XIII UNITÀ
Educazione
letteraria. La metrica accentuativa – Dopo l’anno mille il volgare, da dialetto parlato dai ceti popolari, è
innalzato a dignità di lingua letteraria, accompagnando lo sviluppo di nuove
forme di poesia e nuove metriche.
In
Italia nel periodo di Dante e del Dolce Stil Novo, la poesia si afferma
come mezzo di intrattenimento letterario e assume forma prevalentemente
scritta: questo porta i poeti italiani a comporre opere più strettamente
aderenti ai canoni grammaticali e stilistici del genere, e a prestare maggiore
attenzione alle qualità visive della parola scritta, come la rima e
l’alternarsi dei versi. Intorno alla fine del 1200 si diffuse anche la poesia burlesca.
Nel
XIX secolo, con la nascita del
concetto dell’arte per l’arte, la
poesia si libera progressivamente dai vecchi moduli e compaiono sempre più
frequentemente componimenti in versi sciolti, cioè che non seguono nessuno
schema particolare, e spesso non hanno né una struttura né una rima.
Via
via che la poesia si evolve, si libera dai suoi schemi sempre più opprimenti
per poi diventare forma pura d’espressione.
L’Ermetismo si può definire la forma più
rarefatta di poesia, atta a trasmettere i sentimenti allo stato puro. Ma anche
l’Ermetismo si può definire superato.
Il
concetto di poesia oggi è molto diverso da quello dei modelli letterari; molta
della poesia italiana contemporanea non rientra nelle forme e nella metrica
tradizionali ed il consumo letterario è molto più orientato al romanzo e in
generale alla prosa, spostando la poesia verso una posizione di nicchia.
Riflessione
sulla lingua. L’accento - In ogni parola c’è una sillaba, pronunziata con
maggiore forza delle altre perché la voce si ferma su di essa più che sulle
altre. L’insistenza della voce sulla vocale della sillaba si chiama accento
tonico o semplicemente accento.
Le
altre sillabe si dicono atone.
Secondo
l’accento le parole si dividono in:
·
Tronche
o ossìtone,
quando l’accento cade sull’ultima sillaba. Es. bontà, città;
·
Piane
o parossìtone,
quando l’accento cade sulla penultima sillaba: pàne, civìle;
·
sdrucciole
o proparossìtone,
quando l’accento cade sulla terzultima sillaba: classìfica, tàvolo;
·
Bisdrucciole,
quando l’accento cade sulla quartultima sillaba: màndaglielo, scrìvimelo;
·
Trisdrucciole,
quando l’accento cade sulla quintultima sillaba: òrdinaglielo.
In
italiano la maggior parte delle parole sono piane, seguite a lunga distanza
dalle sdrucciole e dalle tronche[1].
È
obbligatorio segnare l’accento grafico:
·
Sulle
parole tronche di due o più sillabe: città, caffè, virtù, mezzodì;
·
Sui
monosillabi che terminano con un dittongo ascendente: può, più;
·
Sui
seguenti monosillabi: ciò, già, giù, scià;
·
Sui
monosillabi che, scritti senza accento, si confonderebbero con altri
monosillabi identici per forma ma diversi per significato:
dà (verbo)
|
da (preposizione)
|
dì (sostantivo)
|
di (preposizione)
|
è (verbo)
|
e (congiunzione)
|
là (avverbio)
|
la (articolo)
|
Lì (avverbio)
|
li (pronome)
|
né (congiunzione)
|
ne (particella pronominale e avverbio)
|
sì (avverbio)
|
si (pronome personale)
|
sé (pronome)
|
se (congiunzione o pronome personale
atono)
|
L’accento
grafico, infine, va segnato
·
sui
composti di tre, di re, di su e di blu (ventitré,
viceré, lassù rossoblù),
·
sui
composti della congiunzione che (benché, giacché, allorché,
altroché ecc.)
·
nelle
parole composte il cui secondo membro sia monosillabo (autogrù, lungopò).
Di
norma l’accento grafico non si segna quando cade nel corpo delle parole[2].
Educazione
letteraria. Il livello fonico della poesia - La poesia è l’arte di usare tanto
il significato semantico delle parole
quanto il suono ed il ritmo che queste imprimono alle frasi; la poesia ha
quindi in sé alcune qualità della musica
e riesce a trasmettere emozioni e stati d’animo in maniera più evocativa e
potente di quanto faccia la prosa.
In
una poesia il significato è solo una parte della comunicazione che avviene
quando si legge o si ascolta una poesia; l’altra parte non è verbale, ma
emotiva.
Queste
strette commistioni fra significato e suono rendono estremamente difficile
tradurre una poesia in lingue diverse dall’originale, perché il suono e il
ritmo originali vanno irrimediabilmente persi e devono essere sostituiti da un
adattamento nella nuova lingua, che in genere è solo un’approssimazione
dell’originale. Per tali motivi nello studio di un testo poetico è fondamentale
lo studio della metrica[3].
Educazione
letteraria. La metrica - La poesia,
come quasi ogni genere letterario, nasce come voce e, solo successivamente,
diventa voce scritta. Ogni poesia, anche la più intimista, va immaginata come espressa
a voce; la critica letteraria, poi, analizzando una parte
significativa della produzione poetica di una certa cultura stabilisce dei
canoni, delle categorie ricorrenti e significative, che classificano la
composizione dei versi e delle strofe.
La
forma di una poesia ossia la metrica ne determina il ritmo: lo specifico della poesia,
infatti, diversamente dalla prosa, è, infatti, collegato al ritmo che non è un semplice
accompagnamento musicale del contenuto, ma ne è parte integrante.
In
greco ed in latino, la metrica era fondata sulla quantità (brevità o lunghezza)
delle sillabe (metrica quantitativa); nelle lingue moderne si basa su rima accenti e numero delle sillabe
(metrica accentuativa).
La
metrica di una poesia si decide da:
·
Metro è lo schema metrico e la struttura caratteristica di un certo
tipo di componimento.
·
Rima è l’omofonia completa fra le ultime parole di due o più versi a
partire dall’ultima sillaba tonica.
·
Strofa o strofe è un gruppo di versi, di numero e
di tipo fisso o variabile, organizzati secondo uno schema, in genere ritmico, seguito da una pausa.
Il
ritmo
è dunque la cadenza musicale da cui deriva l’armonia poetica che caratterizza
il verso, in base al numero delle sillabe ed agli accenti ritmici, disposti
secondo particolari schemi in ogni tipo di verso.
Nella
metrica, per accento si intende il
maggior rilievo che alcuni suoni hanno rispetto ad altri nell’ambito di un
brano o di una frase, per questo si hanno:
·
Suoni più
accentati
(accento forte),
·
Suoni meno
accentati
(accento debole)
·
Suoni non
accentati.
Gli
accenti ritmici sono quindi gli
accenti fondamentali, che cadono sulle sillabe toniche dove la voce si appoggia
di più. Anche i versi più liberi
hanno il loro ritmo e non esiste poesia senza ritmo, che talvolta supera
perfino le intenzioni stesse del poeta, che vorrebbe reprimerlo per esaltare la
singola parola, come accade in alcune poesie ermetiche.
Il
ritmo è quindi il susseguirsi di una
serie di accenti con una periodica
regolarità. Esso è basato sulla suddivisione del tempo in forme e misure
variabili, talvolta regolari e simmetriche, altre volte irregolari e
asimmetriche. Il ritmo è dunque un movimento che si ripete regolarmente.
Qualsiasi movimento che non si ripeta regolarmente può essere detto come aritmico.
In
generale il ritmo del verso si fa più incalzante quanto più sono numerosi e
ravvicinati e gli accenti tra loro; l’abile uso degli accenti di un verso è
parte fondamentale della sensibilità artistica di un autore.
L’accentuazione
dei suoni di un brano può anche avere altre funzioni ed i ritmi sono così
distinti in diverse tipologie:
·
Ritmo lento e
monotono.
·
Ritmo veloce e martellante.
·
Ritmo calmo
alternato a ritmo veloce ed ossessivo.
·
Ritmo
incalzante.
·
Ritmo cantilenante
·
Ritmo calmo, meditativo.
·
Ritmo solenne
·
Ritmo epico.
