere sta in groppa al suo cavallo o come un uccello su un
trespolo. E ai due lati della forcella, in modo da corrispondere agli occhi, si
espandevano due cerchi ovali di metallo, che rinserravano due mandorle di vetro
spesse come fondi di bicchiere. Con quelli sugli occhi Guglielmo, di
preferenza, leggeva, e diceva di vedere meglio di quanto natura lo avesse
dotato, o di quanto l’età sua avanzata, specie quando declinava la luce del
giorno, gli consentisse. Né gli servivano per vedere da lontano, che anzi aveva
l’occhio acutissimo, ma per vedere da vicino. Con quelli egli poteva leggere
manoscritti vergati in lettere sottilissime, che quasi faticavo anch’io a
decifrare. Mi aveva spiegato che, giunto che fosse l’uomo oltre la metà della
vita, anche se la sua vista era stata sempre ottima, l’occhio si induriva e
riluttava ad adattar la pupilla, così che molti sapienti erano come morti alla
lettura e alla scrittura dopo la loro cinquantesima primavera. Grave iattura
per uomini che avrebbero potuto dare il meglio della loro intelligenza per
molti anni ancora. Per cui si doveva lodare il Signore che qualcuno avesse La
descrizione degli occhiali di Guglielmo: un vezzo che stava diventando di
grande utilità, come abbiamo visto nella sezione dedicata alla completezza del
testo. E me lo diceva per sostenere le idee del suo Ruggiero Bacone[50], quando diceva che lo
scopo della sapienza era anche prolungare la vita umana. Gli altri monaci
guardarono Guglielmo con molta curiosità, ma non ardirono porgli domande. E io
mi avvidi che, anche in un luogo così gelosamente e orgogliosamente dedicato
alla lettura e alla scrittura, quel mirabile strumento non era ancora
penetrato. E mi sentii fiero di essere al seguito di un uomo che aveva qualcosa
con cui stupire altri uomini famosi nel mondo per la loro saggezza. Con quegli
oggetti sugli occhi, Guglielmo si chinò sugli elenchi stilati nel codice.
Guardai anch’io, e scoprimmo titoli di libri mai uditi, e altri di celeberrimi,
che la biblioteca possedeva.
12. I monasteri benedettini -
Importanti centri di resistenza alla degradazione della vita civile furono i monasteri
benedettini che si diffusero in tutta Europa a partire dalla fondazione
del primo a Montecassino nel 528 ad opera di San Benedetto da Norcia (480-547). La regola[51]
che egli dettò per i suoi monaci che costituivano una comunità razionalmente
organizzata, imponeva, accanto alla preghiera e alla meditazione, il lavoro manuale
e intellettuale.
Dall’inizio
del VI secolo la società intera fu modificata dall’imponente diffusione
degli ordini monastici che
fondarono in tutta Europa centinaia di conventi,
dove si radunarono grandi masse di
monaci.
Queste comunità si collocarono in genere nelle campagne, inizialmente su terreni loro concessi da feudatari, vescovi, re e papi; ben presto divennero i centri più attivi non solo dal punto di vista religioso, ma
anche economico. I monasteri
benedettini crearono infatti organizzate e potenti aziende agricole, alle quali si dovette il
dissodamento e la bonifica di terre strappate alle selve e alle paludi.
Molti
monasteri crebbero enormemente, sia
per il dissodamento di terreni resi
coltivabili, sia per le continue donazioni e concessioni fatte dai signori locali; perciò fu necessaria una rigida organizzazione gerarchica, in cima alla
quale si pose l’abate, il religioso che aveva il governo della comunità e dei suoi beni che, nel
complesso, presero il nome di abbazia.
Alcune di queste giunsero a controllare
territori vasti come grandi feudi e
i loro abati esercitarono un potere pari a quello di baroni o marchesi.
Accanto alla chiesa abbaziale e al convento, sorsero molti altri edifici: biblioteche, magazzini, botteghe artigianali e anche veri opifici per la fabbricazione di merci. Molte abbazie
ebbero anche un’importanza strategica e
furono fortificate.
I
monasteri furono i principali luoghi della conservazione e della
trasmissione del sapere; i più importanti
avevano una biblioteca e
provvedevano, nello scriptorium, alla trascrizione e allo studio dei manoscritti
di testi sacri, ma anche di opere profane.
I monaci che operavano nello scriptorium
avevano mansioni distinte ed erano
spesso affiancati da amanuensi salariati;
diverse erano le competenze e le responsabilità culturali poiché la
scelta dei testi da ricopiare era di fatto
una selezione delle opere che si
ritenevano degne di essere tramandate.
Furono oasi in cui si salvò
l’ideale di ordine, di vita regolata dalla legge, che costituiva la più
cospicua eredità della cultura romana in un mondo in preda al disordine e alla violenza.
I
monaci, più dei vescovi cittadini, ebbero il merito della conversione delle
popolazioni rurali ancora pagane,
favoriti dalla vicinanza ai contadini e dalla maggior comprensione per la loro
cultura e il monastero, con il declino del primato della città, prese il posto del vescovado come centro della vita
religiosa e dell’organizzazione
ecclesiastica; nelle biblioteche dei conventi, infine, sopravvissero i documenti della cultura antica.
I monasteri ebbero una funzione
di primaria importanza per la circolazione non solo delle idee, ma anche delle
tecniche e dei linguaggi figurativi in tutto l’Occidente.
Nelle isole britanniche, dove dalla metà del V secolo si erano insediati
gli angli e i sassoni, ebbe un ruolo determinante, per il tramandarsi delle tradizioni
letterarie antiche e per la produzione di opere miniate, l’apostolato dei
monaci irlandesi;
fra questi spicca la figura di San Colombano
(540-615), infaticabile missionario e viaggiatore che fondò, fra l’altro,
l’abbazia di Bobbio, centro propagatore di spiritualità ma anche di copiatura e
decorazione di straordinari codici miniati.
I frequenti spostamenti dei
monaci irlandesi e anglosassoni da un monastero all’altro della Britannia e
del continente favorirono gli scambi e gli influssi reciproci fra i più attivi
centri scrittori del continente e quelli delle isole britanniche. I monasteri
divennero un luogo d’incontro e di scambio
culturale tra monaci che passavano
da un’abbazia ad un’altra e nei luoghi di sosta dei grandi
pellegrinaggi.
T Ritratto di Carlo Magno
(da Eginardo, Vita di Carlo Magno)
Ebbe un corpo largo e robusto, statura alta, ma tuttavia non
sproporzionata (risulta infatti che la sua altezza misurasse sette volte il suo
piede), la sommità del capo rotonda, gli occhi assai grandi e vivaci, il naso
un po’ lungo del normale, una bella chioma bianca, un volto piacevole e
gioviale, che gli conferiva un aspetto molto autorevole e dignitoso sia quando
stava in piedi sia quando era seduto. Sebbene il suo collo potesse sembrare
grasso e troppo corto, e il suo ventre alquanto prominente, tuttavia le misure
proporzionalmente corrispondenti delle altre membra non facevano notare quei
difetti. Aveva ferma andatura e tutto l’atteggiamento del corpo virile, la voce
era chiara, ma la meno adatta al suo aspetto fisico. Di salute buona, solo
prima di morire, e per quattro anni, fu spesso colto dalla febbre, e alla fine
zoppicava anche da un piede. E anche allora faceva più come gli pareva che come
lo consigliavano i medici, che gli erano praticamente odiosi, perché lo
esortavano a smettere di mangiare arrosti.
Praticava assiduamente l’equitazione e la caccia, esercizi che erano i
lui connaturati, perché sulla terra non si trova forse alcun popolo che in
quest’attività possa paragonarsi ai Franchi. Gli piacevano anche i bagni di
vapore di acque termali e spesso esercitava il suo corpo nel nuoto, del quale
era così esperto da non essere superato da alcuno. Anche per questo motivo
costruì in Aquisgrana una reggia, nella quale abitò ininterrottamente negli
ultimi anni di vita, fino alla morte. E invitava al bagno non solo i suoi
figli, ma anche i nobili e gli amici, e qualche volta anche la folla dei
soldati di scorta e delle guardie del corpo, cosicché talora prendevano il
bagno insieme cento persone e anche di più.
Indossava il costume nazionale dei Franchi: a contatto del corpo
portava una camicia di lino e mutande di lino; di sopra, una tunica orlata di
seta e calzoni; poi avvolgeva le gambe con fascette e i piedi con calzari;
d’invero proteggeva le spalle e il petto con un farsetto[52] di pelle di lontra o
di topo; indossava un mantello azzurro e cingeva sempre una daga[53], che aveva l’elsa e
la bandoliera d’oro e d’argento. Talora si serviva anche di una spada ornata di
gemme, ma soltanto in occasione delle feste principali e dei ricevimenti di
ambasciatori stranieri.
Disdegnava gl’indumenti forestieri, anche se erano bellissimi, non
volle mai vestirsene, tranne che a Roma, dove, una volta su richiesta di papa
Adriano e un’altra per preghiera del suo successore Leone [III], indossò una
tunica lunga e una clamide[54] e si mise anche
scarpe di foggia romana. Nei giorni di festa andava coperto di una veste
ricamata d’oro, portava calzari adorni di gemme, fermava il mantello con una
fibbia d’oro e si ornava anche di un diadema d’oro e di pietre preziose; negli
altri giorni, invece, il suo abbigliamento differiva poco da quello comune e
popolare.
Era moderato nel mangiare e nel bere, ma più moderato nel bere, tanto
che aveva in odio l’ubriachezza in qualsiasi uomo, non solo in sé e nei suoi.
Mentre nel mangiare non riusciva a fare altrettanto, e spesso si lamentava che
i digiuni erano nocivi al suo fisico. Mangiava a banchetto molto di rado, e
questo solo nelle principali feste, allora però con un gran numero di persone.
La cena di ogni giorno era di quattro portate, a parte l’arrosto, che i
cacciatori erano soliti infilzare allo spiedo, e che egli mangiava molto più
volentieri di qualsiasi altro cibo. Mentre cenava stava ad ascoltare qualche
artista o lettore. Gli veniva lette le storie e le gesta degli antichi. Gli
piacevano anche i libri di sant’Agostino, soprattutto quelli intitolati La
città di Dio. Era così modesto nel bere,
sia vino che altro, che durante la cena di rado beveva più di tre volte.
D’estate, dopo il pasto di mezzogiorno, prendeva un po’ di frutta e beveva una
volta sola, poi levatisi vesti e calzari, come era solito fare la notte,
riposava per due o tre ore.
La notte dormiva poi interrompendo il sonno quattro o cinque volte, e
non soltanto si svegliava, ma anche si alzava dal letto. Mentre si alzava o si
vestiva, ammetteva alla sua presenza gli amici; non solo, perché se il conte di
palazzo gli diceva che c’era in corso qualche procedimento che non poteva
essere definito senza il suo imperio, ordinava di introdurre immediatamente i
contendenti, come se sedesse in tribunale, e conosciuti i termini della disputa
dava la sua sentenza; e in quei momenti non solo sbrigava cose del genere, ma
anche qualsiasi ordine ci fosse da dare a qualche subalterno.
Era dotato di eloquio facile ed esuberante ed era capace di esprimere
con la più grande chiarezza tutto ciò che voleva. Non contento di conoscere
soltanto la propria lingua materna, si dedicò anche allo studio delle lingue
straniere, tra le quali apprese così bene la latina, che abitualmente si
esprimeva con uguale padronanza in questa lingua o nella sua lingua materna,
mentre la greca era in grado di capirla più che di parlarla. E in verità aveva
una tale facilità di parola, da apparire un po’ prolisso.
Coltivò le arti liberali con grande passione, e poiché nutriva una
profonda venerazione per coloro che le insegnavano, tributava loro grandi
onori. Per lo studio della grammatica, ascoltò le lezioni del diacono[55] Pietro da Pisa, che
allora era vecchio; per le altre discipline ebbe come maestro Albino, detto
Alcuino, anche lui diacono, un Sassone venuto dalla Bretagna, l’uomo più dotto
in qualsiasi campo; sotto la sua guida spese moltissimo tempo e fatica nello
studio della retorica, della dialettica e particolarmente dell’astronomia. Si
dedicava all’apprendimento dell’arte del calcolo e con estrema curiosità
indagava il corso degli astri, applicandovisi con la sua acuta intelligenza.
Tentò anche di scrivere, e a questo scopo aveva l’abitudine di spargere sotto i
guanciali del suo letto tavolette e foglietti di pergamena, per abituare la
mano a tracciare le lettere, quando aveva un po’ di tempo libero; ma
quest’applicazione, iniziata troppo tardi, ebbe poco successo.
Praticò col più grande scrupolo e col più alto fervore la religione
cristiana, nella quale era stato educato fin dall’infanzia. Appunto per ciò
innalzò in Aquisgrana[56] una basilica di
eccezionale bellezza, che adornò d’oro e d’argento, di lampadari e di
balaustrate e porte di bronzo massiccio. Poiché non poteva procurarsi altrove
le colonne e i marmi necessari alla sua costruzione, li fece trasportare da
Roma e da Ravenna. Frequentava assiduamente la chiesa al mattino e alla sera,
sia agli uffici notturni che alla messa, finché glielo permise la salute, e
curava molto che tutto quel che vi si celebrava fosse nel massimo decoro,
ammonendo continuamente i custodi a non permettere che fosse introdotto o
rimanesse nella chiesa mai nulla di indecoroso o riprovevole. Procurò alla
basilica tale quantità di vasi sacri in oro e argento e di vesti sacerdotali,
che neppure gli ostiari, che sono gli ultimi nella scala degli ordini
ecclesiastici, ebbero mai necessità, durante le messe, di celebrare senza abiti
di cerimonia.
Curò e perfezionò con grande zelo la disciplina delle letture e del
canto. Era infatti molto preparato in ambedue le arti, sebbene egli stesso non
leggesse pubblicamente né cantasse mai se non sommessamente e insieme con gli
altri.
13. Il Sacro Romano Impero -
Il regno dei Franchi, che aveva riacquistato la sua unità e potenza grazie all’opera dei fondatori della dinastia carolingia[57]
(Pipino di Heristal e Carlo
Martello, il vincitore degli Arabi), fu, nei secoli VIII e IX, il vero centro
ove si elaborò la nuova cultura
medioevale.
L’alleanza fra la monarchia franca e il Papato,
che fece dei Franchi la spada della Santa Sede e i difensori e
organizzatori della cristianità, stette alla base della nascita di quella che
fu, accanto alla Chiesa, la massima istituzione
medioevale: il Sacro Romano Impero.
Esso
fu fondato da Carlo Magno[58]
(742-814) con l’intento di
ricostituire, al di sopra dei singoli regni, l’unità politica del continente. In realtà esso era limitato nella sua
estensione a una piccola parte dell’odierna
Europa: comprendeva
·
il regno dei
Franchi, il regno dei Longobardi, di cui Carlo Magno assunse la corona dopo
averli sconfitti,
·
il
territorio dei Sassoni assoggettati,
·
al di là dei
Pirenei, la Marca spagnola, baluardo contro gli Arabi che Carlo aveva respinto
dalla Francia.
L’Impero però era universale
nell’intenzione, nel senso che esso doveva
estendersi a tutta la cristianità, i cui confini dovevano coincidere con
quelli dell’umanità.
Lo Stato che così nasceva doveva
rappresentare, nel programma di Carlo Magno, la restaurazione dell’antico Impero romano[59], alla cui tradizione Carlo si ricollegava come
erede dei Cesari. In realtà esso ne differiva profondamente: era infatti
un agglomerato di popoli con leggi e forme
amministrative diverse, la cui unità era costituita esclusivamente dalla comune fede cattolica che giustificava l’appellativo
di sacro con cui veniva denominato.
L’Imperatore era la spada che
difendeva il cristianesimo contro gli infedeli i quali erano assoggettati e
convertiti a forza, come i Sassoni, o ricacciati al di là dei Pirenei fino
all’Ebro, come gli Arabi musulmani.
14. Il trattato di Verdun: la nascita dell’Europa - Alla morte di Carlo Magno l’Impero fu travagliato da un seguito di guerre fra gli eredi
per la successione. Un momento storicamente
importante fu il trattato di Verdun[60]
dell’843, che, con la tripartizione dell’Impero in:
·
regno dei
Franchi
·
regno dei
Germani
·
regno
d’Italia, con annessa la Lotaringia (territorio compreso tra la Francia e la
Germania, corrispondente in parte all’odierna Lorena)
Questo dava origine ai primi tre
stati autonomi che avrebbero costituito il nucleo della futura Europa.
L’Europa, nuovo organismo
politico-culturale, per quanto debole, divisa da discordie e minacciata da
forze esterne, avendo ricacciato gli Arabi, si era assicurata la sopravvivenza e la possibilità di espansione.
Il
Sacro Romano Impero di nazione franca
scompariva definitivamente con la deposizione di
Carlo il Grosso nell’887.
I
tre regni di Francia, Germania, Italia, iniziavano una vita autonoma
che, per l’Italia, fu caratterizzata da continue lotte fra i grandi feudatari per la conquista della corona, fino a che
Ottone di Sassonia, re di Germania, cinse
la corona del regno d’Italia nel 961 e si fece incoronare Imperatore nel 962,
restaurando il Sacro Romano Impero,
ma questa volta di nazionalità germanica.
