1. Letteratura
dell’età del realismo - La crisi della
letteratura e dell’arte romantica maturò prima nelle cerchie più ristrette
degli intellettuali che sentirono l’inadeguatezza e la stanchezza di schemi,
temi e linguaggio divenuti ormai tradizionali e iniziarono quelle sperimentazioni
che solo verso la fine del secolo ebbero, a loro volta, una larga diffusione e
crearono un nuovo gusto.
Quasi a
simboleggiare il rinnovamento in atto, nel 1857 a Parigi furono stampati due
libri che segnarono l’inizio di nuovi percorsi culturali e letterari Madame
Bovary di Gustave Flaubert e I fiori del male di Charles Baudelaire.
Entrambi possono essere considerati, nei campi rispettivamente del romanzo e
della poesia, le opere da cui prese il via un nuovo modo di scrivere, di
concepire l’arte e il ruolo dello scrittore. Madame Bovary si segnala
immediatamente per il suo carattere antiromantico, sia per il contenuto
smitizzante nei confronti degli ideali e del gusto di quella cultura, sia per
la formula narrativa, incentrata sulla scomparsa dello scrittore-narratore,
sia per il realismo dello stile e l’oggettività scientifica dell’indagine psicologica. Con scelte del tutto
differenti Baudelaire mostrò le potenzialità espressive di una poesia che, attraverso
un linguaggio fortemente simbolico, metteva a nudo i tormenti, le ambiguità,
le esaltazioni dell’individuo.
La
lezione di Baudelaire fu recepita prima in Francia e in seguito in tutta Europa
e produsse l’effetto di sospingere i poeti verso un tipo di ricerca espressiva
dai forti contenuti intellettualistici, caratterizzata da una raffinatezza
stilistica che spesso coincise con il difficile e l’oscuro. Questo fece della
poesia una forma di lettura d’elite, esclusa a un pubblico di massa, e diede
inizio, anche sotto l’aspetto del consumo, alla poesia moderna destinata a una
circolazione quanto mai ristretta.
Al contrario il
romanzo veniva a contatto con un pubblico sempre più largo ed eterogeneo e
conservava una funzione di mediatore di idee e di ideologie; in questo
ampliamento del circuito delle opere narrative si inserivano le scelte
dell’industria editoriale.
Un’altra
differenza tra le sorti della ormai nata poesia moderna e il romanzo è legata
al diverso modo con cui le due forme letterarie entrarono in rapporto con le
tendenze del pensiero e della cultura. Mentre il percorso della poesia, che
ebbe il momento di maggior identificazione nel simbolismo, avvenne all’interno
degli addetti ai lavori, la narrativa si sviluppò in un organico rapporto con
le correnti culturali. È significativo, ad esempio, che nel periodo in cui il Positivismo acquistò il peso di cultura
egemone si sia sviluppato il Naturalismo,
che cercava di unire arte e metodo scientifico per una rappresentazione scientifica della realtà. Dall’ultimo
decennio del secolo, la crisi della visione del mondo di matrice positivista
provocò anche quella del Naturalismo: si svilupparono allora, nel clima di
sfiducia nella scienza e di riaffermazione della priorità dell’arte,
caratteristico della fine del secolo, esperienze narrative ispirate ad un
atteggiamento culturale che si può definire estetismo.
Dopo l’unità: dagli eroici furori all’integrazione
borghese
Al clima di
entusiasmo e di tensione morale degli anni eroici del Risorgimento subentra,
dopo l’unità, uno stato d’animo diffuso di incertezza e di delusione.
All’integrazione politica della penisola non si è accompagnato il formarsi di
quella nazione unita, solidale, armoniosa che l’ingenuo - o interessato -
interclassimo risorgimentale aveva vaticinato. Vengono ben presto alla luce
stridenti disuguaglianze e divisioni fra le classi e fra regione e regione -
in special modo fra Nord e Sud. Il nuovo Stato anziché sanarle le consolida e
le accresce, scaricando sulle classi e le regioni più deboli i costi della sua
politica finanziaria di risanamento e di sviluppo e dando al potere una
struttura centralizzata e verticista a tutto vantaggio del blocco sociale
dominante: si estende a tutto il regno la legge elettorale piemontese,
consentendo cosi il diritto di voto a 500 mila elettori su una popolazione di
20 milioni di abitanti; si scarta la proposta del decentramento regionale a
vantaggio di una struttura amministrativa rigidamente unitaria, si avvia il
risanamento del debito pubblico con l’esazione di pesantissime tasse indirette
che «spreme tutto ciò che può essere spremuto dai ceti popolari», si falcidia
con il libero scambio (fino al 1878) la debole industria meridionale. «Lo Stato
italiano nasceva così con una forte impronta burocratica e censitaria e alla
grande maggioranza dei suoi nuovi cittadini esso appariva impersonato
dall’agente delle tasse e nella coscrizione militare obbligatoria. Di qui la
sua rapida impopolarità, tanto più
acuta quanto più grandi erano le speranze suscitate dal generale rivolgimento
politico avvenuto» (G. Procacci).
In questo nuovo
quadro la posizione del ceto dei letterati muta sensibilmente. Viene loro a
mancare, anzitutto, quella funzione di iniziativa e di guida che essi avevano
svolto negli anni del Risorgimento. Ora che non c’è più da incitare la balda
gioventù borghese a imprese coraggiose essi perdono molta della loro
importanza, rimanendo esclusi dalla coalizione sociale di potere che le altre
«avanguardie risorgimentali» formano attorno alla dinastia sabauda. La reazione
dei letterati si muove confusamente in varie direzioni. Si tenta di prolungare
il clima battagliero degli anni precedenti sostenendo il garibaldinismo del partito d’azione e agitando la questione delle
terre irredente e di Roma capitale;
si rimprovera acerbamente alla classe dirigente la sua tendenza al compromesso,
alla manovra politica, la sua attenzione quasi esclusiva all’amministrazione;
si denuncia con spirito populistico che per le masse popolari l’unificazione
politica non ha recato alcun vantaggio. Carducci, nella sua fase repubblicana
e populista, sfiora accenti addirittura marxiani:
«... E pur non
fai
tu leggi, o
plebe, e, diradato gregge,
patria non hai».
A Milano, poi,
con la Scapigliatura, emerge un tipo di contestazione più inquietante e
radicale. Nella «capitale economica» d’Italia, che ha già i tratti di una
grande moderna metropoli, dove un ceto medio urbano si fa più spesso e s’avvia
una netta polarizzazione fra un’aggressiva borghesia imprenditoriale e un emergente
proletariato industriale, un gruppetto di giovani bohémien è il primo ad
avvertire che i letterati non solo hanno perso l’iniziativa politica e la leadership
ideologica sulla vita nazionale, ma che si sta avviando un divorzio
profondo fra società borghese e intellettuali. C’è già l’accenno di una rottura
della solidarietà di classe, la coscienza di uno sradicamento sociale. Gli
scapigliati, scrive Cletto Arrighi nel 1862, «meritano di essere inclusi in una
nuova e particolare suddivisione della grande famiglia sociale». Essi si
ispirano a Baudelaire e ai maudit
francesi, testimoni smarriti e acuti del nuovo mondo urbano e industrializzato;
si sentono idealmente legati con gli altri gruppi affini che si trovano, dice
Arrighi, «in tutte le grandi città e ricche del mondo incivilito» e avvertono
di essere «più avanti del loro tempo».
In effetti il
movimento scapigliato precorre sviluppi sociali non ancora maturati in Italia.
Dopo i burrascosi anni sessanta, la contestazione intellettuale si smorza
alquanto. Anche se non si sente del tutto integrato e organico, il letterato avverte che l’Italietta è pur sempre un’Italia definitivamente dominata dalla
classe borghese, quella stessa da cui provengono oramai indistintamente tutti
gli operatori di cultura. Borghese è il pubblico che con l’urbanizzazione e lo
sviluppo dell’istruzione (dalla legge Casati alla legge Coppino) si accresce
sensibilmente. Borghesi sono i committenti, cioè, indirettamente, il pubblico
stesso e direttamente
un’industria editoriale vivace, pronta a trarre profitto dalla crescente
domanda di beni culturali. Cresce il numero degli scrittori che riescono a
vivere del provento dei loro libri: molti sono quelli che hanno la possibilità
di trovar lavoro come insegnanti, giornalisti, collaboratori editoriali.
Perciò, sebbene un po’ sminuito, il letterato si sente a casa sua nell’Italia
nuova, tanto più quando, con l’avvento della sinistra nel 1876, si allarga
l’ambito del blocco sociale dominante fino a includere le fasce di media
borghesia a cui il ceto intellettuale è più legato. Naturalmente esistono differenze
anche marcate fra quei letterati che ripiegano più decisamente su posizioni di
schietto conservatorismo, timorosi delle prime consistenti manifestazioni di
protesta sociale e coloro che, interpreti della borghesia più radicale e avanzata,
insistono nella critica delle ingiustizie sociali del sistema. Nessuno
tuttavia mette in discussione le basi del sistema stesso, borghese e nazionale,
e tutti partecipano con convinzione di un medesimo clima culturale: quello che
ha la sua base filosofica nel trionfante scientismo e positivismo europei ed
esprime la sicurezza e l’ottimismo di una borghesia convinta che la scienza e
la tecnica assicureranno un illimitato progresso economico al mondo e ad essa
una inattaccabile supremazia sociale.
Dal punto di
vista letterario questa cultura si traduce sia nella «rinascita di quel
classicismo illuminista e giacobino che non aveva mai accettato la sconfitta di
fronte al romanticismo e al manzonismo» (A. Asor Rosa), patriotticamente geloso
della tradizione culturale italiana, che ha la sua roccaforte nell’Emilia e
nella sua «fedeltà gelosa alla tradizione formale, che è tipica della civiltà
letteraria della regione» (Sapegno) ed in Carducci il suo più autorevole
esponente; sia in quella tendenza al naturalismo, che raccoglie l’esortazione
di De Sanctis a volgersi al reale e
non ha esitazioni ad accettare una poetica straniera e a proseguire
l’operazione di superamento della tradizione classicistica operata
dall’illuminismo e dal romanticismo. Da questa seconda tendenza emergeranno gli
spunti più critici sulla società borghese, in nome di un populismo piuttosto
paternalistico ma sincero. Con il realismo generico e con il verismo la
letteratura riscopre il carattere policentrico regionale della società
italiana. Naturalmente il potere politico unitario spinge decisamente verso
l’integrazione culturale e linguistica: scuola, servizio militare, amministrazione
pubblica centralizzata stimolano la lenta diffusione di una lingua comune
parlata (l’obiettivo fallito della «strategia culturale» di Manzoni che con i Promessi
sposi contava di insegnare a parlare italiano a tutti gli italiani). Ma è
un processo lento. Frattanto i veristi, nell’atto di ricostruire
scrupolosamente il milieu secondo i precetti della poetica naturalista,
scoprono che l’uso di una lingua nazionale - manzoniana o purista - suona
irrimediabilmente falso. Da ciò una reviviscenza della letteratura dialettale
oppure, come per Verga, l’affermarsi di una «lingua... tramata di espressioni,
vocaboli, costrutti, propri del dialetto» (G. Petronio).
Giova qui
sottolineare il fatto un po’ paradossale che la letteratura italiana non è mai
forse stata tanto regionalista come dopo il compimento dell’unità politica. Ciò
si spiega non soltanto con la voga del verismo, ma anche e soprattutto con il
fatto che per la prima volta nella storia della penisola i letterati italiani
si sentono sollevati dal compito di dover rappresentare la coscienza unitaria
della patria italiana. L’unità c’è
già, è nelle cose: è l’amministrazione regia e l’esercito, il disavanzo
pubblico e l’imposta sul macinato, le ferrovie e la Triplice. I letterati
possono smettere di rappresentare una patria fantomatica, parlando a suo nome
in una lingua morta e possono invece
abbandonarsi, dopo secoli, al gusto di rappresentare la realtà ossia, nella fattispecie, il mondo sociale circostante.
Nella maggior parte della letteratura realista
e verista, di tale mondo sono rappresentati gli strati piccolo-borghesi e
quelli popolari della provincia italiana. Mentre i primi sono descritti molto
impietosamente verso i secondi si dispiega una vena populista mirante a
idealizzare il popolo come depositario di sani sentimenti ed istinti. In suo
nome la critica alla società borghese si fa, spesso, dura, acerba,
appassionata. Ma non si rinuncia a vedere il riscatto delle classi subalterne
in funzione dell’ideale patriottico, come mezzo cioè di una vera unità
nazionale, col risultato di rendere inevitabile che «la visione di concordia
nazionale offerta ai ceti subalterni come meta del loro riscatto si risolvesse
in puro strumentalismo da parte borghese. Da questo miscuglio di contestazione
e di compromesso, di denuncia e di mistificazione escono risultati letterari
mediocri. Fa eccezione la grande arte di Verga che si accosta al popolo non in
modo ambiguo e ideologico, per consolare e promettere, ma con fermo pessimismo,
per capire e conoscere: «proprio il rifiuto della speranza populista e delle
suggestioni socialiste porta lo scrittore siciliano alla rappresentazione più
convincente che del mondo popolare sia stata data in Italia durante
l’Ottocento» (A. Asor Rosa).
2. La Scapigliatura
- Il
diffuso atteggiamento di insofferenza nei confronti del clima civile e sociale
dell'epoca (in politica la gestione moderata del Risorgimento, nell'arte i toni
moralistici e provinciali del romanticismo italiano) avviò una forte reazione
alla cultura romantica da parte del gruppo della Scapigliatura, operante
perlopiù a Milano negli anni '60. Il termine Scapigliatura, provocatorio e
programmatico, simboleggiava il disordine della vita e dell'abbigliamento
contro l'ordine curato e artificiale imperante. I temi degli scapigliati erano
la lotta al conformismo borghese, dietro a cui vedevano il moderatismo
romantico, il suo provincialismo e quindi il tono ormai convenzionale di una
cultura incapace di stare al passo con la grande letteratura straniera, specie
francese. La Scapigliatura non costituì mai, in effetti, un vero e proprio
gruppo, ma solo un orientamento di rottura. Il "realismo" europeo fu
il pretesto per provocare e attaccare (persino attraverso un furioso
sperimentalismo formale) la sentimentale tradizione retorico-umanistica.
Ne fu araldo il milanese Cletto
Arrighi (pseudonimo di Carlo Righetti, 1830-1906) con il romanzo La
Scapigliatura e il 6 febbraio (1862), che narra di un ambiente di
giovani artisti milanesi, irrequieti e ribelli.
Nato nel Monferrato, Ugo Iginio
Tarchetti (1839-1869) dopo gli studi superiori fu ufficiale di carriera e
partecipò alla repressione del brigantaggio nel Meridione, fatto che lo indusse
a lasciare la vita militare. A quegli anni risalgono le prime composizioni, le
prose poetiche Canti del cuore (1865). Suggestionato dalla
letteratura fantastica del tedesco E.T. Hoffmann e di E.A. Poe, descrisse casi
strani e bizzarri, pervasi talora da forte gusto per il macabro. Si ricordano i
racconti Le leggende del castello nero (1867); Amore
nell'arte (1869); Storia di una gamba (1869). Della
sua produzione narrativa sono di particolare interesse tre romanzi: Paolina (1865),
storia di una povera fanciulla nella crudele realtà della città; Una
nobile follia. Drammi della vita militare (1866), violenta denuncia
antimilitarista delle ipocrisie sociali; ma soprattutto Fosca (1869), l'opera
più riuscita, che narra l'inquietante passione di un giovane per una donna
brutta e malata, che, tuttavia, lo lega a sé per fascino morboso e perverso.
a) Il nome e
la collocazione topografico-cronologica - La Scapigliatura, movimento il
cui nome traduce il senso del termine francese bohème, è un movimento
che si sviluppò a Milano, fra il 1860 e il 1890, cioè durante i primi trent’anni
dell’Italia unita, a opera di un gruppo di intellettuali (i fratelli Camillo e
Arrigo Boito, Ugo Tarchetti, Emilio Praga) in polemica con l’attardata cultura
romantica e con il modello del romanzo manzoniano; ad essa si affianca la
scapigliatura piemontese (Giovanni Faldella, Giovanni Camerana)..
b) La
Scapigliatura come reazione antiborghese - Gli Scapigliati, pur appartenendo
per nascita all’ambiente borghese, si sentono e si dichiarano al di fuori della
società borghese quale si è andata consolidando dopo il ‘60, con la raggiunta
unità d’Italia. La borghesia infatti, messi ormai da parte gli ideali e le
passioni risorgimentali che pure l’avevano animata negli anni del riscatto,
mirava ora - e particolarmente a Milano, dove si stava diffondendosi
l’industrializzazione - all’espansione economica, e faceva del successo
economico il suo metro di valutazione e di giudizio. La sicurezza nella bontà
dei propri principi, che è tipica di ogni classe che detenga il potere in modo
indiscusso, la rendeva inoltre avversa a tutto ciò che, rappresentando una
trasformazione, minacciava la sua sicurezza.
In questo clima
si inserisce la rivolta degli Scapigliati, che diventano gli accusatori di una
società dedita al «dio metallo», cioè all’avida conquista del denaro,
insensibile ai valori dell’arte, ipocritamente decisa a ignorare gli aspetti
turpi e squallidi che pure nella realtà esistono.
Parallelamente,
essi rifiutano, nella vita concreta, l’ordine e gli agi di quella classe
borghese cui appartengono per nascita e vivono polemicamente in modo
disordinato e anomalo, dediti come sono, spesso, all’alcool e alla droga.
c) Il
«realismo» degli Scapigliati - In letteratura, gli Scapigliati si
autodefiniscono dei realisti. Ma il loro realismo ha un carattere del
tutto particolare, protestatario ed eversivo. Non si propongono, cioè, una
interpretazione ed una rappresentazione della realtà in tutti i suoi aspetti,
ma vogliono soltanto denunciarne i risvolti turpi, abnormi, quei risvolti che
la società dei benpensanti cancellava dalla propria attenzione. Sono quindi i
cantori, fondamentalmente anarchici, dell’orrendo,
del macabro, delle contraddizioni irrisolte, delle verità squallide che stanno
al di sotto delle confortevoli apparenze.
Al Romanticismo,
il grande movimento letterario che lì aveva preceduti, e allo stesso Manzoni
gli Scapigliati furono avversi, anche se sentirono l’influsso di alcuni
scrittori romantici stranieri.
d) L’influenza
di Baudelaire - Recepirono invece, almeno embrionalmente, la lezione del decadentismo, il movimento che andava
affermandosi in Francia, e soprattutto la lezione di Baudelaire dal quale
derivarono temi e tecniche innovatrici. L’opera maggiore di Baudelaire, I
fiori del male, uscita nel 1857, diventò il loro breviario poetico. Fra gli
scrittori scapigliati ricordiamo Emilio Praga, Arrigo Boito, Iginio Ugo
Tarchetti, Giovanni Camerana, milanese dì nascita il primo, gravitanti tutti
sull’area milanese gli altri o perché avevano fatto di Milano la loro città di
adozione, o perché mettevano capo culturalmente all’ambiente milanese.
e) La produzione
scapigliata – La produzione scapigliata fu un’esperienza
sviluppatasi soprattutto a Milano a partire dagli anni Sessanta.
Questi autori,
accomunati dalla ricerca della novità sia tematica che formale, sperimentarono
strade fra loro diverse. Introdussero il fantastico, l’onirico, la satira
d’ambiente, il divertimento ironico, prediligendo forme narrative inusitate
come il romanzo breve e la novella lunga.
Questi autori produssero
una poesia che rappresenta la punta avanzata verso il nuovo, ma che si
esaurisce nel rinnovamento tematico e in qualche limitata sperimentazione
formale.
Essi furono
affascinati dai temi audaci e inconsueti dei simbolisti, e li assunsero come
propri svuotandoli dei significati più profondi e inquietanti e riducendoli a
espressioni di bizzarria, di originalità, di anticonformismo.
3.
L’estetica naturalista - Il grande prestigio che il pensiero scientifico
acquistò nel corso del secondo Ottocento si fece sentire anche nel campo
letterario. In particolare i narratori avvertirono l’importanza di accordare
il processo creativo sul modello del metodo della ricerca scientifica,
giungendo alla formulazione di alcuni criteri generali:
·
il
narratore non deve inventare una storia più o meno interessante, ma
rappresentare la vera vita dell’individuo e della società;
·
la
narrazione si qualifica come studio di un fenomeno di cui si indicano
le cause, così che l’arte si risolve, in ultima analisi, in un processo di
conoscenza;
·
muta
il rapporto tra narratore e opera, nel senso che l’autore è necessariamente
portato a far parlare i fatti più che a darne una spiegazione attraverso
interventi diretti nella narrazione;
·
l’espressione
dei sentimenti si trasforma in spiegazione dei sentimenti, sfruttando a
tal fine ciò che in quel periodo veniva scoperto nell’ambito della fisiologia.
Tutte queste
istanze, presenti nella narrativa francese che si disse naturalista, vennero
ordinate in una teoria del romanzo da Emile Zola, il quale tra il 1868 e il
1893 si impegnò nella scrittura di una ventina di romanzi del ciclo dei Rougon-Macquart
che, secondo l’indicazione dello stesso autore, è fa «storia naturale e
sociale di una famiglia sotto il secondo impero».
Zola espresse le
sue idee sul romanzo in uno scritto teorico che ebbe grande rilievo e che fu
anche in Italia al centro dell’attenzione. Il titolo dell’opera, Il romanzo
sperimentale, annuncia già la tesi di fondo: il romanziere è come lo
sperimentatore scientifico, non si limita ad osservare, ma deve scegliere
l’argomento, collocare i personaggi in situazioni determinate, studiarne,
secondo l’esperienza, le reazioni, farli agire secondo la loro indole. In
questo modo egli può rendere chiari i meccanismi dei comportamenti umani e creare
in laboratorio una scienza umana che sia in grado di guarire la società dai
suoi mali. Egli indica pertanto nel Naturalismo un metodo e non una
scuola, e quindi non rivolge la sua attenzione ai problemi di stile; si limita
a dire che la lingua deve essere omogenea all’ambiente rappresentato e che il
romanziere-sperimentatore non deve in alcun caso comparire all’interno
dell’opera.
L’arte del secondo Ottocento - La
rivalutazione della luce e del colore come mezzi per esprimere sensazioni e suggestioni
suscitate nell'artista dalla natura, l'uso di una pennellata rapida e densa e
la predilezione per il lavoro en plein air furono
le caratteristiche salienti dell'Impressionismo, corrente pittorica che per
tali vie intese contrapporsi con nuovi valori formali all'arte accademica.
Movendo
dall'impressionismo e tuttavia prendendone le distanze, movimenti artistici
quali il divisionismo, segnatamente con il suo teorico Signac, il
postimpressionismo e il simbolismo posero l'accento su altri aspetti della
creazione artistica.
Dopo
il simbolismo, sul finire dell'Ottocento, un'ulteriore svolta fu impressa da Edvard Munch,
pittore in aperta polemica contro l'accademismo.
L’Impressionismo – Sviluppatosi in Francia nella seconda metà
dell'Ottocento, l'Impressionismo rappresentò un evento rivoluzionario nei
confronti della cultura figurativa ufficiale. Eppure si trattò di una ripresa,
per quanto sconvolgente e repentina, di alcuni motivi già caratteristici
dell'opera di Corot e dei paesaggisti di Barbizon, del realismo di Courbet e
del romanticismo di Delacroix.
Le
premesse - Nella fase formativa del movimento ebbe grande importanza il
programma antiaccademico di E. Manet. La critica ufficiale accolse
negativamente le sue opere, mentre lo scrittore Emile Zola scrisse una serie di
articoli in favore di Manet e degli altri pittori del gruppo.
La prima manifestazione ufficiale
dell'Impressionismo, fu una mostra organizzata nell'aprile-maggio 1874, nello
studio fotografico di Félix Nadar con intenti di polemica indipendenza dal
Salon ufficiale. Vi esposero una trentina di pittori, tra cui Bazille,
Cézanne, Degas, Monet, Morisot, Pissarro, Renoir, Sisley. La mostra fu definita
Exposition impressionniste, con
un neologismo derivato dal titolo di un quadro di Claude Monet (Impression,
soleil levant, 1872).
Il nucleo primo dell'Impressionismo,
come da allora si chiamò il movimento si era costituito, intorno al 1860,
dall'incontro di Pissarro, Cézanne e Armand Guillaumin (1841-1927), a cui si
erano aggiunti Monet, Renoir, Sisley e Bazille. Pur con personalità così
diverse, questi pittori erano accomunati dallo stesso desiderio di rompere con
gli schemi accademici e sollecitati da una particolare sensibilità verso i
problemi inerenti la visione e
dall'indifferenza per il contenuto classicamente inteso: «trattare un soggetto
per i valori tonali e non per il soggetto in sé: ecco che cosa distingue gli
impressionisti dagli altri pittori».
Alla pittura in studio gli
impressionisti preferirono la pittura all'aria aperta (en plein air): le
vibrazioni luminose del paesaggio, dell'oggetto, della figura umana immersa
nell'atmosfera furono fissate con istantaneità nei loro aspetti mutevoli,
ricreate attraverso la giustapposizione di rapidi tocchi di colore. Eliminando
gli effetti plastici del disegno e del chiaroscuro per un sensibile non-finito,
gli impressionisti operarono una fusione tra oggetto, spazio e atmosfera, al
fine di far coincidere la rappresentazione pittorica con l'impressione
momentanea, fisiologica e soggettiva, dell'artista. La tecnica adottata, pur
trovando un sostegno teorico nei contemporanei studi sulla complementarietà dei
colori, si realizzò sul piano della sensibilità pittorica individuale, senza
seguire un metodo rigorosamente definito, come avvenne invece successivamente
per alcuni movimenti, quali il divisionismo, che proprio dall'impressionismo
presero impulso.
Se l'interesse comune per la
pittura en plein air aveva dato temporaneamente un'impronta
unitaria all'opera di questi artisti, pur non eliminandone le differenze di
stile e di sensibilità, tuttavia l'Impressionismo non ebbe mai l'assetto di un
movimento organizzato e coerente a un programma.