·
Ritmo musicale
·
Ritmo spezzato.
Educazione
letteraria. Il verso - Il verso,
la riga di una poesia, è un’unità metrico-ritmica di una composizione poetica,
costituita da un certo numero di piedi
o di metri nella poesia quantitativa
(quella greca e latina) il cui adattamento alla metrica italiana fu definito da
Carducci metrica barbara[4],
nella poesia accentuativa, invece è costituita da un certo numero di sillabe o di accenti.
Si
dicono versi sciolti, quelli non
legati da rima e non raggruppati da
schemi strofici tradizionali.
Si dicono versi liberi quelli che non seguono nessuna norma metrica e ritmica
tradizionale.
Il gran consiglio di guerra a. D. 535
·
Gian Giorgio
Trìssino (1478-1550) lavorò a questo poema epico per tutta la vita. Sebbene la
critica letteraria abbia definito quest’opera “il poema più noioso della
letteratura italiana”, non lo si può liquidare come opera “noiosa”. Si tratta
invece di un poema molto complesso, interessante anche soltanto per
l’argomento, perché descrive la guerra voluta dall’imperatore Giustiniano
(527-565) contro i Goti ariani.
·
Trìssino iniziò
a lavorare al poema nel 1527 e lo completò nel 1547. L’Italia liberata dai
Goti è un complesso poema in
ventisette libri sulla guerra tra Bizantini e Ostrogoti, in cui la materia
storica s’intreccia con gli elementi del “meraviglioso” per catturare
l’interesse del lettore Il poema ha come fonte principale il libro La Guerra
Gotica dello storico bizantino Procopio di Cesarea. ed è dedicato
all’imperatore Carlo V, generoso protettore di poeti e letterati, come
l’Aretino e lo stesso Trìssino.
·
Trìssino
abbandonò l’ottava, armoniosa e melodica, il metro poetico utilizzato dai poeti
Boiardo e Ariosto per comporre i loro poemi e adottò l’endecasillabo sciolto,
già usato per la tragedia, ritenendo che tale modello di verso, privo di rima,
potesse adattarsi assai meglio al poema epico, in quanto avrebbe dato all’opera
un ritmo narrativo più discorsivo e più vicino allo stile dei poemi omerici di
cui egli era appassionato ammiratore.
che non
doveano stare entr'al consiglio,
fu comandato
che ciascun tacesse,
ma come in
mar che da rabbiosi venti
gonfiato
freme, poi che restan queti
rimane un
mormorar per entro l'onde;
o qual
campana che a disteso suoni,
poi ch'è
restata di sonar si sente
per alcun
spazio rimbombar d'intorno;
così dopo 'l
tacer di tante lingue,
restava un
mormorio dentr'a la sala:
né si chetò,
se non quando levossi
il sommo
imperador co 'l scettro in mano.
e quattro
cerchi d'oro avea d'intorno
tanto
eccellenti, e sì perfette gemme,
che non fu
visto mai cosa sì bella:
questo
l'eterno Dio mandò dal cielo
al suo gran
Costantino, e morto lui
stette
nascoso poi molti e molt'anni,
e d'indi al
buon Todosio ancor pervenne;
e dietro a
quello il Re dell'universo
con cui
reggeva i popoli del mondo;
a questo
egli appoggiato, in tai parole
sciolse la
dolce e risonante voce:
«Cari
fedeli, e venerandi amici
nel cui
consiglio e nel cui gran valore
s'appoggia e
si riposa il nostro impero,
dapoi che 'l
Re delle sustanze eterne
mi pose in
questa glorïosa sede
ho sempre
avuto un desiderio immenso
che
racquistarle le perdute membra?
Per questo
solo in Africa mandai,
e racquistai
tutto quel gran paese
ch'esser si
crede il terzo de la terra;
ma quello è
nulla, infin che non s'acquista
Questo è
l'Italia e l'onorata Roma,
e questo è
dove ho volto ogni pensiero;
però vorrei
mandar la nostra gente
a porre in
libertà l'Italia afflitta,
e racquistar
la mia perduta sede.
Ben ho
speranza de vittoria certa,
sì
agevolmente la Sicilia, quando
vittorïoso
d'Africa tornava;
e le
presenti e le future cose,
e soccorrete
a l'alto mio bisogno.»
2. Come ebbe detto questo, alzò le
ciglia
e volse gli
occhi al viso di ciascuno,
attendendo
il parlar di quei signori;
ma ciascun
d'essi tacito si stava,
ed aspettava
che parlasse prima
Trovossi
allora consule Giovanni
figliuol
d'Antinodoro e di Erifila,
che da tutti
Salidio era chiamato;
che fu fatto
prefetto del Palazzo.
Questo era
astuto ed arrogante molto,
di Belisario
e del suo gran valore,
che non
volgeva mai la mente ad altro;
rispose
astutamente in tal maniera:
v'elesse Dio
de le sue caste leggi,
la grande
umanità ch'alberga in voi
mi fa sicuro
a dir ciò che m'occorre
senza timore
alcun di farvi offesa;
perché voi
non credete essere amato
da quel che
afferma ciò che dir vi sente,
ma da colui
che a l'onor vostro ha cura;
né avete a
sdegno che vi parli contra
quel che a
l'util di voi volge il pensiero:
certo il
principio d'ogni buon consiglio è
è quando 'l
vero volentier s'ascolta.
Io non dirò
che 'l far la guerra a i Goti
e se ben la
vittoria adombra tanto
che fa
scordarci ogni passato affanno
pur, s'el
fin d'ogn'impresa il ciel nasconde,
buon è
pensar che questa guerra ancora
potrebbe
uscir contraria a la speranza;
Ah, se
questo avenisse, in qual periglio
che viver
con perigli e con fatiche.
imperador de
le mondane genti,
avea
l'Italia ingiustamente oppressa,
commise al
buon figliuol di Teodemiro,
giovane
audace e di leggiadro ingegno,
ch'andasse a
liberar l'Italia afflitta.
Questi
v'andò con tutti quanti e' Goti
che si
trovava aver sott'il suo regno,
e con molta
fatica e molti affanni
d'indi la
possedeo molt'anni e molti
osservando
di lei l'antiche leggi,
e mentre
visse ci fu sempre amico;
che la
Sicilia tacito ci lascia;
qual causa
dunque abbiam di farli guerra?
Mai non si
loda chi s'appiglia al torto.
dugento
millia in arme a la campagna;
Questa
dunque mi par non giusta impresa,
né già ci
mancheran molt'altre parti
d'acquistar
terra e glorïosa fama.
e molta
nostra valorosa gente,
tutta con
tradimenti e con inganni;
che muover
guerra a che ci serve ed ama.
Questo è il
consiglio, imperador supremo,
che 'l mio
debole ingegno mi dimostra;
al meno è pien
d'amore e pien di fede.»
3. Al parlar di Salidio assai signori
s'eran
commossi, o per le sue parole
ma sopra
tutti il re de' Saraceni,
che si
nomava Areto, e fu figliuolo
de la bella
Zenobia e di Gaballo;
questi per la
paura d'Alamandro
però, levato
in piè, con bel sembiante
poi disse
accortamente este parole:
«O re di
tutti e' re che sono in terra,
l'immenso
amor ch'io porto a questo impero
e i benefici
che la vostra altezza
m'ha
conferiti con sì larga mano,
fan ch'io
non schifo mai di sottopormi
ad ogni
grave e periglioso incarco
che vi
diletti o che v'apporti onore,
perch'io
vorrei per voi spender la vita.
Pur meco
rivolgendo entr'al pensiero
tutto 'l
parlar che 'l consule v'ha fatto
con bel
discorso ed ottime ragioni,
creder mi fa
che saria forse il meglio
lasciare i
Goti star ne la sua pace,
e volger
queste forze a l'orïente:
non pensan
altro mai che farvi danno;
poi non so
quanto sia sicura impresa
un sì
possente e perfido nimico,
che vi
disturbarà ciascun disegno.
cosa che
possa dar troppo disturbo;
ma se co i
Persi piglierete guerra,
i Goti
staran queti, e forse ancora
Questo non
dico per fuggir fatica,
che seguir
voglio le romane insegne
verso
l'imperador con gesto umìle
e ne la
sedia sua si risedette.
