La cultura e la letteratura medioevali
1. L’età della scolastica (1000-1200)
– I fatti più importanti
di questo periodo che abbraccia due secoli, di cui uno è preparazione
dell’altro, sono i seguenti:
·
La lotta delle
investiture, fra Chiesa e Impero, terminata nel 1122 col concordato di Worms;
·
Il sorgere e lo
svilupparsi dei Comuni (dalla seconda metà del secolo XI);
·
Le Crociate che
portano come conseguenza diretta nuovi rapporti fra l’Occidente e l’Oriente
anche nel campo della cultura;
·
La diffusione del
sistema feudale aveva fatto sorgere gradualmente nuovi bisogni culturali [[16]] in ceti sociali, come i cavalieri e la
piccola nobiltà, che si espandevano per il frazionamento dei feudi maggiori;
·
Le Università o Studi
Generali che diventano, accanto ai conventi, depositarie della cultura e,
particolarmente, della cultura specializzata; laica, anche se non in
opposizione, bensì sotto gli auspici della Chiesa;
·
Le nuove correnti
filosofiche come la Scolastica, i
contatti con la cultura araba e il contrastato trionfo dell’aristotelismo.
·
La rinascita dell’arte
occidentale
2.
I luoghi della cultura
- Dominatore della cultura, sebbene l’elemento laico si faccia più vivo e
presente, è sempre il clero, quello soprattutto dei conventi e delle scuole
episcopali e monacali, dove il programma di studio si va man mano allargando,
né solo nella teologia o nelle arti del trivio, ma anche in quelle del
quadrivio, nella filosofia e nel rinato amore dei classici antichi, di cui,
particolarmente nel secolo XII, le copie si moltiplicano, arricchite di glosse
e di commenti talora d’importanza assai notevole.
a)
Le corti feudali – Sviluppatesi in
Francia dall’XI secolo le corti furono l’espressione della società feudale e
della cavalleria. Nelle corti nacquero anche i primi esempi di letteratura in
volgare e laica, infatti, fino a quel momento la cultura era stata appannaggio
della Chiesa e si era espressa in latino. I cavalieri erano guerrieri armati,
cadetti, i cui valori erano rappresentati dalla fedeltà al proprio
signore e alla donna amata e dalla difesa della fede cristiana.
Il tema amoroso
rivestì un’importanza particolare e comporta una rivalutazione della figura
femminile rispetto all’alto Medioevo, dove la donna era spesso l’incarnazione
del male. La donna, nella nuova visione, era la domina e il suo
amante il vassallo, le cui doti erano il coraggio, la lealtà e la fedeltà.
I principali
generi letterari della cultura cortese furono: il poema epico-cavalleresco
(argomento religioso) e il romanzo d’amore e d’avventura entrambi in lingua
d’oïl e la poesia amorosa in lingua d’oc.
Il termine
cortese deriva da corte, spazio fisico e ideale in cui il
signore-mecenate favoriva la cultura cortese destinata in prevalenza
all’ascolto e al pubblico feudale. Il termine, tuttavia, non indicò solo
uno spazio fisico ma anche uno spazio ideale, in cui si esplicavano le buone
maniere e la nobiltà d’animo (significato figurato).
L’origine
francese si spiega con la vitalità della società feudale in questa nazione; non
fu così in Italia, dove lo sviluppo culturale ebbe soprattutto un carattere
urbano.
I poemi epici
sono chiamati canzoni di gesta (venivano interpretati da un cantore
con accompagnamento musicale) e sono organizzati in cicli. Il più famoso è
quello Carolingio, in cui sono celebrate le imprese di Carlo Magno e dei suoi
paladini contro i Saraceni. Ne fa parte la Chanson de Roland del 1080.
Il romanzo
cavalleresco è il genere più diffuso, è in versi. Il protagonista è spesso
impegnato in una ricerca (quete) volta a raggiungere l’oggetto del desiderio
(Santo Graal, donna). La materia più trattata è quella bretone, ossia i
racconti legati a re Artù e ai cavalieri della tavola rotonda. Celebri le
storie d’amore di Tristano e Isotta; Lancillotto e Ginevra. Di quest’ultima la
versione più nota è quella di Chretien de
Troyes.
In Provenza si
sviluppa la poesia amorosa o provenzale o trobadorica (poeti=trovatori)
(XI-XIII sec.); espressione anch’essa delle corti feudali, i poeti possono
essere grandi feudatari o provengono dalla piccola nobiltà o sono dipendenti
non nobili di un signore. Trasmesse per via orale, le poesie erano accompagnate
dalla musica, (canzoni).
b) Le Università – Il risveglio delle città dopo il Mille portò
al potenziamento delle scuole collegate ai vescovadi alle quali si affiancarono
scuole laiche. In tutte si impartiva l’insegnamento elementare della grammatica
latina, svolto su testi per lo più di carattere religioso.
Studi di livello superiore erano possibili
nelle città in cui si trovavano abbazie di antica tradizione, in particolare
Parigi (abbazia di S. Vittore) e Bologna (abbazia di S. Felice).
Le discipline che s’insegnavano erano quelle
ereditate dalle scuole di Roma antica: grammatica, retorica e dialettica (chiamate
il trivio, «incrocio delle tre strade»), aritmetica, geometrìa,
astronomia, musica (quadrivio); altri insegnamenti come la medicina e
il diritto cominciarono poi ad essere oggetto di studio,
mentre la teologia continuava ad essere la disciplina
considerata al di sopra di tutte le altre.
Quando queste scuole per il numero degli
studenti, in genere legato alla fama degli insegnanti, divenivano centri di
studio famosi, ricevevano dall’autorità ecclesiastica o politica il riconoscimento
di studium generale (come avvenne per Bologna e Parigi, e per
Salerno, centro degli studi di medicina).
La denominazione di universitas indicò
inizialmente la corporazione degli studenti (a Bologna) o
degli insegnanti (a Parigi), vale a dire l’organizzazione che pagava i maestri,
gestiva la copiatura dei testi e tutto quanto era legato ai bisogni dell’università.
La Chiesa, dopo un’iniziale diffidenza verso
fonti d’insegnamento che potevano contrapporsi alle scuole ecclesiasti-che,
cercò di assumerne il controllo e a poco a poco impose la sua giurisdizione
sulle università facendo accettare il principio che solo la Chiesa poteva dare
alla fine degli studi la licentia docendi (abilitazione
all’insegnamento) valida per tutti i paesi della cristianità.
Come centri di attività culturale, accanto ai
conventi famosi, sorgono le Università: in Italia la medicina si continua a
coltivare nel famosissimo centro di Salerno, già noto nel secolo IX che fu
certamente il primo a sorgere in Europa ed è in questo periodo illustrato da
Costantino Africano (m. 1087) maestro di grande fama e traduttore di molte
opere mediche dal greco e dall’arabo; a Bologna fioriscono gli studi giuridici
fino dal secolo XI, ed Irnerio (1100-1130) ne aumenterà la fama nel secolo
seguente che vede pure la protezione data allo Studio da Federico Barbarossa. E
fiorenti scuole di diritto civile sorgono altresì, prima della fine del secolo
XII, a Reggio Emilia, a Modena e a Ravenna.
Fuori d’Italia, a Parigi predomina lo studio
della logica e particolarmente della dialettica; a Montpellier nel secolo XII
quello della medicina e del diritto; ad Orléans si studiano gli auctores,
cioè i classici latini, il cui culto sempre più si diffonde, suscitando
innumerevoli imitatori; mentre in Inghilterra Oxford si modella su Parigi e può
contare alla fine del secolo XII ben tremila studenti.
Siamo quindi di fronte ad una grandiosa
esplosione culturale e letteraria che culmina nel secolo XII ed è più vasta e
più universale della stessa cosiddetta rinascenza carolingia. Veramente, com’è
stato detto, il XII secolo è stato una iuventus Mundi, o meglio
la giovinezza della civiltà umana dell’Europa occidentale. La produzione è
abbondantissima. Inutile ricordare che in questi secoli, specialmente nel
XII, la letteratura latina coesiste con le varie letterature nazionali,
soprattutto in Francia. Però per il momento è ancora la cultura latina quella
predominante.
3. Intellettuali e
pubblico nel Medioevo – Nel corso dei secoli le mansioni che hanno
svolto gli intellettuali e il pubblico sono state quelle di maggiore rilevanza,
in quanto sono proprio coloro che hanno dato vera importanza alla letteratura o
più generalmente all'arte. Il loro ruoli sono, però, dei ruoli dinamici e non
statici, cioè che subiscono un'evoluzione, un cambiamento a seconda dei
periodi.
Nel Medioevo si definiva intellettuale
colui che aveva il compito di produrre e di diffondere la cultura. Questa
figura si identifica con il chierico,
il quale era un uomo che abitava in un monastero, molto istruito, ma egli era
semplicemente un propagatore del sapere. Quello del chierico era ancora un
ruolo che non dava importanza all'originalità del testo: infatti ciò che
interessava era una certa costanza nel tramandare.
Il chierico, quindi, era una figura molto tradizionalista, quasi
impersonale e che non aveva quello spirito di soggettività da intellettuale.
Per quanto riguarda, invece, il pubblico del Medioevo, al
quale i chierici si rivolgevano era decisamente elitario. La cultura, infatti, era
riservata a una cerchia strettissima di gente. Il lavoro dell'intellettuale era
rivolto a degli individui di alto rango o, logicamente, ad altri chierici. Un
grandissimo fattore limitante per la diffusione negli altri ceti era il
linguaggio usato negli scritti, cioè il latino. Nelle massa popolari la lingua
che più si parlava era una sorta di mediolatino.
In età comunale la situazione cambiò. Mentre i chierici
continuavano a svolgere un ruolo importante, parallelamente si affermava un
altro tipo di intellettuale: l'intellettuale-cittadino.
Quest'ultimo partecipava attivamente alla vita politica della sua città, quindi
prendeva parte anche ai suoi conflitti e percepiva le varie tensioni che si
venivano a creare. L'intellettuale-cittadino operava nelle corti non facendo, come
i chierici, della scrittura il loro lavoro, ma le affiancavano alle varie
professioni che avevano. Questo, dunque, era il momento d'affermazione dell'intellettuale laico.
Il primo gruppo di colti "atipici" sono stati i cosiddetti "poeti siciliani", i
quali erano alla corte di Federico II. Questa è, però, la fase in cui si forma
un pubblico di lettori più vasto. Ciò era dovuto all'alfabetizzazione e alla
diffusione delle scuole. Gran parte dei lettori era formata dagli appartenenti
al ceto mercantile, i quali potevano
permettersi l'acquisto dei libri e la frequentazione degli edifici scolastici.
La lettura era, in quell'ambito, accessibile addirittura anche alle donne. Ciò
accadde, più o meno, fino al ‘400.
I
caratteri della cultura medievale
a) La civiltà comunale all’origine del risveglio
culturale – La civiltà comunale costituisce il
momento più originale, ed uno tra i più vivi, di tutta la nostra storia. È un
periodo di grande slancio economico: l’aumento della produzione artigianale,
dei commerci e, con i commerci marinari, delle costruzioni navali, determina
un aumento di ricchezza dei ceti cittadini, ne innalza il tenore di vita e
favorisce il lusso. Effetto, e quasi simbolo, di questo sviluppo nel campo
economico, è la nascita di una nuova attività, quella bancaria. A questo
rigoglio economico si accompagna un’eccezionale ripresa nel campo intellettuale.
È il momento in cui, tanto nell’architettura
che nella scultura e nella pittura, si assiste al nascere di forme originali,
libere dall’imitazione dell’arte bizantina. Sorgono nuove città, e le antiche
rinnovano completamente il loro volto, arricchendosi non solo di cattedrali ma
anche di edifici civili quali i palazzi comunali sedi dei consigli, dei consoli
e delle altre magistrature; di palazzi, residenze delle più potenti famiglie,
dominati da torri difensive, mentre nelle mura di cinta si aprono porte in
pietra decorate di sculture; si lastricano le strade; si costruiscono canali
per portare le acque nei fossati delle mura. Lo stile che caratterizza il
periodo più splendido dell’età comunale (XII – XIII secolo) è quello romanico,
cui si sostituirà quello gotico dalla seconda metà del secolo XIII.
In letteratura, a questo fermento di creazione
originale, corrisponde l’affermarsi del volgare, che ben presto si esprime
nelle più grandi figure della nostra cultura: San Francesco, Jacopone,
Cavalcanti, Dante, Petrarca, Boccaccio.
Sul piano intellettuale espressione delle nuove strutture
politiche e sociali sono le Università che liquidano il prestigio delle scuole
monastiche, rimaste isolate dalla nuova evoluzione sociale e legate alle
vecchie strutture feudali.
b) L’unità culturale nel Medio Evo - La cultura del Medioevo, almeno fin verso i secoli X e XI,
non aveva avuto carattere nazionale, ma si era manifestata unitaria in tutti
quei Paesi d’Europa che avevano fatto parte dell’Impero romano ed erano stati
segnati dalla sua civiltà; su di loro, successivamente, aveva esercitato la sua
influenza, orientandone gli interessi e gli ideali, l’altra grande struttura
universale: la Chiesa cattolica.
Espressione di tale unità culturale era la
lingua in essi usata, il latino, che, diffuso dai Romani conquistatori, aveva
avuto ulteriore incremento ed avallo dal fatto di essere stato assunto dalla
Chiesa come lingua ufficiale propria.
Certo, quello medioevale non era più il latino
di Cicerone o di Livio; era un latino che nella sintassi, nel lessico, si era
andato progressivamente allontanando dai modelli classici e che si era anche
adeguato all’esigenza di esprimere modi nuovi di pensare e di sentire, mantenendosi
in tal modo strumento di comunicazione attuale e vitale.
Ma anche quando le varie comunità etniche
cominciarono a definirsi ed a differenziarsi, oltre che politicamente, anche
linguisticamente, ed, accanto al persistente latino, andarono affermandosi in
ambito letterario le varie lingue romanze, nei paesi dell’ex impero romano non
venne tuttavia meno il senso dell’appartenenza a una cultura comune. Perciò
nelle università che erano venute sorgendo dal XII secolo nei vari Paesi
d’Europa affluivano maestri e discepoli a raggio europeo. L’università
teologica di Parigi, quella giuridica di Bologna, quella medica di Salerno,
costituivano veri e propri punti d’incontro culturali dell’Europa romanza.
Analogamente, in quegli importanti centri culturali
che furono i conventi, spesso forniti di ricchissime biblioteche, convenivano,
sotto la stessa «regola», monaci di differente origine etnica.
Quanto all’Italia e alla sua letteratura, è
proprio in conseguenza dell’unità culturale che lega fra loro i Paesi romanzi
che, ad esempio, le imprese di Carlo Magno celebrate in lingua d’oïl nelle
Canzoni del Ciclo carolingio (sec. XI) trovano ascolto da noi,
e vengono riprese in componimenti epici (i poemi franco-veneti)
scritti in un dialetto Veneto ricco di elementi francesi. Allo stesso modo i
poemi d’amore e d’armi del Ciclo bretone intorno alle gesta di
re Artù, anch’essi composti in lingua d’ oïl, vengono da noi tradotti e
rielaborati, e costituiscono la raffinata lettura delle nostre corti feudali.
Così pure i componimenti amorosi composti in lingua d’oc dai trovatori
provenzali offrono temi e tecniche alla prima poesia d’arte italiana, quella
della «scuola siciliana».
Il rapporto culturale unitario che lega
l’Europa romanza è così stretto che la barriera delle Alpi non sempre
costituisce un confine linguistico. Alcuni trovatori italiani poetano in lingua
provenzale, che non sentono per nulla come straniera. Ed il fiorentino Brunetto
Latini «maestro – a detta di un cronista contemporaneo, il Villani – in digrossare
i fiorentini e farli scorti in bene parlare», (che cioè sviluppò e affinò
quella cultura fiorentina di cui doveva alimentarsi il genio di Dante), compone
in lingua d’ oïl il Trésor, enciclopedia del sapere del tempo. E
Marco Polo (1254-1324) detta in lingua d’oil il suo Milione.
c) La visione teocentrica del mondo – Non meno unificante della tradizione romana fu, come si è
accennato, l’influenza esercitata sui Paesi europei dalla Chiesa, che vi
diffuse una comune interpretazione cristiana del mondo e del destino umano.
Secondo la concezione di cui la Chiesa era
portatrice, l’universo è retto da Dio, che, immobile nella sua perfezione,
governa provvidenzialmente la realtà inanimata e animata (cose, animali,
uomini), dotandola di una tensione che l’attira a sé ed alla quale solo l’uomo
può sottrarsi perché dotato di ragione e di libero arbitrio; in tal caso
dannandosi, giacché in Dio sta l’unica salvezza.
Di conseguenza la vita terrena, i beni della
terra, perdono il valore assoluto che aveva loro attribuito la civiltà pagana;
e l’esistenza in questo mondo diventa un momento di passaggio, un banco di
prova nel quale, col suo agire, l’uomo conquista o perde la vita vera, cioè la
vita eterna.
L’eroe di quest’epoca non è più, come già nel
mondo classico e più tardi in quello rinascimentale, colui che sa affermarsi
nella conquista del potere, della gloria, ecc., ma il santo, cioè l’uomo che,
con totale e coerente rinuncia, subordina la vita terrena a quella
ultraterrena.