T Giuramenti di Quierzy
Quierzy, 21 marzo 858
Giuramento dei fedeli. Con
l'aiuto di Dio vi servirò con fedeltà per quanto saprò e potrò, senza alcun
inganno o frode, ma col consiglio e l'aiuto, secondo il mio incarico e la mia
persona, affinché possiate mantenere ed esercitare con [senso del] dovere,
dignità e fermezza quel potere che Dio vi concesse con la carica di re e con il
regno, sia per volontà sua, sia per la salvezza vostra e dei vostri fedeli. Giuramento
del re. Con l'aiuto di Dio anch'io, per quanto saprò e potrò ragionevolmente
fare, tratterò con onore e proteggerò ciascuno di voi [fedeli] secondo il suo
rango e la sua persona e, onorato, nonché protetto, lo custodirò lontano da
ogni male, condanna e inganno e garantirò ad ognuno la propria legge ed il
proprio diritto e sarà usata la giusta misericordia nei confronti di chi ne
avrà avuto necessita e che l'avrà meritata, come un re fedele deve premiare e
salvaguardare i suoi fedeli secondo giustizia e rispettare la legge ed il
diritto di ciascuno in un Unico ordinamento e deve elargire la giusta
misericordia ai poveri e a coloro che la meritano. E non abbandonerò questo
[impegno], né per sollecitazione, né per odio, né per esortazione ingiusta, per
non compiacere nessuno, per quanto lo consenta 1'umana fragilità e per quanto
Dio mi avrà donato intelletto e potere; e se qualcosa mi condizionerà
inconsapevolmente contro di ciò a causa della [umana] debolezza, dopo che lo
avrò riconosciuto, cercherò di porvi rimedio spontaneamente.
T Capitolare di Quierzy
Quierzy, 14 giugno 877
Questi capitoli1 furono emanati
dal glorioso signor imperatore Carlo [il Calvo] con il consenso dei suoi
fedeli, presso Quierzy, nell'anno 877 dell'Incarnazione del Signore, trentasettesimo
del suo regno, secondo del suo impero, diciotto giorni dalle calende di luglio
[15 giugno], decima indizione2 . Carlo definì alcuni di essi da solo, mentre
sugli altri dispose che si pronunciassero i suoi fedeli. [...] 8. Bisogna
esaminare come comportarsi nel caso in cui alcuni benefici rimanessero privi
del titolare prima del mio ritorno. [...] 9. In caso di morte di un conte il
cui figlio sia al mio seguito, mio figlio3 , con ali altri miei fedeli4,
scelga, tra i parenti più stretti del conte e maggiormente legati a lui, uno
che amministri la contea insieme con i ministeriali5 e con il vescovo o fino a
quando io non verro a conoscenza della morte del conte. [...] 10. Se qualcuno
tra i nostri fedeli, spinto dall'amore per Dio e per noi, dopo la nostra morte
vorrà rinunciare al secolo ed avrà un figlio od un parente prossimo in grado di
agire a favore dello Stato, potrà trasmettergli i suoi feudi come riterrà più
opportuno.
T Constitutio de feudis (Edictum de
beneficiis)
Durante l'assedio di Milano, 18
giugno 1037 Nel nome della santa ed individuale Trinità, Corrado [II], per
grazia di Dio augusto imperatore dei Romani. Vogliamo sia noto a tutti i fedeli
della Santa Chiesa di Dio e ai nostri [sudditi] presenti e futuri che noi,
alfine di riconciliare gli animi dei signori e dei milites1 , in modo che siano
sempre d'accordo, così da servire con fedeltà e fermezza noi ed i loro signori,
decidiamo e fermamente ordiniamo [quanto è di seguito esposto]: 1. Che nessun
miles [sottoposto] a vescovo, abate, badessa, marchese o conte, o chiunque
altro che gestisca un beneficio appartenente ai nostri beni pubblici o alle
proprietà ecclesiastiche o che lo abbia gestito o che allo stato attuale lo
abbia perduto ingiustamente, sia che si tratti di nostri valvassori maggiori
sia che si tratti di loro milites, non debba perdere il suo beneficio senza
colpa certa e dimostrata, se non secondo quanto stabilito dai nostri
predecessori e per giudizio dei suoi pari [...]. 4. Quando un milites, sia
maggiore sia minore, lascerà questo mondo, comandiamo che il figlio ne erediti
il beneficio2 . Se poi il miles non avrà un figlio, ma lascerà nipote nato da
un figlio maschio, questi ottenga in pari modo il beneficio, con l'osservanza
dell'uso praticato dai valvassori maggiori nel fornire cavalli ed armi ai loro
signori. Se non lascerà [neanche] un nipote nato da un figlio, ma [ha] un
fratello legittimo da parte di padre che ha offeso il signore, questi abbia i1
beneficio che fu di suo padre dopo che avrà rimediato divenendo miles [del
signore].
T Il giuramento del vassallo al suo signore
Io giuro su questi santi vangeli
che d’ora innanzi sino all’ultimo giorno della vita sarò fedele a te, mio
signore, contro ogni uomo eccetto l’imperatore. Giuro che consapevolmente non
parteciperò giammai a deliberazioni o ad atto per cui tu perda la vita o
qualche parte del tuo corpo, o riceva danno nella persona o ingiustizia o
insulto, che tu perda qualche diritto presente o futuro. E se accadrà che tu
perda qualche cosa che hai o avrai, per ingiustizia o caso, ti aiuterò a
ricuperarla e, ricuperata, a conservarla. E se avrò saputo che tu vuoi
giustamente assalire qualcuno e sarò stato da te invitato, sia in forma
generale sia personale, ti darò il mio aiuto come potrò. E se mi chiederai consiglio
su qualche cosa, ti darò il consiglio che mi sembrerà più utile per te. E mai
di persona farò consapevolmente cosa che possa essere di danno a te e ai tuoi.
15. Il feudalesimo - Il
fenomeno che caratterizzò la civiltà europea nel periodo che seguì la
morte di Carlo Magno fu il feudalesimo[61], un
nuovo sistema di organizzazione politica,
sociale ed economica. Si era sviluppato nella Francia tra l’VIII e il IX secolo
dall’elaborazione e dalla fusione di
elementi che risalivano al Basso Impero
e alla originaria cultura germanica. Dalla Francia si diffuse poi in tutta
l’Europa occidentale e più tardi, con i Normanni, passò in Inghilterra.
Il feudalesimo nacque dall’uso di
assegnare terre in concessione a dignitari laici ed ecclesiastici collaboratori
del sovrano. Tale concessione era detta beneficio[62], in quanto gli assegnatari ne
traevano rendite sia direttamente, sia con l’imposizione di tributi e balzelli
agli abitanti. Al beneficio si accompagnò l’immunità[63],
cioè l’esenzione dalla giurisdizione sovrana
e il corrispettivo diritto di amministrare in nome proprio la giustizia e di
arruolare uomini. Al beneficio corrispondeva il vassallaggio[64]:
il beneficiario, in compenso del
beneficio ottenuto, si considerava vassallo dell’Imperatore o del signore
che glielo aveva elargito, cioè si riteneva legato da un vincolo di fedeltà che
lo obbligava a garantire al signore servizi
militari e amministrativi, contributi in uomini e in denaro, e il suo
consiglio, sia in pace che in guerra.
L’unione
del beneficio, dell’immunità
e del vassallaggio costituiva appunto il feudo.
a) La gerarchia feudale - Si formava così una piramide gerarchica che aveva al suo vertice l’Imperatore, al di sotto i grandi feudatari o vassalli[65],
al di sotto di questi i valvassori (vassalli dei vassalli) e sotto
ancora i valvassini (vassalli dei valvassori).
Connettivo di questa piramide era
il legame di vassallaggio, cioè un
rapporto di carattere prettamente personale
che subordinava ogni vassallo al suo diretto signore.
Inizialmente,
i feudi erano concessi alla persona e, alla morte del beneficiario, ritornavano
all’Imperatore o al signore che li aveva concessi. Successivamente, prima i
grandi feudi con il Capitolare di
Quiersy[66]
dell’877, poi i feudi minori con la Constitutio de feudis[67] del
1037 divennero ereditari.
b) L’economia feudale: la curtis - Il feudalesimo
oltre che un sistema politico-giuridico, fu
un’organizzazione di tutta la società, organizzazione corrispondente alla
civiltà rurale costituitasi col declino della città e dell’economia
industriale e mercantile. Il centro della vita feudale era il castello del
signore e il centro dell’economia la sua corte o curtis.
La
curtis[68]
era costituita dall’insieme delle terre di proprietà padronale (pars
dominica), degli edifici dove dimoravano i servi addetti
alla coltivazione della terra signorile, alla produzione artigianale e ai
servizi indispensabili per la vita del castello e dalle terre assegnate
in lotti ai contadini liberi (pars massaricia), in cambio di censi in
natura o in denaro e dell’obbligo di
collaborare, per due o tre giorni alla settimana, alla coltivazione della terra
signorile.
Il latifondo, veniva suddiviso
così in due tipologie di territorio: la parte centrale, quella più vicina al
polo amministrativo, era detta pars
dominica o indominicata cioè gestita a coltura direttamente dal signore
mediante il lavoro dei servi ed una pars
massaricia che era data in affitto o mezzadria a famiglie di coloni che la
coltivavano privatamente e sulla quale il proprietario, ne ricavava un terzo
della rendita. Oltre a questo, i coltivatori erano tenuti a pagare alcune tasse
ed a svolgere alcune giornate lavorative gratuite sui fondi gestiti dal
padrone, le corvées.
L’economia curtense[69]
è un’economia di sussistenza: si produce per il consumo diretto, e non
vi sono eccedenze da commerciare. È pertanto un’economia chiusa, e i rari
scambi vengono fatti per lo più sulla base del baratto dei prodotti, data la
scarsità di denaro circolante.
c) La società feudale - Dal punto di vista delle classi, la società
feudale era caratterizzata da una rigida stratificazione:
·
sopra stavano i potentes, coloro che
detenevano il potere, che erano o
guerrieri (la gerarchia dei vassalli) o ecclesiastici: e spesso questi secondi
erano anch’essi guerrieri.
·
Sotto vi era una massa amorfa, non articolata,
costituita quasi esclusivamente da
contadini in condizione di semischiavitù, perché legati alla terra del signore, dalla quale non potevano
allontanarsi senza correre il rischio di gravi pene, e perciò chiamati servi
della gleba[70].
Anche
i coltivatori liberi che lavoravano appezzamenti avuti in concessione dal signore, erano tenuti a fornirgli, oltre a un
corrispettivo in derrate, prestazioni in mano d’opera le corvées[71]
e a pagare balzelli per l’uso di strade,
ponti, mulini, forni che erano di esclusiva proprietà del signore.
Pochi gli artigiani e scarsi
anche i mercanti che aumentarono di numero e di importanza solo con la ripresa dell’economia e della vita civile che
sboccheranno nella rinascita della
società urbana.
d) La cavalleria - Manifestazione
caratteristica del mondo feudale fu la cavalleria. Essa sorse come conseguenza dell’istituto giuridico del maggiorasco[72],
per la quale il feudo era trasmesso
indiviso al primogenito. I fratelli minori, i cadetti, avevano due possibilità:
o darsi alla carriera ecclesiastica o mettersi al servizio, come cavalieri, di
qualche potente signore, nella
speranza di conseguire a loro volta un feudo in ricompensa delle loro prestazioni.
Per incanalare la violenza di
questi guerrieri che, per arricchirsi, non di rado si abbandonavano al brigantaggio o al saccheggio, la
Chiesa, verso l’inizio del secolo XI, propose al cavaliere di mettere
la sua forza e il suo coraggio al servizio della fede e della giustizia, in difesa dei deboli e degli oppressi.
La cavalleria[73]
si trasformò così in una specie di grande confraternita sottoposta a
severe regole morali. Il significato religioso dell’istituzione era
sottolineato da un preciso rito che regolava la cerimonia dell’investitura.
16. La riforma della Chiesa
- A risollevare la Chiesa dalla condizione in cui era caduta in seguito alla sua mondanizzazione,
intervennero due forze:
·
l’Impero di
nazionalità germanica sotto i tre Ottoni,
·
il monachesimo
con un movimento di riforma che prese
le mosse dal monastero di Cluny in Francia.
a) Gli Ottoni e la feudalità ecclesiastica - Ottone I, per ridare dignità al Papato,
sottraendolo alle grandi famiglie romane che se lo contendevano, dopo aver
restaurato in veste germanica il Sacro Romano Impero nel 962, stabilì,
col privilegium Othonis[74],
che l’elezione del papa dovesse essere
confermata dall’Imperatore.
Tale
decisione all’inizio rappresentò un risanamento della Chiesa, perché Ottone
favorì la nomina di papi moralizzatori; ma comportò in cambio una subordinazione
della Chiesa al potere politico, tanto
più che Ottone I, per contrastare i feudatari laici, creò, con la nomina dei vescovi-conti[75], una feudalità ecclesiastica che, per il fatto di
non poter trasmettere il feudo in eredità, rappresentava una categoria di
feudatari la cui fedeltà all’Imperatore era più sicura. Tale estesa subordinazione della Chiesa all’Impero
contrastava col risanamento
programmato da Ottone ed era anzi causa di mali peggiori. La scelta delle persone cui conferire la dignità ecclesiastica
(un’abbazia, un vescovado, una pieve, un canonicato) dipendeva infatti non dalle loro doti morali e dalla loro
dottrina religiosa, ma dalle capacità
di governo e militari, e, ancor più, dalle garanzie di fedeltà che offrivano
o, non ultima, dalla somma in denaro che erano in grado di versare per ottenere
l’investitura.
b) La
riforma di Cluny - A questo punto s’innesta il vero rinnovamento
della Chiesa, quello portato avanti
dai monaci benedettini riformati dell’abbazia
di Cluny[76]
in Francia che si proponeva dì
sottrarre la Chiesa al potere politico, incominciando col sottrargli l’elezione del papa e dei dignitari
ecclesiastici.
Qualunque
ingerenza dei laici nella loro nomina fu combattuta e bollata come peccato col
termine di simonia (= vendita di cose sacre).
c) Il grande scisma – Lo scisma[77]
fu la rottura definitiva tra la Chiesa di Roma e quella di
Costantinopoli, causata dalla crescente separazione politica e culturale tra
Oriente e Occidente cristiano iniziata dal IV secolo.
Il Papato, impegnato in un
processo di rinnovamento e di consolidamento della struttura della Chiesa,
tentava di riprendere il controllo effettivo della chiesa orientale; questo
avrebbe significato per l’Impero d’Oriente accettare la sovranità religiosa di
un potere, come il Papato, che l’Imperatore non era in grado di controllare.
Già in precedenza le due Chiese
si erano trovate in contrasto:
·
sull'iconoclastia,
ossia il movimento politico-religioso iniziato dall'Imperatore bizantino Leone III Isaurico, che nel 726 condannò
come idolatrico il culto delle immagini della Madonna e dei santi,
considerandolo idolatrico, e ne ordinò la distruzione; la Chiesa occidentale si
oppose all'iconoclastia e condannò Leone III nel 731. Il VII concilio ecumenico di Nicea condannò l'iconoclastia (787), che
riprese tuttavia con gli Imperatori Leone Barda e Teofilo; L'Imperatrice
Teodora dichiarò nuovamente lecito il culto delle immagini (843).
·
con il breve scisma di Fozio infatti quando
l’Imperatore d’oriente depose il patriarca di Costantinopoli Ignazio che
censurava la sua licenziosa condotta e mise al suo posto Fozio, papa Nicola I
scomunicò Fozio e l’Imperatore, restituendo la sede patriarcale ad Ignazio, con
il quale la scisma ebbe termine.
Saliti al soglio patriarcale di
Costantinopoli Michele Cerulario (1043) e a quello pontificio Leone IX (1049)
ci fu lo scisma definitivo.
Il motivo occasionale si ebbe
quando il patriarca Michele Cerulario intervenne sull’uso del pane azimo nelle
chiese dell’Apulia e della Calabria che l’Imperatore Niceforo II Foca aveva
proibito. Cerulario intervenne facendo chiudere tutte le chiese dove veniva
praticato questo rito.
Le divergenze investirono quasi
subito il terreno dogmatico e liturgico, sul quale nessuna delle due parti era
disposta a venire a patti. Erano vecchie questioni che avevano già diviso gli
animi ai tempi di Fozio (IX secolo):
·
il digiuno
romano del sabato
·
il divieto
del matrimonio dei preti
La situazione precipitò nel 1054
quando Papa Leone IX inviò a Costantinopoli il cardinale Umberto di Silva
Candida per tentare di risolvere questa situazione critica, ma la visita
terminò nel peggior modo: il 16 luglio 1054, il cardinale Umberto depositò una
Bolla di Scomunica contro il Patriarca Michele Cerulario sull'Altare di Santa
Sofia, atto inteso come scomunica di tutta la Chiesa bizantina, al quale
Cerulario rispose in modo analogo, con la sottoscrizione degli altri
Patriarchi, scomunicando il papa Leone IX (intendendo la Chiesa occidentale).
Le Chiese, inoltre, attraverso i loro rappresentanti ufficiali, si
scomunicarono l'una l'altra: si separarono così la Chiesa Cattolica Romana e la
Chiesa Ortodossa, ognuna delle quali rivendicante per sé il titolo di Chiesa
Una Santa Cattolica ed Apostolica.
