XIV UNITÀ
Riflessione
sulla lingua La sillaba - La sillaba è la più piccola combinazione di suoni
o fonemi, in cui può essere scomposta una parola. Essa si pronuncia con
un’unica emissione di voce.
Una
sillaba può essere composta:
·
da
una vocale (A-o-sta)
·
da
un dittongo (uo-vo)
·
da
un trittongo (a-iuo-la)
·
da
una o più consonanti seguite o precedute da una vocale o da un dittongo
(ma-ti-ta, fiu-me, al-ber-go)
1.
Ogni
sillaba deve avere almeno una vocale:
Es.: a-mi-che-vol-men-te
2.
Una
vocale o un dittongo, posti all’inizio di una parola e seguiti da una
consonante, costituiscono una sillaba:
Es.: o-ra-rio,
au-gu-rio
3.
Le
vocali dei dittonghi e dei trittonghi non si dividono mai:
Es.: mie-le,
a-iuo-la
4.
Una
consonante semplice forma una sillaba con la vocale e il dittongo che la
seguono: Es.: co-ro-na, piu-ma,
5.
Le
consonanti doppie e quelle del gruppo cq
si dividono tra due sillabe:
Es.: ap-pal-lot-to-la-re, ac-qua
Riflessione
sulla lingua La divisione in sillabe – Oggi la scrittura al computer ha
semplificato le cose poiché i comuni programmi di videoscrittura non spezzano
le parole in fine riga, sembra inutile conoscere le regole della divisione in
sillabe.
Ma
quando, nello scrivere a mano, dobbiamo andare a capo è necessario dividere le parole,
non possiamo farlo a caso: è necessario conoscere delle precise regole, quelle
della divisione in sillabe.
In
ogni caso, nella scrittura di libri e giornali la conoscenza di tali regole è
essenziale.
I
digrammi e i trigrammi, gruppi di lettere che formano un solo suono, non si
dividono mai.
Essi
sono:
1
|
gl
+ i
|
Es.:
e-gli
|
2
|
gn
+ vocale
|
Es.:
gno-mo
|
3
|
sc
+ le vocali e, i
|
Es.:
sce-na, sci-vo-lo
|
4
|
ch
+ le vocali e, i:
|
Es.:
chi-mi-co, o-che
|
5
|
gh
+ le vocali e, i
|
Es.:
ru-ghe, a-ghi
|
6
|
ci
e gi + le vocali a, o, u
|
Es.:
ca-mi-cia, mi-cio, gio-va-ne, giu-sto
|
7
|
gli
+ vocale
|
Es.:
a-glio, mo-glie
|
8
|
sci
+ vocale
|
Es.:
li-scio, a-sciu-ga-re
|
1.
I gruppi formati da due o tre differenti consonanti + una vocale
costituiscono una sillaba, se con questo insieme di lettere può iniziare una
parola della lingua italiana:
Es.: re-cla-mo,
a-pri-re, a-stra-le, re-cri-mi-na-re,
pro-ble-ma.
2.
Gli insiemi di due o tre consonanti che non potremmo mai trovare all’inizio di
una parola italiana: rt, cn, lt,
mbr, nfr, e così via, devono essere divisi tra due sillabe, come negli
esempi seguenti:
Es.:
cor-to, tec-ni-co, al-to, om-bra, in-fran-ge-re.
3.
La s seguita da una o più consonanti
forma generalmente una sillaba con la vocale seguente, non con quella che la
precede:
Es.:
a-stro, ri-spon-de-re, di-sprez-zo.
4.
Nelle parole composte, nelle quali il primo elemento termina per i e il secondo elemento comincia
per vocale, l’insieme delle vocali risultante da tale unione non deve essere
considerato un dittongo e va diviso tra due sillabe:
Es.:
chi-un-que, ri-e-du-ca-re
5.
I prefissi come dis-, tras-, trans-, in-, ben-, mal- possono essere separati dalla radice e formare una sillaba a
sé oppure divisi, secondo le regole generali della divisione in sillabe:
Es.:
dis-a-bi-ta-to oppure di-sa-bi-ta-to,
tras-por-ta-re oppure tra-spor-ta-re,
mal-in-ten-zio-na-to oppure ma-lin-ten-zio-na-to
Oggi,
però, si tende a seguire le regole generali e prevale la seconda delle
possibilità.
Riflessione
sulla lingua. Sillabe con dittonghi e trittonghi. Lo iato – Il dittongo è l’unione nella stessa sillaba di due
vocali: quando una a, una e oppure una o, dette vocali forti, si
incontrano con una i o una u, dette vocali deboli, e quando si incontrano due vocali deboli si crea un dittongo.
Nel
dittongo le vocali non devono essere mai divise tra due sillabe:
Es.:
a-ria, spe-cie, uo-vo, au-to, fiu-me, fiu-to
Il
trittongo si forma dall’unione di tre
vocali: due deboli, una forte.
Come
nel dittongo, anche nel trittongo le vocali che lo costituiscono non possono
essere mai separate:
Es.:
a-iuo-la
Per
iato nella grammatica italiana si
intendono due fenomeni letteralmente distinti:
1
Si considera iato l’incontro di due vocali forti
con l’accento sulla prima vocale;
2
Si considera iato l’incontro di due vocali forti
con l’accento sulla seconda, oppure l’incontro di una vocale forte con una
debole, la quale è però accentata.
Nello
iato le vocali fanno parte di sillabe differenti:
Es.:
zì-o, pa-ù-ra, ma-e-stra, po-e-ta
Educazione
letteraria. Il metro - Il metro è l’unità di misura dei versi
che si classificano in base al numero delle sillabe di cui sono composti e
possono variare da due a sedici.
Si
hanno dieci tipi di versi, di cui cinque parisillabi
(2, 4, 6, 8, 10 sillabe) e cinque imparisillabi
(3, 5, 7, 9, 11 sillabe).
Alcuni
poeti sporadicamente hanno usato versi costituiti da un numero di sillabe
più alto.
Es.: E
ammirami per il mio calore e per la mia fede: mentre io ti parlerò di Percy
l’arcangelo e di Walt Whitman, un uomo,... (A.de Bosis, Giovine che mi
guardi parlare, v 13) costituito di 35 sillabe.
Alto è il muro
che fiancheggia la mia strada, e la sua nudità rettilinea si prolunga
nell’infinito. (A.
Negri, Il muro, v 1) costituito di 30 sillabe.
E berrà del suo
vino, torchiato le sere d’autunno in cantina (C. Pavese, Atlantic Oil,
v 32) costituito di 19 sillabe.
Essi
sono:
Si
dicono doppi i versi uguali, in coppia nella stessa riga, interrotti da una
pausa o cesura. Essi sono:
·
Doppio ottonario.
Strettamente
legate al metro del verso sono le figure
metriche.
Le
figure metriche sono fenomeni sillabici, tipici della poesia, che non
comportano alterazioni grafiche, ma solo una diversa modalità di lettura, ai
fini del computo sillabico del verso.
Esse
sono:
·
Dialefe[14]
·
Dieresi[15]
·
Sinalefe[16]
·
Sineresi[17]
Educazione
letteraria Figure fonetico-sillabiche – Un altro fenomeno fonetico come il
metaplasmo, al pari della dieresi, la sineresi, la dialefe e la sinalefe,
possono avere una rilevanza metrica cioè possono essere utilizzate per ottenere
l’esatta misura del verso.
Le figure di metaplasmo (dal verbo greco μεταπλάσσω,
"trasformare") è un cambiamento nell'aspetto sonoro o grafico di una
parola.
Esse
possono designare l'aggiunta (prostesi, epentesi, epitesi), la
soppressione (aferesi, apocope,
sincope)
elementi grafici o sonori.
Esse
sono:
Una cena di Alboino re a. D. 572
Di
Giovanni Prati
Nel 572, dopo
circa tre anni di assedio, Pavia si arrese ed Alboino fece il suo ingresso
trionfale nella città per la porta di S. Giovanni, sopra un superbo cavallo. Ma
nello stesso anno 572 (o come altri vogliono nel 573) trovò la morte, il cui
racconto è giunto sino a noi, nelle pagine degli storici, nei più minuti
particolari.
Secondo la
narrazione di Paolo Diacono, verso la fine di un banchetto, cui avevano partecipato
i suoi generali, Alboino, riempita di vino una tazza formata col teschio di
Cunimondo (padre della moglie e ucciso dallo stesso Alboino), la porse alla
moglie Rosmunda invitandola a bere "in compagnia di suo padre".
Rosmunda bevve,
ma giurò in cuor suo un'atroce vendetta.
Accordatasi con
Elmichi, di cui era l' amante, decise di uccidere il marito. Elmichi era
fratello di latte del re e, non volendo macchiarsi di sangue fraterno o non
avendo il coraggio di trucidare Alboino, consigliò alla regina di rivolgersi a
un sicario, a Peredeo, prode guerriero di stirpe gepida, che era a sua volta
l'amante d'un'ancella di Rosmunda.
Ma neppure
questi volle accettare. La regina lo costrinse al delitto mediante un
audacissimo stratagemma. Preso il posto dell'ancella, diede convegno a Peredeo,
poi, fattasi riconoscere lo minacciò di svelare al re quanto era avvenuto tra
loro. Soltanto allora Peredeo cedette; e il piano criminoso fu stabilito.
Un pomeriggio,
essendosi Alboino, dopo copiose libagioni, addormentato, Rosmunda legò la spada
che stava appesa al capezzale, in modo da non potersi sfoderare, poi fece
entrare furtivamente nella camera Peredeo, il quale, avventatosi sul re che,
svegliatosi tentava di difendersi, lo uccise.