Certo, si tratta di posizioni teoriche che,
come spesso avviene, non hanno impedito che, nella vita concreta, si
verificassero atteggiamenti con esse discordanti o addirittura ad esse
antitetici. E, infatti, il Medioevo, se fu età di grandi ascetismi, fu anche
età «di sangue e di crucci», in cui si scatenarono violenti appetiti terreni e
passioni feroci. Ma gli uni e le altre furono giudicati, nella riflessione
morale del tempo, e anche nella comune opinione, come forme devianti dalla
retta strada segnata all’uomo da Dio.
Se teocentrica è la concezione del mondo,
cristocentrica è quella della storia. La storia vera, cioè, comincia con
l’avvento del Cristo; e le vicende che lo hanno preceduto sono state ad esso
funzionali. Così, per esempio, l’impero romano è stato voluto da Dio perché,
unificando territori e popoli, avrebbe spianato la via alla diffusione del
Cristianesimo.
Su tali premesse poggia anche una diffusa
concezione teocratica della politica, secondo la quale il papa, perché
esponente di Dio sulla terra, è anche il legittimo detentore di ogni autorità,
ivi compresa quella politica, che può esercitare direttamente o delegandola
all’autorità politica vera e propria, cioè all’imperatore; che quindi rimane a
lui subordinato. Teoria questa che non fu però accettata da tutti
pacificamente, e a cui se ne contrappose una antitetica che subordinava il
potere religioso a quello politico, e un’altra (che sarà anche quella di Dante)
che sosteneva la reciproca autonomia dei due poteri.
d) Teocentrismo e cultura – La concezione teocentrica del mondo ebbe per tutto il
Medioevo coerenti applicazioni in campo culturale.
La teologia, la scienza delle cose divine che
poggia sulla «rivelazione» contenuta nei testi sacri e che alla luce di essi
interpreta la realtà, è considerata la scienza per eccellenza, la scienza
regina e ad essa sono subordinate le altre scienze quasi sue ancelle: ancillae
theologiae, come si diceva.
Di conseguenza la speculazione filosofica deve
cedere il passo alla teologia, là dove l’indagine razionale si scontra con le
verità rivelate che devono essere accettate per fede; le scienze naturali,
anziché indagare autonomamente i fenomeni del reale, partono dalle affermazioni
contenute nei Libri sacri come da premesse indiscutibili; funzione della
politica è di guidare gli uomini verso la giustizia terrena, che è premessa al
raggiungimento dell’eterna beatitudine; e già abbiamo visto come sia religioso
anche il metro di valutazione della storia.
e) La funzione pedagogica dell’arte – Quanto all’arte, essa si giustifica solo se indirizzata alla
glorificazione di Dio o all’educazione morale e religiosa degli uomini.
Perciò le arti figurative si muoveranno per
tutto il Medioevo per gran parte nell’ambito del sacro: dal secolo XI fiorirà
in Europa la severa armonia delle cattedrali romaniche o la tensione verticale
di quelle gotiche; la pittura ritrarrà vicende e immagini religiose; la
scultura ornerà con figurazioni sacre le facciate, i portali, i capitelli, le
nicchie delle chiese.
Quanto alla letteratura e alla poesia, esse
sono considerate strumenti inutili, quando non fuorvianti e di perdizione, se
non guidino gli uomini verso il bene e la verità, cioè verso la verità
religiosa di cui abbiamo parlato. Nasce da questa esigenza pedagogica della
letteratura l’uso della allegoria, una specie di simbolico sovrasenso
attribuito alle cose e vicende concrete rappresentate, e che, proponendo
nascosti significati etico-religiosi, si sovrappone al significato letterale
del testo e lo trascende. Così ad esempio il viaggio nell’Oltremondo descritto
da Dante nella Divina Commedia rappresenta allegoricamente
l’itinerario dell’anima che, smarritasi nel peccato, cerca e raggiunge la
salvezza in Dio (Paradiso) riflettendo sulle conseguenze
eterne (Inferno) e temporanee (Purgatorio) del
peccato stesso. Ma all’interno di questa fondamentale allegoria, nella Commedia
ne sono proposte molte altre particolari, su cui torneremo più avanti.
f)
La persistenza nel Medioevo della
tradizione classica – Se
nel Medioevo la concezione cristiana della vita si contrappone antiteticamente
a quella pagana dell’età classica, tuttavia la cultura classica non viene del
tutto meno.
Respinta in un primo tempo dalla Chiesa che la
considerava fonte di errore, viene poi progressivamente dalla Chiesa stessa
cautamente recuperata, e assimilata almeno nella misura e nelle forme in cui
non contrasta e può conciliarsi con lo spirito del Cristianesimo. Così la
«retorica» medioevale, le norme cioè del bello scrivere, ricalca quella
classica; nelle scuole medioevali è mantenuto il corso di studi che era stato
in vigore nelle scuole ellenistico-romane, e che consisteva nelle
discipline del Trivio (grammatica, dialettica, retorica) e
del Quadrivio (aritmetica, musica, geometria, astronomia); il
diritto romano continua a far testo nelle controversie private e pubbliche; San
Tommaso si propone nelle sue opere di integrare il pensiero del filosofo greco
Aristotele con quello cristiano.
La filosofia – La dissoluzione dell’Impero romano aveva portato con sé
la crisi del sistema scolastico. Nell’Alto Medioevo, l’istruzione era legata
per lo più alle scuole cattedrali e alle scuole dei monasteri, dove il clero e
i monaci venivano educati alla lettura della Bibbia, dei testi liturgici e dei
Padri della Chiesa. Soltanto con Carlo Magno e Alcuino, e con la scuola
palatina da loro organizzata, lo stato riprende l’iniziativa formulando un
progetto educativo coerente: attraverso la formazione di maestri poi inviati
nei vari centri episcopali e monastici, la scrittura - da parte di
Alcuino – di veri e propri ‘manuali’ per
gli studenti dedicati all’ortografia, alla grammatica, alla retorica, la
codificazione dell’esegesi biblica.
È però soltanto a partire dalla fine dell’XI
secolo che iniziano a formarsi quelle scuole cittadine che prenderanno il nome
di Università. Si tratta di scuole specialistiche consacrate allo studio e al
perfezionamento di discipline come la giurisprudenza, la medicina, la
teologia.
E si tratta di scuole in cui, per
la prima volta, la componente laica è importante tanto quanto
quella ecclesiastica: per esempio, molti degli insegnanti di diritto bolognesi
sono laici che, costituitisi in libere associazioni, decidono la natura e il calendario
dei corsi. I nuovi modi di organizzazione e trasmissione del sapere influenzano
anche la tecnica della ricerca scientifica. Nasce un nuovo metodo
scolastico articolato in due fasi: il maestro propone la quaestio, cioè un
interrogativo che viene esaminato in ogni suo aspetto
attraverso l’analisi degli argomenti favorevoli o contrari ad una data
soluzione. E gli allievi si esercitano nelle disputationes, cercando di affermare il proprio punto di vista
nella discussione di un problema proposto dal maestro.
b)
La Scolastica – All’interno di
questo nuovo sistema del sapere, le università, vissero e operarono i maggiori
intellettuali del periodo qui considerato: il nome di scolastica deriva appunto
dallo stretto legame che unisce la produzione scientifica del tempo alla scuola.
Se prima gli uomini di pensiero, i maestri, scrivevano per esortare e
persuadere rivolgendosi ai confratelli, o al pubblico incolto dei fedeli, ora essi hanno di fronte –proprio come i docenti odierni –
degli allievi che debbono essere istruiti. Ne deriva una forte sistematizzazione
del sapere: cioè la scrittura di summae, commenti, raccolte di sentenze (celebri quelle di Pietro Lombardo,
una sorta di enciclopedia teologica) che forniscono allo studente
tutte le informazioni necessarie circa lo stato di una determinata questione
attinente la teologia, il diritto, la medicina, la retorica e le altre
discipline professate all’università.
c)
La traduzione e il commento delle opere di Aristotele – Due sono i problemi cruciali per i filosofi
medievali: quello del rapporto
col pensiero pagano e quello del rapporto tra
ragione e fede.
Quanto al
primo, nel corso dell’XI e del XII secolo si avvia in
Europa la traduzione delle opere di Aristotele in latino e il loro
commento da parte degli intellettuali cristiani: inizia così, con quello che
viene definito il philosophus per
eccellenza, un dialogo che influirà profondamente sia sul metodo sia sulla
sostanza del pensiero tardo-medievale. Tale dialogo venne ostacolato dal fatto che
Aristotele giunge all’Occidente non per via diretta bensì filtrato dalle
traduzioni e dall’esegesi dei filosofi arabi: Avicenna (980-1037) e Averroè
(1126-1198), i quali valorizzano la componente razionalistica del
sistema aristotelico, svalutando invece quella meditazione
sulla metafisica e su Dio che poteva accordarsi con le verità cristiane.
Nella sua interpretazione di Aristotele, Averroè nega l’immortalità dell’anima
individuale e afferma l’eternità del mondo, cioè esclude la creazione: due tesi
inaccettabili per un cristiano. La storia della ricezione di Aristotele nei
secoli XIII e XIV è perciò una storia molto accidentata, fatta di ammirazione e
devozione, e tentativi di inquadrare la sua filosofia pagana
nell’ambito della fede, ma anche di
divieti e censure: più volte, l’autorità ecclesiastica proibì lo
studio di alcuni o di tutti gli scritti
aristotelici nelle università in quanto contrari alla
dottrina cristiana.
d)
La traduzione e il commento delle opere di Platone – Più vicina alla metafisica cristiana è la
dottrina delle idee di Platone, il filosofo che con Aristotele ha più influito
sullo svolgimento del pensiero occidentale. Di
fatto, elementi platonici sono ben presenti nelle
opere del maggiore dei padri della Chiesa,
Agostino, nel cui solco procederà tutta
la speculazione cristiana fino alla Scolastica. Durante
il secolo XII, mentre cresce il numero delle traduzioni (particolare importanza
riveste il Timeo, il testo-chiave della metafisica platonica, che viene
accostato al libro biblico della Genesi), lo studio di Platone si
affianca a quello di Aristotele. Particolarmente
vivace, in questo senso, è la scuola di Chartres,
nella quale viene elaborata, soprattutto da parte di Guglielmo di
Conches e Gilberto Porrettano, la nuova metafisica platonico-cristiana.
e)
Il problema del rapporto tra filosofia e fede: Anselmo d’Aosta – Il secondo problema, quello dell’equilibrio
tra ragione e fede, è parte, naturalmente, di quello appena toccato:
avvicinarsi ai filosofi classici significa allontanarsi dalla fede, perché essi
non conobbero il vero Dio; tuttavia il cristiano non è
costretto al sacrificio dell’intelletto: ciò che
occorre è invece definire i rispettivi domini e ruoli,
e proprio in quest’opera s’impegnano gli scolastici. La figura più importante
del sec. XI è quella di Anselmo d’Aosta. In una lunga serie di opere, egli si propone
di indagare razionalmente il problema dell’esistenza di Dio.
f)
Pietro Abelardo – Nel secolo
successivo, l’importanza di Pietro Abelardo risiede nell’elaborazione del ‘metodo scolastico’: il Sic et non offre infatti al lettore gli
strumenti per l’esegesi di qualsiasi testo attraverso l’uso accorto della
filologia (comprensione letterale del testo) e della logica (esame incrociato
degli argomenti favorevoli o contrari ad una determinata tesi: a ciò fa
riferimento il titolo del Sic et non:
dove si mettono a confronto le opinioni dei padri della Chiesa su una serie di
questioni teologiche con ciò che dice la Bibbia). Oltre a un’imponente opera
teorica sui tre grandi domini in cui si divide la filosofia medievale (la
teologia, la logica e l’etica), Abelardo ci ha lasciato anche una delle prime autobiografie
della tradizione occidentale, l’Historia
calamitatum (‘Storia delle mie
disgrazie’)[1].
g)
La Scolastica nel Duecento: Alberto Magno – Il Duecento è il secolo di maggiore splendore per la
filosofia scolastica. Si completa, in questo periodo, la traduzione delle opere
aristoteliche, si perfeziona il sistema universitario, la vita culturale si
arricchisce grazie all’apporto degli ordini mendicanti, che prestano all’università i loro migliori maestri:
di fatto, i più insigni filosofi del secolo sono domenicani e francescani.
Quasi tutti insegnano per un periodo della loro vita a Parigi, che rimane il
centro più importante per gli studi teologici. Il problema dell’assorbimento di
Aristotele nel pensiero cristiano, è affrontato dal tedesco Alberto Magno (1193-1280).
Egli può distinguere
rigidamente la filosofia dalla fede perché,
seguendo la lezione di sant’Agostino, ha prima distinto i domini dell’una
e dell’altra attribuendo alla prima la ratio inferior e alla seconda la ratio superior, cioè la parte superiore dell’anima che si occupa
dell’essenza delle cose e non dei semplici fenomeni. Ma, quanto a questi, le
speculazioni di Aristotele debbono essere meditate anche dagli intellettuali
cristiani, e il ruolo di Alberto Magno fu proprio quello di tradurre, attraverso i suoi commenti
all’Etica, alla Fisica e alla Politica,
il sistema filosofico e scientifico aristotelico - la sua interpretazione del
mondo terreno, della natura, non dell’oltremondo - in un linguaggio che potesse
essere accetto all’ortodossia cattolica.
h)
Tommaso d’Aquino – Ad ascoltare
Alberto Magno a Colonia c’era tra gli altri, negli anni 1248-1252,
Tommaso d’Aquino (1221-74), certamente il maggiore filosofo del
secolo e, con
Agostino, il più importante di ogni tempo per la codificazione della dottrina cristiana.
Come Alberto, anch’egli insegnò a Parigi e –
secondo la consuetudine propria dei frati mendicanti di non soggiornare mai a
lungo in una stessa città – nelle principali università europee: Colonia,
Bologna, Napoli. E come in Alberto, anche nella concezione di Tommaso la fede
non soppianta la filosofia bensì la completa, illuminando tutto ciò che i
filosofi pagani avevano dovuto ignorare.
Da questa contaminazione nasce la nuova
‘sistemazione’ della metafisica cristiana che Tommaso offre nella Summa theologica, un’opera immensa nella
quale, in forma di quaestiones,
vengono vagliati tutti i problemi che possono sorgere nell’interpretazione
della dottrina cattolica.
Nonostante la resistenza da parte della Chiesa
di Roma a recepire alcune delle tesi tomiste – sentite come troppo vicine ad
Aristotele e ai suoi seguaci averroisti, molto attivi a Parigi alla metà del
Duecento -, la Summa sarà, nei tre secoli successivi, il punto di
riferimento fondamentale per tutto il pensiero cristiano.
i)
I francescani: Bonaventura
– Se Alberto e Tommaso sono i massimi filosofi domenicani del Duecento,
Bonaventura da Bagnoregio fu il più insigne tra i francescani, ed ebbe un
ruolo di grande rilievo nella vita dell’Ordine: scrisse quella che sarebbe
diventata la biografia ufficiale di san
Francesco, fu generale dell’Ordine e ne
redasse le costituzioni; inoltre, nonostante gli impegni legati
all’insegnamento, svolse per tutta la vita una
assidua attività di predicatore, che fece di lui l’oratore più apprezzato del
suo tempo. La sua opera maggiore è
un caposaldo della mistica medievale: l’Itinerarium mentis in Deum del 1259, che illustra i sei gradi
dell’ascesa al divino attraverso l’amore di Dio e la preghiera e, insieme,
attraverso la rinuncia agli strumenti della ragione: una via che
lo allontana, per esempio, dal rigoroso
intellettualismo di Tommaso.
l)
Il crepuscolo della Scolastica nel Trecento: Occam – Dopo l’età dei grandi sistemi filosofici
elaborati dagli scolastici, la filosofia cristiana vive, nel corso del Trecento,
una crisi profonda. Nelle
università si acuisce il conflitto tra la
gerarchia cattolica che sorveglia sull’ortodossia e il pensiero dei maestri più
liberi e spregiudicati, che hanno ormai assorbito completamente la lezione di Aristotele
e degli altri filosofi antichi. La vita del
maggiore pensatore del secolo, il francescano inglese
Guglielmo di Occam, è, sotto questo
profilo, emblematica. Perché, colpevole di aver
difeso tesi ritenute eretiche, venne scomunicato e dovette
rifugiarsi a Monaco e mettersi sotto la protezione dell’imperatore
Ludovico il Bavaro, cui prestò la propria opera di polemista nella sua
lotta antiecclesiastica e antiteocratica. La filosofia di Occam porta alle
estreme conseguenze, e con ciò dissolve, il razionalismo che era stato
caratteristico dei filosofi scolastici. Ragione e fede – egli sostiene –
debbono essere distinte perché le verità
di fede non possono essere conquistate, e
tantomeno spiegate, per via razionale. Se ciò da un lato garantisce alla
teologia una sfera autonoma, fondata sulla Rivelazione e indipendente dalle
speculazioni dei filosofi antichi e moderni, dall’altro libera la
ragione dai vincoli della
fede. Di qui l’abbandono dei concetti fondamentali della
metafisica e della logica tradizionali a vantaggio di un approccio più empirico
e – se non suonasse anacronistico – ‘laico’ ai
problemi della conoscenza: l’interesse per l’individuo e non per gli
universali, per il sapere sperimentale piuttosto che per la speculazione
astratta, per la fisica piuttosto che per la metafisica. Questo nuovo
orientamento logico-scientifico avrà grande influenza nei secoli successivi: e
mentre esso confina ai margini del discorso filosofico le istanze ‘umanistiche’
legate alla metafisica e all’etica (ciò che provocherà la protesta di un
intellettuale come Petrarca contro i logici e gli scienziati imperversanti
nelle università), prelude a quel rigore e a quella concretezza di metodo che
saranno propri della scienza di Galileo.