Il ragionar
di Areto avea piaciuto
a molti di
quei re de l'orïente,
di che
s'avvide Belisario il grande,
che di quel
gran paese avea 'l governo,
questi poi
venne a la famosa corte
con Arato ed
Isarco suoi fratelli,
e per lo suo
meraviglioso ingegno
ed era un
uom d'un'eloquenzia rara.
Costui,
levato in piè, guardò la terra,
poi volse
gli occhi gravemente intorno
e cominciò
parlare in questo modo:
resto molto
confuso entr'a la mente:
e l'un
consiglia di mandare in Spagna,
e l'altro
contra i Persi in Oriente:
parendoli
più agevol quelle strade
che questa,
che si fa quasi in un giorno.
Ah, come è
duro mantener con arte
quella
ragion che non risponde al vero!
Ma perché
molto il buon Salidio afferma
la guerra
contra ' Goti essere ingiusta,
e di fatiche
e di perigli piena,
fia buon
considerar queste due parti.
Né vo' negar
ch'ogni famosa impresa
perché il
bene è figliuol de la fatica,
e guerra non
fu mai senza perigli.
che tanto è
lunge, e fra una gente fiera
ne
gl'italici liti, che 'l paese
tutto
ribellerà da quei tiranni.
l'amica
volontà de gli abitanti;
la qual non
vi saria, chi andasse in Spagna,
e manco in
Persia o in più lontana parte.
avendo seco
una infinita pace,
ché
scelerata cosa è il romper fede.
Poi, se 'l
fin de le guerre è sempre incerto,
pensiam come
si può mandar soccorso
tanto
lontano e consolar gli afflitti;
ma ne
l'Italia in manco di dui giorni
dugento
millia in arme a la campagna,
non suol dar
la vittoria de le guerre,
ma i pochi e
buoni, con consiglio ed arte,
più volte
han vinto innumerabil gente.
Poi se colui
che ha più soldati in campo
vincesse
sempre, il nostro alto signore
ma basterà
che ve ne vadan tanti,
sì come
ancora in Africa si fece,
nominato
sarà mill'anni e mille.
Dunque a me
par l'impresa contra ' Goti
di più
facilità che l'altre guerre;
e parmi
parimente onesta e santa,
sì perché
sono barbari arrïani,
come perché
ci han tolto la migliore
e la più
antica e la più bella parte
che mai
signoreggiasse il nostro impero.
È manifesto
che Zenone Isauro
imperador de
le mondane genti
non mandò ne
l'Italia Teodorico
perché
s'avesse a far di lei tiranno,
ma perché la
togliesse ad Odoacro,
e tosto,
come a lui l'avesse tolta,
ma quello
ingrato poi, com'ebbe vinto
l'acerbo re
de gli Eruli, si tenne
in dura
servitù quel bel paese,
e fece
andarlo d'un tiranno in altro.
Sì che
l'antica Esperia a noi s'aspetta,
Che onore
esser ci può far sempre guerra
ed acquistare
or questa parte or quella
con sudore e
con sangue, e poi lasciare
Dunque non
fu già mai più giusta impresa;
e poi
quest'è 'l voler del nostro sire,
Però ciascun
di voi di grado in grado
s'accinga al
glorïoso e bel passaggio.»
5. Così parlò Narsete, e fece a molti
ed infiammò
più valorosi spirti.
al cui
levarsi ognuno alzò la fronte,
aspettando
d'udir le sue parole
come una voce che dal ciel venisse.
La battaglia dei giganti a. D. 552
Da La guerra
Gotica di Procopio di Cesarea
·
Procopio chiamò
lo scontro definitivo tra Goti e Bizantini la battaglia dei giganti, per la
durata e la violenza dello scontro. Per due giorni consecutivi i due eserciti
avversari si affrontarono, tanto da farne una delle battaglie più violente
combattute durante l'alto medioevo in Europa. Ancora oggi, a distanza di tanti
secoli, emergono luce reperti di quella battaglia, come ossa e frammenti di
armature e armi, tanto da poter identificare con certezza il luogo in cui
avvenne la battaglia.
·
Narsete passando
il Sarno sulla sua riva sinistra, all'inseguimento dei nemici, pose il suo
campo lungo la strada tra Stabia e Nocera a sud ovest di Angri, dove si trovava
un terreno pianeggiante. Il generale bizantino non volle attaccare il nemico
arroccato sul monte Lattaro, malgrado la sua superiorità numerica, si limitò
invece ad assediarli in attesa che commettesse qualche errore.
·
Teia dopo aver
sistemato il campo in una posizione facilmente difendibile sul Lattaro, si
accorse dell'impossibilità di approvvigionare l'esercito. Completamente
circondato dai monti su tre lati, i Goti subito si accorsero di trovarsi nella
condizione di assediati e, per la mancanza di viveri, in una situazione
disperata, senza via d'uscita. A questo punto Teia e i suoi uomini avevano solo
due alternative se non volevano morire di fame lentamente, arrendersi
incondizionatamente al nemico o attaccare. I germani scelsero quest'ultima
alternativa anche se questo significava la morte in combattimento" meglio
perire in battaglia, pensarono, che perdere la vita a causa della fame"
·
Si era nel Marzo
del 553, per l'epoca il primo mese dell'anno, probabilmente la situazione di
assedio non dovette durare più di un giorno, dal momento che Narsete pose il
suo campo presso Angri e la decisione dei Goti di andare all'assalto del
nemico. Teia aveva deciso di prendere il nemico di sorpresa con un'azione di
fanteria. Così, la mattina di quel marzo fatale, prima che sorgesse il sole, le
forze ostrogote discesero dalle loro posizioni sul monte, dirigendosi a
nord-est verso Angri. Il campo bizantino si trovava nel punto più stretto del
pianoro limitato dal lato meridionale dai monti e da quello settentrionale dal
fiumicello La Marna e dalle paludi. Qui, al sorgere del sole, le truppe
bizantine vennero colte di sorpresa dai Goti. I soldati imperiali reagirono
prontamente alla minaccia, senza ordini, senza essere guidati da alcun
comandante e senza badare al reparto d'appartenenza, si fecero incontro a
casaccio contro i nemici con decisione. I Bizantini lasciarono alle proprie
spalle i loro cavalli. Lo spazio disponibile, per un uso efficace della
cavalleria, era limitato dai monti a sud e dal fiume e le paludi a nord. La
tremenda battaglia fu quindi uno scontro essenzialmente tra fanterie.
·
La battaglia si
accese subito violentissima, continuando ininterrottamente per tutta la
giornata. A differenza della battaglia di Tagina però lo scontro tra le due
fanterie non avvenne con la tecnica della falange ma in formazioni più aperte,
in modo da permettere un ricambio continuo tra le prime file che combattevano e
i soldati più riposati delle retrovie. Questa formazione più aperta permetteva
ai contendenti l'uso di tutte le armi da getto e dava spazio ai guerrieri delle
prime file di utilizzare l'umbone dello scudo come arma offensiva, un modo di
combattere in uso in quel periodo.
·
Il re germanico
non si risparmiò fin dall'inizio della battaglia, a differenza dell'anziano
Narsete che cercò di condurre le operazioni dalle retrovie, Teia continuò a
combattere valorosamente nelle prime file incoraggiando e dando l'esempio ai
suoi uomini. Nel racconto di Procopio, nonostante sia uno storico di parte, si
ritrova tutta l'ammirazione per questo giovane guerriero, riportiamo il
racconto stesso.
In
Campania c’è un monte, il Vesuvio, che ho ricordato nei libri precedenti, per
il fatto ch’emette sovente un boato simile a un mugghio. Quando succede così,
erutta anche una gran quantità di cenere bollente. Questo l’ho detto, a quel
punto della mia storia. Ora, questa montagna, come l’Etna in Sicilia, ha
l’interno naturalmente vuoto dall’estremità inferiore alla vetta, ed è proprio
là dentro che il fuoco arde in continuazione. Questo vuoto giunge a tale
profondità, che, se uno sta sulla cima e ha il coraggio di sporgersi, non
riesce facilmente a vedere la fiamma. Ogni volta che la montagna erutta, come
ho detto, la cenere, la vampa stacca anche pietre dalle viscere del Vesuvio e
le lancia in aria al di sopra della vetta, talune piccole, altre assai grandi,
e di lì le sparpaglia dove capita. E c’è anche un rivolo di fuoco che si
diparte dalla sommità e si spinge fino alle pendici del monte e anche oltre:
tutti fenomeni che si verificano anche nell’Etna. Il rivolo di fuoco forma alti
argini di qua e di là, scavandosi il letto con un taglio profondo. Da prima la
fiamma che corre su quel rivolo somiglia a un flusso ardente d’acqua; ma appena
si spegne, il corso del rivolo si blocca subito e la corrente non procede
oltre, mentre il sedimento di quel fuoco è una fanghiglia simile a cenere.