Il divisionismo
– Il divisionismo (in francese pointillisme,
puntinismo) è un movimento pittorico nato in Francia attorno al 1884 col nome
di neoimpressionismo. Esso sviluppò su basi scientifiche e sistematiche gli
interessi per i processi ottico-visuali già empiricamente perseguiti
dall'impressionismo e connessi all'invenzione della fotografia.
I divisionisti elaborarono una
pittura basata sull'uso di colori puri ("divisi") e complementari,
mai mescolati fra loro, ma giustapposti in pennellate minute, talora
puntiformi, in modo da affidare all'occhio dello spettatore il compito di
fonderne le radiazioni luminose, producendo nell'immagine effetti di grande
luminosità e brillantezza cromatica. L'elaborazione teorica però annulla
l'immediatezza della sensazione visiva; in tal modo, pur rimanendo aderente
al plein air degli impressionisti, la tematica divisionista si
concreta in immagini innaturali e fuori del tempo.
Teorico del divisionismo fu Paul Signac,
il massimo esponente Georges Seurat. Dalla Francia il movimento si
diffuse in altri paesi europei e anche in Italia.
Il
postimpressionismo – Agli inizi del Novecento entrò convenzionalmente in uso il
termine postimpressionismo con riferimento alle varie tendenze della pittura
francese che dopo l'Impressionismo e il Divisionismo portarono all'affermazione
del Fauvismo e del Cubismo. Alla ricerca di una nuova definizione espressiva
della forma, dopo la decomposizione attuata dal colore e dalla luce degli
impressionisti, contribuirono artisti di interessi e temperamento diversi:
Cézanne, Gauguin, Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Émile Bernard (1868-1941), Odilon
Redon, Pierre Bonnard (1867-1947), Édouard Vuillard (1868-1940). Attraverso
queste differenti personalità e sullo stimolo della fondamentale lezione di
Cézanne il postimpressionismo vide lo sviluppo delle esperienze simboliste e
sintetiste (Scuola di Pont-Aven, nabis), con il loro ideale di "superare
il mondo delle apparenze".
Il simbolismo
- Il simbolismo fu un movimento emerso nella pittura moderna verso il 1890,
durante il periodo postimpressionista. All'idea di ricerca e di progresso
propria del realismo ottocentesco, esso sostituì quella di una continua
aspirazione alla trascendenza. I maestri della nuova generazione furono G.
Moreau, O. Redon e R. Bresdin. La nuova estetica prese le mosse in Francia in
campo letterario con Baudelaire, Mallarmé, Verlaine, Rimbaud. In questo momento
di vivo fermento culturale intervenne nell'ambito simbolista P. Gauguin già in
contatto con i poeti simbolisti.
Quasi contemporaneamente, in
relazione più o meno stretta col simbolismo francese, si manifestarono analoghe
tendenze in altri paesi europei: in Inghilterra, dove un avvio era stato dato
dai preraffaelliti , con l'estetismo vittoriano di Aubrey Beardsley (1872-98),
in Olanda con Jan Toorop (1858-1928), in Svizzera con Ferdinand Hodler (1853-1918),
in Germania con Alfred Kubin (1887-1959). Un altro centro simbolista fu poi
Vienna, dove attorno a G. Klimt si raccolse un folto gruppo di artisti che nel
1897 fondarono il movimento della secessione viennese.
La pittura
italiana dell’ultimo Ottocento - Durante
l'ultimo ventennio dell'Ottocento l'Italia visse un clima politico e sociale
acceso, in cui si produssero eventi quali l'ascesa della "sinistra
storica", la fondazione del partito socialista italiano, la morte nel 1878
di Vittorio Emanuele II, la stipula della triplice alleanza nel 1889. Questo
clima di transizione e mutamento lasciò tracce, seppure in modi differenti,
anche nei due principali episodi della produzione artistico-figurativa, il
divisionismo e il realismo sociale. Sulla scorta delle esperienze pittoriche
del pointillisme francese,
nella Milano di fine Ottocento si formò in un primo tempo la corrente del Divisionismo,
i cui maggiori esponenti furono Giovanni Segantini e Gaetano Previati. In
seguito si affermò una cultura figurativa attenta agli ideali socialisti e alle
istanze di rinnovamento delle classi proletarie, il cui interprete di maggior
spessore fu sicuramente Giuseppe Pellizza da Volpedo.
Il movimento del divisionismo era nato in Francia, nel 1884.
A Milano esso fu ripreso da pittori come G. Segantini, G. Previati, G. Pellizza
da Volpedo, A. Morbelli, Vittore Grubicy (1851-1920, che fu anche il teorico
del movimento italiano), che tuttavia lo ridussero a formula tecnica, al
servizio d'una tematica di volta in volta simbolista, storico-allegorica,
politico-sociale.
Dallo studio divisionista delle vibrazioni luminose prese le
mosse la ricerca futurista di U. Boccioni, G. Balla, C. Carrà, G. Severini.
4. Il Verismo – Il
Verismo è la corrente letteraria italiana più interessante della seconda parte
del secolo che, sulle premesse filosofiche del positivismo, trae origine dalle
teorie del naturalismo francese e dalle condizioni proprie del momento storico
italiano, come la grave crisi delle regioni meridionali, l'esistenza di una
consuetudine linguistica e dialettale di carattere regionale e la mancanza di
una consolidata tradizione di narrativa romantica di tipo realistico e di
contenuto sociale. Maestro indiscusso del movimento fu Giovanni Verga.
a) L’Italia dei veristi e il regionalismo - Intorno al
1870 Luigi Capuana, scrittore e critico, diffuse in Italia i princìpi del
naturalismo francese e pose i presupposti teorici e pratici del verismo. Capuana
attenua alcuni aspetti delle tesi di Zola, in particolare l’identificazione tra
scrittore e sperimentatore scientifico e imita il carattere di denuncia del
romanzo.
Contemporaneamente
rivolge un’attenzione particolare ai problemi della forma, che ritiene
centrali, e individua il carattere precipuo del romanzo naturalista proprio in
un aspetto costitutivo della forma del romanzo, vale a dire nel concetto di impersonalità
e di scomparsa
dell’autore. Secondo la sua
teorizzazione, il romanzo verista dovrebbe essere in grado di ritrarre ogni
realtà sociale, non solo la vita semplice e schematizzabile delle classi inferiori,
ma anche la vita complessa, soprattutto a livello psicologico, della
borghesia, adeguando ogni volta lo stile e il linguaggio al contenuto.
La realtà del
proprio tempo, che essi vogliono ritrarre in presa diretta, costituisce
abitualmente e programmaticamente la materia dei veristi. Ma in essa il loro
interesse si rivolge non già alle classi egemoni, ma ai ceti poveri e
frustrati, soprattutto a quel quarto
stato che era rimasto ai margini del moto risorgimentale, non educato a
parteciparvi, e a cui l’unità d’Italia aveva recato più disagi che vantaggi,
aggiungendo nuove imposizioni (tasse, leva militare obbligatoria) alle
vessazioni antiche.
Poiché mancava
all’Italia, dove l’industrializzazione era ancora agli inizi, quel proletariato
operaio delle grandi città che in Francia offre materia ai romanzi di Zola, il
mondo che essi ritraggono è quello dei ceti subalterni delle varie regioni
italiane, che sono poi le loro regioni d’origine e che essi più profondamente
conoscono: i vaccari e i mandriani della Toscana in Fucini, i pescatori, i
pastori, i contadini siciliani in Verga e in Capuana.
Di qui il carattere
regionalistico che connota il verismo, e che corrisponde alla reale
fisionomia del nostro Paese, dove nonostante la raggiunta unità ogni regione
aveva continuato a mantenere le sue caratteristiche specifiche e
diversificanti.
b) Le tecniche narrative del verismo - Come i
naturalisti francesi, anche i veristi italiani sostengono il principio che lo
scrittore deve essere distaccato e obiettivo nei confronti della materia che
rappresenta e non deve interferire in essa né col suo giudizio né con la sua
sensibilità. «La mano dell’artista» - scrive Verga nella prefazione a una sua
novella, L’amante di Gramigna - deve rimanere «assolutamente
invisibile», così che l’opera d’arte sembri «essersi fatta da sé, esser
sorta ed esser maturata spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun
punto di contatto col suo autore».
Per aderire al
reale e per adeguarsi alla «verità» della materia rappresentata, anche la
lingua che i personaggi parlano dovrà mantenere caratteri regionali.
c) L’esperienza
poetica legata al verismo - alcuni scrittori trasportarono in versi
l’idea di una nuda e veritiera rappresentazione della realtà; ricordiamo qui il
nome di Olindo Guerrini, che usava lo pseudonimo di Lorenzo
Stecchetti.
5. Giovanni
Verga –
È il massimo esponente del verismo,
di cui fu anche uno dei teorici.
a) La vita e le opere - La famiglia, di sentimenti liberali,
apparteneva alla piccola nobiltà di campagna. Nato a Catania nel 1840, Verga
trascorse la giovinezza nella proprietà di Vizzini, vicino al capoluogo etneo. compi a Catania
gli studi medi. Nel 1858 si iscrisse alla facoltà
di giurisprudenza
catanese senza peraltro pervenire alla laurea;
all'arrivo di Garibaldi nel 1860 si arruolò nella Guardia nazionale e rimase in servizio fino al 1864. In quegli anni
scrisse e pubblicò alcuni romanzi di contenuto patriottico (I carbonari
della montagna nel 1861-62; Sulle lagune nel 1863) e collaborò con numerose riviste politiche e
letterarie.
Nel 1865 compì il primo viaggio a
Firenze, allora capitale d'Italia, restando affascinato dal mondo intellettuale
della città.
dove venne a contatto con un ambiente letterario più aperto di quello siciliano Vi tornò più stabilmente nel 1869, dopo aver pubblicato il
romanzo Una peccatrice nel 1866 e averne preparato un
secondo, Storia di una capinera nel 1871.
Dal 1872 si trasferì a Milano.
L'incontro più significativo fu quello con il siciliano Capuana, che gli fece
conoscere il naturalismo degli scrittori francesi Flaubert e Zola. Pubblicato
un terzo romanzo, Eva nel
1873, Verga continuò una produzione connotata da due tendenze
antitetiche: scrisse un bozzetto di forte impronta naturalista e di
ambientazione siciliana Nedda, nel 1874 e contemporaneamente approntò
due romanzi dai toni tardoromantici, con tematiche proprie del mondo elegante
dei salotti aristocratici e borghesi: Tigre reale (1875)
ed Eros (1875). Il suo interesse si era ormai orientato verso
la poetica del vero, mutuata dagli scrittori francesi: dall'intensa riflessione
teorica e dal recupero nella memoria di temi siciliani nacquero le raccolte di
novelle Vita dei campi nel 1880, Novelle rusticane bel 1883 e il romanzo I Malavoglia nel 1881, il primo del
ciclo intitolato I vinti. Queste grandi opere sia per la novità
dell'argomento, accentuata dalla sostanziale marginalità dell'ambiente
rappresentato, sia per l'originalità dell'impostazione linguistica, molto
distante dalla tradizione manzoniana, non ottennero il successo che avrebbero
meritato. Per questo motivo, oltre che per sopravvenute difficoltà economiche,
lo scrittore non trascurò del tutto la narrativa di ambiente non siciliano e
pubblicò il romanzo Il marito di Elena del 1882 e le novelle milanesi Per le vie del 1883.
Nel 1884 ottenne un grande successo
con la versione teatrale della novella Cavalleria
rusticana, andata in scena a Torino per interessamento di Giacosa.
Ritrovato l'entusiasmo, egli tornò a dedicarsi alle novelle di ambiente
siciliano (Vagabondaggio, 1887) e soprattutto alla stesura di un
romanzo già iniziato verso il 1883 e mai compiuto, il Mastro-don Gesualdo del 1889, che fu ben accolto dai lettori.
Seguirono altre due raccolte di novelle, I ricordi del capitano
d'Arce del 1891 e Don Candeloro e C.i del 1894. Nel
frattempo aveva ottenuto un trionfo la versione musicale della Cavalleria
rusticana,opera di Mascagni (la prima è del 1890): Verga, di nuovo in
ristrettezze economiche, fece causa al compositore e all'editore Sonzogno,
ottenendo nel 1893 un sostanzioso risarcimento, che gli consentì di vivere
agiatamente per il resto dei suoi giorni.
Nel 1893 tornò
in Sicilia e si occupò con continuità soprattutto di teatro, per cui compose
tra l'altro i drammi La lupa nel 1896, La
caccia al lupo del 1901, La caccia alla volpe del 1901
e soprattutto Dal tuo al mio del 1903,
in cui viene presentata una tematica sociale di notevole intensità e modernità.
Per circa vent'anni, fino alla morte avvenuta a Catania nel 1922, scomparve
dalla ribalta letteraria.
b)
I tre momenti della narrativa
verghiana -
Nella produzione narrativa di Verga sono distinguibili tre momenti. È autore,
in un primo tempo, di mediocri romanzi storici.
Successivamente
compone romanzi che rappresentano situazioni languide e lacrimose, come la
vicenda di una giovinetta che diventa monaca a forza e che si conclude con la
pazzia e la morte della protagonista (Storia
di una capinera), oppure presentano personaggi d’eccezione, come
artisti, donne bellissime e fatali, a volte non prive dell’alone fascinoso
dell’esotismo (Una peccatrice, Eva, Eros, Tigre reale).
Il terzo tempo
verghiano, quello verista, nasce da una decisa svolta sia morale sia artistica
dello scrittore. Stanco ormai del mondo egocentrico e superficiale rappresentato
nei romanzi del secondo periodo, Verga torna col pensiero all’umile gente della
sua Sicilia: pescatori, contadini, pastori, piccola borghesia di provincia, e
alla loro vita dura e stentata, segnata da fatiche e dolori.
c) La teoria dell'impersonalità – La posizione di Verga nell'ambito delle poetiche del vero è
il metodo dell'impersonalità,
lasciare che sia il fatto nudo e schietto,
e non le valutazioni dell'autore, il centro della narrazione, come scrive nella
premessa alla novella L'amante di Gramigna. Su questa impostazione
Verga sviluppò in particolare la parte più alta della sua produzione
novellistica. La Vita dei campi è
caratterizzata dalla presenza di indimenticabili personaggi dominati da una
tragica condizione di violenza, in cui si frantumano i diversi aspetti della
vita: essa diviene brutalità nei rapporti umani (Rosso Malpelo),
crudeltà nella vita sociale (Jeli il pastore), disperazione nel
conflitto dei sentimenti (Cavalleria rusticana), tragica oppressione
delle pulsioni naturali del sesso e della psiche (La lupa e L'amante
di Gramigna).
Le Novelle rusticane invece
prediligono quadri d'assieme, segnati da un immutabile destino di sconfitta sia
nel confronto con la natura (Malaria), sia in quello con la storia (Libertà;
Cos'è il re). Dominano la morte e il fattore economico, che in questo
contesto acquista un aspetto particolare, di mezzo per la sopravvivenza e di
idolo del possesso (Pane nero; La roba), assumendo in un
caso e nell'altro un significato più importante della vita stessa.
d) La grande
stagione verista - La tecnica del verismo, col principio dell’adesione al
reale e col rifiuto della interferenza e degli abbandoni emotivi dello
scrittore, appare a Verga la migliore per rappresentare l’amara esistenza degli
umili della sua terra.
Il momento
verista di Verga è preannunciato da una novella, Nedda, composta nel
1874. Nedda è la storia
di una povera ragazza siciliana, raccoglitrice di olive, oppressa dalla miseria
anche nei suoi affetti, e la sua vita è narrata secondo la tecnica veristica di
lasciare che le cose parlino da sé.
Su questa
direttiva lo scrittore compone successivamente le sue opere maggiori: le
novelle delle raccolte Vita dei campi del 1880 e Novelle rusticane del
1883 in cui sono rappresentati situazioni e ambienti siciliani, sentimenti e
passioni elementari vissute spesso con drammatica violenza e i due romanzi I Malavoglia del 1881 e Mastro don Gesualdo del 1888.
e)
Il ciclo dei vinti – Da Zola Verga ricavò, oltre ai principi generali del romanzo
sperimentale, la concezione di origine darwiniana del ciclo, inteso come susseguirsi di romanzi che, riguardando gli stessi
personaggi o i loro discendenti, permettono di cogliere le costanti e le
modificazioni di comportamento in relazione al mutare dell'ambiente sociale.
Nella prefazione ai Malavoglia Verga
definisce la tesi generale e le articolazioni del ciclo dei vinti, che egli definisce una specie di fantasmagoria della lotta per la vita. Secondo il
progetto, il ciclo avrebbe dovuto essere composto da cinque romanzi (I
Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, La duchessa di Leyra, L'onorevole Scipioni,
L'uomo di lusso), attraverso cui l'autore avrebbe descritto la lotta per
l'affermazione in tutte le classi sociali, dalle più umili alle più elevate.
L'idea base era che i protagonisti pagassero il loro tentativo di modificare la
propria condizione sociale con una sconfitta irreparabile. Con un corollario:
il mutamento, e non solo della struttura sociale, ma anche dei rapporti
interpersonali, risulta impossibile; la delusione che ne deriva è una vera e
propria vendetta della colpa.
Il terzo romanzo, La
duchessa di Leyra, avrebbe dovuto trattare delle vicende della figlia
di Mastro-don Gesualdo, ma l'autore non ebbe la forza per
concludere il ciclo dei vinti.
f)
I
Malavoglia - Il romanzo I Malavoglia narra le vicende di una famiglia di pescatori di Aci
Trezza, un
paesino vicino a Catania, guidata con polso fermo da padron
'Ntoni, il nonno, che, sullo sfondo di un'Italia appena unificata, affronta il
drammatico passaggio dai valori di un mondo arcaico alla sfuggente realtà del
presente. Il romanzo si costruisce attorno al fondamentale concetto dell'ideale dell'ostrica, cioè la necessità
per chi appartiene alla fascia dei deboli di rimanere abbarbicato ai valori
della famiglia, al lavoro, alle tradizioni ataviche, per evitare allora che il
mondo, il "pesce vorace", lo divori.
Una tempesta ha
distrutto la barca che era il loro mezzo di sostentamento, ed essi sono
costretti, per pagare i debiti contratti, a vendere la casa, la «casa del
nespolo», che è il simbolo della loro unione familiare. Segue la storia delle
loro fatiche per resistere al bisogno; il cedimento di alcuni di loro, che
abbandonano la famiglia e il paese per cercare altrove fortuna; le rinunce di
tutti quelli che restano, che non saranno a sufficienza compensate dalla casa
finalmente riacquistata, perché la famiglia non è ormai più quella di un tempo
a causa di chi se ne è andato e di chi è morto.
Intorno ai
Malavoglia si muovono, sfondo e coro a un tempo, gli abitanti di Aci Trezza,
con le loro beghe, i loro sentimenti, le sofferenze, le chiacchiere, i
pettegolezzi.
I Malavoglia si
fondano sulla coralità dell'oggetto della narrazione e delle modalità
attraverso cui essa avviene. La voce narrante diventa collettiva, fa largo uso
dei proverbi e dei modi di dire, avvalendosi spesso dello stile indiretto libero, attraverso cui la voce di un personaggio si
fonde senza difficoltà né resistenze sintattiche con quella di altri, secondo
una totale continuità comunicativa. La scelta linguistica evidenzia lo scontro
ideologico campagna-città, civiltà contadina-civiltà borghese, aggravato dallo
scontro tra le generazioni (la paziente ed epica lotta del vecchio padron
'Ntoni con l'insofferenza e la spregiudicatezza del giovane 'Ntoni).
g) Mastro-don Gesualdo,
celebra invece il mito della roba e
al tempo stesso l'impossibilità di trasformare la ricchezza accumulata in una
completa promozione sociale. Mastro-don Gesualdo è il romanzo
dell'uomo solo, che tenta di emergere nonostante le resistenze sorde o
esplicite della società contadina da cui proviene, che lo rifiuta per il suo
modo di vivere così diverso dalla tradizionale rassegnazione, e di quella
nobiliare, che non gli permette di introdursi in un mondo in cui ha valore la
nascita e non l'agire. Un tentativo troppo grande per non fallire. Così come il
protagonista è solo nella sua lotta, la lingua della narrazione perde il colore
della coralità e assume un carattere teso, a volte contratto, in cui l'apporto
dialettale assume spesso una valenza gergale e amara, per esprimere un quadro
in cui domina il cupo pessimismo dell'immobilità.
h)
Il pessimismo
– Nel suo radicale pessimismo, Verga considera queste sconfitte come fatalmente
legate al destino degli uomini. Nella corsa allo «star meglio» e alla
ricchezza sempre ci saranno dei vinti, e i vincitori di oggi saranno
probabilmente i vinti di domani.
Nonostante
l’impegno veristico di obiettività e di distacco, la pietas dello
scrittore, di fronte a questa condizione umana, traspare, in modo implicito,
nei gesti, negli atteggiamenti, nei pensieri dei personaggi e nel ritmo stesso
del dialogo e del racconto. L’alta poesia di queste due opere nasce proprio
dalla controllata emozione tradotta in «cose».
i) Il
linguaggio verghiano - Per aderire alla realtà rappresentata Verga da alla
sua lingua una coloritura regionale, ottenuta qualche volta introducendo
vocaboli dialettali siciliani, ma più spesso costruendo il periodo sulle
strutture e sul ritmò del periodo dialettale.
Inoltre, lo
scrittore si sforza di trasferire nel linguaggio la «forma mentale» dei suoi
personaggi, sia che essi parlino in discorso diretto, sia che i loro pensieri e
le loro parole vengano riferiti nel discorso indiretto.
In questa
direzione è significativo l’uso frequente dei proverbi, attraverso i quali essi
esprimono la loro atavica tradizione sapienziale, la loro «cultura».
Allo stesso
modo, per filtrare i concetti attraverso la levatura mentale, le abitudini dei
suoi personaggi, lo scrittore ricorre alle similitudini tratte dall’umile
esperienza quotidiana che essi vivono. Per fare un esempio, il vecchio padron
‘Ntoni, parlando del giovane nipote che è andato a fare il soldato e che si
lascia ingenuamente affascinare dalle meraviglie della città, dice che «è fatto
come i merluzzi, che abboccherebbero a un chiodo arrugginito». E sono esempi
che possono abbondantemente moltiplicarsi.
l) conclusioni – Verga
fece suo il naturalismo; inventò una scrittura nuda e crudele, capace di
rappresentare il destino amaro di uomini falliti. I Malavoglia e Mastro-don
Gesualdo sono i romanzi più belli di fine secolo. Bruciò in sé
l'esperienza positiva del realismo manzoniano e realizzò un'opera che del
risentimento e della disperazione fece il proprio suggello filosofico e la più
radicale e straordinaria bellezza. Accostato da Riccardo Bacchelli a Manzoni e
Leopardi come il terzo grande scrittore dell'Ottocento italiano, Verga venne
facilmente contrapposto da Luigi Pirandello a D'Annunzio e al suo estenuato
decadentismo.
6.
Antonio Fogazzaro
- Una posizione più appartata, ma più inquieta,
fu quella di Antonio Fogazzaro
(1842-1911) che ebbe idee decisamente contrarie alla poetica del
Verismo.
Risalendo alle
esperienze idealistiche del primo romanticismo nordico, Fogazzaro propose
un’arte che recuperasse alle radici, nella sua primordiale sublimità, la natura
umana, sostenendola nell’incessante e drammatica lotta contro la "bestia
oscura che sopravvive in noi". Fogazzaro sposta l’attenzione dalla realtà
esterna a quella interiore e tenta le vie della scoperta del subconscio,
rientrando per questo nell’area del decadentismo. I suoi romanzi, da Malombra,
il primo ed il più esemplare, a Piccolo mondo antico, il suo capolavoro,
e Piccolo mondo moderno, sono testimonianza di una vita tormentata,
vissuta nella solitudine della propria coscienza.
Spirito
profondamente religioso, visse la sua religiosità con scarso equilibrio, ma con
intenso fervore, pervaso spesso da una sorta di esasperato misticismo che più
volte lo fece deviare dall’ortodossia cattolica.
Smanioso di
liberarsi dalle pastoie di un conformismo borghese opprimente, fu però incapace
di formulare in termini di chiarezza una nuova visione della società, delle sue
regole, della sua cultura.
Le
caratteristiche più salienti della sua arte sono da individuare appunto nel
costante turbamento derivante dal contrasto insolubile tra la sua sensualità e
il suo misticismo, nei continui tentativi di mettere a nudo tutto quanto è
riposto nel più profondo dell’animo, nella tendenza a forgiarsi uno stile
quanto più possibile alieno dalla tradizione.
7.
Le voci di un’Italia bambina: Cuore e Pinocchio – Due romanzi che
raggiunsero il maggior successo di pubblico furono due libri per l’infanzia: Cuore
di De Amìcis che raggiunse un vastissimo pubblico e Pinocchio di Carlo
Collodi, il libro più letto di tutto il secondo Ottocento. Cuore di
Edmondo De Amicis si colloca in un momento cruciale della storia italiana,
quando la nazione appena nata stava ancora cercando principi comuni in cui
identificarsi. Gli alunni del maestro Perboni rappresentano un inventario di
modelli ideali del futuro cittadino perfetto, ad uso e consumo dei
piccoli italiani: nella prospettiva risorgimentale di De Amicis, il bambino è
visto come adulto in miniatura, già impegnato con i propri minuscoli mezzi
nell’eterna lotta tra il bene e il male. Nulla è lasciato alla fantasia,
all’illogicità magica e ammaliante propria della visione infantile. Anche Le
avventure di Pinocchio di Collodi sembra sostenersi su un progetto di tipo
pedagogico. La celebre favola mette in scena la trasformazione di un burattino
in bambino vero, metafora del passaggio dall’età informe e irrazionale
dell’infanzia al tempo regolato e maturo dell’età adulta. Eppure, se il
capolavoro di Collodi è ancora attuale, è perché Pinocchio, con la sua
credulità, la furbizia disinteressata, la pigrizia e gli slanci di affetto,
rappresenta in modo geniale il mondo di ogni bambino. Così come tutti i
personaggi che accompagnano il burattino nelle sue avventure, dalla Fata
Turchina a Mangiafuoco, dal Grillo Parlante al Gatto e la Volpe, sono un
riflesso della sua paura, dei sogni e dei più folli e irrealizzabili desideri.