Le arti - Il Mille-Millecento è un periodo
di rinascita economica e urbana che coincide con l’inizio della fine del
feudalesimo, fenomeno che tuttavia perdurerà per tutto il Quattrocento. Nello
stesso periodo si affermano da una parte le università degli studi meno
soggette al potere della Chiesa e si avvia la riscoperta dei classici greci,
dall’altra si manifesta una religiosità meno istituzionalizzata, più intensa se
non oltranzista.
Inizia il
periodo del culto delle reliquie, dei pellegrinaggi, delle crociate, degli
ordini religiosi radicali, la Chiesa diviene accentrata e pretende di porre
sotto il suo controllo il potere politico. La gerarchia ecclesiastica diviene
anche più insofferente, e inizia la sua azione di contrasto alla magia, alle
eresie, agli Ebrei, è il periodo di San Bernardo di Chiaravalle con il suo
fideismo, ma la cultura continua comunque il suo corso sostenuta da una
crescita economica potente e dal minore isolamento delle comunità umane.
Nel campo
architettonico i cambiamenti stilistici sono maggiori, le chiese sono più
slanciate, caratteristica che rende maggiormente il senso del trascendente, le
facciate molto più ricche e con rivestimenti marmorei, all’interno si fa
ricorso alle volte a botte (o alle volte a crociera) che conferisce un’immagine
più leggera e celestiale all’opera. Tutta l’attività edilizia si amplia
notevolmente. I grandi centri culturali sono la Sicilia e la Toscana, ma nel
campo dell’architettura avanza il resto dell’Europa, la Francia soprattutto, ma
anche la Germania e l’Inghilterra, la civiltà non è più solo latina ma europea.
La crescita
artistica della pittura prosegue nel Duecento con opere sempre più espressive
che si arricchiscono di particolari, mentre progressivamente si passa dalla
rappresentazione piatta o bidimensionale a quella dotata di profondità, un tipo
di pittura convenzionalmente definita gotica. Il risultato sono opere con una
enorme carica di umanità ed emotività che pur costituendo sempre una forma d’arte
idealizzata, rompono con la freddezza e la durezza dell’arte precedente. Gli
artisti non sono più anonimi e caratterizzano maggiormente le loro opere con la
loro personalità.
a) Le nuove creazioni
dell’architettura: la cattedrale e il palazzo pubblico – Nel lungo
arco di tempo compreso tra l’anno Mille e l’inizio dell’Umanesimo, alla fine
del XIV secolo, il paesaggio
artistico italiano muta in maniera radicale. Lo sviluppo delle città porta infatti con sé la
ealizzazione di due nuove grandi strutture architettoniche,
l’una religiosa, l’altra civile.
Si tratta della chiesa cattedrale, sede del
vescovo, e del palazzo in cui ha sede il governo cittadino.
A questi due generi di costruzioni, simbolo
dell’unità e dell’identità popolare, non lavora un solo architetto ma un’ampia
schiera di ingegneri, artigiani e operai; e vi è coinvolta anzi l’intera città,
e non per lo spazio di pochi anni, ma per
generazioni: sicché questi monumenti non rispecchiano un unico
momento dell’arte, ma documentano, nella loro composita
fisionomia, l’evoluzione secolare delle tecniche e degli stili.
La mappa dei più significativi edifici
religiosi e laici corrisponde in sostanza a quella delle città che tra l’XI e
il XIV secolo furono al centro della storia politica italiana: le più grandi,
le più importanti dal punto di vista strategico, le più vivaci nel commercio,
dunque quelle che avevano più risorse da impiegare nella realizzazione di opere così dispendiose
– Milano (Sant’Ambrogio, secc. IX-XII; il celeberrimo Duomo, massimo
esempio italiano del cosiddetto gotico internazionale, iniziato alla
fine del Trecento); Modena (la cattedrale, edificata all’inizio del sec. XII da
Lanfranco); Venezia (San Marco, iniziata nel 1063; il Palazzo
Ducale, terminato nel 1400); Firenze (il
battistero di San Giovanni, sec. XI;
San Miniato al Monte, secc. XI -XII; il Duomo; il
Palazzo della Signoria, sec. XIV), e poi Pisa, Siena, e molti altri comuni
soprattutto centro-italiani.
b) Romanico e gotico –
Legate strettamente alla cattedrale e al
palazzo pubblico – quindi raramente autonome – sono le arti plastiche e
visive: la scultura è per lo più decorazione, nei portali
e nelle facciate delle chiese, o negli elementi
architettonici interni (pulpiti, fonti battesimali); la pittura illustra
o racconta, negli affreschi a parete, soggetti sacri, a beneficio del pubblico dei
fedeli.
Questa sinergia delle arti resta costante nei
due periodi nei quali si è soliti suddividere l’epoca qui considerata: il
romanico, in cui gli edifici sono caratterizzati da forme semplici e compatte,
povere di decorazioni, che si svolgono in orizzontale piuttosto che in
verticale (secoli XI-XII); e il gotico, in cui gli
edifici, anche grazie al perfezionamento
delle tecniche costruttive, tendono invece a
sviluppi verticali, con altissimi piloni e archi a sesto acuto, fittissime
decorazioni e guglie (secoli XIII-XIV).
c) Scultura e pittura – Gran
parte delle sculture e delle pitture medievali ci è giunta anonima: non si
trattava del resto di opere autonome bensì, generalmente, di parti
dell’apparato decorativo del palazzo o della chiesa. Tra gli scultori di cui
resta traccia nella documentazione meritano di essere ricordati Wiligelmo, che fu attivo a Modena
all’inizio del secolo XII, e può essere considerato il caposcuola della
scultura romanica emiliana (rilievi con le Storie della Genesi e dei Profeti
sulla facciata del Duomo di Modena), e soprattutto Nicola Pisano e il figlio
Giovanni.
Nicola (attivo tra il 1248 e il 1284), probabilmente
di origini pugliesi, è l’artista che introduce il nuovo gusto gotico nel centro
Italia: opera soprattutto a Pisa, dove scolpisce i pulpiti del Battistero e del
Duomo, e a Perugia (Fontana maggiore).
Giovanni (circa 1245-1314) collabora
prima col padre a Pisa e Perugia, poi realizza in
proprio il pulpito di Sant’Andrea a Pistoia, quindi lavora come capomastro alla
fabbrica del Duomo di Siena, una delle grandi imprese scultoree
architettoniche del secondo Duecento.
Per quanto riguarda la pittura, l’età
pre-giottesca vede all’opera, in Toscana, due grandi
maestri. Il primo è Cimabue
(attivo nella seconda metà del sec.
XIII), che opera tra Firenze (Maestà oggi al Louvre,
Crocifisso di Santa Croce), Roma (dove esegue varie opere – tutte perdute – su
commissione di papa Niccolò III), Assisi (decorazione con scene tratte dalla
storia sacra della Basilica superiore) e Pisa (mosaico di San Giovanni
Evangelista in Duomo). Il secondo è il senese Duccio di Buoninsegna, che collabora col maestro Cimabue a Firenze (Maestà Rucellai) e
ad Assisi, ma opera soprattutto nella città natale (Maestà per l’altare
maggiore del Duomo).
d) Artisti polivalenti. Giotto e gli
inizi della pittura laica – I maggiori artisti riuniscono insieme, per
altro, competenze diverse: di costruttori, scultori, pittori. È il caso di Bonanno (tra l’XI e il XII sec.),
che progetta la torre di Pisa e
lavora ai portali bronzei della cattedrale;
di Benedetto Antelami (tra il XII
e il XIII sec.), architetto e scultore nel
duomo di Fidenza, nella chiesa di Sant’Andrea a
Vercelli e soprattutto in uno dei capolavori del gotico italiano, il battistero
di Parma; di Arnolfo di Cambio
(morto nel 1302), cui si attribuiscono i progetti di Santa Croce e Santa Maria
del Fiore a Firenze (1295-96) e a cui
si debbono alcuni tra i primi e più alti esempi di
scultura profana: la statua di Carlo d’Angiò ora in Campidoglio e
quella di Bonifacio VIII per il Duomo fiorentino; e infine e soprattutto
di Giotto (1266-1337), il quale,
oltre a progettare e avviare i lavori per il campanile di Santa Maria del
Fiore, rivoluzionò la pittura italiana ed europea con il grande ciclo di
affreschi per la Basilica di San Francesco ad Assisi e con quello altrettanto
grandioso per la cappella degli Scrovegni a Padova (1303-5).
Con Giotto e i suoi successori, la pittura
passa da uno stadio primitivo, influenzato dai modelli bizantini (le tavole di
questo periodo sono i cosiddetti fondi oro, perché le figure sacre, fortemente
stilizzate, galleggiano su una superficie dorata che non dà alcuna impressione
di realismo), ad una fase più matura: le vicende e i personaggi che troviamo
negli affreschi assisiati e padovani ci appaiono reali, sentimentalmente veri,
colti nella loro qualità individuali e non rappresi in tipi, così come accadeva
nella tradizione precedente. Questo sforzo di realismo avrà tra i suoi effetti
quello di aprire la strada ad un’arte non più legata soltanto ai temi
biblici o all’agiografia ma aperta alla cronaca
‘laica’.
Simone
Martini (Siena
1284 – Avignone 1344), allievo di Duccio, affianca alle pitture di
soggetto tradizionalmente religioso (affresco della Maestà nel Palazzo Pubblico
di Siena, 1315), opere su soggetto ‘civile’ (San Ludovico da Tolosa incorona
Roberto d’Angiò re di Napoli, 1317; il ritratto equestre di Guidoriccio da
Fogliano, 1328).
E alla fine degli anni Trenta del Trecento, Ambrogio Lorenzetti ci offre, nella Sala
dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena, il primo grande esempio di pittura
politica della tradizione italiana: gli affreschi con le Allegorie del buono e
del cattivo governo.
La lirica – Il panorama della lirica in Italia si
presenta assai diversificato e ricco di esperienze.
a) La poesia religiosa –
Entro confini più ristretti e con un’influenza decisamente minore sui futuri
sviluppi della lirica, rimane la poesia religiosa, anche se il sentimento
religioso nel Medioevo è all’origine di una vasta produzione letteraria che
ebbe i suoi centri nell’Italia settentrionale, specie in Lombardia, e ancor più
nell’Italia centrale, in Umbria. Dal XII secolo, col risvegliarsi di
un’aspettativa di rifondazione della Chiesa, si sentì l’esigenza di
accompagnare il culto non più col canto in latino, ma in volgare, a
testimonianza di una fede che si contrapponeva a quella espressa dalla liturgia
ufficiale. All’area umbra appartengono numerose «laudi» o lodi, cioè componimenti
in onore di Dio, della Vergine e dei Santi; e sempre umbri sono i maggiori
esponenti della poesia religiosa medioevale, come San Francesco d’Assisi e
Jacopone da Todi. Una prova del tutto eccezionale di poesia religiosa scritta
per la preghiera è il Cantico delle creature che San Francesco
d’Assisi [[19]] (1181-1226) compose in volgare umbro.
Il canto religioso andò progressivamente prendendo la forma della lauda, un
termine legato alle laudes (lodi) che si cantavano durante le
funzioni religiose. Questi componimenti venivano eseguiti da confraternite di
laici (laudantes) che accompagnarono la nascita di movimenti religiosi che, a
partire dal secolo XIII, furono espressione di una grande ondata di fervore
religioso soprattutto nelle zone dell’Italia centrale. Solo verso la fine del
Duecento le laudi cominciarono ad essere raccolte e trascritte a cura delle
varie confraternite, dando così inizio ad una tradizione che continuò e
s’ingrandì nei secoli XIV e XV, assumendo sempre più i caratteri della
rappresentazione teatrale (laudi teatrali, sacre rappresentazioni). Comune a
tutti i laudari è l’anonimato degli autori; unica eccezione il laudario di
Jacopone da Todi [20], una personalità poetica di notevole
rilievo per il quale la lauda è anche uno strumento di intervento nel dibattito
ideologico e religioso.
b) La poesia provenzale – In
primo piano c’è tuttavia una lirica di argomento amoroso. Nelle corti feudali
della Provenza, nel Sud della Francia, tra l’XI e il XII secolo, nacque una
produzione poetica molto omogenea, sia per i caratteri formali (tipi di versi
e di strofe, uso della rima, ecc.) sia per i temi. È poesia scritta in
lingua d’oc e profondamente legata all’ambiente della corte
dove trova il pubblico, gli argomenti e le ragioni della sua origine. Questa
poesia cortese, appunto da corte, è espressione di una nuova domanda di
letteratura che deve intrattenere ed insieme dare prestigio ai membri e allo
stile di vita della corte. L’abbandono della lingua latina e la scelta di temi
laici, in particolare di quello amoroso, sono novità che segnalano l’affiorare
dell’idea che la letteratura può avere un valore in sé, slegato dalle
finalità religiose e morali e che l’attività poetica può semplicemente
ricercare la bellezza e il piacere di chi l’ascolta. La figura del trovatore,
il poeta (da tobàr che in provenzale significa poetare), è
parte integrante della corte: molti sono aristocratici e feudatari come
Guglielmo IX d’Aquitania, altri sono di umili origini, ma la loro attività
poetica li eleva socialmente e spesso procura riconoscimenti o incarichi che
danno loro dignità e ricchezza.
La maggior parte dei testi dei trovatori
esprime un’originale concezione dell’amore che va sotto il nome di amor
cortese: questo termine riassume un ideale di vita esclusivo dell’ambiente
della corte. I protagonisti di questo particolare rapporto amoroso possono
essere soltanto la dama di corte (madonna) e il poeta (amante) che è tenuto ad
un atteggiamento di cortesia rivolto alla dama che è di totale ubbidienza,
vassallaggio, desiderio ed omaggio. L’amor cortese fu teorizzato ed
esaminato in un trattato assai famoso a quel tempo, il De amore(Sull’amore)
di Andrea Cappellano, che dettò le regole di comportamento e definì anche le
situazioni sentimentali degne di un vero cavaliere:
·
la gioia per il favore
accordato da madonna;
·
l’affinamento dei
valori della cortesia per rendersi degni dell’amore;
·
la tensione del desiderio
amoroso.
Tutto questo costituiva un vero e proprio
codice di comportamento (probabilmente poco rispettato nelle concrete
esperienze di vita) che valeva per la poesia. Possiamo dire che la lirica
cortese compì una mediazione tra il sentimento d’amore e la sua trasfigurazione
intellettuale attraverso un linguaggio letterario assai raffinato e selezionato,
basato su alcune parole-chiave e sull’esclusione dei termini non eleganti; la
lingua dei trovatori si presenta come un codice lirico, una lingua con regole
assai rigide e distante da quella parlata.
In Italia fra XIII e XIV secolo giunge a un
altissimo grado di elaborazione, dando vita al nucleo iniziale della tradizione
letteraria europea e italiana.
La poesia dei trovatori, nata nelle corti
della Francia meridionale, fu largamente conosciuta in Italia dove, nelle corti
del Nord, continuarono a poetare in lingua d’oc una quarantina
di trovatori che erano sfuggiti alla crociata contro gli Albigesi nel 1208.
c) La Scuola siciliana – La
poesia provenzale trovò imitatori soprattutto in Sicilia, a Palermo, sede della
corte di Federico II di Svevia, dove nacque la prima scuola poetica della
letteratura italiana. La corte di Federico era una corte
raffinata, intellettualmente assai evoluta ed aperta alle più diverse
esperienze culturali. Qui fiorì, sulla scia della poesia provenzale e
riflettendone i temi e le tecniche, la «Scuola siciliana» cui appartennero
poeti non solo siciliani, ma anche di altre parti d’Italia.
La poesia siciliana si sviluppò in un arco di
tempo piuttosto breve: nacque tra il 1220 e il 1230 con i componimenti di
Jacopo da Lentini (cui è attribuita l’invenzione del sonetto) ed ebbe fine col
crollo della potenza sveva in Italia (1266, battaglia di Benevento).
I protagonisti della Scuola erano prima di
tutto funzionari che svolgevano incarichi importanti: intellettuali che avevano
dignità e prestigio sociale, per i quali il poetare fu un modo di partecipare alla
rinascita culturale promossa da Federico. Fra loro, oltre allo stesso
imperatore Federico II ed ai figli Manfredi e Enzo, si ricordano Pier delle
Vigne, Jacopo da Lentini, Guido delle Colonne, Rinaldo d’Aquino, Odo delle
Colonne, Giacomino Pugliese.