Alle
falde di questo Vesuvio ci sono sorgenti d’acqua potabile. E ne scaturisce un
fiume detto Dracone, che poi passa molto vicino alla città di Nocera. I due
eserciti s’accamparono da una parte e dall’altra di questo fiume. Il corso del
Dracone è un filo, ma il fiume non è accessibile né a cavalieri né a fanti,
perché scorre in una strettoia e si scava un letto molto profondo, rendendo le
rive come sospese e incombenti da entrambi i lati. Se la ragione di ciò vada
cercata nella natura del suolo o in quella dell’acqua non saprei dire. I Goti
s’impadronirono del ponte sul fiume, accampati com’erano nelle immediate
vicinanze. Vi collocarono torri di legno e, fra altre macchine, vi costruirono
le così dette baliste, per essere in grado di bersagliare dall’alto i nemici
che venissero a dar fastidio. Era dunque impossibile un corpo a corpo, perché
c’era di mezzo il fiume: entrambi gli eserciti, avvicinandosi il più possibile
alle rive del fiume, facevano soprattutto assegnameli lo sugli archi. S’ebbero
anche alcuni duelli, quando un Goto, per esempio, era provocato a passare il
ponte. I due eserciti passarono così due mesi. Finchè i Goti ebbero il dominio
del mare in quel punto poterono reggere, portando i rifornimenti con le navi
(erano accampati a breve distanza dal mare).
Ma
poi i Romani riuscirono a prendere le navi nemiche, grazie al tradimento d’un
Goto che sovrintendeva a tutta la flotta; inoltre a loro cominciarono ad
arrivare innumerevoli navi dalla Sicilia e dal resto dell’Impero. In pari tempo
Narsete collocò anche lui sulla riva del fiume torri di legno e riuscì così a
mortificare completamente la baldanza degli avversari.
I
Goti di tutto ciò s’impaurirono molto e, pressati dalla penuria di viveri, si
rifugiarono su un monte ch’è lì vicino e che i Romani chiamano, in latino Monte
del Latte (Mons Lactarius). Là i Romani non potevano certo raggiungerli, per le
difficoltà del terreno. Ma i barbari si pentirono subito d’essere saliti
lassù, perché la scarsità di viveri si faceva ancora maggiore, non avendo essi
alcun mezzo per procurarne per sé e per i cavalli. Perciò ritennero che farla
finita in uno scontro fosse preferibile che morire di fame, e inaspettatamente
avanzarono in massa contro i nemici, piombando loro addosso fulmineamente. I
Romani si disposero a difesa come consentivano le circostanze, schierandosi
senza distinzioni di comandanti, di compagnie o di reparti, e senza
differenziarsi in altra guisa gli uni dagli altri. Né avrebbero potuto udire
ordini durante lo scontro: erano solo pronti a fronteggiare il nemico con tutto
il vigore possibile, dovunque si trovassero. I Goti furono i primi ad
abbandonare i cavalli e a formare a piedi, fronte al nemico, una profonda
falange. I Romani, a quella vista, lasciarono i cavalli anche loro e si
schierarono tutti allo stesso modo.
Io
sto qui per descrivere una battaglia memorabile e il valore d’un uomo, non
inferiore, credo, a quello degli eroi: il valore di cui Teia fece sfoggio in
quell’occasione. I Goti erano spinti all’ardimento dalla disperazione; d’altra
parte i Romani, pur vedendoli fuori di sé, tennero loro fronte con tutte le
forze, arrossendo di cedere di fronte ad avversari inferiori di numero. Gli uni
e gli altri, poi, andavano contro i nemici con molta rabbia, gli uni cercando
la morte, gli altri l’eroismo. La battaglia cominciò all’alba. Teia, facilmente
riconoscibile, riparandosi con lo scudo e protendendo la lancia, si mise in
testa alla falange, con pochi altri. I Romani, vedendolo, pensarono che, se
fosse caduto lui, la battaglia sarebbe finita immediatamente; sicché su di lui
si concentrarono tutti i prodi (ed erano molti), chi spingendo e chi vibrando
la lancia contro di lui. Il quale, coperto dallo scudo, riceveva su quello
tutte le lance, e con repentini assalti aggrediva i nemici, uccidendone molti.
Ogni volta che vedeva lo scudo pieno di lance conficcate, lo consegnava a uno
degli scudieri e ne brandiva un altro. Così combattendo arrivò a un terzo della
giornata: a quel punto, sullo scudo c’erano, conficcate, dodici lance, sicché
non ce la faceva neppure più a muoverlo come voleva e a respingere gli assalti.
Chiamò allora in fretta uno degli scudieri, senza però lasciare il suo posto e
senza muoversi d’un dito, né per retrocedere né per attirare i nemici in
avanti, senza voltarsi, senza ripararsi le spalle con lo scudo, senza neppure
mettersi di fianco: stava lì ritto col suo scudo, che pareva radicato al suolo,
uccidendo con la destra, rintuzzando i colpi con la sinistra, e chiamando lo
scudiero per nome. Quello era già lì con lo scudo, e lui si liberava in fretta
dell’altro, appesantito dalle lance. Fu proprio in quell’attimo (un tempo
infinitesimale) che il petto gli restò scoperto, e il caso volle che fosse
colpito proprio allora da un giavellotto, per cui immediatamente morì. Alcuni
Romani misero la sua testa in cima a un palo e andarono in giro mostrandola a
entrambi gli eserciti, ai Romani perché prendessero ancor più coraggio, ai Goti
perché, disperati, ponessero fine alla guerra.
Ma
neppure allora i Goti cessarono di combattere. Lottarono fino a notte, pur
sapendo che il loro re era morto. Quando si fece buio, si separarono e gli uni
e gli altri bivaccarono in tenuta di guerra. Il giorno dopo s’alzarono presto,
schierandosi di nuovo allo stesso modo, e combatterono fino a notte. Non
cedevano, non fuggivano, non ripiegavano benché da una parte e dall’altra un
gran numero d’uomini fosse ucciso: lottavano come in preda a una furia
selvaggia per l’odio reciproco, i Goti ben consapevoli che quella era per loro
l’ultima battaglia, i Romani rifiutando di farsi vincere. Alla fine Ì barbari
mandarono alcuni dei loro notabili a Narsete, dicendo d’aver capito che
l’avversario con cui combattevano era Dio; si rendevano conto della potenza
che' s’erano trovati di fronte e, arrendendosi all’evidenza dei fatti, erano
decisi a dichiararsi vinti e ad abbandonare la lotta, non però per divenire
soggetti all'imperatore, bensì per vivere autonomi insieme con altri barbari.
Chiedevano che i Romani concedessero loro una ritirata pacifica, senza
rifiutare un trattamento ragionevole, e anzi donando loro come viatico quelle
ricchezze che ciascuno aveva in precedenza depositate nelle fortezze italiane.
Narsete mise in discussione queste proposte. E Giovanni nipote di Vitaliano
l’esortava ad accogliere la richiesta, a non spingere oltre la lotta contro
uomini morituri, a non fare la prova d’un coraggio originato dalla
disperazione — atteggiamento psicologico assai rischioso per chi lo segue e per
chi lo fronteggia. « Basta a chi è saggio vincere — disse; — le brame smodate
possono risolversi in fallimenti ».
Narsete seguì il
consiglio, e si fece un accordo in questi termini: che i barbari superstiti si
prendessero le ricchezze personali e se ne andassero subito da tutta l’Italia,
per non fare più guerra in nessun modo ai Romani. Nel frattempo mille Goti
partirono dal campo per recarsi alla città di Ticino e ai paesi dell’oltre Po.
