Verso una nuova civiltà: la nuova società
urbana.
1. Il Basso Medioevo (secoli XI - XV) – Il secolo XI mostra una svolta nella storia
d’Europa: ha inizio in quell’epoca un progresso che – a differenza dei parziali
e temporanei tentativi di rinascita per opera di Giustiniano e di Carlo Magno,
tentativi cui seguirono nuovi periodi di declino – durò quasi
ininterrottamente fino ai tempi moderni.
Nell’Alto Medioevo si possono distinguere
nell’Europa cinque aree culturali:
·
bizantina
·
musulmana
·
scandinava
·
slava
·
europea.
Mentre il centro dell’iniziativa politica e
di propulsione della cultura europea dall’VIII all’XI secolo risiedeva nel
regno dei Franchi e nella Germania occidentale, dopo l’XI secolo, la nuova
cultura si esprime attraverso più centri e, diversamente da quella feudale,
abbastanza omogenea, si differenzia notevolmente.
Dall’XI secolo inizia il basso Medioevo in cui si manifestano tanti segni di cambiamento
radicale nella società, nell’economia, nella cultura, nel modo di vivere e di
pensare, che molti studiosi hanno adottato l’espressione autunno del
Medioevo, per indicare un lungo periodo che si presenta come il lento
tramonto dell’età medievale che si concluse molto dopo, con la nascita
dell’Europa moderna.
Per molti aspetti, infatti, il Medioevo non è
finito:
·
il sistema feudale, per quanto in crisi ed
in trasformazione, rimane alla base dell’organizzazione sociale, militare e
agricola;
·
la cultura delle masse rimane ancorata alla
visione cristiana del mondo;
·
molti valori ideali, morali, artistici che si
sono affermati nei secoli dopo la caduta dell’Impero romano restano costanti.
Altri fattori storici mostrano l’inizio di
un’epoca più dinamica, con mutamenti più rapidi:
·
la crisi delle concezioni universalistiche,
secondo le quali il Papato e l’Impero sono le due entità politiche e spirituali
in cui tutti i cristiani hanno la loro collocazione naturale.
·
lo sviluppo economico delle attività
produttive di carattere manifatturiero, dei commerci e dalla nascita di una
grande attività bancaria, sostituisce la chiusa economia medievale.
·
le città diventano i motori della crescita,
anche demografica, dell’Europa.
Nei primi tre secoli del secondo millennio, le
premesse culturali, lentamente elaborate nell’alto Medioevo, danno in ogni
campo i loro frutti. Ne deriva una grande civiltà, articolata e coerente nelle
sue varie manifestazioni, dalle forme politico-sociali a quelle dell’arte e del
pensiero.
Nel basso medioevo l’area culturale latina, la
cosiddetta Cristianità, si ampliò ulteriormente e sottrasse al
dominio musulmano la Sicilia, gran parte della penisola iberica e, per qualche
tempo, anche Gerusalemme e la Terrasanta e il centro di gravità di questo mondo
culturale è costituito dalla Francia, dalla Germania renana e dall’Inghilterra
meridionale. Ivi si trovano i centri di cultura più famosi, come Chartres,
Parigi, Orléans, Oxford, Colonia. Ivi, per oltre due secoli, si affermano i
pensatori prima che altrove e la nuova poesia in volgare.
Successivamente la nuova cultura si espresse
attraverso più centri e, diversamente da quella feudale, ancora abbastanza
omogenea, andò notevolmente differenziandosi soprattutto nel XIII e nel XIV
secolo si manifestarono tanti segni di cambiamento radicale nella società,
nell’economia, nella cultura, nel modo di vivere e di pensare, che molti
studiosi hanno adottato l’espressione autunno del Medioevo per
indicare il lungo periodo che, partendo proprio dal Duecento, si presenta come
il lento tramonto dell’età medievale che si concluderà molto dopo con la
nascita della società moderna in Europa.
Occorre segnalare la crisi definitiva delle
concezioni universalistiche, cioè di quelle idee secondo le quali il Papato e
l’Impero potevano e dovevano costituire le due entità politiche e spirituali al
cui interno avevano la loro posizione naturale tutti i cristiani.
Nel corso del Trecento il Papato dovette
rinunciare definitivamente ad esercitare un controllo sul potere politico che,
contemporaneamente, andava assumendo un carattere nuovo e moderno negli Stati
nazionali, retti da monarchie, che si formarono in Francia e Inghilterra.
Il nome di Impero sopravvisse, ma senza nessun carattere
universale, solo per indicare l’insieme di regni, di principati e di città
dell’area tedesca ed austriaca che riconoscevano il titolo di imperatore ad un
principe che era eletto.
L’altro fattore innovativo fu l’enorme
sviluppo delle attività produttive di carattere manifatturiero, dei commerci e
dalla nascita conseguente di una grande attività bancaria, segno che l’economia
medievale non era più un’economia chiusa, caratterizzata da uno scarso bisogno
di moneta e dalla sua limitata circolazione. Le città diventano i motori della
crescita, anche demografica, dell’Europa.
L’età compresa tra l’XI ed il XV secolo
rappresenta per l’Italia, più vistosamente nelle sue regioni
centrosettentrionali, uno dei momenti di maggior splendore, una delle sedi
privilegiate, dove si manifestarono più vigorosamente i cambiamenti economici e
sociali che portarono all’emergere di nuove istituzioni politiche, di nuove
forme di attività commerciale, di vita religiosa, di arte e letteratura: in
questo periodo la letteratura italiana nacque e fondò saldamente la propria
tradizione; questo processo ebbe un punto di svolta decisivo e del tutto
eccezionale con la comparsa di tre grandi autori, Dante, Petrarca e Boccaccio
che, con le loro opere, superarono molto le esperienze che li precedevano e
crearono modelli tanto forti che è possibile affermare che con loro nacque la tradizione
letteraria italiana con i caratteri che la distinguono dalle altre.
A metà del Trecento (1347-48) tutta l’Europa
fu sconvolta da un’epidemia di peste che falcidiò la popolazione,
fino a dimezzarla in alcune regioni: questo avvenimento spezzò in due il XIV
secolo, determinando una crisi, oltre che economica, anche morale, politica,
religiosa.
Il 1348, secondo moltissimi studiosi,
rappresentò tuttavia l’anno del concepimento dell’uomo dell’età moderna: fu la
peste a mettere in moto il cambiamento d’epoca che segnò la fine del Medioevo
ed aprì le porte al Rinascimento.
David
Herlihy ha dimostrato che,
dopo il 1348 non fu più possibile mantenere i modelli culturali del XIII
secolo: le gravissime perdite in vite umane causarono una ristrutturazione della
società che, a lungo termine, avrebbe avuto effetti positivi. Herlihy definisce
la peste l'ora degli uomini nuovi: il
crollo demografico rese possibile ad una percentuale significativa della
popolazione la disponibilità di terreni agricoli e di posti di lavoro
remunerativi, i terreni meno redditizi furono abbandonati, il che, in alcune
zone, comportò l'abbandono di interi villaggi, le corporazioni ammisero nuovi
membri, cui prima si negava l'iscrizione. I fitti agricoli crollarono, mentre
le retribuzioni nelle città aumentarono sensibilmente. Per questo un gran
numero di persone godette, dopo la peste, di un benessere che in precedenza era
irraggiungibile. L'aumento del costo della manodopera favorì un'accentuata
meccanizzazione del lavoro così il tardo Medioevo divenne un'epoca di notevoli
innovazioni tecniche. David Herlihy cita l'esempio della stampa e delle armi da
fuoco: fino a quando i compensi degli amanuensi erano rimasti bassi, la copia a
mano era una soluzione soddisfacente per la riproduzione delle opere. L'aumento
del costo del lavoro diede il via a una serie di esperimenti che sfociò
nell'invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg e la stessa
evoluzione della tecnica delle armi da fuoco sia da ricondurre alla carenza di
soldati.
La Chiesa,
cui moltissime vittime dell'epidemia avevano lasciato in eredità i loro beni,
uscì dalla peste nera più ricca, ma anche meno popolare di prima. Non era
riuscita a dare una risposta soddisfacente al perché Dio avesse messo alla
prova l'umanità in maniera tanto dura, né era riuscita ad essere vicina al
proprio gregge, quando questo ne aveva maggior bisogno. Il movimento dei
flagellanti aveva messo in discussione l'autorità della Chiesa. Anche dopo che
questo movimento tramontò, molti cercarono Dio in sette mistiche e in movimenti
di riforma, che alla fine distrussero l'unità spirituale dei cristiani.
Secondo alcuni storici della cultura, tra cui
in particolare Egon Friedell, la
peste nera causò la crisi delle concezioni medievali di uomo e di universo,
scuotendo le certezze della fede che avevano dominato fino ad allora, e vede un
rapporto causale diretto tra la catastrofe della peste nera e il Rinascimento.
La seconda parte del Trecento è un periodo in
cui l’Europa, dopo un momento di regresso stordita dal grave colpo subito,
cominciò a risollevarsi, ma le condizioni erano completamente cambiate che la
ripresa dello sviluppo determinò la rottura degli equilibri precedenti e il
baricentro economico e finanziario, fino allora localizzato nell’Italia centro-settentrionale,
cominciò a spostarsi lentamente verso i paesi del centro-nord dell’Europa.
La morte appare come fine naturale di una vita
tutta naturale: negli uomini di questa età c'è un'angoscia che il mondo
medioevale risolveva religiosamente, svalutando la vita corporea in vista
dell'aldilà, si svalutava anche la morte che diveniva un passaggio ad una vita
migliore. Per i moderni la morte è invece la fine di tutto.
Questo senso della morte così inteso si
ritrova nelle raffigurazioni pittoriche delle danze macabre.
Nelle danze macabre sono raffigurati gli scheletri, personificazione
della morte, mentre gli uomini sono solitamente abbigliati in modo da
rappresentare le diverse categorie della società dell'epoca, dai personaggi più
umili, come contadini e artigiani, ai più potenti, come l'imperatore, il papa,
principi e prelati. Il soggetto ha la funzione di memento mori e,
rispetto ai soggetti apocalittici più diffusi nell'alto medioevo, come le
rappresentazioni del giudizio universale, esprime una
visione più individualistica della morte e talvolta anche una certa ironia nei
confronti delle gerarchie sociali dell'epoca. È importante notare che con il
tempo la figura della Morte come agente della volontà divina scompaia,
lasciando iconograficamente soltanto i cadaveri, simboli del conturbante
richiamo dell'aldilà, laicizzando l'ideale della morte stessa. Questa parentesi
però durò poco: a breve, componimenti come La Danza macabra delle donne e La
Danza dei ciechi riconsegnano il tema della Danza Macabra al
moralismo ed alla sfera religioso-sacrale cristiana.
2. La crisi del sistema feudale e la
riorganizzazione politica dell’Europa – Gli Stati attuali derivano dal processo di
riorganizzazione dell’Europa che segue al disfacimento del regime feudale. Si tratta
di un’organizzazione molto instabile, con guerre frequenti al suo interno e
incapace di esprimere un’autorità unica ed un ordine generale.
La massima autorità è l’Imperatore. Il
territorio è suddiviso in feudi, ciascuno dei quali è assegnato ad un feudatario,
scelto dall’Imperatore. Feudatario ed Imperatore sono legati soltanto da un
vincolo personale di fedeltà e lealtà, ma un simile legame è insufficiente a
garantire l’unità di potere politico su un territorio tanto vasto. Ciò spiega
le frequenti guerre dell’Imperatore contro i feudatari ribelli, per
sottometterli alla sua autorità, dei feudatari contro l’Imperatore, per
acquistare indipendenza, e dei feudatari fra loro stessi, per sopraffarsi a
vicenda.