Fervean
di canti, fervean di suoni
di
re Alboino l’ampie magioni;
e,
in mezzo ai duchi giunti al convegno
dal
vasto regno,
sparsa
di gemme, lucente d’oro,
di
quelle mense fregio e decoro,
più
dell’usato bella e gioconda,
sedea
Rosmonda.
Gli
orli spumanti di vino eletto,
volan
le tazze per il banchetto;
fumosa
ai capi l’ebrezza ascende;
e
trema e splende
di
fosca luce l’occhio regale
come
la punta del suo pugnale;
scoppian
le risa, lunghe e feroci
stridon
le voci.
Disser
di queste belle contrade
oppresse
e vinte dalle lor spade;
plausero
a questi colli vestiti
di
tante viti.
Fragili
fiori più che colonne
chiamâr,
codardi! le nostre donne;
le
disser liete, superbe e belle,
Ma
tutte ancelle!
E
al vil susurro dell’orgia rea
Rosmunda
bella forse gemea,
per
colpe orrende non ancor fatta
di
quella schiatta.
-
Prenci e baroni, paggi e scudieri,
ecco
il più bello de’ miei pensieri. –
(Così,
nell’ebro furor del vino,
parla
Alboino).
-
Vedete questa, che ho qui d’accanto,
lieta,
superba? che mi ama tanto?
La
vera gemma quest’è, per Dio,
del
serto mio.
Vuoi
tu trapunta d’oro ogni veste?
Trecento
all’anno banchetti e feste?
Ricca
è l’Italia, ma ricca assai:
chiedi,
ed avrai.
Ma,
poichè denno questi miei prodi
nei
lor castelli dir le tue lodi,
e
notte e giorno render gelose
fanciulle
e spose;
sien
dunque istrutti d’ogni tuo merto.
Che
tu sei buona, frate Roberto
l’ha
predicato. Che tu sei casta,
io
‘l dico, e basta!
Agil
di forme, sottil di piede,
che
tu sei bella, ciascun lo vede.
Or
via, Rosmunda, dà loro un saggio
del
tuo coraggio. -
E
a lei porgendo con un sorriso
il
nudo teschio del padre ucciso:
-
Or via, Rosmunda, forte esser devi:
Rosmunda,
bevi!
Per
me il suo sangue, per te il mio vino;
bella
Rosmunda, questo è destino:
tu
l’hai baciato prima ch’ei mora;
bacialo
ancora.
E
tu, spolpato re Cunimondo,
addio.
Tu vieni dall’altro mondo.
Ecco
la stella di mia famiglia:
bacia
tua figlia. -
Del
re briaco piacque lo scherno,
e
un lungo eruppe plauso d’inferno.
-
Re Cunimondo, bene arrivato!
Dove
sei stato?
Perchè
la mano più non ci tocchi?
Per
Dio, che avvenne? Tu hai perso gli occhi!
Oh
sconsacrato figliuol di Roma,
dove
hai la chioma?…
Real
cugino, lancia smarrita,
dammi
novelle dell’altra vita.
Poi
di due cose rendimi istrutto,
tu
che sai tutto.
Pingui
di cibo, scarsi di guerre,
starem
molt’anni su queste terre?
E
a quali patti Dio ce la dona
questa
corona?
Ospite
bianco mutolo e cieco,
bacia
la rosa ch’io tengo meco,
ve’
che i tuoi baci pallida aspetta
la
poveretta. -
E
il re briaco, così dicendo,
giocherellava
col teschio orrendo;
e
a lei, che gli occhi fremendo torse,
ratto
lo porse.
-
Ferma, Alboino, da’ labbri miei
la
prova infame voler non dèi.
-
Bevi, Rosmunda; non più parole!
Così
si vuole. -
Bevea
Rosmunda. Ma con lo sguardo
Parea
dicesse: – Re longobardo,
se
la vendetta qui non mi langue,
berrò
il tuo sangue! -
E
dopo un anno da quel convito,
dormiva
solo l’ebro marito.
Aprì
una notte l’erma sua cella
Rosmunda
bella…
E
con un forte vago soldato
il
regicidio fu patteggiato…
Ed
ecco all’alba sommessamente
Picchiar
si sente.
-
Sei tu, Almachilde? – Son io. – Che porti? -
-
Che un lungo sonno dormono i morti! -
Ond’ella,
tratto l’aspro cimiero:
dal
suo guerriero:
-
Questa corona, dolce mio bene,
questa
corona più ti conviene.
Ella
era turpe; rendila degna;
baciami,
e regna. –
Se
iniqua storia vi raccontai,
quello
ch’è storia non cangia mai.
Nel
torbid’evo, quando l’Italia
fu
data a balia,
di
casi atroci ne avvenner molti:
ma
ai nostri tempi, civili e colti,
spose
e mariti, popoli e troni
son
tutti buoni.
La guerra tra franchi e longobardi e il volgo
disperso a. D. 774
·
L’atto III si
chiude con un coro che interrompe l’azione della tragedia nel momento in cui
l’esercito franco, aggirate le difese longobarde allo sbocco della Val di Susa,
ha invaso la pianura, mettendo in fuga i longobardi. Nel coro si confrontano
drammaticamente i vecchi padroni (i longobardi) e i nuovi (i franchi), ma il
centro d’interesse è costituito dalle reazioni del popolo latino, ovvero gli
italiani, alla notizia della sconfitta degli oppressori.
·
Il coro è un
esempio di poesia storica di ambientazione medioevale, secondo il gusto
romantico, che recupera sia l’evocazione storica sia il richiamo al Medioevo
come radice del presente. Manzoni ricostruisce i pensieri e i sentimenti dei
tre popoli protagonisti: il risvegliarsi dei latini tra speranza e timore, lo
sgomento dei longobardi preoccupati per la prospettiva della sconfitta, la
nostalgia per la patria e nel contempo la speranza di conquista dei franchi. Ma
l’attenzione è rivolta, più che ai due popoli contendenti, alla sorte di quel
volgo disperso, privo di unità, di libertà e di coscienza nazionale, ignorato
dalla storia ufficiale: al comportamento di quella immensa moltitudine, che di
solito non lascia traccia nel teatro della storia, Manzoni riserva uno spazio
nel «cantuccio» del coro. Il componimento si può suddividere in quattro parti
che alternano descrizione, narrazione e riflessione.
·
Forma metrica:
undici strofe di sei versi dodecasillabi (versi di dodici sillabe con l’ultimo
accento sull’undicesima) o doppi senari (versi di sei sillabe), di cui il terzo
e il sesto tronchi, rimati secondo lo schema: AAB, CCB. Ciascun dodecasillabo è
formato da due senari: si tratta di un verso raro nella poesia italiana, usato
da Manzoni in questo coro in quanto adatto al ritmo epico.
Dagli
atrii muscosi, dai Fori cadenti,
dai
boschi, dall’arse fucine stridenti,
dai
solchi bagnati di servo sudor,
un
volgo disperso repente si desta;
intende
l’orecchio, solleva la testa
percosso
da novo crescente romor[24].
Dai
guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
qual
raggio di sole da nuvoli folti,
traluce
de’ padri la fiera virtù[25]:
ne’
guardi, ne’ volti confuso ed incerto
si
mesce e discorda lo spregio sofferto
col
misero orgoglio d’un tempo che fu[26].
S’aduna
voglioso, si sperde tremante,
per
torti sentieri, con passo vagante,
fra
tema e desire, s’avanza e ristà;
e
adocchia e rimira scorata e confusa
de’
crudi signori la turba diffusa,
che
fugge dai brandi, che sosta non ha[27].
Ansanti
li vede, quai trepide fere,
irsuti
per tema le fulve criniere,
le
note latèbre del covo cercar[28];
e
quivi, deposta l’usata minaccia,
le
donne superbe, con pallida faccia,
i
figli pensosi pensose guatar[29].
E
sopra i fuggenti, con avido brando,
quai
cani disciolti, correndo, frugando,
da
ritta, da manca, guerrieri venir[30]:
li
vede, e rapito d’ignoto contento,
con
l’agile speme precorre l’evento,
e
sogna la fine del duro servir[31].
Udite!
Quei forti che tengono il campo,
che
ai vostri tiranni precludon lo scampo,
son
giunti da lunge[32],
per aspri sentier:
sospeser
le gioie dei prandi festosi[33],
assursero
in fretta dai blandi riposi[34],
chiamati
repente[35]
da squillo guerrier.
Lasciar[36]
nelle sale del tetto natio
a
preghi e consigli che il pianto troncò:
han
carca la fronte de’ pesti cimieri,
han
poste le selle sui bruni corsieri,
volaron
sul ponte che cupo sonò[39].
A
torme, di terra passarono in terra[40],
cantando
giulive[41]
canzoni di guerra,
ma
i dolci castelli[42]
pensando nel cor:
per
valli petrose, per balzi dirotti[43],
vegliaron
nell’arme le gelide notti,
membrando
i fidati colloqui d’amor[44].
Gli
oscuri perigli di stanze incresciose,
per
greppi senz’orma le corse affannose,
il
rigido impero, le fami durâr[45];
si
vider le lance calate sui petti;
a
canto agli scudi, rasente agli elmetti,
udiron
le frecce fischiando volar.
E
il premio sperato, promesso a quei forti,
sarebbe,
o delusi, rivolger le sorti,
d’un
volgo straniero por fine al dolor[46]?
Tornate
alle vostre superbe ruine[47],
all’opere
imbelli[48]
dell’arse officine,
ai
solchi bagnati di servo sudor.
Il
forte si mesce col vinto nemico[49],
col
novo signore rimane l’antico;
l’un
popolo e l’altro sul collo vi sta[50].