Lo scisma non aveva dirette
ragioni teologiche. I motivi che scatenarono il Grande Scisma includevano:
·
dispute sul primato del Papa, ossia se il
Patriarca di Roma dovesse essere considerato un'autorità superiore a quella
degli altri Patriarchi[80].
·
la designazione del Patriarca di Costantinopoli
come Patriarca Ecumenico (attributo inteso da Roma come patriarca universale,
e quindi rifiutato).
·
il concetto di cesaropapismo[82], un modo per
mantenere unite in qualche modo le autorità politiche e religiose, che si erano
separate molto tempo prima, quando la capitale dell'Impero venne spostata da
Roma a Costantinopoli. Vi sono ora controversie su quanto tale cosiddetto cesaropapismo
esistesse effettivamente o quanto invece fosse frutto dell'invenzione degli
storici occidentali, alcuni secoli dopo.
·
la relativa perdita di influenza dei Patriarchi
di Antiochia, di Gerusalemme e di Alessandria conseguente alla crescita
dell'Islam, fatto che portò le politiche interne alla Chiesa ad essere viste
sempre più come un rapporto Roma contro Costantinopoli.
Sul piano immediato, le
conseguenze furono gravi per l’Impero bizantino, che restava una potenza cristiana,
ma scismatica: ciò indebolì la solidarietà nei sui riguardi degli stati europei
legati al Papato. A lunga scadenza, tuttavia, le conseguenze furono ancora più
gravi per il Papato che perse per sempre il controllo sulla cristianità di
lingua greca e sugli Slavi russi e balcanici.
d)
La lotta per le investiture - Si erano poste le premesse della
lotta per le investiture tra Papato e
Impero. Il Papato, infatti, dopo aver affermato con Nicolò II l’autonomia del
pontefice e l’indipendenza della sua elezione dall’Imperatore nel 1059,
pretendeva che l’investitura imperiale, o comunque laica, dei dignitari
ecclesiastici, spettasse al pontefice o alle altre autorità religiose.
La fase culminante della lotta
vide, nel suo corso, contrapporsi due personalità eccezionali, l’Imperatore Enrico
IV[83] e il papa Gregorio VII.
La
conclusione della lotta si ebbe però solo nel 1122 con un accordo tra Enrico V e Callisto II, il Concordato di Worms. Quest’atto stabiliva che:
·
l'investitura spirituale è separata da quella
temporale
·
In Italia precede l'investitura del papa, in
Germania quella dell'imperatore.
In pratica l'imperatore, che
voleva controllare le nomine dei vescovi conti (senza eredi e quindi facilmente
manovrabili alla morte del feudatario) può farlo solo in territorio germanico.
L'Italia è controllata dal pontefice che nomina direttamente i vescovi.
Questo segnava nel complesso una vittoria della
Chiesa e di coloro che ne avevano voluto la riforma.
[1] Regni
romano-barbarici - Regni nati dall’insediamento di popolazioni germaniche
nei territori dell’impero romano d’occidente.
Nella
prima metà del V secolo questi popoli furono accolti come federati nell’impero
occidentale, che intendeva così ottenere un rilevante appoggio militare ed
evitare un loro insediamento in aree troppo vicine all’Italia. A questa fase
risale la formazione dei regni
·
visigoto (tra
Francia meridionale e Spagna),
·
suebo (Spagna
occidentale),
·
vandalo (Africa)
·
burgundo (bacino
del Rodano).
Nel
476 Odoacre creò in Italia un regno di tutte le popolazioni germaniche lì
stanziate, ma dopo pochi anni fu travolto dagli ostrogoti, mentre un altro
regno fu istituito dai franchi in gran parte della Gallia.
I
germani insediati in questi regni imitarono lo stile di vita delle popolazioni
locali, conservando anche molte istituzioni romane; lo stesso potere del re
perse il precedente carattere puramente militare, divenendo un potere di tipo
territoriale.
I
regni più solidi furono quelli in cui fu più forte la solidarietà tra germani e
latini, soprattutto dove gli invasori si convertirono dall’arianesimo al
cattolicesimo.
[2] Diversamente dalla città quale venne delineandosi
dal XII secolo in avanti e da quella che noi oggi conosciamo.
[3] Villae - Complessi residenziale e
agricoli romano. Nella tarda antichità divennero le grandi proprietà rurali incentrate
su una corte (la riserva) e altre terre dipendenti dalla medesima
azienda chiamate mansi (o massarici). In alcune regioni, e sempre più a
partire dall’VIII secolo, il termine acquistò il senso territoriale di
villaggio o di distretto politico.
[6] Costantino VII
Porfirogenito
[9] Odoacre - Primo re barbarico d’Italia
(476-493). Di origine germanica, servì l’impero romano sotto diversi capi
militari, ma si ribellò nel 476. Uccise Oreste e depose il figlio di questi Romolo
Augustolo. Fu acclamato dalle truppe barbariche e governò l’Italia finché fu
assediato a Ravenna dal re degli ostrogoti Teodorico, che lo fece uccidere.
[10] Ostrogoti - Popolazione germanica
attestata nel III secolo d.C. nella Russia meridionale. Legati agli unni tra IV
e V secolo, si stanziarono in seguito tra Pannonia e Norico, dove strinsero
patti con l’impero d’oriente, che nel 488 li dirottò verso l’Italia, sotto la
guida di Teodorico, figlio e successore di Teodomiro.
Vissuto a lungo alla corte
bizantina come ostaggio, Teodorico, tra il 489 e il 493, con l’appoggio
dell’imperatore Zenone, conquistò l’Italia, sconfiggendo Odoacre. Impostò una
pacifica convivenza e collaborazione tra le aristocrazie gota e latina
incaricate rispettivamente dell’attività militare e di quella amministrativa,
perseguendo un progetto di egemonia sulle stirpi germaniche insediate nei
territori dell’impero, in concorrenza con le aspirazioni politiche dei franchi
e di Bisanzio. Questa ambiziosa politica ebbe però fine con la sua morte. Già
nei suoi ultimi anni egli era entrato in duro contrasto con la gerarchia
cattolica. La sua figura ebbe grande rilievo nelle leggende germaniche
medievali.
Gli Ostrogoti costituirono
in Italia un regno autonomo con capitale a Ravenna che resistette fino alla
guerra greco-gotica (535-553).
[11] Longobardi - Popolazione
originaria della Germania settentrionale, si insediò nell’area danubiana alla
fine del V secolo d.C. Dopo aver brevemente partecipato come mercenari dei
bizantini alla guerra greco-gotica, nel 568 iniziarono l’invasione dell’Italia,
conquistando, tra VI e VII secolo, la pianura padana, la Toscana e l’area tra
Spoleto e Benevento; il territorio italiano fu così segnato da numerose
fratture territoriali tra le dominazioni longobarde e bizantine, divise anche
dalle differenze religiose.
Distrussero
il vecchio ceto senatoriale ed esclusero dal potere la popolazione romana,
mentre probabilmente i due gruppi etnici si assimilarono abbastanza
rapidamente. Persero in breve tempo le caratteristiche di nomadismo, si
insediarono per tribù, guidate da duchi, con una continua tendenza a
distaccarsi dal potere regio. I re quindi, tra VI e VII secolo, operarono per
affermare la propria superiorità e creare uno stato unitario. In questo
processo rientrarono la creazione di una capitale stabile, Pavia, e la
redazione dell’editto di Rotari (643), prima legislazione scritta longobarda,
che unì consuetudini germaniche e alcuni accenni del diritto romano. Questa
azione unificatrice del regno non ebbe mai pieno successo e fu in ogni caso
limitata alla pianura padana e alla Toscana, mentre i ducati meridionali
mantennero un’ampia autonomia.
Si
realizzò nel contempo un avvicinamento politico e culturale al mondo romano e
al papato, che, pur tra grandi resistenze, fu sancito nella prima metà del VII
secolo dalla conversione al cattolicesimo.
Tuttavia continuarono, nel
secolo successivo, i contrasti tra il regno, che aspirava alla conquista del
Lazio, e il papato, che iniziava in questo periodo a costruire una propria
dominazione politica attorno a Roma. Fu decisivo, a metà dell’VIII secolo,
l’intervento militare del re franco Pipino, che obbligò i longobardi a
restituire al papato alcune terre conquistate. Questo intervento franco fu una
premessa dell’invasione di Carlo Magno (774), che segnò la fine del regno
longobardo. Restò indipendente, seppur formalmente sottomesso ai Carolingi, il
ducato di Benevento, dove si realizzarono autonomi sviluppi sociali e politici
fino alla conquista normanna.
[12] Guerra
greco-gotica – Fu combattuta fra Bizantini ed Ostrogoti per il dominio
sull’Italia. Per la ricostruzione dell’impero, Giustiniano inviò nella penisola
un’armata guidata da Belisario, che riconquistò la Sicilia e Roma (536), ma
solo dopo molte difficoltà riuscì a prendere anche Ravenna (540) e a catturare
il re Vitige.
La
guerra riprese sotto il nuovo re ostrogoto Totila (541), che riconquistò tutto
il territorio tranne Ravenna. Soltanto con l’arrivo del generale Narsete (552)
i bizantini riuscirono a sconfiggerlo e a ucciderlo, battendo poi anche il
successore Teia. Sterminii, assedii e razzie ebbero conseguenze disastrose per
l’Italia.
[13] Franchi – La
popolazione franca si formò nella prima metà del III secolo dall’unione di
diverse tribù germaniche. Comparsi intorno al 235 sulla riva orientale del
basso Reno, compirono incursioni nelle province romane Germania e Belgica,
apparendo ai Romani come dei giganti dai capelli rossi e dai lunghi baffi,
abili combattenti a piedi e specializzati nel lancio della scure a doppio
taglio.
Nel
IV secolo, sconfitti da Aureliano, furono ammessi nell’esercito romano come
ausiliari
Nel
357 i Franchi che si stabilirono ad occidente della Mosa ebbero da Giuliano
l’Apostata lo status di foederati. Essi furono allora chiamati con il
nome di franchi salii, mentre quelli rimasti sulla riva destra del Reno
furono chiamati franchi ripuari.
Nel
451 furono alleati di Ezio ai Campi
catalaunici, contro gli Unni
Alla
fine del V secolo, i Franchi avevano fatto della Renania e del Belgio
settentrionale regioni interamente germanizzate: i Franchi ripuari si
impossessarono di Colonia e Treviri, mentre i Franchi salii arrivarono fino alla Loira.
Dinastia
di re dei franchi salii, stanziati nella regione di Tournai, che con il re
Clodoveo unificò e ampliò a tutta la Gallia il regno franco.
Nel
486, Clodoveo eliminò i resti dell’esercito romano in Gallia, nel 496 sconfisse
sul Reno gli Alemanni e cominciò a penetrare nella Gallia visigota.
Nel
498, con il battesimo di Clodoveo, i Franchi godettero dell’appoggio dei
vescovi della Gallia e condussero la guerra contro i visigoti ariani anche in
nome della religione.
Nel
507, dopo la battaglia di Vouillé, annetté la Gallia visigota.
Prima
di morire, Clodoveo riuscì ad imporre la sua autorità anche sui ripuari.
Benché
diviso in quattro regni, il popolo franco restò per due secoli inquadrato dal
potere dei Re merovingi, una dinastia che deriva il nome dal loro capostipite,
Meroveo, fu la prima dinastia dei franchi.
I
re Merovingi sono stati chiamati a lungo re fannulloni, per il fatto che
il loro potere ben presto si affievolì a favore di un casato di servi, i
Pipinidi. Le implicazioni e le cause di ciò sono tante, tra storicità e
leggenda, e spiegano anche le ragioni di un altro epiteto dei Merovingi: re taumaturghi. Al tempo dei Merovingi
il potere politico era diviso tra il re e il signore o maggiordomo di palazzo.
Allo stesso modo infatti, formalmente il Maggiordomo non poteva avere un potere
maggiore del suo sovrano, tuttavia era proprio il Signore di Palazzo che
radunava le truppe al campo Maggio (il campo Maggio era il campo nel quale
venivano reclutate le truppe dell'esercito) e portava avanti le campagne
militari.
Proprio
questo potere che cresceva sempre di più nelle mani dei maggiordomi, permise ai
maestri di palazzo Pipinidi, dalla quale proveniva la maggior parte dei signori
di palazzo, prese progressivamente il sopravvento sui Merovingi per poi
sostituirli completamente assumendo nel 751 il titolo regio con Pipino il
Breve.
[14] Visigoti - Si
installarono in Dacia nel III secolo d.C. Nel corso del secolo successivo si
insediarono come federati nell’impero e si convertirono all’arianesimo.
All’inizio del V secolo si
spostarono verso occidente, prima in Italia, dove saccheggiarono Roma (410),
poi nell’area compresa tra la Spagna e la Gallia sudoccidentale dove si
insediarono, abbandonando poi la Gallia all’inizio del VI secolo per la
pressione militare del franco Clodoveo.
Seppero creare, anche prima
della conversione al cattolicesimo, un’efficace convivenza con l’aristocrazia
romano-iberica, di cui rispettarono l’ordinamento religioso e da cui trassero
importanti collaboratori nell’organizzazione amministrativa del regno, con
centro a Toledo. Tuttavia solo la conversione e lo stretto legame tra la monarchia
e l’episcopato, dalla fine del VI secolo, favorirono la fusione culturale ed
etnica delle due stirpi, la cui aristocrazia unì modelli culturali romani con
uno stile di vita militare di tradizione germanica.
La loro costante debolezza
politica permise però la conquista araba, tra il 711 e il 713, che pose fine al
regno visigoto.
[15] Vandali -
Antica tribù germanica originaria dello Jütland. Si scontrarono con i romani,
quando, occupata e devastata la Gallia (406), si trasferirono in Spagna e vi si
insediarono. Passati in Africa sotto la guida di Genserico, furono riconosciuti
come federati (435). Ma Genserico, dichiarata l’indipendenza, attaccò e
saccheggiò Roma nel 455.
[16] Impero
bizantino - Organismo politico che per tutto il medioevo continuò in
oriente l’impero romano, reggendosi intorno alla capitale Costantinopoli
(l’antica Bisanzio, restaurata e ribattezzata da Costantino nel 330).
Il
suo atto d’origine può datarsi al 395, quando alla morte di Teodosio l’impero
venne diviso in una parte occidentale e in una orientale, oppure al momento
della caduta di Roma nel 476, quando Odoacre inviò a Costantinopoli le insegne
imperiali. Fino a circa la metà del VII secolo, grazie anche alla riconquista
dell’Italia, dell’Illirico e dell’Africa da parte di Giustiniano (527-565),
mantenne aspirazioni di dominio universale, espresse dalla monumentale raccolta
del Corpus giuridico e dalla edificazione di Santa Sofia a
Costantinopoli.
Potenza
e ricchezza dell’impero durarono inalterate, nonostante le tensioni e le
tendenze autonomistiche delle province accese dai conflitti religiosi interni,
fino al regno di Eraclio (619-641), il quale sconfisse i persiani, ma dovette
cedere agli arabi Siria, Egitto e Africa.
Nei
decenni seguenti, vennero persi i Balcani continentali colonizzati dagli slavi,
gran parte dell’Italia invasa dai longobardi e gli arabi arrivarono a
minacciare direttamente Costantinopoli. La salvezza e la resistenza dell’impero
(ridotto sostanzialmente al dominio dell’Asia minore, della penisola balcanica
e di parte dell’Italia meridionale) furono assicurate dall’azione militare e
dall’opera di riorganizzazione e riforma interna di nuove e forti dinastie,
succedutesi fino alla fine del XII secolo.
Per
primi gli Isaurici (717-802), che con Leone III arrestarono l’avanzata degli
arabi battuti ad Akronos (739) e, nel tentativo di consolidare il potere
imperiale, promosse l’iconoclastia, scatenando violente reazioni interne e la
scomunica da parte di papa Gregorio III.
Quindi
Basilio I il Macedone e i suoi successori (867-1057) che riportarono l’impero
alla sua antica potenza, strappando agli arabi parte dei territori perduti in
Italia e soprattutto riassoggettando i Balcani, con la sconfitta dei bulgari
(1014).
Un
grave indebolimento del potere imperiale, a vantaggio delle famiglie magnatizie
dei grandi proprietari fondiari, coincise con un nuovo più grave periodo di
crisi, dovuto all’attacco dei turchi, che si impadronirono dell’Armenia, della
Cappadocia, della Mesopotamia e di parte della stessa Anatolia, mentre i
normanni conquistavano tutta l’Italia meridionale e attaccavano Macedonia ed
Epiro.
I
problemi interni e i pericoli esterni furono combattuti ancora con grande
energia dai Comneni (1081-1185), specialmente i primi tre restaurarono l’impero
rinvigorendo l’apparato militare contro la burocrazia della capitale. Fecero
larghe concessioni fondiarie alle famiglie aristocratiche in cambio del
servizio militare. Da un lato ciò rafforzò l’esercito, ma dall’altro causò un
processo di feudalizzazione a danno del potere centrale. Con un’abile politica
di alleanze, in particolare con i crociati e con Venezia, i Comneni riuscirono
per lungo tempo a contenere i normanni dell’Italia meridionale e i russi. I
Comneni attuarono tuttavia quella politica di apertura all’occidente e ai suoi
mercanti e di alleanza con le spedizioni crociate, che doveva infine condurre
allo scontro fra bizantini e latini e alla decadenza definitiva dell’impero
orientale. Questa si manifestò sotto gli Angeli (1185-1204), quando nei Balcani
Bulgaria e Serbia riacquistarono l’indipendenza e la quarta crociata guidata
dai veneziani si impadronì di Costantinopoli (1204). Il suo territorio rimase
diviso in impero latino a Costantinopoli, imperi grecobizantini di Trebisonda
(sul mar Nero) e di Nicea (in Anatolia) e despotato bizantino in Epiro.