Inoltre, l’autorità imperiale è contestata dal
Papa, che anch’egli cercava di affermare la propria supremazia, nella secolare
vicenda della lotta per le investiture [[1]]. La posta in gioco è il potere di
scegliere i feudatari e quindi la loro dipendenza dall’Imperatore o dal Papa.
L’Europa si sgretolava così in tanti poteri
locali più o meno indipendenti che, nel corso di più secoli e procedendo dal
basso, danno un nuovo ordine all’Europa.
L’assenza di un’autorità politica capace di
garantire l’ordine permetteva le scorrerie di bande violente che rendevano
insicura la vita nelle campagne e nei centri urbani. Allora, un capobanda
imponeva con la forza il proprio dominio su un territorio, garantendo la
sicurezza e l’amministrazione della giustizia. In cambio, però, esigeva
obbedienza ed il pagamento di tributi. In questo modo, si affermava un piccolo
centro di potere, capace di garantire quell’ordine che il regime feudale non è
in grado di assicurare. Tante signorie, nel corso dei secoli dal XIII al XV,
nacquero così, da un capobanda che si imponeva in una città o in contado.
Affermata la sua autorità, il nuovo signore contrattava la sua fedeltà con
l’Imperatore, strappandogli l’investitura feudale, insieme a poteri e
privilegi. L’autorità dell’Imperatore è così umiliata, dovendo egli subire il
fatto compiuto.
La stessa cosa avvenne con altri poteri che si
venivano affermando localmente. Talora sono le città che si davano un proprio
governo libero, spesso dominato dalle corporazioni delle arti e dei mestieri o
dei mercanti, oppure sono i grandi monasteri che si arrogavano compiti da
feudatari.
L’Europa presentava così una miriade di
situazioni diverse, di signorie, di città, di monasteri, di corporazioni che
formalmente rispettavano l’Imperatore ma che, sostanzialmente, ne sono
indipendenti.
Nel sistema feudale mancavano i tre caratteri
propri dell’organizzazione statale (sovranità, impersonalità e giuridicità):
·
nessun potere sovrano
è in grado di imporsi ai numerosi poteri particolari;
·
i rapporti di potere
sono di tipo personale;
·
sebbene esistesse un
complicatissimo sistema di regole giuridiche che determinavano la posizione dei
feudatari rispetto all’Imperatore e agli abitanti dei feudi, contavano di più i
puri e semplici rapporti di forza.
Proprio da questa situazione comincia la
storia della formazione dello Stato moderno. L’ordinamento feudale fu
formalmente abolito nel 1648 con la pace di Westfalia, quando fu sancita la
fine dell’Impero e del Papato, come autorità politiche europee, e si riconobbe
l’autorità suprema dei diversi sovrani nelle loro terre. Ma questa data è solo
la presa d’atto di un processo in corso già da molto tempo.
La ripresa dell’agricoltura – La rinascita dopo il Mille – l’anno
del terrore per la temuta fine del mondo – prende l’avvio da una decisa ripresa
dell’agricoltura:
· ricerca di nuove terre da coltivare
strappandole alle selve e alle paludi;
· maggiore razionalità nelle colture, grazie
anche ad una maggior organicità ed efficienza dei grandi complessi fondiari,
soprattutto quelli dei monasteri e delle Chiese, ma anche quelli regi e quelli
dei grandi feudatari.
La grande contesa per la terra, scatenatasi tra
i signori secolari e tra questi e i vescovi e gli abati non contrasta questo
risveglio, anzi lo favorisce: la perdita di alcune proprietà spesso spingeva a
compensare guadagnando nuove terre alle colture.
La crescita demografica, che ne è a sua volta
favorita, contribuisce inoltre ad accelerare il fenomeno: si tratta sia di un
aumento assoluto di popolazione che crea nuovi insediamenti in terre già
incolte, sia di spostamenti o concentrazioni.
L’aumento della popolazione ed il migliore
tenore di vita nelle curtes signorili e nei monasteri
favorirono lo sviluppo della produzione di manufatti e la formazione di schiere
più numerose e diversificate di artigiani, cui spettava il compito di fornire
prodotti più raffinati e più funzionali alla vita dei castelli, delle abbazie e
dei vescovadi; artigiani alla cui opera è tra l’altro affidata la costruzione,
l’arredamento e l’abbellimento delle nuove dimore e delle chiese.
I mercanti - Uno dei segni del cambiamento economico-sociale è
l’emergere, a metà dell’XI secolo, di una nuova classe, i mercanti che
occuparono nella società un posto sempre più rilevante. Inizialmente sono
soprattutto negozianti girovaghi che vanno a rifornirsi della merce dov’è
abbondante, per portarla dove sapevano di trovarne l’acquirente.
Successivamente i mercanti preferiscono appoggiarsi alle fiere che si tenevano
periodicamente, quasi sempre in concomitanza con ricorrenze religiose presso
monasteri e città.
L’attività del mercante è molto remunerativa,
ma gravosa e rischiosa. Per questo i mercanti si univano in gruppi, viaggiavano
in carovane, mettevano in comune dei capitali. Si tratta dapprima di
associazioni temporanee, che successivamente danno luogo a istituzioni stabili:
nel Nord le gilde e le anse, in Italia le corporazioni.
La ripresa della città - Sotto lo stimolo della generale
ripresa economica e di quella degli scambi commerciali che si sono manifestate
nella società rurale alla fine del millennio rinasce la città grazie:
· ad una maggiore disponibilità di beni;
· ad una maggiore sicurezza e facilità di
trasporti e comunicazioni;
· ad una maggiore circolazione monetaria.
Il processo di fuga, che porta al disperdersi
della scarsa popolazione in isolati centri nelle campagne, nei pressi delle
abbazie e dei castelli, si inverte.
Le città che hanno ricostruito le mura per
far fronte alle razzie degli Ungari, diventano un ricercato luogo di rifugio. I
contadini che vi accorrevano vi trovavano inoltre anche la possibilità di
un’elevazione sociale ed economica: l’esercizio di un mestiere, oltre a
liberarli dalla servitù della gleba, permetteva loro di acquistare benessere e
ricchezze. Anche i nobili feudali, principalmente i minori, i valvassori,
lasciano i castelli per cercare nella città una forma di vita più confortevole,
una partecipazione più diretta alla vita politica, e, nell’associazione con i
propri consorti, una più forte capacità di resistenza alle richieste dei
vassalli maggiori.
La chiusa economia curtense, fondata quasi
esclusivamente sul baratto, cede il posto ad un’economia più varia e ricca,
caratterizzata dallo scambio mercantile, in base alla quale si produce non più
solo per consumare, ma per vendere, e dalla presenza del denaro. Tutto ciò si
ripercuote favorevolmente sulle città, che diventano sempre più popolose e più
ricche.
Diversamente dalla città romana occidentale,
la città medioevale, è un attivo centro di produzione e di
commercio e il suo governo è funzionale alle esigenze che ne derivano ed alle
quali sono subordinate quelle della campagna.
La ripresa economica riporta la città al
centro dell’iniziativa politica.
La società urbana - La rivoluzione economica, conseguente
ad una più consistente produzione di beni e ad un commercio sempre più esteso
ed articolato, mette in crisi l’ordinamento sociale preesistente, lo
sconvolge, per dar luogo ad una nuova composizione sociale.
La società cittadina è molto più articolata di
quella feudale:
· i nobili, riuniti in
consorterie;
· il popolo grasso, al di sotto
dei nobili, raccolti attorno al vescovo come suo consiglio, costituiva la ricca
borghesia, organizzato in arti maggiori che ben presto, sommergendo la vecchia
classe feudale, prese nelle sue mani il governo della città per realizzare una
politica espansionistica che garantisca la sicurezza delle vie commerciali. I
nobili e il popolo grasso sono designati, nel loro insieme, come i magnati;
· il popolo minuto degli
artigiani e dei bottegai, riunito nelle arti minori che raramente partecipa
alla vita politica della città;
· i nullatenenti, i salariati che
restano sempre esclusi da ogni attività politica.
Una nuova istituzione politica: il Comune - I cittadini, divenuti più numerosi,
più ricchi, più istruiti, non accettano più di essere soggetti al
vescovo-conte o al feudatario nel cui territorio la città sorge: vogliono
prendere il governo nelle loro mani.
Per difendere gli interessi comuni contro le
pretese del vescovo o del feudatario, si riuniscono in una società giurata, il
Comune.
I modi in cui nasce e si sviluppa questa
istituzione politica, questa nuova forma di governo repubblicano della città,
sono quanto mai vari.
In generale, però, il Comune nasce quale
organizzazione privata, quale società giurata, ad opera di nobili minori – i
valvassori – che si raccolgono attorno al vescovo-conte, dapprima per coadiuvarlo
e successivamente per sostituirlo nel governo della città. È un’associazione
che si propone la difesa degli interessi comuni contro le pretese del signore
feudale, ricorrendo, se necessario, anche alle armi.
Più tardi entrarono a far parte della società
anche i borghesi, a cominciare dai più influenti – commercianti, mercanti,
banchieri, notai, medici e speziali, ecc. – e l’istituzione si ampliò a poco a
poco, assumendosi la responsabilità degli interessi di tutta la città, in nome
anche di coloro che, di fatto, non partecipavano al governo.
Come uno Stato, il comune si arroga ed
esercita i diritti sovrani:
· fare guerra e pace;
· battere moneta;
· amministrare la giustizia;
· arruolare uomini;
· riscuotere imposte.
Sono diritti che spettavano all’Imperatore che
però è troppo lontano e troppo debole per impedirne l’usurpazione.
Le istituzioni comunali si presentarono
dapprima nelle città marinare, dove la vita economica rifiorì prima
che altrove: Venezia, Genova, Pisa, Amalfi; poi, dalla prima metà del secolo
XI, nelle città della Lombardia, del Veneto e della Toscana.
In Italia il Comune restò sempre
un’istituzione propria del settentrione e del centro. Nel Meridione, tranne
rare eccezioni, la forza del feudalesimo normanno prima e angioino poi non le
lasciò spazio per svilupparsi.
a) Le Corporazioni medioevali –
Col nome di Arti si indicarono nel Medioevo le Corporazioni
[[2]] degli
artigiani, dei mercanti e in genere di lavoratori raggruppati per categorie.
Sorte attorno alla metà del XII secolo
all’interno dei Comuni, le Corporazioni, sono associazioni che riuniscono le
varie categorie di artigiani o di borghesi in un solo corpo, dapprima come
espressione economica e giuridica di coloro che esercitano le arti e i
mestieri, successivamente come strumento politico per esprimere e tutelare i
loro interessi nel governo della città. I cittadini, infatti, partecipano alla
vita del Comune e alla sua direzione politica non individualmente, ma tramite
l’arte di cui sono membri.
Le Arti si davano costituzioni
o statuti[3] che
regolano:
· l’esercizio di un’arte o mestiere
· la produzione dei beni, i prezzi, le ore di
lavoro, i salari, la qualità dei prodotti,
· l’ascesa, all’interno della stessa arte, dai
livelli più bassi (apprendista, garzone) al più elevato (maestro),
· le norme sulle caratteristiche del prodotto
e ne fissano il prezzo.
Esse hanno propri magistrati, che facevano da
arbitri nelle controversie fra i soci e talvolta rappresentano l’Arte nel
governo cittadino.
Quasi sempre le norme delle costituzioni hanno
finalità di difesa degli interessi di tutta la Corporazione costituiti a danno
di quelli emergenti, e mirano ad ostacolare la concorrenza, creando situazioni
di monopolio [[4]].
Chiunque voglia esercitare un mestiere deve
registrarsi alla relativa Corporazione, prima come apprendista per imparare il
mestiere; poi come socio del padrone dell’azienda; e infine come maestro,
ovvero padrone di un’azienda sua personale.
Solitamente le arti si distinguono in
· arti maggiori che
raccolgono la cosiddetta borghesia grassa: industriali, ricchi mercanti,
banchieri, giudici, notai, medici;
· arti minori costituite da
semplici artigiani.