Dividono
i servi, dividon gli armenti[51];
si
posano insieme sui campi cruenti
d’un
volgo disperso che nome non ha[52].
ANALISI E COMMENTO
Lo sviluppo
tematico
1-18
La prima parte del coro descrive le paure e le incertezze dei latini sullo
sfondo di una patria in rovina. 19-30 La seconda rappresenta il dinamismo dei
longobardi in fuga dinanzi all’incalzare dei franchi e il punto di vista del
popolo latino, che osserva la battaglia e spera in una soluzione positiva per
sé. 31-54 La terza narra la condizione dei guerrieri franchi, che hanno
sopportato fatiche e disagi per conquistare la vittoria. 55-66 La quarta parte,
di tono riflessivo, contiene l’esortazione del poeta ai latini: facciano
ritorno al lavoro servile, due padroni si divideranno le ricchezze di un volgo
privo di dignità e di virtù. Solo questo può essere il triste destino di chi non
conquista autonomamente la propria libertà. Poesia storica e messaggio politico
Manzoni attualizza il passato, di conseguenza il motivo storico si fonde con il
messaggio politico. Il poeta, con un’amara esortazione ai latini (Udite!, v.
31), evidenzia la vanità delle loro speranze, ma i destinatari reali del suo
ammonimento sono gli italiani suoi contemporanei, affinché non contino
sull’aiuto dello straniero ma prendano in mano le proprie sorti per il
Risorgimento nazionale.
Ritmo, lessico e sintassi
È
significativa la scelta metrica del coro: il dodecasillabo con la sua ampiezza
e una pausa fissa a metà verso crea un ritmo• fortemente scandito, da poesia
epica. La metrica è in accordo con la sintassi: il periodo non oltrepassa mai
la misura della sestina (strofe di sei versi), che si chiude sempre con un
punto fermo. Le proposizioni paratattiche e coordinate per asindeto (senza
congiunzione) di solito coincidono con la misura del verso e si susseguono con
simmetria mediante una serie di anafore•, che costruiscono una facile scansione
ritmica. È evidente la tendenza manzoniana a creare una poesia «popolare» (nel
significato romantico del termine), che coinvolga con immediatezza il lettore
borghese. Solo il lessico tende a essere colto e ricco di latinismi (tema,
desire, brandi, fere, latèbre, speme, prandi, membrando, volgo, perigli,
ruine).
LAVORIAMO SUL
TESTO
1.
Italiani e latini. Quale esortazione il poeta rivolge ai latini? Quale analogia
si riscontra tra la condizione politica dei latini e quella degli italiani?
2.
I destinatari. Quali sono i reali destinatari del messaggio?
3.
Significato politico. Quale significato politico Manzoni attribuisce
all’espressione volgo disperso che nome non ha?
4.
I longobardi. Come sono caratterizzati i longobardi e la loro fuga?
5.
I franchi. Come sono presentati i franchi nelle strofe 6-9?
6.
Le figure retoriche. Individua le figure retoriche presenti nei seguenti versi
2; 13; 19; 20.
7.
Gli umili. Gli umili descritti dal Manzoni non sono solo oppressi, ma anche incapaci
di agire: in quale punto del brano emerge questa impressione di debolezza?
Giovanna
Angelica ovvero Papa Giovanni VIII? A. D. 855
(di
M. Marietti)
Nessuno
può e forse potrà mai dire, se la leggenda della papessa Giovanna sia
vera, se ella sia veramente esistita o se sia stata solo frutto
dell’immaginario popolare romano medioevale (siamo infatti nell’IX secolo), o
se sia stata originata dalla critica antipapale di quel tempo. È comunque
assodato che questo insieme di fattori diede origine al suo mito.
Ma
cerchiamo ora (senza pretese di assolute verità) di raccontare la storia di
questa donna “vissuta” più di 1200 anni or sono.
La
papessa Giovanna era un’intelligente fanciulla di nome Giovanna Angelica che,
rimasta orfana in tenera età, volle con caparbietà emergere dal niente che la
vita le avrebbe altrimenti riservato a quei tempi, in cui molto era vietato
alle donne.
Ma
procediamo per gradi, le prime notizie su di lei appaiono nell’anno 1250 ad
opera del domenicano Jean de Mailly nella sua Cronica Universalis, dove
narrava che la giovane fanciulla di nome Giovanna Angelica seguì – sotto
mentite spoglie (per prudenza) – un monaco; con lui andò in oriente, da lui
apprese molte nozioni e si erudì. Alla morte del monaco la giovane,
grazie al suo impegno, divenne prima notaio della curia e, di seguito,
cardinale ed infine addirittura Papa.
Ma
il suo pontificato durò solo pochi anni, dall’ 853 all’855 collocandosi tra
Papa Leone IV e Papa Benedetto III.
Durò
così brevemente perché (si narra), con l’elezione a Papa, dove prese il nome di
Giovanni VIII, le venne assegnato, come da procedura, un giovane prete che
svolgeva la mansione di segretario, il quale essendo sempre a stretto contatto
con il novello Papa, non tardò a scoprirne la vera identità, ma invece che
denunciare la scoperta alle autorità ecclesiastiche ne divenne prima complice e
successivamente amante.
L’inganno
venne alla luce durante la processione di Pasqua perché la folla – che
entusiasta si accalcava attorno al Papa – ne fece imbizzarrire il
cavallo, Lei, per lo sforzo fatto per trattenere la cavalcatura e non cadere,
ebbe le doglie e partorì prematuramente un bambino. Evidentemente era incinta e
da molti mesi, tenuti ben nascosti.
Scoperto
quindi il suo segreto, la folla inferocita la prese e, legatole i piedi al
cavallo (alcune fonti dicono che con lei venne legato anche il piccolo
neonato), la fece trascinare per le strade e la lapidò fino alla morte nei
pressi di Ripa Grande a Roma.
Si
dice che la Papessa Giovanna sia stata sepolta tra via San Giovanni in Laterano
e via San Pietro in Vaticano; il suo successore Benedetto III ebbe
l’accortezza di far cancellare il suo nome dalle registrazioni storiche.
A
Roma, dove la strada fa angolo tra via dei SS Quattro Incoronati e via dei
Querceti, si localizzerebbe ancor oggi il “Sacello” nel punto dove venne
sepolta, chiuso da una inferriata e lasciato ad un pietoso stato di abbandono.
Attorno
a questa leggenda sono fiorite notizie curiose ed altre che si contraddicono,
dividendo i vari storici in estimatori e detrattori del personaggio della
Papessa.
Un
fatto curioso è quello riferito al fatto che – da quell’imbarazzante episodio –
ogni novello aspirante al soglio pontificio, prima di potervi salire, doveva
sottoporsi ad una sorta di 'prova del nove' per verificarne il sesso maschile:
sedeva su di una particolare sedia detta “stercoraria” avente la caratteristica
di essere dotata di un foro centrale sulla seduta, attraverso il quale dei
giovani diaconi constatavano manualmente la presenza degli attributi maschili.
Proclamavano poi, a gran voce: “ virgam et testiculum habet” che tradotto
significa “ha il pene e i testicoli ”. Dopo di che avveniva l’elezione.
I
detrattori affermano invece che la sedia in questione risulta essere molto
antecedente alla papessa, addirittura di età costantiniana; veniva usata dai
papi, insieme ad uno o forse altri due esemplari, per mettere in risalto le
loro pretese imperiali (tale sedia – così descritta col foro centrale – è
attualmente usata in campo sanitario per i bisogni corporali dei malati
infermi. Il nome 'stercoraria' sta appunto ad indicare che anche allora doveva
essere usata per funzioni simili, dai papi).
Viene
affermato anche che la processione di Pasqua non passava per il percorso in cui
avvenne il fatto, sempre secondo la leggenda, e che alla morte di papa Leone
IV, il suo successore venne eletto dopo pochi giorni. Non vi sarebbe stato uno
spazio cronologico per un eventuale papa Giovanni VIII.
Si
deve altresì dire che il Boccaccio menziona la figura della Papessa nel suo “De
mulieribus claris” nel capitolo 101.
Qualcuno
afferma anche che il suo nome è presente nel duomo di Siena nell’elenco
dei papi. Ma dove?
Tra
tutta questa serie di smentite e di ammissioni sulla presunta esistenza di un
tal personaggio, può benissimo esserci un anello di raccordo tra verità e
fantasia. Se pensiamo al periodo storico della vicenda il tutto può essere
immaginato come un voler dare al popolo una storia, un mito, una leggenda, che
abbia imbrigliato, canalizzato la mente, facendole perdere di vista la
propria misera condizione.
Per
finire questa esposizione, che penso incuriosirà alcuni di voi, voglio porre
una domanda. Se tale persona fosse esistita e se fosse riuscita nel suo intento
fino in fondo, cioè se avesse condotto un pontificato buono ed equo, da
suscitare ammirazione, il mondo ecclesiastico si sarebbe ricreduto sulle
capacità femminili? Prima o dopo, infatti, se fosse morta in modo naturale, ci
si sarebbe comunque avveduti che era una donna (o avrebbero nascosto il
tutto?).
Lo
scandalo creato dalla figura di una eventuale papessa, per di più incinta,
sarebbe enorme ancor oggi, se ci pensiamo, nonostante siano trascorsi dodici
secoli. La Chiesa di Roma non ha infatti riconosciuto la figura femminile
nemmeno come prete, vescovo o cardinale, figuriamoci papa. Ma la storia fa
presto a dimenticare che in passato alcuni papi (maschi) hanno avuto amanti e
perfino figli. Questo, visto dalla parte della Chiesa, non è grave allo stesso
modo?