La poesia della Scuola siciliana in linea di
massima ripete temi, situazioni, immagini della poesia provenzale cui guarda
come modello; e, come la poesia provenzale, è impegnata in difficili
ricerche tecniche, soprattutto metriche secondo un repertorio fisso di
situazioni e di immagini. Canta soprattutto l’amore e, in particolare, l’amore
cortese.
La lingua usata dai poeti della Scuola
siciliana è il dialetto siciliano affinato e depurato delle sue forme più
gergali e più locali, e arricchito di elementi latini e provenzali: Dante lo
definì «volgare illustre», per dire che questi poeti adottarono una base
costituita dal volgare siciliano parlato che poi nelle loro mani divenne uno
strumento alto, elaborato, arricchito dall’uso della conversazione dotta e
regolarizzato nelle forme grammaticali.
d) La scuola toscana –
Attraverso la mediazione dei poeti siciliani, ma anche per diretta conoscenza
dei testi francesi, la lirica cortese fece da modello alle esperienze che
maturarono in Toscana (poesia toscana) la cui novità, rispetto alla tradizione
siciliana, è costituita dalla presenza delle tematiche politiche, in relazione
con le lotte dei comuni.
La personalità di maggior rilievo fu Guittone
d’Arezzo (1230 ca.-1294) che s’impose come poeta, ma fu anche intellettuale e
uomo pubblico di parte guelfa. Accanto a Guittone vanno ricordati Chiaro
Davanzati e Bonagiunta Orbicciani.
La poesia toscana fu un punto di riferimento
per le decisive innovazioni dei poeti che, insieme con Dante, rappresentano il
cosiddetto stil novo.
e) Il «dolce stil novo» –
La più importante corrente poetica della seconda metà del Duecento fu la
scuola del «dolce stil novo». Di tale scuola viene considerato iniziatore il
bolognese Guido Guinizelli [[21]], ma essa si sviluppa soprattutto in
Firenze ad opera di un gruppo di giovani poeti, come Guido Cavalcanti [22], lo stesso Dante, Lapo Gianni, Gianni
Alfani, cui va aggiunto Cino da Pistoia, che erano fra loro legati da analogie
di gusto e da comuni esperienze culturali.
Nella loro poesia ricorrono alcuni temi:
·
la donna vi è
celebrata come una specie di creatura angelica che perfeziona colui che l’ama e
lo guida a Dio e riflette la viva religiosità dell’ambiente comunale;
·
l’amore è considerato
retaggio dei soli spiriti nobili, dove però nobiltà è intesa non come nobiltà
di nascita, ma come nobiltà interiore, conquista della moralità e
dell’intelligenza dei singoli; la nuova concezione di nobiltà è da mettere in
relazione con la vita politico-sociale del Comune, che era sorto sulle rovine
della nobiltà feudale;
·
la capacità che essi
dimostrano nel cogliere ed analizzare le emozioni, anche le più sottili,
dell’animo umano;
·
un linguaggio
raffinato, duttile, capace di esprimere tali sottili sfumature dello spirito.
Le espressioni popolaresche – Ai margini restano le esperienze, pur
interessanti, della poesia comico-realistica e della poesia giullaresca.
a) La poesia realistica –
è un tipo di poesia diffusa in Toscana fra Due e Trecento; essa si caratterizza
soprattutto per le scelte tematiche: l’aspirazione alla ricchezza, il desiderio
sessuale, l’imprecazione contro la povertà e la mala sorte, la maledizione
contro le donne brutte o contro gli avversari politici, il vituperio. Gli
strumenti espressivi di questa poesia appartengono al registro che la cultura
medievale definiva comico e contrapponeva a quello tragico e sublime un
registro che si associa al linguaggio mediocre e basso. Questi caratteri non
devono tuttavia far pensare a una poesia rozza; al contrario, il procedimento
della parodia, del rovesciamento di modelli alti, l’iperbole e la caricatura
dimostrano una notevole perizia tecnica. Anche poeti come Dante, Cavalcanti e
Guinizzelli scrissero poesie di questo tipo. Tra gli autori che si dedicarono
soprattutto alla poesia comico-realistica ricordiamo Cecco Angiolieri, Rustico
di Filippo e Folgore da S. Gimignano.
b) La poesia giullaresca fu
una produzione di livello modesto, rivolta a un pubblico popolare, spesso
anonima, che ebbe una trasmissione in parte orale e in parte scritta.
Solitamente sono testi legati a situazioni di festa, d’intrattenimento, di
spettacolo, che comportano una fruizione facile, rapida e piacevole. Essa fiorì
in quasi tutte le regioni d’Italia a opera di giullari che potevano essere
artisti di piazza, cantastorie, ma anche uomini in contatto con l’ambiente di
corte e detentori di una buona preparazione culturale.
La lirica nel Trecento – Nel Trecento ha inizio la tradizione
della poesia per musica. L’opera poetica di Dante e più ancora quella di
Petrarca dominano il Trecento la straordinaria altezza delle loro opere fa sì
che non vi siano poeti capaci di creare qualche cosa che oltrepassi
l’imitazione di questi due grandi.
Dante Alighieri – L’esistenza di Dante Alighieri è
strettamente legata agli avvenimenti della vita politica fiorentina. Alla sua
nascita, Firenze era in procinto di diventare la città più potente dell’Italia
centrale. A partire dal 1250, un governo comunale composto da borghesi ed
artigiani aveva messo fine alla supremazia della nobiltà e due anni più tardi
furono coniati i primi fiorini d’oro. Il conflitto tra guelfi, fedeli
all’autorità temporale dei papi, e ghibellini, difensori del primato politico
degli imperatori, divenne sempre più una guerra tra nobili e borghesi simile
alle guerre di supremazia tra città vicine o rivali. Alla nascita di Dante,
dopo la cacciata dei guelfi, la città era ormai da più di cinque anni nelle
mani dei ghibellini. Nel 1266, Firenze ritornò nelle mani dei guelfi e i
ghibellini vennero espulsi a loro volta.
La vita - Dante nacque a Firenze nel 1265 dalla famiglia degli
Alighieri, una famiglia di parte guelfa di modeste condizioni economiche, ma di
antica nobiltà. Fra i suoi antenati egli ricorda orgogliosamente nel Paradiso il
trisavolo Cacciaguida che, fatto cavaliere dall’imperatore Corrado III, morì
in Terrasanta, combattendo contro gli infedeli nella seconda Crociata
(1147-1149).
Ebbe l’educazione tipica, in quegli anni, dei
giovani delle buone famiglie fiorentine: studiò le discipline del Trivio(grammatica,
dialettica, retorica) e del Quadrivio (aritmetica, geometria,
musica, astronomia); ma ebbe anche, se pur saltuariamente, la guida ed il
consiglio di quell’uomo di eccezionale cultura enciclopedica che fu Brunetto
Latini, la cui figura di maestro egli eternerà nella Commedia (Inferno,
XV). Frequentò anche pittori e musicisti, quali il miniatore Oderisi
da Gubbio ed il cantore Casella, che pure saranno presenti nel poema (Purgatorio
XI e Purgatorio II). Cominciò presto a scrivere
versi e fece parte di quel colto e raffinato gruppo di giovani poeti che
diedero vita alla scuola del «dolce stil novo». Secondo le tecniche e gli
ideali di questa scuola compose le liriche della Vita nova,
ispirate al suo amore per una giovane donna fiorentina, Beatrice, e alcune
delle Rime. Ma contemporaneamente e successivamente tentò
anche sperimentazioni poetiche diverse per temi e per toni, aprendosi così la
via alla complessa orchestrazione della Commedia.
Nel frattempo, e specie dopo la morte di
Beatrice (1290), che aveva determinato in lui bisogno di meditazione e di
chiarificazione interiore, si dedicò allo studio della filosofia. Dava intanto
stabilità alla sua vita costruendosi una famiglia: sposò, non sappiamo bene in
che anno, Gemma Donati, dalla quale ebbe tre figli, Jacopo, Pietro e Antonia,
che, fattasi poi monaca col nome di Beatrice, visse in un convento di Ravenna e
fu così vicina al padre negli ultimi suoi anni.
Impegnato non solo culturalmente, ma anche
politicamente, Dante partecipò presto alla vita pubblica del suo Comune in cui,
cacciati fin dal 1266 i Ghibellini, dominava ormai incontrastata la fazione dei
Guelfi. Nel 1289 fu tra i cavalieri che combatterono nella battaglia di
Campaldino in cui Firenze e la lega guelfa sconfissero i ghibellini di Toscana,
e nello stesso anno fu presente alla resa del Castello di Caprona, strappato
dai Fiorentini ai Pisani. Ma la sua attività più propriamente politica ebbe
inizio nel 1295, dopo che potè iscriversi a una delle Arti, o
corporazioni dei lavoratori, condizione necessaria, dopo gli ordinamenti
democratici di Giano della Bella del 1293, perché un nobile potesse
fare politica militante. Poiché allora la medicina era considerata assai vicina
alla filosofia, Dante, come cultore di studi filosofici, si iscrisse all’Arte
dei medici e degli speziali. La vita politica fiorentina era in quegli anni
tumultuosa e lacerata da odi interni. I Guelfi erano divisi in due fazioni,
quella dei Neri, alla quale appartenevano la maggior parte dei nobili e la
parte più numerosa della borghesia mercantile, e quella dei Bianchi, cui
appartenevano invece poche famiglie aristocratiche, alcuni esponenti meno
influenti della borghesia ed il popolo minuto. La parte Nera era capeggiata
dalla famiglia dei Donati, la Bianca da quella dei Cerchi. Diverse
per composizione sociale e per interessi, le due fazioni erano in contrasto
anche per la politica estera: mentre i Neri si appoggiavano al Papa e agli
Angioini, signori dell’Italia meridionale e legati alla monarchia francese, i
Bianchi erano gelosi difensori dell’autonomia del Comune sia nei confronti
della Francia sia del Papa, il quale vantava e voleva far valere su Firenze
antichi diritti feudali.
Dante aderì alla parte Bianca, che allora
aveva in città la prevalenza, ed ebbe nel Comune molte cariche pubbliche fino
alla più alta, il Priorato: fu uno dei priori del trimestre giugno-agosto 1300.
Nell’esercizio del governo si comportò con moderazione ed imparzialità ed
esercitò una funzione equilibratrice fra le fazioni, di cui tentò di frenare
le contese non di rado cruente. In politica estera difese con intransigenza
l’autonomia del Comune contro il papa d’allora, Bonifacio VIII, che gli
divenne perciò acerrimo nemico, e che il Poeta bollerà nella Commedia come
traditore del messaggio di Cristo.
Fu proprio l’appoggio del Papa e della Francia
a consentire, in Firenze, il colpo di Stato che improvvisamente trasferì il
potere dalle mani dei Bianchi a quelle dei Neri nel 1301. Il rovesciamento
politico si attuò con violenze, uccisioni, saccheggi, cui seguirono, contro i
Bianchi vinti, processi illegali e sommari, accuse e condanne infamanti e
spesso ingiustificate. Dante in quei giorni non era a Firenze; era stato
mandato a Roma come ambasciatore dal governo Bianco per cercare di dissuadere
Bonifacio VIII dall’intervenire nelle faccende fiorentine. Accusato di
baratteria, cioè di uso privato di denaro pubblico, fu condannato in contumacia
a pagare un’ammenda, a due anni d’esilio, e all’interdizione perpetua dai
pubblici uffici; e gli fu intimato di presentarsi ai giudici per giustificare
il suo operato nel gennaio del 1302. Dante, sdegnosamente, non pagò l’ammenda e
non si presentò; seguì allora una seconda sentenza, il 10 marzo, che lo condannava
al rogo se fosse stato preso nel territorio del Comune.
La sentenza apriva per Dante il periodo
dell’esilio, un’esperienza da cui fu segnata la sua vita e la sua opera.
Nel Convivio, parlando della sua esistenza di esule, egli si
rappresenta come una nave allo sbando, senza vela e senza governo (=
timone), spinta dal vento freddo della povertà. E nel Paradiso dichiara
di aver provato
come sa di sale
lo pane altrui, e
com’è duro calle
lo scendere e il salir
per l’altrui scale.
Benché la sua cultura e la sua fama gli
aprissero le porte di molte corti italiane, egli sentiva come dolorosa
umiliazione il fatto stesso di dover chiedere ed accettare ospitalità: al che
si aggiungeva la nostalgia per la patria e le persone care perdute ed il
risentimento amaro per l’ingiustizia sofferta. Unici conforti erano per lui la
consapevolezza della propria innocenza, l’orgoglioso senso della propria
superiorità nei confronti di coloro che lo avevano bandito, e la passione
culturale e letteraria da cui nacquero le sue opere che, ad eccezione
della Vita nova e di alcune Rime, furono
tutte composte durante l’esilio.
Numerose furono le sue peregrinazioni per
l’Italia, «per le parti tutte – come egli dice – alle quali
questa lingua[l’italiano] si stende». Fra le tappe più
importanti ricordiamo il soggiorno a Verona presso gli Scaligeri, in Lunigiana
presso i Malaspina, e quello finale a Ravenna presso i Polentani.
Le sue ricorrenti speranze di ritorno in
patria andarono sempre frustrate. Subito dopo l’esilio aveva creduto, con gli
altri Bianchi esuli, di poter tornare in Firenze con le armi; ma l’inettitudine
dei suoi compagni e le loro interne discordie trasformarono il tentativo in una
sconfitta sanguinosa. Di nuovo le sue speranze si riaccesero alla venuta in
Italia dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo nel 1311, che Dante sperava
avrebbe messo fine alle interne lotte dei Comuni e quindi anche di Firenze,
aprendogli la strada del ritorno. Ma fu speranza che svanì con la morte
improvvisa di Arrigo nel 1313. Né egli volle accettare dai Fiorentini amnistie
e condoni che implicassero ammissioni di colpevolezza e quindi fossero lesive
della sua dignità. «Non è questa la via per ritornare in patria –
scriveva nel 1315 a un amico di Firenze che gli aveva rese note le
condizioni umilianti di un decreto che gli avrebbe consentito il ritorno
– ma se ne sarà trovata un’altra, da voi o, poi, da altri, che non
offenda la fama e l’onore di Dante, per quella mi metterò con passi non lenti;
ma se non si può entrare in Firenze per una strada siffatta, io non c’entrerò
mai».
Si illuse invece fino all’ultimo, con ostinata
speranza, che i Fiorentini potessero richiamarlo onorevolmente in città in
virtù della sua grandezza di studioso e di poeta. Era una speranza che, verso
la fine della composizione delParadiso, quando ormai la morte non
era lontana, affidava alla sua Commedia, il «poema sacro»,
rivivendo il dramma della sua innocenza calunniata dagli avversari, quasi di
agnello perseguitato dai lupi:
Se mai continga che ‘1
poema sacro
al quale ha posto mano
e ciclo e terra,
sì che m’ha fatto per
più anni macro
vinca la crudeltà che
fuor mi serra
del bello ovile ov’io
dormì agnello,
nemico ai lupi che li
danno guerra.
(Paradiso XXV).
Morì in esilio, a Ravenna,
nel 1321.
Le opere – La sua attività di studioso e di poeta si concretò nella
vastissima produzione che ebbe il momento culminante e conclusivo nella
grandiosa costruzione della Commedia, alla quale fecero da
preparazione e da supporto le meditazioni e le sperimentazioni precedenti,
documentate dalle cosiddette opere minori. Nella giovinezza ed
all’incirca fra il 1283 e il 1292 compose numerose liriche di tipo stilnovista
in onore di una donna amata, una Beatrice, forse figlia di Folco Portinari, che
andò sposa a Simone dei Bardi e morì nel 1290 in giovanissima età.
a) La Vita nova – Raccolte
insieme e intervallate da prose che ne illustravano l’origine e il
significato, queste liriche costituirono il libretto La vita nova, storia
di un amore adolescenziale, coi suoi turbamenti e tremori, ma anche analisi
attenta e sottile dei moti suscitati nell’animo dall’amore.
Nell’operetta, secondo i moduli dello
Stilnovo, la figura di Beatrice si traduce in quella ideale della donna-angelo
che guida l’uomo verso il bene e la cui perdita è fonte di ottenebramento e di
offuscamento morale. Dante racconta il suo primo incontro con Beatrice all’età
di nove anni. Il secondo incontro avvenne nove anni dopo e Dante se ne innamora
perdutamente. Dante, per non far intendere il suo amore nei confronti di
Beatrice, finge di essere innamorato di altre due donne e per questo motivo
Beatrice gli toglie il saluto. Dante soffre per questi mancati saluti di
Beatrice. In seguito Dante prende coraggio e esterna il suo sentimento verso
Beatrice, ma fu deriso da Beatrice e da altre donne. Il passaggio importante
dell’opera è la morte del padre di Beatrice.
Nella stessa notte gli apparve in sogno una
visione che si avvererà con la morte di Beatrice. L’opera finisce che Dante
spiega che egli non scriverà più su Beatrice finché non le dirà tutti i suoi
sentimenti che ha provato per lei.
b) le Rime – Parte
scritte a Firenze e parte in esilio, le Rime coprono quasi
l’intero arco della vita di Dante.
Esse testimoniano le successive e varie
sperimentazioni tecniche del poeta che, tentando argomenti diversi, andava
progressivamente costruendosi un linguaggio articolato e polimorfo, dal
delicato e tenue, al violentemente passionale, al plebeo, al rigorosamente
logico, preparandosi alla polifonia tematica e tonale della Commedia.