In alcune città le arti maggiori hanno presto
parte e privilegi nel governo del Comune, ma in seguito acquistano influenza
anche le arti minori, che in alcuni casi, come a Milano alla fine del secolo
XII e a Firenze negli ultimi decenni del XIII, rimuovono dal potere le arti
maggiori.
Le corporazioni medioevali non sono un
fenomeno esclusivamente italiano: esse, infatti, si trovano, con nomi diversi
(ad esempio gilde, anse) in tutti i Paesi europei che
hanno raggiunto un alto sviluppo economico.
b) Le magistrature comunali -
Il Comune dà luogo ad una sua struttura politica che, pur diversificandosi nei
particolari da città a città, può essere così schematizzata:
· il potere esecutivo è nelle
mani dei consoli – che variano di numero a seconda della
città – cui compete il fare pace o guerra e lo stipulare alleanze e trattati;
· il potere legislativo tocca
ai consigli, costituiti dai cittadini più autorevoli, e, di solito
sono due, il consiglio maggiore o generale per gli affari
generali e il consiglio minore o di credenza per gli affari
riservati;
· il parlamento o arengo, l’assemblea
generale di tutti i cittadini, ha il compito di eleggere i magistrati,
tra cui i consoli e i consiglieri, e di ratificare le decisioni dei consoli.
Questa struttura originaria si evolve nel
senso di ridurre l’importanza dell’assemblea dei cittadini che finisce con lo
sparire, lasciando le sue competenze al consiglio maggiore, e di aumentare il
numero dei consigli e, in ogni consiglio, dei consiglieri.
La vita dei Comuni è travagliata da perenni
lotte interne tra nobili, popolo grasso e popolo minuto, e anche da lotte tra
le famiglie più potenti strette in consorterie tra loro
nemiche che si appoggiano all’una o all’altra classe. Per mettere fine a queste
lotte, ai consoli si sostituisce un podestà, un cittadino chiamato
da altra città perché sia al di sopra delle fazioni. Più tardi gli si affianca
un capitano del popolo, col compito di tener testa ai nobili e di
tutelare gli interessi dei popolani, o, per essere più precisi, delle arti
maggiori che ne riuniscono la parte più ricca, il popolo grasso.
In alcuni casi, come a Firenze, esautorati
tanto il podestà che il capitano del popolo, il
governo è assunto direttamente dalle arti attraverso un collegio di
rappresentanti delle organizzazioni artigiane, i priori delle arti.
CLXXIII
Orlando sente che la morte lo invade,
Orlando sente che la morte lo invade,
dalla
testa sul cuore gli discende.
Sotto
un pino se ne va correndo,
sull’erba
verde s’è coricato prono,
sotto
di sé mette la spada e il corno.
Ha
rivolto il capo verso la pagana gente:
l’ha
fatto perché in verità desidera
che
Carlo dica a tutta la sua gente
che
da vincitore è morto il nobile conte.
Confessa
la sua colpa rapido e sovente,
per
i suoi peccati tende il guanto a Dio.
CLXXIV
Orlando sente che il suo tempo è finito.
Orlando sente che il suo tempo è finito.
Sta
sopra un poggio scosceso, verso Spagna;
con
una mano s’è battuto il petto:
“Dio!
Mea culpa, per la grazia tua,
dei
miei peccati, dei piccoli e dei grandi,
che
ho commesso dal giorno che son nato
fino
a questo giorno in cui sono abbattuto!”.
Il
guanto destro ha teso verso Dio.
Angeli
dal cielo sino a lui discendono.
CLXXV
Il conte Orlando è disteso sotto un pino,
Il conte Orlando è disteso sotto un pino,
verso
la Spagna ha rivolto il viso.
Di
molte cose comincia a ricordarsi,
di
tante terre che ha conquistato il prode,
della
dolce Francia, della sua stirpe,
di
Carlo Magno, suo re, che lo nutrì;
non
può frenare lacrime e sospiri.
Ma
non vuol dimenticar se stesso,
proclama
la sua colpa, chiede pietà a Dio:
“Padre
vero, che giammai smentisci,
tu
che resuscitasti Lazzaro da morte
e
Daniele salvasti dai leoni,
salva
l’anima mia da tutti i pericoli
per
i peccati che in vita mia commisi!”.
A
Dio ha offerto il guanto destro:
san
Gabriele con la sua mano l’ha preso.
Sopra
il braccio teneva il capo chino;
con
le mani giunte è andato alla sua fine.
Dio
gli manda l’angelo Cherubino
e
San Michele del pericolo del mare;
insieme
a loro venne san Gabriele:
portano
in paradiso l’anima del conte.
La risposta dell’Occidente all’Islam: le
Crociate - Lo sviluppo
economico ed in particolare commerciale delle città e, con esso, lo sviluppo
delle nuove istituzioni comunali, sono favoriti da un’importante impresa che
segna anche un’estrema occasione per il mondo feudale cavalleresco di
conquistare gloria, ricchezza e potere: le Crociate.
Esse sono una tra le più vistose
manifestazioni della ripresa del mondo cristiano, che è stato asserragliato in
ristretto territorio dall’avanzata araba e che ora, dopo averla bloccata – in
Oriente a Costantinopoli nel 718 ed in Francia a Poitiers nel 732 –
passava al contrattacco contro l’Islam, rappresentato dai Turchi
sostituitisi agli Arabi; e, nel contempo, favorirono esse stesse questa
ripresa, dando incremento ai commerci.
Ne traggono profitto, in particolare, le città
marinare italiane: Venezia, Genova, e, sia pure in misura minore, Amalfi, nel
frattempo inglobata nel Regno normanno e Pisa. Quando, infatti, i crociati
vittoriosi dei Turchi costituiscono in Terra Santa degli stati feudali, le
città marinare hanno l’opportunità di stabilirvi eccellenti basi commerciali.
Tutto ciò non deve far dimenticare che le
Crociate sono anche l’espressione di un vivo sentimento religioso che fanatizza
intere folle, spingendole ad affrontare fatiche immani e rischi. Col procedere
del tempo la componente religiosa va scemando e prevalgono gli interessi
commerciali e politici.
La più importante delle Crociate è
indubbiamente la prima (1096-1099). Essa è bandita da Papa Urbano II per
liberare il Santo Sepolcro, l’accesso al quale è divenuto difficile per i
pellegrini a causa dell’intolleranza dei Turchi che, nel 1076, si sono sostituiti
agli Arabi in Gerusalemme. Alla Crociata partecipano, sotto la guida di
Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, alcuni grandi feudatari ed uno
stuolo di feudatari minori. Sconfitti i Turchi in un seguito di battaglie in
Asia Minore, i crociati, nel 1099, liberano Gerusalemme, e fondano nei
territori conquistati una serie di stati feudali. La ripresa dei Turchi, che
riescono a strappare progressivamente i territori conquistati dai Cristiani,
giungendo a rioccupare Gerusalemme nel 1187, dà luogo alle successive Crociate.
Le crociate fallirono il loro scopo
originario, la liberazione dei Luoghi Santi dai
musulmani. Restano tuttavia un fenomeno storico della massima rilevanza non
solo religiosa, ma politica, economico-sociale, culturale.
Politicamente, impegnarono i musulmani
contenendone e ritardandone l’avanzata in Europa, e ciò permise lo sviluppo
degli Stati centro-occidentali. L’Impero bizantino, a sua volta, pur avendo
ostacolato, e non senza ragioni, le crociate, grazie ad esse poté sopravvivere
più a lungo, in quanto i Turchi erano il nemico comune suo e dei crociati.
Dal punto di vista sociale, le crociate
offrirono infinite occasioni di affermazione ad una feudalità, specialmente
minore, che in Occidente tendeva a esaurirsi in una vita angusta e rissosa,
senza prospettive di migliori posizioni materiali e spirituali: la cavalleria
trovò in Oriente il suo più severo e valido banco di prova. La borghesia,
infine, e con essa i ceti più modesti, vide aprirsi dalle armi dei crociati gli
orizzonti di un’attività commerciale e di un arricchimento senza precedenti,
che costituirono le basi della sua potenza politica. La borghesia delle
Repubbliche marinare italiane fu tra tutte la maggior beneficiaria delle
crociate: Pisani, Genovesi, Veneziani si assicurarono basi commerciali,
privilegi, monopoli e quartieri, logge e fondachi in tutto l’Oriente sempre
meno controllato da Bisanzio; fieramente rivali tra loro, si divisero in certo
modo le rispettive zone d’influenza, ma non esitarono mai a violarle, in vista
del predominio assoluto.
Ai rapporti militari e commerciali si
accompagnavano naturalmente i rapporti culturali in senso lato: con le merci
(soprattutto merci pregiate: spezie, seterie, metalli preziosi, gemme)
passarono dall’Oriente bizantino e musulmano all’Occidente anche codici di
classici greci e testi arabi, sia originali, sia derivati da antichi testi
greci che in Europa erano sconosciuti o erano andati perduti.
Anche nel campo religioso, gli incontri tra
fedi diverse contribuirono a un’apertura più larga e predisposero alla
reciproca comprensione e alla tolleranza. E pure rilevanti furono
l’allargamento delle conoscenze geografiche e l’ambizione di accrescerle, con
nuove e imprevedibili esperienze. Per questi motivi fondamentali, e per molti
altri ancora, le crociate, al di là delle intenzioni dei loro protagonisti,
furono portatrici di stimoli fecondi allo sviluppo della civiltà europea nel
suo complesso e costituiscono quindi una componente essenziale della sua
storia.
I Normanni nel Mezzogiorno – L’unificazione del Meridione, che è
politicamente diviso tra Bizantini – Calabria, Basilicata e Puglia – Longobardi
– ducato di Benevento, poi frazionato nei due principati di Benevento e Salerno
e nella contea di Capua – ed Arabi – Sicilia occupata dall’827 al 902, e
stanziamenti temporanei in Puglia –, è opera dei Normanni, che, chiamati come
truppe mercenarie nelle contese fra i vari stati, nel giro di cento anni
(1030-1130), dopo essersi costituito un proprio feudo, riescono ad unificare
l’Italia meridionale e la Sicilia, prima in due regni distinti, e infine, con
Ruggero II, in un unico regno detto Regno di Sicilia nel 1130.
Nel 1030 il capo normanno Rainolfo
Drengot ottenne dal duca di Napoli, per il quale aveva combattuto, la
signoria di Aversa, cui si aggiunse quella di Gaeta.
Roberto il Guiscardo, della famiglia degli Hauteville (Altavilla),
dopo un periodo di lotta con il Papato, culminato nella vittoria di Civitate
nel 1056, ne divenne il principale alleato, sostenendolo militarmente nella
lotta per le investiture contro l’Impero. Roberto il Guiscardo conquistò
Puglia, Calabria e Campania, mentre il fratello Ruggero, al termine di una
guerra durata dal 1061 al 1091, tolse la Sicilia agli emirati arabi di Palermo.
Fallì invece il suo tentativo di espansione verso l’Impero bizantino poiché,
sbarcato a Corfù e a Durazzo, fu costretto a tornare in Italia per domare una
rivolta scoppiata in Puglia e per salvare il papa Gregorio VII da Enrico IV nel
1084.
Nel 1130, ad opera di Ruggero II (1095-1154),
nipote del Guiscardo, fu costituito il Regno di Sicilia, che riuniva tutto il
Mezzogiorno nelle mani dei Normanni.
Ruggero II emanò una legislazione valida per tutto il territorio,
rispettando però anche le norme locali. Il Regno fu diviso in diverse
circoscrizioni (giustizierati), ognuna retta da due funzionari (un giustiziere
e un camerario) di nomina regia. I maggiori dignitari del Regno, con funzioni
di giurisdizione, si riunirono attorno al re nella Magna Curia,
primo nucleo di un’amministrazione centrale.