Tornando
alla figura della Papessa, la ritroviamo come II figura dei Tarocchi, come
simbolo di sapienza. Prossimamente mi piacerebbe tornare sull'argomento, con
nuovi dati.
XV UNITÀ
Riflessioni sulla lingua. Elisione e troncamento – Per evitare
suoni di difficile articolazione spesso togliamo la vocale a fine parola
(quando non è accentata) nel caso in cui la parola successiva inizi anch’essa
per vocale.
L’elisione ed il troncamento di un’intera
sillaba si segnano con l’apostrofo[53].
Es.: un’altra
invece di una altra
po’ invece di poco
vo’ invece di voglio
di’ invece di dici
Elisione e troncamento
sono fenomeni legati all’incontro di due parole, esistono però anche dei casi
in cui vi è la caduta della vocale o della sillaba finale di una parola,
indipendentemente dall’incontro con altre parole.
Per indicare la
perdita è necessario mettere un segno d’apostrofo, i casi più diffusi sono:
1
|
sta’ = imperativo
di stare.
|
Es. Sta’
fermo!
|
2
|
fa’ = imperativo
di fare.
|
Es. Fa’
i compiti!
|
3
|
da’ = imperativo
di dare.
|
Es. Da’
la mancia a Mirko!
|
4
|
di’= imperativo
di dire.
|
Es. Di’
quello che pensi!
|
5
|
va’ = imperativo
di andare.
|
Es. Va’
a prendere il quaderno!
|
Riflessioni sulla lingua. Riflessioni sulla lingua.
Elisione – L’elisione[54]
consiste nella soppressione della
vocale finale atona di una parola dinanzi alla vocale iniziale della parola
seguente per ragioni eufoniche ed al posto della vocale caduta si mette un
apposito segno, l’apostrofo.
Riflessioni sulla lingua. Riflessioni sulla lingua.
Troncamento
– Il troncamento[55]
o apocope[56]
rappresenta la caduta di uno o piú
suoni atoni in fine di parola davanti ad un’altra parola iniziante sia per
vocale sia per consonante per ragioni eufoniche e/o di brevità.
Perché il
troncamento sia possibile, la lettera che precede la vocale o la sillaba da
eliminare deve essere una delle seguenti: l – m –n – r.
Non si esegue
mai il troncamento quando la parola che segue inizia con s impura, z, gn, ps.
Educazione letteraria. Rima - La rima è l’omofonia, ossia l’identità dei suoni,
tra due o più parole a partire dall’ultima vocale accentata, e si verifica per
lo più tra le clausole dei versi di
un componimento (altrimenti, essa si definisce rima interna).
A seconda del
loro schemi rimico, le rime si distinguono in:
·
Alternata[58]
Oltre alla rima
acquistano grande valore le cosiddette figure fonetiche che riguardano la
ripetizione o il parallelismo dei suoni.
Le figure fonetiche sono:
Educazione
letteraria. Strofa - La
strofa o strofe è l’insieme di più versi, di numero e di tipo fisso o
variabile, organizzati secondo uno schema e formanti un periodo ritmico,
seguito da una pausa in genere
ripetuto più volte.
Per
poter definire i vari tipi di strofe occorre prendere in considerazione sia la
successione delle rime sia il numero
dei versi. La strofa può quindi
essere considerata un sistema ritmico, stabilito dalla combinazione delle rime e dalla struttura metrica dei versi
che la compongono. Le combinazioni strofiche possono essere infinite perché
esse, pur essendo legate a regole fisse di decodificazione del testo poetico,
sono riferibili anche alla capacità di innovazione e alla libertà del poeta.
La
strofa è sinonimo di stanza ed i
generi metrici, a seconda del numero dei versi,sono dette:
La
strofa può quindi essere considerata un sistema ritmico che è stabilito dalla
combinazione delle rime e dalla struttura metrica dei versi che la compongono. Le combinazioni
strofiche possono essere infinite. Esse sono legate a regole fisse di
decodificazione del testo poetico ma anche alla capacità di innovazione e alla
libertà del poeta, tant’è con la rivoluzione si diffuse l’uso della strofa libera[73].
La morte di Orlando
Dalla Chanson
de Roland
In epoca
medievale, quando la civiltà della scrittura entrò in crisi a causa delle
invasioni barbariche e della disgregazione dell’impero romano, fiorì nuovamente
un tipo di epica, basata su procedimenti propri dell’oralità, che segnò
l’inizio delle varie letterature nazionali.
Le “canzoni di
gesta” nacquero nell’ambiente dell’aristocrazia feudale: scritte in “lingua
d’oïl”, trattavano, in componimenti tra i 1000 e 2000 versi, di
personaggi e di episodi leggendari del tempo di Carlo Magno, rivissuti e
ricostruiti secondo la mentalità del mondo feudale e della cavalleria,
attribuendo al passato remoto i valori della società dei secoli XI e XII:
1. la fedeltà
del vassallo al proprio signore
2. l’esaltazione
dell’impresa gloriosa, dell’eroismo e del sacrificio ed anche l’ideologia
cristiana della guerra santa contro gli infedeli.
Le storie
raccontate nelle canzoni di gesta, raggruppate in cicli[74] si
diffusero ampiamente, prima attraverso la trasmissione orale poi in testi scritti,
costituirono un patrimonio comune delle culture neolatine e germaniche.
Lo spinto delle
Chanson de geste non riflette quello dei secoli VIII e IX, cioè il periodo della
formazione del Sacro Romano Impero in cui sono ambientate, ma rappresenta gli
ideali che si vennero consolidando nei secoli successivi, in seguito allo
svolgimento delle Crociate, che contrapposero in una lunga lotta Oriente e
Occidente. La mancanza di prospettiva storica è una caratteristica del
Medioevo, come se gli uomini di quel tempo non si rendessero conto della
diversità del passato e tendessero ad appiattire gli eventi, attribuendo
caratteristiche a loro contemporanee: il riferimento al passato eroico dei
paladini di Carlo Magno, visti come strenui difensori della cristianità
dall'assalto degli infedeli, che rappresentavano nell'“immaginario collettivo”
il pericolo per eccellenza, divenne importante per autoesaltare la casta
guerriera del tempo, in un periodo in cui essa aveva raggiunto la massima
espansione.
Il pubblico cui
l'argomento delle Chanson de geste doveva essere rivolto era rappresentato
principalmente da vassalli guerrieri che, nelle piazze e nelle corti dei
nobili, ascoltavano le imprese gloriose di un passato ormai lontano, ma ancora
interessante per i valori che esprimeva, raccontate da cantori o giullari, spesso
persone di fine cultura, autori essi stessi delle pagine epiche che cantavano.
La letteratura
in volgare con l’epica cavalleresca, che trattava delle imprese dei cavalieri
ed anche dei loro amori galanti, nacque, infatti, nella corte e sulla vita che
lì si svolgeva. La “Chanson de Roland” prima e l’“Ivano” poi sono le opere più
rilevanti di questo genere che esaltava le virtù cavalleresche:
spregiudicatezza, quindi ricerca dell’avventura per mettersi alla prova,
avventure fatta di scontri con altri cavalieri come di incontri con gentili
dame.
Si osservi il
momento conclusivo della “Canzone di Roland”[75] in
cui è narrata la morte di Orlando.
Questo è
l’episodio forse più famoso del poema. Il paladino, ferito a morte nella
stretta gola di Roncisvalle, avverte che la sua fine è giunta.
Il brano è molto
intenso ed emblematico per la commistione tra sacro e guerresco, che si fondono
senza alcun contrasto ideologico, secondo il pensiero tipico dell’epica
medievale: l’eroe combatte per la patria e per il credo cristiano contro un
popolo di infedeli: Orlando ricopre, infatti, il duplice ruolo di paladino
fedele all'imperatore, prode in guerra, fautore della gloria di Carlo e della
Francia, e di difensore degli ideali cristiani, incarnati nel Sacro Romano
Impero.
Nel passo ci
sono molti rinvii a questo duplice aspetto del personaggio. In primo luogo, la
sua dedizione al sovrano emerge dalla puntigliosa rassegna di tutti i territori
conquistati e fedelmente consegnati all'imperatore; costui è al vertice di una
gerarchia sociale, in cui i paladini credono ciecamente; essi combattono, da
vassalli, guerre di conquista, che spesso si configurano esse stesse come
guerre sante, in nome del trionfo della cristianità contro gli infedeli. Il
tema della guerra è però in stretta relazione con quello della religiosità:
Orlando, campione del suo imperatore, si comporta anche come campione della fede.
Nel passo le due dimensioni si mescolano e si contaminano. L’elemento che
sembra unirle è la spada Durendala: essa è stata donata da Carlo al paladino
come ricompensa per i suoi servigi, ma Dio tramite un angelo l'ha fatta avere a
Carlo; inoltre essa, indistruttibile e invincibile, con le reliquie contenute
nell'elsa testimonia la fede sincera del mondo feudale che gravita attorno alla
figura dei cavalieri cristiani. Orlando stesso, poi, muore da perfetto
cristiano, recitando le preghiere degli agonizzanti, chiedendo perdono a Dio e
ottenendo un’immediata e visibile salvezza dell'anima.
Se questo era
quello che offriva il mondo laico al genere epico, di contro il clero, pur
essendo l’unica classe sociale a gestire la parola scritta, non partoriva più solo
testi agiografici, che sono considerabili l’“epica” dei valori cristiani:
l’agiografia era incentrata sulle vite dei santi, nelle quali erano poste tutte
le virtù del perfetto cristiano e la “Canzone di Orlando”, nata in ambiente
clericale, presenta le caratteristiche agiografiche arricchite di nuovi valori
dettati nella cavalleria.