Il libro Cuore di De Amicis è, realista e urbano, quanto Pinocchio è
fiabesco e contadino. Pinocchio è una favola rispetto al libro Cuore,
perché vi troviamo elementi fantastici che nell’altro non vi sono. Il libro
Cuore parla di ragazzi e non di burattini. Quello di De Amicis è un
libro dove si parla di fatti concreti, reali, di giovani di scuola, di rapporti
fra ragazzi e di sentimenti mentre in Pinocchio sono raccontati fatti
che sono frutto di una fantasia, talvolta sfrenata e spesso surreale.
L’ora delle scelte – Nel
venticinquennio a cavallo del ‘900 (1890-1915) fra gli intellettuali si
diffonde un atteggiamento di ostilità verso la società di massa che si sta
formando in Occidente e nella quale si va creando una polarizzazione netta fra
grande borghesia ed élite politica, da un lato, e masse proletarie in
aumento e in ascesa dall’altro, mentre, intanto, i ceti medi (piccola borghesia
imprenditoriale ed agraria, commercianti, artigiani, impiegati pubblici e
privati) - dai quali per lo più gli intellettuali provengono e nei quali per la
loro professione si collocano - rischiano una progressiva proletarizzazione.
La prospettiva
di tale declassamento spazza via gli atteggiamenti moderatamente
progressisti dei decenni precedenti, e impone una scelta più netta: o diventare
progressisti in modo radicale e abbracciare il socialismo in una delle forme
in cui esso si presenta o, rifiutando questa scelta di campo:
a) passare dalla
parte dei gruppi dominanti in primo luogo da loro stessi;
b) rifiutare
ogni impegno politico-sociale rifugiandosi nell’arte e nella cultura fine a se
stesse;
c) proporsi come
leader di movimenti piccolo-borghesi miranti a una società di tipo
diverso, antisocialista e anticapitalista, dominata da aristocrazie spirituali e intellettuali.
Solo una piccola
parte sceglie la prima soluzione. E si tratta per lo più di adesioni tiepide e
passeggere. Si pensi a Pascoli a cui un po’ di prigione fa cambiare subito
parere e a De Amicis e al suo socialismo edulcorato e «deamicisiano».
Dalla parte del
potere economico e politico si schierano soprattutto gli scienziati e i tecnologi,
produttori di quel tipo di cultura che più interessa al modo di produzione
capitalista (spesso convinti di svolgere solo un’attività neutrale al di sopra
delle parti), alcuni grandi intellettuali, come Benedetto Croce, filosofo
idealista, storico e critico, dittatore per decenni della cultura italiana
(«un feudatario d’idee», lo chiamerà Corrado Alvaro), e molti letterati di mezza
tacca, produttori di cultura volgare, «di massa», utili come persuasori di
obbedienza.
Nel filone dei
disimpegnati, di coloro che si rifugiano nell’autoanalisi e nella
commiserazione di sé e del
mondo, i letterati formano una schiera nutrita: dai crepuscolari che, a partire
da Marino Moretti, si chiedono «Chinar la testa che vale? Che vai nuova
fermezza?», da Svevo e Tozzi coi loro personaggi abulici e infelici, a
Pirandello che disegna e anticipa ora, nella sua opera narrativa, il
protagonista del suo teatro futuro: l’uomo senza identità, «risultato della
scomposizione della persona romantica e borghese, del frantumarsi di quella
unità psicologica e morale in un mosaico di apparenze ingannevoli» (A. Leone De
Castris); a Pascoli che cerca rifugio nell’intimità domestica «come nido, caldo, chiuso, segreto, raccolto
in una sua esistenza senza rapporti con l’esterno», ambito primordiale e
istintivo dei rapporti di sangue, ai quali è affidato ogni legame, con la
negazione di tutti i modi di contatto e di rapporto collegati con una più alta organizzazione
della ragione» (G. Bàrberi Squarotti).
Ma vasta e
variopinta è anche la schiera dei letterati che nutrono velleità di primato
sociale. Momento di coagulo sono per essi le cosiddette riviste fiorentine, da Marzocco a Leonardo, da Il Regno a Hermes a La Voce a Lacerba.
Specialmente
interessante fu il tentativo della Voce
di Prezzolini di organizzare «un gruppo di pressione
per tutto il ceto borghese», anzi un «partito
intellettuale» che però «se promuove
la consapevolezza della propria autonomia di fronte alla classe dominante...
dall’altra parte tuttavia si prepara ad assolvere il nuovo ruolo di persuasore intellettuale, di tecnico dell’opinione, di
organizzatore del consenso ideologico e
culturale al sistema» (G. Scalia).
Più francamente e focosamente contro il sistema fu il movimento futurista con
la sua titanica e abbastanza istrionica pretesa di ricostruire da cima a fondo
l’universo: «I futuristi, come più tardi i surrealisti, volevano di fatto... cambiare la vita: il furore
tecnologico, non era fine a se stesso ma si accompagnava all’empito prometeico,
all’ansia di un rinnovamento totale che doveva esplicarsi anche nell’ambito
sociale e politico» (L. De Maria). Naturalmente il compito di «rifare la vita»
doveva toccare agli esseri superiori, ai superuomini, i soli degni di vivere
nell’universo ricostruito, perciò se Prezzolini aveva scritto che la guerra era
un esame in cui «tutto ciò che è sano e nascosto si rivela», Marinetti
affermerà perentoriamente che essa è «la sola igiene del mondo».
Il tema del
superuomo evoca subito il ricordo di D’Annunzio, ossia del più vistoso esempio
di letterato, che abbia cercato in questo e, forse, in ogni altro periodo, con
l’arte e con l’azione, di proporsi a guida carismatica di un popolo e di una
generazione. È difficile sottovalutare l’influenza che D’Annunzio ebbe
nell’introdurre in Italia un clima e una mentalità fascisti. Anche se si può
dire che tutta l’intellettualità italiana, che cercò di rilanciare nel primo
Novecento il primato politico del dotto esprimendo essenzialmente i sentimenti
di frustrazione e di rivincita dei ceti medi a cui apparteneva e solleticando
nella pletora dei laureati e dei diplomati l’orgoglio della loro mezza cultura,
contribuì a questo risultato. Ma D’Annunzio fu più di ogni altro «l’uomo e il
poeta della classe media italiana che vedeva realizzati in lui tutti i suoi
sogni proibiti: la forza fisica e le straordinarie capacità erotiche, il
coraggio indomito e l’eleganza raffinata, l’eloquenza sonora e l’avventura
impossibile, il vivere pericolosamente e il lusso sfarzoso, l’esaltazione della
patria e la difesa dell’ordine costituito, l’aspirazione alla potenza e alla
gloria e il disprezzo per la plebe» (C. Salinari).
8. Il Decadentismo – L'artista
decadente afferma la propria orgogliosa differenza chiudendosi in un
aristocratico e sofferto rifiuto della società. Il Decadentismo si esercita su
temi quali l'inconscio e il sogno, la memoria e l'infanzia, l'angoscia e il
senso della morte. Ricorrenti sono il gusto per l'artificio e l'eleganza
ricercata contro la volgarità dell'arte di massa; il fascino dell'Oriente
lontano o l'attrazione per le droghe; il rifiuto della solidarietà sociale, pur
nel vagheggiamento d'indistinti ideali umanitari; la sensualità provocante;
l'erotismo morboso; il culto per l'esoterico e il satanico, non di rado
accompagnato da slanci mistico-devozionali e da ritorni alla fede cattolica. Sono
rifiutate le tecniche letterarie fondate sul valore logico e razionale della
parola; se ne cercano altre nuove, che facciano leva sugli elementi evocativi e
allusivi e quindi sulle suggestioni fono-simboliche del linguaggio.
Si dà così spazio a un forte
estetismo e a una letteratura simbolista, capace di far interagire tutte le
differenze musicali, figurative, poetiche di un segno letterario. In Italia il
vero portavoce del nostro Decadentismo fu D'Annunzio, mentre Pascoli fondò, in
modo originale e diverso dal contesto europeo, la poesia simbolista italiana.
a) L’origine e la diffusione - Il Decadentismo è un movimento che ha
origine in Francia intorno al 1880 e annovera fra i suoi maggiori esponenti i
poeti Rimbaud, Verlaine, Mallarmé, che si richiamano tutti all’esempio di
Baudelaire. Dalla Francia, il Decadentismo si diffonde negli altri Paesi,
assumendo forme e modi diversi.
In Italia, la
stagione decadente è aperta da Pascoli e da D’Annunzio, ma al Decadentismo sono
ascrivibili, in misura diversa, la maggior parte dei nostri scrittori del
Novecento.
b) Il rifiuto del reale - Caratteristica fondamentale del Decadentismo
è il rifiuto della realtà concreta, di quella realtà che, invece, aveva
suscitato l’interesse e l’impegno degli scrittori detti appunto realisti,
soprattutto dei naturalisti francesi e dei veristi italiani. A tale rifiuto si
accompagna la volontà di superare tale realtà, di evadere da essa.
L’evasione
avviene per diverse vie, che danno luogo a posizioni diverse anche letterarie.
Di esse le più significative sono il simbolismo e il superomismo
c) Il
simbolismo - Per gli scrittori che sono definiti simbolisti la realtà
concreta non conta per se stessa, ma solo in quanto rimanda ad un’altra realtà
di cui essa è simbolo: - una realtà più profonda, sotterranea e spesso
misteriosa, cui il poeta deve tendere e che deve cercare di far affiorare nella
sua poesia.
d) Il superomismo
- A volte invece l’evasione decadente dal reale porta a vagheggiare
esistenze eccezionali, capaci di gesti eccezionali. Nasce così, sulla scia del
pensiero del filosofo Nietzsche, il mito del superuomo, dell’uomo cioè che si
sente superiore alle leggi che regolano la convivenza sociale e che considera
quindi gli altri uomini come gregge da dominare e come trampolino di lancio per
la sua affermazione. A quello del superuomo si collegano altri pericolosi miti:
l’esaltazione della violenza, della guerra, dei gratuiti gesti di forza.
e) Altre
forme di evasione dal reale - Altre volte l’evasione dalla realtà si
manifesta in quello che è stato definito estetismo, cioè nel
vagheggiamento di esistenze raffinatissime, che si svolgono in ambienti
altrettanto raffinati e spesso artificiali.
A volte, infine,
l’evasione avviene nell’esotismo, cioè nel sogno di vivere in paesi remoti
e dallo splendore intenso, dove siano possibili esistenze felici, sganciate da
tutti i limiti della quotidianità.
f) Il rifiuto della razionalità - Comune a
tutte queste posizioni dei decadenti è la sfiducia nella ragione e il rifiuto
dei suoi strumenti conoscitivi e valutativi. Infatti, la realtà sotterranea
postulata dai simbolisti non può essere raggiunta dalla ragione, ma può essere
captata soltanto dall’intuizione. Così pure, i miti dell’estetismo e
dell’esotismo nascono in dispregio della ragione, che ne denuncia
l’arbitrarietà e l’inconsistenza. E non è certo giustificabile con la ragione
la volontà di affermazione del superuomo, volontà che determina lo
sconvolgimento di quei rapporti sociali, come il principio d’uguaglianza, il
rispetto democratico, che la ragione ha costruito attraverso il tempo.
g) Le nuove tecniche espressive del Decadentismo - La mutata
visione della realtà determina il nascere di nuove tecniche espressive. Si
instaura, così, un linguaggio che più che a narrare o a descrivere tende a suggerire,
a orientare cioè l’intuizione dei lettori verso le zone sotterranee
intraviste dal poeta. Questo nuovo linguaggio fa spesso leva, più ancora che
sul significato vero e proprio dei vocaboli, sulle suggestioni musicali e
coloristiche che da essi promanano e che vengono evidenziate con accorgimenti
diversi dai diversi poeti.
9. Giovanni Pascoli – Giovanni Pascoli è forse il poeta, in bilico fra
Ottocento e Novecento, che più radicalmente ha contribuito allo svecchiamento
della lirica italiana. La sua produzione è un vertice del simbolismo europeo.
Riprese Leopardi nel punto più nevralgico: nella ferita e insieme nel mistero
dolente della Natura. Con Myricae diede
un nuovo senso alchemico e sognante al perché delle cose; con i Poemetti e i Canti di Castelvecchio lasciò che quel mistero si aprisse in
una muta bellezza cristallina; con i Poemi conviviali poi si permise anche di
più: di ripercorrere, lungo quegli stessi segreti, la continuità fra antico e
moderno, fra la classicità e la modernità.
a) La
vita e le opere – Nato a San Mauro di Romagna
nel 1855, quarto di otto figli, trascorse la prima infanzia nella tenuta dei
principi Torlonia, di cui il padre era amministratore. A sette anni entrò, con
i fratelli Giacomo e Luigi, nel collegio degli Scolopi di Urbino, dove nel 1867
lo colse la notizia dell'assassinio del padre Ruggero in un agguato, tesogli da
nemici mai identificati e rimasti impuniti.
Il drammatico
evento segnò in maniera decisiva la sua vita e la sua poesia. A quella morte
seguirono nel 1868 quella della madre Caterina, stroncata dal dolore, e, nel
volgere di breve tempo, quelle della sorella Margherita e del fratello Luigi. Con
la morte del padre, l’indigenza entrava nella famiglia e Pascoli continuò i
suoi studi fra gravi difficoltà economiche.
Con l’ausilio di una borsa di studio si iscrisse all'università di Bologna, dove ebbe come
professore Carducci. Ma dopo il primo anno disertò le lezioni e prese a
frequentare gli ambienti socialisti: i dolori e le privazioni, la sfiducia in
una società che lasciava impunito il delitto, maturarono in lui un’amara
volontà di rivolta e di giustizia. In seguito il suo spirito si andò
progressivamente placando e si acquietò in un caritatevole sguardo nei
confronti di tutti gli aspetti della vita, del male come del bene: una specie
di amore cristiano senza tuttavia l’accettazione della trascendenza.
Nel 1875, per aver partecipato a una
manifestazione, fu privato del sussidio economico che gli permetteva di
frequentare l'università; nel 1876 la morte del fratello Giacomo rese ancor più
precaria la situazione della famiglia.
Nel 1878, durante una dimostrazione
a favore degli anarchici, fu arrestato. Uscito di prigione dopo circa tre mesi
anche per l'intervento di Carducci, riprese gli studi e riuscì a laurearsi a
pieni voti nel 1882.
In quello stesso anno andò insegnare
al liceo di Matera, poi a Massa e nel 1887 passò a Livorno, dove ricostituì il
nucleo familiare con le sorelle Ida e Maria.
A Livorno nel 1891 pubblicò la
raccolta Myricae, ventidue componimenti poetici che crebbero
fino ai 156 della sesta edizione del 1903.
Nel 1892 si aggiudicò la prima delle
tredici medaglie d'oro vinte al concorso di poesia latina di Amsterdam.
Tre anni più tardi ottenne la
cattedra di grammatica latina e greca all'università di Bologna. Acquistata una
piccola proprietà a Castelvecchio di Barga, in Lucchesia, vi si trasferì con la sorella Maria. Alternava il
soggiorno bolognese con lunghi periodi trascorsi nella sua casa di
Castelvecchio, che gli consentiva il contatto col mondo campagnolo da cui
proveniva e che gli era umanamente e poeticamente congeniale.
Nel 1897 uscirono i Poemetti (poi
sdoppiati in Primi poemetti nel 1904 e Nuovi poemetti nel 1907) nel frattempo fu trasferito
all'università di Messina, dove lavorò ai tre volumi di critica dantesca: Minerva oscura nel 1898, Sotto il velame nel 1900 e La mirabile visione nel 1902.
Nel 1903 pubblicò i Canti di
Castelvecchio e passò a Pisa.
Ritiratosi Carducci
dall'insegnamento, Pascoli gli succedette nella cattedra di letteratura
italiana dell'università di Bologna nel 1906.
Nel frattempo erano apparsi i Poemi
conviviali nel 1904, che inaugurarono la seconda fase della sua
produzione. Uscirono poi le raccolte di argomento storico e civile: Odi
e inni del 1906; le Canzoni di re Enzo del 1911; i Poemi
italici nel 1911; Poemi del Risorgimento postumo nel 1913.
Le prose, edite nel 1903 con il titolo Miei pensieri di varia umanità, confluirono
poi nel volume Pensieri e discorsi del 1907.
Morì a Bologna nel 1912.
Da ricordare sono poi i Carmina pubblicati postumi nel 1914, che
raccolgono la sua poesia lirica in latino; scritti fra il 1885 e il 1911 sono
divisi in varie sezioni secondo l'argomento. Notevole, anche se di discontinuo
valore, la restante produzione in lingua latina (da citare i poemi Veianus del
1891; Gladiatores del 1892;
Fanum Apollinis, del 1904; Thallusa del 1911).
b) I due versanti della poesia pascoliana - Le raccolte
di liriche pascoliane si possono distinguere in due gruppi: al primo gruppo
appartengono le Myricae, i Primi e Nuovi poemetti, i Canti
di Castelvecchio, i Poemi conviviali; al secondo gruppo Odi ed
Inni, le Canzoni di Re Enzo, i Poemi italici, i Poemi del
Risorgimento.
Le
raccolte del secondo gruppo sono di ispirazione prevalentemente civile e
sociale e costituiscono, nel complesso, la produzione artisticamente meno
felice di Pascoli il quale invece dà il meglio di sé nelle raccolte del primo
gruppo, le più caratterizzate da una sensibilità decadente.
c) La funzione del poeta: il «fanciullino» - Come i
simbolisti francesi, anche Pascoli è convinto che la funzione del poeta sia di
cogliere la realtà nascosta che sta al di sotto delle forme visibili e
tangibili e di cui tali forme sono simbolo.
Nella prosa Il
fanciullino egli sostiene che il poeta ha la dote, che è propria dei fanciulli,
di vedere al di là dell’apparenza delle cose; una dote intuitiva che gli uomini
comuni perdono via via che diventano adulti.
d) I maggiori temi pascoliani – I temi
ricorrenti nelle più significative raccolte pascoliane (Myricae, Canti di Castelvecchio,
Primi e Nuovi poemetti) sono
tratti dalla realtà quotidiana e autobiografica del poeta, una realtà dimessa e
umile, spesso dolorosa: l’infanzia segnata dalla tragica morte del padre; la
madre e alcuni fratelli prematuramente perduti e la famiglia disfatta; la casa
dell’infanzia, la casa-nido, rievocata nei più diversi stati d’animo e nelle
diverse ore e stagioni, fiorita di rose e di gelsomini nella calura estiva, o
immersa nell’ombra della sera, mentre intorno le volano le farfalle notturne e
si diffonde il profumo acuto delle peonie; la campagna romagnola, piena di voci
nella stagione dei lavori agricoli, o malinconica nell’abbandono autunnale; il
collegio di Urbino, dove il poeta ha trascorso l’infanzia e dove i piccoli
collegiali giocavano con gli aquiloni; il cimitero dove riposano i suoi morti,
ed altro
d) Dalla realtà al simbolo – È una tematica
dì cose sperimentate e vissute che, in astratto, potrebbero anche essere il
bagaglio di uno scrittore realista. Ma in Pascoli i dati concreti, pur
rappresentati con attenta precisione, costituiscono solo il punto di partenza
dal quale le liriche muovono per suggerire altri temi e valori di cui la realtà
presentata è simbolo: valori più vasti, che coinvolgono aspetti fondamentali e
generali dell’esistenza umana.
Ad esempio, la
breve lirica Lavandare può apparire, a prima vista, come un bozzetto di
genere: una campagna autunnale, un aratro abbandonato, le lavandaie che
sbattono i panni e cantano uno stornello. Ma attraverso questi elementi il
poeta suggerisce altri significati; le figure, il paesaggio, le voci diventano
il simbolo di una componente perenne dell’esistenza umana: la malinconia e
l’abbandono.
Analogamente, la
lirica Novembre, attenta ai
particolari concreti di una giornata di novembre, in cui la limpidezza del
cielo quasi primaverile contrasta con gli aspetti già invernali del paesaggio
(rami secchi, terreno che suona «vuoto» sotto i passi, ed altro), propone, al
di là del piano descrittivo, il tema del rapporto vita-morte, anzi della morte
prevalente sulla vita.
e) Il mondo classico pascoliano – Il mondo
classico, che gli offrì materia di ispirazione soprattutto nei Poemi conviviali, assume una dimensione
nuova nella poesia pascoliana. Le ferme e nitide figure del mondo greco-romano,
almeno quali la tradizione le ha tramandate, diventano anch’esse espressione
delle inquietudini, delle ansie, dello sgomento del poeta di fronte alla vita e
al suo mistero. Un esempio è Aléxandros:
Alessandro Magno, che nella storiografia classica è celebrato per le sue doti
di condottiero e di politico, si trasforma, nel componimento pascoliano, in un
sognatore affascinato dall’ignoto che, giunto con le sue conquiste ai confini
del mondo, si duole perché non gli resta più nulla da scoprire e quindi da
sognare.
f) Il «linguaggio» pascoliano - Nei confronti
del linguaggio poetico tradizionale, Pascoli compie un’autentica rivoluzione,
che avrà grande influenza sulla poesia del Novecento.
Nel lessico:
scompaiono i vocaboli aulici e arcaici. Il suo lessico è tratto dall’uso
comune; egli usa anche voci gergali, termini tecnici derivati soprattutto dalla
vita agricola; frequente l’uso di voci onomatopeiche (il verso dei vari
uccelli, il don don delle campane).
Nella sintassi: al
periodo ampio, costruito, proprio degli scrittori del passato, si sostituisce
il periodo breve, con frequenti spezzature e sospensioni.
Nella metrica viene meno il verso compatto e sonoro e vi si
sostituisce una versificazione spezzata, ricca di pause, di cesure, di riprese
melodiche, con rime interne che danno particolare risalto ad alcuni
vocaboli-chiave. Nel complesso, ne risulta una musicalità sommessa, ma molto
articolata e mossa.
10 Gabriele D’Annunzio – Gabriele D'Annunzio (1863-1938) è certo uno dei
protagonisti del Decadentismo europeo. Maestro della tecnica letteraria e del
virtuosismo, provò quasi tutti i generi, lavorando intorno a una scrittura
capace di innumerevoli stili e registri. L'Alcyone resta uno dei libri più belli
dell'inizio secolo. Ma la sua opera, per quanto complessa e sfuggente, non
appare solo come la distillazione di tutte le possibilità romantiche: è anche
il sostrato di tutte le svariate proposte novecentesche. D'Annunzio sembra nel
bene e nel male il padre del Novecento.
a)
La vita
- Nato a Pescara nel 1863 dopo aver compiuto i primi studi
nella città natale, nel 1874 fu mandato a Prato, nell’allora famoso Collegio
Cicognini dove rimase fino al conseguimento
della licenza liceale nel (1881);
nel frattempo il suo talento trovò una prima espressione nei
versi di Primo vere del 1879, ispirati al modello carducciano, che lo
segnalarono all'attenzione della critica.
Iscrittosi alla facoltà di lettere di Roma, non portò mai a
termine gli studi, trovando nei circoli letterari della capitale e nei giornali
cittadini Il Fanfulla della Domenica
e la Cronaca bizantina l'occasione per mettersi in vista.
Nel 1882 uscirono Canto
novo, in cui affermò la propria
visione panica e sensuale della vita, e i bozzetti narrativi di Terra vergine,
ambientati nel natio Abruzzo, in cui è palese l'influsso di Verga.
Il 1886 è l'anno dei racconti di San Pantaleone, confluiti poi, insieme ad
altri, nelle Novelle della Pescara del 1902. Seguì un periodo di crisi e di ripensamento che lo
indusse a confrontarsi e misurarsi con quanto di meglio e di più affine alla
sua sensibilità era nel Decadentismo europeo. Nelle letture di Nietzsche e
Wagner, e in particolare nella concezione del superuomo, trovò invece la legittimazione filosofica per quel vivere
inimitabile, sprezzante di ogni
morale comune, che avrebbe caratterizzato gran parte della sua opera e della
sua vita.
Espressione di tale travaglio furono i romanzi Il piacere del 1889; Giovanni
Episcopo del 1891; L'innocente
del 1892; Il trionfo della morte del 1894; Le vergini
delle rocce del 1895. In essi la tradizione ottocentesca è stemperata
in personaggi e atmosfere sovraccarichi di torbido e morboso psicologismo.
Svolto nel frattempo il servizio militare a Roma, nel 1891 fu costretto dai
creditori a trasferirsi a Napoli, dove rimase due anni, scrivendo sul "Mattino" di E. Scarfoglio e M.
Serao. Sul fronte lirico, dopo La Chimera del 1890 e le Elegie
romane del 1892, pubblicò le Odi navali e il Poema
paradisiaco (1893), che segnò una tappa importante nell'evoluzione del
linguaggio poetico italiano aperto a una morbida cantabilità, a ritmi e a
suggestioni oniriche.
Nel 1897 si buttò nell'agone
politico, risultando eletto deputato per la Destra; ma non comparve mai alla
Camera, se non per passare, due anni dopo, con spettacolare disinvoltura sui
banchi della Sinistra ("vado verso la vita"). Intanto aveva
conosciuto la grande attrice Eleonora Duse (ritratta più tardi in maniera
impietosa nel romanzo Il fuoco, 1900), con cui ebbe un lungo sodalizio d'arte e
di vita. Si cimentò infatti nel teatro, genere per il quale, a partire
dal Sogno d'un mattino di primavera del 1897, scrisse numerose
opere: La città morta del 1898; La
Gioconda del 1899; La gloria del 1899; Francesca
da Rimini del 1902; La figlia di Iorio del 1904, La fiaccola sotto
il moggio, del 1905; La nave del 1908; Fedra del 1909. Il suo capolavoro è La figlia di Iorio, in cui la lingua si adegua mirabilmente alla
sacralità orgiastica e primitiva della vicenda.