Nel
1261 Michele VIII Paleologo imperatore di Nicea si alleò con Genova contro
Venezia, riconobbe la supremazia ecclesiastica di Roma e tentò di ripristinare
i confini del XII secolo. riconquistò Costantinopoli, ma gli occidentali e i
veneziani rimasero nel Peloponneso e nelle isole ionie ed egee, mentre i turchi
si impadronivano dell’Anatolia.
L’organizzazione
militare e burocratica e il governo autocratico dell’imperatore non ressero
alle continue crisi di successione dinastica, alla crescita della forza
centrifuga delle potenti aristocrazie fondiarie provinciali, alla lenta e
inesorabile decadenza della fortuna economica e della potenza navale,
determinata dall’espansione prima dei musulmani e poi dell’Europa latina: agli
inizi del 1400 non restava più che la provincia intorno alla capitale e una
parte dell’Acaia. Nel 1453 i turchi presero Costantinopoli e nel 1461 anche
Trebisonda, ponendo fine alla millenaria storia dell’impero bizantino.
bisante è il nome medioevale delle monete d'oro bizantine.
nell'Europa del primo medioevo le monete d’oro non erano battute mentre le
valute più diffuse erano in argento e bronzo, tuttavia circolavano in piccole
quantità, provenienti dalla regione del Mar Mediterraneo, in particolare erano
altamente stimate le monete d'oro del mondo islamico (dīnār) e
bizantino. Queste monete d'oro erano comunemente chiamate bisanti, dalla
parola Byzantium, forma latinizzata del nome greco della capitale,
Costantinopoli, da dove generalmente venivano le monete d'oro e a cui erano
associate. Il rapporto tra oro ed argento in questo periodo era di 1:9 e,
generalmente, le monete d'oro erano usate quando i pagamenti avevano qualche
speciale significato rituale o per mostrare una qualche forma di rispetto.
La
monetazione in oro fu reintrodotta in Europa nel 1252, quando Firenze iniziò a
battere la moneta d'oro conosciuta con il nome di fiorino.
[18] Costantinopoli
- Caduto l'Impero Romano d'Occidente, per tutto il Medioevo, Costantinopoli
restò capitale dell'Impero Bizantino, e la più grande e ricca città d'Europa:
nel X sec. contava un milione di abitanti.
La
base del diritto romano fu gettata a Costantinopoli da Giustiniano, che tra il 528 e il 565 formò il Corpus Iuris Civilis.
Dotata
di un notevole impianto di fortificazioni, la città rimase per secoli
inespugnata, fino al 1204, quando fu saccheggiata dagli eserciti della quarta crociata al comando di Enrico Dandolo e Bonifacio I del Monferrato che insediarono un Impero Latino, che durò per poco più di mezzo secolo, fino a Baldovino II, quando nel 1261 la città
fu riconquistata dai bizantini.
La
conquista crociata aveva accelerato il lento declino della città, iniziato da
tempo.
I
bizantini la tennero per altri due secoli fino a Costantino XI, quando, il 29
maggio 1453, divenuta una testa senza
corpo, capitale di un impero inesistente, ospitava solamente 50.000
abitanti, cadde in mano ai turchi ottomani guidati da Maometto II il Conquistatore, che ne fece la capitale dell'Impero Ottomano.
La
caduta di Costantinopoli, e quindi la fine dell'Impero Romano d'Oriente, è
indicata come l'evento che convenzionalmente chiude il Medioevo e inizia l'Evo
moderno.
[19] Giustiniano - Nipote e successore di Giustino col quale collaborò
fin dal 518, fu da lui associato al trono.
Il
suo lungo regno fu caratterizzato da una attenta restaurazione dell’antico
impero romano in tutti i suoi aspetti. Questo disegno politico si attuò
soprattutto nel campo del diritto.
Abile
nella scelta dei suoi collaboratori, Giustiniano affidò la riforma della
legislazione a Triboniano, incaricandolo di mettere ordine nell’immenso
materiale legislativo prodotto dall’impero romano, così da renderlo
immodificabile, pur lasciando spazio alle nuove leggi bizantine.
Ne
risultò il Corpus iuris civilis realizzato in quattro parti:
·
il Codex,
raccolta degli editti imperiali;
·
il Digesto,
raccolta dei maggiori scritti dei giuristi romani;
·
le Institutiones,
manuale per lo studio del diritto;
·
le Novellae,
leggi successive al codice.
Dal
punto di vista religioso l’imperatore cercò di far prevalere la ragione di
stato, perseguendo l’unità religiosa. Per questo nel 533 fece condannare i
cosiddetti tre capitoli del concilio di
Calcedonia, cercando nel contempo di salvare le altre decisioni di quel
concilio e di accontentare i monofisiti: in realtà la sua azione non portò ai
risultati sperati perché creò uno scontento generale che aumentò la tensione
preesistente.
Le
sue ambizioni politico-militari erano dirette alla riconquista dell’antico
impero romano. Grazie all’aiuto di Belisario, riaffermò la pace sui confini
orientali con il regno persiano (532), recuperò le coste dell’Africa (533-534),
parte del sud della Spagna in mano ai visigoti (554) e l’Italia, dove gli
ostrogoti sostennero una resistenza ventennale che fu piegata solo dal generale
stratega Narsete (555).
Il progetto giustinianeo
ebbe però breve durata poiché la restaurazione territoriale mancava di solide
basi e l’imperatore lasciò ai suoi successori un impero in completa rovina
economica e finanziaria incapace di resistere alle pressioni esterne.
[20] Maometto (575-632) è il profeta che si
dice scelto da Dio per comunicare
agli Arabi la vera religione rivelatagli dall’arcangelo Gabriele e registrata fedelmente nel Corano, il libro sacro della
religione musulmana.
La nuova dottrina predica
l’esistenza di un solo Dio, Allah, al quale si deve una sottomissione incondizionata (= Islam, termine che designò
la religione nel suo complesso e il mondo
che la pratica); questa richiede l’ubbidienza
a cinque precetti fondamentali:
·
il
giuramento di fede,
·
la preghiera
rituale cinque volte al giorno,
·
il digiuno durante
il mese del ramadan,
·
l’elemosina
legale (una sorta di tassa da
versare alla comunità),
·
il
pellegrinaggio alla Mecca.
Maometto organizzò i suoi
fedeli in una specie di Stato teocratico ed i suoi successori cominciarono un processo di espansione che, tra il VII e la prima metà dell’VIII secolo, estese i confini dell’Islam
dalla Spagna alla Siria, dall’Egitto all’Asia
occidentale, amalgamando popoli e
culture diverse.
[21] Guerra
santa o gihâd - Termine arabo che significa letteralmente sforzo o
impegno. Esso indica per il musulmano, la guerra santa, intesa sia come opera
missionaria per la propagazione della fede sia come vera e propria lotta armata
contro gli infedeli.
[22] Califfo -
Termine impiegato per indicare il Vicario
o Successore di Maometto alla guida
politica e spirituale della Comunità islamica. La massima magistratura islamica
non è prevista nel Corano e neppure
nella Sunna di Maometto e fu quindi
realizzata da alcuni fra i primissimi compagni del Profeta nella stessa
giornata della sua morte, l'8 giugno 632.
Per
evitare probabilmente che i musulmani di Medina scegliessero come successore
politico di Maometto uno dei loro, un gruppo di musulmani meccani riuscirono a
far sì che il prescelto fosse per l'appunto Abū Bakr che, per essere stato il
miglior amico di Maometto e verosimilmente il primo uomo convertitosi
all'Islam, era assai apprezzato da tutti e garantiva perciò una linea di
comportamento non dissimile da quella messa in atto dal Profeta.
L'espressione
usata per indicarlo fu quindi "khalīfat rasūl Allāh" (vicario, o
successore, dell'Inviato di Dio).
[23] Carlo Martello - Maestro di palazzo dei
re franchi. Figlio naturale di Pipino di Héristal, resse di fatto il regno franco
come maggiordomo degli ultimi re merovingi, grazie al prestigio conquistato con
le vittorie militari. Sconfisse gli arabi a Poitiers nel 732. Favorì la
cristianizzazione delle popolazioni settentrionali sottomesse e mantenne buoni
rapporti con i longobardi.
[24] Leone III di
Bisanzio - Noto anche come Leone
III l'Isaurico fu stato imperatore bizantino dal 717 sino alla sua morte
nel 741.
Elevato
al trono nel 717 in sostituzione di Teodosio III, vinse l'anno dopo gli Arabi,
che assediavano Costantinopoli, e li respinse fino all'Eufrate.
Dopo
la vittoria militare si dedicò alle riforme interne dello stato, ormai
precipitato nell’anarchia, provvide a rappacificarsi con i popoli slavi e
riorganizzò le forze armate. Grazie a tutto questo poté con maggior facilità
respingere i successivi tentativi da parte dei Saraceni di invadere l'impero
nel 726 e nel 739.
Nel
suo regno introdusse numerose riforme fiscali, liberò dalla schiavitù i servi e
introdusse nuove leggi marittime, sollevando molte critiche da parte dei ceti
più nobili e del clero.
In
campo religioso dapprima promosse una campagna per il battesimo della
popolazione, in seguito si batté per eliminare il culto delle immagini sacre,
l’iconoclastia, ormai troppo diffuso
nell'Impero, andando anche contro le opinioni della Chiesa di Roma e di Papa
Gregorio II che lo scomunicò. La condanna di Leone fu confermata anche dal
successore Gregorio III che, nel 731 riunì un sinodo apposito per condannarne
il comportamento.
Leone
III decise allora di portare la Grecia ed il sud dell'Italia sotto l'egida del
Patriarca di Costantinopoli e, a tal fine, promosse una campagna militare nel
737.
[25] Stato della
Chiesa - La formazione del patrimonio temporale della Chiesa romana risale
a una serie di donazioni fondiarie (secoli IV-VI).
Nell’insufficienza
del potere imperiale bizantino, il patrimonium Sancti Petri divenne la
base territoriale per l’azione politica della sede apostolica nell’Italia
centrale: con gli accordi tra papa Stefano II e Pipino il Breve (754) poggianti
sulla Donazione di Costantino, essa
figurò come autorità sovrana su vasti territori compresi tra il Po e Benevento.
La
donazione di Costantino è un documento apocrifo attribuito a Costantino I (IV
secolo d.C.). Rivolto a papa Silvestro I, si compone di due parti: una,
agiografica, narra la leggenda di san Silvestro, secondo la quale l’imperatore
fu guarito dalla lebbra dal papa; l’altra espone la gerarchia ecclesiastica e
narra la donazione da parte di Costantino alla Santa sede della parte
occidentale dell’impero, compresa la città di Roma.
La
redazione risale probabilmente alla seconda metà dell’VIII secolo. È però
opinabile anche una sua composizione in occasione dell’incoronazione di Carlo
Magno (800). Dopo l’età carolingia la Donazione
fu riesumata da Leone IX nel 1053, passando poi nel Decretum Gratiani e
in altre raccolte di decretali, essendo considerato documento di tutto rispetto
dagli stessi avversari del potere temporale dei pontefici. La falsità del
documento, già ipotizzata da Ottone III per motivi formali (mancanza del
sigillo), fu poi dimostrata in base a incontrovertibili argomenti storici e
linguistici da N. Cusano e da L. Valla (De falso credita et ementita
Costantini donatione) nel XV secolo.
Con
la Riforma gregoriana il papato si
liberò della giurisdizione tutelare esercitata dall’impero sulle terre della
chiesa. La simonia, i patrimoni ecclesiastici, il matrimonio e il concubinato
dei preti erano così diffusi che le austere arringhe dei religiosi più
intransigenti trovarono ampi consensi fra gli strati popolari. Il movimento
della riforma mirò alla moralizzazione del clero, a togliere all’impero il
diritto di nominare i vertici della gerarchia ecclesiastica e alla
trasformazione del papato in una monarchia, tale da permettere una più agevole
riorganizzazione della chiesa. Le proteste e i fermenti di rinnovamento
arrivarono soprattutto dai monaci che avevano subito l’influenza dell’abbazia di Cluny, che appoggiò il papato
nella Riforma; in Italia si schierarono contro il clero corrotto Romualdo di Ravenna, fondatore
dell’eremo di Camaldoli, e Giovanni
Gualberto, fondatore dei vallombrosani, mentre in Lombardia si diffondeva
il movimento della pataria. Di fronte
a tutte queste richieste interne all’organismo ecclesiastico, il papato si
impegnò in un’azione di riforma; in particolare tutta l’opera di Gregorio VII
fu rivolta al risanamento del comportamento del clero e alla riorganizzazione
del mondo ecclesiastico in un sistema monarchico di governo.
Dal
XIII secolo in poi i papi elevarono la sovranità diretta sul loro territorio a
garanzia della libertas ecclesiae. Innocenzo III (1198-1216) divise lo
Stato pontificio in quattro province, affidate a rettori:
Campania (basso Lazio), Patrimonio (alto Lazio), ducato di Spoleto, marca di
Ancona. Durante la cattività avignonese (1309-1377) il controllo dello Stato
pontificio venne ripreso dal cardinale Albornoz, che con le Constitutiones
(1357) diede a esso una legislazione unitaria, rimasta in vigore fino al 1816.
Non fu però eliminato il problema delle signorie detenute come vicariati
del papa, rafforzatesi durante il Grande
scisma (1378-1417): il loro smantellamento, avviato nel Rinascimento mentre
lo Stato pontificio si inseriva nel sistema politico delle potenze europee, fu
portato a termine da Giulio II (1503-1513) con il recupero di Bologna, Perugia
e della Romagna.
Il
papato della Controriforma utilizzò le risorse statali come supporto
finanziario per il rilancio del suo universalismo; tali esigenze portarono con
Sisto V (15851590) all’adozione di riforme centralistiche nell’amministrazione
dello stato, affidate alla Consulta e poi alla Congregazione del buon governo,
che tuttavia non poterono vincere la rete dei particolarismi che, complice il
nepotismo e i favori della corte, bloccarono nei secoli XVII-XVIII lo sviluppo
economico e sociale dello Stato pontificio in una rete di gerarchie
parassitarie. Sopravvissuto fino a Napoleone, con la costituzione del Regno
d’Italia esso venne privato delle regioni più sviluppate: perdita di
Emilia-Romagna con la pace di Tolentino (1797) e annessione delle Marche nel
1809. La sua esistenza, salvata dal cardinale Consalvi al congresso di Vienna
(1815) ed emendata da Pio IX con la concessione dello Statuto (1848), fu
dichiarata finita dalla Repubblica romana (1849) e poi cancellata dalle truppe
piemontesi che conquistarono i territori dello stato (1859-1860) e poi la
capitale (1870).
[26] Teodolinda - Di stirpe bavara, nel 589
sposò il re Autari e nel 591, alla sua morte, trasmise il titolo regio al nuovo
marito, Agilulfo, duca di Torino. Fu protagonista dell’avvicinamento tra il
regno e il papato, con la conversione del popolo longobardo al cattolicesimo.
Morto Agilulfo (616), resse il governo a nome del figlio minorenne Adaloaldo.
[27] Donazione
di Sutri - Cessione formale a papa Gregorio II dei castelli di
Sutri, Bomarzo, Orte e Amelia da parte del re longobardo Liutprando.
Contestuale alla formulazione dell’apocrifa Donazione
di Costantino, è convenzionalmente ritenuta l’origine dello Stato della
chiesa e del potere temporale dei papi.
[28] preghiere che, nella
liturgia delle ore, sono recitate subito prima dell’alba.
[29] tetragono: poligono con
quattro angoli ovvero solido a quattro spigoli.
[30] s’innervavano: si
protendevano, si diramavano, come nervi o muscoli che, tendendosi, emergono dal
corpo.
[31]
quadrato… nel cielo: il quadrato è simbolo dell’umano e della fisicità terrena,
mentre il triangolo è simbolo di Dio, di spiritualità.
[32]
torrione eptagonale: una grande torre a sette lati. L’intero Edificio è
costruito secondo il simbolismo medievale, che attribuisce a ciascun numero un
significato particolare.
[33]
Castel Ursino o Castel dal Monte: il primo si trova a Catania, il secondo
vicino ad Andria, in Puglia; entrambi sono opera di Federico II.
[34]
custodia della parola divina: l’Edificio ospita infatti un’immensa biblioteca,
la più grande dell’epoca, contenente i libri sacri (la parola divina) e
l’intero sapere umano, che, nella visione religiosa medievale, deriva anch’esso
da Dio e a Dio deve essere ricondotto (cfr. ad esempio la concezione del sapere
di Dante).
[35] famigli: addetti ai
lavori agricoli del monastero.
[36] urbanità: comportamento
civile e cortese.
[37] cellario: monaco addetto
alla dispensa.
[38] strame: erbe secche che
servono come foraggio e lettiera per il bestiame.
[39] bruttando: imbrattando,
macchiando.