Nelle Rime, a delicati
componimenti di tipo stilnovistico, si affiancano, infatti, le canzoni di
selvaggia e terrena passionalità per una certa Petra (Rime petrose), una tenzone (o
scambio di componimenti a botta e risposta) plebea con l’amico Forese Donati,
liriche di argomento etico e filosofico, come la famosa canzone Tre
donne intorno al cor.
c) Il Convivio – Fra il 1304
e il 1307, già in esilio, Dante componeva il Convivio, specie
di enciclopedia del sapere contemporaneo, costituita da canzoni e da trattati
in prosa illustrativi e rimasto incompiuto.
L’opera è scritta in volgare perché al convito, o
banchetto di cultura, potessero partecipare anche coloro che non conoscevano
il latino. L’opera è composta da un prologo e da tre trattati.
Il prologo racconta il piano
dell’opera e la motivazione della sua formazione.
Il primo trattato parla del volgare e
dell’importanza che potrà avere nel futuro della letteratura.
Il secondo trattato espone i quattro sensi
della scrittura: quello letterale, che comprendere il testo in
senso letterale, quello allegorico, ossia una verità superiore
a quella letterale, quello morale è la conseguenza di quello
allegorico, quello anagogico il sovrasenso spirituale.
Il terzo trattato è una lode alla filosofia e
alla natura dell’uomo. Il quarto trattato racconta della vera nobiltà come
virtù morale.
d) Il De vulgari eloquentia –
Sempre degli anni fra il 1304 e il 1307 è il De vulgari eloquentia, anch’esso
rimasto incompiuto, in cui Dante affronta il problema della lingua italiana e
cerca di delineare le caratteristiche di un volgare che superi le differenze
dei dialetti regionali e possa diventare la lingua colta comune a tutti gli
scrittori e poeti della penisola.
e) Il De Monarchia – Legata
alla venuta di Arrigo VII in Italia ed alle speranze suscitate in Dante da tale
avvenimento è la Monarchia, un trattato politico in latino in
cui il poeta delinea i caratteri e le funzioni dell’Impero, e, con modernità di
vedute, il rapporto che deve intercorrere fra potere spirituale e temporale.
L’opera è divisa in tre libri: il primo libro
racconta che soltanto attraverso una monarchia universale l’uomo potrà arrivare
alla sua massima capacità intellettuale; il secondo libro racconta che i romani
sono arrivati alla massima estensione non attraverso le armi, ma attraverso la
provvidenza; il terzo libro racconta che Dante divide in due poteri l’Impero e
il Papato, dicendo che entrambi i poteri sono stati donati da Dio e quindi non
devono essere la stessa persona. Ma l’Impero deve stare sempre al dì sotto del
Papato, cioè di Dio.
f) Le Epistole – Altre opere
del periodo dell’esilio sono le Epistole, in latino, fra le
quali si ricordano quelle composte in occasione della discesa in Italia di Arrigo
VII per affiancare con l’esortazione e col consiglio la missione
dell’imperatore; e quella all’amico fiorentino a proposito dell’umiliante
decreto di amnistia.
g) Le Egloghe – Nelle Egloghe, in
latino, Dante difende l’uso del volgare nella Commedia. Una
importante egloga è quella in cui Giovanni del Virgilio diceva a Dante di
abbandonare la trascrizione dell’Inferno e del Purgatorio e doveva scrivere
un’opera in latino per arrivare alla corona di alloro a Bologna. Dante rispose
che egli avrebbe terminato l’Inferno, il Purgatorio e avrebbe scritto anche il
Paradiso e solo in fine sarebbe andato alla conquista della corona di alloro.
h) La Quaestio de aqua et terra –
La Quaestio de aqua et terra è un trattatello scientifico in cui
Dante trascrive una questione cosmologica discussa da Dante
a Verona il 20 gennaio 1320 nella Chiesa di Sant'Elena se la terra
emersa sia più alta o no della superficie dell'acqua. Era luogo comune seguito
anche da Dante che il globo terracqueo fosse al centro dell'universo e che il
centro della sfera celeste coincidesse con il centro del medesimo. Dante
ritiene che la terra emersa è dovunque più alta della superficie del mare ed
emerge da essa nell'emisfero boreale con una gibbosità a forma di semilunio che
dovrebbe coincidere con le terre allora conosciute.
Il trattato si struttura come una vera e
propria quaestio disputata universitaria nella quale dapprima si
accolgono le tesi concorrenti, poi si oppone la propria, quindi si discute il
problema nella sua essenza e infine si risponde punto per punto alle
argomentazioni degli antagonisti.
La Commedia – Nel 1307 Dante aveva iniziato la
composizione della Commedia che era appena stata portata a
termine nel 1321, anno della sua morte. La Divina Commedia consta,
di tre cantiche, 1’Inferno, il Purgatorio, ilParadiso. Ognuna
di esse è costituita da 33 canti, più un canto iniziale che fa da introduzione
generale al poema, così che esso raggiunge il numero complessivo di 100 canti.
Il metro è la terzina di endecasillabi (rima
ABA - BCB ecc).
Vi ricorrono visibilmente alcuni numeri che
per i medioevali avevano un particolare significato: il 3 simbolo della
Trinità, il 10 simbolo della perfezione, e i loro multipli.
Il titolo di Commedia sta ad
indicare che la vicenda in essa rappresentata si conclude con un lieto finale;
ma deriva anche dal fatto che Dante la volle scritta nello stile che egli
definiva comico, cioè uno stile mediano che consentiva una
ricca varietà di toni, dall’umile e dal venatamente rozzo, al nobile e
all’elevato, attraverso tutte le gamme intermedie. L’epiteto di divina fu
attribuito all’opera dantesca dal Boccaccio e divenne poi parte integrante del
titolo.
a) La struttura dell’universo e la
collocazione dell’Oltremondo dantesco - La
struttura del mondo secondo Dante, che si adegua in ciò alle diffuse
convinzioni medioevali, è la seguente. Al centro dell’universo, sospesa
nell’aria, sta la terra, una sfera immobile che l’equatore divide in due
emisferi, quello boreale abitato dagli uomini, quello australe interamente
coperto dalle acque. La terra è contornata dalla sfera dell’aria e dalla sfera
del fuoco, e poi da nove cicli concentrici e trasparenti che le ruotano
attorno. In questa struttura cosmologica Dante ha collocato concretamente il
suo Aldilà: Inferno, Purgatorio, Paradiso.
L’Inferno è una grande voragine
che si apre a forma di imbuto proprio accanto a Gerusalemme, e si estende,
restringendosi progressivamente, fino al centro della terra. Essa si è
spalancata quando Lucifero è stato cacciato dal Paradiso e la terra su cui è
precipitato si è aperta per orrore del suo contatto. In fondo all’Inferno, nel
centro della terra, Lucifero è rimasto conficcato. L’Inferno è diviso in
cerchi dove sono collocati i dannati, tanto più in basso quanto maggiore è la
gravita della loro colpa. Preceduti dagli ignavi, cioè da
coloro che nel mondo non hanno fatto né bene né male e che occupano
l’Antinferno, essi sono distinti in tre categorie, e cioè, dall’alto al basso,
gli incontinenti, cioè coloro che non hanno saputo controllare
i propri istinti con la ragione, i violenti, i fraudolenti. A
queste tre categorie, presenti in San Tommaso, che a sua volta le aveva
derivate da Aristotele, si aggiungono coloro che, non per loro colpa, non hanno
conosciuto Dio, e che stanno nel Limbo, e gli eretici, che
coscientemente hanno rifiutato Dio. Il limbo costituisce il primo cerchio, gli
eretici sono collocati nel sesto cerchio, che precede la sede infernale dei
violenti e dei fraudolenti.
Il Purgatorio è una montagna
che, altissima in mezzo alla sterminata distesa delle acque, si erge al centro
dell’emisfero boreale, agli antipodi dell’apertura dell’Inferno. La montagna
del Purgatorio è a sua volta divisa in tre parti: le sue pendici più basse
costituiscono l’Antipurgatorio, dove aspettano di iniziare
l’espiazione le anime di coloro che si pentirono solo in punto di morte; segue
il Purgatorio vero e proprio diviso in sette balze
corrispondenti ai sette peccati capitali; sulla cima del monte è collocato
il Paradiso terrestre.
Il Paradiso ha la sua sede
nell’Empireo, che sta al di là dei nove cieli rotanti. In esso stanno Dio, la
Vergine, gli angeli e i beati. Ma Dante immagina che, durante il suo viaggio,
le anime dei beati prendano temporaneamente dimora nei nove cieli perché egli,
dalla loro maggiore o minore vicinanza all’Empireo, possa rendersi conto del
loro maggiore o minore grado di beatitudine.
b) Il viaggio dantesco: significato
letterale e significato allegorico - Il poeta immagina di
essersi smarrito, nella notte tra il giovedì e il venerdì Santo del 1300, anno
del Giubileo indetto da papa Bonifacio VIII, in una selva oscura. Preso da
terrore, cerca di uscirne, e crede di potersi salvare salendo su di un monte
che ad un tratto gli appare, e che è illuminato dalla luce del sole. Ma tre
fiere, una lonza, un leone e una lupa, gli impediscono il cammino, ed egli
riprecipita a valle, nell’oscurità della selva. Quando ormai si crede perduto,
è soccorso dal poeta latino Virgilio, a lui mandato da Beatrice, che dal
Paradiso, dove ormai si trova, vuole soccorrerlo. Virgilio lo ammonisce che,
per uscire dalla selva, dovrà compiere un cammino ben più lungo e arduo che non
l’ascesa al monte: dovrà cioè discendere nell’Inferno, salire le balze del
Purgatorio; e solo allora potrà giungere alla salvezza, cioè a Dio.
Come si vede, il significato letterale si
intreccia strettamente fin dall’inizio col significato allegorico. La selva
oscura rappresenta la dispersione spirituale, cui si abbandonò Dante dopo la
morte di Beatrice; le tre fiere rappresentano i vizi (lussuria, superbia,
avarizia) da cui non è facile all’uomo liberarsi; il viaggio per l’Inferno e
per il Purgatorio rappresenta la riflessione sulle conseguenze del peccato,
riflessione che, con l’aiuto della grazia, può consentire all’uomo di salvarsi.
Il poeta Virgilio e Beatrice fanno da guida a
Dante nel suo viaggio ultraterreno. Virgilio rappresenta la ragione umana,
grazie alla quale l’uomo si rende conto delle conseguenze del suo cattivo
operare; ma rappresenta anche, in quanto celebratore nell’Eneide dell’impero
romano, il potere imperiale. Beatrice, la donna angelicata della Vita
nova, qui rappresenta la grazia divina e la teologia depositaria della
rivelazione, che subentra alla ragione là dove questa non può arrivare; ma
rappresenta anche la Chiesa, l’istituzione cioè che, insieme all’Impero, può
portare alla salvezza l’umanità, se l’una e l’altro, concordemente e
autonomamente, agiranno nell’ambito che loro spetta. Il valore simbolico che le
due guide assumono nella Commedia non toglie loro ricchezza
d’umanità. Nel difficile percorso attraverso l’Inferno e il Purgatorio,
Virgilio è per Dante l’amico, il padre, il maestro severo e affettuoso; e
Beatrice, che sostituisce Virgilio nel guidare Dante attraverso il Paradiso, è
animata da caldo affetto e da trepidazione femminile.
Il viaggio dantesco nell’Oltremondo dura sette
giorni, dalla notte fra il 7 e l’8 aprile al pomeriggio del 14 aprile del 1300.
Guidato da Virgilio il poeta scende, percorrendo i cerchi infernali, fino al
centro della Terra. Di qui, per un passaggio interno all’emisfero australe,
perviene alla montagna del Purgatorio, sulla cui cima, nel Paradiso terrestre,
lo aspetta Beatrice. Guardando negli occhi di lei, in virtù della bellezza e
della forza morale e conoscitiva che da essi promanano, il poeta, salendo di
cielo in cielo, giunge infine all’Empireo, sede di Dio.
c) Caratteri delle tre Cantiche -
Pur caratterizzata da salda compattezza unitaria, da organicità strutturale,
la Commedia presenta caratteri diversi nelle tre cantiche.
L’Inferno è il regno dove dominano
le individualità potenti, che si ergono con eccezionale rilievo davanti al
poeta che le interroga. Esse sono ancora psicologicamente legate alla terra,
che è il luogo della loro felicità perduta, e sono ancora dominate dalle passioni
che sulla terra le segnarono in modo particolare: Francesca da Rimini
dall’amore, Farinata dall’ardore politico, Brunetto Latini dalla solidarietà
col discepolo e dalla sollecitudine per la propria opera di studioso, Pier
delle Vigne dalla sua lealtà verso l’imperatore, Ugolino dall’odio contro il
nemico che ha sterminata la sua famiglia, Ulisse dall’ansia di conoscenza, ecc.
Bloccate nelle loro passioni, esse appaiono
anche isolate dalle altre anime; rari sono i loro rapporti con i compagni di
pena; e, se rapporto vi è, è per lo più di disprezzo e di odio.
Questi grandi personaggi, che sembrano a volte
persino insensibili alla pena cui sono condannati, sono più numerosi nella
parte più alta dell’Inferno; nel fondo del baratro infernale, pur con alcune
eccezioni, prevale invece una brulicante moltitudine di esseri che, come nulla
ebbero di magnanimo in vita, così nulla hanno dopo morte che dia loro qualche
grandezza anche nel male.
Nel Purgatorio le personalità
sono più sfumate; nelle anime i sentimenti e gli affetti terreni non levano più
alta la loro voce, e si traducono piuttosto in ricordo nostalgico, quasi mai
doloroso, poiché esse sono consolate dal pensiero della beatitudine eterna che
le attende. Legate fra loro dalla comune confortante aspettativa e permeate di
comunecaritas cristiana, si muovono coralmente, a gruppi. E corali
sono i canti di preghiera che esse levano a Dio e nei quali amorevolmente includono
anche il ricordo dei viventi, ancora soggetti all’errore.
Nel Paradiso, infine, le
anime sono tutte accomunate nella beatitudine del possesso di Dio. Scompare
anche fisicamente la loro fisionomia terrena: se si eccettuano le anime del
primo Cielo in cui, se pur sfuocati, sono visibili i lineamenti dei loro volti,
negli altri Cicli esse si presentano come luci; e la diversa intensità del
fulgore che le avvolge e le nasconde è indice del loro diverso grado di
beatitudine.
Tuttavia la terra, che Dante sente così
lontana colle sue laceranti passioni, «l’aiola che ne fa tanto feroci», penetra
anche in questo regno: come valutazione che orienti moralmente la vita
terrena, come giudizio che ristabilisca la giustizia violata sulla terra. Sono
particolarmente significativi in questo senso la invettiva di San Pietro contro
la corruzione degli ecclesiastici, e i tre canti centrali del Paradiso,
il XV, XVI, XVII, in cui Dante rivive con intensità emotiva e
grande espressività poetica l’amara vicenda del suo esilio.
d) Il «paesaggio» nei tre regni - Come
diversa è, nei tre regni, la natura delle anime, così è diverso lo sfondo su
cui sono collocate.
Oscura e cupa è l’atmosfera infernale, dove
non penetra mai la luce del sole, «lo dolce lome»; nei vari gironi, di volta in
volta, cade spietatamente una pioggia sudicia e gelida, o sibila una violenta
bufera, o il ghiaccio chiude i dannati nella sua morsa, o l’oscurità è
sinistramente illuminata dai bagliori del fuoco punitore. Gli aspetti della
natura vi si manifestano in forma abnorme: un fiume di sangue, un bosco in cui
le piante sono anime, e quando viene reciso un ramoscello ne esce non linfa
vitale ma sangue. E le voci che percorrono questo regno sono lamenti o
invettive. Custodi dell’Inferno sono, accanto ai diavoli della
tradizione cristiana, i demoni della tradizione classica (Caronte e Cerbero); o
figure della mitologia classica qui assunte in funzione demoniaca, come
Minosse, i Centauri, i Giganti.
Nel Purgatorio trionfa invece
la natura in tutto il suo fascino. È un paesaggio di acque (il tremolar
della marina) e di montagna, illuminato dalla luce solare, e dove le
notti sono confortate dallo splendore delle costellazioni. Sulla cima del
monte, nel Paradiso terrestre, il paesaggio si fa poi verde e irriguo; vi si
stende una fìtta foresta, «la divina foresta spessa e viva», costellata di
fiori e percorsa da due fiumi. Custodi di questo regno, che risuona dei canti
dei penitenti, sono gli angeli, vestiti ora di verde ora di bianco.