Nella quiete della Capponcina, la
villa di Settignano, presso Firenze, nacquero i primi tre libri di poesia delle
Laudi: Maia del 1903, Elettra del 1903 e Alcyone del 1904.
Soprattutto a quest'ultimo è
giustamente affidata la sua fama. L'uomo e la natura appaiono come trasfigurati
in una sembianza eterea, senza contorni, in cui la parola è una musica avvolta
nelle proprie magiche eufonie e il verso è davvero tutto: mito, canto,
solarità, metafora di acqua, cielo e terra, oblio segreto, ricordo e presagio,
culla e destino di ogni cosa. D'Annunzio scrisse ancora in versi le patriottiche Canzoni
delle gesta d'oltremare (1912), pubblicate sul Corriere della Sera durante la guerra di Libia, e i Canti
della guerra latina, usciti sullo stesso giornale tra il 1914 e il 1918,
che andarono a comporre rispettivamente Merope e Asterope, il
quarto e quinto libro delle Laudi (gli altri due, previsti dal
progetto originario, non vennero mai scritti); ma in queste opere, pur
conservando spesso un notevole magistero formale e un raro mestiere, di rado
seppe evitare le secche della retorica.
Per i debiti accumulati dagli
sperperi di un tenore di vita superiore ai pur cospicui diritti d'autore (nel
1910 aveva intanto pubblicato l'ultimo romanzo, Forse che sì forse che
no), venne il sequestro della Capponcina, che lo costrinse al
"volontario esilio" in Francia. Dopo alcuni mesi trascorsi come
ospite d'onore della buona società parigina, si ritirò ad Arcachon, sulla costa
atlantica. Qui scrisse ancora per il teatro, in una totale identità fra parola
e musica, opere di cesellata maniera (alcune in un francese antico che suscitò
l'ammirazione di A. France): Le martyre de Saint Sébastien (1911,
musicato da C. Debussy), La Pisanelle (1912, musicata da I.
Pizzetti), Parisina (1913, musicata da P. Mascagni).
Nel 1911 cominciarono ad apparire
sul "Corriere della Sera" le Faville del maglio, che
inaugurarono una prosa di memoria "interiore" e di ripiegamento.
L'anno successivo la morte di G. Pascoli e di A. Bermond, proprietario della
villa di Arcachon in cui abitava, gli ispirarono Contemplazione della morte, che contiene alcune tra le sue pagine
migliori. Scrisse anche il racconto La Leda senza cigno nel 1913,
ma pubblicato nel 1916.
Ai primi di maggio del 1915 rientrò
in Italia per schierarsi con gli interventisti, che chiedevano la
partecipazione dell'Italia alla prima guerra mondiale a fianco dell'Intesa
contro Germania e Austria. Partecipò alla guerra e con valore: fu protagonista
di imprese come la beffa di Buccari e il volo su Vienna, che divennero
leggenda. Per la perdita dell'occhio destro e la cecità temporanea a cui fu
costretto egli dettò il Notturno
(1921), il "comentario delle ténebre" dallo stile levigato e
scarnito.
La delusione per la vittoria
"mutilata" lo spinse a guidare l'occupazione di Fiume (settembre
1919) e ad assumere la Reggenza del Carnaro, provocando l'intervento
dell'esercito italiano in quello che D'Annunzio chiamò "Natale di sangue" del 1920: furono
questi avvenimenti l'apogeo e insieme la fine della sua parabola di uomo
d'azione. Nel 1921 si ritirò nei pressi di Gardone, sul lago di Garda, in una
villa che divenne il Vittoriale degli Italiani, un monumento elevato a se
stesso e una dorata prigione, in cui Mussolini lo confinò ricoprendolo di onori
e riconoscimenti (la nomina a Principe di Montenevoso nel 1924; l'edizione, a
spese dello Stato, dell'Opera Omnia, 1926; la presidenza dell'Accademia
d'Italia, 1937).
Nel Vittoriale attese alle ultime
opere: i due volumi delle Faville del maglio (1924 e 1928), i
frammenti narrativo-memoriali del Libro segreto (1935), Le
dit du sourd et du muet (1936) in francese antico.
b) Gli anni della sperimentazione giovanile - D’Annunzio
conobbe e assimilò la produzione del Decadentismo straniero, soprattutto
francese, ma anche del Decadentismo inglese, nonché il romanzo introspettivo
russo di Dostojeskij.
Gli anni di
questa avida sperimentazione giovanile furono quelli che seguirono la
conclusione dei suoi studi liceali, dal 1881 al 1893, e che egli trascorse
prima a Roma, poi a Napoli. Appartengono a questi anni raccolte di liriche (le
più famose sono Canto novo e il Poema paradisiaco), novelle e
romanzi, in cui mise a frutto la lezione appresa dagli scrittori stranieri.
c) Il mito del superuomo - Intorno al
1894-95, a seguito della lettura del filosofo Nietzsche, entra prepotente,
nella produzione dannunziana, il mito del superuomo, cioè dell’uomo
d’eccezione, superiore alla morale comune, nato per dominare gli altri uomini.
Il tema del superuomo sarà presente, d’ora innanzi, nella molteplice e varia
produzione del D’Annunzio: nei romanzi, in quasi tutte le tragedie, nei libri
delle Laudi ad eccezione di Alcyone.
Al mito
dell’uomo d’eccezione si accompagna quello della nazione d’eccezione, guerriera,
dominatrice e civilizzatrice. D’Annunzio esalta perciò le guerre coloniali e
vagheggia per l’Italia imprese di conquista e di espansione imperialistica.
Ma egli non si
limitò a celebrare il superuomo nei suoi scritti; volle impersonarlo anche
nella vita. Non di rado visse, magari coprendosi di debiti, come un principe
del Rinascimento, fra splendidi arredi, levrieri e cavalli di razza. Combatté
con grande coraggio nella prima guerra mondiale, ma non nella promiscuità delle
trincee, bensì compiendo gesti vistosi, come il volo su Vienna, la beffa di
Buccari, in cui appagava la sua individuale volontà di affermazione.
d) La «tregua» dell’Alcyone - Il terzo libro
delle Laudi, Alcyone, rappresenta una tregua dello spirito del superuomo
e un abbandono del poeta al mondo della natura. Il libro comprende le liriche
ispirate prima da un soggiorno primaverile a Fiesole, poi (e sono le più
numerose) da un’estate marina in Versilia.
Caratteristica
dell’Alcyone è l’immedesimazione e l’immersione del poeta nel grembo della
natura, che gli si rivela attraverso le sensazioni che essa suscita e che
D’Annunzio coglie con acutissima percezione: sensazioni di cose concrete (aghi
di pino, frutti maturi, riverbero delle onde, pioggia che batte sugli alberi,
ed altro), che, nei versi dannunziani, suggeriscono sapientemente l’atmosfera
delle ore e della stagione, ma, nello stesso tempo, le inquietudini, o il senso
di appagamento, che esse generano nel poeta.
e) Le opere «notturne» - L’aggettivo «notturno» è tratto per estensione dal
titolo di un’opera dannunziana, Il Notturno, che il poeta compose
durante la guerra, quando, ferito a un occhio, fu costretto a rimanere per
lungo tempo nell’inerzia e nell’oscurità. È un’opera che esprime uno stato
d’animo meditativo e doloroso. La denominazione di «notturne» fu perciò usata per indicare tutte le sue opere di taglio
più pessimistico e meditativo (La
contemplazione della morte, Il compagno dagli occhi senza cigli, ed
altre). In tali opere, lontane dai trionfalismi e dagli orpelli abituali, la
critica ha individuato alcuni dei momenti più riusciti della poesia
dannunziana.
f) Il percorso narrativo - Gabriele
D’Annunzio fu autore di vari romanzi, in alcuni dei quali tuttavia è abbastanza
visibile la traccia dell’esperienza naturalista e verista anche se per lo più
la sua narrativa si svolse nell’ambito del Decadentismo. Il suo primo romanzo, Il
piacere del 1889, mentre da un lato sembra indulgere all’analisi
psicologica dell’amore secondo il metodo seguito da Flaubert e da Maupassant,
dall’altro si compiace di esasperare l’egocentrismo del protagonista, Andrea
Sperelli e la sua tendenza estetizzante nel godimento del piacere. E così pure
nei due successivi romanzi, Giovanni Episcopo del 1891 e L’innocente
del 1892, mentre è evidente che intende rifarsi al realismo di Dostoevskij e
Tolstoj, dal primo soprattutto riprende il metodo di scandagliare fino in fondo
la coscienza umana, riprende cioè quell’atteggiamento che lo avvicina ai
decadenti. Insomma quello che maggiormente risalta nei suoi primi romanzi è una
sorta di pendolarismo fra realismo e decadentismo, con la tendenza però a
liberarsi gradualmente del primo per approdare con maggiore consapevolezza al
secondo. Difatti è singolare l’esaltazione che il D’Annunzio fa del protagonista
de L’innocente, Tullio Hermil, e finanche del suo terribile delitto: lo
scrittore, con la chiara volontà di destare scandalo, fa dire a Tullio che
"la giustizia degli uomini non lo tocca", avvicinandosi così sempre
più alla creazione del suo ideale di uomo, il superuomo. Altro passo
innanzi in questa direzione si ha con il Trionfo della morte del 1894,
il cui protagonista, non potendo possedere della sua donna anche l’anima,
procura la morte ad entrambi. L’immagine del superuomo è finalmente
compiuta nei tre romanzi successivi: Le vergini delle rocce, Il fuoco
e Forse che sì, forse che no, rispettivamente del 1895, del 1898 e del
1910.
g) Il tecnico della parola - Già in un’opera
giovanile il poeta affermava: «divina è la parola». E questo culto, quasi
religioso, della parola è stato l’elemento caratterizzante della sua attività
di scrittore.
Egli si vantò di
conoscere più di ogni altro l’arte di «collocare le parole» nel periodo e nel
verso. Sfruttò al massimo il valore musicale delle pause, che, isolando le
parole, danno loro rilievo e consentono che la loro eco si dilati.
Una singolare
abilità tecnica ebbe anche in campo metrico. Usufruì ed alternò i metri più diversi,
che usò come strumenti raffinati per costruire quelle che egli chiama, con
espressione derivata dalla musica, le sue «frasi musicali».
Questa
eccezionale abilità tecnica, tuttavia, non fu sempre al servizio di
un’autentica ispirazione. Nella vastissima produzione dannunziana non di rado
le parole suonano a vuoto, compiaciute di se stesse e fine a se stesse. In
questi casi, la poesia scade a retorica fastidiosa e stucchevole.
h)
Conclusioni - Il
merito maggiore di D'Annunzio è l'idea che la letteratura possa essere un
discorso infinito: la facoltà estrema non solo di riuscire a conquistare ma
anche a raccontare la straordinaria vitalità dell'esistenza. D'Annunzio
sperimentò e provò ogni possibilità espressiva. Toccò in qualche modo i limiti
come i difetti della tradizione letterario-umanistica, stabilendo quelle
"colonne d'Ercole" che tutti i poeti italiani del Novecento sapranno
tanto più rispettare quanto più si sentiranno difesi da quegli stessi limiti
della parola, ormai definiti e dunque invalicabili. Ciò che più conta in lui è
il senso altissimo di un'esperienza letteraria che cercò di essere un modello
espressivo assoluto, consapevolmente moderno, anche grazie alla tanto
disprezzata retorica. Il poeta Montale non esitò ad affermare che per superare
D'Annunzio era indispensabile attraversarlo.
In effetti, nonostante il molto artificio, le troppe vuote sonorità e la
diffusa assenza di un solido senso morale, sacrificato per un'irraggiungibile favola bella, ciò che è più vivo nella sua opera rappresenta un passaggio
obbligato per intendere appieno quel che avvenne durante e dopo la sua vita.
11.
La lirica del secondo Ottocento - Accanto alla multiforme vitalità del
romanzo la produzione lirica continuò ad avere un posto di prestigio, anche se
non poteva certo competere con le capacità di farsi leggere del romanzo. Come
per la prosa, bisogna allargare lo sguardo alle esperienze straniere che
offrono modelli nuovi ai nostri poeti. In primo luogo va però ricordata la
diversità della situazione italiana rispetto a quella europea: mentre in Europa
l’esperienza della lirica romantica era stata ricca di opere e di autori che
avevano dato vita a una nuova poesia, in Italia emergeva da un panorama
piuttosto piatto, altissima ma inimitabile, la voce poetica di Leopardi. Questo
ci aiuta a spiegare perché i grandi mutamenti che caratterizzarono il genere
lirico nella seconda metà del secolo avvennero al di là delle Alpi, in Francia
in particolare e solo più tardi giunsero anche da noi.
Si trattò di un
processo rilevante nella storia della lirica, una vera e propria svolta che
segnò la nascita della lirica moderna. In questo processo il linguaggio lirico
divenne più difficile e la poesia si trasformò in genere d’elite nel momento
in cui gli altri generi andavano invece conquistando un pubblico più vasto.
Mutarono in
primo luogo la figura del poeta e l’idea stessa di poesia: il poeta non sentì
più se stesso come portavoce dei valori e dei sentimenti generali colti nella
eccezionalità della sua esperienza individuale, rifiutò ogni funzione di «poeta-vate», depositario e trasmettitore di messaggi, per rivendicare
invece un’estraneità rispetto al proprio tempo, il rifiuto di una società
rispetto alla quale si sentiva diverso.
Questo
atteggiamento, che contrasta decisamente con l’idea romantica, fu teorizzato
per la prima volta dal poeta francese Charles Baudelaire che ispirò la
sua stessa vita alla irregolarità, al disordine, all’eccentricità, divenendo il
modello per molti altri artisti e letterati sia francesi sia europei. Insieme
a Baudelaire, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Stéphane Mallarmé diedero
vita ad un movimento detto simbolismo, che ebbe una nascita
ufficiale col Manifesto del simbolismo pubblicato nel 1886.
Il dato che più
colpisce nell’opera di questi poeti è il carattere inconsueto dei loro versi:
essi teorizzano la libertà d’invenzione, l’importanza decisiva del suono, la
rottura della sintassi e delle forme metriche tradizionali fino alla disarmonia.
Il linguaggio poetico abbandona ogni modo descrittivo per cercare l’espressione
più elaborata, soggettiva, oscura; la struttura prevalente è analogica,
abolisce cioè i nessi logici espliciti e procede per accostamenti,
parallelismi, contrapposizioni. S’impose anche l’inconsueta scelta tematica: in
parte si trattò di temi nuovi quali le immagini della città caotica, lo
spettacolo della folla, il vagheggiamento di evasioni esotiche oppure lo
smascheramento polemico delle apparenze, del perbenismo; in altri casi i temi
nascevano dall’introspezione ed erano quelli da sempre presenti nella poesia,
quali la memoria, il sogno, i dissidi interiori, ma trasformati in esperienze
eccezionali, estreme, e trasfigurate in simboli. In questo modo entrarono nella
poesia anche il brutto, il demoniaco, il peccato,
e più in generale cadde la convenzione per la quale i temi bassi erano esclusi
dall’espressione lirica. La poesia e le teorizzazioni dei simbolisti francesi
furono presto note in Italia ed esercitarono un’influenza sui nostri poeti.
Tuttavia i veri eredi del movimento furono gli scrittori del Novecento, nel
senso che soltanto allora si colse la globalità di quell’esperienza.
12 La Letteratura del primo Novecento - Il primo quindicennio del Novecento fu dominato da
Giovanni Giolitti che orientò la vita politica italiana verso forme diverse da
quelle reazionarie degli ultimi anni del secolo precedente. Giolitti tentò di
integrare nello Stato liberale le nascenti forze operaie, di realizzare una
conciliazione tra le forze socialiste e il liberalismo avanzato. Ma questo
disegno s’infranse di fronte alla particolare situazione italiana.
Dal notevole
sviluppo industriale deriva una sorta di «illusione
ottica»: i vagheggiamenti dello stato
forte, le esaltazioni nazionalistiche che assumono ben più virulenta
consistenza: sul Leonardo, sul Regno, nelle serate futuriste
folti gruppi di intellettuali esaltano l’avventura, il rischio, la missione
africana dell’Italia. Si tratta di un complesso di forze opposte a Giolitti
che egli nei primi tempi sottovalutò, ma alle quali fu poi costretto a fare
notevoli concessioni.
In questa
situazione vanno viste le manifestazioni letterarie di questo periodo che
hanno una caratteristica comune di inquieta ricerca, di velleitarismo e di
ambigua disponibilità. D’Annunzio mantiene ancora un ruolo di primo piano: oltre
che come poeta-vate egli si presenta
come maestro di comportamento, di vita inimitabile: sulle sue pagine
generazioni di piccoli borghesi sognano amori d’eccezione e vagheggiano il bel
gesto.
In un complesso
rapporto di opposizione-filiazione con D’Annunzio si collocano i giovani
intellettuali inquieti e disponibili che bramano fare il processo alla
generazione che li ha preceduti e danno vita alle riviste fiorentine.
La Voce è la rivista
più notevole in quanto dapprima si batte per un rinnovamento della letteratura
coincidente con un rinnovamento della società italiana, ma, dopo, muterà
indirizzo e proprio sulle sue pagine sarà teorizzata una concezione quanto mai
aristocratica e rarefatta della poesia.
Contro le
mitologie decadentistiche comincia la sua polemica Croce che elabora un
sistema filosofico di laica razionalità e teorizza una concezione del fatto
artistico che si dimostrerà sempre più restia ad accogliere il processo
iniziato negli ultimi decenni dell’Ottocento.
Sotto il
denominatore comune dell’opposizione ai moduli dannunziani vanno visti i
crepuscolari e i futuristi.
La prima guerra mondiale segnò una cesura
nella prima metà del secolo. A guerra conclusa si presentano nella società
italiana problemi di particolare gravità: il rifiuto da parte delle potenze
alleate delle richieste italiane crea subito il mito della «vittoria
mutilata»; le masse proletarie esigono quanto durante la guerra era stato loro
promesso: riforme sociali e distribuzione di terre; gli ex ufficiali, di
estrazione piccolo-borghese, difficilmente si rassegnano alla grigia routine
quotidiana.
Alle elezioni
del 1919, la neoformazione fascista non ottenne seggi, ma alle elezioni del 1921
questa formazione mandò alla Camera 30 deputati. Dal vago sinistrismo iniziale
il fascismo passò ad un miscuglio di posizioni nel quale confluiscono il disprezzo
per la democrazia e per il socialismo, l’esaltazione e la pratica della
violenza, mitologia nazionalistica.
Il partito
socialista aumentò il mito del pericolo rosso, fornendo un’arma
propagandistica al fascismo, e non fu capace di proporre un’alternativa al
vecchio stato liberale; la vecchia classe liberale mette allo scoperto la sua
vocazione autoritaria e pensa ad un uso strumentale del fascismo in funzione
antisocialista. Con la collusione degli interessi agrari e industriali, con la
complicità degli organi dello stato liberale e della monarchia, il fascismo
trionfò.
Soppressa nel 1925
ogni manifestazione di vita democratica, Mussolini con la creazione dell’Accademia
d’Italia, dell’Istituto fascista di cultura, con le scuole di mistica
fascista cercò di legare al regime anche la cultura. In realtà, anche se in
Italia mancarono in questo campo esempi di coraggiosa opposizione e di fuoriuscitismo,
egli ottenne solo conformistiche adesioni e la migliore produzione letteraria
di quegli anni ignorò le mitologie e le parole d’ordine ufficiali. Ben diversa
consistenza ebbe invece l’opposizione politica contro la quale l’apposito Tribunale
speciale non cessò di erogare secoli di prigione e di domicilio coatto.
La parabola del
fascismo intanto si sviluppò con logica coerente con le sue premesse: seguirono
infatti l’avventura imperialistica della guerra d’Abissinia, la tragica farsa
dei volontari in Spagna, l’intervento nella seconda guerra mondiale a
rimorchio del militarismo nazista.
Il dibattito
letterario del primo dopoguerra fu inizialmente caratterizzato da un richiamo
all’ordine ed alla tradizione: La Ronda teorizzò la lezione dei
classici, l’estrema pulizia formale, la prosa d’arte rigorosamente calibrata. Fu
una visione piuttosto angusta dei compiti del letterato che si limitava ad una
sapienza calligrafica senza troppa preoccupazione per i complessi problemi
derivanti dal rapporto tra letteratura e vita nazionale.
Contro tale
posizione Gramsci su L’Ordine nuovo e Gobetti su La Rivoluzione
liberale, teorizzano una diversa concezione dell’attività letteraria, vista
da loro in stretto rapporto con le questioni più vive della società italiana.
Su Il Baretti Gobetti si batté per una sprovincializzazione della nostra letteratura, per un’apertura
verso una dimensione europea.
In Europa
infatti gli anni tra il 1920 e il 1930 sono ricchi di fermenti e di
realizzazioni: Solaria divulga la conoscenza degli autori stranieri e
con Pirandello e Svevo la letteratura italiana conquista una dimensione
europea.
Intanto il
fascismo, pesa sulla cultura italiana: gli uomini di lettere più consapevoli
del gruppo di Solaria trovano risibili sia i richiami autarchici alla
tradizione e l’esaltazione di una letteratura strapaesana fatti dalla
cultura ufficiale, sia le mitologie fasciste, scelgono una forma d’arte che
non si compromette col regime, lo ignora e da questo nasce il vagheggiamento
memoriale, la trasfigurazione del dato reale in una dimensione arcana e
simbolica, l’impegno per realizzare pagine di assorta levità diventano le
caratteristiche di fondo della produzione in prosa; il rifugio nel proprio io,
la solitudine esistenziale, l’ascetica ricerca della parola essenziale e dei
rapporti analogici, sulla scia di precedenti teorizzazioni, diventano le
caratteristiche della poesia nuova che in Ungaretti e in Montale trova i
suoi maestri. Al di fuori di questo filone, Saba, ripudiando ogni ricercatezza
espressiva, canta con profonda umanità tutti gli aspetti del quotidiano e
trova chiari accenti di opposizione al regime.
Un altro aspetto
della letteratura d’opposizione è poi da considerare l’interesse suscitato
negli anni ‘30, per i narratori americani dalle cui pagine si ricavava il mito
di un’America giovane, sanguigna e libera. Furono questi i testi di più larga
diffusione tra il pubblico: la poesia invece, diventa sempre più una produzione
per iniziati.
In complesso la
letteratura del ventennio, resta estranea alle mitologie fasciste e prosegue
nella sua ricerca formale. Il fascismo, malgrado la creazione dell’Accademia
d’Italia non riesce ad ottenere i suoi scopi.
13. Il Crepuscolarismo – Fu un
fenomeno abbastanza circoscritto che si sviluppò tra il 1903 e il 1911 e
coinvolse un gruppo di poeti che, schiacciati tra l’eredità pascoliana e quella
dannunziana, presero una strada comune e furono in genere uniti da rapporti di
amicizia e di solidarietà nelle scelte letterarie e negli atteggiamenti
esistenziali.
Il termine crepuscolare
nacque in sede critica e fu scelto perché indica sia la luce dell’alba sia
quella del tramonto e rimanda quindi ai significati di estenuazione, fine, ma
anche a quelli di alba, di realtà nuova che sorge.
Si tratta di una
poesia costruita intorno a terni ricorrenti: le piccole cose, il quotidiano,
l’intimo, il ritorno all’infanzia, le lacrime, la malattia, la noia,
l’indifferenza. Altrettanto costanti i caratteri della lingua e dello stile:
una generale facilità di linguaggio, l’abbassamento del lessico,
l’accentuazione della rima o al contrario la ricerca di un andamento del verso
che si avvicina alla prosa.
Tra i poeti
crepuscolari si può distinguere un gruppo romano, nel quale spicca la figura
di Sergio Corazzini, e un gruppo torinese, del quale fa
parte, oltre al maggiore di loro Guido Gozzano, autore del
poemetto La signorina Felicita ovvero la felicità, Carlo Chiaves. Iniziatore
del modo crepuscolare di far poesia si considerò il ferrarese Corrado Covoni.
Le avanguardie – Nei primi anni del Novecento
nacquero le avanguardie, tese a innovare con una rottura rivoluzionaria la tradizione figurativa
centrata sulla riproduzione della realtà naturale. Il primo movimento
d'avanguardia in senso stretto fu l'espressionismo, che coinvolse non solo le
arti figurative, ma anche la musica, il teatro, la letteratura e il cinema. I
centri del movimento furono in particolare la Francia, la Germania e l'Austria.
Soprattutto per artisti quali Schiele e Kokoscka fu anche
determinante l'apporto della psicanalisi di Freud, con la sua scoperta
dell'inconscio e del suo rapporto con il mondo onirico. Inoltre la scoperta
dell'arte africana, in particolare delle maschere, che rappresentano il massimo
dell'espressività e della soggettività, in alternativa allo sviluppo della
pittura europea fu senz'altro determinante.
Nel 1907
il sodalizio di due artisti come Braque e Picasso è all'origine
del cubismo, una pittorica concettuale che introduce il tempo nella
rappresentazione pittorica, scomponendo le forme in un'immagine che raccoglie
simultaneamente vedute diverse nello spazio e successive nel tempo. Il gruppo
dei cubisti si disgregò allo scoppio della prima guerra mondiale, ma il
cubismo, con la sua carica eversiva, rappresentò un essenziale punto di
richiamo per i movimenti d'avanguardia successivi.
Nel 1909 nasce in Italia il movimento
letterario, artistico e politico del futurismo, che sostiene un totale distacco
dalla tradizione per aderire, attraverso la rappresentazione del movimento, al
dinamismo della vita moderna. Sul piano politico il futurismo esaspera le
tendenze nazionalistiche e finisce per confluire nel fascismo. Il futurismo,
che non fu un caso isolato, ma influenzò anche altri paesi come la Russia, non
impedì nuove esperienze d'avanguardia in Italia, rappresentate dalla pittura
metafisica, dal gruppo di Novecento o dei Valori plastici. La data di nascita del futurismo fu segnata dal Manifesto
del futurismo, pubblicato nel 1909 dallo scrittore Filippo Tommaso Marinetti
(1876-1944). Sulla sua scia, nel 1910 un gruppo di pittori lanciò a Milano il
Manifesto dei pittori futuristi e successivamente il Manifesto tecnico della pittura futurista, firmato da U. Boccioni,
C. Carrà, G. Balla, Gino Severini, L. Russolo. Caratteristiche della pittura
futurista sono l'abolizione della prospettiva tradizionale e il moltiplicarsi
dei punti di vista per esprimere il dinamico interagire del soggetto con lo
spazio circostante.