Alla morte del re Guglielmo II nel
1189, alla dinastia normanna subentrò quella sveva, quando l’Imperatore
Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa e padre di Federico II, sposò l’erede
dei Normanni, Costanza d’Altavilla (1146-1198).
I Comuni e l’Impero degli Staufen [[5]] –
Il risveglio delle città ed il costituirsi dei liberi Comuni è stato favorito
dalla debolezza dell’Impero di nazionalità germanica dopo la morte di Ottone
III nel 1002 ed è stato rafforzato dalla crisi in cui precipitò la Germania
che, fu lacerata da un’aspra contesa fra due opposte fazioni a sostegno di due
casate rivali.
Si chiamavano Ghibellini i fautori della Casa
di Svevia, essi si proclamavano difensori dell’onore dell’Impero perché
affermavano la superiorità dell’imperatore sul Papa, sostenuta dal Privilegium
Othonis. Si chiamavano Guelfi i sostenitori della Casa di
Baviera, fautori della libertà della Chiesa romana, e quindi favorevoli al
Concordato di Worms.
a) Federico Barbarossa -
Quando, nel 1152, è eletto re di Germania Federico I della casa di Svevia,
detto il Barbarossa, il suo programma di restaurazione dell’autorità imperiale
trova un ostacolo proprio nei Comuni italiani, gelosi delle autonomie conquistate.
Ristabilita la pace in Germania, Federico
decide di ripristinare l’autorità imperiale in Italia, infatti, le difficoltà
dell’Impero avevano consentito ai comuni italiani di sottrarsi, di fatto, al
controllo politico dell’Imperatore.
Nel 1154 scese in Italia per farsi incoronare
imperatore e convocò la Dieta di Roncaglia per condannare la
rivendicazione di sovranità dei comuni. È naturale che i Comuni trovino
appoggio nel Papato, che vede nell’Impero l’antagonista di cui deve contenere
la potenza per mantenere la propria supremazia. Nel 1158 Federico scende una
seconda volta e distrugge Crema e Milano che si erano ribellate. Con la
distruzione di Milano, dopo un duro assedio nel 1162, i Comuni lombardi si
coalizzano a Pontida nel 1167 nella Lega Lombarda, insieme
di 36 città che nellabattaglia di Legnano del 1176 sconfiggono il
Barbarossa. Con la pace di Costanza nel 1183 tra l’Imperatore
da una parte ed il Papa ed i Comuni della lega lombarda dall’altra, sono i
momenti cruciali di questa vicenda: i Comuni videro riconosciuta la loro
sovranità.
b) Federico II – La lotta tra
Papato e Comuni da una parte, ed Impero dall’altra, si ripresenta con Federico
II, nipote del Barbarossa. È l’ultimo tentativo di restaurazione imperiale: i
Comuni, costituitisi in una nuova Lega lombarda, sono dapprima battuti
nel 1237 a Cortenuova, poi sconfissero a loro volta le truppe imperiali
a Parma nel 1248 e a Fossalta nel 1249, dove è catturato lo
stesso figlio di Federico, Enzo.
L’imperatore non rinunciò a preparare la
propria rivincita, ma morì improvvisamente proprio mentre stava riunendo un
grande esercito in Puglia nel 1250.
c) Guelfi e ghibellini – Alle
lotte tra i Comuni e l’Impero si intrecciano, a creare uno stato quasi
permanente di guerra, le lotte per assicurarsi le vie di traffico e il
monopolio dei mercati. A queste lotte esterne si accompagnarono, a rendere più
inquieta e turbolenta la vita cittadina, le contese interne tra opposte
fazioni, rappresentanti di interessi diversi: nobili e cives (=
mercanti, borghesi), magnati e arti minori, ceti privilegiati e popolani
esclusi dal governo.
La lotta tra Papato e Impero fornisce alle
parti avverse la possibilità di scegliersi un alleato tra i due grandi
contendenti per prevalere sugli avversari. Questo è l’effettivo significato
della contrapposizione tra guelfi(sostenitori del Papa) e ghibellini (sostenitori
dell’Impero) che caratterizza le lotte del XIII e XIV secolo.
La scomparsa di Federico II non riportò la
pace, in quanto la lunga lotta tra impero e Comuni aveva esasperato i
contrasti tra le città e tra le opposte fazioni dei guelfi e
dei ghibellini, che continuarono a combattersi, cercando l’appoggio ora
del papato, ora dell’impero.
d) La crisi dell’Impero – I
tempi sono cambiati: quando, 60 anni dopo la morte di Federico II, Dante
auspica la restaurazione dell’Impero ad opera di Enrico VII, «il grande
Arrigo», esso in realtà è finito per sempre: l’unità politica europea su cui si
fondava la pretesa di universalità dell’Impero cede il posto ad una pluralità
di forti Stati nazionali, che vanno costituendosi sotto la guida di monarchie
assolute come Francia, Spagna e Inghilterra.
Il fallimento dell’impresa di Enrico VII,
sceso in Italia nel 1308 per porre pace e restaurarvi l’autorità imperiale e la
sua morte nel 1313, sono l’espressione concreta del definitivo declino di
questa istituzione medioevale, che tuttavia durerà, almeno formalmente, fino al
1806.
La teocrazia di Innocenzo III – Nella lotta con l’Impero, il Papato ha
rafforzato la sua posizione politica: lo Stato della Chiesa, che ha avuto le
sue modeste origini dalla donazione di Liutprando, è divenuto un
vasto territorio che tagliava a metà la penisola, estendendosi dall’Adriatico
al Tirreno.
a) Innocenzo III – Con
l’ascesa al soglio papale di Innocenzo III (1160-1216) riafferma il potere
papale, affermandosi come teorico della teocrazia pontificia, in linea con le
idee di Gregorio VII che voleva il papato al di
sopra di qualsiasi autorità politica esistente. Promosse la IV Crociata nel 1202, stimolò la
cristianizzazione nei Paesi baltici, favorì la riscossa degli Stati cristiani
della Spagna.
Condusse una politica di arbitrato della
Chiesa in Francia con Filippo II Augusto, in
Spagna, Portogallo, Polonia, Ungheria, Bulgaria, Svezia e Danimarca. In
Germania riconobbe imperatore Ottone di Brunswick, ma
in seguito lo scomunicò, dichiarandolo deposto dalla sua carica ed eleggendo al
suo posto il pupillo Federico, figlio del defunto
imperatore Enrico VI. Scomunicò anche Giovanni Senza Terra, re
d’Inghilterra, alleato di Ottone, ma in seguito lo investì del trono inglese
come di un feudo papale.
In campo religioso iniziò la riforma della
Curia romana, curò la formazione dei vescovi e ne rafforzò l’autorità, promosse
la riforma dei monasteri, favorì il sorgere di nuovi ordini dediti alla cura
dei poveri e dei malati e seguì con favorevole interesse il sorgere dell’ordine
domenicano e dell’ordine francescano, promulgò una vasta e importante
legislazione canonica. Fu anche autore dell’importante trattatello
mistico De contemptu mundi, dello scritto De sacro altaris
mysterio e di numerosi Sermones.
b) Le nuove eresie medievali –
Al rafforzamento politico del Papato si accompagna un’azione decisa contro le
eresie che possono minare l’unità del mondo cattolico. Innocenzo III si
mostra inflessibile verso i movimenti ereticali, lottò in Francia contro
i valdesi, i catari, gli albigesi (1208) contro i quali bandì una crudele
crociata.
Gli Albigesi, diffusi in
Provenza, che sono oggetto di una vera e propria Crociata che porta, fra il
1209 ed il 1229, distruzione e morte in quel fiorente paese. Lo stesso
Innocenzo III si avvale, per combattere gli eretici, dell’Inquisizione,
un tribunale ecclesiastico che, per la crudeltà dei mezzi adottati, è rimasto
tristemente famoso.
Nel 1215 convocò a Roma il IV Concilio
Lateranense (XII Ecumenico), che condannò il catarismo e precisò la dottrina
dei sacramenti.
c) I nuovi ordini religiosi –
Con altri mezzi, più consoni allo spirito religioso, cercano di reagire alle
eresie e contribuiscono al rafforzamento della fede i fondatori di due ordini
religiosi, San Francesco d’Assisi (1182-1226) e San
Domenico di Guzmàn in Spagna (1170-1222), che, con la predicazione e
l’esempio di una vita cristiana improntata all’amore per il prossimo, cercano
di fronteggiare la violenza che insanguinava le città, travagliate da continue
guerre e da lotte intestine.
d) I domenicani – L’ordine di
frati predicatori (Ordo Praedicatorum) fu fondato da San Domenico nel 1206. I domenicani si posero fin
dall’inizio come compiti principali quelli della predicazione e dello studio;
la loro attività culturale e d’insegnamento è stata ed è accuratamente
organizzata e di notevole livello. Approvato da papa Onorio III nel 1216, l’ordine prese forma definita in
due Capitoli Generali (supremo organo legislativo dell’ordine) tenutisi a
Bologna nel 1220 e 1221; rapidamente le comunità domenicane si moltiplicarono
in tutta Europa, estendendosi presto anche all’Asia. Durante il Medioevo
l’ordine, organizzatosi presso la maggioranza delle università,
fornì molti fra i maggiori pensatori europei; l’adattamento delle dottrine
di Aristotele alla filosofia cristiana fu compito
svolto in misura notevole dai domenicani, e particolarmente da Sant’Alberto Magno e San Tommaso d’Aquino. Il papato affidò ai domenicani
compiti di grande rilievo, come la predicazione delle Crociate, la riscossione dei tributi, il compimento di
missioni diplomatiche; generalmente erano membri dell’ordine a formare i
tribunali della Inquisizione.
e) I francescani – Ordine
religioso mendicante (Ordo fratrum minorum, abbreviazione O.F.M.), fu
fondato nel 1209 da Francesco d’Assisi che dettò per
esso una breve regola, approvata verbalmente nel 1210 da papa Innocenzo III e ufficialmente da Onorio III nel 1223. A questo primo ordine si
affiancarono contemporaneamente il secondo ordine femminile delle clarisse e il terzo ordine dei laici, o terziari francescani. Il fondamento ideale dell’ordine
era costituito dalla vocazione a una vita di povertà evangelica e di
predicazione, secondo il modello di Gesù e degli apostoli: non solo ogni
singolo membro dell’Ordine dei Frati Minori Francescani doveva essere povero,
ma, a differenza dei più antichi ordini monastici, l’ordine stesso nel suo
complesso doveva rinunciare a ogni possesso. Una stabile organizzazione venne
elaborata secondo un rigido schema gerarchico: un generale (minister
generalis, eletto ogni 12 anni) alla guida dell’ordine; alle sue dipendenze
i provinciali (ministri provinciales, sovrintendenti alle province) e
sotto di questi i custodi (sovrintendenti alle custodie, in cui si ripartirono
le province) e i guardiani (superiori dei conventi). Resa stabile da una tale
saldezza organizzativa, la diffusione dei francescani fu molto rapida in ogni
parte d’Europa: nel 1217 già erano presenti in Francia e dal 1221 in Germania,
mentre, con l’avvento dell’età moderna, presero parte in misura assai rilevante
alle missioni cattoliche. Tipico della diffusione dell’Ordine dei Frati Minori
Francescani fu, a differenza dei precedenti ordini monastici, l’insediamento
prevalentemente urbano. Altro fenomeno importante fu la presenza francescana
nel mondo della cultura medievale, in specie nelle maggiori università europee,
come quelle di Parigi e di Oxford: tra il sec. XIII ed il XIV si svilupparono
scuole teologiche francescane cui spetta un posto di grandissimo rilievo nella
storia della filosofia scolastica, e che ebbero quali esponenti del proprio
pensiero filosofi come, Bonaventura di Bagnoregio, Ruggero Bacone, Giovanni Duns Scoto, Guglielmo di Occam.
