Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

mercoledì 4 gennaio 2017

Classe II - Grammantologia - Modulo III - Umità 14 - 15

XIV UNITÀ
Riflessione sulla lingua La sillaba - La sillaba è la più piccola combinazione di suoni o fonemi, in cui può essere scomposta una parola. Essa si pronuncia con un’unica emissione di voce.
Una sillaba può essere composta:
·         da una vocale (A-o-sta)
·         da un dittongo (uo-vo)
·         da un trittongo (a-iuo-la)
·         da una o più consonanti seguite o precedute da una vocale o da un dittongo  (ma-ti-ta, fiu-me, al-ber-go)
1.      Ogni sillaba deve avere almeno una vocale:
Es.: a-mi-che-vol-men-te
2.      Una vocale o un dittongo, posti all’inizio di una parola e seguiti da una consonante, costituiscono una sillaba:
Es.: o-ra-rio, au-gu-rio
3.      Le vocali dei dittonghi e dei trittonghi non si dividono mai:
Es.: mie-le, a-iuo-la
4.      Una consonante semplice forma una sillaba con la vocale e il dittongo che la seguono: Es.: co-ro-na, piu-ma,
5.      Le consonanti doppie e quelle del gruppo cq si dividono tra due sillabe:
Es.: ap-pal-lot-to-la-re, ac-qua

Riflessione sulla lingua La divisione in sillabe – Oggi la scrittura al computer ha semplificato le cose poiché i comuni programmi di videoscrittura non spezzano le parole in fine riga, sembra inutile conoscere le regole della divisione in sillabe.
Ma quando, nello scrivere a mano, dobbiamo andare a capo è necessario dividere le parole, non possiamo farlo a caso: è necessario conoscere delle precise regole, quelle della divisione in sillabe.
In ogni caso, nella scrittura di libri e giornali la conoscenza di tali regole è essenziale.
I digrammi e i trigrammi, gruppi di lettere che formano un solo suono, non si dividono mai.
Essi sono:
1
gl + i
Es.: e-gli
2
gn + vocale
Es.: gno-mo
3
sc + le vocali e, i
Es.: sce-na, sci-vo-lo
4
ch + le vocali e, i:
Es.: chi-mi-co, o-che
5
gh + le vocali e, i
Es.: ru-ghe, a-ghi
6
ci e gi + le vocali a, o, u
Es.: ca-mi-cia, mi-cio, gio-va-ne, giu-sto
7
gli + vocale
Es.: a-glio, mo-glie
8
sci + vocale
Es.: li-scio, a-sciu-ga-re
1. I gruppi formati da  due o tre differenti consonanti + una vocale costituiscono una sillaba, se con questo insieme di lettere può iniziare una parola della lingua italiana:
Es.: re-cla-mo, a-pri-re, a-stra-le, re-cri-mi-na-re, pro-ble-ma.
2. Gli insiemi di due o tre consonanti che non potremmo mai trovare all’inizio di una parola italiana: rt, cn, lt, mbr, nfr, e così via, devono essere divisi tra due sillabe, come negli esempi seguenti: 
Es.: cor-to, tec-ni-co, al-to, om-bra, in-fran-ge-re.
3. La s seguita da una o più consonanti forma generalmente una sillaba con la vocale seguente, non con quella che la precede:
Es.: a-stro, ri-spon-de-re, di-sprez-zo.
4. Nelle parole composte, nelle quali il primo elemento termina per i e il secondo elemento comincia per vocale, l’insieme delle vocali risultante da tale unione non deve essere considerato un dittongo e va diviso tra due sillabe:
Es.: chi-un-que, ri-e-du-ca-re
5. I prefissi come dis-, tras-, trans-, in-, ben-, mal- possono essere separati dalla radice e formare una sillaba a sé oppure divisi, secondo le regole generali della divisione in sillabe:
Es.: dis-a-bi-ta-to oppure di-sa-bi-ta-to,
tras-por-ta-re  oppure tra-spor-ta-re,
mal-in-ten-zio-na-to oppure ma-lin-ten-zio-na-to
Oggi, però, si tende a seguire le regole generali e prevale la seconda delle possibilità.

Riflessione sulla lingua. Sillabe con dittonghi e trittonghi. Lo iatoIl dittongo è l’unione nella stessa sillaba di due vocali: quando una a, una e oppure una o, dette vocali forti, si incontrano con una i o una u, dette vocali deboli, e quando si incontrano due vocali deboli si crea un dittongo.
Nel dittongo le vocali non devono essere mai divise tra due sillabe:
Es.: a-ria, spe-cie, uo-vo, au-to, fiu-me, fiu-to
Il trittongo si forma dall’unione di tre vocali: due deboli, una forte.
Come nel dittongo, anche nel trittongo le vocali che lo costituiscono non possono essere mai separate:
Es.: a-iuo-la
Per iato nella grammatica italiana si intendono due fenomeni letteralmente distinti:
1 Si considera iato l’incontro di due vocali forti con l’accento sulla prima vocale;
2 Si considera iato l’incontro di due vocali forti con l’accento sulla seconda, oppure l’incontro di una vocale forte con una debole, la quale è però accentata.
Nello iato le vocali fanno parte di sillabe differenti:
Es.: zì-o, pa-ù-ra, ma-e-stra,  po-e-ta

Educazione letteraria. Il  metro - Il metro è l’unità di misura dei versi che si classificano in base al numero delle sillabe di cui sono composti e possono variare da due a sedici.
Si hanno dieci tipi di versi, di cui cinque parisillabi (2, 4, 6, 8, 10 sillabe) e cinque imparisillabi (3, 5, 7, 9, 11 sillabe).
Alcuni poeti sporadicamente hanno usato versi costituiti da un numero di sillabe più alto.
Es.:  E ammirami per il mio calore e per la mia fede: mentre io ti parlerò di Percy l’arcangelo e di Walt Whitman, un uomo,... (A.de Bosis, Giovine che mi guardi parlare, v 13) costituito di 35 sillabe.
Alto è il muro che fiancheggia la mia strada, e la sua nudità rettilinea si prolunga nell’infinito. (A. Negri, Il muro, v 1) costituito di 30 sillabe.
E berrà del suo vino, torchiato le sere d’autunno in cantina (C. Pavese, Atlantic Oil, v 32) costituito di 19 sillabe.
Essi sono:
·         bisillabo[1]
·         ternario[2]
·         quadrisillabo[3]
·         quinario[4]
·         senario[5]
·         settenario[6]
·         ottonario[7]
·         novenario[8]
·         decasillabo[9]
·         endecasillabo[10]
Si dicono doppi i versi uguali, in coppia nella stessa riga, interrotti da una pausa o cesura. Essi sono:
·         Doppio quinario[11];
·         Doppio senario[12];
·         Doppio settenario[13] (o martelliano o alessandrino)
·         Doppio ottonario.
Strettamente legate al metro del verso sono le figure metriche.
Le figure metriche sono fenomeni sillabici, tipici della poesia, che non comportano alterazioni grafiche, ma solo una diversa modalità di lettura, ai fini del computo sillabico del verso.
Esse sono:
·         Dialefe[14]
·         Dieresi[15]
·         Sinalefe[16]
·         Sineresi[17]

Educazione letteraria Figure fonetico-sillabiche – Un altro fenomeno fonetico come il metaplasmo, al pari della dieresi, la sineresi, la dialefe e la sinalefe, possono avere una rilevanza metrica cioè possono essere utilizzate per ottenere l’esatta misura del verso.
Le figure di metaplasmo (dal verbo greco μεταπλάσσω, "trasformare") è un cambiamento nell'aspetto sonoro o grafico di una parola.
Esse possono designare l'aggiunta (prostesi, epentesi, epitesi), la soppressione (aferesi, apocope,
sincope) elementi grafici o sonori.
Esse sono:
·         afèresi[18]
·         pròstesi[19]
·         apòcope[20],
·         epítesi (o paragòge)[21].
·         sìncope[22]
·         epèntesi[23]

Una cena di Alboino re a. D. 572
Di Giovanni Prati
Nel 572, dopo circa tre anni di assedio, Pavia si arrese ed Alboino fece il suo ingresso trionfale nella città per la porta di S. Giovanni, sopra un superbo cavallo. Ma nello stesso anno 572 (o come altri vogliono nel 573) trovò la morte, il cui racconto è giunto sino a noi, nelle pagine degli storici, nei più minuti particolari.
Secondo la narrazione di Paolo Diacono, verso la fine di un banchetto, cui avevano partecipato i suoi generali, Alboino, riempita di vino una tazza formata col teschio di Cunimondo (padre della moglie e ucciso dallo stesso Alboino), la porse alla moglie Rosmunda invitandola a bere "in compagnia di suo padre".
Rosmunda bevve, ma giurò in cuor suo un'atroce vendetta.
Accordatasi con Elmichi, di cui era l' amante, decise di uccidere il marito. Elmichi era fratello di latte del re e, non volendo macchiarsi di sangue fraterno o non avendo il coraggio di trucidare Alboino, consigliò alla regina di rivolgersi a un sicario, a Peredeo, prode guerriero di stirpe gepida, che era a sua volta l'amante d'un'ancella di Rosmunda.
Ma neppure questi volle accettare. La regina lo costrinse al delitto mediante un audacissimo stratagemma. Preso il posto dell'ancella, diede convegno a Peredeo, poi, fattasi riconoscere lo minacciò di svelare al re quanto era avvenuto tra loro. Soltanto allora Peredeo cedette; e il piano criminoso fu stabilito.
Un pomeriggio, essendosi Alboino, dopo copiose libagioni, addormentato, Rosmunda legò la spada che stava appesa al capezzale, in modo da non potersi sfoderare, poi fece entrare furtivamente nella camera Peredeo, il quale, avventatosi sul re che, svegliatosi tentava di difendersi, lo uccise.