CLXXIII
Orlando sente che la morte lo invade,
Orlando sente che la morte lo invade,
dalla
testa sul cuore gli discende.
Sotto
un pino se ne va correndo,
sull’erba
verde s’è coricato prono,
sotto
di sé mette la spada e il corno.
Ha
rivolto il capo verso la pagana gente:
l’ha
fatto perché in verità desidera
che
Carlo dica a tutta la sua gente
che
da vincitore è morto il nobile conte.
Confessa
la sua colpa rapido e sovente,
per
i suoi peccati tende il guanto a Dio.
CLXXIV
Orlando sente che il suo tempo è finito.
Orlando sente che il suo tempo è finito.
Sta
sopra un poggio scosceso, verso Spagna;
con
una mano s’è battuto il petto:
“Dio!
Mea culpa, per la grazia tua,
dei
miei peccati, dei piccoli e dei grandi,
che
ho commesso dal giorno che son nato
fino
a questo giorno in cui sono abbattuto!”.
Il
guanto destro ha teso verso Dio.
Angeli
dal cielo sino a lui discendono.
CLXXV
Il conte Orlando è disteso sotto un pino,
Il conte Orlando è disteso sotto un pino,
verso
la Spagna ha rivolto il viso.
Di
molte cose comincia a ricordarsi,
di
tante terre che ha conquistato il prode,
della
dolce Francia, della sua stirpe,
di
Carlo Magno, suo re, che lo nutrì;
non
può frenare lacrime e sospiri.
Ma
non vuol dimenticar se stesso,
proclama
la sua colpa, chiede pietà a Dio:
“Padre
vero, che giammai smentisci,
tu che resuscitasti Lazzaro da morte
e Daniele salvasti dai leoni,
salva l’anima mia da tutti i pericoli
per i peccati che in vita mia commisi!”.
A Dio ha offerto il guanto destro:
san Gabriele con la sua mano l’ha preso.
Sopra il braccio teneva il capo chino;
con le mani giunte è andato alla sua fine.
Dio gli manda l’angelo Cherubino
e San Michele del pericolo del mare;
insieme a loro venne san Gabriele:
portano in paradiso l’anima del conte.
tu che resuscitasti Lazzaro da morte
e Daniele salvasti dai leoni,
salva l’anima mia da tutti i pericoli
per i peccati che in vita mia commisi!”.
A Dio ha offerto il guanto destro:
san Gabriele con la sua mano l’ha preso.
Sopra il braccio teneva il capo chino;
con le mani giunte è andato alla sua fine.
Dio gli manda l’angelo Cherubino
e San Michele del pericolo del mare;
insieme a loro venne san Gabriele:
portano in paradiso l’anima del conte.
[1] Bisillabo: Il bisillabo o binario è un
verso di due sillabe ed ha per forza un solo accento sulla prima sillaba:
es.:
Dopo tanta
Nébbia
a
ùna a ùna
si
svelano
le
stelle
(G.
Ungaretti, Sereno, vv 1-6)
[2] Trisillabo - Il trisillabo o ternario è
un verso molto raro e di solito si trova inframmezzato a versi più lunghi, in
cui l’accento si trova sulla seconda sillaba: quindi, se l’ultima parola è
piana comprende tre sillabe, mentre se è tronca o sdrucciola ne ha
rispettivamente due oppure quattro.
Es.:
Si tàce,
non
gètta
più
nùlla.
Si
tàce,
non
s’òde
romóre
di
sòrta,
che
fórse…
che
fórse
sia
mòrta?
(A.
Palazzeschi, La fontana malata, vv
26-35)
La
mòrte
si
scónta
vivéndo
(G. Ungaretti, Sono una creatura, vv 12-14)
(G. Ungaretti, Sono una creatura, vv 12-14)
[3] Quadrisillabo - Il quadrisillabo o quaternario,
non molto comune nella poesia italiana, è un verso di quattro sillabe nel quale
l’accento principale si trova sulla terza sillaba: quindi, se l’ultima parola è
piana, il verso comprende quattro sillabe, mentre se è tronca o sdrucciola, ne
contiene rispettivamente tre oppure cinque.
generalmente
Si ha un accento secondario sulla prima sillaba.
Es.:
Col mare
mi sono fatto
ùna bàra
dì freschézza
(G.
Ungaretti, Universo)
Spesso
questo verso è usato alternato con versi più lunghi come gli ottonari.
Es.:
Paranzelle in alto mare
biànche biànche,
io vedeva
palpitare
còme stànche:
o speranze. Ale
di sogni
pér il màre!
(G.
Pascoli, Speranze e memorie, vv
1-6)
[4] Quinario - Il quinario o pentasillabo è un verso nel quale
l’accento principale si trova sulla quarta sillaba: quindi, se l’ultima parola
è piana comprende cinque sillabe, mentre se è tronca o sdrucciola ne ha
rispettivamente quattro oppure sei. Gli accenti metrici sono generalmente con
un accento secondario sulla prima o sulla seconda sillaba l’altro sulla quarta
sillaba.
Es.:
Vìva la chiòcciola,
vìva una béstia
che unìsce il mèrito
àlla modèstia.
(G. Giusti, La chiocciola, vv 1-4)
Anche
questo verso spesso è usato alternato a settenari
ed endecasillabi o come clausola.
Es.:
Lungo la strada vedi su la siepe
ridere
a mazzi le vermiglie bacche.
nei
campi arati tornano al presepe
tàrde
le vàcche.
(G.
Pascoli, Sera d’ottobre, vv 1-4
[5] Senario - Il senario è un verso è un
verso di sei sillabe nel quale l’accento tonico si colloca sulla quinta sillaba
metrica. Di conseguenza, se l’ultima parola è piana il verso comprende sei
sillabe, mentre se è tronca o sdrucciola ne comprende rispettivamente cinque
oppure sette. Il senario due accenti ritmici, uno sulla seconda e l’altro sulla
quinta sillaba.
Es.:
Sul chiùso quadérno
di
vàti famósi,
dal
mùsco matérno
lontàna
ripósi,
ripósi
marmórea,
dell’ónde
già fìglia,
ritórta
conchìglia.
(G.
Zanella, Sopra una conchiglia fossile, vv 1-7)
[6] Settenario - Il settenario, con
l’endecasillabo uno dei versi più ricorrenti nella poesia italiana, è un verso
nel quale l’accento principale si trova sulla sesta sillaba: quindi, se
l’ultima parola è piana comprende sette sillabe, mentre se è tronca o
sdrucciola ne ha rispettivamente sei oppure otto.
Il
settenario ha un accento fisso sulla
sesta sillaba e l’altro mobile su una delle prime quattro.
Es.:
L’àlbero a cui
tendévi
la
pargolétta
màno,
il
vèrde
melogràno
da’
bei vermìgli fiòr,
nel
muto òrto solingo
rinverdì
tutto or óra
e
giùgno lo ristòra
di
lùce e di
calór.
(G.
Carducci, Pianto antico, vv 1-8)
Il
settenario molto spesso è alternato a quinari
ed endecasillabi.
Es.:
Silvia, rimèmbri ancóra
quel
tempo della tua vita mortale,
quando
beltà splendèa
negli
occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e
tu, lieta e pensosa, il limitare
di
gioventù salìvi?
(G.
Leopardi, A Silvia, vv 1-6)
[7] Ottonario - L’ottonario è un verso di otto
sillabe nel quale l’accento principale si trova sulla settima sillaba:
se l’ultima parola è piana comprende otto sillabe, mentre se è tronca o
sdrucciola ne ha sette o nove. Gli accenti metrici si collocano generalmente
sulle sedi dispari. Accenti secondari possono situarsi sulla seconda, quarta e
sesta sillaba. L’ottonario ha gli accenti
ritmici sulla terza e sulla settima sillaba.
Es.: Quant’è bèlla giovinèzza
che si fùgge tuttavìa:
chi vuol èsser lieto, sìa,
di domàn non c’è certèzza.
Quest’è Bàcco e Ariànna,
belli, e l’ùn dell’altro ardènti:
perché ‘l tèmpo fugge e ingànna,
sempre insième stan contènti.
(Lorenzo
il Magnifico, Canzona di Bacco,
vv 1-8)
[8] Novenario - Il novenario o enneasillabo
è un verso di nove sillabe è un verso in cui l’accento principale si trova
sull’ottava sillaba metrica: quindi, se l’ultima parola è piana comprende nove
sillabe metriche, mentre se è tronca o sdrucciola ne ha rispettivamente otto
oppure dieci. Il novenario ha tre accenti ritmici che cadono sulla seconda,
sulla quinta e sull’ottava sillaba.
Es.:
Il giòrno fu pièno di làmpi;
ma
óra verrànno le stélle,
le
tàcite stélle. Nei càmpi
c’è
un brève gre gré di ranèlle.
Le
trèmule fóglie dei pioppi
trascórre
una giòia leggièra.
[9] Decasillabo - Il decasillabo è un verso nel quale l’accento principale si trova
sulla nona sillaba: quindi, se l’ultima parola è piana comprende dieci sillabe,
mentre se è tronca o sdrucciola ne ha rispettivamente nove oppure undici. Gli
accenti metrici sono generalmente con accenti secondari sulla terza e sesta
sillaba.
Es.:
Soffermàti sull’àrida spónda,
volti i guàrdi
al varcàto Ticìno,
tutti assòrti
nel nòvo destìno,
certi in còr
dell’antìca virtù,
han giuràto: Non
fìa che quest’ónda
scorra più tra
due rìve stranière;
non fia lòco ove
sòrgan barrière
tra l’Itàlia e
l’Itàlia, mai più!