Il Paradiso poi è tutto
musica e fulgore di luce. Luminosi sono i nove cieli della concezione
tolemaica, sui quali le anime, luce esse stesse, appaiono come gemme
incastonate in preziosi monili; musicale è il movimento dei cieli rotanti. E
tutto splendore di luce è l’Empireo, sede di Dio e della Corte beata.
e) La legge del «contrappasso» - Nell’Inferno e
nel Purgatorio le pene delle anime sono stabilite secondo la
legge del contrappasso, per cui il tipo della pena corrisponde
a quello della colpa. Il contrappasso può realizzarsi per
somiglianza o per contrasto. Il primo caso, ad
esempio, si verifica per la pena dei lussuriosi che, travolti in vita dalla
bufera della passione, sono qui sbattuti dalla «bufera infernal che mai
non resta». Esempio del secondo caso è la pena dei golosi che, amanti
in vita dei cibi raffinati, sono qui costretti ad ingozzare una sudicia broda
di acqua e di fango.
f) Dante, vero protagonista della
«Commedia» - Numerosissimi sono i personaggi che Dante
incontra nel suo viaggio, che interroga e dai quali ottiene risposte. È una
galleria articolata di figure che popolano i tre regni; e certo ognuna di esse
ha una vita e una fisionomia sua ed autonoma. Ma, anche, attraverso tali
personaggi, Dante esprime molti aspetti della propria personalità; anzi egli,
nella sua opera, è sempre presente con i suoi sentimenti, con i suoi dubbi, con
le sue speranze, le sue delusioni e i suoi ideali. Per questo è stato
giustamente detto che il vero protagonista della Commedia è
Dante nella sua complessa e mossa personalità.
Significato e valore della cultura dantesca
- Risulta evidente dalla
biografia di Dante la vastità della sua cultura, che spazia nelle più svariate
discipline e trova alimento nelle diverse epoche storiche, da quella classica
e pagana, almeno nei modi e nella misura in cui questa poteva essere recepita e
accolta nel Medio Evo, a quella cristiana e romanza: da Aristotele a San
Tommaso, da Virgilio, Orazio, Lucano ai trovatori provenzali e ai poeti
italiani più vicini.
Ma l’importanza della cultura dantesca non sta
tanto nel suo carattere vastamente enciclopedico, carattere del resto comune al
mondo medioevale, ma nel fatto che essa non è mai passivo apprendimento, ma è
diretta alla soluzione di problemi, siano essi religiosi, morali, politici o
letterari.
Diventa in tal modo attiva passione culturale;
e proprio per questa ragione può fare da supporto, specie nella Commedia, alla poesia dantesca, che
dalla cultura riceve stimoli e di essa si arricchisce come di nutrimento
vitale.
Il pensiero politico di Dante - Dante era convinto che l’Impero fosse la
sola struttura politica capace di portare e mantenere la pace nel mondo.
Essendo esso, come già l’Impero romano, un potere universale, e come tale in
grado di controllare le varie strutture politiche particolari (Stati e Comuni)
affermatesi al suo interno, l’Impero, nel pensiero dantesco, aveva la
possibilità di porre fine alle contese e alle guerre che laceravano le sue
province.
Era questa, in realtà, una visione generosa,
ma utopistica, e anche anacronistica, perché ormai l’autorità imperiale era al
declino, ed era accettata solo formalmente da coloro che in teoria avrebbero
dovuto considerarsi suoi sudditi: ne è un esempio il fallimento dell’impresa di
Arrigo VII che si vede coalizzati contro di sé i Comuni italiani. L’Impero
vagheggiato da Dante, qualunque fosse il Paese di origine dell’imperatore,
doveva considerarsi romano in quanto erede dell’Impero romano, e avere in Roma
il suo centro e la sua vera capitale.
Se il sogno di un forte impero universale era
il frutto dell’anelito dantesco all’instaurazione di un pacifico ordine nel
mondo, il Comune, Firenze, era stato per Dante il campo del suo concreto
operare e delle sue impetuose passioni politiche, rimaste ben vive anche dopo
l’esilio e tradotte poeticamente nella Commedia in figure ed
episodi: nella predizione di Ciacco sul futuro destino di Firenze, nella
generosa figura di Farinata degli liberti, nella condanna che Brunetto Latini
pronuncia contro i molti fiorentini rozzi e corrotti che opprimono una
minoranza onesta e scelta, nelle invettive contro le nuove classi arricchite
che hanno alterato l’antico equilibrio sociale. E, in contrasto con la Firenze
dei suoi tempi, Dante rievoca, nel nostalgico canto XV del Paradiso, la
Firenze di tre generazioni precedenti, la Firenze «dentro della cerchia
antica», in cui la vita comunale si svolgeva misurata e serena, senza ambizioni
smodate e senza lotte di fazioni; e non vi erano proscrizioni né esili, così
che ognuno sapeva dove sarebbe stato sepolto.
Quanto all’Italia, Dante la riconosce
ripetutamente come entità unitaria territoriale e linguistica (il «bel paese là
dove il sì suona»), ma non le attribuisce autonoma consistenza politica.
L’Italia è per lui una provincia dell’Impero, certo la più bella delle sue
province, «il giardin dell’imperio», e anche la più nobile, in quanto in essa
si trova Roma.
Dante attribuisce la corruzione del mondo
all’incapacità dell’imperatore a reggerlo con autorità ed equità. Ma a sua
volta, causa della debolezza dell’Impero è l’arbitraria ingerenza della Chiesa
nell’ambito politico. Assumendo funzioni che sono di spettanza del potere
imperiale, i papi «politici», che dimenticano l’insegnamento evangelico «Date
a Cesare quel che è di Cesare», accumulano in sé i due poteri, quello temporale
simboleggiato dalla spada, e quello spirituale simboleggiato
dal pastorale; di conseguenza i due poteri, così uniti, non
possono più esercitare l’uno sull’altro un reciproco salutare controllo. Da
tale situazione deriva evidente danno all’Impero, che rimane esautorato di ogni
potere; ma danno non meno grave ne viene alla Chiesa, che si mondanizza e,
perseguendo ambizioni terrene di potere, dimentica la funzione spirituale che
Dio le ha assegnato.
La salvezza delle due grandi istituzioni
universali, Impero e Chiesa, e soprattutto la salvezza del mondo, poggia, nel
pensiero dantesco, sulla autonomia reciproca del potere spirituale e del potere
temporale: spetta all’Imperatore guidare gli uomini alla instaurazione della
giustizia e della pace terrena; spetta al Papa guidarli alla salvezza
spirituale. Queste conclusioni, esposte sistematicamente nella Monarchia, sono
proposte con calda passione, e si traducono in poesia, in molti passi
della Commedia. Ad esse si collegano, nel poema, le violente
invettive contro Bonifacio VIII, il papa politico per eccellenza, invettive
che culminano nel Paradiso con la condanna scagliata da San
Pietro contro i prelati avidi di potere, lontani dal vero insegnamento di
Cristo.
Il latino «lingua regina» e il volgare «sole
nuovo» -Vissuto in un periodo
in cui il latino continuava ad essere la lingua della cultura e degli studi
ufficiali, mentre il volgare, la lingua emergente, si andava costruendo
nell’uso quotidiano e nelle sperimentazioni poetiche, Dante è uno dei primi ad
affrontare il problema della lingua italiana nella sua genesi e nelle sue
implicazioni.
La lingua regina, egli dice con immagine
tipica del suo tempo, è il latino, in quanto è lingua stabile, fissa,
codificata nella grammatica e nella sintassi. Ma, con spirito proiettato verso
il futuro, egli si rende conto che la nuova società, lontana ormai nel tempo e
nello spirito da quella latina, con nuovi interessi, nuova sensibilità, nuovi
problemi, esige, per esprimere se stessa, una nuova lingua che da lei e in lei
si generi e si evolva: e questa non può essere che il volgare, definito
nel Convivio «sole nuovo», destinato a prevalere sull’altro
sole, il latino, che tramonterà.
Secondo Dante il volgare non deve essere solo
la lingua degli affetti privati, la lingua - come dice nel Convivio - in
cui suo padre e sua madre si sono conosciuti e parlati, e che perciò ha in
qualche modo presieduto alla sua nascita; ma deve diventare l’aristocratico
strumento espressivo, il «volgare illustre», comune a tutti i poeti italiani; e
può essere anche la lingua della cultura e della scienza, quando cultura e
scienza cessino di essere strumento elitario, di pochi, e diventino un bene
diffuso ai molti. Per questa ragione, staccandosi dall’uso del suo tempo, egli
scrive in volgare la sua «summa» di sapere, il Convivio.
Francesco Petrarca – Poeta di raffinata sapienza
formale, con il suo Canzoniere tocca i vertici della lirica europea ed
eserciterà una profonda influenza sulla poesia in Italia e in Europa. Il
petrarchismo si affermerà come modello imitativo e come scuola fino a tutto il
Settecento, e il rapporto con Petrarca resterà sempre un passaggio obbligato
per chi intende il linguaggio poetico come strumento di scavo
interiore.
La sua concezione della cultura, in cui ha un posto decisivo il rapporto con i
classici latini, e il suo atteggiamento intellettuale, così pieno di curiosità
e inquietudine, ne fanno un grande precursore dell'umanesimo.
La vita – Petrarca nacque ad Arezzo nel 1304 da
famiglia fiorentina di parte Bianca, che era stata costretta all’esilio dopo
il trionfo dei Neri nella città. Il padre, ser Petracco, nel 1312 lasciò
l’Italia per Avignone, in Provenza, dal 1308 sede del papato, e che di
conseguenza era diventata un centro ricco di attività e di traffici che offriva
buone possibilità di lavoro; ser Petracco, infatti, divenne notaio presso la
Corte papale.
Francesco, insieme col fratello Gherardo, dopo
aver appreso i primi rudimenti di grammatica e di retorica con Convenevole da
Prato a Carpentras, vicino ad Avignone, dove la famiglia si era stabilita, fu
avviato allo studio del diritto a Montpellier, frequentando la facoltà delle
arti che era un inizio di formazione per gli studenti di qualunque ambito;
passò poi, nel 1320, all’Università di Bologna, università giuridica per
eccellenza, dove convenivano discepoli da tutta Europa. Ma gli studi di diritto
non erano congeniali a Petrarca, che ad essi preferiva quelli di letteratura e
di poesia.
Petrarca fu allievo di Convenevole da Prato
maestro di Niccolò da Prato, cardinale che aveva cercato di mettere pace tra
guelfi bianchi e neri a Firenze; e in seguito compì gli studi universitari a
Monpellier in Provenza.
Dal 1320 insieme a Gherardo, fu inviato
a Bologna per studiare diritto civile: qui venne per la prima
volta in contatto con la tradizione poetica italiana.
Tornato ad Avignone dopo la morte del padre
(1326), vi trascorse alcuni anni di vita brillante e mondana.
Fu in questo periodo, nel 1327, che conobbe la
donna che sarebbe stata l’amore tenace e irrealizzabile di tutta la sua vita e
che avrebbe avuto tanta parte nella sua opera: una giovane signora avignonese
che gli studiosi hanno creduto di poter identificare con una Laura de Noves,
maritata a Ugo de Sade.
Intorno al 1330, consumato il modesto
patrimonio paterno, Petrarca aveva intanto assunto gli ordini minori
ecclesiastici, non per fervore religioso, ma, come spesso avveniva allora, per
ottenere una dignitosa sistemazione economica. Entrò al servizio del cardinale
Giovanni Colonna che gli fu – come dice lo stesso Petrarca – quasi fratello e
padre più che padrone, e si valse di lui per incarichi congeniali alle sue
attitudini e alla sua cultura.
Fra il 1333 e il 1337 compì, per studio e per
diletto, una serie dì viaggi per l’Europa: nella Francia settentrionale, nelle
Fiandre, in Germania e infine in Italia, dove Roma lo colpì col fascino delle
sue tradizioni pagane e cristiane.
Ritornato in Provenza nel 1337, si ritirò a
vivere in una casetta di campagna presso Avignone, in Valchiusa, una località
appartata ed amena, proprio alle fonti del Sorga, il fiume dalle «chiare,
fresche e dolci acque», che gli offriva, dopo le dispersioni mondane e dei
viaggi, un soggiorno tranquillo, dove raccogliersi nei suoi amati studi.
Petrarca trascorse il periodo avignonese
negli studi, senza peraltro trascurare i piaceri mondani; proprio da due
relazioni avute nel 1337 e nel 1343 nacquero i figli Giovanni e Francesca, che
legittimò solo in seguito, curandone la sistemazione economica e l'educazione.
Pensava di trascorrere in Valchiusa tutta la
vita. Ma in realtà, irrequieto per temperamento, se ne allontanò più volte fra
il 1341 e il 1353, anni in cui soggiornò alternativamente in Provenza e in
Italia: appoggiato dalla illustre e potente famiglia romana
dei Colonna (fu amico anche di Stefano e Giovanni Colonna), compì in
quegli anni numerosi viaggi in Europa, spinto dall'irrequieto e risorgente
desiderio di conoscenza umana e culturale che contrassegna l'intera sua
agitata biografia: fu a Parigi, a Gand, a Liegi (dove
scoprì due orazioni di Cicerone), ad Aquisgrana, a Colonia,
a Lione.
Parallelamente alla formazione culturale
classica e patristica, cresceva il suo prestigio in campo politico:
nel 1335 ebbe inizio il suo carteggio con il Papa, inteso non
solo a sedare alcune rivolte nella penisola, ma anche a ottenere il ritorno
della sede pontificia da Avignone a Roma, affinché si mettesse fine alla
cosiddetta cattività avignonese.
All'anno successivo risale il progetto delle
opere umanisticamente più impegnate, la cui parziale stesura, dell'Africa in
particolare, gli procurò tale notorietà che contemporaneamente (il 1º
settembre 1340) gli giunse da Parigi e da Roma il desiderato invito
dell'incoronazione poetica.
Petrarca scelse Roma, Petrarca scese in Italia
a Napoli, presso la corte di Roberto d'Angiò: questi aveva ereditato
nel 1309 il trono di Napoli dal padre Carlo II e subito, contrastando
la venuta dell'imperatore Enrico VII, era diventato il leader del
guelfismo italiano; colto e mecenate, aveva ospitato a corte Giovanni
Boccaccio nei primi passi della sua carriera letteraria.
Petrarca lo conobbe all'inizio del 1341,
quando dimorò circa un mese a Napoli per essere esaminato prima
dell'incoronazione poetica; probabilmente l'incontro era stato organizzato
da Dionigi da Borgo Sansepolcro. Sotto il patrocinio del re Roberto
D'Angiò, lesse alcuni episodi del poema e discusse, in tre giornate, di poesia,
dell'arte poetica e della laurea: l'8 aprile del 1341 veniva incoronato
in Campidoglio a Roma: questo altissimo riconoscimento lo confortò a
proseguire la stesura dell'Africa.
I ricordi delle conversazioni avute con il re
prima dell'esame vero e proprio disegnano il prototipo del perfetto sovrano,
saggio e virtuoso oltre che esperto politico, e tale è la raffigurazione di lui
che ritorna costantemente nelle opere petrarchesche; dietro sua richiesta,
inoltre, Petrarca gli dedicò l'Africa. Fece però in tempo a indirizzargli solo
tre lettere, dato che Roberto morì poco dopo, all'inizio del 1343; in seguito
alla sua scomparsa il regno precipitò in una profonda crisi, come Petrarca potè
constatare quello stesso anno nel suo secondo e ultimo soggiorno napoletano e
come raccontò allegoricamente nell'egloga II del Bucolicon carmen. In
memoria del defunto compose anche un epitaffio laudativo.
Dopo l’incoronazione Petrarca fu ospite
di Azzo da Correggio a Parma fino al 1342.
Dall'autunno
del 1344 al 1347 risiedette a Valchiusa, donde lo distolse
l'entusiastica adesione alla rivolta di Cola di Rienzo: l’impresa di Cola,
che sembrava riuscisse a restaurare in Roma l’antica grandezza repubblicana.
Petrarca si propose di appoggiare l’impresa con la sua autorità ed il suo
consiglio, ma il viaggio verso Roma fu interrotto dalla notizia del fallimento
del tentativo di Cola.
Rinunciò al viaggio romano e si arrestò a
Parma, dove lo raggiunse la notizia (19 maggio 1348) della morte di Laura,
colpita dalla peste.
Lasciata Parma, Petrarca riprese a vagabondare
per l'Italia: a Firenze rinnovò i legami di amicizia con Giovanni
Boccaccio ed altri letterati toscani, e a Roma, fino al 1351, quando,
rifiutata ogni altra offerta, rientrò (anche su pressione papale) in Provenza,
dove scrisse le prime Epistole a Carlo IV di Boemia perché scendesse
in Italia a sedare le rivolte cittadine.
Nel giugno del 1353, in seguito alle
aspre e pungenti polemiche ingaggiate con l'ambiente ecclesiastico e culturale
di Avignone, Petrarca lasciò definitivamente la Provenza ed accolse l'ospitale
offerta di Giovanni Visconti, arcivescovo e signore della città, di
risiedere a Milano alla corte viscontea.
Malgrado le critiche di amici e nemici, che
gli rimproveravano la scelta di mettersi al servizio di un signore che avrebbe
presumibilmente limitato la sua libertà, collaborò con missioni ed ambascerie
(incontrò l'imperatore a Mantova e a Praga) all'intraprendente politica
viscontea, cercando di indirizzarla verso la distensione e
la pace.
Nel giugno del 1359 per sfuggire
alla peste abbandonò Milano per Padova presso i Da Carrara.