Fervean di canti, fervean di suoni
di re Alboino l’ampie magioni;
e, in mezzo ai duchi giunti al convegno
dal vasto regno,
sparsa di gemme, lucente d’oro,
di quelle mense fregio e decoro,
più dell’usato bella e gioconda,
sedea Rosmonda.

Gli orli spumanti di vino eletto,
volan le tazze per il banchetto;
fumosa ai capi l’ebrezza ascende;
e trema e splende
di fosca luce l’occhio regale
come la punta del suo pugnale;
scoppian le risa, lunghe e feroci
stridon le voci.

Disser di queste belle contrade
oppresse e vinte dalle lor spade;
plausero a questi colli vestiti
di tante viti.
Fragili fiori più che colonne
chiamâr, codardi! le nostre donne;
le disser liete, superbe e belle,
Ma tutte ancelle!

E al vil susurro dell’orgia rea
Rosmunda bella forse gemea,
per colpe orrende non ancor fatta
di quella schiatta.
- Prenci e baroni, paggi e scudieri,
ecco il più bello de’ miei pensieri. –
(Così, nell’ebro furor del vino,
parla Alboino).

- Vedete questa, che ho qui d’accanto,
lieta, superba? che mi ama tanto?
La vera gemma quest’è, per Dio,
del serto mio.
Vuoi tu trapunta d’oro ogni veste?
Trecento all’anno banchetti e feste?
Ricca è l’Italia, ma ricca assai:
chiedi, ed avrai.

Ma, poichè denno questi miei prodi
nei lor castelli dir le tue lodi,
e notte e giorno render gelose
fanciulle e spose;
sien dunque istrutti d’ogni tuo merto.
Che tu sei buona, frate Roberto
l’ha predicato. Che tu sei casta,
io ‘l dico, e basta!

Agil di forme, sottil di piede,
che tu sei bella, ciascun lo vede.
Or via, Rosmunda, dà loro un saggio
del tuo coraggio. -
E a lei porgendo con un sorriso
il nudo teschio del padre ucciso:
- Or via, Rosmunda, forte esser devi:
Rosmunda, bevi!

Per me il suo sangue, per te il mio vino;
bella Rosmunda, questo è destino:
tu l’hai baciato prima ch’ei mora;
bacialo ancora.
E tu, spolpato re Cunimondo,
addio. Tu vieni dall’altro mondo.
Ecco la stella di mia famiglia:
bacia tua figlia. -

Del re briaco piacque lo scherno,
e un lungo eruppe plauso d’inferno.
- Re Cunimondo, bene arrivato!
Dove sei stato?
Perchè la mano più non ci tocchi?
Per Dio, che avvenne? Tu hai perso gli occhi!
Oh sconsacrato figliuol di Roma,
dove hai la chioma?…

Real cugino, lancia smarrita,
dammi novelle dell’altra vita.
Poi di due cose rendimi istrutto,
tu che sai tutto.
Pingui di cibo, scarsi di guerre,
starem molt’anni su queste terre?
E a quali patti Dio ce la dona
questa corona?

Ospite bianco mutolo e cieco,
bacia la rosa ch’io tengo meco,
ve’ che i tuoi baci pallida aspetta
la poveretta. -
E il re briaco, così dicendo,
giocherellava col teschio orrendo;
e a lei, che gli occhi fremendo torse,
ratto lo porse.

- Ferma, Alboino, da’ labbri miei
la prova infame voler non dèi.
- Bevi, Rosmunda; non più parole!
Così si vuole. -
Bevea Rosmunda. Ma con lo sguardo
Parea dicesse: – Re longobardo,
se la vendetta qui non mi langue,
berrò il tuo sangue! -

E dopo un anno da quel convito,
dormiva solo l’ebro marito.
Aprì una notte l’erma sua cella
Rosmunda bella…
E con un forte vago soldato
il regicidio fu patteggiato…
Ed ecco all’alba sommessamente
Picchiar si sente.

- Sei tu, Almachilde? – Son io. – Che porti? -
- Che un lungo sonno dormono i morti! -
Ond’ella, tratto l’aspro cimiero:
dal suo guerriero:
- Questa corona, dolce mio bene,
questa corona più ti conviene.
Ella era turpe; rendila degna;
baciami, e regna. –

Se iniqua storia vi raccontai,
quello ch’è storia non cangia mai.
Nel torbid’evo, quando l’Italia
fu data a balia,
di casi atroci ne avvenner molti:
ma ai nostri tempi, civili e colti,
spose e mariti, popoli e troni
son tutti buoni.

La guerra tra franchi e longobardi e il volgo disperso a. D. 774
·         L’atto III si chiude con un coro che interrompe l’azione della tragedia nel momento in cui l’esercito franco, aggirate le difese longobarde allo sbocco della Val di Susa, ha invaso la pianura, mettendo in fuga i longobardi. Nel coro si confrontano drammaticamente i vecchi padroni (i longobardi) e i nuovi (i franchi), ma il centro d’interesse è costituito dalle reazioni del popolo latino, ovvero gli italiani, alla notizia della sconfitta degli oppressori.
·         Il coro è un esempio di poesia storica di ambientazione medioevale, secondo il gusto romantico, che recupera sia l’evocazione storica sia il richiamo al Medioevo come radice del presente. Manzoni ricostruisce i pensieri e i sentimenti dei tre popoli protagonisti: il risvegliarsi dei latini tra speranza e timore, lo sgomento dei longobardi preoccupati per la prospettiva della sconfitta, la nostalgia per la patria e nel contempo la speranza di conquista dei franchi. Ma l’attenzione è rivolta, più che ai due popoli contendenti, alla sorte di quel volgo disperso, privo di unità, di libertà e di coscienza nazionale, ignorato dalla storia ufficiale: al comportamento di quella immensa moltitudine, che di solito non lascia traccia nel teatro della storia, Manzoni riserva uno spazio nel «cantuccio» del coro. Il componimento si può suddividere in quattro parti che alternano descrizione, narrazione e riflessione.
·         Forma metrica: undici strofe di sei versi dodecasillabi (versi di dodici sillabe con l’ultimo accento sull’undicesima) o doppi senari (versi di sei sillabe), di cui il terzo e il sesto tronchi, rimati secondo lo schema: AAB, CCB. Ciascun dodecasillabo è formato da due senari: si tratta di un verso raro nella poesia italiana, usato da Manzoni in questo coro in quanto adatto al ritmo epico.

Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti,
dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
dai solchi bagnati di servo sudor,
un volgo disperso repente si desta;
intende l’orecchio, solleva la testa
percosso da novo crescente romor[24].

Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
qual raggio di sole da nuvoli folti,
traluce de’ padri la fiera virtù[25]:
ne’ guardi, ne’ volti confuso ed incerto
si mesce e discorda lo spregio sofferto
col misero orgoglio d’un tempo che fu[26].

S’aduna voglioso, si sperde tremante,
per torti sentieri, con passo vagante,
fra tema e desire, s’avanza e ristà;
e adocchia e rimira scorata e confusa
de’ crudi signori la turba diffusa,
che fugge dai brandi, che sosta non ha[27].

Ansanti li vede, quai trepide fere,
irsuti per tema le fulve criniere,
le note latèbre del covo cercar[28];
e quivi, deposta l’usata minaccia,
le donne superbe, con pallida faccia,
i figli pensosi pensose guatar[29].

E sopra i fuggenti, con avido brando,
quai cani disciolti, correndo, frugando,
da ritta, da manca, guerrieri venir[30]:
li vede, e rapito d’ignoto contento,
con l’agile speme precorre l’evento,
e sogna la fine del duro servir[31].

Udite! Quei forti che tengono il campo,
che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
son giunti da lunge[32], per aspri sentier:
sospeser le gioie dei prandi festosi[33],
assursero in fretta dai blandi riposi[34],
chiamati repente[35] da squillo guerrier.

Lasciar[36] nelle sale del tetto natio
le donne accorate[37], tornanti all’addio[38],
a preghi e consigli che il pianto troncò:
han carca la fronte de’ pesti cimieri,
han poste le selle sui bruni corsieri,
volaron sul ponte che cupo sonò[39].

A torme, di terra passarono in terra[40],
cantando giulive[41] canzoni di guerra,
ma i dolci castelli[42] pensando nel cor:
per valli petrose, per balzi dirotti[43],
vegliaron nell’arme le gelide notti,
membrando i fidati colloqui d’amor[44].

Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
per greppi senz’orma le corse affannose,
il rigido impero, le fami durâr[45];
si vider le lance calate sui petti;
a canto agli scudi, rasente agli elmetti,
udiron le frecce fischiando volar.