Il declino del Papato - Dopo la morte di Federico II nel 1250,
il Papa, favorendo il fratello del re di Francia, Carlo d’Angiò, nella
conquista del regno di Sicilia nel 1266, regno che comprendeva anche l’Italia
meridionale, sventa il rinnovarsi del pericolo che ha rappresentato per lo
Stato pontificio l’unione della corona imperiale e di quella di Sicilia nella
persona di Federico II.
Nonostante questo successo politico, anche il
Papato, come già l’Impero, vede declinare la supremazia che sembrava aver
conseguito ai tempi di Gregorio VII (1073-1085) ed Innocenzo III (1198-1216).
Inutilmente Bonifacio VIII Caetani (1294-1303) riafferma la supremazia del
pontefice nella Bolla Unam Sanctam.
La stessa ragione che ha portato al declino
dell’Impero segna quello del Papato: il costituirsi di nuove forze politiche,
le monarchie nazionali, alle quali le due istituzioni che hanno dominato la
scena nel Medioevo non sono più in grado di tener testa.
a) Bonifacio VIII – Bonifacio
VIII fu un intransigente sostenitore del primato spirituale e temporale dei
papi alle soglie di un periodo che avrebbe segnato al contrario la decadenza
della Chiesa medievale. Alle aspirazioni di rinnovamento religioso delle
correnti escatologico-spiritualistiche oppose dapprima una politica di
repressione e quindi di integrazione. In Italia sostenne la propria supremazia
con diverse intromissioni nei conflitti che agitavano Stati e città della
penisola, interventi destinati comunque al fallimento o ad effimeri successi.
Lo scacco della politica di Bonifacio VIII
apparve evidente e definitivo sulla scena internazionale, in particolare nella
lotta che lo oppose a Filippo IV di Francia:
al divieto di tassare gli ecclesiastici imposto dal papa, Filippo rispose con un
rifiuto e, al rinnovato appello del papa all’obbedienza, il re francese oppose
la deliberazione degli Stati Generali per
la prima volta riuniti nel 1302 che negarono la supremazia pontificia
sulla monarchia. La bolla Unam sanctam del 1302
di Bonifacio VIII, dove è tra l’altro affermata la necessità della soggezione
al papa per l’ottenimento della salvezza, fu l’ultimo, vano tentativo di
ristabilire l’assoluta supremazia temporale del papato: nel 1303 Guglielmo di Nogaret, inviato di Filippo, arrestò di Bonifacio
VIII ad Anagni e, per quanto una sollevazione popolare ottenesse l’immediata
liberazione del papa, che un mese dopo moriva, questo episodio segnò
l’effettiva sconfitta delle pretese di Bonifacio VIII e, con esse,
dell’ideologia teocratica medievale ormai
superata dall’affermarsi della nuova realtà degli Stati nazionali.
b) La Cattività avignonese –
La subordinazione del pontefice al re di Francia e il trasporto della sede
pontificia da Roma ad Avignone con Clemente V de Got nel 1305, per
sottrarla ai disordini che travagliavano la città, sono l’espressione più
vistosa di questo declino.
La Cattività avignonese dura fino al 1377. I
sette papi di questo lasso di tempo furono tutti francesi. Nel 1367, Urbano V
riportò la sede papale a Roma, ma solo per un breve lasso di tempo. Tre anni
dopo si era di nuovo ad Avignone. Fu eletto Gregorio XI. Gregorio fu l’ultimo
papa francese e avignonese: con lui il 17 gennaio del 1377 la sede papale tornò
stabilmente a Roma.
c) Il Grande scisma d’occidente –
Alla morte di Gregorio, ebbe luogo il Grande scisma d’occidente: mentre in
Francia il papa era Clemente VII, a Roma c’era Urbano VI. Nei successivi
concili, il problema non fu risolto; e anzi, dopo quello del 1409 di Pisa, i
papi diventarono addirittura tre. Solo al termine del concilio di Costanza
(1414-1418) in cui furono ritenuti non validi i tre papi esistenti, e durante
il quale sarà eletto Martino V nel 1417 si avrà un papa solo per tutta la
cristianità, e non più due o tre.
Il Mezzogiorno angioino – L’instaurarsi della dinastia angioina
nel Sud segna sulla distanza il declino del Mezzogiorno, che, sotto gli Arabi,
i Normanni e gli Svevi, ha conosciuto momenti di grande floridezza e splendore.
Palermo, che Federico II ha scelto come sede
della sua corte, è, come già sotto la dominazione araba, una delle città più
ricche e colte d’Europa.
Nel 1250 muore Federico II lasciando erede
dell’impero, del Regno di Sicilia e di Gerusalemme il figlio Corrado IV;
vicario in Sicilia e in Italia il figlio naturale Manfredi. Essendo Corrado IV
impegnato in Germania nel tentativo di farsi riconoscere imperatore, Manfredi
amministrò l’Italia in modo autonomo ed alla morte di Corrado IV nel 1254 e
alla notizia falsa, della morte dell’erede al trono Corradino, si fece
proclamare re di Sicilia nel 1258).
Il 26 febbraio 1266 Manfredi fu sconfitto a
Benevento da Carlo d’Angiò che, s’impadronì di tutto il Mezzogiorno e vi
insediò feudatari francesi. Incoronato re di Napoli Carlo d’Angiò spostò la
capitale da Palermo a Napoli la vecchia capitale sarebbe stata per lui troppo
decentrata.
Carlo d’Angiò sempre
assillato dal bisogno di danaro fu costretto ad imporre imposte e balzelli.
Essendo esenti dalle nuove imposte nobili, provenzali ed ecclesiastici, il peso
di questo regime fiscale finiva col cadere quasi completamente sulle spalle del
ceto medio e del popolo generando malcontento e causando tumulti come la rivolta
dei Vespri siciliani del 1282 e la guerra ventennale che ne segue, la
Sicilia passa alla casa d’Aragona, restando l’Italia meridionale agli Angioini
con la pace di Caltabellotta del 1302.
A Carlo I successe Carlo II, e a questi il
figlio Roberto che fu chiamato “il più saggio tra i cristiani” e il
“pacificatore d’Italia”. Roberto, capo del partito guelfo ebbe interessi nel
campo letterario ed artistico che lo spinsero a contornarsi delle migliori
menti del suo tempo ed a chiamare a Napoli gli artisti più quotati, i letterati
e gli scienziati più famosi per lo Studio Generale.
L’egemonia in Italia della casa d’Angiò guidò
anche la politica del re Roberto d’Angiò (1309-1343) che si presentò come il
sostenitore delle forze nazionali contro le interferenze tedesche, come il
pacificatore della penisola, ottenendo il consenso di artisti, poeti e
studiosi. La corte di Napoli divenne sotto di lui, uomo sensibile e colto, un
fiorente centro di attività intellettuale. Vi si formò un’importante scuola
giuridica, vi operarono pittori come Giotto e Simone Martini, vi soggiornarono
poeti e scrittori come Petrarca e Boccaccio.
Questa fastosa apparenza tuttavia celava una
grave crisi interna. Il potere della corona era limitato dalle tendenze
anarchiche dei baroni, tendenze che Roberto d’Angiò si sforzò di contrastare
concedendo altre terre, detratte dal patrimonio demaniale, e altri privilegi,
con il risultato di diminuire le entrate e le prerogative della monarchia.
D’altronde questa non aveva la possibilità di
appoggiarsi sul ceto borghese, debole economicamente e compresso nei privilegi
della nobiltà e del clero. Nel regno di Napoli avveniva allora un processo
inverso a quello che era in atto negli stati europei: la corona anziché
combattere la nobiltà con l’aiuto della borghesia aveva scelto la via del
compromesso; in questo modo fra il XIV secolo e la fine del XV secolo la
feudalità ben lungi dall’essere un’articolazione periferica del potere statale,
come era al Nord, era una classe potente e ricca, che deteneva nelle proprie
mani la vita economica di paesi e villaggi.
Un altro motivo di crisi del Regno era
rappresentato dalla massiccia presenza nella sua vita economica di forestieri,
in particolare Fiorentini e Catalani, che si accaparrarono ogni tipo di posti e
di favori, facendo spesso prevalere interessi estranei a quelli locali.
Una rigida struttura feudale, importata dalla
Francia invece di creare condizioni adatte all’affermarsi di attività
mercantili e finanziarie e dello svilupparsi della borghesia, andava soffocando
e spegnendo quei centri e quelle correnti di attività commerciale e marinara
che dal tempo delle repubbliche marinare, fino in pratica all’insediamento
degli Angioini avevano assicurato al Mezzogiorno della penisola una notevole
prosperità economica. Questo processo di diffusione del feudalesimo sotto il
dominio angioino avveniva proprio nel periodo in cui le città dell’Italia
centrale e settentrionale erano le protagoniste del grande sviluppo commerciale
e finanziario realizzato dall’Europa centro-occidentale. Si creava così una
situazione di arretratezza della parte meridionale della penisola italiana
rispetto a quella centrale e settentrionale, una frattura fra questa e quella,
nello sviluppo economico e politico che si sarebbe sempre più definita ed
aggravata nei secoli successivi.
La crisi del Regno di Napoli si manifestò
pienamente alla morte di Roberto d’Angiò cui successe la nipote Giovanna. Fu
sotto il regno di Giovanna I (1343-1382) che lo stato napoletano apparve in
piena disgregazione in balìa di forze e sovrani stranieri, lacerato dai
contrasti e dall’anarchismo della feudalità. Per lunghi anni arse un’aspra
guerra tra Angioini e Durazzeschi. Nella guerra entrò a far parte ad un certo
momento Alfonso V d’Aragona, re di Aragona, Sardegna e Sicilia.
Le Signorie – Nella seconda metà del XIII secolo quasi
ovunque gli ordinamenti comunali si trasformarono in signorie, cioè l’effettivo
esercizio del potere passò nelle mani di un solo individuo (il dominus o signore)
che inizialmente fu il rappresentante delle forze borghesi che si erano
affermate vittoriosamente. Il passaggio al regime signorile si attuò
diversamente nelle varie realtà cittadine italiane ed in alcune non rappresentò
che un episodio saltuario.
Le Signorie fecero la loro comparsa dapprima
nell’Italia settentrionale, e precisamente nel Veneto e nella Lombardia, dove
più precoce e ricca era stata la fioritura dei Comuni.
a) Il sorgere delle Signorie – Le
lotte intestine tra fazioni opposte (nobili-popolani; guelfi-ghibellini), che
dilaniavano quasi ininterrottamente le città, portarono alla morte delle
istituzioni comunali e della libertà.
Il desiderio di ordine e di pace favorisce
l’ascesa di uno dei nobili appartenenti alle famiglie con maggior seguito, al
quale si affidò il governo, la Signoria, della città, dapprima per un tempo
determinato (di solito per un anno, a volte anche per cinque), poi a vita.
Si sostituiva così, ad una repubblica
corporativa, una dittatura personale, anche se in più casi continuavano a
sopravvivere formalmente intatte le magistrature comunali, che il signore
affidava ai suoi fedeli, ed il cui compito si riduceva alla ratifica dì quanto
egli ha già deciso.
b) La Signoria e lo Stato moderno – La
Signoria, se può essere considerata un’involuzione perché segna la scomparsa
della partecipazione dei cittadini al governo, rappresentò senz’altro un
progresso per più versi. La concentrazione dei poteri in mano di un solo pose
fine alle lotte intestine con vantaggio della prosperità economica. È
favorita, per la stessa ragione, la capacità espansionistica degli stati
cittadini più forti, che riescono così a costituire degli stati regionali in
grado di fronteggiare, almeno inizialmente, le monarchie nazionali che si vanno
formando fuori d’Italia. Infine, mentre nel Comune i cittadini godevano di una
diversa capacità politica secondo la classe o la corporazione di appartenenza,
di fronte al signore essi sono tutti eguali, benché tutti sudditi sprovvisti
di potere politico. Il signore è, in ultima analisi, un sovrano assoluto che
assomma nelle sue mani tutto il potere e la cui volontà è la fonte di tutte le
leggi.