Nel 1362 Petrarca si trasferì
a Venezia, dove la Repubblica Veneta gli donò una casa in cambio
della promessa di donazione, alla morte, della sua biblioteca, che era
allora certamente la più grande biblioteca privata d'Europa, alla città
lagunare. Si tratta della prima testimonianza di un progetto di
"bibliotheca publica". Il tranquillo soggiorno veneziano, trascorso
fra libri e amici, fu turbato nel 1367 dall'attacco maldestro e
violento mosso alla cultura, all'opera e alla figura sua da
quattro filosofi averroisti: amareggiato per l'indifferenza dei veneziani,
andò via da Venezia.
Petrarca, dopo alcuni brevi viaggi, accolse
l'invito di Francesco da Carrara e si stabilì a Padova.
Nel 1370, si trasferì con i suoi libri
ad Arquà, un tranquillo paese sui colli Euganei, una località
campestre che gli ricordava la raccolta solitudine di Valchiusa, nel quale si
era occupato – come sua abitudine – di far adattare e restaurare una modesta
casa, generoso dono del signore padovano.
Trascorse gli ultimi anni ad Arquà e qui morì
nel 1374.
Le opere - Numerose sono le opere di Petrarca, scritte parte in latino
e parte in volgare. Le opere in latino si possono distinguere in opere di
ispirazione classica e opere di ispirazione cristiana.
1. Fra quelle del primo gruppo la più
importante è l’Africa, poema epico in 9 libri, in esametri, che ha per
argomento la seconda guerra punica. Petrarca attinge la materia soprattutto
dalle Storie di Livio e si propone come modello poetico l’Eneide di
Virgilio. L’opera si incentra sulle gesta di Scipione l’Africano nella seconda
guerra punica a Zama. I primi due libri raccontano i personaggi illustri della
storia romana. Il terzo libro racconta del re di Numidia, alleato dei Romani.
Il quarto libro è l’elogio di Scipione. Il quinto libro racconta del suicidio
della moglie del re di Numidia. Il sesto libro racconta della morte di Magne,
fratello di Annibale, dovuta alle tante ferite ricevute in battaglia. Il
settimo e l’ottavo libro raccontano la battaglia di Zama. Il nono libro
racconta il ritorno di Scipione in patria. L’Africa è un’opera di
grande ambizione, dalla quale Petrarca si aspettava successo e gloria
letteraria, ma che in realtà appare modesta di risultati. Manca al poeta la
capacità di oggettivazione e di strutturazione richieste dal genere epico. E di
tutta l’opera sono poeticamente vivi solo pochi passi di timbro lirico in cui,
attraverso gli stati d’animo di alcuni personaggi, il poeta esprime la sua
dolorosa coscienza della caducità dei valori terreni.
2. Fra le opere del secondo gruppo,
quelle cioè di riflessione etico-religiosa, di gran lunga la più alta ed intensa
è il Secretum, in tre libri. È un dialogo che il poeta
immagina si svolga, per la durata di tre giorni e alla presenza della Verità,
fra lui e Sant’Agostino, e che si risolve in un severo esame di coscienza del
Poeta, in un sottile ed implacabile scandaglio che egli compie nella propria
anima. Il primo libro racconta dell’incontro di Sant’Agostino con Francesco.
Sant’Agostino racconta che Francesco è privo di forza di volontà. Il secondo
libro Sant’Agostino racconta che Francesco è colpevole di tutti i peccati
capitali, escludendo l’invidia e metà dell’avarizia. Il terzo libro racconta
che Francesco a causa della mancanza di volontà non riesce ad abbandonare le
cose terrene.
3. Parte a sé fra gli scritti latini di
Petrarca occupa il suo vastissimo Epistolario,costituito dalle
lettere che egli scrisse nel corso della vita, e che, per la massima parte,
rielaborò, ordinò e pubblicò personalmente. Esse, pur attraverso il diaframma
della rielaborazione letteraria, ci consentono di conoscere momenti e situazioni
della vita del poeta, e soprattutto di penetrare nella sua inquieta e
complessa psicologia. Alcune di queste lettere sono scritte in versi
esametri (Epistolae metricae);
4. È scritto invece in volgare il
capolavoro di Petrarca, il Canzoniere, raccolta di 366
componimenti poetici composti e rielaborati in un lungo arco di anni; vi
prevalgono i sonetti (317), ma vi sono anche numerose canzoni, e poi sestine,
ballate, madrigali. Per la massima parte sono componimenti dedicati a Laura, e
costituiscono una specie di poetico romanzo amoroso, ma anche uno studio acuto
dell’anima di Petrarca, vista nei turbamenti, nei dolori, nelle gioie della
passione amorosa. Sono state divise dal poeta stesso in due gruppi: liriche
scritte per Laura viva e liriche scritte dopo la morte di lei, che avvenne
nella peste del 1348 (Rime in vita e Rime in morte di
Madonna Laura). Accanto alle liriche per Laura ve ne sono poche altre di
diverso argomento: le due canzoni di argomento politico Italia
mia e Spirto gentili alcune liriche religiose
culminanti nella Canzone alla Vergine; e un gruppo di sonetti
contro la corruzione della Curia avignonese;
5. Agli anni tardi appartiene l’altra
opera in volgare, I Trionfi, poema allegorico sulla vanità e
sulla caducità dei valori terreni, che raggiunge rari momenti di poesia solo là
dove riaffiora il ricordo della bellezza di Laura e della sua morte serena. I
trionfi sono sei visioni in terzina dantesca. Il trionfo dell’amore racconta
l’amore per Laura. Il trionfo della pudicizia racconta che
Laura, libera i prigionieri e torna in patria da eroina. Il trionfo
della morte racconta che Laura, durante un viaggio, incontra la morte
dove gli toglie un capello e muore. Il trionfo della fama racconta
che Laura è seguita da tre cortei: quello dei cavalieri, dei filosofi,
letterati. Il trionfo del tempo racconta che il tempo cancella
le glorie del tempo. Il trionfo dell’eternità racconta che le
glorie rimarranno solo a Dio.
Fra Medioevo e imminente Rinascimento:
l’inquieta psicologia di Petrarca - Quando Dante moriva, Petrarca aveva diciassette anni. I due
poeti vivono quindi in periodi storici cronologicamente assai vicini; eppure
essi esprimono due momenti di civiltà che vanno ormai diversificandosi, e in
gran parte si sono già diversificati. Dante accetta senza incertezze la
gerarchia medioevale dei valori che mette Dio e la vita eterna al vertice delle
aspirazioni umane. Petrarca dà voce, spesso dolente, alla crisi di passaggio
fra il Medioevo e il Rinascimento, età quest’ultima che pone in primo piano i
valori terreni e mondani. Egli infatti è medievalmente convinto che la vita che
conta è quella eterna, che Dio è la meta cui l’uomo deve tendere; e invidia
coloro – come suo fratello che si è fatto monaco – che sanno comportarsi
coerentemente con questi principi. Ma egli sente in modo altrettanto intenso
l’attrazione per i valori mondani, la fama, il successo e soprattutto l’amore:
al loro richiamo non sa sottrarsi, e nello stesso tempo li giudica fuorvianti,
e ne prova rimorso e senso di colpa. L’oscillazione fra terra e cielo, poli
dell’inquieto spirito petrarchesco, costituisce un motivo ricorrente nella sua
vita e nella sua opera.
In una delle più belle fra le Epistole, in
cui descrive la scalata sua e del fratello su un monte della Provenza, il
Ventoso, con acutezza egli si definisce uomo dall’anima ambivalente (uterque
homo). Nel diverso modo con cui i due giovani affrontano la salita,
egli simbolicamente traduce il loro diverso modo di affrontare la vita e di
muovere verso il suo fine, che è Dio e la virtù: Gherardo punta diritto alla
cima e vi giunge rapidamente e con sicurezza, Francesco si disperde nelle
vallette laterali (cioè simbolicamente si lascia attrarre dalle seduzioni
mondane), nella vana speranza di trovare una strada meno ripida per salire;
così che quando alla fine anch’egli giunge in vetta, vi giunge ben più stanco e
in ritardo.
Analogamente, in quel capolavoro di
penetrazione psicologica che è il Secretum, egli individua
come male essenziale della sua anima la indecisa perplessità fra il richiamo
del mondo e quello di Dio. Dopo aver ostinatamente resistito alle accuse
mossegli da Sant’Agostino (cioè dalla sua coscienza), circa la sua debolezza di
volontà, e circa l’ansia e l’attrazione per i valori terreni, alla fine, lasciatosi
faticosamente convincere, promette che cambierà vita. Si rende conto che
dovrebbe farlo subito, ma troppo forte è il richiamo delle passioni mondane,
delle «faccende profane», perché ciò sia possibile. Così cambierà, ma più
tardi: «Accoglierò, risponde al Santo, gli sparsi frammenti dell’anima mia e
diligentemente vigilerò su di me. Ma ora, mentre parliamo, mi attendono molte e
grandi faccende, per quanto profane»; e ricade così, come conclude Agostino,
«nell’antica contesa».
Dalla Beatrice dantesca alla Laura
petrarchesca – Questa ambivalenza
psicologica diventa poesia nelCanzoniere. Se Beatrice, in Dante,
era figura fisicamente evanescente, angelo in terra, guida dell’uomo a Dio,
tanto che senza frizione poteva nella Divina Commedia tradursi
in simbolo della teologia e della Grazia, Laura è invece una creatura terrena.
L’altezza del suo spirito, l’onestà, la pudicizia che regolano la sua vita e
che le impediscono di corrispondere all’amore del poeta, si accompagnano in lei
a una splendente bellezza fisica per la quale, oltre che per le sue virtù, il
poeta la desidera e l’ama. Tutto il Canzoniere è illuminato da
questa bellezza: «i capei d’oro» la «bella mano», il «bel fianco». Una bellezza
cui fa da sfondo la natura della Provenza, mediterranea, solare, fra prati e
acque.
Ma la felicità dell’amore è contrastata
nell’intimo del poeta da un incancellabile e ricorrente senso di colpa, dalla
coscienza che questa passione terrena lo allontana da Dio. È uno stato d’animo
doloroso, da cui nascono alcuni dei componimenti più intensi della raccolta.
Cultura cristiana e cultura classica di
Petrarca – La bivalenza
psicologica di Petrarca si riflette nelle sue scelte culturali. Egli è buon
conoscitore dei Testi sacri, specie di quelli dei Padri della Chiesa.
Lo scrittore della sua vita, il punto di
riferimento etico nelle sue incertezze e nei suoi turbamenti, non è però lo
«scolastico» San Tommaso, il santo dalle grandi certezze caro a Dante e a tutto
il Medioevo, ma Sant’Agostino, il Padre della Chiesa che è giunto a Dio
salvandosi dalle passioni terrene, e che ha saputo risolvere in sé, attraverso
la sofferenza, quel contrasto fra Terra e Cielo che rimane la fondamentale
irrisolta contraddizione del Poeta.
Ma Petrarca ama allo stesso modo gli scrittori
classici: Cicerone, Virgilio, Livio, Orazio, di cui apprezza tanto il valore
artistico che la saggezza morale. Nei suoi viaggi per l’Europa cerca
ostinatamente testi di autori classici andati perduti durante il Medioevo;
confronta fra loro, precorrendo un lavoro che sarà tipico degli Umanisti, i
vari manoscritti di una stessa opera per rimediare alle mutilazioni e agli
errori che ne hanno alterata la lezione.
Ma ciò che caratterizza in senso preumanistico
il rapporto di Petrarca coi classici e che lo stacca dal Medioevo, è il fatto
che egli non subordina il loro messaggio alla visione cristiana del mondo, ma
vuole invece recuperarlo nella sua autenticità e integrità.
Il pensiero politico di Petrarca – Petrarca vive in un periodo in cui al
declino delle vecchie istituzioni (Chiesa e Impero) si andava aggiungendo la
crisi della prima società borghese: il Comune, che stava per essere sostituito
dalle Signorie, in cui il potere era detenuto da singole famiglie o da
oligarchie. Petrarca accetta la fine dell'istituzione comunale e lo sviluppo
delle Signorie, ma in questo senso: egli vorrebbe che le Signorie, liberatesi
dall'ingerenza dell'Impero e della Chiesa, si alleassero tra loro per
restaurare la Repubblica della Roma antica, vista non come culladell'Impero
e della Chiesa, ma in sé e per sé, cioè come civiltà ricca di virtù, di
eroismo, di forza morale – una civiltà alternativa a quella medievale.
a) Dall’Impero e dal Comune
all’Italia – Nonostante la breve differenza di anni che lo separa da
Dante, gli ideali politici di Petrarca sono assai diversi da quelli danteschi.
Egli non vede più alcuno strumento di salvezza nell’Impero, che del resto si
andava sempre più esautorando; né ha interesse per il Comune, nella cui
struttura non è mai vissuto; e comunque i Comuni in Italia venivano via via
scomparendo per lasciar posto alle Signorie.
L’interesse politico di Petrarca si polarizza
invece sull’Italia, che non considera più, come Dante, provincia dell’Impero, e
neppure ancora come nazione, ma come entità politica che può raggiungere
autonomia ed unità mediante l’accordo fra le varie Signorie che in essa si
sono costituite e che tendono a dar vita a stati regionali. È questa la
speranza che anima la Canzone all’Italia, una delle due
liriche politiche del Canzoniere, in cui il poeta esorta, in
nome dell’Italia madre comune, i Signori italiani a deporre gli odi e a cessare
le lotte fratricide, così che possa fra loro stabilirsi un legame di
solidarietà che porti la pace nella penisola.
b) «Virtù contro furore» – L’unità italiana ha il
suo cemento, oltre che nell’interesse comune dei Signori italiani, nella comune
tradizione romana. L’ammirazione di Petrarca peraltro non va più, come quella
dantesca, all’antica Roma imperiale, ma alla Roma repubblicana degli Scipioni e
dei Bruti, quella che Cola Di Renzo aveva tentato di far risorgere.
La tradizione romana si identifica con la
civiltà e il poeta la contrappone orgogliosamente al germanesimo, che è
barbarie. Questa opposizione è uno dei temi fondamentali della Canzone
all’Italia sopra ricordata. La capacità militare romana vi è
definita virtù, cioè valore disciplinato e consapevole, quella
germanica è furia selvaggia, furore. Le terre germaniche
sono deserti strani, quelle italiane dolci campi.
Di qui l’accusa rivolta ai Signori d’Italia di
avvalersi per le loro guerre di milizie mercenarie, che, arruolate
prevalentemente in Germania, non solo consentono il permanere di uno stato di
guerra, e della guerra fanno un mestiere, ma portano la barbarie germanica nel
nostro Paese, e sono come un diluvio che devasta le nostre
terre feconde.
Storia della novella: il Medioevo – La novella, come genere
autonomo si affermò nel Medioevo dapprima con i fabliaux,
novelle in versi a carattere satirico e popolaresco fiorite in Francia alla fine del XII
secolo.
Successivamente si
diffuse l’exemplum, brevissimo racconto usato dai predicatori a fine didascalico per spiegare i
principi morali alla gente e per guidare, attraverso il diletto della storia
narrata, verso una verità religiosa e un comportamento morale.
L’exemplum presenta una vicenda che
deve servire da modello e da ammonimento per tutti ed è espressione di valori considerati
immobili, assoluti e quindi eternamente validi.
C’erano poi i racconti riguardanti le vite dei santi e
i loro miracoli.
Si diffusero infine i racconti
orientali, provenienti dalla
favolosa Persia, dall’Egitto e dall’India, come il Libro dei sette savi, un’opera indiana tradotta
durante il Medioevo prima in
francese e poi in italiano.
Di queste opere l’esempio
più famoso è la raccolta di novelle Le mille e una notte, una raccolta di origine araba risalente al IX-X secolo. In essa si ritrovano personaggi storici
come il potente Califfo di Baghdad, Hamn-al-Rashid,
leggendari, come Sindbad
il marinaio o come il giovane Aladino con la sua
lampada magica. Storie di magia e d’avventura, di furbizia e di
coraggio, inserite in una storia principale, la storia-cornice della
principessa Sheherazade, l’affascinante narratrice di storie esotiche e favolose.
La novella appare
nella letteratura italiana intorno al XIII secolo. Alle spalle di questo
nuovo modello letterario c’erano la grande tradizione antica (si pensi, ad
esempio, a scrittori come Petronio o Apuleio) e le varie forme della narrativa
medievale, sia occidentale sia orientale, una narrativa nata essenzialmente come
tradizione orale e poi gradualmente affidata alla scrittura.
Alla fine del Duecento,
fu compilato il Novellino, la prima raccolta organica di racconti della
letteratura italiana. In questa raccolta il termine novella, pur
continuando ad indicare essenzialmente
una narrazione orale, comincia ad acquisire anche un significato e uno spessore letterario. Come suggerisce il nome stesso, la raccolta punta
al nuovo, all’insolito, al sorprendente, a ciò che è irripetibile e
relativo, piuttosto che esemplare e assoluto.
Essa non si prefigge dunque scopi morali, ma vuole divertire e distrarre il
lettore, celebra valori umani e terreni, colloca fatti e personaggi in una
concreta dimensione spazio-temporale.
Giovanni Boccaccio – La novella raggiunse la forma più perfetta
con il Decameron di Boccaccio.
Il Decameron è una raccolta di cento novelle sono
racchiuse in una cornice [[23]]
che le giustifica e le ordina, organizzandole intorno a un filo conduttore.