E il premio sperato, promesso a quei forti,
sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
d’un volgo straniero por fine al dolor[46]?
Tornate alle vostre superbe ruine[47],
all’opere imbelli[48] dell’arse officine,
ai solchi bagnati di servo sudor.

Il forte si mesce col vinto nemico[49],
col novo signore rimane l’antico;
l’un popolo e l’altro sul collo vi sta[50].
Dividono i servi, dividon gli armenti[51];
si posano insieme sui campi cruenti
d’un volgo disperso che nome non ha[52].

ANALISI E COMMENTO
Lo sviluppo tematico
1-18 La prima parte del coro descrive le paure e le incertezze dei latini sullo sfondo di una patria in rovina. 19-30 La seconda rappresenta il dinamismo dei longobardi in fuga dinanzi all’incalzare dei franchi e il punto di vista del popolo latino, che osserva la battaglia e spera in una soluzione positiva per sé. 31-54 La terza narra la condizione dei guerrieri franchi, che hanno sopportato fatiche e disagi per conquistare la vittoria. 55-66 La quarta parte, di tono riflessivo, contiene l’esortazione del poeta ai latini: facciano ritorno al lavoro servile, due padroni si divideranno le ricchezze di un volgo privo di dignità e di virtù. Solo questo può essere il triste destino di chi non conquista autonomamente la propria libertà. Poesia storica e messaggio politico Manzoni attualizza il passato, di conseguenza il motivo storico si fonde con il messaggio politico. Il poeta, con un’amara esortazione ai latini (Udite!, v. 31), evidenzia la vanità delle loro speranze, ma i destinatari reali del suo ammonimento sono gli italiani suoi contemporanei, affinché non contino sull’aiuto dello straniero ma prendano in mano le proprie sorti per il Risorgimento nazionale.
Ritmo, lessico e sintassi
È significativa la scelta metrica del coro: il dodecasillabo con la sua ampiezza e una pausa fissa a metà verso crea un ritmo• fortemente scandito, da poesia epica. La metrica è in accordo con la sintassi: il periodo non oltrepassa mai la misura della sestina (strofe di sei versi), che si chiude sempre con un punto fermo. Le proposizioni paratattiche e coordinate per asindeto (senza congiunzione) di solito coincidono con la misura del verso e si susseguono con simmetria mediante una serie di anafore•, che costruiscono una facile scansione ritmica. È evidente la tendenza manzoniana a creare una poesia «popolare» (nel significato romantico del termine), che coinvolga con immediatezza il lettore borghese. Solo il lessico tende a essere colto e ricco di latinismi (tema, desire, brandi, fere, latèbre, speme, prandi, membrando, volgo, perigli, ruine).
LAVORIAMO SUL TESTO
1. Italiani e latini. Quale esortazione il poeta rivolge ai latini? Quale analogia si riscontra tra la condizione politica dei latini e quella degli italiani?
2. I destinatari. Quali sono i reali destinatari del messaggio?
3. Significato politico. Quale significato politico Manzoni attribuisce all’espressione volgo disperso che nome non ha?
4. I longobardi. Come sono caratterizzati i longobardi e la loro fuga?
5. I franchi. Come sono presentati i franchi nelle strofe 6-9?
6. Le figure retoriche. Individua le figure retoriche presenti nei seguenti versi 2; 13; 19; 20.
7. Gli umili. Gli umili descritti dal Manzoni non sono solo oppressi, ma anche incapaci di agire: in quale punto del brano emerge questa impressione di debolezza?

Giovanna Angelica ovvero Papa Giovanni  VIII? A. D. 855
(di M. Marietti)
Nessuno può e forse potrà mai dire, se la leggenda della papessa Giovanna sia vera, se ella sia veramente esistita o se sia stata solo frutto dell’immaginario popolare romano medioevale (siamo infatti nell’IX secolo), o se sia stata originata dalla critica antipapale di quel tempo. È comunque assodato che questo insieme di fattori diede origine al suo mito.
Ma cerchiamo ora (senza pretese di assolute verità) di raccontare la storia di questa donna “vissuta” più di 1200 anni or sono.
La papessa Giovanna era un’intelligente fanciulla di nome Giovanna Angelica che, rimasta orfana in tenera età, volle con caparbietà emergere dal niente che la vita le avrebbe altrimenti riservato a quei tempi, in cui molto era vietato alle donne.
Ma procediamo per gradi, le prime notizie su di lei appaiono nell’anno 1250 ad opera del domenicano Jean de Mailly nella sua Cronica Universalis, dove narrava che la giovane fanciulla di nome Giovanna Angelica seguì – sotto mentite spoglie (per prudenza) – un monaco; con lui andò in oriente, da lui apprese molte nozioni e si erudì. Alla  morte del monaco la giovane, grazie al suo impegno, divenne prima notaio della curia e, di seguito, cardinale ed infine addirittura Papa.
Ma il suo pontificato durò solo pochi anni, dall’ 853 all’855 collocandosi tra Papa Leone IV e Papa Benedetto III.
Durò così brevemente perché (si narra), con l’elezione a Papa, dove prese il nome di Giovanni VIII, le venne assegnato, come da procedura, un giovane prete che svolgeva la mansione di segretario, il quale essendo sempre a stretto contatto con il novello Papa, non tardò a scoprirne la vera identità, ma invece che denunciare la scoperta alle autorità ecclesiastiche ne divenne prima complice e successivamente amante.
L’inganno venne alla luce durante la processione di Pasqua perché la folla – che entusiasta si accalcava attorno al Papa – ne fece imbizzarrire il  cavallo, Lei, per lo sforzo fatto per trattenere la cavalcatura e non cadere, ebbe le doglie e partorì prematuramente un bambino. Evidentemente era incinta e da molti mesi, tenuti ben nascosti.
Scoperto quindi il suo segreto, la folla inferocita la prese e, legatole i piedi al cavallo (alcune fonti dicono che con lei venne legato anche il piccolo neonato), la fece trascinare per le strade e la lapidò fino alla morte nei pressi di Ripa Grande a Roma.
Si dice che la Papessa Giovanna sia stata sepolta tra via San Giovanni in Laterano e via San Pietro in Vaticano;  il suo successore Benedetto III ebbe l’accortezza di far cancellare il suo nome dalle registrazioni storiche.
A Roma, dove la strada fa angolo tra via dei SS Quattro Incoronati e via dei Querceti, si localizzerebbe ancor oggi il “Sacello” nel punto dove venne sepolta, chiuso da una inferriata e lasciato ad un pietoso stato di abbandono.
Attorno a questa leggenda sono fiorite notizie curiose ed altre che si contraddicono, dividendo i vari storici in estimatori e detrattori del personaggio della Papessa.
Un fatto curioso è quello riferito al fatto che – da quell’imbarazzante episodio – ogni novello aspirante al soglio pontificio, prima di potervi salire, doveva sottoporsi ad una sorta di 'prova del nove' per verificarne il sesso maschile: sedeva su di una particolare sedia detta “stercoraria” avente la caratteristica di essere dotata di un foro centrale sulla seduta, attraverso il quale dei giovani diaconi constatavano manualmente la presenza degli attributi maschili. Proclamavano poi, a gran voce: “ virgam et testiculum habet”  che tradotto significa “ha il pene e i testicoli ”. Dopo di che avveniva l’elezione.
I detrattori affermano invece che la sedia in questione risulta essere molto antecedente alla papessa, addirittura di età costantiniana; veniva usata dai papi, insieme ad uno o forse altri due esemplari, per mettere in risalto le loro pretese imperiali (tale sedia – così descritta col foro centrale – è attualmente usata in campo sanitario per i bisogni corporali dei malati infermi. Il nome 'stercoraria' sta appunto ad indicare che anche allora doveva essere usata per funzioni simili, dai papi).
Viene affermato anche che la processione di Pasqua non passava per il percorso in cui avvenne il fatto, sempre secondo la leggenda, e che alla morte di papa Leone IV, il suo successore venne eletto dopo pochi giorni. Non vi sarebbe stato uno spazio cronologico per un eventuale papa Giovanni VIII.
Si deve altresì dire che il Boccaccio menziona la figura della Papessa nel suo “De mulieribus claris” nel capitolo 101.
Qualcuno afferma anche che il suo nome è presente nel duomo di  Siena nell’elenco dei papi. Ma dove?
Tra tutta questa serie di smentite e di ammissioni sulla presunta esistenza di un tal personaggio, può benissimo esserci un anello di raccordo tra verità e fantasia. Se pensiamo al periodo storico della vicenda il tutto può essere immaginato come un voler dare al popolo una storia, un mito, una leggenda, che abbia imbrigliato, canalizzato la mente,  facendole perdere di vista la propria misera condizione.
Per finire questa esposizione, che penso incuriosirà alcuni di voi, voglio porre una domanda. Se tale persona fosse esistita e se fosse riuscita nel suo intento fino in fondo, cioè se avesse condotto un pontificato buono ed equo, da suscitare ammirazione, il mondo ecclesiastico si sarebbe ricreduto sulle capacità femminili? Prima o dopo, infatti, se fosse morta in modo naturale, ci si sarebbe comunque avveduti che era una donna (o avrebbero nascosto il tutto?).
Lo scandalo creato dalla figura di una eventuale papessa, per di più incinta, sarebbe enorme ancor oggi, se ci pensiamo, nonostante siano trascorsi dodici secoli. La Chiesa di Roma non ha infatti riconosciuto la figura femminile nemmeno come prete, vescovo o cardinale, figuriamoci papa. Ma la storia fa presto a dimenticare che in passato alcuni papi (maschi) hanno avuto amanti e perfino figli. Questo, visto dalla parte della Chiesa, non è grave allo stesso modo?
Tornando alla figura della Papessa, la ritroviamo come II figura dei Tarocchi, come simbolo di sapienza. Prossimamente mi piacerebbe tornare sull'argomento, con nuovi dati.
XV UNITÀ
Riflessioni sulla lingua. Elisione e troncamento – Per evitare suoni di difficile articolazione spesso togliamo la vocale a fine parola (quando non è accentata) nel caso in cui la parola successiva inizi anch’essa per vocale.
L’elisione ed il troncamento di un’intera sillaba si segnano con l’apostrofo[53].
Es.:      un’altra invece di una altra
po’ invece di poco
vo’ invece di voglio
di’ invece di dici
Elisione e troncamento sono fenomeni legati all’incontro di due parole, esistono però anche dei casi in cui vi è la caduta della vocale o della sillaba finale di una parola, indipendentemente dall’incontro con altre parole.
Per indicare la perdita è necessario mettere un segno d’apostrofo, i casi più diffusi sono:
1
sta’ = imperativo di stare.
Es. Sta’ fermo!
2
fa’ = imperativo di fare.
Es. Fa’ i compiti!
3
da’ = imperativo di dare.
Es. Da’ la mancia a Mirko!
4
di’= imperativo di dire.
Es. Di’ quello che pensi!
5
va’ = imperativo di andare.
Es. Va’ a prendere il quaderno!