In questo senso esso è la prima apparizione
in Europa dello stato moderno, cioè dello stato che non riconosce al di sopra
di sé nessun’altra volontà o condizionamento, a differenza dello stato feudale
in cui il sovrano è limitato dal potere superiore della Chiesa e dalle immunità
dei feudatari.
c) Milano – Dopo
la battaglia di Cortenuova a Milano si affermò Pagano della Torre,
feudatario appartenente a una famiglia da tempo residente nella città.
L’arcivescovo Ottone Visconti, che guidava l’opposizione nobiliare
ghibellina, sconfisse i Della Torre in battaglia nel 1277 e si fece proclamare
signore. Il nipote Matteo (1250-1322) estese i domini milanesi al Monferrato
aprendo nuove possibilità ai mercanti e agli artigiani e trasformando Milano in
una grande città manifatturiera e commerciale.
Il potere fu ripreso dai Della Torre nel 1302
e i Visconti lo riconquistarono stabilmente nel 1329 e primeggiarono nelle
figure dell’arcivescovo Giovanni (1290-1354) e di Gian Galeazzo (1347-1402).
Nella prima metà del XIV secolo cominciò l’espansionismo della Signoria
viscontea. Dopo la lotta contro Mastino della Scala, i Visconti ottennero
Brescia che si aggiunse ai domini su Como, Vercelli, Pavia, Lodi, Piacenza,
Cremona, Crema e Bergamo. Giovanni Visconti (1349-1354) si impadronì
di Parma, Alessandria, Tortona, Bologna e Genova. I suoi nipoti Galeazzo,
Bernabò e Matteo persero Genova e Bologna.
d) Firenze – Nel
XIII sec. Firenze era uno dei maggiori centri economici italiani ed europei i
cui mercanti esercitavano soprattutto il commercio della lana ma erano spesso
impegnati anche in attività bancarie (nel 1252 fu coniato il fiorino d’oro, che
si affermò come moneta per i mercati internazionali). In campo amministrativo
assunse importanza sempre maggiore la borghesia delle arti (vi erano 7 arti
maggiori, 5 medie e 9 minori). Nel 1282 si costituì il governo dei Priori
delle arti, formato da sei priori che affiancarono e poi sostituirono i
magistrati precedenti. Nel 1292 gli Ordinamenti di giustizia,
voluti da Giano della Bella, esclusero i magnati dal governo
riservando le magistrature e i consigli solo agli appartenenti alle arti minori
o mediane. In seguito fu concesso ai magnati di partecipare all’amministrazione
cittadina purché si iscrivessero a un’arte (fu il caso di Dante Alighieri che
si iscrisse all’arte dei medici e speziali).
Tra il XIII e il XIV sec. i regimi signorili
furono soltanto transitori.
Firenze fu percorsa da lotte intestine tra
famiglie rivali, ordinate negli schieramenti guelfo e ghibellino. Dopo
transitori periodi di regime signorile Firenze entrò in conflitto con lo Stato
Pontificio per non aver aderito alla Lega antiviscontea, conflitto che ebbe
ripercussione sulla vita civile, portando al cosiddetto tumulto dei
ciompi (dal nome dei cardatori di lana detti ciompi) nel 1378. I
ciompi (scardassatori e lavoratori dell’industria laniera) si sollevarono
contro la borghesia e nominarono un loro gonfaloniere, Michele di Lando.
La classe dirigente dovette costituire nuove arti (tintori, farsettai, ciompi)
ed ammettere al governo i loro rappresentanti. Indeboliti internamente dalla
defezione dei tintori e dei farsettai e abbandonati da Michele di Lando, i
ciompi furono estromessi dal potere che passò nelle mani di poche famiglie di
grandi commercianti e banchieri, come gli Albizzi e gli Strozzi, per passare
nella seconda metà del XV sec. in quelle della famiglia de’ Medici.
e) Venezia – Diversamente
che a Firenze, a Venezia le arti non ebbero mai funzione politica; inoltre non
era mai esistita nemmeno una nobiltà feudale che potesse contrastare i
mercanti. Il problema dei mercanti veneziani fu quello di limitare i poteri
del doge, il magistrato di origine bizantina, e nello stesso tempo
di impedire l’ascesa di nuove classi. Dopo aver creato organi che limitavano il
potere del doge ed eliminato l’assemblea popolare, nel 1297 (la cosiddetta “serrata
del Maggior Consiglio”) fu stabilito che potessero fare parte del Maggior
Consiglio (l’organo che dal 1172 eleggeva il doge e aveva funzioni legislative)
solo coloro che vi avevano fatto parte negli ultimi 4 anni o appartenessero a
famiglie i cui membri ne avessero fatto parte (l’aggregazione di nuove famiglie
fu permessa secondo rigide norme di procedura). Due tentativi di instaurare la
Signoria furono facilmente stroncati e si istituì il “Consiglio dei Dieci”,
col compito di prevenire ogni attentato all’oligarchia.
f) Altre Signorie – Nelle
altre città italiane alcune Signorie si formarono su base podestarile, altre
come vicariato imperiale, altre ancora per dedizione a un signore forestiero.
Le principali sorsero a Verona (Della Scala), a Padova (da Carrara), a Ferrara
(d’Este), a Mantova (Gonzaga), a Treviso (da Camino), a Ravenna (da Polenta), a
Urbino (da Montefeltro).
g) Le compagnie di ventura –
L’ascesa del signore, che di norma si appoggiava alle forze popolari per
contrastare e spazzare l’opposizione dei nobili suoi avversari, gelosi delle
proprie prerogative, è favorita dall’uso invalso di ricorrere a soldati
mercenari, le cosiddette compagnie di ventura, per combattere le continue
guerre, alle quali i cittadini cercavano di sottrarsi. Per svolgere
indisturbati le proprie attività produttive, per non correre i rischi del
combattimento e per sottrarsi alle fatiche e ai disagi della vita militare,
essi preferivano pagare un tributo, con il quale il Comune prima e il signore
poi assoldavano milizie mercenarie.
Queste, in mano al signore, costituiscono un
potente strumento per realizzare una politica indipendente dal consenso dei
cittadini e, per fronteggiare la loro eventuale opposizione e tenere a freno i
malcontenti.
Nei confronti delle compagnie di ventura, considerata
una delle piaghe del tempo, si levarono voci di politici e anche di poeti,
come Petrarca.
h) La polverizzazione politica della
penisola – In Piemonte non sorsero
Signorie di rilievo: è il campo di espansione dei Visconti, mentre si
protraevano forme feudali di governo grazie alla potenza dei Savoia che
hanno incominciato ad estendere i loro domini in Italia, e dei marchesi
di Saluzzo e del Monferrato.
Nelle città marinare le forme di governo
comunale si mantennero più a lungo.
Nell’Italia centrale, mentre Firenze si
manteneva a Comune sino a quando, nel 1434, Cosimo de’ Medici ne divenne di
fatto il signore, pur senza modificare l’ordinamento preesistente, si
costituiscono numerose piccole Signorie, quando la lontananza del pontefice,
rifugiatosi ad Avignone, favorisce il disgregarsi dello Stato pontificio.
È una situazione di vera e propria polverizzazione
politica cui si sottraeva soltanto il Meridione che manteneva ancora
una certa unità, anche dopo il distacco della Sicilia dal regno di Napoli.
Tale condizione di frazionamento è aggravata
dal fatto che anche le Signorie o le Repubbliche maggiori, come Milano e
Firenze, non presentavano un’unità territoriale, e spesso le città soggette
passavano da un signore all’altro nella ricerca di una migliore difesa dei loro
interessi o in connessione con il prevalere di una fazione politica al loro
interno. Ne conseguiva uno stato permanente di guerra, in cui i fronti e le
alleanze mutavano continuamente.
Le monarchie nazionali - Mentre in Italia si sviluppavano gli Stati
cittadini comunali che, evolvendosi in principati, davano luogo
a Stati regionali con la conseguente divisione politica della
penisola, in Francia, Spagna ed Inghilterra si
costruivano forti monarchie che crearono Stati nazionali unitari [6].
Ciò costituì un elemento di forza che consentì loro dì assumere quella
posizione di preminenza politica sino ad allora tenuta dagli Stati italiani.
In Francia l’unificazione
nazionale è opera della monarchia capetingia [[7]],
iniziata nel 987, ed è il risultato di un lungo processo di smantellamento
della grande feudalità francese. La lotta tra monarchia e feudatari è resa più
difficile dal fatto che il maggiore dei grandi feudatari è lo stesso re
d’Inghilterra, vassallo del re di Francia in quanto duca di Normandia. I
sovrani che maggiormente portarono avanti il processo di unificazione
sono Filippo II, che a Bouvines [[8]]
nel 1214 sconfisse il re d’Inghilterra Giovanni Senza Terra, e Luigi IX
il Santo. La Francia corse il pericolo maggiore quando, all’estinzione
del ramo primogenito dei Capetingi [[9]]
nel 1328, il re d’Inghilterra Edoardo VIII vantò diritti sul trono francese. Ne
segue la guerra dei Cento anni [[10]]
(1337-1453) che, dopo alterne vicende, in cui la monarchia francese si vede
sull’orlo della sconfitta nella battaglia di Azincourt, del 1415,
si concluse con l’integrale riscatto del territorio nazionale, ad eccezione di
Calais rimasta in mano agli Inglesi. Nel momento più grave della lotta è
risolutivo a risollevare gli animi dei francesi e le sorti della nazione
l’intervento diGiovanna d’Arco, una pastorella che, cinte le armi e
dicendosi chiamata da Dio, riuscì a battere gli Inglesi. Fatta da loro
prigioniera, è condannata e arsa come eretica.
Il processo di unificazione è portato avanti
poi da Luigi XI [[11]] (1461-1483)
e da Carlo VIII [[12]]
(1470-1498). Sotto quest’ultimo re, la Francia è lo Stato più forte dell’Europa
del tempo.
Lo Stato unitario spagnolo è
il risultato della lotta dei regni cristiani di Spagna contro i Mori, la
cosiddettaReconquista [[13]].
L’atto finale dell’unificazione è il matrimonio di Isabella, regina
di Castiglia, con Ferdinando II il Cattolico, re d’Aragona, che,
uniti, hanno ragione dell’ultima resistenza musulmana a Granada nel
1492.
Dall’unificazione della penisola iberica
restava escluso il regno del Portogallo.
Lo Stato unitario inglese ha
le sue origini nella conquista dell’Inghilterra ad opera di Guglielmo
il Conquistatore, duca di Normandia nel 1066. Si è già detto delle lotte
dei re d’Inghilterra contro i re di Francia di cui sono vassalli. La sconfitta
subita da Giovanni Senza Terra a Bouvines dà forza alla
nobiltà feudale inglese che riuscì a strappare al re un insieme di limitazioni
del potere regio fissate nel documento noto come Magna charta
libertatum del 1215. Questa concessione sarà il punto di partenza per
la conquista di quelle libertà che portarono successivamente alla costituzione
di un Parlamento diviso in Camera dei Lord, i rappresentanti della
nobiltà feudale, e Camera dei Comuni, i rappresentanti delle città.
È la prima apparizione, sia pure in forme
limitate, di una monarchia costituzionale, cioè dì una monarchia
in cui il potere del sovrano è condizionato da quello dei rappresentanti dei
sudditi.
La guerra delle Due Rose che
contrappose per ragioni di successione la casa di York alla casa
dei Lancaster con i rispettivi sostenitori, dissanguò la nobiltà
feudale e rese possibile una svolta assolutistica con la dinastia dei Tudor.