Questo pandinamismo fu variamente
interpretato: Boccioni, non dimentico della lezione cubista, lo tradusse in
forme deformate e cariche di emotività, accentrate nelle linee-forza (Elasticità,
1912, Milano, collezione privata); Carrà non rinunciò mai totalmente ai valori
plastici e pittorici (Donna al balcone, 1912, Milano, collezione
privata); Balla scompose il movimento secondo una metodologia analitica e
sperimentale che ne evidenzia la struttura sequenziale; Gino Severini (Cortona
1883 - Parigi 1966) frantumò le immagini in una molteplicità di piani-luce dal
tenue e raffinato cromatismo; Luigi Russolo (1885-1947) dipinse immagini
dall'accesa e contrastante cromia.
La morte di Boccioni nel 1916 e il
contemporaneo passaggio di Carrà e Severini a soluzioni vicine al cubismo
determinarono lo scioglimento del gruppo milanese e il trasferimento a Roma del
centro del futurismo (nascita del secondo futurismo).
Attorno a Marinetti si riunì un
gruppo d'artisti, tra cui il modenese Enrico
Prampolini (1894-1956), il trentino Fortunato
Depero (1892-1960), Balla, assertori
della necessità per l'arte futurista d'una progettazione totale e di una più
concreta interferenza col reale (tavole polimateriche di Prampolini).
L'unico vero
architetto futurista fu Antonio Sant'Elia (Como 1888 - Monfalcone 1916),
la cui produzione è però limitata a disegni e bozzetti prospettici, senza
alcuna indagine degli spazi interni e della distribuzione planimetrica, e alle
teorie del suo Manifesto dell'architettura futurista. Da questi progetti emerge
l'immagine di una "città nuova" futurista, in cui il dinamismo e la
velocità sono fattori essenziali.
Altre prove
d'avanguardia in Italia si svilupparono a partire dal dopoguerra. Fu il caso
della pittura metafisica di G. de Chirico,
a cui aderirono solo in parte anche Carrà,
De Pisis (in particolare con le sue nature morte) e Morandi, che informarono il loro lavoro
essenzialmente al raggiungimento di un valore alogico e magico, in cui
l'immobilità dei manichini simboleggia l'assenza di drammi e di psicologia.
Carrà, De
Pisis e Morandi aderirono anche al gruppo di pittori "Novecento", che si costituì nel 1922 con l'intenzione di
recuperare l'arte del passato, dai primitivi al Rinascimento, come base di
un'arte pura italiana. Il gruppo era composto da Anselmo Bucci (1887-1955),
Achille Funi (1890-1972), Pietro Marussig (1879-1933), Ubaldo Oppi (1889-1946),
Felice Carena (1879-1966), Amerigo Bartoli (1890-1971) e soprattutto Sironi,
Casorati, Tosi e Martini.
14.
Il Futurismo - Il futurismo fu il movimento
d'avanguardia più importante di inizio secolo. Si basa sul rifiuto di tutte le
forme artistiche tradizionali; cerca un linguaggio adeguato alla nuova civiltà
delle macchine e basato sul vitalismo dell'epoca moderna. Il futurismo
coinvolge tutte le forme artistiche dando origine a veri e propri capolavori
nell'ambito delle arti plastiche e visive. Volle essere soprattutto un nuovo
costume rivoluzionario di vita individuale e collettiva; per questo si diffuse
in vari modi in tutta Europa e finì per anticipare l'ideologia fascista.
a) I caratteri - Alla base del futurismo fu
l'intuizione che la cultura del Novecento non avrebbe potuto non tener conto
dei poderosi processi di trasformazione socio-economica in atto: la rapida
industrializzazione, la nuova struttura e la nuova funzione delle città, il
trionfo della velocità, protagonista dei mezzi di comunicazione (come la radio)
e dei mezzi di trasporto (l'automobile, l'aereo e in generale quelli mossi dal
motore a scoppio), infine la stessa violenza distruttiva delle nuove armi. Ai
futuristi risultò inadeguata la vecchia concezione della cultura come
riflessione e comprensione razionale della realtà; così le contrapposero l'idea
di una cultura incentrata sul bisogno di agire e su un progetto artistico
capace di rappresentare il dinamismo.
L'elaborazione teorica fu affidata
ai cosiddetti "manifesti".
Il primo Manifesto del futurismo fu pubblicato il 20 febbraio 1909 da F.T.
Marinetti, sulle pagine del quotidiano "Le Figaro" di Parigi e richiamava
l'atto di fondazione di un movimento politico: i futuristi aspiravano a
modificare radicalmente la società. Il futurismo, dunque, si pose in un'ottica
dichiaratamente antiborghese: fu contro il perbenismo, ogni forma di
tradizione, il parlamentarismo e la democrazia; sostenne invece la positività
assoluta del gesto ribelle e libertario, dell'eroismo fine a se stesso, del
disprezzo dei sentimenti, della guerra come "sola igiene del mondo".
Tra i vari successivi manifesti che ribadivano e ampliavano l'intento
provocatorio del primo, il più interessante per l'elaborazione culturale e le
conseguenze fu il Manifesto tecnico della letteratura futurista (1912), che
propose la distruzione di tutti i nessi sintattici per lasciare le "parole
in libertà" e realizzare l'espressione dell'"immaginazione senza
fili", fondata su un uso estremo dell'analogia e dell'onomatopea per
restituire sulla pagina l'effetto bruto e immediato del rumore. Una
"rivoluzione tipografica" doveva realizzarsi con l'abolizione della
punteggiatura e l'assunzione di una grafica capace di trasmettere
immediatamente la diversa importanza delle parole. Apparvero anche manifesti
tecnici di altre arti quali la pittura, la musica e l'architettura. Il
Manifesto del teatro futurista sintetico (1915) suggeriva di sorprendere il
pubblico con spettacoli brevissimi o addirittura inesistenti per provocarne la
reazione anche violenta. Le posizioni del futurismo italiano in ambito politico
trovarono espressione sulla rivista "Lacerba", furono meno originali
e rimasero legate a forme di nazionalismo. Allo scoppio della prima guerra
mondiale i futuristi si schierarono decisamente a favore dell'interventismo e
parecchi di loro partirono volontari.
b) Filippo Tommaso Marinetti - Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944),
teorico del futurismo, nacque ad Alessandria d'Egitto, dove compì gli studi
liceali; si laureò poi in lettere alla Sorbona di Parigi. Scrisse in francese
le sue prime opere: I vecchi marinai (Les vieux marins, 1898); La conquista
delle stelle (La conquête des étoiles, 1902); Distruzione (Destruction, 1904);
la migliore è Il re Baldoria (Le roi Bombance, 1905), tragedia satirica contro
la democrazia. Dopo la pubblicazione dei primi manifesti futuristi, curò
l'antologia Poeti futuristi (1912). In quegli anni uscirono le sue opere più
significative: Mafarka il futurista (1910) e la raccolta poetica Zang Tumb
Tumb. Adrianopoli, Ottobre 1912 (1914), testi affidati a un'esasperata
sperimentazione. Lo scoppio della prima guerra mondiale accentuò l'impegno politico
di Marinetti che si schierò a favore dell'intervento, riunendo i suoi discorsi
nel volume Guerra sola igiene del mondo (1915); nel dopoguerra aderì al Partito
Fascista. Esaltato dal regime, nel 1929 fu nominato Accademico d'Italia e da
allora tutto dedicato alla propaganda di governo. Pubblicò numerose opere
autobiografiche, tra cui L'alcova di acciaio (1927); Scatole d'amore in
conserva (1927); La grande Milano tradizionale e futurista (1969, postumo); Una
sensibilità italiana nata in Egitto (1969, postumo).
Marinetti ebbe un ruolo di rilievo
sulla scena europea per la capacità di organizzare e propagandare le nuove
forme espressive; impose il modello dell'avanguardia in antitesi con il gusto
estetico del pubblico.
15.
L’arte per l’arte, l’impressionismo - Tra il 1914 e il 1916, una rivista
come «La Voce» pubblicata a Firenze,
accentua il suo carattere letterario: i vociani privilegiano una critica
autobiografica e il frammentismo lirico, cercano di espungere qualsiasi intrusione
etica sociale o politica e di promuovere una poetica fondata sul culto della
parola e dello stile. A tale indirizzo fanno riferimento alcuni dei maggiori
poeti del secolo.
Tra
il 1919 e il 1923 il gruppo degli scrittori de «La Ronda» concordano con il programma di Cardarelli che enunciava la volontà di restaurare la tradizione
classica della letteratura italiana impersonata in Petrarca, Manzoni e
Leopardi, esigeva per lo scrittore piena autonomia da ogni compromissione
politica e sociale, considerando l’atto letterario come supremo esercizio di
stile. Sul piano letterario La Ronda mostra
il rifiuto di ogni forma irrazionalista, dalla poesia simbolista di Pascoli
alle mitografie di D’Annunzio, alle teorie iconoclaste dei futuristi. Ciò
accanto al recupero di una concezione dell’arte intesa come diletto, mestiere
raffinato di letterati che si professano estranei a ogni finalizzazione dei
contenuti. I rondisti sono teorici di una scrittura d’arte, senza impegni etici
né politici, esercizio disinteressato.
Tra
il 1926 e il 1936, intorno alla rivista fiorentina «Solaria», si raccolgono alcuni tra i migliori scrittori del periodo
e che ebbero grossa influenza nel dopoguerra. Tra loro Eugenio Montale e Carlo
Emilio Gadda. La rivista era stata fondata e diretta a Firenze da A.
Carocci. Una rivista eclettica, oscillante tra il rigore formale de «La Ronda»
e il moralismo del gobettiano «Baretti».
In contrasto con l’autarchia culturale predicata dal fascismo, vi fu una grossa
apertura verso le esperienze europee: si recensirono tempestivamente i libri di
P. Valéry, E. Hemingway, A. Gide, A. Malraux; si stamparono traduzioni di T.S.
Eliot, J. Joyce, R.M. Rilke. Si cercò di valorizzare autori del Novecento
italiano dedicando numeri unici a Saba, Svevo, Tozzi. Dal 1930 ci fu una
maggiore attenzione verso i giovani scrittori, come Vittorini. Gli interventi di N. Chiaromonte, U. Morra e G. Noventa
sulla responsabilità storica del letterato allarmarono la censura che sequestrò
alcuni numeri della rivista, tra cui quello del marzo-aprile 1934 contenente Il garofano
rosso di Vittorini.
Di
tutti gli autori che si mossero variamente in questi anni, gli unici riletti
dalle generazioni successive di lettori, furono Dino Campana, Vincenzo
Cardarelli, Riccardo Bacchelli.
16. Poetiche
espressioniste surrealiste magicorealiste - Sulla linea pirandelliana sono
Pier Maria Rosso di San Secondo, e in
parte Massimo Bontempelli fautore del
realismo magico. Giuseppe Antonio
Borgese con il romanzo Rubè tenta di opporsi al frammentismo vociano
come all’isolazionismo rondista.
17. La
produzione regionale
- La politica culturale del fascismo cercò di promuovere un tipo di cultura
nazionalista e unitaria, decisamente “italianofila”.
Le culture che si esprimevano nelle lingue regionali furono osteggiate, anche
se non mancarono in quegli anni autori e testi che usarono le lingue regionali
per esprimersi.
18.
La rivoluzione narrativa del primo Novecento - Il romanzo occupa un posto di assoluta
preminenza nel panorama letterario e, nel corso del secolo, la produzione si
differenzia in misura rilevante per avvicinarsi, sotto lo stimolo
dell’industria culturale, alle esigenze di un pubblico differente. Accade così
che mentre si affermano sperimentazioni di nuovi modi di narrare, tendenze di avanguardia,
persistano, anche a livello di letteratura alta, romanzi di impianto
tradizionale.
La crisi della
tradizione ottocentesca si evidenzia nel fatto che raccontare e descrivere non
basta più: la grande tradizione narrativa ottocentesca che aveva dato nel
verismo gli ultimi altissimi frutti, entra, infatti, in crisi nei primi anni
del nuovo secolo.
Già nell’alveo
dell’estetismo di fine secolo erano nate esperienze narrative che avevano
indebolito il ruolo della trama, ma ciò che a molti scrittori cominciava ad
apparire vecchia era l’operazione stessa del narrare. Descrivere e
raccontare erano sentiti come schemi che fatalmente riproducevano un ordine,
volevano dire fissare un inizio e una fine, interpretare la realtà e disporla
razionalmente in uno spazio e in un tempo. Ma nella cultura novecentesca
proprio questo cominciava ad essere messo in dubbio, che la realtà fosse
interpretabile secondo parametri razionali.
Ciò che
caratterizzava la modernità era la perdita del centro, della certezza che
l’uomo potesse conoscere il mondo che lo circonda, giudicarlo e quindi
descriverlo. Un elemento che emergeva era la fine di una visione unitaria del
mondo e di se stessi, che portava intellettuali, artisti e scrittori a cercare
nuovi strumenti per esprimere questa nuova situazione, tutta moderna.
Una prima
conseguenza della situazione finora delineata fu che gli scrittori si
applicarono a forme della prosa alternative alla narrazione:
1.
la prosa lirica nella quale il racconto è
sostituito dall’illuminazione improvvisa, dal flash;
2.
il frammento e la prosa d’arte, cioè
pezzi di bravura, sfoggi di raffinatezza stilistica.
Alcuni grandi
romanzi creano nei primi decenni del secolo la dimensione novecentesca del
narrare.
·
Nel
1913 la prima parte di Alla ricerca del tempo perduto, il ciclo di sette
romanzi di Marcel Proust che compì una delle più ambiziose imprese della
letteratura di tutti i tempi: nel contesto di una società, sottoposta ad un
profondo cambiamento sociale, che assiste al definitivo declino del mondo
aristocratico, egli analizzò minutamente le cause della psicologia amorosa e i
meccanismi della memoria, cogliendo insieme la relatività della dimensione
temporale e la possibilità per ogni uomo, attraverso gli incontrollabili
meccanismi della memoria involontaria, di rivivere l’essenza
stessa del proprio passato.
·
Nel
1916 esce il lungo racconto La metamorfosi, di Franz Kafka che ebbe un
peso decisivo nell’evoluzione delle tecniche romanzesche. In romanzi come Il
processo (1925) e Il castello (1926) Kafka piegò tecniche della
narrativa fantastica a rappresentazioni costruite con minuziosa verosimiglianza
e allo stesso tempo caratterizzate da un angosciante senso dell’assurdo e da
inquietanti trasfigurazioni oniriche: le private ossessioni psicologiche
dell’autore si trasformano in densi simboli del destino umano, in un mondo
privo di dei ed oppresso da misteriose ed incombenti presenze superiori.
·
Nel
1922 il romanzo Ulisse di James Joyce riprende il modello narrativo
dell’Odissea di Omero, anche se la sua azione è circoscritta a quanto
accade nell’arco di una sola giornata nella Dublino contemporanea. Una delle
caratteristiche più originali della scrittura di Joyce è l’impiego sistematico
delle tecniche del monologo interiore e del flusso di coscienza,
attraverso le quali l’autore rappresenta, per così dire, in presa diretta
lo scorrere incessante e spesso informe dei pensieri, delle percezioni, delle
associazioni mentali consapevoli e inconsapevoli dei personaggi.
·
Nel
1923 appare, ai margini dell’ufficialità letteraria nazionale, La coscienza
di Zeno di Italo Svevo in cui c’è «ardore di verità umana e desiderio
continuo di sondare, ben al di là delle parvenze fenomeniche dell’essere, in
quella zona sotterranea ed oscura della coscienza dove vacillano e si oscurano
le evidenze più accettate». Se i primi due romanzi Una vita e Senilità sono
una specie di autobiografia, La coscienza di Zeno che assume la forma di
diario, approfondendo sistematicamente lo scandaglio dell’inconscio. In esso il
problema esistenziale è risolto con la scoperta dell’azione: solo se ci
si immerge totalmente nei problemi concreti del vivere quotidiano e non si ha
più il tempo per le meditazioni sulle problematiche astratte dell’esistenza, è
possibile liberarci dal peso dell’angoscia.
·
Nel
1926 uscì il romanzo Uno nessuno e centomila di Luigi Pirandello, opera
intenzionalmente frammentaria, saggistica e antiromanzesca, cui lo scrittore
affidò il compito di riassumere la propria sconsolata visione del mondo, basata
su di un esasperato soggettivismo, secondo cui la realtà non avrebbe una sua
oggettività, ma assumerebbe tanti aspetti diversi quanti sono gli uomini che la
osservano; anzi essa cambierebbe anche a seconda dei vari momenti in cui viene
a trovarsi il singolo uomo. La medesima cosa capiterebbe all’uomo: io non sono
nella realtà quello che sono, ma quello che appare a ciascuno degli uomini con
i quali vengo a contatto; e poiché la mia personalità non ha senso al di fuori
del contatto con la società, è evidente che io creda di essere uno,
essendo invece centomila e nessuno. Ne consegue l’impossibilità
dell’uomo di comunicare con gli altri, poiché a lui sfugge, in ogni incontro,
chi egli sia per l’altro. Da ciò una desolante solitudine, una sensazione
d’angoscia, che determina come effetto o un cieco furore contro la società o un
brutale impulso al suicidio.
·
Tra
1930-1933 i primi due volumi de L’uomo senza qualità, l’incompiuto,
colossale romanzo di Musil in cui, mescolando narrazione e riflessione
saggistica, Musil sconvolse le tradizionali tecniche romanzesche, costruendo
una grande metafora dell’aspirazione dell’uomo alla totalità e insieme
dell’impossibilità di raggiungere una verità che non sia provvisoria e
parziale.
Ciascuno di
questi scrittori (e insieme a loro bisogna ricordare almeno Virginia Woolf,
William Faulkner, Gertrude Stein) aprì strade completamente inesplorate per il
romanzo e perseguì obiettivi diversi; tutti però intrapresero un percorso che
passava per il radicale e profondo ripensamento delle strutture narrative,
della lingua e dello stile.
Nelle opere di
questi autori è possibile individuare alcune direzioni comuni della ricerca di
rinnovamento delle strutture narrative:
1.
Il tempo interiorizzato: l’idea nuova è che il
tempo non è una realtà oggettiva, che si misura in ore, giorni, mesi, ma è una
percezione soggettiva, è il tempo della coscienza. La narrazione,
l’organizzazione dei fatti in un prima e in un dopo avviene allora secondo
questo tempo interiore.
2.
La destrutturazione
dell’intreccio: si indebolisce l’intreccio come narrazione continua, nella
quale gli eventuali vuoti sono riempiti attraverso l’intervento del narratore.
La materia del racconto tende a coagularsi sempre più in blocchi tematici, a
seguire gli andamenti della coscienza dei personaggi che si sostituisce alle
vicende.
In queste
direzioni si mosse quindi la ricerca della narrativa novecentesca, ma, dopo
questa svolta, è problematico trovare nel corso del secolo altri
denominatori comuni.
In Italia, il
trentennio tra l’inizio della prima guerra mondiale e la fine della seconda fu
caratterizzato dalla presenza del Fascismo le cui direttrici ufficiali della
cultura esaltavano gli uomini dalla volontà granitica ed eroica: per questo
motivo la cultura italiana di questo periodo fu fortemente condizionata da una
tale realtà storica e questo rende naturalmente più difficile una disposizione
della produzione narrativa.
Ciò che prevale
in Italia è la molteplicità delle esperienze e delle soluzioni:
1.
L’emergere della piccola borghesia tra le due guerre
incrementa una produzione letteraria di consumo. A parte i generi settoriali,
la gran parte della produzione di consumo si ricollega ai romanzi d’appendice
ottocenteschi; volgarizzamento della letteratura colta per i ceti
medioborghesi: Luciano Zuccoli (La freccia nel fianco, 1913), Guido da
Verona volgarizzatore del dannunzianesimo, in fondo la stessa Grazia Deledda
che nel dopoguerra scrive Incendio nell’uliveto nel 1918 e Cosima
nel 1937, e riceve un nobel nel 1926. Sibilla Aleramo, una scrittrice come
Térésah, Antonio Beltramelli.
2.
Oltre a Pirandello e a Svevo, un ruolo fondamentale
fu giocato dalla rivista fiorentino Solaria. L’attività del gruppo Solaria,
cui collaborano critici quali Debenedetti e Solmi, aveva già delineato, negli
anni trenta, due precisi filoni narrativi: quello di tipo
saggistico-memorialistico e quello realistico. Nella linea solariana si
dispiega una vasta gamma narrativa che ha, in un certo senso, caratteristiche
di letteratura di opposizione: l’artista, limitandosi, infatti, a
rifugiarsi nella rarefatta evocazione memoriale ed astraendosi dalla
contemporanea realtà italiana, si spinge sino alla descrizione di dolorose
realtà sociali, trasferita in un clima remoto e arcano che toglie mordente alla
volontà di opposizione.
3.
Accanto a questo c’è una letteratura
d’opposizione meno cifrata e più decisa.
·
Nel
1929 Moravia pubblica Gli indifferenti, un inclemente affresco della
decomposizione borghese opposto alle mitologie ufficiali. La vicenda narrata si
concentra su pochi personaggi ed ha come ambientazione principale il salone di
casa Ardengo. Ritratto della disgregazione di una famiglia borghese, Gli
indifferenti, contraddicendo i valori marziali ed eroici propagandati dal
regime fascista, fu considerato dal regime un romanzo scandaloso e per questo
sottoposto a censura. La prosa è asciutta, essenziale, fredda e analitica che
inaugurò un modello narrativo, caratterizzato da un programmatico grigiore,
nello sforzo di rendere anche stilisticamente lo squallore dell’Italia
fascista. Il romanzo riveste una particolare importanza perché, in un momento
di crisi e di stanchezza della nostra narrativa, si impose con la forza di un
romanzo di rottura. L’aspetto che più colpì il pubblico e la critica fu il
crudo realismo con cui venivano ritratti ambienti, situazioni e personaggi in
una prosa disadorna e secca. Come segnala il titolo, il romanzo si realizza
nella messa in scena di una situazione esistenziale, l’indifferenza, che
si manifesta come incapacità, inerzia, inettitudine, apatia morale. Questa
condizione viene ritratta nei componenti di una famiglia borghese che, dietro
le apparenze e le finzioni del perbenismo, nascondono corruzione e assenza di
valori.
·
Nel
1930 Corrado Alvaro pubblica Gente in Aspromonte le cui pagine nascono
da una favolosa trasfigurazione di vita regionale condotta sul filo della
memoria, non solo da una commossa ricostruzione di fatti, di persone, di
paesaggi impressi nell’anima al suo affacciarsi alla vita, ma anche da una
sofferta partecipazione al dramma della povera gente che da secoli lotta e
soccombe, preda spesso di tirannici latifondisti, in una terra arida e
desolata, e più ancora da un continuo impegno morale che accompagna e guida gli
umili verso la rivolta e il riscatto. In questa terra desolata, in questo luogo
di annose ingiustizie sociali e di inveterate sopraffazioni, Alvaro colloca la
vicenda umana di Argirò, un pastore i cui buoi e animali avuti in custodia
precipitano in un burrone e devono essere venduti per pochi soldi come carne di
bassa macelleria e la progressiva presa di coscienza del suo figlio maggiore
Antonello che trova nel brigantaggio l’unica forma di riscatto. Il racconto
vuol evidenziare questa presa di coscienza del mondo dei pastori che finalmente
riescono a manifestare la loro protesta contro la società ingiusta che ha
dimenticato la loro umanità. Gente in Aspromonte diventa la tragica
storia di un urto secolare, vera e guizzante, senza niente di veristico e di
stucchevole, e dove oggetti, proverbi, urli, insieme a un valido senso di un
dialogo semplice e parlato, ricomposto senza alcuna codificazione letteraria,
si fondono in valori e in tensioni permeate di magico contenuto.
·
Nel
1933 Ignazio Silone pubblica Fontamara, scritto in un momento di
amarezza, di rimpianto e di solitudine, nell’incertezza del futuro, ma anche
col proposito morale di resistere alla paura del presente. Silone concepì
questo romanzo per denunziare lo stato di avvilimento sociale in cui si trovava
il suo paese. Fontamara potrebbe essere definito un libro-eroe, avendo avuto
l’effetto deflagrante di un giornale di denuncia clandestino: il romanzo,
infatti, fu vietato in Italia e poté uscire solo in Svizzera a spese
dell’autore, proprio per il carattere eccessivamente schietto della denuncia
sociale in esso contenuto. Fontamara è la storia di un paese della
Marsica, costituito da poche casupole e strade primitive nel periodo in cui, ai
soprusi antichi di cui i poveri contadini di quel paese sono vittime, si
aggiunge anche la violenza dei fascisti arrivati al potere. Dal racconto esce
l’immagine di un’umanità primitiva e rozza, ma capace di virtù eroiche.
L’ambiente, la Marsica, è sempre presente, come un quadro amaro, ritratto in
linee dure, che è parte integrante della vita dei fontamaresi. I contadini di
Fontamara, sfruttati, si ribellano solo quando il lettore è già ampiamente
esausto, e questo senso di angoscia e di pena è rafforzato dal finale tragico
di tale ribellione. Tali sentimenti in gioco sono gestiti con un’arma
semplicissima, la stessa del Verismo, la cronaca nuda: lo stile appare,
infatti, povero e incalzante, più dinamico dei protagonisti, più cinico dei
cinici descritti e tutto ciò rende Fontamara uno di quelle opere
letterarie indimenticabili. Un elemento importante di questo romanzo è
l’ironia, con cui Silone esprime la contrapposizione tra l’ingenuità dei cafoni
e la falsità degli altri, la paura di essere presi in giro da parte dei primi e
l’intenzione di ingannare da parte dei secondi. Si pone l’accento, anche,
l’enormità dei provvedimenti che arrivano dall’alto, che assumono l’aspetto di
beffe. Se da un lato Fontamara è un bollettino storico sulla condizione
miserabile dei contadini del Centro-Sud, dall’altro è un grandissimo esempio di
come si possa fare grande letteratura avendo come protagonisti personaggi
assolutamente anti-eroici, abulici, ignoranti, irritanti e sfruttati. Elementi
essenziali sono i contadini che non sanno fare massa, il dio sconosciuto
della terra da coltivare e possedere, le meschine ricchezze della vita agricola
(l’acqua, il podere, le recinzioni), le prepotenze fraterne dei cafoni
leggermente più furbi, capaci di farsi ben volere dal potere locale, dal
Regime, nel caso specifico.