Riflessioni sulla lingua. Riflessioni sulla lingua. Elisione – L’elisione[54] consiste nella soppressione della vocale finale atona di una parola dinanzi alla vocale iniziale della parola seguente per ragioni eufoniche ed al posto della vocale caduta si mette un apposito segno, l’apostrofo.
Riflessioni sulla lingua. Riflessioni sulla lingua. Troncamento – Il troncamento[55] o apocope[56] rappresenta la caduta di uno o piú suoni atoni in fine di parola davanti ad un’altra parola iniziante sia per vocale sia per consonante per ragioni eufoniche e/o di brevità.
Perché il troncamento sia possibile, la lettera che precede la vocale o la sillaba da eliminare deve essere una delle seguenti: l – m –n – r.
Non si esegue mai il troncamento quando la parola che segue inizia con s impura, z, gn, ps.

Educazione letteraria. Rima - La rima è l’omofonia, ossia l’identità dei suoni, tra due o più parole a partire dall’ultima vocale accentata, e si verifica per lo più tra le clausole dei versi di un componimento (altrimenti, essa si definisce rima interna).
Nell’analisi metrica, i versi che rimano tra loro sono indicati mediante la stessa lettera.
A seconda del loro schemi rimico, le rime si distinguono in:
·         Baciata[57]
·         Alternata[58]
·         Incrociata[59]
·         Incatenata:
·         Ipermetra[60]
·         Ipermetra[61]
Oltre alla rima acquistano grande valore le cosiddette figure fonetiche che riguardano la ripetizione o il parallelismo dei suoni.
Le figure fonetiche sono:
·         Allitterazione[62]
·         Assonanza[63]
·         Consonanza[64]:
·         Onomatopea[65]
·         Paronomasia[66]
·         Enjambement[67]

Educazione letteraria. Strofa - La strofa o strofe è l’insieme di più versi, di numero e di tipo fisso o variabile, organizzati secondo uno schema e formanti un periodo ritmico, seguito da una pausa in genere ripetuto più volte.
Per poter definire i vari tipi di strofe occorre prendere in considerazione sia la successione delle rime sia il numero dei versi. La strofa può quindi essere considerata un sistema ritmico, stabilito dalla combinazione delle rime e dalla struttura metrica dei versi che la compongono. Le combinazioni strofiche possono essere infinite perché esse, pur essendo legate a regole fisse di decodificazione del testo poetico, sono riferibili anche alla capacità di innovazione e alla libertà del poeta.
La strofa è sinonimo di stanza ed i generi metrici, a seconda del numero dei versi,sono dette:
La strofa può quindi essere considerata un sistema ritmico che è stabilito dalla combinazione delle rime e dalla struttura metrica dei versi che la compongono. Le combinazioni strofiche possono essere infinite. Esse sono legate a regole fisse di decodificazione del testo poetico ma anche alla capacità di innovazione e alla libertà del poeta, tant’è con la rivoluzione si diffuse l’uso della strofa libera[73].

La morte di Orlando
Dalla Chanson de Roland
In epoca medievale, quando la civiltà della scrittura entrò in crisi a causa delle invasioni barbariche e della disgregazione dell’impero romano, fiorì nuovamente un tipo di epica, basata su procedimenti propri dell’oralità, che segnò l’inizio delle varie letterature nazionali.
Le “canzoni di gesta” nacquero nell’ambiente dell’aristocrazia feudale: scrit­te in “lingua d’oïl”, trattavano, in componimenti tra i 1000 e 2000 versi, di personaggi e di episo­di leggendari del tempo di Carlo Magno, rivissuti e ricostruiti secondo la mentalità del mondo feudale e della cavalleria, attribuendo al passato remoto i valori della società dei secoli XI e XII:
1. la fedeltà del vassallo al proprio signore
2. l’esaltazione dell’im­presa gloriosa, dell’eroismo e del sacrificio ed anche l’ideologia cristiana della guerra santa contro gli infedeli.
Le storie raccontate nelle canzoni di gesta, raggruppate in cicli[74] si diffusero ampiamente, prima attraverso la trasmissione orale poi in testi scrit­ti, costituirono un patrimonio comune delle culture neolatine e germaniche.
Lo spinto delle Chanson de geste non riflette quello dei secoli VIII e IX, cioè il periodo della formazione del Sacro Romano Impero in cui sono ambientate, ma rappre­senta gli ideali che si vennero consolidando nei secoli successivi, in seguito allo svolgimento delle Crociate, che contrapposero in una lunga lotta Oriente e Occidente. La mancanza di prospet­tiva storica è una caratteristica del Medioevo, come se gli uomini di quel tempo non si rendessero conto della diversità del passato e tendessero ad appiattire gli eventi, attribuendo caratteri­stiche a loro contemporanee: il riferimento al passato eroico dei paladini di Carlo Magno, visti come strenui difensori della cristianità dall'assalto degli infedeli, che rappresentavano nel­l'“immaginario collettivo” il pericolo per eccellenza, divenne importante per autoesaltare la casta guerriera del tempo, in un periodo in cui essa aveva raggiunto la massima espansione.
Il pubblico cui l'argomento delle Chanson de geste doveva essere rivolto era rappresentato principalmente da vassalli guerrieri che, nelle piazze e nelle corti dei nobili, ascoltavano le imprese gloriose di un passato ormai lontano, ma anco­ra interessante per i valori che esprimeva, raccontate da cantori o giullari, spes­so persone di fine cultura, autori essi stessi delle pagine epiche che cantavano.
La letteratura in volgare con l’epica cavalleresca, che trattava delle imprese dei cavalieri ed anche dei loro amori galanti, nacque, infatti, nella corte e sulla vita che lì si svolgeva. La “Chanson de Roland” prima e l’“Ivano” poi sono le opere più rilevanti di questo genere che esaltava le virtù cavalleresche: spregiudicatezza, quindi ricerca dell’avventura per mettersi alla prova, avventure fatta di scontri con altri cavalieri come di incontri con gentili dame.
Si osservi il momento conclusivo della “Canzone di Roland”[75] in cui è narrata la morte di Orlando.
Questo è l’episodio forse più famoso del poema. Il paladino, ferito a morte nella stretta gola di Roncisvalle, avverte che la sua fine è giunta.
Il brano è molto intenso ed emblematico per la commistione tra sacro e guerresco, che si fondono senza alcun contrasto ideologico, secondo il pensiero tipico dell’epica medievale: l’eroe combatte per la patria e per il credo cristiano contro un popolo di infedeli: Orlando ricopre, infatti, il duplice ruolo di paladino fedele all'imperatore, prode in guerra, fautore della gloria di Carlo e della Francia, e di difensore degli ideali cristiani, incarnati nel Sacro Romano Impero.
Nel passo ci sono molti rinvii a questo duplice aspetto del personaggio. In primo luogo, la sua dedizione al sovrano emerge dalla puntigliosa rassegna di tutti i territori conquistati e fedel­mente consegnati all'imperatore; costui è al vertice di una gerarchia sociale, in cui i paladini cre­dono ciecamente; essi combattono, da vassalli, guerre di conquista, che spesso si configurano esse stesse come guerre sante, in nome del trionfo della cristianità contro gli infedeli. Il tema della guer­ra è però in stretta relazione con quello della religiosità: Orlando, campione del suo imperatore, si comporta anche come campione della fede. Nel passo le due dimensioni si mescolano e si contaminano. L’elemento che sembra unirle è la spada Durendala: essa è stata donata da Carlo al paladino come ricompensa per i suoi servigi, ma Dio tramite un angelo l'ha fatta avere a Carlo; inoltre essa, indistruttibile e invincibile, con le reliquie contenute nell'elsa testimonia la fede sincera del mondo feudale che gravita attorno alla figura dei cavalieri cristiani. Orlando stesso, poi, muore da perfetto cristiano, recitando le preghiere degli agonizzanti, chiedendo perdono a Dio e ottenendo un’immediata e visibile salvezza dell'anima.
Se questo era quello che offriva il mondo laico al genere epico, di contro il clero, pur essendo l’unica classe sociale a gestire la parola scritta, non partoriva più solo testi agiografici, che sono considerabili l’“epica” dei valori cristiani: l’agiografia era incentrata sulle vite dei santi, nelle quali erano poste tutte le virtù del perfetto cristiano e la “Canzone di Orlando”, nata in ambiente clericale, presenta le caratteristiche agiografiche arricchite di nuovi valori dettati nella cavalleria.