Il processo di liberalizzazione riprenderà soltanto nel secolo XVII.
L’Austria, sorta sulle rovine del Sacro
Romano Impero di nazionalità germanica cui si è cercato di porre fine
con la riforma dell’Impero [14],
è un altro Stato che, alla fine del Medioevo, acquistò un ruolo di primaria
importanza a fianco di Francia, Spagna ed Inghilterra. La sua comparsa nel
numero delle grandi potenze si ha con Massimiliano d’Asburgo [[15]], arciduca d’Austria e Imperatore del Sacro Romano Impero
(1493-1519).
L’invenzione della polvere da sparo e della
stampa – La vivacità della vita
intellettuale e l’ampliarsi degli orizzonti dell’uomo europeo in questo periodo
sono testimoniati anche da alcune invenzioni destinate ad avere una
straordinaria importanza nel futuro: l’invenzione della polvere da sparo e
quella della stampa.
L’invenzione della polvere da sparo è
dovuta a un monaco tedesco, Bertoldo Schwartz, e risale ai primi
anni del XIV secolo. In realtà la polvere, una miscela detonante di zolfo,
carbone e salnitro, è già nota ai Cinesi e agli Arabi, che l’usavano, i primi
per i fuochi d’artificio, i secondi per spaccare le rocce. L’invenzione
consistette nella costruzione di armi appositamente progettate per lanciare,
grazie alla forza dirompente di tale miscela, dei grossi proiettili a grande
distanza. L’efficacia di queste armi tardò a farsi sentire; ma quando, nel
secolo XVI, esse divennero più precise e sicure, portarono alla scomparsa della
cavalleria feudale pesantemente armata per lasciare posto a fanterie armate
d’archibugio e alla cavalleria leggera. Le innovazioni introdotte dalle armi da
fuoco favorirono le monarchie assolute nelle loro lotte contro la nobiltà
feudale, perché possono disporre dei maggiori mezzi finanziari richiesti dalla
costruzione delle artiglierie e dal mantenimento dei reparti che dovevano
usarle. Pertanto la scoperta delle armi da fuoco contribuì, alla lunga, ad
accelerare la decadenza politica del mondo feudale.
L’invenzione della stampa risale
al tedesco Giovanni Gutenberg che, verso il 1454, pubblicò a
Magonza dei volumi stampati per la prima volta con caratteri mobili.
Questo procedimento facilitava e rendeva più economica la stampa e permetteva
di sfruttare meglio, per la riproduzione in molteplici esemplari, la carta che
già dal secolo XII ha cominciato a fabbricarsi anche in Europa, portatavi dagli
Arabi che ne hanno appresa la tecnica dai Cinesi. La combinazione di queste
due invenzioni, la carta e la stampa a caratteri mobili, facilitò la diffusione
della cultura: i libri non sono più il privilegio dei conventi, degli
ecclesiastici e dei principi, ma poterono essere acquistati anche dalla
borghesia, rafforzando il processo già in atto della laicizzazione della cultura
e contribuendo alla circolazione delle idee.
Le scoperte geografiche - In questo periodo la conoscenza che
l’uomo europeo ha della Terra si amplia con eccezionale rapidità. Fino alla
fine del secolo XIII si può dire che per l’uomo europeo la terra abitata andava
dal lontano, nebuloso e quasi mitico Catai, la Cina, o dal Cipango,
il Giappone, di cui ha avuto notizia da alcuni missionari o mercanti (Giovanni
dal Pian del Carpine tra i primi, Marco Polo tra i secondi), allo stretto di
Gibilterra.
La stessa Africa, al di là delle coste
settentrionali, è sconosciuta. La spinta ad ampliare la conoscenza del mondo
non venne, come si poteva pensare e come l’episodio dell’Ulisse dantesco
suggeriva, da un desiderio di pura conoscenza, ma dall’esigenza dei mercanti
europei di trovare una via per l’Oriente (indicato genericamente col nome
di Indie) che non soggiacesse al monopolio degli Arabi, che
controllavano le grandi strade carovaniere attraverso l’Asia Minore.
I primi progetti in questo senso consistettero
nella ricerca di una via che circumnavigasse l’Africa. Su questa strada si
sono messi i genovesi fratelli Vivaldi che hanno oltrepassato
lo stretto di Gibilterra nel 1291 ed altri navigatori genovesi che, nel secolo
successivo, sono giunti sino alle Canarie e alle Azzorre. Però le iniziative
più organiche sono opera di Portoghesi, sotto lo stimolo del loro re Enrico
il Navigatore (1426-1460). Sullo slancio delle prime spedizioni in
questa direzione, Bartolomeo Diaz doppiò il Capo di
Buona Speranza nel 1486, e Vasco de Gama arrivò a
Calcutta nel 1498.
Però quest’ultimo successo parve allora
sminuito dal fatto che sei anni prima (12 ottobre 1492) Cristoforo
Colombo, al servizio dei re di Spagna, ritenne di essere pervenuto alle
Indie per una via totalmente diversa: la via d’Occidente. Convinto della sfericità
della Terra grazie agli studi di un geografo italiano, Paolo Toscanelli, egli
ha pensato che, veleggiando verso occidente attraverso l’Atlantico, sarebbe
giunto al Catai. E quando, dopo un viaggio di circa dieci settimane
arrivò all’isola di Guanahànì, nei Caraibi, egli ritenne di essere
giunto nell’arcipelago del Giappone; in realtà ha scoperto un nuovo
continente, come dimostrarono i viaggi successivi di Giovanni Caboto,
di Vasco Nunez de Balboa e di Amerigo Vespucci dal
quale il nuovo continente prese il nome di America (terra Americi, come
scrisse allora un cartografo tedesco sul suo atlante).
Già con questi ultimi viaggi, alla spinta
originaria (ricerca della via per le Indie) ne è subentrata un’altra: quella di
esplorare le nuove terre e di fondarvi colonie, cioè scali commerciali e punti
di raccolta delle materie prime. Presto seguirà il disegno di conquistare
vasti territori per assoggettarli alla madrepatria europea: nasceranno così i
grandi imperi coloniali.
Il desiderio di esplorazione guidò alcuni anni
più tardi (1519-22) Ferdinando Magellano in un viaggio di
circumnavigazione del globo. In poco più di 120 anni l’uomo europeo ha superato
le vietate colonne d’Ercole, e acquisito la conoscenza di quasi tutta
la Terra.
La scoperta dei nuovi continenti da parte
delle potenze europee – dapprima Spagna e Portogallo, poi Olanda, Inghilterra e
Francia – deve avere conseguenze di eccezionale portata nella storia
successiva.
L’europeizzazione del mondo, con la compressione
o addirittura la scomparsa delle altre civiltà, ne è una delle più vistose. Le
ricchezze che le potenze europee traggono dalle colonie consentirono loro di
rafforzare il dominio sulle popolazioni extraeuropee riducendole a quelle
condizioni di sudditanza e di subalternità che ancora ai nostri giorni non sono
state del tutto rimosse. Il processo di decolonizzazione è stato il primo
momento di tale rimozione.
Per l’Italia la scoperta di nuovi continenti
segna la fine della posizione di centralità di cui ha goduto fino ad allora.
La rottura dell’unità del mondo cristiano: la
Riforma - Frutto dello
spirito critico caratterizzante questo periodo è anche la Riforma
protestante, il vasto e profondo movimento religioso che staccò dalla
Chiesa di Roma le popolazioni germaniche e anglosassoni. Con ciò venne meno un
altro dei fondamentali caratteri del Medioevo: l’unità del mondo cristiano.
Il movimento di ribellione partì da un monaco
agostiniano tedesco, Martin Lutero (1483-1545), il quale
rivendicò al credente il diritto di interpretare le Sacre Scritture secondo
coscienza e non secondo i dettami della gerarchia ecclesiastica.
La predicazione di Martin Lutero potè avere
successo e portare al distacco di mezza Europa dalla Chiesa di
Roma perché ha l’appoggio dei principi tedeschi. Essi vi trovarono l’occasione
politica per contrapporsi all’Imperatore, nei cui confronti volevano affermare
la propria autonomia, e, nel contempo, un pretesto per incamerare i grandi beni
degli ordini religiosi che sono soppressi; e infine un modo per interrompere
il flusso di denaro che lasciava i loro Stati diretto a Roma, sotto forma di
decime e di acquisto di indulgenze.
Il popolo segue i principi e i riformatori
perché vede nella riforma l’affermazione della nazionalità germanica contro
quella latina, e perché sperava che il rinnovamento religioso comportasse un
rinnovamento sociale, con la costituzione di una società più giusta.
È questa la base della rivolta dei cavalieri
(lo strato più basso della classe nobiliare) e di quella dei contadini,
rivolte che sono entrambe duramente represse dai principi, con l’approvazione
di Lutero.
Al distacco della Germania da Roma per opera
di Lutero seguirono il distacco della Danimarca, quello della Svezia, della
Norvegia e dei Paesi Bassi, e, ad opera di Zwingli e di Calvino,
di buona parte della Svizzera, e infine dell’Inghilterra ad opera del suo re
Enrico VIII.
La riforma protestante riceve notevole impulso
dal francese Giovanni Calvino (Noyon, Piccardia 1509 - Ginevra
1564), che con l'Istituzione della religione cristiana del 1536
pose la base dottrinale del calvinismo, centrata sull'idea della
sovranità assoluta di Dio, il quale concede la grazia e la salvezza ai
prescelti al di là dei loro meriti e secondo criteri insondabili dall'uomo, la
cosiddetta dottrina della predestinazione; i prescelti si
riconoscono per la fede assoluta e fiduciosa in Dio e nella sua provvidenza e
per la severa integrità di vita.
A Ginevra, dove si trasferì, istituì una
teocrazia per garantire una rigorosa coerenza tra i principi religiosi e la
condotta morale, la cui osservanza doveva essere controllata da membri scelti
dalla comunità tra i fedeli di onesta condotta. La Chiesa è la comunità degli
eletti, che riuniva i predestinati di Dio alla salvezza e vi sono riconosciuti
quattro ministeri (i pastori, i dottori, gli anziani e
i diaconi), ai quali è affidato il governo della comunità
ecclesiale e civile.
È da rilevare che si staccarono dal
cattolicesimo proprio alcune nazioni, come l’Inghilterra e i Paesi Bassi, che,
per un concorrere di circostanze favorevoli, svolgeranno un ruolo di primo
piano nella storia moderna e in quella contemporanea, mentre alcune tra le
nazioni rimaste cattoliche, come ad esempio la Spagna e l’Italia, sono
destinate a conoscere nel futuro un periodo di declino.
Di particolare importanza sarà il fatto che la
colonizzazione inglese, che darà origine agli Stati Uniti d’America, avverrà ad
opera di riformati.
La fine della libertà italiana – Le Guerre d’Italia furono una
serie di otto conflitti, combattuti prevalentemente in Italia
dal 1494 al 1559, che avevano come obiettivo finale la
supremazia in Europa. Furono inizialmente avviate da alcuni sovrani
francesi, calati in Italia, per far valere i loro diritti ereditari
sul Regno di Napoli e poi sul Ducato di Milano. Da locali le
guerre divennero in breve tempo di scala europea, coinvolgendo oltre
alla Francia, soprattutto la Spagna e il Sacro Romano
Impero. Al termine delle guerre la Spagna si affermò come la principale potenza
continentale, ponendo gran parte della penisola italiana sotto la sua
dominazione diretta (Regno di Napoli, Ducato di Milano, Stato dei
Presidii) o indiretta; gli unici stati italiani che seppero mantenere una certa
autonomia furono la Repubblica di Venezia e il Ducato di
Savoia (legato alla Francia), mentre il Papato, pur autonomo,
risultava perlopiù legato alla Spagna dalla comune politica di far prevalere in
Europa la Controriforma cattolica.
a) La calata dei Francesi di Carlo
VIII – Nel 1492, con la morte di Lorenzo il Magnifico, venne meno il
delicato equilibrio politico che egli aveva saputo abilmente conservare tra
gli Stati italiani. Ludovico il Moro, resosi di fatto signore di Milano, cercò
fuori d’Italia un appoggio militare contro Ferrante d’Aragona, re di Napoli,
che minacciava di reintegrare con la forza nei suoi diritti Gian Galeazzo,
sposo di una sua nipote ed erede legittimo del ducato di Milano.