·
Nel
1934 Carlo Bernari pubblica Tre operai, scritto fra il 1928 e il 1929. Tenuto conto del
delicato periodo storico in cui vigeva la letteratura rondista ed evasiva, il
romanzo, per il suo contenuto sociale e realistico, rappresentava un momento di
rottura con la moda vigente. Alcuni confusero il documento politico-sociale con
la pagina che Bernari aveva scritto e la inserirono nel vago clima
neorealistico del tempo, altri vi videro il trionfo della poetica neorealistica
di marca verghiana. La genesi è in gran parte politica e impegnata in senso
sociale, con idee non conformi a quelle del regime fascista infatti alcuni
giornali autorevoli dell’epoca rifiutarono recensioni favorevoli, supponendo
che nel romanzo vi fossero elementi politicamente pericolosi e compromettenti. né
l’occupazione delle fabbriche, né i problemi degli operai, negli anni del
Fascismo, costituivano Infatti argomenti fondamentali e frequenti della
narrativa ufficiale. Bernari tuttavia nel suo romanzo non affrontava la
condizione operaia come condizione di classe, bensì i problemi umani di tre
individui che fanno gli operai: per questo egli si mantiene ancora al di qua
della letteratura sociale. Bernari crea quel clima problematico e
diseroicizzato degli indifferenti, degli uomini logorati e vinti, ridotti ormai
ad una situazione fallimentare della vita, che caratterizzerà con maggiore
consapevolezza il Neorealismo. Gli operai di Bernari sono dei vinti la cui
aspirazione è quella di uscire dalla loro condizione per entrare nel mondo
piccolo-borghese, ma certamente l’opera rimane una testimonianza della
sconfitta operaia negli anni in cui il Fascismo si affermava ed ancora un
documento del disorientamento delle coscienze, in quanto il lavoro stesso è
inteso o rappresentato come condizione primaria di alienazione dell’uomo da sé
e dai suoi simili. C’è infatti, in esso, la condizione ferma e scontata della
fabbrica: questa esiste ed esistono una serie di cose per cui questa
istituzione vive la sua vita impersonale inghiottendo uomini e avvenimenti per
privarli di ogni elemento di distinzione umana e sociale.
Questi scrittori
diedero il via ad una narrativa di opposizione al regime fascista, naturalmente
con tutte le precauzioni suggerite dalle circostanze, orientandosi verso una
descrizione più realistica della società italiana, al di là della retorica
della sanità del popolo italiano. Per questo questi scrittori vengono
anche definiti neorealisti degli anni Trenta, anche se essi ebbero del
mondo un sentimento angosciato e pessimistico. Per il resto la storia
del romanzo italiano degli anni Trenta si svolge fra toni vagamente realistici
e... . Fra questi si segnalano:
1.
Aldo Palazzeschi mantenne un atteggiamento
distanziato ed attendista di fronte al regime fascista e alla sua ideologia di
ritorno all’ordine conducendo vita molto appartata ed intensificando la sua
produzione narrativa e collaborando, dal 1926 in poi, al Corriere della sera.
Palazzeschi ebbe un ruolo rilevante nella letteratura del Novecento per il suo
stile e per le sue concezioni narrative: rappresentò, infatti, una nota di
arguzia e di genialità, soprattutto per il modo come descrive i suoi personaggi
e le vicende in cui essi agiscono. Quest’atteggiamento ironico e demolitore,
unito alla capacità di creare rapidi ed incisivi bozzetti o immagini, è alla
base di tutta la sua produzione in prosa. L’opera dove si riassume il
significato fondamentale del messaggio di Palazzeschi è il romanzo Le sorelle Materassi, pubblicato nel
1934 dove la trama, profondamente umana con sfumature di malinconia si presta alla
problematica introdotta dall’autore, che si riassume in una visione commossa,
pur nel tono vario e nell’ispirazione seriosa e sicura che caratterizza il
capolavoro. Protagoniste sono Carolina e Teresa Materassi, due anziane sorelle
ricamatrici. Nella grigia esistenza delle due zitelle, dedite al lavoro in
compagnia della terza sorella Giselda e della serva Niobe piomba ad un tratto
il nipote Remo, rimasto orfano di madre Augusta, la defunta quarta sorella
Materassi. La giovinezza, la bellezza e la disinvoltura del ragazzo spingono le
zie a piegarsi ai suoi comandi, cambiando vita e bruciando in poco tempo i
risparmi accumulati in anni di duro lavoro. Abbandonate dal nipote, ridotte
alla miseria, le tre donne non cessano tuttavia di adorare Remo, accontentandosi
di ricevere qualche cartolina e accettando anche Peggy, modernissima ragazza
americana che egli ha sposato. Ormai in rovina, si riducono a lavorare per le
contadine del circondario, ma si consolano conservando religiosamente le
fotografie di Remo. In particolare una di queste che lo ritrae in succinto
costume da bagno, è collocata, come su un altare, nella loro stanza da lavoro.
Aldo Palazzeschi raffigura con sarcasmo le sorelle attraverso un linguaggio
teatrale, ricco di formule orali e di espressioni del vernacolo intessute in un
dialogo sorprendentemente effervescente, punto di forza dell’arte di
Palazzeschi. Altrettanta vivacità è data dai particolari scenici delle
descrizioni e dai giochi linguistici con cui l’autore crea a siparietti
esilaranti, come la scena della cambiale, in cui Remo arriva a chiudere le zie
in dispensa pur di farsi firmare un’astronomica cambiale.
2.
Riccardo Bacchelli si impone per
la sua grande poliedricità narrativa: in lui colpisce particolarmente
l’ampiezza della problematica che abbraccia i principali aspetti della
condizione umana e svolge temi storici, sociali, morali, filosofici e
scientifici. In varie opere di Bacchelli è presente lo sfondo storico che
conferisce saldezza e stabilità al racconto e che testimonia in particolare
l’interesse che l’autore ha per la storia di cui è scrutato il ritmo ed il
significato. Lo studio stesso delle epoche passate è condotto con uno stato
d’animo contrassegnato spesso dalla nostalgia, dal rimpianto che a volte deriva
dal venir meno delle cose, dall’immagine di una realtà che scompare per sempre.
Oltre a ciò, la serena consapevolezza dei problemi sociali e morali dell’uomo
cui si unisce il vagheggiamento di un’umanità forte e buona conferisce
originalità ed un notevole fascino all’opera di Bacchelli. I pregi più
indicativi del mondo di Bacchelli si riassumono nel suo capolavoro, Il
mulino del Po, pubblicato fra il
1938 e il 1940. L’opera è un grandioso affresco storico che,
nella salda cornice di un ampio periodo che va dalla sconfitta napoleonica in
Russia fino alla
battaglia del Piave nella Prima Guerra Mondiale, svolge la
complessa vicenda di
quattro generazioni di mugnai del Po, gli Scacerni, ed intende celebrare,
attraverso le lotte dei protagonisti con il Po e con le avversità della storia,
la resistenza e la tenacia del popolo italiano. Mirabili sono le pagine che
descrivono l’alluvione del grande fiume, gli scontri tra i restauratori e i
liberali nel clima infuocato del Risorgimento, le tempestose lotte di classe
nella Romagna socialista negli ultimi decenni del XIX secolo, le frequenti
commosse descrizioni bucoliche e del costume contadino, e sempre acuto, affatto
manzoniano quello dei molti personaggi. Al sapore storico si
unisce infatti nel romanzo l’interesse per lo studio dei personaggi, nella cui
vita e nei cui gesti si individuano spesso significati universali ed umani,
mentre sia nell’analisi storica e sociale (evidente soprattutto se notiamo
l’importanza assegnata agli esami degli aspetti e dei problemi delle varie
classi) sia sulla problematica morale domina la capacità di ampie e ben
articolate concezioni che è tipica dell’autore. La
scrittura ariosa, precisa, fatta di periodi lunghi e nitidamente espressi,
richiama quella di Manzoni che Bacchelli assunse come modello e la lingua è la
stessa che si parlava in quel mondo, a quel tempo. All’esempio manzoniano
Bacchelli si è costantemente richiamato interpretandolo come compimento di
grandi affreschi romanzeschi, guidati da saldi concetti morali, da un gusto
molto forte della meditazione e dell’ammaestramento e da un vivo interesse per
la storia. Al di là di questo si coglie una straordinaria somiglianza etica,
tra Bacchelli e Verga: i mulini sono anche lo scoglio dal quale le
ostriche non dovrebbero mai distaccarsi, pena, per chi contravviene a
questa regola, non scritta ma ferrea, la rovina. E difatti, alla fine, uguale e
triste è la sorte degli Scacerni come lo era stata quella di mastro don
Gesualdo, dei Verginesi come prima di loro dei Malavoglia, e drammatica
risulta, nello sperare e nel disperare, la somiglianza di padrona Cecilia con
padron ‘Ntoni.
3.
Dino Buzzati interpreta l’angoscia esistenziale, il
nonsenso di molti comportamenti umani e l’assurdità delle situazioni. I romanzi
e i racconti di Dino Buzzati, esprimono profondamente il senso d’inquietudine e
di ansia che spesso riempie la vita umana. Caratteristica dell’opera di Buzzati
è la coesistenza di fantasia e realtà. Dopo due prove narrative di diverso
successo, nel 1940 Buzzati pubblica Il deserto dei Tartari mentre
l’Europa freme sotto i colpi di una guerra nella quale anche l’Italia inizia a
muovere i primi passi. Ne Il deserto dei Tartari, attraverso metafore,
analogie, sottili processi allusivi ed evocativi, Buzzati segue la vita-non
vita di Giovanni Drogo, dal suo arrivo, appena ventunenne, alla Fortezza
Bastiani, fino alla sua morte. La Fortezza è un avamposto al confine con un
deserto, in passato teatro di incursioni da parte dei Tartari: sperduta, sulla
sommità di una montagna, retta da regole ferree, microcosmo affascinante che
ammalia i suoi abitanti impedendo loro di abbandonarla. I militari che la
abitano e le danno vita sono retti da un’unica speranza: vedere sopraggiungere
i Tartari dai confini, per combatterli, acquisire gloria, onore, diventare,
insomma, eroi. Le vite si consumano, dunque, in quest’attesa, cullate dalla
pigra abitudine, scandite dall’ignaro trascorrere del tempo. Giovanni Drogo è
subito avvinto, dalla sua malia: è sicuro di sé, sa di avere tutta la vita
davanti, di poterne disporre a suo piacimento, aspettando la grande occasione.
Così Giovanni si adatta alla vita della Fortezza, consegnando nelle mani della
Disciplina militare, la propria esistenza. L’intero romanzo è caratterizzato
dal continuo mutare di prospettiva del narratore. Talvolta questi assume il
punto di vista del protagonista, altre volte narra di lui in terza persona,
allontanandosi; oppure interloquisce con i personaggi; in alcuni casi sembra
seguire un proprio pensiero, un flusso di coscienza ininterrotto che prelude a
quelle che saranno poi le riflessioni dello stesso Giovanni Drogo.
4.
Vitaliano Brancati affronta un particolare aspetto
della realtà sociale del meridione: se il meridionalismo di Alvaro è lirico e
quello di Silone è sociale, il suo meridionalismo è ironico e moralistico. Egli
rappresenta la vita pigra e sonnolenta della provincia siciliana,
concentrandosi nella rappresentazione del gallismo e dell’ossessione
della donna e dell’eros. Il moralismo si stempera però in una caricatura non
priva di qualche adesione e simpatia per i suoi eroi. Così la comicità si
trasforma in amaro umorismo, lasciando intravedere una prospettiva esistenziale
e psicologica e la lezione pirandelliana. Il primo libro della trilogia del gallismo
che lo impose all’attenzione della critica e che dimostrò le sue positive
qualità di narratore, fu il romanzo Don Giovanni in Sicilia pubblicato
nel 1941. Scapolo quarantenne, Giovanni Percolla vive in casa con le sorelle
sedotto dagli sguardi di Ninetta che sposa e si trasferisce con la sposa a
Milano, dove Ninetta l’introduce in società. Il romanzo mette in luce le due
anime del protagonista che sono poi le due anime dell’autore stesso: da un lato
l’istintiva adesione alla vita tranquilla e sorniona della provincia
meridionale, dall’altro l’esigenza razionalmente riconosciuta di impegnarsi in
una vita operosa come quella di Milano. Questi atteggiamenti così diversi tra
loro non sono ancora drammaticamente contrapposti; si assiste piuttosto alla
descrizione di un gallismo fatto non solo di discorsi scambiati con gli amici,
ma anche della tendenza ad ingigantire l’importanza degli sguardi e, più
ancora, della contemplazione quasi estatica della donna. Le donne che
ricambiano uno sguardo trasformano la vita di un uomo. Quest’esaltazione
nasconde però un’intima povertà politica ed intellettuale: come osserva
Leonardo Sciascia questi uomini che s’acquattano come scarafaggi in certe
strade buie e maleodoranti, che si riuniscono nel retrobottega di una farmacia
notturna e ogni tanto fanno risuonare un lungo gemito per le vie barocche di
Catania, negli anni della guerra d’Etiopia, col fascismo al potere ed il
secondo conflitto mondiale alle porte non sanno far altro che pensare alla
donna, per vagheggiarla più che per avvicinarla. Con accenti ancora più
divertiti che tragici, Brancati ha rappresentato l’inerzia tipica della sua
terra, ma anche il vuoto che si cela dietro a tanta propaganda fascista
19.
Italo Svevo
- Italo Svevo è uno dei maggiori romanzieri
italiani contemporanei; egli ha fatto suo il presupposto essenziale del
Novecento: la letteratura è un'analisi spietata, paradossale e ironica della
coscienza moderna. Narrare non significa più rappresentare il mondo, quanto
trascrivere l'assurda e inquietante casualità delle sue leggi, della sua
possibile insignificanza. Al pari dei migliori scrittori di inizio Novecento,
ha colto la crisi della cultura europea, l'ansia e l'inspiegabile tragicità
della vita quotidiana.
a) La vita – Italo
Svevo (pseudonimo di Aron Ettore Schmitz, 1861-1928) era figlio di un
commerciante ebreo di origine tedesca.
A dodici anni fu
mandato in Baviera a compiere gli studi, che continuò poi a Trieste,
frequentando l’Istituto Superiore di Commercio Antonio Revoltella.
In seguito al
fallimento dell’industria paterna si impiega in una banca, nel 1880, dopo essere stato assunto alla Unionbank viennese, iniziò a coltivare
gli interessi letterari e a partecipare attivamente alla vita intellettuale
triestina.
Cominciò
a scrivere novelle (L'assassinio di via Belpoggio,
1890) e il romanzo Una vita, pubblicato a proprie spese con lo pseudonimo
di I. Svevo nel 1892, senza ottenere alcun successo.
Nel 1896 sposò
una lontana parente, Livia Veneziani.
Negli
anni successivi stese il secondo romanzo, Senilità (1898),
parzialmente autobiografico. Lasciata la banca, nel 1899 si impegnò nella
conduzione dell’industria di vernici sottomarine del suocero.
La scarsa
attenzione della critica lo scoraggiò e per
circa vent'anni abbandonò, almeno apparentemente, l'attività letteraria; in
realtà continuò a scrivere novelle e commedie da ricordare Il marito del 1903, tenne un diario, si dedicò allo studio del
violino e fu attratto dalla psicoanalisi. Tradusse in italiano, per interesse
personale, l'opuscolo Il sogno di
Freud.
L'avvenimento
più rilevante anteriore al primo conflitto mondiale fu l'amicizia con lo
scrittore irlandese James Joyce, residente a Trieste, che gli diede tra l'altro
un giudizio competente sulle sue prime opere, spingendolo a dedicarsi di nuovo
alla narrativa.
A
partire dal 1919 scrisse il suo romanzo più famoso, La coscienza di Zeno del 1923. In Italia l'opera non
suscitò attenzione, ma l'entusiastica approvazione di Joyce suscitò il positivo
intervento dei prestigiosi critici francesi V. Larbaud, B. Crémieux e P.-H.
Michel; nel 1925 il giovane Eugenio Montale pubblicò una positiva recensione
del romanzo: fu il successo anche in Italia.
Svevo
continuò a produrre soprattutto racconti lunghi, tra cui Vino generoso nel 1927; Una burla riuscita nel 1928; Corto viaggio sentimentale,
iniziato nel 1925 e mai concluso; la Novella del buon vecchio e della bella fanciulla, per
la quale Svevo scrisse due possibili finali. Compose anche alcune opere
teatrali: Con la penna d'oro e La rigenerazione (pubblicate
postume).
Iniziò
a scrivere un quarto romanzo di ampio respiro, Il vecchione, di
cui stese alcuni lunghi frammenti e gli abbozzi di qualche capitolo. Nel marzo
1928 venne festeggiato a Parigi in un solenne incontro al Pen Club.
Svevo Morì in un
incidente d’auto a Motta di Livenza nel 1928.
b) Il
«caso Svevo» - I tre romanzi che costituiscono la produzione maggiore di Svevo, Una
vita (1892), Senilità (1898), La coscienza di Zeno (1923),
ebbero un singolare destino che fece parlare di un «caso Svevo». Mentre ora
sono considerati dalla critica fra le testimonianze più significative della
nostra letteratura fra Ottocento e Novecento, quando furono pubblicati
passarono quasi del tutto sotto silenzio. Svevo rimase pressoché ignorato fino
a che Montale, in un suo articolo, lo fece conoscere all’Italia, e lo scrittore
irlandese James Joyce, amico di Svevo, lo fece conoscere all’Europa.
c) La formazione culturale di Svevo – La formazione
culturale di Svevo fu assai poco legata alla tradizione italiana; fu piuttosto
una formazione di tipo mitteleuropeo, cioè legata alla cultura del centro
Europa. Svevo era orientato verso questo tipo di cultura dalla stessa
condizione politica di Trieste, che, nonostante il suo diffuso irredentismo,
fece parte fino al 1918 dell’impero asburgico, anzi ne costituì lo sbocco sul
Mediterraneo. A questo si aggiunga che egli compì i suoi studi in Germania.
d) Fra romanzo naturalistico e romanzo di
introspezione analitica – I primi due romanzi, Una vita e Senilità,
risentono ancora dell’interesse nutrito dal giovane Svevo per i naturalisti
francesi. Di tipo naturalistico è infatti il loro impianto narrativo: in essi
le vicende si susseguono in ordine cronologico, legate da rapporti di causa e
di effetto; è naturalistico anche l’interesse per gli ambienti sociali, come,
ad esempio, in Una vita, per l’ambiente bancario, che Svevo conosceva
per diretta esperienza.
Tuttavia, già in
questi romanzi è evidente l’attenzione di Svevo per l’indagine introspettiva,
cioè per una profonda analisi della psicologia dei personaggi, soprattutto dei
protagonisti. In questo senso ebbero grande influenza su Svevo il pensiero del
medico e filosofo austriaco contemporaneo Sigmund Freud, l’iniziatore della
psicanalisi, e le ricerche che questi compiva a Vienna e che miravano a
scandagliare i fondi più sotterranei della coscienza umana.
Nel terzo
romanzo, La coscienza di Zeno, l’impianto naturalistico dei primi due
scompare del tutto. Il racconto è concepito infatti come una specie di diario
che il protagonista Zeno Cosini scrive su esortazione dello psicanalista che
deve curarlo. Le vicende della sua vita non sono esposte in ordine
cronologico, ma recuperate sul filo della memoria, via via che gli si
presentano alla mente. E non contano per quello che sono realmente state, ma
per il modo, lo stato d’animo con cui il personaggio le ha vissute e per le
reazioni che gli suscitano nel ricordo. È per questa via che Svevo introduce il
lettore nella psicologia, anche dell’inconscio, del suo personaggio.
e) La figura dell’«inetto» nei romanzi di Svevo – Fin dal primo romanzo, Una vita, Svevo
descrive un particolare individuo borghese, attratto dall'arte, bloccato da un
condizionamento nevrotico che lo rende inetto
e inadatto a vivere la concretezza del mondo del commercio e della realtà
quotidiana.
Nel
secondo romanzo lo scrittore torna ancor più sul tema dell'inettitudine, che
fin dal titolo, Senilità, è termine allusivo della condizione
psicologica di chi è incapace "d'arrivare
all'immediata rappresentazione di una cosa reale", così come fanno gli
altri. Lo splendido ritratto psicologico del protagonista Emilio Brentani mette
a fuoco le caratteristiche dell'uomo moderno, eroe negativo, malato, continuamente in fuga dal
presente, perduto dietro a desideri illusori e a modelli astratti.
l’incapacità di
adeguarsi all’ambiente in cui vivono, di inserirsi in esso è comune a tutti i
protagonisti sveviani. Restano così degli esclusi, degli emarginati; si tratta
di un’emarginazione vissuta passivamente, perché essi non cercano neppure di
lottare per opporvisi, ma vi si abbandonano con abulia.
Solo il
protagonista del terzo romanzo, La coscienza di Zeno, in un certo senso
si salva, perché finisce con l’accettarsi così com’è, e nello stesso tempo
prende le distanze dalla sua abulia e inettitudine, guardando ad esse con
chiara coscienza e con ironia.
f)
La coscienza di Zeno
– Svevo ebbe sempre una predilezione per Senilità, tanto
ritenerla il suo lavoro migliore, ma è indiscutibile che il terzo romanzo, La coscienza di Zeno contiene tali e
tanti elementi di novità da farlo considerare un'opera capitale del Novecento.
La
prima novità consiste nella materia: non si tratta né di un'autobiografia, né
di ricordi consapevoli, ma del riemergere di contenuti inconsci riportati alla
luce grazie a una cura psicoanalitica cui si sottopone il protagonista.
La
seconda grande novità consiste nella struttura narrativa dell'opera: le vicende
non sono esposte secondo uno schema narrativo scandito da uno sviluppo logico o
cronologico, ma riemergono e si riaggregano attorno a nuclei di interesse che
costituiscono l'argomento e i titoli dei capitoli centrali del romanzo: "Il fumo",
"La morte di mio padre",
"La storia del mio matrimonio",
"La moglie e l'amante",
"Storia di un'associazione commerciale". I particolari
narrativi assumono importanza a seconda del contesto in cui sono collocati, in
quanto è l'interesse psicologico a determinare il recupero della memoria e
l'organizzazione del racconto.
Tale
impostazione determina anche il caratteristico andamento della scrittura di
Svevo, in cui tra presente e passato si sovrappongono le diverse sfumature
della coscienza.
I
capitoli iniziali e quello finale sono dedicati al presente, rappresentato
dalla cura psicoanalitica. In essi si svolge un sottile duello tra il
protagonista e il medico: il medico cerca di mettere alle strette il paziente
perché non si rifugi nelle sue menzogne; il paziente, a sua volta, mira a
dimostrare l'incapacità della psicoanalisi a guarire l'individuo, perché la
duplicità psicologica non è una malattia, ma il fondamento stesso della vita e
"la vita attuale è inquinata alle radici". L'unica forma di
guarigione sarebbe, paradossalmente, una catastrofe universale che cancellasse
la vita umana dall'universo.
g)
Giudizio critico –
L'opera di Svevo appartiene alla grande stagione narrativa europea che ha
espresso talenti quali Joyce, Proust, Kafka, Thomas Mann e Musil. Li accomuna
tutti la crisi della ragione nei confronti degli oscuri e incontrollabili
recessi dell'animo umano. Sotto l'ironia e l'autoironia dei propri personaggi,
Svevo nasconde la tragica incapacità, l'inettitudine
di vivere il presente come una verità tangibile, lucidamente avvertita.
20.
Luigi Pirandello
– Luigi Pirandello compie una grande rivoluzione
letteraria, specie nel teatro. Partito dal naturalismo, approdò a una tecnica
che, a differenza di quella ottocentesca, rinunciava all'unicità della voce
narrante. Mostrare la duplicità
comica e tragica dell'esistenza significa descrivere l'apparenza, le
contraddizioni e le ambiguità tipiche dell'uomo del Novecento.
a)
Vita e opere – Pirandello
nacque nel 1867 a Girgenti (Agrigento) da una famiglia agiata e borghese: suo
padre era, infatti, proprietario di miniere di zolfo. Il pensiero politico
dell’ambiente in cui nasce è prevalentemente garibaldino-risorgimentale.
Frequentò il liceo classico a Palermo poi si iscrisse alla facoltà di lettere a
Roma.
Dopo un litigio
con un professore, Pirandello si trasferì a Bonn, dove si laureò in filologia
romanza con una tesi sui dialetti siciliani, e presso la cui università insegnò
per un anno: il soggiorno tedesco fu per lui importante perché in Germania
Pirandello entrò in contatto con i letterati romantici, i quali lo
influenzarono per quanto riguarda l’umorismo.
Nel 1892,
Pirandello cominciò a dedicarsi alla letteratura, scrivendo a Roma il romanzo L’esclusa, completato nel 1893 e
pubblicato nel 1908: egli riusciva così a vivere di letteratura grazie agli
assegni che il padre gli corrispondeva.
Nel 1894,
Pirandello sposò Maria Antonietta Portulano con la quale andò a vivere a Roma,
trovando occupazione come professore di lingua italiana all’Università.
Nel 1895,
Pirandello scrisse la prima commedia, Il
nibbio.
Nel 1902,
Pirandello pubblicò Il turno.