CLXXIII
Orlando sente che la morte lo invade,
dalla testa sul cuore gli discende.
Sotto un pino se ne va correndo,
sull’erba verde s’è coricato prono,
sotto di sé mette la spada e il corno.
Ha rivolto il capo verso la pagana gente:
l’ha fatto perché in verità desidera
che Carlo dica a tutta la sua gente
che da vincitore è morto il nobile conte.
Confessa la sua colpa rapido e sovente,
per i suoi peccati tende il guanto a Dio.
CLXXIV
Orlando sente che il suo tempo è finito.
Sta sopra un poggio scosceso, verso Spagna;
con una mano s’è battuto il petto:
“Dio! Mea culpa, per la grazia tua,
dei miei peccati, dei piccoli e dei grandi,
che ho commesso dal giorno che son nato
fino a questo giorno in cui sono abbattuto!”.
Il guanto destro ha teso verso Dio.
Angeli dal cielo sino a lui discendono.
CLXXV
Il conte Orlando è disteso sotto un pino,
verso la Spagna ha rivolto il viso.
Di molte cose comincia a ricordarsi,
di tante terre che ha conquistato il prode,
della dolce Francia, della sua stirpe,
di Carlo Magno, suo re, che lo nutrì;
non può frenare lacrime e sospiri.
Ma non vuol dimenticar se stesso,
proclama la sua colpa, chiede pietà a Dio:
“Padre vero, che giammai smentisci,
tu che resuscitasti Lazzaro da morte
e Daniele salvasti dai leoni,
salva l’anima mia da tutti i pericoli
per i peccati che in vita mia commisi!”.
A Dio ha offerto il guanto destro:
san Gabriele con la sua mano l’ha preso.
Sopra il braccio teneva il capo chino;
con le mani giunte è andato alla sua fine.
Dio gli manda l’angelo Cherubino
e San Michele del pericolo del mare;
insieme a loro venne san Gabriele:
portano in paradiso l’anima del conte.



[1] Bisillabo: Il bisillabo o binario è un verso di due sillabe ed ha per forza un solo accento sulla prima sillaba:
es.:          Dopo tanta
Nébbia
a ùna a ùna
si svelano
le stelle
(G. Ungaretti, Sereno, vv 1-6)
[2] Trisillabo - Il trisillabo o ternario è un verso molto raro e di solito si trova inframmezzato a versi più lunghi, in cui l’accento si trova sulla seconda sillaba: quindi, se l’ultima parola è piana comprende tre sillabe, mentre se è tronca o sdrucciola ne ha rispettivamente due oppure quattro.
Es.:         Si tàce,
non gètta
più nùlla.
Si tàce,
non s’òde
romóre
di sòrta,
che fórse…
che fórse
sia mòrta?
(A. Palazzeschi, La fontana malata, vv 26-35)
La mòrte
si scónta
vivéndo
(G. Ungaretti, Sono una creatura, vv 12-14)
[3] Quadrisillabo - Il quadrisillabo o quaternario, non molto comune nella poesia italiana, è un verso di quattro sillabe nel quale l’accento principale si trova sulla terza sillaba: quindi, se l’ultima parola è piana, il verso comprende quattro sillabe, mentre se è tronca o sdrucciola, ne contiene rispettivamente tre oppure cinque.
generalmente Si ha un accento secondario sulla prima sillaba.
Es.:         Col mare
mi sono fatto
ùna bàra
dì freschézza
(G. Ungaretti, Universo)
Spesso questo verso è usato alternato con versi più lunghi come gli ottonari.
Es.:         Paranzelle in alto mare
biànche biànche,
io vedeva palpitare
còme stànche:
o speranze. Ale di sogni
pér il màre!
(G. Pascoli, Speranze e memorie, vv 1-6)
[4] Quinario - Il quinario o pentasillabo è un verso nel quale l’accento principale si trova sulla quarta sillaba: quindi, se l’ultima parola è piana comprende cinque sillabe, mentre se è tronca o sdrucciola ne ha rispettivamente quattro oppure sei. Gli accenti metrici sono generalmente con un accento secondario sulla prima o sulla seconda sillaba l’altro sulla quarta sillaba.
Es.:         Vìva la chiòcciola,
vìva una béstia
che unìsce il mèrito
àlla modèstia.
 (G. Giusti, La chiocciola, vv 1-4)
Anche questo verso spesso è usato alternato a settenari ed endecasillabi o come clausola.
Es.:         Lungo la strada vedi su la siepe
ridere a mazzi le vermiglie bacche.
nei campi arati tornano al presepe
                                                 tàrde le vàcche.
(G. Pascoli, Sera d’ottobre, vv 1-4
[5] Senario - Il senario è un verso è un verso di sei sillabe nel quale l’accento tonico si colloca sulla quinta sillaba metrica. Di conseguenza, se l’ultima parola è piana il verso comprende sei sillabe, mentre se è tronca o sdrucciola ne comprende rispettivamente cinque oppure sette. Il senario due accenti ritmici, uno sulla seconda e l’altro sulla quinta sillaba.
Es.:         Sul chiùso quadérno
di vàti famósi,
dal mùsco matérno
lontàna ripósi,
ripósi marmórea,
dell’ónde già fìglia,
ritórta conchìglia.
(G. Zanella, Sopra una conchiglia fossile, vv 1-7)
[6] Settenario - Il settenario,  con l’endecasillabo uno dei versi più ricorrenti nella poesia italiana, è un verso nel quale l’accento principale si trova sulla sesta sillaba: quindi, se l’ultima parola è piana comprende sette sillabe, mentre se è tronca o sdrucciola ne ha rispettivamente sei oppure otto.
Il settenario ha un accento fisso sulla sesta sillaba e l’altro mobile su una delle prime quattro.
Es.:         L’àlbero a cui tendévi                
la pargolétta màno,                    
il vèrde melogràno                     
da’ bei vermìgli fiòr,
nel muto òrto solingo
rinverdì tutto or óra
e giùgno lo ristòra
di lùce e di calór.                      
(G. Carducci, Pianto antico, vv 1-8)
Il settenario molto spesso è alternato a quinari ed endecasillabi.
Es.:         Silvia, rimèmbri ancóra
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendèa
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salìvi?
(G. Leopardi, A Silvia, vv 1-6)
[7] Ottonario - L’ottonario è un verso di otto  sillabe nel quale l’accento principale si trova sulla settima sillaba: se l’ultima parola è piana comprende otto sillabe, mentre se è tronca o sdrucciola ne ha sette o nove. Gli accenti metrici si collocano generalmente sulle sedi dispari. Accenti secondari possono situarsi sulla seconda, quarta e sesta sillaba. L’ottonario  ha gli accenti ritmici sulla terza e sulla settima sillaba.
Es.:         Quant’è bèlla giovinèzza
che si fùgge tuttavìa:
chi vuol èsser lieto, sìa,
di domàn non c’è certèzza.
Quest’è Bàcco e Ariànna,
belli, e l’ùn dell’altro ardènti:
perché ‘l tèmpo fugge e ingànna,
sempre insième stan contènti.
(Lorenzo il Magnifico, Canzona di Bacco, vv 1-8)
[8] Novenario - Il novenario o enneasillabo è un verso di nove sillabe è un verso in cui l’accento principale si trova sull’ottava sillaba metrica: quindi, se l’ultima parola è piana comprende nove sillabe metriche, mentre se è tronca o sdrucciola ne ha rispettivamente otto oppure dieci. Il novenario ha tre accenti ritmici che cadono sulla seconda, sulla quinta e sull’ottava sillaba.
Es.:         Il giòrno fu pièno di làmpi;
ma óra verrànno le stélle,
le tàcite stélle. Nei càmpi
c’è un brève gre gré di ranèlle.
Le trèmule fóglie dei pioppi
trascórre una giòia leggièra.
(G. Pascoli, La mia sera, vv 1-6)
[9] Decasillabo - Il decasillabo è un verso nel quale l’accento principale si trova sulla nona sillaba: quindi, se l’ultima parola è piana comprende dieci sillabe, mentre se è tronca o sdrucciola ne ha rispettivamente nove oppure undici. Gli accenti metrici sono generalmente con accenti secondari sulla terza e sesta sillaba.
Es.:         Soffermàti sull’àrida spónda,
volti i guàrdi al varcàto Ticìno,
tutti assòrti nel nòvo destìno,
certi in còr dell’antìca virtù,
han giuràto: Non fìa che quest’ónda
scorra più tra due rìve stranière;
non fia lòco ove sòrgan barrière
tra l’Itàlia e l’Itàlia, mai più!
(A. Manzoni, Marzo 1821, vv 1-8)
[10] Endecasillabo - L’endecasillabo, metro principale della nostra poesia è il verso nel quale l’accento principale si trova sulla decima sillaba metrica.
L’endecasillabo è il verso in cui le sedi degli accenti sono più varie, sebbene di solito gli endecasillabi presentano un accento fisso o sulla quarta o sulla sesta sede. Per questa sua flessibilità l’endecasillabo è stato il verso prediletto ed il più utilizzato nella poesia italiani e si trova in tutte le formazioni più importanti, come la ballata, la canzone, il sonetto, l’ottava.
Es.:         E me che i tempi ed il desio d’onore
fan per diversa gente ir fuggitivo,
me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
[11] doppio quinario - es.:    Al mìo cantùccio, / dónde non sénto
se nón le réste / brusìr del gràno,
il suón dell’óre / viène col vènto
dal nón vedùto / bórgo montàno:
suòno che uguàle, / che blàndo càde,
come ùna vóce / che pérsuàde.
(G. Pascoli, L’ora di Barga, vv 1-6)
[12] Doppio settenario -  Es.:               Dagli àtrii muscósi, / dai Fòri cadènti,
dai bòschi, dall’àrse / fucìne stridènti,
dai sòlchi bagnàti / di sèrvo sudór,
un vólgo dispèrso / repènte si désta;
intènde l’orécchio, / sollèva la tèsta
percòsso da nòvo / crescènte romór.
(A. Manzoni, Dagli atrii muscosi…, vv 1-6, Adelchi)
[13] Doppio ottonario - Es.: Su i càmpi di Maréngo / batte la lùna; fósco
tra la Bòrmida e il Tànaro / s’agita e mùgge un bòsco,
un bòsco d’alabàrde, / d’uòmini e di cavàlli,
che fùggon d’Alessàndria / da i màl tentati vàlli.
 (G. Carducci, Su i campi di Marengo, vv 1-8)
[14]Dialefe - La dialefe: è il fenomeno inverso della sinalefe e si verifica quando la vocale finale di una parola e quella iniziale della parola successiva formano due sillabe separate. Si applica quando le due vocali o la prima di loro sono accentate.
Es.: che la diritta viaˇera smarrita. (Dante, Inferno, I , v. 3)
La dialefe è favorita di solito da pause grammaticali o dall’inversione dell’ordine logico delle parole.
[15] Dieresi – La dieresi: è la figura metrica opposta alla sineresi in questo caso un dittongo si divide in due sillabe. Essa è segnata da due puntini che vengono posti sulle vocali più deboli.
Es.: la somma sapïenza e ‘l primo amore. (Dante, Inferno, III, v. 6)
La parola sapienza, secondo la comune sillabazione italiana, è un trisillabo (sa-pien-za); ma in questo verso è computata come quadrisillabo (sa-pi-en-za).
[16] Sinalefe – la sinalefe è la fusione in un’unica sillaba metrica delle vocali finali di una parola con quella iniziale della parola successiva.
Es.: «mi ritrovai per una selva oscura» (Dante, Inferno I, v 2)
Il suo schema metrico, in cui si evidenzia la sinalefe, è il seguente
Sill 1
Sill 2
Sill 3
Sill 4
Sill 5
Sill 6
Sill 7
Sill 8
Sill 9
Sill 10
Sill 11
Mi
Ri
Tro
Vai
pe
r u
Na
sel
va o
scu
ra.