E precisamente a Carlo VIII di Francia si
rivolse Ludovico il Moro, poiché questo ambiziosissimo sovrano, come erede
degli Angiò, poteva vantare qualche pretesa sul regno di Napoli.
Assicuratosi, con ampie concessioni
territoriali, la neutralità di Spagna, Inghilterra e dell’impero germanico, nel
1494 Carlo VIII varcò le Alpi con un esercito forte di 30.000 uomini e
attraversò, senza alcuna opposizione, tutta la penisola: a Firenze addirittura
Piero II Medici consegnò al re straniero le chiavi della città. Giunto
nell’Italia meridionale, Carlo non trovò neppure qui alcuna resistenza e si
impadronì del regno di Napoli, mentre il re Ferrante II fuggiva.
Solo a questo punto gli
Stati italiani parvero rendersi conto del pericolo: si formò una lega alla
quale aderirono lo stesso Ludovico il Moro, il papa, Venezia, l’imperatore e il
re di Spagna. Il piano era di sbarrare la via alle milizie francesi,
impedendone il ritorno in patria: l’esercito della lega affrontò i Francesi
nel 1495, mentre stavano valicando l’Appennino, a Fornovo, sul
fiume Taro. In questa sanguinosa battaglia, la prima in cui si impiegarono
largamente
le artiglierie, Carlo VIII subì gravi perdite, ma riuscì ugualmente a
fuggire e
a raggiungere, con gran parte del suo esercito, attraverso le Alpi, la Francia.
b) Francesi e
Spagnoli si contendono l’Italia – L’iniziativa del sovrano francese era
dunque fallita. Ma per l’assoluta mancanza di un’organizzazione politica e statale unitaria del
nostro paese, l’impresa di Carlo VIII era
destinata a ripetersi.
Nel 1499, infatti, il suo
successore sul trono di Francia, Luigi XII (1498-1515), calò in Italia, questa volta avanzando pretese
sul ducato di Milano, dato che tra i suoi diretti antenati vi era una
principessa della casa dei Visconti.
Di fronte alle pretese
di Luigi XII e al suo esercito, Ludovico il Moro, abbandonato da tutti gli
altri Stati italiani preoccupati di non compromettersi con un rivale tanto forte, fu costretto alla
fuga.
Impadronitosi del ducato
di Milano, Luigi XII si accordò con il re di Spagna Ferdinando il Cattolico per la conquista e la
spartizione dell’Italia meridionale;
i due potenti eserciti stranieri dilagarono nei territori del regno di Napoli, che cadde interamente nelle loro mani. A
vittoria ottenuta, si accese però tra le due potenze, circa la
divisione dei territori, un conflitto che durò dal 1501 al 1503 e terminò con la vittoria degli Spagnoli, che si
assicurarono così il possesso di
tutto il regno di Napoli.
Agli inizi del
Cinquecento, due dei maggiori Stati italiani, il ducato di Milano a nord e il
regno di Napoli a sud della penisola, cadevano dunque sotto la dominazione straniera.
c) Francesco I
- Quando
Luigi XII morì, nel 1515, gli succedette sul trono di Francia il giovane Francesco I, il quale si mise subito in luce per il suo
coraggio e per le sue capacità militari.
Appena incoronato, egli
scese in Italia, dirigendosi rapidamente alla volta della Lombardia, dove
gli Svizzeri, cacciato Luigi XII, erano rimasti a difesa del ducato; a Marignano, in
un’accanita battaglia durata due giorni e due notti, gli Svizzeri furono
sconfitti e costretti a ritirarsi, ma sulla
via del ritorno si impadronirono di un lembo del ducato di Milano, e precisamente del territorio denominato Canton
Ticino, che da allora in poi fece
parte della Confederazione. Forte di questa vittoria, Francesco I strinse patti di pace con i suoi avversari: in
particolare, accogliendo una richiesta di papa Leone X dei Medici si
impegnò a non contrastare la signoria dei Medici che intanto era
stata restaurata a Firenze; con la Spagna, sua principale avversaria, Francesco I concluse nel 1516 il trattato
di Noyon, che confermava
il possesso della Lombardia ai Francesi e del regno di Napoli agli Spagnoli.
d) Carlo V – Per una felice
combinazione di eredità, intanto, si preparava un avvenimento che avrebbe cambiato il
volto dell’Europa e avrebbe infranto l’equilibrio che s’era venuto a creare tra
Francia e Spagna, confermato dal trattato di Noyon. Nel 1516 moriva
Ferdinando il Cattolico, lasciando la corona di Spagna, con gli sterminati possedimenti
americani ed i regni di Napoli, Sicilia e Sardegna, al nipote Carlo
d’Asburgo, che già aveva ricevuto dal padre Filippo il Bello i Paesi
Bassi, cioè il territorio attualmente diviso tra Belgio, Olanda e Lussemburgo, e la Franca
Contea.
Tre anni dopo, nel 1519,
per la morte dell’imperatore Massimiliano, suo nonno paterno, Carlo ereditava
anche le terre degli Asburgo e i
diritti alla corona imperiale, che cinse col nome di Carlo V.
La concentrazione di
domini così vasti nelle mani di Carlo V sconvolse l’equilibrio politico europeo e
allarmò le altre potenze: più di tutte la Francia, che trovatasi completamente circondata dai
possedimenti dell’imperatore, sentì minacciata la sua stessa sicurezza e
indipendenza.
L’unica possibilità che aveva la Francia di
rompere l’accerchiamento era la guerra:
essa si protrasse tra alterne vicende per quasi quarant’anni e all’inizio fu combattuta soprattutto in Italia.
e) La guerra fra
Francesco I e Carlo V – Le ostilità furono aperte nel 1521 da
Francesco I, ma Carlo V, respinti gli attacchi dell’avversario, riuscì ad
impadronirsi del ducato di Milano, il cui possesso gli permetteva di unire la Germania
alla Spagna attraverso il porto di Genova. Accorso in Italia con il suo esercito, Francesco I fu
sconfitto a Pavia nel 1525
e fatto prigioniero. Tradotto in Spagna, fu liberato l’anno seguente solo dopo aver rinunciato a ogni pretesa
sul ducato di Milano.
Ma appena tornato libero,
il re francese rinnegò l’accordo. Stretta un’alleanza, lega santa di Cognac, con il papa Clemente
VII dei Medici, con Venezia e con i Medici, preoccupati di perdere la propria indipendenza di fronte
al dilagare della potenza spagnola in
Italia, Francesco I tentò la rivincita; ma Carlo V inviò in Italia un forte esercito, che, oltre a valorosissimi
soldati spagnoli, comprendeva
i lanzichenecchi, mercenari tedeschi avidi di saccheggio.
Sbaragliate, presso Mantova, le forze della lega comandate da Giovanni
dalle Bande Nere,
nel 1527 l’esercito imperiale prese d’assalto Roma e la mise a sacco. Il pontefice si salvò rifugiandosi in
Castel Sant’Angelo e subito dopo si
ritirò dalla lotta, seguito in questo da tutti gli altri Stati italiani.
La guerra continuò
ancora per altri due anni tra Francesi ed imperiali fino a quando, nel 1529, preoccupato
per la situazione creatasi in Germania a causa della Riforma di Lutero e per l’avanzata turca
nei Balcani, l’imperatore decise di accordarsi con Francesco I con la pace
di Cambrai.
Carlo V si riconciliò poi anche con il Papa
dal quale ottenne la promessa dell’incoronazione imperiale; in cambio si
impegnò a restaurare a Firenze la Signoria
dei Medici abbattuta dal popolo nel 1527, approfittando della situazione di
debolezza in cui era venuta a trovarsi la famiglia medicea, alla notizia
del sacco di Roma.
Carlo V poteva così scendere in Italia per
raccogliere il frutto delle sue
vittorie e, dopo aver ricevuto l’atto di sottomissione di tutti gli Stati
italiani, si faceva incoronare imperatore a Bologna a febbraio del 1530.
Di fatto la pace di Cambrai fu solo una tregua
di sei anni, dopo di che le ostilità tra Francia e Spagna ricominciarono e si
protrassero quasi ininterrottamente sino al 1544.
Dopo che Carlo V ebbe domato l’Italia, la
guerra tra Francia e Spagna si allargò. I
conflitti di questo periodo furono caratterizzati dal coinvolgimento di altre
potenze che diedero loro una portata europea. Francesco I, re cristiano,riuscì
ad avere come alleati i Turchi – che
con la loro flotta infestavano il Mediterraneo,
spargendo il terrore tra gli abitanti delle coste spagnole e italiane – ed
i principi tedeschi della Lega di Smalcalda – alleanza
conclusa durante l’omonimo congresso tra sette principi e undici città
protestanti della Germania, sotto la guida di Giovanni di Sassonia e
di Filippo d’Assia. L’alleanza con i Turchi e quella con i principi tedeschi,
luterani dimostrò come il Medioevo, con la sua idea unitaria di cristianità,
fosse definitivamente tramontato.
Nel 1544, con la pace di Crépy, si
concluse questo periodo di lotte; tre anni dopo Francesco I morì, dopo una vita spesa nell’impegno di opporsi
al dilagare della potenza
spagnola.
Gli succedette sul trono
il figlio Enrico II, ma siccome le condizioni della Francia continuavano ad essere
quelle di una potenza chiusa in una morsa dai domini di Carlo V, Enrico II
riprese la politica del padre, alleandosi,
come già aveva fatto il padre, con i Turchi e i principi protestanti dell’impero. Anche questa volta le
ostilità tra la Francia e Carlo V si intrecciarono con la lotta dei principi
tedeschi, ribellatisi all’imperatore per difendere la loro libertà religiosa.
La guerra si trascinò
ancora per alcuni anni
senza che tuttavia una parte o l’altra riuscisse a trionfare definitivamente.
Alla pace si giunse per la decisione di Carlo
V di accordarsi coi principi luterani, concedendo loro ampie libertà religiose
con la pace di Augusta del 1555 e di dividere, abdicando, i
possessi degli Asburgo: al figlio Filippo II andarono i domini di Spagna e i
Paesi Bassi già degli Aragonesi; e al fratello Ferdinando I il titolo imperiale
e i possedimenti austriaci.
Nel 1556, logorato dalle
malattie e affaticato dalla continue guerre, Carlo V lasciava il trono e si
ritirava a vivere in un convento in Spagna, dove morì qualche anno dopo. Crollava così da una
parte per la tenace opposizione della Francia, dall’altra per la ribellione dei
suoi stessi sudditi protestanti e per l’ascesa dell’impero ottomano, il sogno
imperiale di Carlo V di unire sotto il suo scettro tutto il continente europeo.
Convinto che la causa
prima di tante guerre era stata l’immensità del suo dominio, Carlo V, prima di
ritirarsi, divise l’impero in due parti: lasciò i possedimenti degli Asburgo e la corona imperiale
al fratello Ferdinando; la corona di Spagna con i territori americani al figlio Filippo II, al
quale andavano anche i Paesi Bassi e i
domini italiani.
Spezzato così l’accerchiamento
della Francia, si poté giungere alla definitiva pace di
Cateau-Cambrésis del 1559, che conferì all’Italia un assetto che durò
praticamente immutato per circa 150 anni.
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