Li guidava, fra gli altri, Indùlf, di cui ho fatto menzione in precedenza .
Tutti gli altri prestarono giuramento a convalida degli accordi. Così i Romani
presero Cuma e tutto il resto. Si chiudeva il diciottesimo anno, e con esso la
guerra gotica, di cui Procopio ha scritto la storia.
[1] Accento acuto ed accento grave In
italiano gli accenti grafici, cioè i segni con cui si marca la vocale tonica
della parola, sono di due tipi:
·
L’accento
acuto:
é;
·
L’accento
grave:
à.
Si
segna l’accento grave sulle vocali a, i, u, quando è necessario: libertà,
più, capì. Invece sulle vocali e ed o
si segna l’accento acuto quando hanno un suono chiuso, come nelle parole: pésca
(= l’azione del pescare), vólto (= il viso), perché, né;
si segna l’accento grave quando hanno un suono aperto, come nelle parole: pèsca
(il frutto), vòlto (participio passato di volgere) è, cioè.
[2] Uso dell’accento nel corpo della parola - Tuttavia
è consigliabile segnarlo nei seguenti casi:
·
Quando
solo l’accento distingue due o più parole omografe, cioè due o più parole che
hanno identica grafia ma pronuncia e significato diversi, come:
·
Lèggere e leggère
·
Nocciolo e nocciolo
·
Gito, agito e agitò;
·
Nelle
forme plurali delle parole in -orio quando possono essere confuse con le
forme plurali delle parole in -ore: direttòri (plurale di direttorio)
/ direttóri (plurale di direttore);
·
Nelle
forme plurali delle parole in -io quando possono essere confuse con i
plurali di altre parole simili: princìpi (plurale di principio) /
prìncipi (plurale di principe);
·
Nelle
voci del verbo dare che possono essere confuse con i loro omografi: danno,
dato, dagli;
Tutte
le volte che si vuole indicare l’esatta pronuncia di una parola rara e
difficile: ecchìmosi, prosèliti, streptomicìna.
[3] Metrica - La metrica è la struttura
letteraria di un componimento poetico,
che ne determina il ritmo e
l’andamento generale. Con il termine metrica si indica quella particolare
branca della filologia che si occupa dello studio di queste strutture.
[4] Metrica barbara - L’imitazione dei
metri greco-latini ha trovato nella letteratura italiana importanza. Questa
sperimentazione, definita poesia metrica,
da Carducci in poi assunse la definizione di poesia barbara, perché tale sarebbe sembrata «al giudizio dei greci
e dei romani».
Questo
tipo di tecnica consiste nell’applicare la metrica quantitativa dell’antichità
classica, basata sulla lunghezza delle sillabe, alla poesia italiana. La lingua
italiana, al contrario del greco e del latino, non fa distinzione tra sillabe
lunghe e sillabe brevi: per la struttura delle singole parole e per
l’intonazione della frase, ha invece valore decisivo la netta differenza tra
sillabe atone e sillabe toniche, aspetto che nel verso antico aveva un’importanza
secondaria. Inoltre per il verso italiano è fondamentale il numero delle
sillabe, che nella poesia greca e latina era oltremodo variabile, data la
possibilità di sostituzione della sillaba lunga con due brevi.
Carducci studiò a lungo e pubblicò i risultati dei
precedenti tentativi firmati Leon Battista Alberti, Leonardo Dati, Claudio
Tolomei, Annibal Caro e Gabriello Chiabrera, Foscolo e Leopardi, noti al mondo
letterario, eppure la pubblicazione delle Odi barbare nel 1877 attirò numerose
polemiche.
La novità di Carducci era il risultato raggiunto
nella sperimentazione attuata sull’esametro e sul distico elegiaco che, per la
loro particolare struttura metrica, avevano sempre rappresentato un ostacolo
nella poesia metrica. Per raggiungere il suo scopo, ossia riprodurre nel
miglior modo possibile il ritmo antico, trovò l’espediente di applicare al
verso la lettura accentativa italiana o, in alternativa, di comporre versi in
cui le sillabe lunghe fossero sostituite con arsi. Carducci lavorò anche ad altre forme metriche, dedicandosi in
particolare all’imitazione delle strofe saffiche e alcaiche. Possiamo
paragonare la sua attività di sperimentazione a quella svolta dai ricercatori
nei laboratori: operazioni delicate, curate nei minimi dettagli, non solo dal
punto di vista formale ma anche lessicale. Infatti, nell’esprimere la
quotidianità, il poeta non impiega un linguaggio comune, ma propende sempre
verso vocaboli di netta impronta classica, scelta che, come afferma il
Salinari, potrebbe a sua volta essere considerata un limite: «il suo linguaggio
che ha grande forza espressiva nelle rappresentazioni epiche o comunque di
sentimenti dai contorni ben precisi, è troppo poco allusivo, sfumato, musicale
per rappresentare situazioni sfuggenti, indefinite, contraddittorie, che
riflettono i conflitti intimi delle zone più oscure e incerte della coscienza.»
[5] L’Italia Liberata dai Goti – Reduce dal grande successo della tragedia Sofonisba, Trìssino cercò la fama anche
come poeta epico e, affascinato dal mondo greco, vide nell’Impero bizantino di
Giustiniano la suprema sintesi tra l’ideale imperiale romano e la nuova fede
cristiana.
Tra le numerose guerre che l’Impero giustinianeo
combatté contro i suoi numerosi nemici (Persiani, 531 532, Vandali, 533-534,
Visigoti, 551), Trìssino scelse la guerra contro gli Ostrogoti, che avevano
invaso l’Italia nel 489, sottraendola all’erulo Odoacre.
Trìssino voleva creare un grande “poema eroico” completamente
diverso dal poema cavalleresco come lo avevano concepito Boiardo e Ariosto
abbandonando le tematiche carolingie delle guerre dei paladini di Francia
contro i Mori.
Secondo l’intenzione del Trìssino, il poema segue come
criterio principale l’unità dell’azione, che ruota tutta intorno al personaggio
di Giustiniano. Ma siccome la Guerra Greco-Gotica durò diciotto anni,
svolgendosi attraverso varie fasi (dal 535 al 553), anche il poema risente di
questo lungo periodo, per questo motivo la tanto decantata unità si rivela in
molti punti assai difettosa.
La vicenda inizia con il sogno di Giustiniano, il
quale è esortato da un angelo, inviatogli da Dio, a liberare l’Italia dal
feroce dominio dei Goti ariani. L’imperatore convoca i suoi cortigiani e i suoi
collaboratori ed espone loro la necessità di intraprendere una spedizione
militare per sottrarre, il “Giardino dell’Impero” alla nefanda tirannide dei
Goti eretici. E il discorso fatto da Narsete, eunuco spietato che è anche la
mente della politica estera bizantina, per giustificare l’ennesima guerra
voluta dal suo basilèus, è interessante.
L’imperatore fa preparare una grande armata e una
grande flotta e ne affida il comando al generale Belisario, già vincitore di
Persiani e Vandali.
Questi salpa alla volta dell’Italia, sbarca in Puglia
e conquista Brindisi, sconfiggendo Faulo, il gigante goto che domina la città.
Poi, le armate greche occupano la Puglia e la Campania e si spingono fino a
Roma.
Ma un soldato bizantino profana un altare della Beata
Vergine Maria, la quale, indignata, inizia a proteggere i Goti. Mentre
Belisario assedia Roma, da Aquileia giunge un esercito goto guidato dal gigante
Torrismondo: le truppe bizantine e gote si scontrano e queste ultime vincono la
battaglia.
Ma da Bisanzio giunge un altro esercito, guidato
dall’eunuco Narsete, che affronta i Goti e li sconfigge. Allora i Goti nominano
re il prode Vitige, che si batte contro i bizantini di Narsete, venendo però
sconfitto ad Osimo.
Alla fine della lunga guerra, Narsete e Vitige si accordano
per una disfida: dodici cavalieri greci contro dodici cavalieri goti, che si
affrontano davanti alle mura di Roma. I campioni goti sono sconfitti, Narsete
fa catturare Vitige e lo conduce prigioniero a Bisanzio (il tutto, ovviamente,
falsando la realtà storica, perché la Guerra Greco-Gotica non finì così).