Nel 1903, il
padre ebbe un crack finanziario: la sua miniera di zolfo si allagò, provocando
la crisi psicologica della moglie di Pirandello, che divenne ben presto pazza,
e la declassazione dal passaggio da una vita di
agio ed una di piccolo borghese. La gelosia della moglie e la condizione
matrimoniale cominciano a essere sentiti da Pirandello come una trappola; egli
doveva inoltre lavorare il doppio per vivere continuava quindi a fare
l’insegnante ed a scrivere libri, lavorando anche per il cinema e scrivendo
soggetti per alcuni film: Pirandello cominciò così a sentirsi un intellettuale
sfruttato dalla società.
Nel 1904,
Pirandello pubblicò sulla rivista Nuova
antologia, Il fu Mattia Pascal,
un romanzo particolare e diverso dagli altri.
Nel 1908,
Pirandello scrisse L'umorismo (in cui confluirono parecchie pagine
dei suoi scritti precedenti) per presentarlo come titolo al concorso a
ordinario presso l'Istituto superiore di Magistero femminile.
Nel 1909,
Pirandello pubblicò I vecchi e i giovani.
Nel 1910,
Pirandello si occupò di teatro e fece rappresentare le commedie Lumìe di Sicilia e La morsa: egli diventò così scrittore di teatro, sebbene
abbandonasse del tutto i racconti e la letteratura.
Sempre per il
teatro scrisse Il piacere dell’onestà,
Pensaci Giacomino, Se non così, Lì o là, Il gioco delle parti.
Nel 1911,
Pirandello pubblica il romanzo Suo marito.
Nel 1915 c’è la
guerra: Pirandello si schierò su posizioni interventiste perché vedeva nella
guerra la fine del Risorgimento. Nello stesso anno egli pubblicò Si gira, il cui titolo fu cambiato nel
1925 in I quaderni di Serafino Gubbio
operatore. Nel frattempo suo figlio Stefano fu catturato e Pirandello non
riuscì a riscattarlo: le condizioni della moglie quindi peggiorano e fu
ricoverata.
Dal 1916
comincia ad occuparsi veramente e solamente di teatro scrivendo commedie e
anche testi in dialetto siciliano come: Il
berretto a sonagli,
commedia in due atti il cui titolo si riferisce al berretto portato
dal buffone, il copricapo della vergogna ostentato davanti a tutti - la
commedia riprende le tematiche delle due novelle La verità e Certi
obblighi entrambe del 1912; Lì o
là, una commedia in tre atti messa fu messa in scena per la prima
volta il 4 novembre 1916 ed ispirata ad un episodio del capitolo IV
del romanzo Il fu Mattia Pascal; La giara atto unico ripreso
dall’omonima novella del 1906.
Nel 1917,
Pirandello compose Pensaci, Giacomino!, il
cui nucleo originario, è tratto dalla novella omonima. Successivamente compose Il piacere dell’onestà, tratta dalla
novella Tirocinio; sempre nello
stesso anno Pirandello mandò in scena Così
è (se vi pare), tratto dalla novella La
signora Frola e il signor Ponza, suo genero.
Nel 1918,
Pirandello scrisse Il gioco delle parti.
Nel 1920,
Pirandello abbandonò il lavoro di insegnante.
Nel 1921,
Pirandello scrisse Sei personaggi in
cerca d’autore, che all’inizio non ebbe molto successo, ma nelle ultime
rappresentazioni fu applauditissimo; egli scrisse inoltre Enrico IV un dramma in
3 atti rappresentato il 1922 al Teatro Manzoni di Milano.
Nel 1924,
Pirandello aderì al Fascismo: questo movimento provocò in Pirandello
sostanzialmente due reazioni e comportamenti: lo accolse con favore perché
prometteva ordine, legalità e non più scioperi, ma sotto sotto era però un
anarchico, perché avrebbe voluto liberarsi e rifiutare i vincoli e le
imposizioni della società. Ben presto Pirandello si accorse però che quella del
Fascismo era solo una maschera che dissimulava il suo carattere autoritario,
ma, per continuare a lavorare liberamente, egli decise comunque di non opporsi
ad esso, standosene in disparte. In questo stesso anno scrisse Ciascuno a suo modo: l'opera fa parte
della cosiddetta trilogia del teatro
nel teatro, preceduta da Sei
personaggi in cerca d'autore e seguita da Questa sera si recita a soggetto.
Nel 1925,
Pirandello diventò direttore del teatro d’Arte a Roma e si legò all’attrice
Marta Abba. In quest’anno egli pubblicò Uno,
nessuno e centomila.
Tra la fine
del 1928 e l'inizio del 1929, Pirandello scrisse Questa sera si recita a soggetto, subito
dopo l'esperienza di capocomico presso il Teatro d'Arte: l’opera è
considerata la terza parte della trilogia che il drammaturgo dedica
al teatro nel teatro, preceduta da Sei personaggi in cerca d'autore e Ciascuno a suo modo.
Nel 1930,
Pirandello si allontanò un po’ dal Fascismo. Raccolse le sue opere nelle Novelle per un anno e le produzioni
teatrali in Maschere nude.
Nel 1934,
Pirandello ricevette il Nobel per la letteratura. Egli lavorò molto per il
cinema.
Nel 1936,
Pirandello morì d’infarto, lasciando incompiuto I giganti della montagna, terminato poi dal figlio, secondo gli
appunti lasciati dal padre.
b) La narrativa e il teatro – Fin dall'inizio della sua produzione letteraria gli schemi
naturalistici assumono il Pirandello contorni paradossali in quanto viene a
mancare il rapporto tra la realtà e la verità.
Nel romanzo Il fu Mattia Pascal il protagonista prima scompare, accettando un
suicidio di cui viene ritenuto erroneamente vittima, poi finge un suicidio; il
gioco si conclude con la completa sconfitta dell'uomo, costretto, dal fluire
della vita, a sopravvivere a se stesso. La prosa nervosa e ironica, la
successione di fatti inattesi, ma tutti rigorosamente concatenati in un
contesto in cui pure domina il caso, fanno di quest'opera uno dei capolavori
europei del Novecento.
L'opera complessivamente più alta
della prosa pirandelliana è costituita dalle Novelle per un anno, che disegnano un mondo caotico dominato dal
caso e dal male di vivere e danno un efficace e originale ritratto della
società italiana di primo Novecento.
Pirandello scrisse anche alcuni
testi teorici. Il primo è l'Umorismo,
in cui egli definisce la caratteristica peculiare della sua opera come "il sentimento del contrario", cioè
la capacità di avvertire la sofferenza attraverso il contrasto tra ciò che
ciascuno è e ciò che rappresenta per gli altri.
L'ultimo lavoro teorico è Uno, nessuno e centomila, originale
romanzo-saggio in cui la teoria dell'autore viene esposta organicamente: il
tema fondamentale è il rapporto fra individuo e collettività. Per stabilire
tale relazione, l'individuo ha bisogno di darsi una forma che lo rappresenti stabilmente
agli occhi degli altri, fatta di convenzioni, di ruoli familiari e
professionali, di doveri e soprattutto dei giudizi e pregiudizi altrui, ai
quali la persona cerca di adattarsi per ottenere una riconoscibilità pubblica
(assumendo, appunto, centomila maschere), fino al punto di non riconoscersi
più. Dal contrasto tra il divenire della vita e la staticità della forma nasce
dunque l'acuta sofferenza della persona e l'assurda inattendibilità della
comunicazione.
Da
questa situazione di sdoppiamento, tra il fluire della vita e la staticità
della maschera, discende una complessiva teatralizzazione dei rapporti umani,
in quanto ciascuno è costretto a recitare la parte che il mondo circostante gli
impone.
Questa
problematica è approfondita nella prima produzione teatrale di Pirandello:
esempi particolarmente significativi sono Così
è (se vi pare) e Il gioco delle parti.
Ma la vera novità del suo teatro consiste nella rottura del realismo scenico e
nella creazione del teatro in cui è rappresentato il dramma dei personaggi,
intesi autonomamente e non più come proiezioni sceniche delle persone. Mentre
le persone, nella quotidianità, sono costrette ad assumere una forma e a
recitare la parte assegnata loro dalla società, i personaggi, invece, sono pura
forma, vivono sempre le stesse vicende che loro assegna l'autore una volta per
tutte, in una fissità psicologica fuori dal tempo.
Testo
esemplare in questo senso è il dramma dei Sei
personaggi in cerca d'autore, la cui trama, relativa a una tragica storia
di miseria morale e materiale, è funzionale al vero dramma: i personaggi,
creati dall'autore nella propria mente (ma da lui rifiutati e quindi non fatti
vivere in un testo) cercano vanamente, attraverso una compagnia di attori, di
mettere in scena la loro storia; scoprono tuttavia che non vi può essere
corrispondenza tra la verità e la rappresentazione; riproducono allora i
frammenti smarriti di una creazione tragica e sterile.
c) «La maschera e il volto» – Ogni essere
umano – dice Pirandello – è fissato, bloccato in una specie di maschera
immobile che lo fa apparire sempre uguale a se stesso. Ma l’individuo non è
fisso, immobile, non è cioè quello della «maschera», ma è in continua
trasformazione; ogni persona non è mai, nel tempo, uguale a se stessa: il buono
non è sempre buono, il furbo non è sempre furbo ed altro. L’uomo di oggi, in
altre parole, non è lo stesso dell’uomo di ieri, né di quello che sarà domani.
«Non c’è uomo – scrive lo stesso Pirandello – che differisca più da un altro che
da se stesso nella successione del tempo».
La «maschera»
diventa così una prigione della nostra vera natura; a volte diventa così
soffocante e intollerabile che si tenta di spezzarla, di uscirne fuori, col
rischio di mettere a repentaglio la propria posizione sociale, di essere
considerati dei pazzi.
È questo il tema
di alcune tra le più felici novelle pirandelliane, come La carriola e Il
treno ha fischiato. Ma esso è presente anche in altri numerosi scritti, il
più importante dei quali è il romanzo Il fu Mania Pascal, dove il protagonista approfitta di
alcune circostanze favorevoli per buttar via il suo se stesso tradizionale,
per darsi un altro nome e un’altra vita; ma l’esperimento non gli riesce, ed
egli è costretto a ritornare nella sua «maschera».
d) Che cosa è la verità - Per Pirandello
non esiste una sola verità, ma tante verità quanti sono gli uomini; il mondo,
perciò, risulta privo di certezze obiettive. Nel romanzo Uno, nessuno,
centomila, il
protagonista si accorge, ad un tratto, che coloro che lo circondano, a
cominciare da sua moglie, lo vedono ognuno in modo diverso dall’altro e tutti
poi diversamente da come egli vede se stesso. Sente così la sua personalità
come polverizzarsi; non è più uno, ma centomila e perciò nessuno.
Analogamente, nella commedia Così è (se vi pare), la giovane donna, sulla cui
identità corrono voci contraddittorie, incalzata dalla curiosità degli altri
personaggi, si presenta velata sulla scena e dichiara: «La verità? è solo
questa... Io sono colei che mi si crede».
e) Il «caso» e lo scacco – Spesso
nell’opera pirandelliana il susseguirsi delle azioni non è determinato da un
controllabile e logico rapporto di causa e di effetto, ma da spinte
imprevedibili, dal «caso» appunto. Il caso scompiglia le programmazioni
razionali e orienta arbitrariamente le vicende.
Da questa
situazione deriva all’uomo un senso di insicurezza, di precarietà, di sfiducia
in se stesso, nelle sue decisioni e nelle sue azioni, di cui non può prevedere
e controllare le conseguenze. La più semplice ed in sé innocua delle sue azioni
può infatti, per effetto del caso, determinare conseguenze imprevedibili e a
volte sgomentanti.
Altro tema
pirandelliano è quello dello scacco, del fallimento, che è comune agli
individui e alle intere società. Esso si lega, in parte, al tema del caso,
perché è proprio quest’ultimo a togliere all’uomo la fiducia di poter orientare
il suo destino e di agire positivamente di conseguenza. I personaggi di una
novella pirandelliana, Notte, concludono tristemente che il fallimento è
l’essenza stessa della vita, nella quale non si può sapere «perché si debba
nascere, perché si debba amare, perché si debba morire».
f) L’umorismo pirandelliano – L’amaro destino
degli uomini è guardato da Pirandello attraverso il filtro dell’umorismo, che
nasce, come dice lo stesso Pirandello, allorché di una situazione a prima vista
comica, si vede successivamente anche il risvolto doloroso, che trasforma il primo
moto di comicità in sorriso dolente ed amaro.
La poetica
dell’umorismo, che traduce la visione di Pirandello circa la vita, si ritrova
in un saggio del 1908, intitolato appunto L’umorismo.
Un’opera d’arte
nasce dal libero movimento interiore ed è quindi essa stessa espressione del
movimento: l’artista, infatti, quando compone solitamente non riflette, ma usa
i sentimenti e non c’è quindi riflessione perché essa si traduce in sentimento.
L’umorista usa
però la riflessione perché gli permette di scomporre e analizzare anche i
sentimenti. L’arte umoristica non si limita ad evidenziare il paradosso (ovvero
l’avvertimento del contrario), ma cerca di spiegarlo, andando in fondo al
comportamento umano: l’artista, infatti, cerca di capire con la riflessione perché
una persona si comporta in un certo modo e quindi indaga sui sentimenti.
Nell’artista nasce perciò anche la pietà.
Per Pirandello
l’arte è sempre accompagnata dalla consapevolezza di sé; essa non è inoltre
armonica ma stridente (fuori di chiave) e pluriprospettica perché evidenzia
l’aspetto contraddittorio e paradossale della realtà, una realtà che essa
riproduce fedelmente. L’arte tende quindi a scomporre e non a ricomporre perché
mette in evidenza le sue assurdità (antinomie). L’intellettuale, che ha realmente
capito come stanno le cose dall’alto della sua consapevolezza guarda gli altri
con umorismo, ovvero con pietà (comica) ma anche con irrisione. Dietro
l’umorismo pirandelliano c’è però sempre una parte di tragico (ovvero di
pessimismo), come anche dal tragico si intravede e nasce il comico.
g)
L’ultimo Pirandello
– Già con il pirandellismo – inteso come l’imitazione di tali caratteristiche da parte di
altri autori indica una parte della produzione teatrale di Pirandello stesso
durante la quale Pirandello imita se stesso, mettendo in scena in modo
arrovellato e contorto personaggi secondo schemi già visti – si ha una ripetizione stanca
degli stessi temi. Al posto dell’umorismo nelle novelle e del grottesco nel
teatro si ha una poetica irrazionale e misticheggiante.
Se prima non
c’era unità, ora Pirandello va alla ricerca di valori al di là: sembra infatti
tornare alle poetiche del Decadentismo con quella che si potrebbe definire una involuzione. Nel primo Novecento ci sono
poi le avanguardie e col fascismo si ha un ritorno all’ordine e l’arte
acquisisce un valore simbolico e mitico.
Dimostrazione di
questa nuova poetica sono i drammi teatrali: Lazzaro, Nuova Colonia e
soprattutto ne I giganti della montagna.
Questo
cambiamento si nota soprattutto nell’ambientazione e nelle azioni.
L’atmosfera
diventa mitica e simbolica ed i luoghi diventano leggendari, le azioni, non
sono più quotidiane come tradimenti, matrimoni, ma anche fantastiche.
I
giganti della montagna parla di un’attrice che vorrebbe portare l’arte e il
messaggio estetico fra gli uomini e rappresentare così la favola del figlio
cambiato. Il pubblico però rifiuta l’arte ed ella chiede aiuto al mago Cotrone,
il quale la dissuade e le consiglia di andare dai giganti. Sennonché tutti gli
attori e anche lei stessa sono sbranati dai servi dei giganti. Il racconto
assume un forte significato simbolico secondo il quale i giganti
rappresenterebbero il potere, ovvero il fascismo, col risultato che l’arte, se
vuole sopravvivere, deve adeguarsi e chiedere aiuto al potere; i servi dei
giganti raffigurerebbero i gerarchi fascisti, servi del potere.
Da ciò
Pirandello si pone il problema del rapporto tra arte e potere. Secondo lui
l’artista deve rinunciare al rapporto col pubblico e chiudersi finalmente nella
sua arte, di fronte ad un pubblico che non lo capisce e che non vuole capirlo.
In questo
periodo Pirandello continuò a scrivere inoltre novelle raccolte negli ultimi
libri di Novelle per un anno, come Berecche
e la guerra, I piedi nell’erba,
che tratta del ritorno alla natura, ed Una
giornata. Sono novelle nelle quali Pirandello scava nell’inconscio dei
personaggi e affronta temi come la morte e la meccanizzazione della società
moderna.
h) Conclusioni - Con la sua ampia
produzione teatrale e narrativa, Pirandello è una delle voci più significative
della cultura italiana del Novecento e, in assoluto, uno degli scrittori
italiani più noti nel mondo. Interprete della crisi dell'uomo moderno nel
rapporto con se stesso e con gli altri, egli ha contribuito sensibilmente alla
formazione del romanzo del Novecento, facendogli superare gli schemi del
verismo. Altrettanto decisivo il suo apporto nel rinnovamento del teatro
tradizionale, come attesta la sua fortuna, inalterata in tutto il mondo.
21.
La rivoluzione lirica del primo Novecento – La grande
rottura rispetto alla tradizione romantica e classicista si era prodotta in
Francia e in Europa nella seconda metà dell’Ottocento e, a cavallo dei due
secoli, anche in Italia. Pertanto le esperienze poetiche del primo Novecento
appaiono sotto il segno della continuità e dello sviluppo e configurano con
maggior evidenza la fisionomia di una poesia novecentesca, moderna con
caratteri propri e definibili che cercherò di riassumere e schematizzare.
1.
La poesia del Novecento è un’esperienza che si
allontana dal resto del sistema letterario, si sviluppa in una sfera a sé
stante ed ha una circolazione limitata.
2.
La lirica moderna accentua ancora, se è possibile,
il carattere di soggettivismo. Il poeta compone senza potersi rapportare a un
pubblico, né reale, né fittizio.
3.
Il linguaggio,
la parola, prevalgono su tutti gli
altri elementi della poesia. Il poeta, che non si sente più in grado di
esprimere attraverso il linguaggio la sua visione del mondo, si propone di
cercare la parola che ha in sé la capacità di significare, alludere, evocare. Egli fa come da filtro tra le
parole e le cose, le mette in relazione e lascia che da questa relazione
scaturisca un significato.
4.
Un carattere subito evidente nella poesia moderna è
la difficoltà di comprensione che
essa presenta. L’oscurità può
derivare da una concentrazione dei significati o può essere il risultato
della scomparsa del contenuto, quando le suggestioni del suono, le sequenze
ritmiche finiscono per sostituire i significati. Ma anche senza considerare
queste estreme esperienze delle avanguardie, il lettore della poesia moderna si
trova di fronte a una poesia nella quale non riesce a isolare un contenuto
preciso, alla quale non può accostarsi attraverso lo strumento della parafrasi.
Egli deve pertanto accettare l’indeterminatezza come elemento costitutivo del
messaggio poetico.
A differenza di
quanto accade per la prosa, si possono indicare per la poesia alcuni momenti
fondamentali e alcune tendenze generali, con la precisazione tuttavia che nel
nostro Novecento ci sono poeti di grande statura la cui voce si differenzia
con caratteri originali.
1.
A
partire dai primi decenni del Novecento la nuova poesia italiana si forma con lo
sguardo rivolto alle esperienze straniere; le opere di Baudelaire, Mallarmè,
Rimbaud, Valéry diventano i punti di riferimento costanti; si può dire insomma
che i poeti d’inizio secolo recuperarono i ritardi accumulati dalla nostra
letteratura nel corso del secolo precedente.
2.
D’Annunzio
e Pascoli ebbero una funzione di cerniera tra Ottocento e Novecento ed
esercitarono un’importante influenza. Non va nemmeno trascurato l’esempio dei crepuscolari
sia per le scelte tematiche sia per l’intonazione intimistica e sommessa
che portarono nella nostra poesia.
5.
Una proposta decisamente caratterizzata fu quella
dell’avanguardia futurista. Le
dichiarazioni programmatiche e teoriche contenute nei manifesti della
letteratura futurista, mentre negavano di fatto la possibilità di una
narrazione proponendo ad esempio l’abolizione della sintassi, della
punteggiatura, dell’aggettivo, potevano trovare una più efficace realizzazione
nel linguaggio poetico. In effetti alcune parole d’ordine dell’avanguardia
futurista si ponevano nel solco segnato dalla ricerca della poesia moderna come
la proposta del verso libero, della immaginazione senza fili, delle parole in libertà. I crepuscolari
oppongono coscientemente ai miti dannunziani la prosaica, dimessa vita
giornaliera e provinciale e tuttavia a questo mondo non riescono ad aderire
del tutto: sono troppo letterati e raffinati per non sentirlo di pessimo
gusto, dai confini del decadentismo non riescono ad uscire. I futuristi con
virulenza iconoclasta predicano la distruzione dei musei e della tradizione,
il ripudio dei formalistici compiacimenti dannunziani ed esaltano la macchina,
la velocità, la violenza e la guerra «sola igiene del mondo». Oltre che
l’elemento irrazionalistica, che da qualche decennio è la costante di tanta
produzione artistica europea, c’è nel loro caso dell’altro: la collusione con
le tendenze nazionalistiche già virulente nel paese, la sublimazione
letteraria di quella ferrea legge di violenza che l’industrialismo portava nei
rapporti tra le classi.
6.
Fuori da queste due scuole operarono poeti che in
vario modo parteciparono delle inquietudini del tempo e tentarono nuove strade,
con differenti risultati. Nella poesia che con più evidenza si coglie già il
nuovo ci sono Clemente Rebora e
soprattutto, Dino Campana, certamente
la voce poetica più originale e più alta di questo periodo, senza i cui Canti
orfici non si capirebbero Ungaretti e tutto l’ermetismo.
7.
L'opera di Saba e Ungaretti è una
rivoluzione quasi inconsapevole. Saba cerca la semplicità della parola, la musicalità
del verso, un paesaggio reale e quotidiano. In Ungaretti è più evidente il
confronto con la tradizione francese; la sua poesia coglie l'innocenza e la
nuda verità umana anche delle circostanze più tragiche. Entrambi i poeti
insieme con Campana, Rebora e Sbarbaro inaugurano la nuova poesia italiana del
Novecento.
22. Giuseppe Ungaretti – Nel 1916, in piena guerra e in un clima letterario saturo
di dannunzianesimo e di canzoni
inneggianti alle virtù guerriere e alle gesta d'oltremare, i versi di Porto
sepolto ebbero un effetto sorprendente.
La data di
questa prima raccolta di poesie di Ungaretti, il 1916, ha un valore rilevante nella storia della poesia
italiana del Novecento, poiché in questa raccolta si rende concreto il problema
centrale della lirica del primo Novecento. Si trattava di accogliere l’eredità
simbolista, passata attraverso i modelli francesi, e le novità delle
sperimentazioni delle avanguardie, e per la stretta relazione con una «novità»
di contenuto. In effetti quelle poesie, dai versi
spesso brevissimi, talvolta composti di una sola parola, stravolgevano la
tradizione, portando alle estreme conseguenze quanto aveva iniziato Pascoli.
Ungaretti sa far
compiere questo passo in avanti alla nostra lirica; ciò che, infatti, va
fortemente rilevato, perché costituisce la vera svolta di Porto Sepolto,
è l’impiego degli strumenti retorici di natura metrica, stilistica e
sintattica, messi a punto in un arco di esperienze poetiche che vanno da
Baudelaire a Pascoli, ai crepuscolari e ai futuristi, per rifondare la parola
poetica nella pienezza della sua funzione. Nei versi di Porto Sepolto non
vuole più esserci traccia di parodia, sperimentalismo, trasgressione, cioè di
quello stimolo di natura soprattutto polemica e culturale che esprimevano un
bisogno di novità, ma anche una «crisi» della poesia. Ungaretti, che pure ha
rifatto questa stessa strada, sembra aderire più profondamente alle ragioni
fondamentali che hanno determinato la svolta della poesia moderna e cerca uno
strumento espressivo non incrostato dalla tradizione per ridare profondità,
sacralità alla parola. Ricerca la parola poetica autentica, «pura», creatrice,
capace di rivelare un frammento del mistero della vita, legandolo a un’esperienza
circostanziata, colta come un’improvvisa e momentanea illuminazione.
Le novità di
carattere formale di questo tipo di poesia appaiono subito evidenti:
- La
disgregazione della metrica che,
andando al di là dell’adozione del verso libero, dà un risalto maggiore
alla percezione del verso come frammento (nella poesia di Ungaretti si
trovano versi composti di una sola parola), usando l’a capo, lo spazio
bianco della pagina come pausa, come silenzio;
- La
disarticolazione sintattica che
elimina i nessi logici, la punteggiatura;
- La
costruzione per analogie, il
carattere di frammento, di illuminazione improvvisa di immagine
momentanea che racchiudono in un’estrema sintesi il contenuto.
Quello che
rimane in una poesia di questo tipo è necessariamente enfatizzato, bloccato,
fissato in una sorta di isolamento che funziona da moltiplicatore delle
possibilità della parola di comunicare dei significati, per farla apparire come
rivelazione, mistero. Non si deve tuttavia pensare che questa ricerca di
un’intensità di significato, che caratterizza anche le poesie della seconda
raccolta Allegria di Naufragi (pubblicata nel 1931, e comprensiva delle
poesie di Porto Sepolto), sia un recupero sia supera e annulla la crisi
di fine secolo.
Il poeta non ha
un messaggio esplicito, ha una parola che nasce in lui dalla pienezza di
un sentimento morale e dalla ricerca di dare ad esso un’espressione forte, ed
egli la offre nella sua essenzialità e nudità come illuminazione e frammento,
non come discorso.
Nessun libro del Novecento poetico
italiano è stato, da questo punto di vista, altrettanto rivoluzionario.