[40] . ut
sit… rotunditas: “che il capo sia minuto e magro, quasi con la pelle attaccata
alle ossa, le orecchie corte e a punta, grandi gli occhi, le narici aperte, il
collo dritto, fitta la criniera e la coda, regolare [l’andatura] per la durezza
degli zoccoli”. Isidoro di Siviglia (560-636) è autore di un’opera vastissima
ed enciclopedica, le Etymologiae, che raccoglie in qualche modo il sapere
dell’antichità classica e della tarda romanità
[41] inferito: dedotto,
desunto
[42] auctoritates: con questa
notazione, a prima vista secondaria, in realtà Guglielmo introduce uno dei temi
portanti del romanzo; per l’uomo medievale le auctoritates, ovvero gli auctores
(gli scrittori autorevoli) e le loro opere, si sovrappongono, fino quasi a
sostituirsi, alla diretta esperienza del reale.
[43] Antiquarii: amanuensi
addetti alla copiatura dei testi più antichi, greci e latini.
[44] 2. librarii: i copisti.
Dal latino librarius, il servo che era adibito a ricopiare i testi per il
padrone.
[45] 3. rubricatori. Copisti
addetti alla rubrica, che comprendeva i titoli e il riassunto dell’opera.
[46] 4.
Terza, sesta e nona … vespro: l’autore ci dà un’informazione ben precisa sulla
divisione canonica della giornata che si attuava nel monastero benedettino. Il
tempo era infati scandito dalla preghiera e dal lavoro, secondo la regola ora
et labora di Benedetto da Norcia, in mattutino (corrispondente all’alba), prima
(ore 6), terza (ore 9), sesta (ore 12), nona (ore 15), vespri (tramonto),
compieta (prima di andare a dormire).
[47]
alluminatori: erano i miniatori veri e propri, addetti cioè a dare ai codici
“allume”, cioè luce, mediante la colorazione delle grandi lettere e delle
figure. Questa operazione avveniva utilizzando, come fissante, l’allume di
rocca mescolato ad altre sostanze vegetali.
La descrizione del
bibliotecario Malachia: i dettagli fisici e i risvolti psicologici di un
personaggio enigmatico e per certi versi inquietante.
[48] Lo
scriptorium è un luogo per così dire “internazionale”, in cui la cultura unisce
esperti, studiosi e copisti di provenienza diversa: la cultura araba,
importante per la diffusione del sapere scientifico (algebra, medicina),
dialoga e si confronta con quella occidentale, rappresentata dal filosofo
Aristotele e dalla retorica, una disciplina che faceva parte delle sette arti
liberali.
[49]
ipotiposi. Una figura retorica della descrizione e dell’elenco, fatta però con
vivacità e ricchezza di particolari da renderla vicina alla realtà.
[50]
Ruggero Bacone. Frate francescano e inglese come Guglielmo da Baskerville, fu
uno dei maggiori filosofi del XIII secolo. Studiò a Oxford, dove poi insegnò. È
considerato il fondatore dell’empirismo e per la sua fama venne soprannominato
con l’appellativo di “doctor mirabilis”. scoperto e fabbricato quello strumento.
[51] La Regola
Benedettina - Nel monastero di Montecassino Benedetto compose la sua
Regola. Prendendo spunto da regole precedenti, in particolare quelle di san
Giovanni Cassiano e san Basilio egli combinò l'insistenza sulla buona
disciplina con il rispetto per la personalità umana e le capacità individuali,
nell'intenzione di fondare una scuola del servizio del Signore, in cui speriamo
di non ordinare nulla di duro e di rigoroso.
La
Regola benedettina, in latino denominata Regula
monachorum o Sancta Regula,
dettata da San Benedetto da Norcia nel 534, consta di un Prologo e di
settantatre capitoli. È una dettagliata regolamentazione dei diversi
aspetti della vita monastica, che viene organizzata intorno a quattro assi
portanti, volti a permettere di fare fronte alle tentazioni impegnando
continuamente ed in modo vario il monaco: la preghiera comune, la preghiera
personale, lo studio e il lavoro.
La
Regola, dotta e misteriosa sintesi del Vangelo, nella quale si organizza nei
minimi particolari la vita dei monaci, diede nuova ed autorevole sistemazione
alla complessa, ma spesso vaga e imprecisa, precettistica monastica precedente.
I due cardini della vita comunitaria sono il concetto di stabilitas loci e la
figura dell'abate, padre amoroso, mai
chiamato superiore, e cardine di una famiglia ben ordinata che scandisce il
tempo nelle varie occupazioni della giornata durante la quale la preghiera e il
lavoro si alternano nel segno del motto ora
et labora
I
monasteri che seguono la Regola di san Benedetto sono detti benedettini. Anche
se ogni monastero è autonomo sotto l'autorità di un abate, si organizzano
normalmente in confederazioni monastiche, delle quali le più importanti sono la
congregazione cassinense e la congregazione sublacense, originatesi rispettivamente
attorno all'autorità dei monasteri benedettini di Montecassino e di Subiaco.
[52] Giubba corta, senza
maniche.
[53] Spada corta e larga.
[54] Spada corta e larga.
[55] Membro ordinato del clero
cattolico di grado inferiore al Sacerdote.
[56] Aachen, in Germania
[57] Carolingi
- I Carolingi regnarono in Europa dal 750 fino al X secolo. I Carolingi devono il loro nome a
Carlo Martello, maggiordomo di palazzo
dell'Austrasia, del quale la vittoria a Poitiers interrompe la progressione
degli Arabi verso nord, e gli dona un’immensa fama nell'occidente cattolico.
La
dinastia dei Carolingi ha le sue origini nella famiglia dei Pipinidi, che
ebbero la carica di maggiordomi di palazzo sotto il regno dei sovrani merovingi
d'Austrasia. Man mano che il potere della dinastia merovingia andava diminuendo
i maggiordomi di Palazzo Pipinidi accrebbero il loro potere: già Pipino di
Herstal dirigeva in modo quasi autonomo la politica del regno; così, nominavano
i duchi, i conti, negoziavano gli accordi con i paesi vicini, dirigevano
l'esercito, estendevano il territorio del regno e arrivavano perfino a
scegliere i re merovingi.
Il
territorio particolarmente apprezzato dai Pipinidi, fu la regione di Liegi, Aquisgrana e
Colonia.
Pipino
il Breve mette fine alla dinastia merovingia nel 751: stanco di dover dipendere
da re inutili e fastidiosi, fece rinchiudere Childerico III, e si proclamò re
al suo posto, diventando così il primo re dei Franchi carolingi.
Carlo
Magno, figlio di Pipino il Breve, è senza alcun dubbio il sovrano che segna
maggiormente l'epoca carolingia, per la longevità del suo regno, ma anche
grazie al suo carisma, alle sue conquiste militari e alle sue riforme.
Dopo la morte del figlio di Carlo Magno, Ludovico il
Pio, divise il regno tra i suoi figli; il territorio è diviso da est ad ovest
in tre regni:
·
Lotario I ereditò
il titolo imperiale e la parte centrale del regno il suo regno comprende
inoltre le capitali politiche (Aquisgrana) e religiose (Roma) dell'impero. Il
titolo imperiale perse però la sua importanza: dopo il trattato di Verdun,
Lotario conserva la dignità imperiale, che non corrispondeva più a nessun
potere superiore a quello degli altri re.
·
Ludovico II il
Germanico ricevette la parte orientale dovei fondò una dinastia che regnò sulla
Germania fino al 911.
·
Carlo il Calvo
ottenne la parte occidentale dell'impero dove rimarrà la dinastia carolingia
fino all'arrivo dei Capetingi nel 987.
Alla
fine del IX secolo, delle vere e proprie armate vichinghe portano devastazione
fino al cuore del regno occidentale. I re carolingi sembrano impotenti: Carlo
il Calvo cerca di costruire delle fortificazioni aggiuntive. Chiede ai capi
dell'aristocrazia di difendere le regioni minacciate.
·
Roberto il Forte
è messo dal re alla testa di una marca occidentale; muore combattendo contro i
Vichinghi nel 866.
·
Il conte Oddone
difende Parigi contro un attacco venuto dalla Senna nel 885.
Questi
nobili acquistano un immenso prestigio che partecipa all'indebolimento del
potere reale. Le vittorie militari sono ormai attribuiti ai marchesi e ai
conti.
L'incapacità
dei Carolingi di risolvere il problema scandinavo è manifesta: nel 911, Carlo
il Semplice cede la Bassa Senna al capo vichingo Rollone, e si rimette a lui
per difendere l'estuario e il fiume, in aiuto di Parigi. Questo clima
d'insicurezza ha accelerato la disgregazione del potere carolingio.
Ad
Est si profila una nuova minaccia con l'arrivo dei Magiari un popolo delle
steppe che occupa la Pannonia. Fanno le loro prime incursioni ai margini
dell'impero, in Moravia nel 894, in Italia nel 899. Nel 907, il regno slavo
della Grande Moravia cede a causa dei nuovi invasori.
Dalla
fine del IX secolo, i re carolingi regnano troppo poco tempo per essere
efficaci:
·
Luigi II il Balbo
resta re dei Franchi per soli due anni (877-879);
·
Carlo III il
Grosso è re per 3 anni (879-882);
·
Luigi V muore in
un incidente di caccia dopo solo un anno di regno (986-987).
Quindi,
gli ultimi re carolingi non riescono dunque ad imporre una politica a lungo
termine.
Dalla
fine del IX secolo, alcuni aristocratici che non facevano parte della famiglia
dei Carolingi accedono al potere: nel 888, dopo la morte di Carlo il Grosso,
Berengario I gli succede sul trono d'Italia.
Nel
X secolo, le dinastie che si imposero dappertutto nel territorio carolingio non
discendono più da quella carolingia.
Alla
fine del X secolo, l'autorità centrale carolingia sparì, a vantaggio degli
aristocratici, in particolare dei principi territoriali; è la fine della
dinastia carolingia e il trionfo delle stirpi aristocratiche.
La
rinascita europea promossa dai Carolingi influenzò anche la sfera artistica,
determinando il recupero del linguaggio classico. Nelle grandi chiese
abbaziali, si affermò una nuova tipologia basilicale a tre navate con abside,
cripta e facciata tra torri, mentre nella Cappella Palatina ad Aquisgrana
prevalse la pianta centrale di derivazione bizantina.
[58] Carlo Magno - (742 - Aquisgrana 814).
Re di Neustria (758-814), re di Borgogna (768-814), re dei franchi (771-814),
imperatore del Sacro romano impero (800-814). Figlio di Pipino il Breve, re dei
franchi, e di Berta, figlia di Cariberto, conte di Laon. Alla morte del
fratello Carlomanno (771) incorporò anche i suoi domini, costrinse alla fuga i
suoi figli e si fece acclamare unico re dei franchi. Nello stesso anno ripudiò
la moglie Ermengarda, figlia del re dei longobardi Desiderio, e sposò la nobile
sveva Ildegarda. Nel 773, su sollecitazione di papa Adriano I, scese in Italia
contro i longobardi e assediò, prima a Pavia e poi a Verona, il re Desiderio e
suo figlio Adelchi. Nel giugno del 774, sempre con il sostegno della chiesa,
fece prigioniero Desiderio e annetté alla corona anche il regno longobardo. Nel
776 sconfisse il duca del Friuli; nel 780 intervenne, di nuovo su richiesta del
papa, contro Arechi, duca di Benevento e genero di Desiderio, che godeva
dell’appoggio bizantino, e lo sconfisse definitivamente nel 787.
Contemporaneamente agli interventi nell’Italia longobarda condusse numerose
campagne diplomatiche e militari. Attuò sanguinose campagne militari contro i
sassoni che nell’804 vennero forzatamente cristianizzati. Fra il 787 e il 793
combatté contro i bavari fino alla sconfitta del loro re Tassilone III. Gli
avari investiti dagli eserciti franchi fra 791 e 796, furono in parte dispersi
e in parte sottomessi e convertiti al cristianesimo. Minor successo ebbero le
spedizioni verso nord, contro danesi e normanni, e verso sud, contro gli arabi
di Spagna. Qui, dopo alcuni successi iniziali (778), Carlo fu sconfitto a
Saragozza e a Roncisvalle e solo nell’801 il figlio Ludovico, re d’Aquitania,
poté concludere una pace con l’emirato di Cordoba e provvedere alla creazione
di una marca ispanica. Il grande impero costruito da Carlo fu consacrato alla
fine del secolo, quando papa Leone III, minacciato da una congiura nobiliare,
gli chiese protezione, lo accolse a Roma con i più alti onori e nella notte di
Natale dell’anno 800 lo incoronò imperatore. L’opera di rafforzamento e di
consolidamento dell’impero continuò negli anni successivi. In particolare, la
ricostruzione di un impero d’occidente rese problematici i rapporti con
l’impero bizantino sfociati in una guerra che si concluse soltanto nell’812 con
un accordo di pace. Ma le preoccupazioni maggiori di Carlo Magno si rivolsero
all’organizzazione delle strutture del potere, all’amministrazione e gestione
dell’impero e all’omogeneizzazione dei diversi territori. Egli provvide alle
esigenze di questa politica spostandosi continuamente, con tutta la sua corte,
dall’una all’altra zona dell’impero. In ambito economico cercò, anche
attraverso una riforma monetaria che incentivò la circolazione della moneta
d’argento, di rivitalizzare il commercio. Sul piano politico e su quello del
controllo sociale fece leva sulla potente aristocrazia terriera laica ed
ecclesiastica e sul rapporto vassallatico-beneficiario che stabiliva una
complessa rete di legami personali. Si trattava di un sistema destinato a
realizzare una sorta di compenetrazione tra ordinamento pubblico e strutture
vassallatico-beneficiarie, per cui divenne abituale la concezione che la carica
pubblica fosse essa stessa un beneficio, anziché un servizio da compensare con
un beneficio, cioè con la concessione di beni. Particolarmente attivo fu nella
promozione delle arti e della cultura letteraria, filosofica e scientifica, al
punto che si è parlato, per gli anni del suo regno, di una vera e propria
rinascita carolingia. Essa si appoggiò non tanto ai centri urbani, quanto a
istituzioni ecclesiastiche, soprattutto monasteri (spesso sedi di celebri scriptoria
e luoghi di istruzione per i figli dei nobili). Parteciparono a quest’opera di
diffusione della cultura intellettuali provenienti da diverse parti
dell’impero, che furono spesso anche consiglieri del sovrano, considerati più
tardi membri di una cosiddetta schola palatina (fra gli altri il diacono
sassone Alcuino, Paolo Diacono, il poeta visigoto Teodulfo, il teologo di
origine italiana Paolino, il franco Eginardo). Destinato a restare per secoli
simbolo dell’unità dei cristiani e dell’Europa e simbolo della lotta contro gli
infedeli, Carlo Magno poté trasmettere il suo potere al figlio Ludovico I il
Pio che gli succedette come unico imperatore nell’814.
Carlo
Magno divide il suo impero in contee; nelle zone meno pacifiche crea i ducati,
e fa controllare le zone di frontiera da degli uomini di sua confidenza, che
più tardi diventeranno i marchesi.
La
contea è la più importante di queste circoscrizioni: alla sua testa, Carlo
Magno mette un funzionario reale, scelto generalmente tra le più potenti
famiglie di proprietari terrieri franchi; questo funzionario esercita il potere
militare e giudiziario (potestas), normalmente per delega, e riscuote le tasse
per conto del sovrano. È aiutato nel suo compito da dei visconti. Solitamente è
anche destituibile dall'imperatore.
Parallelamente
Carlo Magno si appoggia sulla Chiesa, che riorganizza privilegiando l'autorità
dei vescovi metropoliti (gli arcivescovi); per quello che concerne il
monachesimo, dà alle principali abbazie delle terre da coltivare e pone gli
abati sotto la sua diretta autorità.
Un'altra
misura va nella stessa direzione: a degli uomini laici di confidenza ne
aggiunse un altro, generalmente un chierico, attraverso una nuova istituzione:
i missi dominici. Questi inviati
erano incaricati di risolvere i conflitti tra i nobili e di portare gli ordini
del re presso i detentori delle cariche, ma anche di raccogliere il giuramento
di fedeltà dei suoi sudditi. Non si sa la reale portata delle loro azioni, ma
questo sembra indicare che il re ha delle difficoltà a far rispettare la
propria autorità.
Sotto
l'influenza dei numerosi cristiani letterati della sua corte, il re è anche
legislatore: egli faceva già applicare la legge attraverso il bando germanico,
e la riallacciò anche con la concezione romana del diritto e rinnovò
l'importanza degli atti scritti nel regno. Dopo le assemblee che riunirono i
nobili del regno furono emesse dalla cancelleria del Palazzo delle ordinanze,
divise in capitoli: Queste sono delle importanti e precise fonti per lo studio
di quel periodo storico.
A
un altro livello si deve ai letterati cristiani la nascita di una nuova
concezione dello Stato. Si tratta di una restaurazione dell'impero romano,
sebbene essa in realtà poggi su fondamenti molto differenti per legittimare la
monarchia: è una concezione profondamente cristiana, e fa del re dei Franchi
addirittura un nuovo Davide. L'idea dell'unità del regno sembra prevalere con
la rinascita dell'Impero d'Occidente, nel Natale dell'800
Dal
punto di vista culturale, l'epoca di Carlo Magno, di suo figlio Ludovico il Pio
e dei suoi nipoti è conosciuta con il nome di rinascimento carolingio. L'insegnamento classico, particolarmente
quello del latino, è rivalorizzato, dopo essere stato snaturato e trascurato
alla fine del regno dei Merovingi. Tuttavia, la lingua latina è ormai quasi
esclusivamente la lingua del clero, mentre negli ambienti militari è preferito
il francone: questa evoluzione inevitabile fa del latino una lingua morta e fa
nascere gli antenati delle lingue nazionali odierne: il romanico e il
teutonico, rispettivamente del francese e del tedesco.