È difficile realizzare in un poema una vicenda storica
complessa, anche se ampio: Trìssino per arricchire la narrazione, infarcisce la
storia di interventi soprannaturali (angeli e demoni che si schierano i primi
in favore dei Bizantini e i secondi dei Goti), di duelli terribili tra
giganti goti e guerrieri greci, di interventi di maghe dotate di anelli fatati,
nonché di storie d’amore disperate e tormentate.
Il poema non eccelle: la vera poesia emerge soltanto a
tratti e solo in taluni episodi, il meraviglioso abbonda, ma la prolissità
eccessiva fa sentire il suo peso. D’altronde Trìssino si rese conto che un
poema solo epico-eroico avrebbe stimolato poco l’interesse dei lettori, per
questo vi inserì molti episodi amorosi, magici o addirittura fantastici,
attinti direttamente dall’epica cavalleresca e dai poemi boiardeschi e
ariosteschi che egli, teoricamente, non voleva avere come modelli imitativi.
Sostanzialmente, quindi, il poema del Trìssino oscilla
tra epica e romanzo.
In ogni caso, l’idea di scrivere un poema epico in
endecasillabi sciolti, scevri dalla cantilena e dalla rigida armoniosità della
rima, era davvero buona, così come la scelta dell’argomento, essendo state le
guerre bizantine sempre trascurate dai nostri poeti epici e cavallereschi.
Peccato che a tentare di realizzarla sia stato un poeta mediocre come Gian
Giorgio Trìssino e non un vero e grande poeta come fu Torquato Tasso.
[6] Gian Giorgio
Trìssino – Gian Giorgio
Trìssino (Vicenza, 1478 - Roma,
1550) era un famoso e ricco nobile dei conti Trìssino: studiò greco a Milano
sotto la guida di Demetrio
Calcondila e filosofia a Ferrara
sotto quella di Niccolò
Leoniceno. Da questi maestri apprese l’amore per i classici e per il greco, che
ampiamente si respira nelle sue opere. La sua produzione letteraria, infatti,
insieme alla riflessione teorica sul volgare, rivela un indirizzo classicistico
ellenizzante.
Al filellenismo
letterario corrispose sul piano politico, la sua posizione favorevole
all’Impero piuttosto che alla Repubblica di Venezia, che lo costrinse per
qualche tempo all’esilio. Durante quel periodo soggiornò a Ferrara, a Firenze e
infine si stabilì a Roma presso la corte papale, svolgendo missioni
diplomatiche in Italia e all’estero per conto dei pontefici Leone X, Clemente VII e Paolo
III.
Dovunque
Trìssino si recasse riceveva con grandi onori.
Dopo aver
soggiornato a Padova dal 1538 al 1540 si ritirò nell’isola di Murano, luogo più
solitario, fino al 1545. Morì a Roma l’8 dicembre 1550 e fu sepolto nella Chiesa di Sant’Agata alla Suburra.
Nelle sue opere
Gian Giorgio Trìssino fu fautore di un classicismo integrale conforme ai
principi aristotelici, che espose nelle sei parti della sua Poetica del 1562, ambiziosa sistemazione
di tutti i generi letterari, ognuno ricondotto a precise regole di struttura,
stile e metrica. Poeta e tragediografo, le sue opere sono coerenti con questa
concezione di letteratura.
La tragedia Sofonisba, composta nel 1515, pubblicata a
Roma nel 1562 e rappresentata a Vicenza nel 1562 per iniziativa dell’Accademia Olimpica, può essere considerata la prima tragedia di impianto classico del secolo: pur ispirandosi a
Tito Livio, guarda alla Grecia classica, modellandosi in particolare sull’Alcesti di Euripide; inoltre, si attiene
scrupolosamente alle unità aristoteliche (tempo, luogo, azione) e ripropone il
coro delle tragedie antiche.
Sul piano
teorico Trìssino si espresse riguardo la dibattuta questione della lingua
letteraria: la sua tesi “cortigiana italianista”
sosteneva l’idea di una lingua formata dagli elementi comuni a tutte le parlate
dei letterati della Penisola. I suoi scritti linguistici (Epistola, Il Castellano, I dubbi
grammaticali, La grammatichetta) costituiscono quindi la principale voce di dissenso
rispetto alla corrente di impostazione classicista di Pietro Bembo.
Gian Giorgio
Trìssino non fu soltanto amante della poesia e della letteratura, ma si
interessò anche di architettura. Architetto lui stesso, concepì un trattato Dell’Architettura e protesse Andrea di Pietro della Gondola, di cui
fu amico e mentore e gli cambiò il nome in “Palladio”,
come l’angelo liberatore e vittorioso presente nel suo poema L’Italia liberata dai Goti.
Trìssino condusse Palladio a Roma e avviò il futuro genio dell’architettura
verso le vette più ardite di un’innovazione a livello mondiale.
[7] Sta per dappoi: poi , dopo
[8] Lo scettro.
[9] pianta
dal cui legno si ricava una materia colorante rossa
[10] ali
[11] volle
[12] degno,
meritevole Etimologia: ← dal lat. condĭgnu(m), comp. di cŭm, con valore rafforzativo, e dĭgnus ‘degno’.
[13] Potrebbe
[14] Sede o trono
[15] trova
[16] Sono gli Ostrogoti
[17] domandi
[18] Teniamo radunata
[19] Belisario è
stato un generale bizantino, servì sotto Giustiniano ed è considerato uno dei
più grandi generali bizantini.
Nato nella città di Germania nell'Illirico, Belisario intraprese la
carriera militare, entrando a far parte dapprima delle guardie del corpo
addette alla persona dell'Imperatore Giustino
I e poi diventando generale.
Si distinse nella guerra iberica contro i Sasanidi, per poi salvare il trono
dell'imperatore Giustiniano sedando con successo la rivolta di Nika nel 532. Successivamente, Giustiniano
gli affidò il comando delle sue grandi guerre di conquista in occidente: la
prima, la guerra vandalica,
combattuta contro il regno africano dei Vandali, la seconda, la guerra gotica,
svoltasi nel regno d'Italia sotto il dominio degli Ostrogoti. Le due campagne ebbero buon
esito: Belisario riuscì non solo a sottomettere tutto il Nord Africa e gran parte dell'Italia, ma anche a
condurre il re vandalo Gelimero e il re goto Vitige in catene ai piedi di Giustiniano. In
seguito alla vittoria africana, Giustiniano gli concesse il trionfo e l'onore
del consolato nel 535. Richiamato a Costantinopoli, fu inviato in Oriente contro i Persiani.
Dopo due anni di guerra contro i Sasanidi, Belisario
venne inviato per la seconda volta in Italia nel 544.
A causa della scarsità di uomini e mezzi fornitigli da
Giustiniano, non riuscì però a contrastare efficacemente il nuovo re dei Goti Totila, che era riuscito a
riconquistare quasi tutta la penisola. Tornato a Costantinopoli nel 548, ricoprì negli anni successivi
alcuni incarichi di tipo religioso venendo inviato presso il Papa per cercare
di convincerlo ad accettare la politica religiosa dell'imperatore. Nel 559 fu
di nuovo utile all'Impero riuscendo, alla testa di un esercito formato per lo
più da contadini, a scacciare un'orda di barbari che stava devastando la Tracia mettendo in grande pericolo Costantinopoli.
Nonostante il suo grande contributo alla difesa
dell'Impero, Belisario cadde più volte in disgrazia con l'imperatore: accusato
di tradimento, venne però ogni volta riabilitato. Secondo una leggenda che
prese vigore nel medioevo, Giustiniano avrebbe ordinato di accecarlo
riducendolo ad un mendicante e lo avrebbe condannato a chiedere l'elemosina ai
viandanti presso lo stadio di Costantinopoli.
Sebbene la maggioranza degli storici moderni non dia credito alla leggenda, la
storia della cecità divenne un soggetto popolare per i pittori del XVIII secolo. Divenne uso comune
rievocare il nome di Belisario per ricordare (e condannare) l'ingratitudine
mostrata da alcuni sovrani nei confronti dei loro servitori.