(A.
Manzoni, Marzo 1821, vv 1-8)
[10] Endecasillabo - L’endecasillabo, metro principale della nostra poesia è il verso nel
quale l’accento principale si trova sulla decima sillaba metrica.
L’endecasillabo è il verso in cui le sedi degli
accenti sono più varie, sebbene di solito gli endecasillabi presentano un
accento fisso o sulla quarta o sulla sesta sede. Per questa sua flessibilità
l’endecasillabo è stato il verso prediletto ed il più utilizzato nella poesia
italiani e si trova in tutte le formazioni più importanti, come la ballata, la canzone, il sonetto, l’ottava.
Es.: E me che i tempi ed il desio d’onore
fan
per diversa gente ir fuggitivo,
me
ad evocar gli eroi chiamin le Muse
[11] doppio quinario - es.: Al mìo
cantùccio, / dónde non sénto
se nón le réste
/ brusìr del gràno,
il suón dell’óre
/ viène col vènto
dal nón vedùto /
bórgo montàno:
suòno che
uguàle, / che blàndo càde,
come ùna vóce /
che pérsuàde.
(G.
Pascoli, L’ora di Barga, vv 1-6)
[12] Doppio settenario - Es.: Dagli àtrii muscósi, / dai Fòri cadènti,
dai bòschi,
dall’àrse / fucìne stridènti,
dai sòlchi
bagnàti / di sèrvo sudór,
un vólgo
dispèrso / repènte si désta;
intènde
l’orécchio, / sollèva la tèsta
percòsso da nòvo
/ crescènte romór.
(A.
Manzoni, Dagli atrii muscosi…, vv
1-6, Adelchi)
[13] Doppio ottonario - Es.: Su i
càmpi di Maréngo / batte la lùna; fósco
tra la Bòrmida e il Tànaro /
s’agita e mùgge un bòsco,
un bòsco
d’alabàrde, / d’uòmini e di cavàlli,
che fùggon
d’Alessàndria / da i màl tentati vàlli.
(G. Carducci,
Su i campi di Marengo, vv 1-8)
[14]Dialefe - La dialefe:
è il fenomeno inverso della sinalefe e si verifica quando la vocale finale di
una parola e quella iniziale della parola successiva formano due sillabe
separate. Si applica quando le due vocali o la prima di loro sono accentate.
Es.: che la diritta viaˇera smarrita.
(Dante, Inferno, I , v. 3)
La dialefe è favorita di solito da pause
grammaticali o dall’inversione dell’ordine logico delle parole.
[15] Dieresi – La dieresi: è la
figura metrica opposta alla sineresi in questo caso un dittongo si divide in
due sillabe. Essa è segnata da due puntini che vengono posti sulle vocali più
deboli.
Es.:
la somma sapïenza e ‘l primo amore.
(Dante, Inferno, III, v. 6)
La
parola sapienza, secondo la comune sillabazione italiana, è un trisillabo
(sa-pien-za); ma in questo verso è computata come quadrisillabo (sa-pi-en-za).
[16] Sinalefe – la sinalefe è la
fusione in un’unica sillaba metrica delle vocali finali di una parola con
quella iniziale della parola successiva.
Es.:
«mi ritrovai per una selva oscura» (Dante, Inferno I, v 2)
Il
suo schema metrico, in cui si evidenzia la sinalefe, è il seguente
Sill 1
|
Sill 2
|
Sill 3
|
Sill 4
|
Sill 5
|
Sill 6
|
Sill 7
|
Sill 8
|
Sill 9
|
Sill 10
|
Sill 11
|
Mi
|
Ri
|
Tro
|
Vai
|
pe
|
r u
|
Na
|
sel
|
va o
|
scu
|
ra.
|
[17] Sineresi – La sineresi:
consiste nel fondere in una sola sillaba all’interno di una parola due o più
vocali vicine ma appartenenti a sillabe diverse.
Es.:
Questi parea che contra me venisse
(Dante, Inferno I, 46)
Parea, secondo la grammatica, ha tre
sillabe, in questo verso ne ha due soltanto.
[18] Aferesi - L’afèresi è un fenomeno
fonetico storica che consiste nella caduta d’una vocale o d’una sillaba
all’inizio di parola.
Può
anche essere una ‘figura retorica’ che dà luogo a forme poetiche:
Es.:
inverno = verno
[19] Prostesi - La pròstesi o pròtesi (dal
greco próthesis, derivato da protithénai, «porre avanti») è un fenomeno
fonetico che consiste nell’aggiunta di una vocale
o una sillaba, all’inizio di una
parola.
Es.:
in strada = in istrada
[20] Apocope – L’apòcope (anche detta
troncamento) è un fenomeno fonetico che consiste nella caduta della vocale o
della sillaba finale atona della parola.
L’apocope
differisce dall’elisione perché può determinare la caduta di un’intera sillaba
e perché può avvenire davanti a una parola che inizia per consonante. Salvo nei
casi particolari rappresentati dagli imperativi in seconda persona singolare di
dare, dire, fare, stare, andare e dagli equivalenti tronchi di poco (po’), modo
(nella locuzione a mo’ di), bene (be’; viene spesso sostituito da beh) e
dell’arcaico e desueto “tògli” con il significato di “prendi” (to’; es. to’
questa caramella= prendi questa caramella), il troncamento, a differenza
dell’elisione, non è marcato dall’apostrofo.
[21] Epitesi - L’epítesi (anche detta
«paragòge») è un fenomeno fonetico che consiste nell’aggiunta d’una vocale o
d’una sillaba alla fine d’una parola.
Es.: David =
David(d)e.
In
italiano antico era anche frequente dopo vocale:
Es.:
amò = amoe
fu = fue
[22] Sincope - La síncope è un fenomeno
fonetico storica che consiste nell’eliminazione d’una lettera o d’una sillaba
all’interno della parola.
Può
anche essere una figura fonetica che dà luogo a forme poetiche:
opera
= opra
spirito
= spirto
Il
contrario della sincope è l’epèntesi.
[23] Epentesi - L’epèntesi è un fenomeno
fonetico che consiste nell’aggiunta
di una vocale o di una sillaba all’interno di una parola.
Es.:
asma = ansima
biasma
= biasima
medesmo
= medesimo
[24]
Dagli atrii... romor: dagli antichi palazzi romani (atrii) ricoperti di
muschio (perché abbandonati), dalle piazze (Fori) ormai in rovina, dai boschi,
dalle officine (fucine) infuocate e assordanti (per la lavorazione dei
metalli), dai campi (solchi) bagnati dal sudore del popolo latino costretto a
lavorare come schiavo, un popolo diviso (volgo disperso è riferito agli
italiani privi d’identità nazionale) all’improvviso (repente) sembra
riscuotersi, tende con ansia l’orecchio, solleva lo sguardo avvertendo il
rumore della battaglia tra i longobardi e i franchi.
[25] Dai guardi... virtù: dagli
sguardi incerti, dai volti impauriti (pavidi) traspare, come un raggio di sole
che squarcia le folte nuvole, il valore degli antichi romani (padri).
[26] si mesce... d’un tempo che fu:
l’umiliazione (spregio) sofferta per tanti anni si mescola e contrasta con le
tracce dell’orgoglio di un tempo passato. Il sintagma misero orgoglio esprime
l’umiliazione interiore e insieme la dignità del popolo latino, un tempo libero
e prestigioso.
[27] e adocchia... non ha: il
soggetto è un volgo disperso: guarda di sfuggita (adocchia) e poi osserva con
attenzione (rimira) la turba sbandata (diffusa) dei crudeli padroni
(longobardi), che scoraggiata (scorata) e confusa fugge senza sosta dinanzi
alle spade (brandi) dei franchi.
[28] Ansanti... cercar: li vede (il
soggetto di vede è un volgo disperso) ansimare, simili ad animali tremanti con
le chiome rossicce (fulve) irte per la paura (tema), cercare i noti nascondigli
(latèbre) dei loro rifugi (covo).
[29] e quivi... pensose guatar:
abbandonato il consueto atteggiamento minaccioso, vede le donne superbe,
pallide in volto, ansiose (pensose) guardare i loro figli preoccupati.
L’incontro dei due aggettivi pensosi pensose aumenta la silenziosa
preoccupazione delle madri longobarde per il destino dei loro figli.
[30] E sopra...
guerrieri venir: il soggetto è ancora il popolo latino, che vede i guerrieri
franchi come cani sguinzagliati incalzare i fuggitivi con le spade assetate di
sangue (avido brando), sia da destra sia da sinistra (da ritta, da manca). Il
sintagma avido brando attribuisce alla spada il sentimento del guerriero franco
di uccidere i nemici.
[31] li vede... del
duro servir: assalito da una contentezza mai provata, con la speranza (speme)
anticipa gli eventi futuri (cioè la sconfitta dei longobardi) e sogna la fine
della sua schiavitù.
[32] Udite... lunge:
quei valorosi (forti) franchi che sono padroni del campo di battaglia, che
impediscono la fuga ai longobardi, vostri oppressori, sono giunti da lontano.
Rivolgendosi direttamente (Udite!) a quel popolo illuso, il poeta descrive le
fatiche dei franchi e nel contempo sembra ammonire gli italiani che la libertà
deve essere conquistata con coraggio e sacrifici.
[33] prandi festosi: banchetti
allegri.
[34] assursero... blandi riposi: si
levarono dai dolci riposi.
[35] repente: all’improvviso.
[36] Lasciar: lasciarono.
[37] accorate: tristi e preoccupate.
[38] tornanti
all’addio... troncò: che ripetevano l’addio, le preghiere e i consigli
interrotti dal pianto.