[59] S.R.I. – sebbene si consideri il 962 come anno di
fondazione del Sacro Romano Impero da parte di Ottone I, è preferibile legare
l'inizio del Sacro Romano Impero alla incoronazione di Carlo Magno come
Imperatore dei Romani nell'800.
La
maggioranza degli storici considera che l'instaurazione dell'Impero sia stato
un processo avviato dalla spartizione del Regno Franco attuata dal Trattato di
Verdun nell'843 proseguendo la dinastia Carolingia in modo indipendente nelle
tre sezioni.
Il
duca di Sassonia, incoronato Imperatore col nome di Ottone I il Grande nel 962
ebbe la benedizione del Papa. Ottone aveva guadagnato molto del suo potere,
quando nel 955 aveva sbaragliato i Magiari nella Battaglia di Lechfeld.
La
sua incoronazione è indicata come una translatio imperii, trasferimento
dell'Impero, sottintendendo che c'era e ci sarebbe stato sempre un solo Impero,
iniziato con Alessandro Magno, passato ai Romani, poi ai Franchi, e finalmente
al Sacro Romano Impero.
Gli
imperatori tedeschi si consideravano quindi i diretti successori dell'Impero
Romano; e per questo motivo inizialmente si davano il titolo di Augusto.
Inizialmente essi non si chiamarono ancora Imperatori Romani, probabilmente per non entrare in conflitto con l'Imperatore
Romano che ancora esisteva a Costantinopoli. Il termine Imperator Romanorum
divenne comune solo successivamente all'epoca di Corrado II il Salico.
A
quel tempo, il regno di Germania fu non tanto tedesco, quanto una confederazione delle vecchie tribù germaniche
dei Bavaresi, Alemanni, Franchi e Sassoni. L'Impero come unione politica
sopravvisse solo per la forte personalità di Ottone: anche se formalmente
eletto dai capi delle tribù germaniche, nella realtà riuscì a designare il loro
successori.
Questo
cambiò dopo Enrico II, morto nel 1024 senza figli, quando Corrado II, primo
della dinastia Salica, fu eletto Re nello stesso anno solo dopo qualche
controversia. Il re era scelto con una complicata combinazione di influenza
personale, lotte tribali, eredità ed acclamazione da parte dei capi chiamati a
formare l'assemblea dei Grandi Elettori.
Già
a quel tempo il dualismo fra i territori, quelli delle vecchie tribù radicate
nelle terre dei Franchi, ed il Re/Imperatore, divenne solo apparente. Ciascun
Re preferiva passare la maggior parte del tempo nei suoi territori. Questa
pratica cambiò solo al tempo di Ottone III Re nel 983, imperatore dal 996 al
1002, che cominciò ad utilizzare le sedi vescovili sparse nell'Impero come sedi
temporanee del governo. Anche i suoi successori Enrico II, Corrado II ed Enrico
III, apparentemente riuscirono a legare i Duchi al territorio. Non è, quindi,
una coincidenza se all'epoca la terminologia cambia e si trovano le prime
occorrenze del termine Regnum Teutonicum.
La
gloria dell'impero si estinse quasi nella Lotta
per le investiture, durante la quale Papa
Gregorio VII scomunicò Enrico IV
(Imperatore dal 1084 al 1106). Sebbene fosse stata tolta dopo il viaggio a Canossa
del 1077, la scomunica ebbe vaste conseguenze. Nel frattempo i duchi tedeschi
avevano eletto Re Rodolfo di Svevia, che Enrico IV sconfisse solo dopo una
guerra di tre anni nel 1080. Le radici mitiche dell'Impero erano danneggiate
per sempre; il Re tedesco era stato umiliato. Più importante ancora, la Chiesa
diveniva un giocatore indipendente sulla scacchiera dell'Impero.
[60] Trattato
di Verdun - Stipulato dai tre figli di Ludovico il Pio, fu l’esito
della sconfitta di Lotario a Fontenoy nell’841.
L’accordo istituzionalizzò
lo smembramento dell’impero carolingio: Lotario ebbe il titolo imperiale e una
fascia verticale di territori dal Reno al Rodano e all’Italia, ma fu stretto a
occidente da Carlo il Calvo e a oriente da Ludovico il Germanico.
[61] Feudalesimo - Sistema
politico-sociale fondato sul feudo e sul rapporto di vassallaggio, che
caratterizzò l’Europa occidentale medievale.
Il
termine fu introdotto, in un’accezione negativa, dagli illuministi e dai
rivoluzionari francesi alla fine del XVIII secolo e fu poi usato da K. Marx per
designare una precisa fase della storia dei rapporti di produzione, intermedia
fra lo schiavismo e il capitalismo borghese.
Formatosi
in epoca carolingia (IX secolo), in seguito al diffondersi della prassi da
parte della corona di affidare lotti di terreno a cavalieri in cambio della
garanzia di un loro appoggio al principe in caso di necessità, ebbe un ampio
sviluppo in seguito al dissolversi del potere politico centrale, quando i vari
signori poterono considerarsi i possessori a tutti gli effetti dei territori
avuti in distribuzione e cominciarono a esercitare in vece del principe dei
diritti sulla popolazione contadina che li abitava (formazione del dominatus
loci). Si realizzò così una netta separazione della società nelle due
classi dei guerrieri, che detenevano il monopolio dell’uso delle armi, e
dei contadini, addetti alla lavorazione dei campi e sottoposti alla
interessata protezione dei primi. Con il diffondersi dell’investitura a vescovi
e abati (chierici), anche la chiesa contribuì in maniera determinante
all’affermazione del feudalesimo, al quale tentò di dare una giustificazione
morale con l’elaborazione dell’ideologia cavalleresca, in cui si poneva
l’accento sul significato umanitario della protezione del cavaliere sulla
popolazione sottoposta. Il dibattito sul diritto della chiesa alla designazione
di feudi portò inoltre a un duro scontro con il potere imperiale (lotta per le
investiture), fomentato anche dai numerosi movimenti religiosi che a partire
dall’XI secolo si diffusero in tutta Europa, predicando la necessità di riforma
morale della chiesa.
Il sistema feudale
raggiunse la sua piena affermazione tra il XII e il XIII secolo, quando
cominciò ad allentarsi il legame tra principe e vassalli; di conseguenza questi
ultimi acquisirono una sempre maggiore autonomia. Esso ebbe tuttavia modalità
di sviluppo assai differenti tra le varie regioni d’Europa. Se infatti
nell’Italia settentrionale e in alcune zone della Francia furono proprio le
forme feudali a sancire la completa dissoluzione del potere centrale
monarchico, altrove esse furono un mezzo per la costituzione di solide
monarchie. Ciò avvenne in Catalogna, nelle Fiandre e in Normandia, dove il
potere centrale riuscì a mantenere il controllo dei signori insigniti dei feudi
e a farne anzi un indispensabile tramite per il controllo di tutte le regioni
del regno. Tale sistema caratterizzò in particolare i regni normanni, sia in
Francia che in Inghilterra e nell’Italia meridionale. Tentativi analoghi in
Germania e nell’Italia settentrionale da parte di Federico Barbarossa tra il
1158 e il 1183 si scontrarono rispettivamente con la presenza di principati
ormai da tempo consolidati e autonomi e con la società dei comuni, che minò
alle basi l’intero sistema, svuotando di significato il concetto stesso di un
potere e di una gerarchia fondati sul diritto di nascita o sull’investitura da
parte di un principe.
[62] Beneficio
- Nel diritto romano originariamente ogni concessione da parte
dell’autorità pubblica a persone private o a enti di una condizione di
particolare vantaggio e favore. Si definirono così nei secoli III-IV anche le
assegnazioni imperiali di terre ai veterani o ai barbari nelle regioni di
frontiera, oppure quelle ai propri commendati da parte dei grandi proprietari
fondiari. Tutte queste concessioni erano temporanee (precaria) e revocabili.
Costituivano formalmente un dono elargito liberamente in ricompensa di un
servizio reso, che andava restituito in caso di rottura del rapporto personale
che l’aveva causato, per la morte o il venire meno della lealtà e fedeltà del
beneficiario. Nella Francia carolingia dell’VIII secolo il beneficio andò
sempre più accompagnandosi di fatto al rapporto di vassallaggio. La fedeltà e
l’aiuto militare portati dal vassallo al signore diventavano il servizio e il
legame personale in cambio del quale veniva elargito il beneficio, consistente
per lo più in terre e possedimenti immobiliari. Nella costruzione e
nell’evoluzione dello stato carolingio, carattere beneficiario assunse anche l’incarico
dell’ufficio pubblico esercitato per delega del sovrano da conti e vassalli.
Insieme alle terre, anche l’ufficio venne trasformandosi in beneficio personale
e non revocabile, salvo che per grave colpa (fellonia).
Nel IX e X secolo divenne
trasmissibile agli eredi, e intorno a terre e uffici si strutturarono famiglie
nobiliari dinastiche. Dall’XI secolo, il termine, ormai indissolubilmente unito
al legame vassallatico, lasciò il posto a quello di feudo. Anche il
beneficio ecclesiastico, tuttora presente nel diritto canonico, si
sviluppò come istituto nell’alto Medioevo. Esso designa un insieme di beni di
proprietà della Chiesa, costituitosi nel tempo grazie a legati e donazioni
pubbliche e private, che si assegnava al titolare di un ufficio ecclesiastico
(vescovo, canonico, parroco) per il suo sostentamento. Quando il donatore del
complesso patrimoniale che costituiva il beneficio era anche il fondatore
dell’ufficio (chiesa privata, altare privato, monastero), questi per lo più
conservava a sé e ai suoi eredi il diritto di scelta del beneficiario.
[63] Immunità
- Diritto, in età medievale, di sottrarre le proprie terre alla
giurisdizione degli ufficiali pubblici. Questa istituzione, già abbozzata in
periodo romano, fu sviluppata e riorganizzata dai re merovingi e carolingi, che
concedettero diplomi di immunità a chiese e monasteri, più raramente a laici. I
diplomi vietavano agli ufficiali pubblici l’ingresso nelle terre degli
immunisti, cui veniva ceduto il diritto di esazione di alcune imposte pubbliche.
Gli immunisti assunsero così, nei confronti degli abitanti delle aree immuni,
le funzioni tipiche degli ufficiali pubblici, e in particolare
l’amministrazione della giustizia. L’immunità offrì lo spunto per la
costruzione di solidi ambiti di potere autonomo
[64] Vassallaggio - In epoca feudale forma di rapporto personale costituito
dalla sottomissione di un uomo libero a un signore, a cui venivano assicurati
fedeltà e appoggio militare in cambio di protezione e di un feudo o beneficio,
consistente in una rendita, spesso fondiaria. Nacque in Gallia tra il VII e
l’VIII secolo; riprese alcuni aspetti della commendatio romana,
arricchendola delle caratteristiche militari tipiche dei vincoli personali
stretti tra i capi germanici e integrandola con la concessione del beneficio,
già diffusa tra i franchi di età merovingia. Sotto i Carolingi la formazione di
ampie clientele rappresentò un importante strumento di lotta politica. Tra l’XI
e il XII secolo si affermarono da un lato la possibilità di giurare fedeltà a
diversi seniores, dall’altro il pieno controllo del vassallo sul
beneficio, che divenne il vero elemento costitutivo del rapporto. Si indebolì
così il rapporto vassallatico, che proprio in questa debolezza trovò una nuova
funzione politica nel definire giuridicamente i processi di ricomposizione
territoriale; i poteri minori poterono infatti riconoscere le forze maggiori
giurando fedeltà vassallatica senza per questo veder seriamente ridotta la
propria autonomia.
[65] Vassallo – Nel mondo medievale, come
vassallo (dal latino medievale vassallum,
«servo», derivato da vassus, di
origine germanica, che significa «giovane»), si intende colui che riceve dal
sovrano l'affidamento di incarichi amministrativi e contemporaneamente la
gestione di territori, ottenendo in cambio un giuramento di obbedienza e
fedeltà, oltre allo svolgimento delle funzioni amministrative delegate dal
sovrano. Formavano la casta dei vassalli i conti,
i marchesi, i margravi, e le cariche ecclesiastiche di vescovo e abate. Una
delle premesse della nascita del feudalesimo, e quindi del rapporto di
vassallaggio sta nella crisi dell'Impero Romano, che sollecita la formazione e
l'allargamento di clientele attorno ad un capo. Il senso di insicurezza che
invase il mondo antico dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente accrebbe
il peso di forme sociali diverse da quelle fiorite nel mondo antico, il
feudalesimo fu una di queste. La società, all'inizio del medioevo, vedeva
riemergere forze elementari di solidarietà tra uomini, irrobustite dalle
invasioni dei barbari per i quali l'associazione parentale ed etnica erano
essenziali nella società. Il peso della coesione familiare e parentale
caratterizzò lo stesso vincolo che genererà il rapporto vassallatico: senior e
junior, vecchio e giovane, indicavano il signore ed il suo vassallo.
[66] Capitolare di Quiersy -
Documento con cui Carlo il Calvo dispose che durante l’assenza del re,
impegnato in una spedizione militare, alla morte di un conte le sue funzioni
fossero provvisoriamente assunte dal figlio; conservò però al re il potere di
nominare in seguito un diverso successore. Fu il primo passo verso
l’ereditarietà dei feudi. Come spiegare questa ascesa dell'aristocrazia e il
disgregamento del potere reale?
Ecco
le principali fasi dell'ascesa dell'aristocrazia:
I regna esistevano già ai tempi dei
Merovingi e si prolungarono fino sotto i Carolingi. Si trattava di territori
dove l'unità poggiava in una forte identità etnica e culturale. Un regnum poteva essere affidato ad un
figlio di un re, senza per questo diventare indipendente: questo fu il caso, in
epoche diverse, dell'Aquitania, la Provenza, la Borgogna, la Sassonia, la
Turingia e la Baviera.
·
I conti: questa
parola deriva dal latino comes, che significa compagno (del re); i conti
esistevano già nell'epoca merovingia: i re dava loro alcune terre, dei regali o
una carica per ricompensarli dei loro servizi; ma i conti assumono la loro
massima importanza sotto i Carolingi; funzionari, sono designati e revocati dal
re che li recluta nell'aristocrazia; garantiscono l'ordine pubblico presiedendo
il tribunale, riscuotono le tasse ed organizzano le truppe in un pagus,
circoscrizione territoriale, la quale è sotto la loro responsabilità. Nel corso
del IX secolo, i conti diventano sempre più autonomi nei confronti del re.
·
I duchi: la
parola ha un'etimologia latina che significa "conduttore
dell'esercito". Il duca è una sorta di conte che raccogli più pagi per
lottare contro le invasioni scandinave. I Robertingi ottengono nel X secolo il
titolo di "duca dei Franchi" (dux Francorum). Questi personaggi
saranno i più potenti tra i "principi territoriali" come i duchi di
Aquitania, di Borgogna e di Normandia.
·
Il marchese, in
latino marchio, è un conte che
custodisce una regione di confine chiamata marca
e la difende in caso d'attacco.
Alla
fine del IX secolo, come conseguenza del capitolare di Quierzy (877) queste
cariche di conte, duca e marchese diventano ereditarie: i re carolingi non
possono più destituirli, quindi il suo controllo s'indebolisce. Si assiste
allora alla costituzione di dinastie locali di conti, duchi e vassalli del re.
Il vassallaggio, che era stato ben controllato sotto Carlo Magno e serviva per
i suoi interessi politici, si ritorce contro l'autorità dei suoi successori.
L'aristocrazia laica ed ecclesiastica è quindi in posizione predominante a metà
del Medioevo, in Francia e in Germania.
I
conti sono fisicamente più vicini al popolo dei Carolingi. L'autorità del re
sembra lontana ai contadini. La maggior parte degli uomini liberi del regno
vive in contatto diretto del conte e del suo delegato. Essi li potevano
sentire, per esempio, durante le sedute del tribunale. La loro autorità è più
immediata di quella del re. Si instaura quindi un rapporto stretto e personale:
i contadini si mettono sotto la protezione dei nobili ed entrano sotto le loro
dipendenze.
Nel X secolo, i segni
dell'autonomia dei principi si moltiplicano: i conti e i duchi si sono presi le
funzioni pubbliche e i diritti fino ad allora riservati al re: costruiscono
delle torri e dei forti, e veri e propri castelli in pietra che dominano un
territorio che è caduto nelle mani di un signore che conia proprie monete con
la loro effige e il loro nome che prende sotto la loro protezione il clero e
controlla le investiture episcopali.
[67] Constitutio de feudis - Editto emanato
dall’imperatore Corrado II il Salico col quale si riconobbe l’ereditarietà dei
feudi minori a un secolo e mezzo di distanza dal capitolare di Quierzy (877).