[20] conoscete
[21] timore
[22] Si risedette
[23] console
[24] La Cappadocia è una regione storica dell'Anatolia, un tempo ubicata
nell'area corrispondente all'attuale Turchia centrale. La regione che attualmente
prende il nome di Cappadocia è molto più piccola di quello che era l'antico
regno di Cappadocia di epoca ellenistica.
[25] Sì sta per così.
[26] capace
[27] voleva
[28] La dieresi rende il dittongo uno
iato
[29] Per questo
[30]Sostegno arcaismo
[31] nobile
[32] sia
[33] prevenire
[34] (lett.) attività, occupazione: Etimologia: dal lat. negotĭum ‘affare, occupazione, interesse’,
comp. di nĕc ‘non’ e otĭum ‘riposo dagli affari, tempo libero,
ozio’.
[35] conseguenza
[36] Sarebbe arcaismo
[37] sarebbe
[38] Zenone Isaurico (imp. 474-491 d.C.)
era un imperatore romano d’Oriente, di
nazionalità isaurica, governò alla morte di Leone I dal 474 per pochi mesi come
coreggente dell’imperatore Leone III, e morto questo, come unico imperatore
d’Oriente.
Perduto per breve tempo il trono
(475-476 d.C.) usurpato dal generale bizantino Basilisco, lo recuperò nello stesso
anno in cui in Italia Odoacre [vedi]
deponeva l’ultimo imperatore romano d’Occidente, Romolo Augustolo e riconosceva come unico imperatore Zenone,
che riuniva così almeno formalmente le due parti dell’Impero.
Zenone governò con grande astuzia,
lasciando che Teodorico marciasse
sull’Italia contro Odoacre, pur di evitare la rivolta dei Goti e nella speranza
di ristabilire il nuovo regno barbarico sotto l’alta sovranità bizantina (488
d.C.).
Alla sua morte, la moglie Ariadne
impose come imperatore Anastasio I, vecchio
domestico del palazzo.
[39] Odoacre (476
- 493 d.C.) Acclamato rex gèntium dalle milizie barbare che non avevano
ottenuto il donativo di terre in Italia, Odoacre depose l’imperatore Romolo Augustolo (23 agosto 476),
dichiarando di voler governare l’Italia solo come suo patricius.
Si concluse in tal modo “il ciclo
vitale dell’Impero d’Occidente”, ormai caduto nel potere dei barbari.
Odoacre fu poi sconfitto da Teodorico e costretto a rifugiarsi a Ravenna dove rimase ucciso.
Odoacre fu poi sconfitto da Teodorico e costretto a rifugiarsi a Ravenna dove rimase ucciso.
[40] Romolo Augustolo (imp. 475-476 d.C.) Ultimo
imperatore romano d’Occidente, fu insediato sul trono dal padre Oreste nel 475
d.C. e deposto nel 476 da Odoacre che
lo relegò a Napoli.
Con la deposizione di Romolo
Augustolo si chiudevano tutte le dinastie degli imperatori d’Occidente:
Odoacre, infatti, preferì governare l’Italia, col titolo di patrizio, come rappresentante
dell’imperatore d’Oriente.
Il re barbaro poté così insediarsi
con le forme della legalità e giustificare la deposizione di Romolo Augustolo
come un ritorno al concetto dell’unità dell’impero.
Gli avvenimenti del 476 d.C.
segnarono l’inizio della dominazione barbarica sull’Italia (come già era
avvenuta la dominazione dei Visigoti in Spagna, dei Vandali in Africa, dei
Franchi in Gallia).
Tale data segna per tradizione la
fine del mondo romano e l’inizio dell’epoca medievale.
[41] Teodorico (493-526 d.C.) - Re degli Ostrogoti. Sconfitto e
ucciso Odoacre nel 493
d.C. Teodorico fu delegato dall’imperatore d’Oriente Zenone a reggere l’Italia con il titolo
di patrizio.
Teodorico governò in virtù di un
patto (temporaneo e personale) che lo legittimò e gli garantì una posizione di
primato rispetto agli altri re barbarici; ai Romani lasciò l’amministrazione
dello Stato, ai Goti la sua difesa. Allo scopo di creare un ordinamento
unitario ed unico, superando la concezione barbarica della “personalità del
diritto”, emanò un “Editto”, derivato dal diritto imperiale romano e compilato
in latino, valido sia per gli Ostrogoti che per i Romani.
L’Edictum Theodorìci fu emanato verso il 500 d.C., nel
corso del regno del sovrano ostrogoto Teodorico, dal præfectus prætorio, Magno
di Narbona.
Teodorico si considerava
formalmente governatore della prefettura italica in nome di Zenone, imperatore d’Oriente, ed è perciò che la compilazione
prende il nome di edictum e non quella di lex (riservato alle statuizioni
imperiali).
L’Edictum Theodorici, destinato sia
agli Ostrogoti sia alla popolazione romana, constava di 155 capitoli,
essenzialmente ricavati dai tre codici Gregoriano,
Ermogeniano e Teodosiano e dalle Sententiæ di Paolo. Nei confronti degli altri
sovrani barbarici, il re cercò di far valere la propria superiorità, come erede
dell’impero d’Occidente.
Teodorico fu la figura più
significativa tra i re barbari e la sua opera politica in Italia e in Europa fu
indubbiamente la più avveduta.
[42] che,
chi commette azioni crudeli e spietate: Etimologia: lat. impĭu(m),
comp. di ĭn- negativo e pĭus‘pio’.
[43] Amalasunta - Regina degli Ostrogoti (m.
535), figlia di Teodorico, reggente per il figlio Atalarico dal 526 al 534, svolse un'accorta
politica, sviluppando buoni rapporti con l'imperatore d'Oriente; fu favorevole
all'elemento romano, mostrando in definitiva di seguire gli ideali paterni.
Osteggiata per questo dai
nazionalisti ostrogoti, ne subì il malcontento al punto d'esser costretta a
dividere il regno col cugino Teodato. Imprigionata da questi in un'isola del lago di Bolsena, fu poi
strangolata.
La sua morte diede l'avvio alla
guerra greco-gotica (535-553).
[44] Teodato - Re degli Ostrogoti (m. 536). Figlio di una sorella di Teodorico, avido e
ambizioso, accettò di sposare la cugina Amalasunta rinunciando all'esercizio del potere
in cambio del titolo di re; poi la fece imprigionare e assassinare nel 535 per
esercitare pienamente le funzioni.
Il fatto fu di pretesto a Giustiniano per inviare Belisario alla riconquista dell'Italia. La sua
incertezza e la codardia davanti alle vittorie nemiche furono tali che gli
Ostrogoti lo dichiararono decaduto e lo sostituirono con l'anziano Vitige. Alla notizia
Teodato fuggì verso Ravenna, ma fu ucciso.
[45] combattivo, battagliero: Etimologia: ← dal
lat. bellicōsu(m), deriv.
di bellĭcus ‘guerresco’.
[46] Sta per possono
[47] Sta per toglieremmo
[48] Ricchezze
[49] pericolo
[50] Sarebbe
[51] C’è
[52] Mauri - Popolazione
dell'Africa occidentale stanziata in prevalenza nella Mauritania e in piccoli
gruppi fino al Senegal. I Mauri derivano da ceppi berberi islamizzati e in parte
(maggiormente a sud) meticciati con elementi sudanesi; in origine pastori
nomadi, sono in gran parte sedentarizzati e dediti all'agricoltura. La loro
società, a struttura patriarcale, è suddivisa in numerose caste: gli
agricoltori, i mercanti e i sacerdoti (che collettivamente si designano con il
nome di beidān, i Bianchi), di più pura origine berbera, detengono il potere
socio-economico.
[53] Numidia - Antico nome della regione
dell'Africa nordoccidentale, corrispondente all'Algeria orientale.
Abitata dai Numidi, popoli berberi, di origine nomade. Nel 46 a. C., la Numidia
fu eretta a provincia romana col
nome di Africa Nova. In età imperiale la Numidia conobbe
grande prosperità nell'agricoltura con i suoi vigneti, allevamenti di cavalli e
greggi; il processo di urbanizzazione fu graduale e intenso con le città di Caicul, Thamngadi, Theveste, con un
fiorente centro di studi a Cirta. I contrasti di natura religiosa scoppiativi
tra manichei e donatisti favorirono
l'avvento dei Vandali di Genserico con conseguente declino, economico e
urbano della Numidia e con lo smembramento dell'unità regionale, a Sud il limes era
messo in difficoltà da infiltrazioni di berberi.