[17] Sineresi – La sineresi: consiste nel fondere in una sola sillaba all’interno di una parola due o più vocali vicine ma appartenenti a sillabe diverse.
Es.: Questi parea che contra me venisse (Dante, Inferno I, 46)
Parea, secondo la grammatica, ha tre sillabe, in questo verso ne ha due soltanto.
[18] Aferesi - L’afèresi è un fenomeno fonetico storica che consiste nella caduta d’una vocale o d’una sillaba all’inizio di parola.
Può anche essere una ‘figura retorica’ che dà luogo a forme poetiche:
Es.: inverno = verno
[19] Prostesi - La pròstesi o pròtesi (dal greco próthesis, derivato da protithénai, «porre avanti») è un fenomeno fonetico che consiste nell’aggiunta di una vocale o una sillaba, all’inizio di una parola.
Es.: in strada = in istrada
[20] Apocope – L’apòcope (anche detta troncamento) è un fenomeno fonetico che consiste nella caduta della vocale o della sillaba finale atona della parola.
L’apocope differisce dall’elisione perché può determinare la caduta di un’intera sillaba e perché può avvenire davanti a una parola che inizia per consonante. Salvo nei casi particolari rappresentati dagli imperativi in seconda persona singolare di dare, dire, fare, stare, andare e dagli equivalenti tronchi di poco (po’), modo (nella locuzione a mo’ di), bene (be’; viene spesso sostituito da beh) e dell’arcaico e desueto “tògli” con il significato di “prendi” (to’; es. to’ questa caramella= prendi questa caramella), il troncamento, a differenza dell’elisione, non è marcato dall’apostrofo.
[21] Epitesi - L’epítesi (anche detta «paragòge») è un fenomeno fonetico che consiste nell’aggiunta d’una vocale o d’una sillaba alla fine d’una parola.
Es.: David = David(d)e.
In italiano antico era anche frequente dopo vocale:
Es.:         amò = amoe
fu = fue
[22] Sincope - La síncope è un fenomeno fonetico storica che consiste nell’eliminazione d’una lettera o d’una sillaba all’interno della parola.
Può anche essere una figura fonetica che dà luogo a forme poetiche:
opera = opra
spirito = spirto
Il contrario della sincope è l’epèntesi.
[23] Epentesi - L’epèntesi è un fenomeno fonetico che consiste nell’aggiunta di una vocale o di una sillaba all’interno di una parola.
Es.:         asma = ansima
biasma = biasima
medesmo = medesimo
Il contrario dell’epentesi è la síncope.
[24]  Dagli atrii... romor: dagli antichi palazzi romani (atrii) ricoperti di muschio (perché abbandonati), dalle piazze (Fori) ormai in rovina, dai boschi, dalle officine (fucine) infuocate e assordanti (per la lavorazione dei metalli), dai campi (solchi) bagnati dal sudore del popolo latino costretto a lavorare come schiavo, un popolo diviso (volgo disperso è riferito agli italiani privi d’identità nazionale) all’improvviso (repente) sembra riscuotersi, tende con ansia l’orecchio, solleva lo sguardo avvertendo il rumore della battaglia tra i longobardi e i franchi.
[25] Dai guardi... virtù: dagli sguardi incerti, dai volti impauriti (pavidi) traspare, come un raggio di sole che squarcia le folte nuvole, il valore degli antichi romani (padri).
[26] si mesce... d’un tempo che fu: l’umiliazione (spregio) sofferta per tanti anni si mescola e contrasta con le tracce dell’orgoglio di un tempo passato. Il sintagma misero orgoglio esprime l’umiliazione interiore e insieme la dignità del popolo latino, un tempo libero e prestigioso.
[27] e adocchia... non ha: il soggetto è un volgo disperso: guarda di sfuggita (adocchia) e poi osserva con attenzione (rimira) la turba sbandata (diffusa) dei crudeli padroni (longobardi), che scoraggiata (scorata) e confusa fugge senza sosta dinanzi alle spade (brandi) dei franchi.
[28] Ansanti... cercar: li vede (il soggetto di vede è un volgo disperso) ansimare, simili ad animali tremanti con le chiome rossicce (fulve) irte per la paura (tema), cercare i noti nascondigli (latèbre) dei loro rifugi (covo).
[29] e quivi... pensose guatar: abbandonato il consueto atteggiamento minaccioso, vede le donne superbe, pallide in volto, ansiose (pensose) guardare i loro figli preoccupati. L’incontro dei due aggettivi pensosi pensose aumenta la silenziosa preoccupazione delle madri longobarde per il destino dei loro figli.
[30] E sopra... guerrieri venir: il soggetto è ancora il popolo latino, che vede i guerrieri franchi come cani sguinzagliati incalzare i fuggitivi con le spade assetate di sangue (avido brando), sia da destra sia da sinistra (da ritta, da manca). Il sintagma avido brando attribuisce alla spada il sentimento del guerriero franco di uccidere i nemici.
[31] li vede... del duro servir: assalito da una contentezza mai provata, con la speranza (speme) anticipa gli eventi futuri (cioè la sconfitta dei longobardi) e sogna la fine della sua schiavitù.
[32] Udite... lunge: quei valorosi (forti) franchi che sono padroni del campo di battaglia, che impediscono la fuga ai longobardi, vostri oppressori, sono giunti da lontano. Rivolgendosi direttamente (Udite!) a quel popolo illuso, il poeta descrive le fatiche dei franchi e nel contempo sembra ammonire gli italiani che la libertà deve essere conquistata con coraggio e sacrifici.
[33] prandi festosi: banchetti allegri.
[34] assursero... blandi riposi: si levarono dai dolci riposi.
[35]  repente: all’improvviso.
[36] Lasciar: lasciarono.
[37] accorate: tristi e preoccupate.
[38] tornanti all’addio... troncò: che ripetevano l’addio, le preghiere e i consigli interrotti dal pianto.
[39] han carca... sonò: hanno la fronte appesantita (carca) dagli elmi ammaccati (pesti cimieri) da precedenti battaglie. Il cambiamento di tempo verbale (volaron, sonò) accelera il ritmo dei versi, rendendo il galoppo sfrenato dei cavalli (corsieri).
[40] A torme... terra: a squadroni passarono di terra in terra.
[41] giulive: allegre, spensierate.
[42] dolci castelli: i castelli dove hanno lasciato i loro affetti.
[43] per balzi dirotti: per dirupi.
[44] vegliaron... d’amor: trascorsero insonni (vegliaron) le notti gelide negli accampamenti militari (nell’arme), ricordando l’abbandono fiducioso dei colloqui d’amore.
[45] Gli oscuri... durâr: sopportarono (durâr) i pericoli (perigli) sconosciuti delle soste disagiate (stanze incresciose), le corse affannose per alture (greppi) dove mai uomo aveva posto piede, la dura disciplina militare, i digiuni. L’impresa vittoriosa dei franchi è scandita con ritmo incalzante, tipico del canto di guerra.
[46] E il premio... dolor: e il premio sperato dai franchi, promesso a quei valorosi, dovrebbe essere, o delusi italiani, di cambiare il destino (rivolger le sorti) di un volgo straniero, liberandolo? Il delusi che si ricollega all’Udite! (v. 31) chiude il momento epico dissipando ogni illusione.
[47] superbe ruine: rovine che testimoniano un passato di grandezza.
[48] imbelli: non adatte alla guerra (dal latino in, prefisso negativo, e bellum, “guerra”) quindi “deboli, vili”.
[49] Il forte... nemico: il nemico vincitore si unisce (si mesce) con il nemico vinto.
[50] sul collo vi sta: entrambi vi impongono il loro dominio.
[51] armenti: gli animali di allevamento.
[52] si posano... non ha: si insediano sui campi bagnati di sangue di un volgo che non ha neppure il riconoscimento di un nome.
[53] Apostrofo - L’apostrofo (‘) è un carattere usato, nelle lingue scritte che indica soprattutto l’elisione, talora il troncamento. Da non confondere con l’apostrofo è l’apostrofe retorica.
[54] L’elisione deve attuare nei seguenti casi:
1.
Con ci davanti a voci del verbo essere:
c’è, c’era, c’erano
2.
Con l’articolo una:
un’ora
3.
Con gli articoli lo, la, e le relative preposizioni articolate:
l’orto, all’orto, dall’orto, nell’orto,
l’anima, all’anima, dell’anima, nell’anima
4.
Con gli davanti a parole che iniziano con i:
gl’Italiani
5.
Con bello/bella, quello/quella:
bell’uomo, quell’erba
6.
Con santo davanti a vocale:
sant’Agnese
7.
Con alcune locuzioni caratteristiche:
senz’altro, tutt’altro, mezz’ora
8.
Con la preposizione da in alcune espressioni:
d’allora, d’ora, d’altra parte
9.
Con la preposizione di in alcune espressioni:
d’accordo, d’epoca, d’oro
facoltativa
1.
Con le particelle mi, ti, si