[39] han carca... sonò: hanno la
fronte appesantita (carca) dagli elmi ammaccati (pesti cimieri) da precedenti
battaglie. Il cambiamento di tempo verbale (volaron, sonò) accelera il ritmo
dei versi, rendendo il galoppo sfrenato dei cavalli (corsieri).
[40] A torme...
terra: a squadroni passarono di terra in terra.
[41] giulive: allegre, spensierate.
[42] dolci castelli: i castelli dove
hanno lasciato i loro affetti.
[43] per balzi dirotti: per dirupi.
[44] vegliaron... d’amor: trascorsero
insonni (vegliaron) le notti gelide negli accampamenti militari (nell’arme), ricordando
l’abbandono fiducioso dei colloqui d’amore.
[45] Gli oscuri...
durâr: sopportarono (durâr) i pericoli (perigli) sconosciuti delle soste
disagiate (stanze incresciose), le corse affannose per alture (greppi) dove mai
uomo aveva posto piede, la dura disciplina militare, i digiuni. L’impresa
vittoriosa dei franchi è scandita con ritmo incalzante, tipico del canto di
guerra.
[46] E il premio...
dolor: e il premio sperato dai franchi, promesso a quei valorosi, dovrebbe
essere, o delusi italiani, di cambiare il destino (rivolger le sorti) di un
volgo straniero, liberandolo? Il delusi che si ricollega all’Udite! (v. 31)
chiude il momento epico dissipando ogni illusione.
[47] superbe ruine:
rovine che testimoniano un passato di grandezza.
[48] imbelli: non
adatte alla guerra (dal latino in, prefisso negativo, e bellum, “guerra”)
quindi “deboli, vili”.
[49] Il forte... nemico: il nemico
vincitore si unisce (si mesce) con il nemico vinto.
[50] sul collo vi sta: entrambi vi
impongono il loro dominio.
[51] armenti: gli
animali di allevamento.
[52] si posano... non ha: si
insediano sui campi bagnati di sangue di un volgo che non ha neppure il
riconoscimento di un nome.
[53] Apostrofo
- L’apostrofo (‘) è un carattere
usato, nelle lingue scritte che indica soprattutto l’elisione, talora il troncamento.
Da non confondere con l’apostrofo è l’apostrofe
retorica.
[54] L’elisione deve attuare nei seguenti
casi:
1.
|
Con ci davanti a voci del verbo essere:
|
c’è, c’era, c’erano
|
2.
|
Con l’articolo una:
|
un’ora
|
3.
|
Con gli articoli lo, la, e le relative preposizioni
articolate:
|
l’orto, all’orto, dall’orto,
nell’orto,
l’anima, all’anima, dell’anima, nell’anima
|
4.
|
Con gli davanti a parole che iniziano con i:
|
gl’Italiani
|
5.
|
Con bello/bella, quello/quella:
|
bell’uomo, quell’erba
|
6.
|
Con santo davanti a vocale:
|
sant’Agnese
|
7.
|
Con alcune locuzioni caratteristiche:
|
senz’altro, tutt’altro, mezz’ora
|
8.
|
Con la preposizione da in alcune espressioni:
|
d’allora, d’ora, d’altra parte
|
9.
|
Con la preposizione di in alcune espressioni:
|
d’accordo, d’epoca, d’oro
|
facoltativa
|
||
1.
|
Con le
particelle mi, ti, si
|
mi importa/m’importa, ti accolsi/t’accolsi, si accende/s’accende
|
2.
|
Con questo
e grande:
|
questo assegno/quest’assegno, grande uomo/grand’uomo
|
3.
|
Con la preposizione di in alcune espressioni
|
di esempio/d’esempio
|
Il
monosillabo da non si elide, scriveremo perciò da amare e non d’amare. A
questa regola fanno eccezione alcuni casi cristallizzati dall’uso: d’ora in
poi, d’ora in avanti, d’altronde, d’altra parte.
[55]
Il troncamento si deve attuare nei
seguenti casi:
1.
|
Con
uno e suoi composti (alcuno, ciascuno, ecc)
|
un
uomo,
alcun luogo
|
2.
|
Con
buono, bello, quello davanti a consonante:
|
buon
giorno,
bel cane, quel giorno
|
3.
|
Con
santo davanti a consonante:
|
san Mattia
|
4.
|
Con
quale davanti a “è”:
|
qual è
|
Facoltativo
|
||
1.
|
Con
tale e quale davanti a vocale e consonante
|
tal
uomo/tale
uomo, qual buon vento/quale buon vento
|
2.
|
Con
l’aggettivo grande davanti a nomi maschili che cominciano per
consonante:
|
gran
signore/grande
signore
|
3.
|
Con
frate davanti a consonante e suora davanti a vocale e
consonante
|
Fra
Cristoforo/frate
Cristoforo, suor Antonia/suora Antonia
|
[56] Apocope – Il termine apocope E infatti, come sa chiunque abbia
anche solo i rudimenti di greco classico, «apocope» significa «taglio (via
da)», «amputazione».
[57]
Baciata – la rima si dice baciata
quando un verso è in rima con quello successivo.
Lo
schema metrico è AABB.
Es.:
«Una donna s’alza e cànta
La
segue il vento e l’incànta
Sulla
terra la stènde
il
sogno vero la prènde »
(G.
Ungaretti - Canto beduino, vv. 1-4)
[58]
Alternata - la rima si dice alternata, quando il primo verso rima
con il terzo, e il secondo con il quarto.
Schema
metrico è ABAB, CDCD.
Es. «Lo
stagno risplende. Se tàce
la
rana. Ma guizza un bagliore
d’acceso
smeraldo, di bràce
azzurra:
il martin pescatore.
E
non sono triste, ma sono
stupito
se guardo il mio giardìno...
Stupito
che? non mi sono
mai
sentito tanto bambìno... »
(G.
Gozzano - L’assenza - vv. 21-28)
[59]
Incrociata: la rima si dice incrociata, quando il primo verso rima
con il quarto, il secondo con il terzo.
Schema
metrico è ABBA CDDC.
Es.:
« Non pianger più. Torna il diletto fìglio
a
la tua casa. È stanco di mentìre.
Vieni;
usciamo. Tempo di rifiorìre.
Troppo
sei bianca: il volto è quasi un gìglio.
Vieni;
usciamo. Il giardino è abbandonato
serva
ancora per noi qualche sentièro
Ti
dirò come sia dolce il mistèro
che
vela certe cose del passàto.»
(G.
D’Annunzio - Consolazione - vv. 1-8)
[60]
Incatenata – la rima si dice incatenata quando il primo verso rima
con il terzo della prima terzina, il secondo con il primo della seconda
terzina, il secondo di questa rima con il primo delle terza terzina, e così
via.
Il
più alto esito di tale schema di rime è la Divina Commedia ,
interamente strutturata in questo modo.
Lo
schema metrico è ABA, BCB, CDC.
Es.:
«Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese
costui de la bella persona
che
mi fu tolta; e’l modo ancora m’offende.
Amor,
ch’a nullo amato amar perdona,
mi
prese del costui piacer sì forte,
che,
come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor
condusse noi ad una morte.
Caina
attende chi a vita ci spense».
Queste
parole da lor ci fuor porte.»
(Dante
- Commedia, Inferno, V, vv. 100-108)
[61]
Ipermetra - la rima si dice ipermetra quando una delle due parole è
considerata senza la sillaba finale
Es.
«Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli
altri ed a se stesso amico,
e
l’ombra sua non cura che la canicola
stampa
sopra uno scalcinato muro! »
(Eugenio
Montale - Non chiederci la parola vv.
5 e segg.)
[62]
Allitterazione - L’allitterazione consiste nella
ripetizione di una lettera, di una sillaba o più in generale di un suono
all’inizio o all’interno di parole successive.
Essa
pone l’attenzione sui rapporti tra le parole fonicamente messe in rilievo.
Grazie
alle allitterazioni possono essere evocate diverse sensazioni condizionate
dalle lettere che fanno l’allitterazione stessa.
Alcune
linee di tendenza possono essere:
·
le
consonanti dal suono secco (g, c e s) evocano una sensazione di durezza.
·
le
consonanti dal suono dolce (v e l) evocano una sensazione di morbidezza,
piacere.
·
la
vocale a evoca un senso di ampiezza.
·
la
vocale u evoca un senso di gravezza.
·
la
vocale i evoca un senso di chiarezza.
[63]
Assonanza - L’assonanza è un fenomeno di metrica che consiste nella parziale
identità di suoni di due o più versi.
La
forma più comune di assonanza è una rima imperfetta in cui le parole hanno le
stesse vocali a partire dalla vocale accentata (vocale tonica), mentre le
consonanti sono diverse, anche se spesso di suono simile, ma si possono
distinguere diverse tipologie:
·
assonanza
semplice,
quando coincidono soltanto le vocali (rasone/colore)
·
assonanza della
sola tonica,
quando coincide solo la vocale accentata (pieta/demandava)
·
assonanza atona, quando
coincide la vocale non accentata (limo/toro) o la sillaba non accentata
(mare/sere).
·
consonanza tonica, quando coincidono le consonanti
(partire = splendore; colle = elle).
L’assonanza
è impiegata spesso nella poesia del Novecento al posto della rima, ed è
frequente nel linguaggio della pubblicità.
[64]
Consonanza – La consonanza si ha quando, a partire dalla vocale accentata, sono
uguali le consonanti e diverse le vocali (non comprende la corrispondenza della
stessa vocale tonica).
Es.:
màriti
aprìti
[65]
Onomatopea - L’onomatopea consiste nell’uso di una parola la cui pronuncia
assomiglia al suono o rumore che si intende riprodurre.