Dopo la morte di Giustiniano, che l'aveva
riconquistata e riorganizzata, la Numidia entrò in un nuovo periodo di
disordine finché, nei sec. VII-VIII, fu travolta, come tutta l'Africa
settentrionale, dagli Arabi.
[55] sarebbe
[56] fiero
[57] All’apparenza
[58] fossero
[59] Sta per viltà
[60] avrebbe
[61] Occidente ossia verso l’Italia
[63] Cosroe I - Regnò
sull'Iran dal 531 al 579. Si oppose a Mazdak e al
suo movimento politico-religioso. Intorno al 558 Cosroe, alleatosi con il khanato turco occidentale, distrusse il regno
degli Eftaliti e ristabilì la frontiera orientale
dell'Iran sul fiume Oxus. A occidente aveva stipulato nel 532 una pace con
Bisanzio; ben presto però le ostilità ripresero a causa di una disputa tra gli
Stati di Gassān (vassallo di Bisanzio) e Hīra
(vassallo dell'Iran); dopo la distruzione di Antiochia nel 540 e varie nuove
conquiste, fra cui quella dello Yemen, nel 562 stipulò una nuova pace coi
Bizantini.
Le frontiere vennero assicurate da
un sistema di limes nel
deserto siriano, nel Caucaso e a est del Mar Caspio.
[64] Alle spalle
[65] Dopo le spalle: alle spalle
[66] potrebbero
[67] sia
[68] Potenza persiana
[69] avrete
[70] Quieto, tranquillo
[71] Non si ruini: non si distrugga
[72] Conduca.
[73] (lett.) eseguire; portare a compimento, finire. Etimologia: dal fr. fournir, che deriva dal
francone *frumjan ‘eseguire’.
[74] Fatica: francesismo
[75] Si preparava
[76] sostenerlo
[77] Spagna
[78] Astuto latinismo
[79] Narsete - Generale bizantino (478 - 568). Di origine armena,
acquistò una posizione preminente alla corte di Giustiniano grazie al favore di Teodora e concorse con Belisario alla repressione della cosiddetta rivolta di Nika nel 532,
cioè alla salvezza dell'imperatore.
Nella guerra contro gli Ostrogoti per la riconquista dell'Italia
(535-553) operò con Belisario, ma in discordia con lui; quando poi Belisario fu
richiamato a Costantinopoli nel 549, gli succedette come unico comandante
supremo delle forze imperiali in Italia e riportò le vittorie decisive di
Tagina sul re Totila
nel 552 e dei monti Lattari sul re Teia nel 553.
Respinse in seguito le scorrerie
franco-alemanne di Leutari insieme con il fratello Butilino scesi in Italia con un numeroso esercito
composto da Alemanni, Franchi e Burgundi per portare aiuto ai Goti in lotta con
i Bizantini. Separatosi dal fratello, attraversò la penisola, ma, costretto
alla ritirata, cadde al Volturno nel 554.
Narsete continuò fino al 567 le
operazioni contro i resti degli Ostrogoti sparsi per l'Italia.
Avviò col titolo di patricius il riordinamento dell'Italia tornata
provincia dell'impero applicando la Prammatica Sanzione giustinianea,
su richiesta del papa Vigilio, allo scopo di estendere all'Italia, ricongiunta
all'Impero dopo la vittoria sugli Ostrogoti, la legislazione imperiale. Essa annulla le leggi
dei re ostrogoti succeduti a Teodato e
restaura le posizioni dell'aristocrazia fondiaria, revocando in particolare i
provvedimenti di Totila a
beneficio delle masse rurali, detta norme tributarie e relative alle monete, ai
pesi e alle misure, regola rapporti di natura privata e pubblica turbati
durante la guerra, attribuisce ampi poteri amministrativi ai vescovi (che
tuttavia li esercitavano già di fatto). Nonostante le prescrizioni della
Prammatica sanzione, la legislazione di Giustiniano e quella dei suoi
successori ebbero in Italia un'applicazione assai limitata.
Esonerato dalla carica da Giustino II, Narsete si
ritirò a Roma, dove morì poco dopo.
[80] Araspo: padre di Narsete
[81] che esprime chiaramente un concetto, un sentimento,
un’intenzione, un dato di fatto. Etimologia: dal lat. eloquĕnte(m), part. pres. di elŏqui; cfr. elocuzione.
[82] orientata
[83] sarebbero
[84] lenti
[85] soddisfare
[86] Imperatore
[87] La Persarmenia fu originariamente una delle 15
province della Grande Armenia
situata sulla riva occidentale del Lago
di Urmia.
[88] Madre di Narsete
[89] In realtà Giustiniano era nipote
di Giustino, uno stimato generale che assurse alla carica imperiale e lo adottò
[90] Acquisì grande influenza alla corte di Giustiniano I grazie al favore di Teodora. In breve tempo scalò la
gerarchia dei servitori della camera da letto imperiale, raggiungendo la
posizione di tesoriere e primo ufficiale (sacellarius e comes
sacri cubiculi) nel 530-531.
[91] Meco = con me dal latino mecum
[92] date
[93] Esperia: ntichissimamente la
parte meridionale della nostra Penisola era detta dai
greci Esperia (= terra del tramonto), come per analogia l’attuale
Turchia Anatolia (= terra del levante). L’Esperia era detta
anche Ausonia (= terra di Ausòne o Ausonio, figlio di Ulisse e
Calipso, e degli Aurunci che i greci poi chiamarono Ausòni)
ed Enotria (= terra del vino).
[94] Roma
[95] possono
[96] [dal lat. expedire, der. di pes pedis col pref. ex-; propr. «liberare i
piedi»] (io espedisco, tu
espedisci, ecc.), ant. – Rendere spedito, facilitare, sbarazzare,
liberare:
[98] Sta per gire v. intr. [lat. ire: v. ire], ant. Il
verbo gire è difettivo, adoperato in poche forme, di cui talune rimaste
nell’uso di qualche regione (indic. imperf. giva, givano; pass. rem. gì, gimmo; fut. girò, ecc.; cong. imperf. gissi, ecc.; part. pass. gito). Lo stesso che ire, andare.
[99] vicino
[100] Giogo: Trave in legno, sagomata per adattarsi al collo di uno o due buoi, che
costituisce l'attacco del carro, dell'aratro ecc. In senso figurato il giogo è ciò che opprime, asservisce, il
suo sinonimo è oppressione.
[101] sarebbe
[102] Qui Trìssino vuol mettere in
evidenza gli splendidi rapporti esistenti fra Visigoti e i romani della
provincia Hispanica. Con il sec. VI, e
soprattutto dopo la morte dell'ostrogoto Teodorico, il loro regno divenne quasi
interamente spagnolo, con capitale a Toledo. I Visigoti rispettarono le
strutture politico-sociali dell'antica Hispania romana e la Chiesa cattolica.
Nelle frequenti lotte fra la Chiesa ariana e la cattolica, lo Stato si mostrava
però favorevole alla prima, fino alla conversione di re Recaredo, dopo la quale
Stato e Chiesa collaborarono alla formazione di uno Stato sui generis nel quale il re presiedeva ai Concili
toledani e le leggi ecclesiastiche avevano spesso validità civile.
[103] porremo
[104] Vettovaglie, Provviste di viveri indispensabili al sostentamento di
un esercito o di una comunità di persone.
[105] Ripararsi, rifugiarsi
[106] Ristoro
[107] Benché
[108] Dovrebbe
[109] notizie
[110] possono
[111] Flusso
o ammasso di putridume.
[112] potrebbe
[113] portare
[114] almo agg. [dal lat. almus «che ristora», dal tema di alĕre «nutrire»], letter. – Che alimenta,
che dà e mantiene la vita. Per estens., grande, nobile, magnifico.
[115] Dichiarati
[116] Il verbo è intransitivo ma è
usato transitivamente
[117] carico
[118] L’immagine dell’Italia come
“giardin de lo imperio” è una citazione dantesca del VI canto del Purgatorio.
[119] Dei cieli quindi di Dio
[120] cambiare
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