mi importa/m’importa, ti accolsi/t’accolsi, si accende/s’accende
2.
Con questo e grande:

questo assegno/quest’assegno, grande uomo/grand’uomo
3.
Con la preposizione di in alcune espressioni
di esempio/d’esempio
Il monosillabo da non si elide, scriveremo perciò da amare e non d’amare. A questa regola fanno eccezione alcuni casi cristallizzati dall’uso: d’ora in poi, d’ora in avanti, d’altronde, d’altra parte.
[55] Il troncamento si deve attuare nei seguenti casi:
1.
Con uno e suoi composti (alcuno, ciascuno, ecc)
un uomo, alcun luogo
2.
Con buono, bello, quello davanti a consonante:
buon giorno, bel cane, quel giorno
3.
Con santo davanti a consonante:
san Mattia
4.
Con quale davanti a “è”:
qual è
Facoltativo
1.
Con tale e quale davanti a vocale e consonante
tal uomo/tale uomo, qual buon vento/quale buon vento
2.

Con l’aggettivo grande davanti a nomi maschili che cominciano per consonante:
gran signore/grande signore
3.
Con frate davanti a consonante e suora davanti a vocale e consonante
Fra Cristoforo/frate Cristoforo, suor Antonia/suora Antonia

[56] Apocope – Il termine apocope E infatti, come sa chiunque abbia anche solo i rudimenti di greco classico, «apocope» significa «taglio (via da)», «amputazione».
[57] Baciata – la rima si dice  baciata quando un verso è in rima con quello successivo.
Lo schema metrico è AABB.
Es.:         «Una donna s’alza e cànta
La segue il vento e l’incànta
Sulla terra la stènde
il sogno vero la prènde »
(G. Ungaretti - Canto beduino, vv. 1-4)
[58] Alternata - la rima si dice alternata, quando il primo verso rima con il terzo, e il secondo con il quarto.
Schema metrico è ABAB, CDCD.
Es.          «Lo stagno risplende. Se tàce
la rana. Ma guizza un bagliore
d’acceso smeraldo, di bràce
azzurra: il martin pescatore.
E non sono triste, ma sono
stupito se guardo il mio giardìno...
Stupito che? non mi sono
mai sentito tanto bambìno... »
(G. Gozzano - L’assenza - vv. 21-28)
[59] Incrociata: la rima si dice incrociata, quando il primo verso rima con il quarto, il secondo con il terzo.
Schema metrico è ABBA CDDC.
Es.:         « Non pianger più. Torna il diletto fìglio
a la tua casa. È stanco di mentìre.
Vieni; usciamo. Tempo di rifiorìre.
Troppo sei bianca: il volto è quasi un gìglio.
Vieni; usciamo. Il giardino è abbandonato
serva ancora per noi qualche sentièro
Ti dirò come sia dolce il mistèro
che vela certe cose del passàto.»
(G. D’Annunzio - Consolazione - vv. 1-8)
[60] Incatenata – la rima si dice incatenata quando il primo verso rima con il terzo della prima terzina, il secondo con il primo della seconda terzina, il secondo di questa rima con il primo delle terza terzina, e così via.
Il più alto esito di tale schema di rime è la Divina Commedia, interamente strutturata in questo modo.
Lo schema metrico è ABA, BCB, CDC.
Es.:         «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e’l modo ancora m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.»
(Dante - Commedia, Inferno, V, vv. 100-108)
[61] Ipermetra - la rima si dice ipermetra quando una delle due parole è considerata senza la sillaba finale
Es.          «Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!  »
(Eugenio Montale - Non chiederci la parola vv. 5 e segg.)
[62] Allitterazione - L’allitterazione consiste nella ripetizione di una lettera, di una sillaba o più in generale di un suono all’inizio o all’interno di parole successive.
Essa pone l’attenzione sui rapporti tra le parole fonicamente messe in rilievo.
Grazie alle allitterazioni possono essere evocate diverse sensazioni condizionate dalle lettere che fanno l’allitterazione stessa.
Alcune linee di tendenza possono essere:
·         le consonanti dal suono secco (g, c e s) evocano una sensazione di durezza.
·         le consonanti dal suono dolce (v e l) evocano una sensazione di morbidezza, piacere.
·         la vocale a evoca un senso di ampiezza.
·         la vocale u evoca un senso di gravezza.
·         la vocale i evoca un senso di chiarezza.
[63] Assonanza - L’assonanza è un fenomeno di metrica che consiste nella parziale identità di suoni di due o più versi.
La forma più comune di assonanza è una rima imperfetta in cui le parole hanno le stesse vocali a partire dalla vocale accentata (vocale tonica), mentre le consonanti sono diverse, anche se spesso di suono simile, ma si possono distinguere diverse tipologie:
·         assonanza semplice, quando coincidono soltanto le vocali (rasone/colore)
·         assonanza della sola tonica, quando coincide solo la vocale accentata (pieta/demandava)
·         assonanza atona, quando coincide la vocale non accentata (limo/toro) o la sillaba non accentata (mare/sere).
·         consonanza tonica, quando coincidono le consonanti (partire = splendore; colle = elle).
L’assonanza è impiegata spesso nella poesia del Novecento al posto della rima, ed è frequente nel linguaggio della pubblicità.
[64] Consonanza – La consonanza si ha quando, a partire dalla vocale accentata, sono uguali le consonanti e diverse le vocali (non comprende la corrispondenza della stessa vocale tonica).
Es.:         màriti
aprìti
[65] Onomatopea - L’onomatopea consiste nell’uso di una parola la cui pronuncia assomiglia al suono o rumore che si intende riprodurre.
Esistono onomatopee
·         naturali che consistono nell’imitazione del suono di qualcosa ossia dalle parole da cui sono derivati termini di uso comune ad esempio miagolare dal verso del gatto.
·         artificiali ossia quelle parole che contengono suoni che si riferiscono ad un suono come fruscio, ticchettio, rimbombo, ciak, etc.;
Es.:         «Clof, clop, clock,
cloffete,
cloppete,
clocchete,
chchch...
È giù,
nel cortile,
la povera
fontana
malata; [...] »
da La fontana malata di Aldo Palazzeschi
[66] Paronomasia - La paronomàsia consiste nell’accostare due o più parole che abbiano suono molto simile (differendo per una o due lettere) e significato diverso. Può essere usata per rendere perentoria l’associazione tra due concetti, per esaltare la musicalità di un verso o per scopi umoristici.
Es.: Carta canta, Dalle stelle alle stalle, Chi non risica non rosica, Senza arte né parte, Volente o nolente.
Es.:         “...e non mi si partia dinanzi al volto
anzi ‘mpediva tanto il mio cammino
ch’i’ fui per ritornar più volte volto.” (Dante)
Talor, mentre cammino solo al sole
e guardo coi miei occhi chiari il mondo...” (Sbarbaro)
[67] Enjambement - L’enjambement consiste nell’alterazione tra l’unità del verso e l’unità sintattica ed è quindi una frattura a fine verso della sintassi o di un elemento sintattico al quale esso è collegato.
Es.:         sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto. Dante - Inferno, canto XXVI)
L’enjambement si ha dunque quando la frase non termina col verso, ma si protrae in quello successivo.
[68] Distico - Il distico, formato da una strofa di due versi in genere uguali metricamente, é a rima baciata (AA).
Es.: “Al valente segnore A
di cui non so migliore A
sulla terra trovare B
ché non avete pare B (..)