Promulgato in occasione della discesa di Corrado II in Italia, dove valvassori
e mercanti si erano ribellati contro il vescovo di Milano Ariberto, alleato dei
grandi feudatari laici ed ecclesiastici, rappresentò il tentativo di sgretolare
il fronte feudale e di coalizzare al fianco dell’imperatore le forze della
nobiltà minore. Confermando un orientamento diffuso, l’editto ebbe applicazione
anche fuori d’Italia e accelerò il processo di disgregazione del sistema
feudale, specie nelle zone in cui più vivace era il processo di rinascita delle
città.
[68] Curtis - La
corte è quell'insieme di villae e di edifici dove il signore soggiornava ed
espletava le sue funzioni di controllo sul territorio.
Già alla fine del II secolo i grandi possidenti
terrieri nell'area dell'Impero Romano, tendevano ad organizzarsi
economicamente, creando latifondi più o meno estesi. Causa la notevole
pressione fiscale esercitata dalla tributaria, molti piccoli e medi coltivatori
diretti, preferivano mettersi alle dipendenze di questi signori proprio per
sfuggire agli oneri di natura economica contratti verso lo stato. Gli stessi
grandi imprenditori, accettavano ben volentieri di assumere questi ultimi -
vista la scarsa reperibilità di schiavi - in qualità di colono, dando loro in
usufrutto singoli lotti di terreno su cui usufruivano di una certa percentuale
della rendita dei campi. La grande proprietà diventò inevitabilmente un polo di
attrazione non soltanto per i contadini, ma anche per gli artigiani,
commercianti nonché per piccoli borghi che si venivano a trovare all'interno
del fondo. I grandi esponenti di questa classe dirigente riuscirono anche ad
ottenere delle agevolazioni da parte imperiale, ad esempio quella dell'immunitas ovvero: il diritto a non
pagare certe tasse e di respingere dal proprio territorio qualsiasi agente -
compreso quello del fisco - di nomina statale. Il signore quindi, diventava il
vero e proprio arbitro della situazione, esercitando direttamente sul suo
possedimento un certo controllo in ambito fiscale, giuridico, militare e
politico. Le cosiddette ville rustiche tesero sempre di più ad attuare
un'economia di sussistenza e ad organizzarsi non più verso il senso
dell'estetica quanto verso la funzionalità e la difesa. Queste cellule ormai
autonome presero ad essere sorvegliate da delle milizie personali pagate dal
signore, i cosiddetti buccellari, che divennero un piccolo esercito privato.
Dopo
le grandi invasioni barbariche e il conseguente spopolamento delle città, i
latifondi divennero un polo di attrazione per la popolazione urbana: la città
non essendo più in grado di esercitare nessun controllo politico e direttivo
per il territorio circostante, venne sempre di più lasciata a se stessa. I
Germani, si trovano di fronte al problema di come controllare i territori
conquistati. Visto lo stato pessimo delle grandi vie di comunicazione e la contrazione
dei centri urbani, delegarono la nobiltà delle prerogative di controllo, che
altrimenti sarebbero state appannaggio dello stato. Ai nobili fu concesso in
usufrutto un feudo: ovvero, una parte del territorio sotto la sovranità del
signore, con il quale il nobile poteva finanziarsi e qualificare l'attività che
era tenuto a svolgere per conto del sovrano. La vecchia aristocrazia di stampo
latino e senatoriale fu completamente spazzata via dopo la calata dei
Longobardi di re Alboino, nel 568. I vecchi possedimenti passarono quindi di
padrone: dai Latini ai Germani.
La corte
dell'Alto e quella del Basso Medioevo si distinguevano fortemente: la prima
altro non era che l'erede della villa romana, dominata da un signore o da un
cavaliere che esercitavano un potere delegato dal concessore del beneficium e che tendevano a rimanere
piuttosto isolati dai vicini; la seconda sviluppatasi nell'età feudale
propriamente detta era caratterizzata da un maniero centrale sorto durante l'età dell'incastellamento ed era retta da
un signore dotato d'autorità di banno
e legittimato a lasciare in eredità il beneficium
ai figli. La corte di questo periodo possedeva l'aspetto di un piccolo stato
dotato di un proprio esercito, di un tribunale e di un sovrano (il feudatario).
La curtis riproponeva le stesse
caratteristiche e costanti edilizie nelle diverse zone dell'Italia
centro-settentrionale, nella valle del Rodano in Francia ed in Germania. La
corte era il centro del feudo, ed era composta dagli edifici dove il signore
risiedeva ed esercitava il controllo del territorio. L'interno era composto dal
maniero del grande proprietario del fondo, dalle stalle e i granai, dalle
casupole dei servi e spesso vi era installato anche un mulino. Non mancava
anche una piccola cappella privata dove si svolgevano i battesimi e le messe.
Solitamente, di fianco al maniero era costruita l'abitazione del fattore o balivo. Costui non era solo la persona
delegata alla ripartizione e allo stoccaggio nei magazzini delle derrate
alimentari, ma era anche colui che esercitava la giustizia per conto del
signore, all'interno del feudo.
Esistevano varie tipologie di corti nel bacino del
Mediterraneo e nell'Europa centro-settentrionale ed orientale. Le tenute
organizzate in curtis si
distinguevano dal numero di mansi cui erano sottoposte: nell'Italia del nord,
in Germania e in Francia, vi erano corti vastissime a più mansi ed altre meno
estese che potevano a stento approvvigionare i padroni e la servitù. Spesso i
mansi erano situati anche molto distanti gli uni dagli altri, trovandosi in
territori retti da diversi feudatari o vassalli.
I
cittadini dei borghi sub-urbani facevano riferimento prevalentemente alle città
più grandi presenti sul territorio ove risiedevano i grandi margravi o adibite
a sedi vescovili. I locatari dei piccoli e medi fondi che si trovavano
prevalentemente nelle zone rurali, avevano come referente la villa signorile ed
in seguito il castello. All'interno di questi latifondi i borghi situati nella
parte tributaria erano difesi solo da uno steccato o completamente privi di
sistemi difensivi, mentre il centro indominicato, si incastellava ed era
circondato da poderose mura difensive.
Dall’XI secolo, il sistema economico-sociale del feudalesimo entrò in
crisi e già con il Capitolare di Quierzy
si riconobbe l'ereditarietà dei fondi ai vassalli maggiori. Con la Constitutio de feudis poi abbiamo la
quasi definitiva frantumazione di questo sistema. Con queste nuove normative,
si riconosceva l'ereditarietà dei feudi anche ai vassalli minori. Nonostante le
nuove innovazioni in campo agricolo (aratro pesante, rotazione triennale delle
colture etc.) i piccoli fondi non riuscivano a produrre quanto richiesto e i
grandi signori preferirono inurbarsi ed investire sul commercio e sui prestiti
a interesse. Ma il colpo definitivo alla grande proprietà lo diedero le
crociate. I cavalieri, per finanziarsi le spedizioni in Terrasanta, dovettero
vendere parte dei loro feudi a delle nuove classi dirigenti che aspiravano al
monopolio attraverso l'utilizzo della moneta. Piccoli centri quindi, che in
principio erano stati appendice dei latifondi, si trasformarono in cittadine di
30.000 abitanti o anche più.
[69] Economia
curtense - L'economia curtense, era,
generalmente, di sussistenza, si tendeva cioè a produrre il più possibile
all'interno del feudo in un'ottica di autoconsumo. Anche i prodotti di natura
non agricola, come le manifatture e gli attrezzi da lavoro, erano fabbricati
all'interno del fondo utilizzando i materiali a disposizione. Si cercava
inoltre di sopperire alla mancanza di alcuni beni producendone di simili, ma di
qualità più bassa.
Spessissimo,
perfino tra gli storici, si è considerata questa economia come completamente
chiusa, priva di sbocchi verso l'esterno. Questo è errato, poiché alcune
manifatture più rifinite ed altri approvvigionamenti dovettero essere
necessariamente acquistati in altre zone. Ad esempio i nobili, potevano
permettersi di comprare il vino da altri signori, così come in periodi di
carestia, quando i servi della gleba pativano la fame, dovettero procedere
all'acquisizione di derrate alimentari all'esterno. Non bisogna dimenticare,
poi, che le città, sebbene ridotte di dimensioni, rimasero comunque dipendenti
dalle campagne e dovettero sempre importare da esse i prodotti agricoli.
Un fattore importante per la notevole estensione di
questo genere economico, fu la penuria di denaro liquido e lo stato delle
grandi vie di comunicazione. Il più delle volte, gli scambi avvenivano tra beni
in natura, tramite il baratto, ma non è del tutto vero che la moneta scomparve
completamente. Ad esempio, il bisante d'oro continuò a circolare e quando si
attuavano questi scambi, e i contadini dovevano vendere i loro prodotti, ci si
rifaceva sempre ad un ipotetico valore monetario. La moneta corrente d'argento,
poi, il soldo, continuò a circolare e la sua continua svalutazione fa
comprendere che si dovette adattare alle crisi dell'economia.
Molte
volte poi, le proprietà organizzate in curtis, si trovavano a contatto con
altri fondi di natura ecclesiastica o regia e persino con residui di
appezzamenti di terreno allodiali
coltivati direttamente da alcuni contadini liberi. Ciò si verificava, poiché i
feudi, almeno nell'Alto Medioevo, non costituivano piccoli staterelli dai
confini ben definiti, ma, nella maggior parte dei casi, piuttosto come un
insieme di proprietà diffuse sul territorio, tanto da far sì che alcuni
villaggi fossero addirittura divisi tra diversi feudatari. Come si vede quindi,
le possibilità di scambio furono necessariamente prese in considerazione.
Grazie
alla sua natura autarchica che faceva nascere lunghissimi periodi di relativa
pace, ed a una più razionale organizzazione agricola, si andarono a formare
delle eccedenze nella produzione che dovevano trovare sbocco - sia pure a
livello modesto e intermittente- in un mercato regionale. Il fatto è confermato
dagli ultimi ritrovamenti di magazzini, sopratutto nei grandi monasteri i
quali, essendo ancora in possesso delle antiche tecniche di agronomia di natura classica/romana
producevano in abbondanza e potevano permettersi di vendere i loro surplus.
Una piccola rivoluzione si
verificò, quando, con l'aumento del costo degli equipaggiamenti guerreschi, i
feudatari furono costretti a pretendere dai contadini tributi in denaro. Ciò
fece sì che i piccoli coltivatori fossero costretti ad affiancare alle attività
agricole anche quelle mercantili e di piccolo artigianato. La moneta, così,
cominciò a circolare con più diffusione e gli orizzonti mercantili, prima più
ristretti (sebbene, a differenza di quanto creduto dalla vecchia storiografia,
non assenti), ad allargarsi.
[70] Servi della gleba – Il termine indica i
contadini dipendenti dalla terra, sia medievali che moderni.
Distinti dagli schiavi
romani in virtù di un legame con la terra più forte di quello con un padrone
onnipotente, si sarebbero sviluppati in simbiosi con il passaggio dal sistema
sociale e di produzione antico a quello feudo-signorile fondato sul controllo
delle risorse economiche e politiche connesse alla terra.
Il termine è parzialmente
erroneo se applicato al Medioevo, perché mette troppo l’accento sui legami tra
contadino e territorio, lasciando da parte sia il complesso sviluppo di una
stratificazione giuridica e sociale inerente agli strati dominanti della
società, sia il passaggio della dipendenza contadina da un ambito reale (la
terra) a un ambito personale (il signore).
Dal IX secolo le
trasformazioni della più importante struttura produttiva rurale, la villa, in Italia curtis, da
azienda fondata su una riserva centralizzata il cui sfruttamento era devoluto a
schiavi ad azienda basata sull’utilizzo di manodopera estranea alla riserva e
radicata sul massaricio (manso), portarono a uno spostamento di
manodopera che ebbe importanti conseguenze giuridico-sociali. Certo lo schiavo
del massaricio tendeva così ad assimilarsi agli altri massari liberi, ma al
contempo lo sviluppo di legami con una categoria priva di qualsiasi diritto
giuridico e sociale contribuì a trasformare buona parte dei liberi contadini,
in servi alla mercé del loro signore fondiario e territoriale.
Dopo il X secolo, con lo
sviluppo della signoria rurale come base dell’attività sociale ed economica, la
stragrande maggioranza delle vittime del banno
signorile si trovò costretta a subire oneri reali e personali (taglia, testatico,
corvée) che ne proclamavano lo status servile.
Alla fine dell’antico
regime il termine aveva assunto una dirompente forza simbolica, tale da far
coincidere, nella Rivoluzione francese, l’abolizione della servitù della gleba
con la fine del regime feudale in Europa.
[71] Corvées - Prestazione d’opera
obbligatoria consistente in alcune giornate di lavoro che il colono residente
nella pars massaricia doveva prestare gratuitamente sulla pars
dominica della villa. Dal diritto feudale la corvée passò al diritto
pubblico regio in relazione a lavori di manutenzione e di difesa. Abolita in
Francia con la Rivoluzione, sopravvisse in Europa orientale fino agli inizi del
XIX secolo.
[72] Istituto del
maggiorasco – Il diritto di
maggiorasco (in latino majoratus) era, nell'antico sistema
successorio, il diritto del primogenito di ereditare tutto il patrimonio
familiare.
Connesso
solitamente al diritto di primogenitura, il maggiorasco era un istituto proprio
del diritto successorio feudale in base al quale un patrimonio veniva trasmesso
integralmente al parente di grado più prossimo all'ultimo possessore e, in caso
di pari grado, a quello più anziano. Comunque, il maggiorasco aveva una sua
logica:
·
la maggiore
ricchezza era la terra la quale, se troppo frammentata, non produce più
ricchezza.
·
il figlio
maggiore era anche quello che prima degli altri era in grado di difendere il
feudo e la proprietà.
Il
diritto di maggiorasco dunque mirava a perpetuare in qualche modo il potere e
il patrimonio familiare.
Gli
altri figli, se maschi, potevano combinare buoni matrimoni, darsi alla
Cavalleria o al clero, se non preferivano il brigantaggio o la prostituzione.
[73] Cavalleria
medievale - La cavalleria medievale seguì l'evoluzione che la società,
l'economia e la tecnica bellica ebbero nel medioevo.
Fu
una evoluzione lenta ma costante, ma sempre coerente con i cambiamenti del
contesto socioeconomico che ne era il supporto.
Un cavaliere non si improvvisava, veniva addestrato
fin dalla fanciullezza e, quindi, armato con un equipaggiamento il cui costo
poteva superare quello di 20 buoi, in pratica una piccola proprietà terriera.
Si
formò spontaneamente un gruppo elitario, separato e autoreferente che si
autocelebrava anche attraverso il racconto delle proprie imprese ed attraverso
una vera e propria liturgia dell'iniziazione e dell'accettazione o cooptazione
in un circolo sempre più chiuso. La letteratura epica si incaricherà di
idealizzarne e celebrarne gli aspetti eroici, il più delle volte usurpati.
Lentamente
si consolidò una fraternitas, la
cavalleria medievale, con regole sempre più rigorose che subiranno continue
eccezioni.
La
separazione dal mondo dei rustici aumentò sempre di più ed il solco iniziale
divenne una voragine. Da una parte pochi eletti, dall'altra la massa
disprezzata e sfortunata degli inermi o pauperes
che avevano una sola possibilità di riscatto: mettere la propria vita in gioco
nei campi di battaglia al servizio di qualche Senior.
Era
un mito quello che il cavaliere medievale coltivava, esaltandolo in quelle fraternitas che daranno luogo ad una
vera e propria classe sociomilitare particolarmente rigida ed impermeabile alla
cui base c'era lo spirito di gruppo e di corpo.
La
storia concorrerà all'affermazione di questa nuova classe di guerrieri,
separandola sempre di più dal resto della società, gli inermes, subordinati e sottoposti a quei bellatores equestri che costituivano la base del potere.
Certo il servizio militare, oltre ai rischi, offriva
notevoli vantaggi a quei soggetti che ne sapevano approfittare. Le opportunità di
arricchimento a seguito delle azioni belliche erano grandi, sia attraverso i
bottini rapinati sia attraverso il riscatto dei prigionieri. Ciò costituiva un
valido compenso per il rischio di perdere la vita.
Il
miraggio era quello di passare dal servizio presso altri alla formazione di una
propria dinastia, ed acquisire una propria signoria o conquistare un proprio
regno. Fu quello che seppero fare i Normanni, signori che prima aiutavano e che
poi ad essi si sostituirono approfittando della favorevole situazione
politico-militare di quel residuo morente contesto bizantino. I Normanni riuscirono non solo a sostituirsi ai loro
datori di lavoro, ma a fondare, oltre che un regno, una dinastia dai cui lombi
discese una progenie destinata alla dignità imperiale. L'avventura dei
cavalieri normanni prima nel meridione dell'Italia continentale e
successivamente in Sicilia è fantastica ed affascinante. È impressionante
vedere come un manipolo di uomini decisi, costretti a lasciare le loro terre di
origine, riuscirono a inserirsi nelle lotte intestine di quel che restava del
Ducato di Benevento e del declinante Impero Bizantino nell'Italia meridionale e
a prendere il sopravvento. Vi fu anche il fortunato gioco di circostanze
favorevoli che contribuirono alla loro affermazione politico-militare. I
Normanni ottennero il riconoscimento del loro potere e delle loro conquiste dal
papa Niccolò II prima di lanciarsi alla conquista della Sicilia: questo
riconoscimento papale legittimò un puro atto di violenza
Si svilupparono nuove tecniche militari sotto la
spinta delle milizie di fanti che non erano più quella massa incoerente di
contadini armati di forcone contro cui la carica della cavalleria aveva avuto
sempre successo. Le milizie cittadine si proposero come strutture sempre meglio
organizzate e coese, gare che avevano sviluppato non solo lo spirito
d'emulazione ma lo spirito civico rendendo i cittadini combattenti consapevoli,
decisi e temibili. Questi uomini che svolgevano nella vita quotidiana altri
compiti, che non le arti marziali, esprimevano, nel momento del combattimento,
sotto il gonfalone civico, tutta la loro determinazione bellica, frutto del
rancore contro l'aristocrazia militare: essi trascuravano quell'aspetto ludico
che era stato una caratteristica del combattimento dei cavalieri. Questi
cittadini nel combattimento erano micidiali, le loro picche e le loro quadrelle
non lasciavano scampo.