Esistono
onomatopee
·
naturali che consistono
nell’imitazione del suono di qualcosa ossia dalle parole da cui sono derivati
termini di uso comune ad esempio miagolare
dal verso del gatto.
·
artificiali ossia quelle
parole che contengono suoni che si riferiscono ad un suono come fruscio, ticchettio, rimbombo, ciak, etc.;
Es.: «Clof, clop, clock,
cloffete,
cloppete,
clocchete,
chchch...
È giù,
cloppete,
clocchete,
chchch...
È giù,
nel
cortile,
la
povera
fontana
malata;
[...] »
da
La fontana malata di Aldo Palazzeschi
[66]
Paronomasia - La paronomàsia consiste nell’accostare due
o più parole che abbiano suono molto simile (differendo per una o due lettere)
e significato diverso. Può essere usata per rendere perentoria l’associazione
tra due concetti, per esaltare la musicalità di un verso o per scopi
umoristici.
Es.:
Carta canta, Dalle stelle alle stalle, Chi
non risica non rosica, Senza arte né
parte, Volente o nolente.
Es.:
“...e non mi si partia dinanzi al volto
anzi
‘mpediva tanto il mio cammino
ch’i’
fui per ritornar più volte volto.” (Dante)
“Talor,
mentre cammino solo al sole
e guardo coi miei
occhi chiari il mondo...”
(Sbarbaro)
[67]
Enjambement - L’enjambement consiste nell’alterazione tra l’unità del verso e
l’unità sintattica ed è quindi una frattura a fine verso della sintassi o di un
elemento sintattico al quale esso è collegato.
Es.:
sol con un legno e con quella compagna
picciola
da la qual non fui diserto. Dante - Inferno, canto
XXVI)
L’enjambement si ha dunque quando la frase
non termina col verso, ma si protrae in quello successivo.
[68]
Distico - Il distico, formato da una strofa di due versi in genere uguali
metricamente, é a rima baciata (AA).
Es.:
“Al valente segnore A
di cui non so migliore A
sulla terra trovare B
ché non avete pare B (..)”
(dal
Tesoretto di Brunetto Latini)
[69] Terzina - la terzina, è
formata da una strofa di tre versi in genere metricamente uguali.
Le rime possibili sono: ABA BCB CDC DED... incatenata, terza rima o Dantesca ABA CBC DED FEF...
La terzina, che ha di solito la rima incatenata (ABA
BCB) e rappresenta il metro caratteristico della poesia didascalica e
della poesia allegorica a cui appartiene anche la Divina
Commedia di Dante,
è formata da una strofa di tre versi.
Nella terzina vengono usati più frequentemente gli endecasillabi (Giovanni Pascoli,
costruendo terzine di novenari, interruppe la tradizione) dove il primo verso
rima con il terzo e nella successione delle terzine il secondo verso rima con
il primo della terzina che segue. In alcuni autori dell’Ottocento e del
Novecento la rima può non essere incatenata, come nel Pascoli di Myricae.
[70]
Quartina - La quartina, per lo più a rima incatenata (ABAB) o incrociata (ABBA) è
una strofa composta da quattro versi che, come la terzina, può vivere autonomamente.
Si possono cioè avere componimenti di sole quartine come nel caso della poesia Diana di Mario Luzi che è composta da
quattro quartine che seguono lo schema
ABAB/CDED/FGFG/HILI.
I
versi che compongono la quartina di solito sono dello stesso metro e si hanno
così quartine composte di 4 endecasillabi o di 4 settenari. Sono state adottate
soluzioni differenti solamente da quei poeti che hanno voluto imitare strofe di
origine greco-latina. Un esempio ne è la strofa saffica che è composta da tre
endecasillabi e un quinario, oppure la strofa
alcaica composta di due doppi quinari,
da un novenario e da un decasillabo.
[71] Sestina . La sestina è
una strofa di sei versi di cui i primi quattro versi a rima alternata (ABAB) e
gli altri due a rima baciata (CC). Essa si distingue in
·
sestina narrativa, composta da due distici a rima
alternata o incrociata e da un distico a rima baciata (ABABCC;ABBACC) che viene
spesso usata per gli argomenti leggeri e scherzosi
·
Sestina Lirica che è una variante della canzone con una struttura complessa che
prevede sei stanze a strofe
incatenate e parole-rima interamente ripetute.
La sestina
fu creata dai poeti provenzali e fu introdotta in Italia da
Dante e da Francesco Petrarca, fu usata nei canzonieri del Cinquecento e Seicento e
nelle raccolte dell’Arcadia, è infine
usata nel Novecento da Gabriele
D’Annunzio, da Giuseppe Ungaretti,
da Franco Fortini.
[72] Ottava - L’ottava è una
strofa di otto versi di cui i primi sei versi a rima alternata e gli ultimi due
a rima baciata è il metro della poesia
narrativa e in particolare dei poemi
epico-cavallereschi, come l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto e la Gerusalemme
liberata di Torquato Tasso.
L’ottava, di cui si attribuisce l’invenzione a
Giovanni Boccaccio che la utilizzò per primo in uno dei suoi poemi, visse il
suo periodo più felice tra il Trecento ed il Seicento e fu successivamente
ripresa, anche se solo occasionalmente, da Giuseppe Giusti, da Niccolò Tommaseo
e da Gabriele D’Annunzio.
[73] Strofa libera - Si dice strofe
libera, quella in cui i versi non hanno un numero fisso, non sono legati
dal ricorso regolare della rima, o che presenta variazioni nel numero delle
sillabe del verso e nella loro disposizione.
[74]
Le canzoni di gesta – Le canzoni
di gesta si sviluppano in cicli (insieme di componimenti in sé
conclusi, ma collegati fra loro e con la presenza degli stessi
personaggi) incentrati sulle imprese e sulle vicende storiche che hanno
avuto per protagonisti i membri di un casato (gesta ha il significato sia
di «impresa» sia di famiglia).
I
cicli che ci sono pervenuti risalgono al periodo 1050-1200, ma spesso erano
rielaborazioni di componimenti precedenti trasmessi per via orale.
I
principali sono: “ciclo delle gesta imperiali”, racconta le imprese
dei re di Francia e in particolare di Carlo Magno e dei suoi
paladini; ad esso appartiene la canzone più famosa e più bella:
la Chanson de Roland attribuita a un poeta, Turoldo, di cui non si
hanno notizie. Si tratta del ciclo di canzoni di gesta che ebbe più ampia
diffusione, anche per la risonanza del protagonista, per il fascino delle
figure dei paladini (Orlando, Rinaldo, Olivieri, il traditore Gano), per la
forte carica ideologica che esprimevano attraverso l’esaltazione della
guerra santa contro gli infedeli; “ciclo delle gesta di Willame conte
d’Orange”narra, trasfigurandole, le gesta di un personaggio storico, il conte
d’Orange, che secondo la leggenda difese la Francia dalle invasioni saracene
nel secolo VIII; il “ciclo delle gesta dei ribelli”, reca la memoria delle
lotte interne al mondo feudale, della ribellione dei feudatari
senza terra, della lotta per l’ereditarietà dei feudi.
[75]
La
canzone di Orlando – La “Canzone di Orlando” (Chanson de Roland) è
un poema epico di 4000 versi in francese antico, probabilmente composto nel
secolo XI, forse da un monaco di nome Turoldo, del quale si conosce solo il
nome, come si può dedurre dal codice di Oxford, attraverso il quale è giunto
fino a noi il testo dell'opera: Turoldo era presumibilmente un uomo di chiesa,
ottimo conoscitore dei testi classici e della tradizione cristiana.
È
la più antica e la più famosa delle “chanson de geste”, dedicate alla lotta tra
la Francia cristiana e la “Paganìa”, cioè il mondo musulmano rappresentato come
politeistico, idolatra, malvagio e nemico di Cristo.
La
Chanson de Roland narra la lotta di Carlo Magno contro i Saraceni, e in
particolare l’eroica battaglia di Roncisvalle, divenuta nel Medioevo un simbolo
immortale.
Dopo
aver conquistato tutta la Spagna salvo Saragozza, Carlo Magno accetta l’offerta
di tregua di Marsilio, re dei Saraceni, e invia suo nipote, il coraggioso
paladino Orlando, a trattare la pace.
Al
ritorno, Orlando guida la retroguardia che, per il tradimento di Gano di
Maganza, è assalita dai nemici, molto più numerosi: sconfitto, muore, non prima
di aver spezzato la propria spada perché non cada in mano ai Mori.
Alla
sua morte, Turpino, vescovo-cavaliere, suona l’olifante, il grande corno
ricavato da una zanna di elefante, perché Carlo Magno giunga a vendicare la
morte dei suoi paladini.
L’imperatore
accorre, sia pur troppo tardi, e sconfigge i Saraceni: il traditore Gano è
impiccato e squartato.
Questo
il racconto della Chanson de Roland, ma la realtà storica è ben diversa: nel
778 Carlo Magno, avendo ricevuto offerte di pace da alcuni sovrani arabi in
disaccordo con i loro alleati, guidò due grandi eserciti contro Saragozza. Il
piano fallì e Carlo Magno, riattraversando i Pirenei, cadde nell’imboscata tesa
da una popolazione basca che, dopo avergli inflitto gravi perdite, si ritirò
con una rapida fuga prima che le forze imperiali potessero organizzare una
reazione efficace.
L’epopea
di Roncisvalle, con la sua elementare e forte tragicità, ebbe un peso rilevante
nel momento in cui la dinastia carolingia si sfasciava e la Francia viveva
nuovamente sotto l’incubo dei barbari.
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