(dal Tesoretto di Brunetto Latini)
[69] Terzina - la terzina, è formata da una strofa di tre versi in genere metricamente uguali.
Le rime possibili sono: ABA BCB CDC DED... incatenata, terza rima o Dantesca ABA CBC DED FEF... 
La terzina, che ha di solito la rima incatenata (ABA BCB) e rappresenta il metro caratteristico della poesia didascalica e della poesia allegorica a cui appartiene anche la Divina Commedia di Dante, è formata da una strofa di tre versi.
Nella terzina vengono usati più frequentemente gli endecasillabi (Giovanni Pascoli, costruendo terzine di novenari, interruppe la tradizione) dove il primo verso rima con il terzo e nella successione delle terzine il secondo verso rima con il primo della terzina che segue. In alcuni autori dell’Ottocento e del Novecento la rima può non essere incatenata, come nel Pascoli di Myricae.
[70] Quartina - La quartina, per lo più a rima incatenata (ABAB) o incrociata (ABBA) è una strofa composta da quattro versi che, come la terzina, può vivere autonomamente. Si possono cioè avere componimenti di sole quartine come nel caso della poesia Diana di Mario Luzi che è composta da quattro quartine che seguono lo schema
ABAB/CDED/FGFG/HILI.
I versi che compongono la quartina di solito sono dello stesso metro e si hanno così quartine composte di 4 endecasillabi o di 4 settenari. Sono state adottate soluzioni differenti solamente da quei poeti che hanno voluto imitare strofe di origine greco-latina. Un esempio ne è la strofa saffica che è composta da tre endecasillabi e un quinario, oppure la strofa alcaica composta di due doppi quinari, da un novenario e da un decasillabo.
[71] Sestina . La sestina è una strofa di sei versi di cui i primi quattro versi a rima alternata (ABAB) e gli altri due a rima baciata (CC). Essa si distingue in
·         sestina narrativa, composta da due distici a rima alternata o incrociata e da un distico a rima baciata (ABABCC;ABBACC) che viene spesso usata per gli argomenti leggeri e scherzosi
·         Sestina Lirica che è una variante della canzone con una struttura complessa che prevede sei stanze a strofe incatenate e parole-rima interamente ripetute.
La sestina fu creata dai poeti provenzali e fu introdotta in Italia da Dante e da Francesco Petrarca, fu usata nei canzonieri del Cinquecento e Seicento e nelle raccolte dell’Arcadia, è infine usata nel Novecento da Gabriele D’Annunzio, da Giuseppe Ungaretti, da Franco Fortini.
[72] Ottava - L’ottava è una strofa di otto versi di cui i primi sei versi a rima alternata e gli ultimi due a rima baciata è il metro della poesia narrativa e in particolare dei poemi epico-cavallereschi, come l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto e la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso.
L’ottava, di cui si attribuisce l’invenzione a Giovanni Boccaccio che la utilizzò per primo in uno dei suoi poemi, visse il suo periodo più felice tra il Trecento ed il Seicento e fu successivamente ripresa, anche se solo occasionalmente, da Giuseppe Giusti, da Niccolò Tommaseo e da Gabriele D’Annunzio.
[73] Strofa libera - Si dice strofe libera, quella in cui i versi non hanno un numero fisso, non sono legati dal ricorso regolare della rima, o che presenta variazioni nel numero delle sillabe del verso e nella loro disposizione.
[74] Le canzoni di gesta – Le canzoni di gesta si sviluppano in cicli (insieme di componimenti in sé conclusi, ma collegati fra loro e con la presenza degli stessi personaggi) incentra­ti sulle imprese e sulle vicende storiche che hanno avuto per protagonisti i membri di un casato (gesta ha il significato sia di «impresa» sia di famiglia).
I cicli che ci sono perve­nuti risalgono al periodo 1050-1200, ma spesso erano rielaborazioni di componimenti precedenti trasmessi per via orale.
I principali sono: “ciclo delle gesta imperiali”, racconta le imprese dei re di Francia e in particolare di Carlo Magno e dei suoi paladini; ad esso appartiene la canzone più famosa e più bella: la Chanson de Roland attribuita a un poeta, Turoldo, di cui non si han­no notizie. Si tratta del ciclo di canzoni di gesta che ebbe più ampia diffusione, anche per la risonanza del protagonista, per il fascino delle figure dei paladini (Orlando, Rinaldo, Olivieri, il traditore Gano), per la forte carica ideologica che esprimevano attraverso l’esaltazione della guerra santa con­tro gli infedeli; “ciclo delle gesta di Willame conte d’Orange”narra, trasfigurandole, le gesta di un personaggio storico, il conte d’Orange, che secondo la leggenda difese la Francia dalle invasioni saracene nel secolo VIII; il “ciclo delle gesta dei ribelli”, reca la memoria delle lotte in­terne al mondo feudale, della ribellione dei feudatari senza terra, della lotta per l’ereditarietà dei feudi.
[75] La canzone di Orlando – La “Canzone di Orlando” (Chanson de Roland) è un poema epico di 4000 versi in francese antico, probabilmente composto nel secolo XI, forse da un monaco di nome Turoldo, del quale si conosce solo il nome, come si può dedurre dal codice di Oxford, attra­verso il quale è giunto fino a noi il testo dell'opera: Turoldo era presumibilmente un uomo di chiesa, ottimo conoscitore dei testi classici e della tradizione cristiana.
È la più antica e la più famosa delle “chanson de geste”, dedicate alla lotta tra la Francia cristiana e la “Paganìa”, cioè il mondo musulmano rappresentato come politeistico, idolatra, malvagio e nemico di Cristo.
La Chanson de Roland narra la lotta di Carlo Magno contro i Saraceni, e in particolare l’eroica battaglia di Roncisvalle, divenuta nel Medioevo un simbolo immortale.
Dopo aver conquistato tutta la Spagna salvo Saragozza, Carlo Magno accetta l’offerta di tregua di Marsilio, re dei Saraceni, e invia suo nipote, il coraggioso paladino Orlando, a trattare la pace.
Al ritorno, Orlando guida la retroguardia che, per il tradimento di Gano di Maganza, è assalita dai nemici, molto più numerosi: sconfitto, muore, non prima di aver spezzato la propria spada perché non cada in mano ai Mori.
Alla sua morte, Turpino, vescovo-cavaliere, suona l’olifante, il grande corno ricavato da una zanna di elefante, perché Carlo Magno giunga a vendicare la morte dei suoi paladini.
L’imperatore accorre, sia pur troppo tardi, e sconfigge i Saraceni: il traditore Gano è impiccato e squartato.
Questo il racconto della Chanson de Roland, ma la realtà storica è ben diversa: nel 778 Carlo Magno, avendo ricevuto offerte di pace da alcuni sovrani arabi in disaccordo con i loro alleati, guidò due grandi eserciti contro Saragozza. Il piano fallì e Carlo Magno, riattraversando i Pirenei, cadde nell’imboscata tesa da una popolazione basca che, dopo avergli inflitto gravi perdite, si ritirò con una rapida fuga prima che le forze imperiali potessero organizzare una reazione efficace.
L’epopea di Roncisvalle, con la sua elementare e forte tragicità, ebbe un peso rilevante nel momento in cui la dinastia carolingia si sfasciava e la Francia viveva nuovamente sotto l’incubo dei barbari.

Nessun commento:

Posta un commento