Le nuove armi vincenti erano le picche, l'arco e la
balestra, che costituivano per i cavalieri un ostacolo quasi sempre letale. Il
cavallo che era stato un'arma vincente si trasformò in un gravissimo punto di
debolezza ed impedimento. In questo nuovo modo di combattere il cavallo
soccombette sotto i colpi di coltello del fante che lo sventrava, in un'azione
inconcepibile per il cavaliere e per il suo codice deontologico: al cavaliere
rinchiuso nella sua pesante corazza d'acciaio non rimaneva che fuggire o
morire. Queste nuove battaglie si concludevano in un'orgia di sangue, in un
tripudio di vendette e di rivalse da parte dei rustici contro il mondo feudale,
che ormai volgeva alla fine.
Era
un mondo impregnato di valori, che sopravvivrà solo nelle chansons. I cavalieri andranno lietamente a farsi scannare da rozzi
bottegai e cupi artigiani che combattevano solo per affermare la loro esistenza
civile, la loro capacità economica e la necessità di continuare a sviluppare
liberamente quelle attività economico-commerciali dal cui successo derivavano
rilevanza sociale e forza politica.
Per
queste gentes novae, la guerra non era un gioco, una festa in cui mettere in
mostra le proprie virtù cavalleresche magari per gloriarsene agli occhi di una
dama o nel caso fortunato per appropriarsi di un bottino e di un ricco
riscatto, bensì un mortale e costoso incidente che metteva a rischio le conquista
economiche acquisite, oltre che la loro stessa sopravvivenza.
Laddove
il cavaliere vedeva nel cavaliere nemico un confratello in campo opposto, il
mercante che combatteva vedeva nel cavaliere solo un soggetto che interrompeva
la sua attività facendogli perdere denaro e rischiare la vita e perciò lo
doveva eliminare, cioè uccidere.
Il
mercante combatteva libero da qualsiasi deontologia militare e sotto lo stimolo
dell'urgenza di tornare presto ai propri affari sospesi.
Tutto
ciò era vissuto come scandaloso dai cavalieri: guai al cavaliere che incontrava
sul campo di battaglia qualche macellaio armato che non aveva remora alcuna a
fare altrettanto prima col cavallo e poi con il cavaliere.
Il
momento magico dei cavalieri medioevali fu l'avventura delle Crociate trascorso
il quale iniziò la loro crisi lentamente per continuare, poi, sempre più
rapidamente, crisi che culminerà nella battaglia degli Speroni d'Oro a
Courtrai, 1302. In
questa battaglia le truppe formate da mercanti ed artigiani delle Fiandre
massacrarono i cavalieri francesi facendo mucchi dei loro speroni dorati.
Fu
il tramonto della cavalleria anche se le sopravvisse quell'etica che era stata
alla base della fraternitas, cui una
stessa mentalità ed aspirazione di vita aveva legato i cavalieri.
Questa
specie di internazionale cavalleresca perse davanti alle nuove fanterie
comunali la propria funzione militare lasciando un'eredità di valori e di miti
che sarebbero durati nei secoli successivi.
Era
lo spirito cavalleresco con la sua carica di leggenda che sopravviveva
rappresentando valori che i posteri avrebbero esaltato, per non dire creato.
Questo
spirito sopravvisse anche grazie agli ordini cavallereschi che ebbero una
funzione reale fintanto che svolsero un'attività politico-militare ma che
successivamente o scomparvero come i Templari ad opera di Filippo IV di Francia
o si trasformarono in istituzioni puramente simboliche.
[74] Privilegium
Othonis - Legislazione imperiale con la quale Ottone I si propose di
risolvere il problema dei rapporti fra papato e impero, tentando al contempo di
legittimare il controllo imperiale sul papato. Esso stabiliva infatti che
l’elezione papale dovesse avvenire soltanto con il consenso dell’imperatore e
alla presenza di suoi rappresentanti.
Testo: "Nel
nome del Signore Iddio onnipotente, Padre e Figliolo e Spirito Santo. Io
Ottone, per grazia di Dio augusto imperatore, insieme con Ottone, glorioso re,
mio figlio, per disposizione della divina provvidenza, mediante questo patto di
riconferma, prometto ed offro a te, beato Pietro, principe degli Apostoli e
custode del regno dei cieli, e per te al vicario tuo, il sommo pontefice e
universale papa Giovanni XII, con lo stesso titolo di potere e di giurisdizione
dai vostri predecessori sino ad ora esercitato, la città di Roma con il suo
ducato e con il suo suburbio e con tutti i villaggi e territori montani e
marittimi, spiagge e porti, assieme a tutte le città, castelli, fortezze e
villaggi della Tuscia... con tutte le località e territori di pertinenza delle
soprascritte città, nonché l'esarcato di Ravenna nella sua integrità, con le
città, circoscrizioni, fortezze e castelli, i quali beni Pipino e Carlo,
eccellentissimi imperatori di santa memoria, nostri predecessori, trasferirono
da tempo al beato Pietro se ai vostri predecessori con atto di donazione. Lo
stesso dicasi del territorio della Sabina, così come da Carlo, nostro
predecessore, fu concesso integralmente al beato apostolo Pietro con atto di
donazione; così pure per ciò che concerne i territori della Tuscia Longobarda e
i territori della Campania. Inoltre, a te, beato Pietro apostolo, e al tuo
vicario papa Giovanni e ai suoi successori, per la salvezza dell'anima nostra e
di quelle di nostro figlio e dei nostri parenti, offriamo le dita e le fortezze
appartenenti al nostro proprio regno, e cioè: Rieri, Amiterno, Forcona, Norcia,
Valva e Marsica e, in altro territorio, Teramo con le sue pertinenze.
Tutte queste soprascritte
province, città e distretti, fortezze e castelli, villaggi e territori,
unitamente ai demani, per la salvezza della nostra anima e di quelle di nostro
figlio e dei nostri parenti e dei nostri successori e per il bene di tutto il
popolo dei Franchi, che Dio ha protetto e proteggerà, riconfermiamo, in modo
che le detengano nel diritto, nel governo e nella giurisdizione, alla
sopraddetta Chiesa tua, o beato apostolo Pietro, e per te al vicario tuo, padre
nostro spirituale, Giovanni, sommo pontefice, papa universale ed ai suoi
successori, sino alla fine del mondo, fatto salvo il potere nostro e di nostro
figlio e dei nostri successori, come è sancito nel patto, nel constituto e
nella conferma di promessa di papa Eugenio e dei suoi successori, laddove si
specifica così: che tutto il clero e tutta la nobiltà del popolo romano a causa
delle varie violenze e delle irragionevoli incomprensioni, che vanno eliminate,
dei pontefici nei confronti del popolo a loro soggetto, con giuramento si
obbligano a far in modo che la futura elezione dei pontefici, per quanto starà
nella volontà d'ognuno, avvenga in forma canonica e secondo giustizia e che
quegli che sarà chiamato a questo santo e apostolico reggimento non sia
consacrato col consenso d'alcuno se prima non faccia, alla presenza dei nostri
messi o di nostro figlio ovvero di tutta la collettività, per la soddisfazione
e futura salvezza di tutti, quella stessa promessa che il signore e padre
nostro spirituale Leone fece notoriamente di sua spontanea volontà.
Questo patto fu stipulato
felicemente nell'anno dell'incarnazione del Signore 962, nell'indizione quinta,
tredicesimo giorno del mese di febbraio, correndo l'anno XXVII dell'impero
dell'invitto imperatore Ottone."
[75] I vescovi
conti - Ottone I favorì il clero per creare un contrappeso alla potenza dei
grandi feudatari laici, che avevano ottenuto l'ereditarietà dei feudi maggiori.
Già
dall’età carolingia e nel periodo dell'anarchia feudale, i vescovi avevano
assunto anche nel campo della vita civile un’importanza che crebbe rapidamente
quando la disgregazione dell'impero li rese stabili elementi d'unione e di
coesione sociale, anche per il fatto che risiedevano stabilmente nelle città ed
erano eletti dal popolo.
Non
sempre i poteri civili dei vescovi ebbero formale riconoscimento; in sostanza,
tuttavia, il potere dei conti si circoscrisse nelle campagne, mentre nelle
città i nuovi compiti amministrativi indussero i vescovi a giovarsi della
collaborazione dell'elemento laico: primo passo verso la resurrezione della
vita municipale e verso l'ascesa di nuove forze che si preparavano alla
conquista di una sempre maggiore e marcata autonomia anche nei confronti dei
vescovi.
[76] Il monastero
di Cluny – Il monastero di Cluny fu sotto la direzione di uomini come
Oddone (morto nel 943) o Odilone di Mercoeur (morto nel 1043) che la comunità
monastica visse il momento di maggior splendore.
Il
monachesimo nato con la riforma di Cluny diede al cristianesimo un'impronta
fondamentale. La Congregazione cluniacense fu una delle più profonde riforme
dell'Ordine benedettino. Sue caratteristiche furono
·
il pronunciato
ritualismo,
·
la norma del
silenzio ed un accentuato spiritualismo,
·
gli ideali di
libertà del sistema feudale laico ed episcopale,
·
il centralismo
operante attraverso l'organizzazione del priorato e il diritto di visita
dell'abate maggiore nelle varie abbazie,
·
la stretta unione
con Roma che garantiva l'indipendenza dei cluniacensi dal sistema feudale
civile ed ecclesiastico e soprattutto la perfetta pratica delle virtù
monastiche.
Da
Cluny partì il rinnovamento della Chiesa. Per i monaci cluniacensi la vita di
questo mondo era il vestibolo dell'eternità. Tutto doveva essere sacrificato a
fini ultraterreni. La salvezza dell'anima era tutto e non si poteva raggiungere
che attraverso la Chiesa, che doveva essere assolutamente pura da ingerenze
temporali. Ovvio che queste concezioni si scontrassero con gli interessi
imperiali e con quelli dei vescovi più collusi col potere dell'Impero. Non si
trattava di aborrire l'alleanza ai fini del buongoverno tra Chiesa e Stato, ma
di subordinare completamente l'uomo e la società alla Chiesa, vera, unica
intermediaria tra lui e Dio in campo spirituale.
La
diffusione della riforma di Cluny fu assai profonda e assai ampia, soprattutto
in Francia, Germania, Italia centrale e meridionale, Spagna settentrionale e
Inghilterra.
Facilitarono
la diffusione della Congregazione la necessità di riforma di molte comunità
benedettine, gli statuti ben definiti e l'efficiente organizzazione
internazionale, ma anche i mezzi coattivi e disciplinari usati a volte,
soprattutto dopo l'XI secolo, contro monasteri non riformati.
Nel
periodo di maggiore splendore di Cluny si ebbero, secondo calcoli provvisori,
1629 case riformate e 1450 case annesse. L'organizzazione della Congregazione
era fondata sull'autorità del prior abbas
di Cluny e dei definitori; da Cluny dipendevano i cinque priorati più antichi,
da cui dipendeva direttamente a sua volta un certo numero di priorati, il
gruppo delle abbazie incorporate, quelle poste sotto la sorveglianza della
Congregazione e infine quelle affidate temporaneamente ai cluniacensi per
essere riformate; il prior abbas
aveva il diritto di visita di ciascuna abbazia dipendente e convalidava
l'elezione di ciascun abate.
Grande fu l'influenza,
soprattutto religiosa, della riforma di Cluny; svolse un ruolo di enorme
importanza nell'ambito della lotta per le Investiture (1073-1122). Minore
importanza ebbe l'influenza culturale, limitata all'architettura; molto
notevole fu invece l'influsso sulla liturgia per la magnificenza dei riti,
l'istituzione di particolari devozioni come la commemorazione dei defunti,
l'intensificazione del culto della Santa Croce e della Vergine. Da Cluny
uscirono i papi Urbano II e Pasquale II; pur senza avervi appartenuto, Gregorio
VII ne adottò e ne propagò lo spirito.
[77] Scisma - Atto di ribellione che porta
alla separazione di una parte dei fedeli dalla comunione della propria Chiesa,
sottraendosi all'obbedienza in materia di disciplina, ma non rinnegandone il
credo.
Tre sono i maggiori scismi
che hanno lacerato la Chiesa cattolica: il donatismo, lo scisma d'Oriente e il
Grande scisma d'Occidente.
[78] La questione del Filioque - del filioque
nel Credo Niceno nell'ambito della Chiesa Romana, atto definito non canonico
dalla Chiesa Orientale, anche perché in violazione allo specifico comando del
Concilio di Efeso (il Credo può essere cambiato solo per consenso conciliare).
La controversia circa il filioque sembra essersi originata nella Spagna
Visigota del sesto secolo, laddove l’eresia ariana era particolarmente diffusa:
gli ariani affermavano che la prima e la seconda persona della Trinità non sono
coeterne ed uguali. Per rafforzare la teologia tradizionale, il clero spagnolo
introdusse il filioque nel Credo Niceno ("Credo
nello Spirito Santo, [...] che procede dal Padre _e dal Figlio_
[filioque, appunto], e con il Padre ed il Figlio è adorato e glorificato"):
all'Oriente teologicamente sofisticato tale inserzione parve affettare non solo
il credo universale, ma anche la dottrina ufficiale della Trinità.
[79] La questione liturgica - Alcune
pratiche liturgiche occidentali che l'Oriente cristiano interpretava come
innovazione: un esempio ne sia l'uso del pane azzimo per l'Eucaristia. Le
innovazioni orientali, come l'intinzione del pane consacrato nel vino consacrato
per la Comunione, erano state condannate molte volte da Roma ma mai in
occasione dello scisma.
[80] La questione dei Patriarcati - Tutti i
cinque Patriarchi della Chiesa indivisa concordavano sul fatto che il
Patriarca di Roma dovesse ricevere onori più elevati degli altri, ma non erano
in accordo se questi avesse autorità sugli altri quattro e, se gli fosse
spettata, quanto ampia potesse essere tale autorità.
[81] Giurisdizione
- In latino iurisdictio da ius dicere, è la potestà di
applicare la legge (interpretandone la portata e rendendola operante nel caso
concreto) attribuita ai giudici
allorché risolvono controversie in posizione di indipendenza rispetto alle
parti e di indifferenza rispetto all'esito delle medesime.
[82] Cesaropapismo
- Sistema di relazioni tra potere civile e religioso in forza del quale il
primo si attribuisce il diritto di intervenire in ogni ambito della vita
religiosa.
Manifestatosi
già con Costantino con l'assunzione della vecchia carica imperiale di pontifex
maximus da parte degli imperatori romano-cristiani, si diffuse nel mondo
bizantino, dove i sovrani si definirono uguali agli apostoli. Questa teoria e
prassi politica fu poi fatta propria dagli zar di Russia.
Contro il cesaropapismo
combatté la Chiesa cattolica, in particolare con Gregorio VII, Innocenzo III e
Bonifacio VIII, che gli contrapposero, a loro volta, soluzioni teocratiche.
[83] Enrico IV e l'umiliazione di Canossa - Il governo di Enrico
fu caratterizzato dal tentativo di rafforzare l'autorità imperiale. In realtà
si trattava di trovare un difficile equilibrio, dovendo assicurarsi da una
parte la fedeltà dei nobili, senza perdere l'appoggio del pontefice dall'altra.
Mise in pericolo tutte e due le cose quando, nel 1075, decise di assegnare la
diocesi di Milano, divenuta vacante. Ciò fece scoppiare un conflitto con papa
Gregorio VII, conflitto che è passato alla storia come lotta per le
investiture. Il 22 febbraio 1076 il papa scomunicò Enrico e lo dichiarò
decaduto. Precedentemente era stato Enrico a dichiarare decaduto il papa,
perché la sua nomina sarebbe stata irregolare, avendo il Re dei Romani il
diritto di intervenire nell'elezione del papa.
Per
giungere alla revoca della scomunica, Enrico e sua moglie si recarono in
penitenza a Canossa, per incontrare Gregorio VII. Per tre giorni, dal 25 al 27 gennaio
1077, rimase in attesa di fronte all'ingresso del castello, e il 28 gennaio il
papa decise di revocare la scomunica, soprattutto grazie alla mediazione di
Matilde di Canossa, signora del castello.
Gregorio
revocò la scomunica a Enrico, ma non la dichiarazione di decadenza dal trono.
Enrico IV nomina un antipapa ed attacca direttamente il papa in Roma, con l'
assedio in Castel S.Angelo. Il papa è liberato dal normanno Roberto il
Guiscardo. Si ha l'esilio del papa a Salerno.
Nessun commento:
Posta un commento