Nell’Allegria, dopo i
ritocchi formali volti a scolpire ancor più la parola-materia, il verso libero
(ma spesso si tratta di endecasillabi e settenari spezzati) dilata al massimo
la sua forza espressiva. Il poeta, uomo
di pena, racconta il suo calvario di soldato come in un diario della
sofferenza scandito dal luogo e dal giorno. La solidarietà e la compassione si
elevano sui cumuli di macerie; la metrica è frantumata, la parola è
scarnificata, ridotta alla sua essenza pura, tanto più significativa perché
sobria, frammento di vita che si staglia sul bianco della pagina. E proprio
questa voluta rarefazione (eredità del simbolismo estremo del francese S.
Mallarmé) conferisce alle immagini il loro scabro e intenso lirismo, mentre il
poeta, avvolto in una corolla di tenebre,
diventa un grido unanime... un grumo di
sogni.
Nelle
raccolte successive Sentimento del tempo (1933), La Terra Promessa (1950),
Un grido e Paesaggi (1952) Ungaretti ritorna a un linguaggio più
tradizionale, ricupera il verso, la strofa che ospita un andamento sintattico
più complesso, propone la ricerca di una lingua alta ed elegante.
Storia socioculturale di un ventennio - Semplificando
molto si può dire che il Fascismo dal punto di vista sociale, più che il
braccio armato del grande capitale (inizialmente cauto verso di essi), fu
l’espressione dei ceti medi frustrati, ostili sia alle classi popolari, con cui
non volevano confondersi, sia alla grande borghesia che li spingeva verso il
basso. Dopo aver sperato nella guerra per un rimescolamento delle carte a
proprio vantaggio, «ora si vedevano governati da quegli stessi uomini contro
cui si erano battuti nelle radiose
giornate dell’intervento e pressati e scavalcati al tempo stesso
dall’ascesa di quelle forze popolari che della neutralità avevano fatto un
punto fondamentale del proprio programma» (A. Asor Rosa). Incapace di
comprendere la nozione di lotta di classe, dato il suo viscerale individualismo
e il fatto che per lui lo sfruttamento «rimane anonimo, inavvertito, celato
dietro la cortina delle libere contrattazioni», il piccolo borghese è convinto
che «la collaborazione fra le classi sia possibile e che esista un interesse
generale che coincide col suo, intermedio tra quello della borghesia e quello
del proletariato». Così i ceti medi «sognano uno stato al di sopra delle classi che non sia controllato né dalla
borghesia né dal proletariato, e che di conseguenza sia al loro servizio» (D.
Guérin).
Perciò
l’obiettivo strategico di Mussolini e del Fascismo sarà la conquista dello
Stato, da cui i ceti medi si ripromettono il controllo del potere politico e il
godimento della rendita burocratica (impieghi, sovvenzioni ecc.) per reprimere
da un lato l’ascesa delle classi subalterne e negoziare dall’altro un accordo
con la grande borghesia detentrice del potere economico. La conquista dello
Stato richiederà un’intesa con la corona e gli alti gradi dell’esercito e della
burocrazia ad essa collegati, coi quali di fatto il Fascismo dovrà spartire il
potere politico durante il ventennio (tale intesa sarà resa possibile dalla
ostilità alle istanze popolari e dalla ideologia nazionalista che accomunava
le due parti).
Fra le truppe
dei ceti medi all’assalto dello Stato troviamo largamente rappresentati la
pletora dei mezzi intellettuali che affollano le scuole e fanno
anticamera alle redazioni dei giornali e delle case editrici. Molti di essi si
pongono al servizio della macchina propagandistica del regime ricavando
anch’essi dallo Stato etico la loro
parcella di rendita. Gli intellettuali di regime furono di due specie: i «puri»
e gli opportunisti. I primi «erano per la maggior parte intellettuali di mezza
tacca... Nessuno li prendeva sul serio, neppure coloro cui fornivano i prodotti
delle loro dotte elucubrazioni».
Le maggiori
figure della cultura del regime e fra loro in particolare il filosofo Giovanni
Gentile, il giurista Alfredo Rocco e lo storico Gioacchino Volpe «si erano
formati prima del Fascismo... Le loro maggiori opere le avevano ormai alle
spalle». Fatto è che il Fascismo non produsse una sua cultura e quanto alla dottrina fascista «non aggiunse nulla a quello che aveva ereditato dal
recente passato: mise insieme lo Stato etico dell’idealismo hegeliano con la
nazione proletaria dei nazionalisti, il dinamismo dei futuristi con
l’esaltazione del superuomo. Più propriamente sua fu l’idea della latinità,
delle quadrate legioni, dell’Italia del Littorio». La maggior parte degli
intellettuali di regime fu comunque costituita da semplici opportunisti, con la
fede a comando, come molti dei primi
membri dell’Accademia d’Italia (creata nel 1926), quasi tutti i professori di
università (dei quali solo 11, su 1200, non giurarono nel 1931 fedeltà al
regime), la maggior parte degli insegnanti della scuola primaria e secondaria,
gli scrittori e i pubblicisti a disposizione della stampa e della radio di
regime che prestarono mano all’attività dell’Istituto per gli studi del Fascismo universale, fondato nel 1936,
all’organizzazione dei Littoriali della
cultura, infeconde gare intellettuali bandite annualmente dal 1934 dalle
università, o alle imprese propagandistiche e censorie del ministero della
cultura popolare, il famoso Minculpop.
Oltreché la
scuola, fascistizzata già dal 1923
dalla riforma Gentile e poi nel 1930 da una disposizione che stabiliva che
rettori e presidi di facoltà universitarie e scuole medie dovessero essere
scelti tra professori con almeno cinque anni di tessera fascista, particolarmente
utile al regime fu la collaborazione data dall’intellettualità opportunista
allo sviluppo di cinema e radio fascisti, con cui negli anni ‘30 si inaugurò
anche in Italia l’era dei mass media e della manipolazione di massa.
Attraverso la
radio (entrata nelle case italiane a partire dall’ottobre del 1924) l’Italia fu
frastornata dalle «radio cronache delle cerimonie ufficiali e patriottiche,
cortei, sfilate, inaugurazioni, saggi ginnici, ecc., dove si venne coniando uno
stile che fu detto littorio il quale
toccava il suo culmine nelle radiotrasmissioni dei discorsi di Mussolini» (G.
Manacorda).
Per quanto
riguarda specificatamente la letteratura l’influenza del Fascismo si fece
sentire sensibilmente nella marcata tendenza al disimpegno politico e al
rifugio nella torre d’avorio letteraria, manifestata da riviste come la Ronda e Solaria (soppressa quando cominciò a sembrare un punto di
riferimento culturale troppo indipendente dal regime), nella prosa d’arte e nella poesia ermetica, che appaiono ambiguamente «una
difesa dei valori poetici che certamente si opponeva alle intrusioni della
politica fascista, ma nello stesso tempo un’evasione dalla realtà che non
consentiva la denunzia della tragica situazione di quegli anni» (G. Petronio).
Più direttamente
espressione della contraddittoria ideologia fascista furono da un lato Strapaese di Maccari, dall’altro Novecento e il gruppo di Stracittà di Bontempelli. La prima
rivista espresse il ruralismo del
regime cioè l’esaltazione dei valori e dei modi di vita e di pensiero tradizionali delle campagne italiane, fatta per
consolarle del prezzo che esse dovevano pagare ai maldestri sforzi di
industrializzazione e di modernizzazione tentati dal Fascismo; mentre la
seconda esaltava il preteso rapporto tra Fascismo e modernità, quel rapporto
per cui esso si era riconosciuto nel futurismo e questo nel Fascismo e che,
nella misura in cui esisté, da ragione a quelle interpretazioni che vedono nel
Fascismo il tentativo di risposta di una società arretrata come l’Italia alla
crisi dell’industrializzazione in atto: «un’ideologia di emergenza con un
programma non d’immobilizzazione e d’ibernazione della società malata (come
fanno invece i sistemi di tipo militare) ma di fuga in avanti» (L. Incisa).
Una cultura o, più
particolarmente, una letteratura di opposizione non fu tollerata dal regime
fascista. L’iniziativa di Gramsci e di Gobetti, espressione l’una di una
rilettura originale del marxismo, l’altra di una revisione autocritica dei
presupposti dell’ideologia liberale, fu presto interrotta o isolata con la
violenza, la morte e il carcere. Sopravvisse in solitudine Benedetto Croce che poté continuare a pubblicare
la sua rivista La critica, la quale,
pur evitando ogni incursione nel terreno specificatamente politico, costituì un
punto di riferimento, l’unico non clandestino, per quel poco di opposizione che
si manifestò anche nelle file della borghesia italiana nazionale. Sul terreno
letterario c’è da ricordare però che è proprio negli anni più fortunati del Fascismo,
quelli del consenso, che vedono la
luce alcune opere, come Gli indifferenti di Moravia, Il garofano rosso e Conversazione
in Sicilia di Vittorini, Paesi tuoi di Pavese, implicitamente
antifasciste, che costituiscono le radici della letteratura impegnata del dopoguerra.
23. L’Ermetismo – Il fenomeno
più rilevante nel panorama della lirica italiana degli anni Trenta e Quaranta
è l’affermarsi di modi di concepire e fare poesia che furono riassunti nel nome
di ermetismo, una tendenza che ha in sé i caratteri della modernità ed
eredita sicuramente molte delle tensioni primonovecentesche verso una poesia pura,
espressione di una ricerca di nuovo linguaggio, ma anche di nuovi contenuti.
Il
poeta ermetico esprime un’ansia di testimonianza di verità che trova
un’espressione indeterminata nel simbolo e nell’analogia, nella tendenza a
enfatizzare la parola.
Il
termine ermetico cominciò a circolare per indicare testi letterari che
apparivano chiusi, nel senso che la loro comprensione era ostacolata
non solo dalla complessità dell’argomento, ma dalla volontà dell’autore che
ricercava l’oscurità. Il termine fu poi adottato dalla critica per
indicare un gruppo di poeti che condividevano alcune idee-guida del fare
letterario.
·
L’idea
della poesia come valore che sta al di fuori e al di sopra della storia e del
tempo e che quindi può parlare di un Uomo inteso nella sua essenza
spirituale e non calato in una determinata situazione storica o personale
·
La
poesia è proposta come testimonianza della verità anch’essa assoluta,
che non si deve cioè misurare e confrontare con gli eventi e con la storia.
·
A
quest’idea si associa la ricerca di uno stile alto, l’unico capace di
esprimere convenientemente l’ansia di verità e di assoluto.
Ciò non
impedisce ai poeti ermetici di porsi compiutamente entro l’alveo della poesia
moderna; in particolare essi fanno propria l’esperienza ungarettiana di una
parola essenziale, il valore espressivo fondamentale dell’analogia e del
simbolo. Per la loro concezione della letteratura come espressione pura e
incontaminata, sottratta da ogni influsso storico e politico, rimasero estranei
a un coinvolgimento nella politica culturale del regime fascista e sposarono
la linea dell’astensione dalla partecipazione alla vita politica e al dibattito
ideologico.
Poiché
l’ermetismo non fu propriamente una scuola poetica, non tutti i critici
concordano sui nomi da far rientrare in questo «contenitore»; tuttavia si può
affermare che poeti come Mario Luzi, Alfonso Gatto, Vittorio Sereni, Salvatore
Quasimodo furono tra i maggiori protagonisti della stagione
dell’ermetismo, anche se poi approdarono ad esperienze diverse: in particolare
Quasimodo (1901-1968), che aveva pubblicato con successo le raccolte Acque e
terre (1930) e Oboe sommerso (1932); dopo il 1945, quando
l’ermetismo entrava in crisi, coniugò il suo impegno di poeta a quello
politico e civile, come testimonia la raccolta Giorno dopo giorno (1947).
24. Eugenio Montale - Eugenio Montale è forse il poeta italiano più grande
del Novecento, fu il poeta della decenza e del rigore. La sua poesia, lontana
da qualsiasi astrazione ideologica, riuscì a mostrare, nella complessità della
sua ricerca espressiva, il senso di un'autenticità umana che sa resistere a
tutto, a patto di rifiutare qualsiasi enfasi, qualsiasi facile gioco di vanità.
Quasi tutta la poesia contemporanea non ha saputo prescindere dal suo
straordinario e limpido insegnamento.
a)
La vita e le opere
– Montale nacque a Genova nel 1896 e trascorre l’infanzia, l’adolescenza e la
giovinezza fra Genova e la casa delle vacanze estive di Monterosso nelle
Cinque Terre. Per ragioni di salute, compì studi irregolari.
Nel 1917 fu richiamato
sotto le armi; congedato nel 1919 ritornò a Genova dove collaborò a varie riviste frequentò l’ambiente letterario ligure(soprattutto C. Sbarbaro).
Nel
1922 uscirono i primi versi sulla rivista Primo
tempo di Torino, città nella quale
conobbe Giacomo Debenedetti e Piero Gobetti, che gli pubblicò Ossi di seppia nel 1925. Nello stesso
anno firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti e, con il saggio Omaggio a Italo Svevo, avviò la scoperta del grande scrittore
triestino.
Nel 1927 si
trasferì a Firenze, dove sì impiegò presso la casa editrice Bemporad; l’anno
dopo ottenne il posto di direttore del Gabinetto
scientifico-letterario Vieusseux, posto che tenne fino al 1938, quando ne fu
allontanato perché non iscritto al partito fascista. In quel periodo, culminato nella pubblicazione delle Occasioni del 1939, scrisse sulle maggiori
riviste e conobbe Drusilla Tanzi, che più tardi divenne sua moglie.
Sempre a Firenze
frequentò anche lo stimolante ambiente che si raccoglieva intorno alla rivista
«Solaria».
Nel
1945 si iscrisse al Partito d'Azione.
Dal 1946 ebbe
inizio la sua collaborazione al «Corriere della sera», che si intensificò a
partire dal 1948, quando Montale si trasferì da Firenze a Milano, dove da allora visse fino alla morte e fu redattore
del Corriere della Sera. Intensa fu
in quegli anni l'attività di traduttore (Dickinson, Yeats, T.S. Eliot, E. Pound, C. Kavafis, W. Shakespeare, H.
Melville e J. Steinbeck fra gli altri).
Nel
1956 apparvero il terzo grande libro di versi, La bufera, le prose
della Farfalla
di Dinard, seguiti dai saggi di Auto da fé (1966),
dalle interviste-confessioni di Nel nostro tempo (1972).
Con Satura (1971) si
aprì l'ultima, prolifica stagione poetica, che comprende anche Diario del '71 e del '72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977)
e Altri versi (1981).
Nel
1975 vinse il premio Nobel per la letteratura.
Muore a Milano
nel 1981.
b) La formazione - La formazione di Montale è
avvenuta al di fuori degli schemi consueti, data l’irregolarità dei suoi studi.
Alla conoscenza dei poeti italiani ha accompagnato quella di poeti stranieri,
francesi e soprattutto anglosassoni; inoltre, nella prima giovinezza, ha
studiato musica e canto (era sua intenzione di diventare baritono).
Il messaggio poetico di scabra razionalità, di ostinata
resistenza e un destino segnato dalla sconfitta, che Montale ha lanciato nella
letteratura italiana, è fondamentalmente affidato a solo quattro opere.
c) Ossi di seppia - Fin dal suo apparire, nel 1925, la critica vide in Ossi
di seppia il frutto già maturo di una personalità compiuta. Erano
forti i legami metrici e sintattici con la tradizione lirica (Dante, Leopardi,
Pascoli, D'Annunzio e Gozzano), ma si innestavano in un tessuto lessicale
nuovo, distante dagli esperimenti delle avanguardie come dalle teorizzazioni
sulla cosiddetta poesia pura, e tuttavia ricchissimo di assonanze e onomatopee,
di guizzi della parola improvvisi e inconsueti: soprattutto una lingua che
esprimeva in toni composti e meditativi una visione negativa dell'esistenza. La
vita è per l'uomo, inesorabilmente calato in un lago d'indifferenza, un muro che
ha in cima cocci aguzzi di bottiglia; l'unica speranza, esigua e parziale,
è nella contemplazione della natura, che si apre talora in brevi squarci di
luminosa pienezza. E, in effetti, il paesaggio ligure, così scabro ed essenziale, ha gran parte in
queste liriche, con il suo minuzioso erbario mediterraneo, e Montale ne assorbe
gli umori. L'uomo, prigioniero del proprio cielo senza sogni, può forse trovare
qualche conforto nella scintilla accesa qua e là, quasi per caso, da oggetti,
simulacri, eventi minimi nei quali esorcizza la propria sete di felicità.
d) Le occasioni – Le occasioni sono
forse il libro più compiuto, quello in cui meglio la regola corregge l'emozione
in un equilibrio perfetto, in un lirismo disteso, senza accensioni. In esso gli
amuleti e una salvifica presenza
femminile prendono il posto di pomari, ulivi e girasoli. Gli oggetti,
analogamente a quanto accade nella pittura metafisica e nel realismo magico,
acquistano, straniati dal loro contesto naturale, una realtà diversa da quella loro consueta.
e) La bufera - La bufera fissa
con sguardo attonito e amaro il senso di un'immobilità fattasi rovina. Eppure,
anche nel momento in cui
la lotta dei viventi
più infuria,
balugina un lume di "decenza quotidiana (la più difficile delle
virtù)", e il libro si conclude con l'indizio di un nuovo inizio, di vita
che risorge e ricomincia. Ma nulla di consolatorio è in questa attesa; essa
appare piuttosto un ostinato rifiuto ad arrendersi, il consapevole tentativo di
opporsi a uno scetticismo ineluttabile che, a poco a poco, diventa estrosa
facezia, gioco amaro.
f) I temi della poesia montaliana - Fra le tre
maggiori raccolte poetiche montaliane, Ossi di seppia, Le occasioni, La
bufera, non vi è distinzione di temi così netta come, ad esempio, tra le raccolte
di Ungaretti. Ritorna in esse, infatti, sia pure con approfondimenti e con
diversificate angolazioni, la medesima visione della vita. Indichiamo perciò
complessivamente i temi di tali raccolte, aggiungendo che i componimenti della
seconda e della terza raccolta sono di tecnica più ardua ed ermetica, e perciò
di più difficile comprensione e interpretazione.
g) «Il male di
vivere» -
Questa espressione, che costituisce il titolo di una lirica degli Ossi di
seppia, vuoi significare che, per Montale, l’essenza della vita è il male,
cui non sfuggono né le cose animate, né quelle che consideriamo inanimate:
l’uomo, il «cavallo stramazzato», il ruscello senza sbocco, la foglia bruciata
dall’arsura.
Il «male di
vivere» peraltro non sempre coincide con la forza distruttrice che si abbatte
sulle esistenze. A volte esso si identifica con l’oppressione che grava
sull’uomo, il quale si sente chiuso nella sua vita da una specie di
invalicabile muraglia e non riesce a capire il senso della forza che
l’imprigiona.
h) «La divina
indifferenza» -
L’unica salvezza di fronte al «male di vivere» sta nel resistere all’angoscia,
nel guardare al proprio destino con lucido coraggio. Questo stato d’animo,
sempre nella lirica ricordata, il male di vivere, è definito da
Montale «la divina indifferenza», cioè il dignitoso distacco, considerato
«divino» perché consente all’uomo, che pure conosce la negatività della vita,
la forza quasi sovrumana di accettarla.
i) «Il fantasma
che ti salva» -
Il pessimismo montaliano è percorso comunque da una ricorrente speranza
positiva: che possa esserci qualcosa, che possa avvenire un miracolo che
consenta all’uomo di capire il senso della sua esistenza. Tale speranza sì
concreta in alcune immagini: il «fantasma che ti salva» e che forse è possibile
incontrare al di là dell’erto muro della vita, solo che riusciamo a valicarlo;
la «maglia rotta nella rete / che ti stringe». È tuttavia una salvezza che il
poeta, in genere, non spera più per sé, ma invoca per altri più fortunati.
l) La Liguria
montaliana -
Nato a Genova, Montale è il cantore di una Liguria assolutamente
anticonvenzionale, non fastosa né vistosa: un paese asciutto ed aspro, fatto di
stradette che si spingono nell’entroterra, di muri a secco, di terreni
«bruciati dal salino». Pur suggestivamente evocato e descritto, tale paesaggio
non è per lo più fine a se stesso; ma è la proiezione dello stato d’animo del
poeta; ne esprime la sensibilità scontrosa e desolata, solo eccezionalmente
protesa verso la fiducia e la speranza.
m) Il linguaggio di Montale - La poesia
montaliana rifiuta il canto spiegato, l’abbandono sentimentale; o se lo
consente così avaramente che in questi casi esso assume un significato intenso
e particolare. Essa è tutta percorsa da sotterranee e complesse suggestioni
melodiche, ottenute sapientemente attraverso assonanze, rime interne, pause.
Anche il linguaggio è volutamente scabro («qualche storta sillaba e secca come
un ramo»), a volte oscuro per collegamenti, allusioni, analogie che non è
facile individuare e sciogliere: adeguato anch’esso alla intensa e amara
materia poetica.
n) L’ultimo Montale - L’ultima
copiosa produzione montaliana, costituita dalle raccolte Satura e Diario del
‘71 e ‘72, è caratterizzata da tono e linguaggio prosastici, del tutto
lontani da quelli delle raccolte precedenti: tono e linguaggio di «poesia
parlata».
I componimenti
più ricchi di emozioni poetiche, pur nella pacatezza del discorso, sono quelli
che vanno sotto il titolo di Xenia (e che fanno parte dei Satura): essi
ricordano la moglie morta, momenti e cose della loro vita in comune, che
allora apparivano insignificanti e che ora assumono intenso valore nel ricordo.
25.
Carlo Emilio Gadda
– Osservatore acuto e lucidamente critico della
società italiana, sperimentatore inesauribile delle potenzialità espressive del
linguaggio, Gadda risulta una figura affascinante e atipica della letteratura
del Novecento. I suoi capolavori restano l'esempio di una letteratura che ha
cercato di trascrivere le sofferenze e i paradossi, ma anche le orribili
corruzioni della civiltà moderna.
a)
Vita
e opere - Carlo Emilio Gadda nacque a Milano nel
1893. Fatto prigioniero durante la prima guerra mondiale e deportato, narrò
l'esperienza di quegli anni nel Giornale di guerra e di prigionia, pubblicato in parte
nel 1955 e integralmente nel 1965.
La
morte dell'amatissimo fratello Enrico negli ultimi giorni di guerra segnò
profondamente il suo animo e gli provocò uno stato di nevrosi che lo tormentò
per tutta la vita.
Esercitò
la professione di ingegnere elettrotecnico per qualche tempo in Italia e poi in
Argentina. Tornato a Milano nel 1924 iniziò a collaborare con il giornale L’Ambrosiano e scrisse il suo primo
romanzo, Racconto italiano di ignoto del Novecento (1924-26), pubblicato solo nel 1985.
Iniziò
in questi stessi anni la collaborazione con la rivista Solaria, sulla quale nel 1927 pubblicò il saggio Apologia manzoniana.
Serie
difficoltà economiche lo costrinsero a tornare alla professione d'ingegnere
(1925-1931) anche all'estero, ma Gadda si concentrò sempre più sull'attività
letteraria: scrisse il saggio filosofico Meditazione milanese (1928-29)
e il romanzo La meccanica, incompiuti e pubblicati postumi nel
1970, e pubblicò il suo primo libro La Madonna dei filosofi nel
1931, raccolta di racconti di contenuto psicologico, seguito nel 1934 da una
seconda raccolta, Il castello di Udine, incentrata sui ricordi di
guerra.
Nel
1936 ebbe origine il nucleo fondamentale del suo capolavoro, La cognizione del dolore,
un intenso romanzo (1938-41) pubblicato incompleto su "Letteratura"
ed edito nel 1963.
Nel
1940 si trasferì a Firenze ove rimase fino al 1950. Qui riunì i racconti
nell'opera L'Adalgisa. Disegni milanesi nel 1944 ed entrò in rapporto di
amicizia con numerosi scrittori, in particolare con Montale.
L'immediato
dopoguerra vide Gadda impegnato nella stesura di un altro capolavoro, Quer pasticciaccio brutto de
via Merulana, del quale pubblicò ampi tratti su
"Letteratura" nel 1946 (fu edito nel 1957).
Nel
1950 si stabilì a Roma, dove per quattro anni lavorò alla RAI. Alla produzione
di nuovi testi (Il primo libro delle favole, 1952 e Novelle del Ducato in fiamme, 1953) affiancò la continua, a volte
ossessiva rielaborazione di testi già scritti o editi, (I sogni e la folgore, 1955; i
saggi I viaggi
la morte, 1958 e Verso la Certosa, 1961).
Nel 1963 uscì una nuova raccolta I racconti. Accoppiamenti giudiziosi, in cui alcuni
dei suoi più riusciti testi brevi sono accanto a importanti inediti.
L'ultima
produzione di Gadda è di tipo saggistico, (I Luigi di Francia, 1964),
ma non sono privi del gusto della narrazione e di audace impasto linguistico Eros e Priapo nel
1967, implacabile indagine psicoanalitica della struttura retorica del regime
fascista e il divertente trattatello dialogico a tre voci Il guerriero, l'amazzone, lo
spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo (1967).
b) Quer pasticciaccio
brutto de via Merulana - Il romanzo si presenta come
un "giallo" incentrato su due crimini avvenuti in un palazzo di Roma:
il furto dei gioielli della signora Menegazzi e l'assassinio di Liliana
Balducci, una donna ricca, gentile e triste perché senza figli. Su entrambi
indaga il commissario Ciccio Ingravallo. Invece d'indirizzarsi verso la
scoperta dei colpevoli il testo di Gadda devia continuamente, accentuando le
complicazioni delle indagini, fornendo particolari forse non utili alla
scoperta della verità, individuando moventi possibili ma non provati. La trama
non giunge a una conclusione e proprio in questo modo emerge dalle pagine del Pasticciaccio il ritratto di una società in cui i
comportamenti dei singoli e della collettività sono privi di motivazioni reali,
risultano dettati da consuetudini, pregiudizi, calcoli meschini e spesso miopi
e ottusi. Anche il regime politico, il fascismo della fine degli anni '20, alla
ricerca di una legittimazione perbenista e moralistica, contribuisce a creare
un clima in cui dominano l'ipocrisia e la corruzione del senso etico del dovere
e dello Stato.