Il Decameron costituì per molto
tempo, a
partire dai Racconti di Canterbury di Chaucer, il modello della narrazione
breve con caratteristiche diverse da tutte le altre forme
narrative medievali.
La vita – Boccaccio nacque fuori dal
matrimonio a Certaldo, vicino a Firenze, nel 1313.
Si ipotizza che sua madre fosse una donna di
bassa estrazione sociale mentre suo padre Boccaccio di Chellino era un mercante
prima agente e poi socio della potente compagnia bancaria dei Bardi.
Nel 1327, subito dopo i primi studi, il padre
avviò il figlio alla mercatura e lo portò con sé a far pratica a Napoli, presso
una Casa di commercio: la compagnia fiorentina dei Bardi, insieme ai Peruzzi e
agli Acciaiuoli, deteneva il monopolio delle imprese finanziarie del Regno di
Roberto d'Angiò. Qui Giovanni collabora all'attività paterna e impara a
conoscere direttamente i vari strati sociali, ma l’attività mercantile non gli
era congeniale. Fu allora indirizzato dal padre, deciso com’era a trovargli
comunque una professione lucrosa, verso l’università dove seguì per due anni le
lezioni di Cino da Pistoia (1330-31) ma nemmeno gli studi di diritto canonico
gli piacquero li seguì di malavoglia e non li portò a termine.
Iniziò così a dedicarsi alla lettura e alla
conoscenza della tradizione lirica volgare.
Nel fastoso e colto ambiente napoletano, che
aveva il suo centro nella ricca e raffinata corte di re Roberto d’Angiò,
Boccaccio visse l’esistenza brillante e mondana della società aristocratica e
altoborghese che aveva preso a frequentare, fra feste e ritrovi che si
svolgevano in città e negli ameni dintorni.
La sua formazione intellettuale e umana si
compì dunque nel più importante centro culturale italiano: lo Studio
napoletano – la prestigiosa Università fondata da Federico II – la ricchissima
biblioteca reale e la stessa raffinata corte angioina si configurano come punto
d'incontro tra la cultura italo-francese e quella arabo-bizantina, attirando da
ogni parte poeti, letterati, eruditi, scienziati e anche artisti come Giotto,
che in quegli anni stava lavorando agli affreschi del Castel Nuovo.
La Napoli di Roberto d'Angiò (1278 –
1343) era una città in piena espansione. Dalla morte dell'austero Carlo II
(1308), il processo di rivitalizzazione della città e del Regno si era
consolidato.
Con l'ascesa al trono di Roberto il
saggio, alla fioritura urbanistica si affiancò la vivacità commerciale –
con la presenza di fiorentini, francesi, catalani – e politica, accreditandosi
Roberto come il capo di fatto del guelfismo italiano. Sul piano culturale,
lo Studio e la corte erano prestigiosi punti di riferimento per
intellettuali di rilievo anche se forse di taglio ancora medievale,
come Paolo da Perugia, bibliotecario di corte, o Andalò dal Negro, astrologo e
geografo, entrambi mentori del giovane Boccaccio. A Napoli il re accolse
Petrarca, venuto per l'incoronazione: il valore che assumeva la nuova cultura
incarnata nel giovane, ma già autorevole Petrarca, gli era ben chiaro, ed egli
fu felice di acconsentire ai suggerimenti del padre Dionigi da Borgo Sansepolcro,
chiamato a Napoli dal re Roberto d'Angiò presso la sua corte nel
1338, quando questi gli propose di presiedere alla cerimonia. Petrarca si sentì
onorato dell'amicizia di Roberto e ripose in lui, finché visse, molte delle sue
speranze politiche, contribuendo a creare l'immagine del «buon re cicilian che
‘n alto intese», con cui il sovrano angioino è passato alla storia.
In questa Napoli in cui Boccaccio aveva
avuto la possibilità di formarsi un’ampia seppur disordinata cultura
nelle arti liberali e in cui aveva
conosciuto Cino da Pistoia, il grande epigono dello stilnovismo,
professore di diritto nello Studio napoletano dal 1330 al 1331, Sennuccio
del Bene, ma soprattutto l'amico di Petrarca, padre Dionigi da
Borgo San Sepolcro, col quale strinse amicizia. Quest’ultimo divenne
per il giovane Boccaccio una sorta di guida intellettuale e da lui
imparò ad amare e a stimare Petrarca che tanto prometteva con le sue opere
latine.Dionigi da Borgo San Sepolcro e il notaio regio Barbato da
Sulmona influenzarono la sua vita indirizzando verso l'Umanesimo i suoi studi,
già condotti nella conoscenza del greco col monaco calabrese Barlaam e poi
approfonditi, dopo il ritorno a Firenze, sotto la guida dell'altro calabrese
Leonzio Pilato, lettore in quello Studio e primo traduttore di Omero in latino.
Nel contempo, Boccaccio chiariva a se stesso
la sua autentica vocazione, che era quella letteraria e poetica e che si rivelò
presto prepotente ed esclusiva. In un’opera della tarda maturità così egli
scrive di sé: «Ma di qualunque attitudine abbia dotato gli altri la natura, me
fin dall’alvo materno, per quel che mi attesta l’esperienza, ha disposto alle
poetiche meditazioni, e, a mio giudizio, sono nato per questo».
Si formò in questi anni, con iniziativa di
intelligente autodidatta, una vasta cultura che spaziava dalla letteratura
classica a quelle romanze, italiana e francese e di esse andava alimentando,
già da questi anni, la sua opera in versi e in prosa.
Napoli con il suo vivace mondo culturale, con
l'aristocratica, elegante e gaia società della sua corte, con gli svaghi, i
diletti di questi anni spensierati e felici fu anche il luogo di una sua
importante esperienza amorosa: qui conobbe e amò Fiammetta, nome sotto il quale
si celava probabilmente quello di una dama della corte, da alcuni studiosi
identificata con una Maria dei conti d’Aquino, figlia illegittima del re
Roberto d'Angiò. Fu un amore infelice per l’incostanza e l’infedeltà della
donna, ma che lasciò traccia nella vita e nell’opera di Boccaccio: dal nome di
lei prende il titolo uno dei suoi scritti romanzeschi in prosa, la Fiammetta, e
Fiammetta sarà da lui chiamata una delle giovani narratrici del Decameron.
I dodici anni napoletani rappresentarono per
Boccaccio il periodo più fertile e vivo della sua esistenza e ad esso, per il
resto della vita, andò costantemente il suo ricordo e la sua nostalgia: sono
questi gli anni delle Rime, della Caccia di Diana, del Filostrato,
del Filocolo, del Teseida (terminato poi a Firenze).
A seguito del fallimento della banca dei
Bardi, che diede un grave colpo agli interessi del padre, nel 1340 Boccaccio
dovette lasciare Napoli.
Tornò così a Firenze. Dopo gli splendori
napoletani, la casa paterna e la vita chiusa della città apparvero al giovane
intollerabilmente squallide e tristi.
Nell’Ameto, un poema scritto dopo il
suo ritorno, egli contrappone la vita di Napoli, caratterizzata da «beltà,
gentilezza, valore, leggiadri motti», allietata da «delizie mondane»,
all’uggiosa serietà della sua casa fiorentina:
«Lì non si ride mai,
se non di rado;
la casa oscura e muta
e molto trista
me ritiene e riceve,
mal mio grado.»
Per alcuni anni cercò in ogni modo di evadere
dalla città: trascorse un periodo a Ravenna presso i Polentani, un altro a
Forlì presso gli Ordelaffi.
Era invece a Firenze nel 1348, quando vi
scoppiò la terribile peste che devastò buona parte dell’Europa e che avrebbe
offerto lo spunto alla sua opera maggiore, il Decameron.
Negli anni successivi, stimato per la fama e
l’ingegno dai suoi concittadini, ebbe dal Comune incarichi pubblici che lo
portarono come ambasciatore presso diverse corti italiane ed europee.
Nel 1350 e si legò a Petrarca di un’amicizia
fatta di affetto e di devozione, oltre che alimentata da comunanza di
interessi culturali, amicizia che durò fino alla morte di Petrarca. Già negli
anni ’40, Boccaccio aveva composto un De vita et moribus Francisci
Petracchi, elogio della laurea poetica di Petrarca, cui aveva assistito nei
suoi ultimi mesi di permanenza a Napoli: Boccaccio, intuendo la novità della
proposta culturale di Petrarca, cominciò a raccogliere le sue opere, talché già
negli anni Quaranta possedeva già una cospicua antologia
petrarchesca. Questo rapporto di amicizia, oltre ad arricchirlo
spiritualmente proponendogli nuovi interessi etici e culturali, lo aiutò a
superare la grave crisi religiosa che lo colse nel ‘62, a seguito della visita
di un frate che gli preannunciava prossima la morte e gli minacciava la
dannazione eterna se non avesse abbandonato gli studi profani.
L’intervento equilibrato ed equilibratore di
Petrarca lo dissuase dal bruciare le sue opere «mondane», ivi compreso il Decameron,
che era la più libera e spregiudicata, e perciò moralmente la più condannata
dalla sensibilità del tempo.
Peraltro, già prima della crisi del ‘62,
Boccaccio si era dato a studi eruditi, che costituirono l’occupazione degli
ultimi vent’anni della sua esistenza.
Nel 1362, e poi ancora nel 1370, si recò a
Napoli nella speranza di trovarvi una decorosa sistemazione, ma entrambe le
volte tornò a Certaldo deluso e amareggiato.
Nel 1373 ricevette l'incarico da parte del
Comune di Firenze di commentare pubblicamente la Commedia di
Dante nella chiesa di Santo Stefano di Badia, ma dopo pochi mesi, essendo
sofferente di idropisia, fu costretto a rinunciare alle sue pubbliche letture,
interrompendole al canto XVII dell'Inferno
Morì a Certaldo, dove si era ritirato, nel
1375.
Le opere - La vasta produzione di Boccaccio si può
dividere secondo tre periodi:
le opere giovanili o della sua formazione;
il capolavoro della maturità, il Decameron;
le opere erudite dell’ultimo ventennio.
Delle opere del primo gruppo, alcune furono
composte nel periodo napoletano, altre dopo il ritorno di Boccaccio a Firenze;
esse sono di ispirazione più o meno direttamente autobiografica, e comprendono
poemetti in versi e romanzi in prosa, per i cui temi lo scrittore attinge ora
al mondo classico, ora alla narrativa romanza, ora alle tradizioni popolari.
Tema comune a tutte, e in tutte emergente, è l’amore.
· La
prima opera fu La caccia di Diana: l’opera racconta che le ninfe
andarono a caccia con Diana e al loro ritorno tradirono la dea, donando tutta
la selvaggina a Venere.
· La
prima opera in prosa di Boccaccio fu il Filocolo: l’opera racconta
che Florio, un principe di origine pagana incontra Biancofiore, una fanciulla
di origine cristiana e se ne innamora; il padre di Florio scopre questo amore
tra i due e vende la ragazza. Florio raggiunge Biancofiore, ma i due sono
scoperti e condannati al rogo. Il romanzo termina con il matrimonio dei due
amanti e con la conversione di Florio al Cristianesimo.
· Un’altra
opera è il Filostrato in cui racconta l’amore di Troilo figlio
di Priamo, per Criseide; Criseide, una volta riscattata, lascia Troilo, che,
disperato, cerca la morte in guerra, affrontando Achille.
· Il Teseida racconta
di due amici Arcita e Palemone che si innamorano di Emilia; i due decidono di
sfidarsi a duello ed il vincitore sposerà Emilia. Arcita vince il duello ma,
caduto da cavallo, muore; prima di morire, però, dice ad Emilia di sposare il
suo amico.
· Un’opera
di cinque capitoli in terza rima è l’Amorosa Visione. L’opera racconta
che il poeta immagina Cupido che gli invia una donna per intraprendere una vita
di virtù.
· Fra
queste opere, due si staccano da una mediocre piattezza: il
romanzo la Fiammetta o Elegia di madonna
Fiammetta,significativo per l’acuta analisi degli effetti prodotti
sull’anima dalla passione amorosa. Quest’opera è un passaggio molto importante
della produzione letteratura di Boccaccio perché il personaggio principale
diventa donna. L’opera racconta di Fiammetta che si innamora di un ragazzo
fiorentino che è richiamato dal padre a Firenze. Boccaccio spiega tutta la sua
delusione nei confronti di questo ragazzo a causa del suo fidanzamento con
un’altra ragazza.
· L’altra
opera di rilievo è il Ninfale fiesolano, poemetto in ottave,
nel quale una leggenda mitologica sull’origine di Firenze si trasforma in una
calda e realistica storia d’amore. L’opera racconta che il pastore Africo
s’innamora della ninfa Mensola. I due amanti vengono scoperti da Diana e Africo
viene trasformato in un fiume. In seguito alla trasformazione di Africo,
Mensola partorisce un bimbo e ciò per Diana è un oltraggio; anche Mensola viene
trasformata in un fiume. Questi due fiumi si trovano a Firenze.
· Il Ninfale
d’Ameto racconta di un pastore, Ameto che si innamora della ninfa Lia.
Il pastore per incontrare Venere è purificato dalle ninfe, questa purificazione
porta l’uomo dall’animalità bruta all’affetto e all’amore. Tutte le opere di
questo periodo, a prescindere dal loro valore artistico, sono interessanti in
quanto consentono di seguire la formazione e la maturazione di Boccaccio che,
attraverso di esse, saggia argomenti e tecniche letterarie diverse,
preparandosi alla ricchezza tematica e tonale del Decameron.
· Al Decameron, Boccaccio
lavora a Firenze soprattutto negli anni 1349-51.
Il Decameron è
una raccolta di 100 novelle
narrate nell’arco di dieci giornate (il titolo significa appunto, dal greco,
[il libro] «dei
dieci giorni»). Esse non si susseguono l’una all’altra, giustapposte senza
collegamento, ma sono collocate, secondo il gusto medioevale, in una struttura
che fa loro da cornice.
L’opera prende l’avvio
dalla descrizione della terribile peste scoppiata in Firenze, come in tanta parte d’Europa,
nel 1348. La
rappresentazione della città, devastata dal morbo, occupa le prime pagine
dell’opera. Con animo commosso e turbato Boccaccio descrive la gravità della
malattia, i pericoli del contagio, le morti. E, passando dall’analisi esterna a quella
delle condizioni psicologiche in quel terribile frangente, si sofferma sulle
conseguenze devastanti di ordine affettivo e morale. Per timore del contagio vengono meno i
tradizionali legami di amicizia e di affetto:
gli amici sfuggono gli amici ammalati e li abbandonano al loro destino;
persino padri, madri, figli,
sposi, nella malattia, rifiutano di aiutarsi fra loro; «l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la
sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa
è e quasi non credibile) i padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire
schifavano».
Boccaccio immagina che un mattino, durante
l’imperversare del contagio, in S. Maria Novella si incontri una brigata di
sette giovani donne «savia ciascuna
e di sangue nobile e bella di
forme e di leggiadra onestà» e di tre giovani uomini, «assai piacevole e costumato ciascuno», innamorati
di tre di loro e parenti delle
altre, i quali, per sfuggire a
tanta dissoluzione e disperazione, decidono di abbandonare insieme
la città appestata e di recarsi nel vicino contado.
Lontano da Firenze e dalla desolazione della
pestilenza, i giovani trascorrono le giornate in una bella villa, sulle colline intorno a Firenze; nella serenità della quiete
campestre, la gentile brigata ricrea quel vivere nobile e cortese, quell’ordine
civile e pieno di decoro, che il flagello della peste ha distrutto nella vicina
città, vivendo all’insegna della gioia, della serenità e della cortesia. Nel
pomeriggio, mentre la nobile compagnia sta seduta in un bellissimo prato, a
turno ciascuno narra una novella; all’imbrunire i giovani danzano e cantano una
ballata.
Nei quindici giorni vengono narrate cento
novelle, dieci al giorno, poiché il venerdì e il sabato, giornate dedicate alla
preghiera e alle pratiche religiose, viene sospesa la narrazione. Ogni giorno viene eletto fra i giovani
un «re» o una «regina» che (ad eccezione del primo e del decimo giorno)
stabilisca il tema generale della giornata: la fortuna, l’amore, l’ingegno,
ecc.; tema al quale, con libera inventiva, dovranno adeguarsi i
narratori. Uno dei giovani, Dioneo, il più divertente e spregiudicato, a
cui viene concesso il «privilegio» di raccontare sempre per ultimo e di
scegliere a suo piacimento il tema della novella. In tal modo Boccaccio evita
il rischio di un meccanismo troppo rigido e fa sì che anche le giornate nelle
quali è stato fissato un tema triste (per esempio, storie di amori infelici) si
concludano con una novella a lieto fine.
La cornice come legame fra le varie parti di
un’opera è una strategia stilistica già in uso nelle opere del passato:
Boccaccio conosceva Le Mille e una notte.
Nel Decameron la cornice non è semplice
accostamento delle novelle, è una struttura architettonica che conferisce unità
all’opera. Alle Mille e una notte il Decameron si ricollega
anche per la circostanza della narrazione in una situazione di pericolo: in
entrambi i casi, infatti, il racconto è usato, sia pure in modo diverso, per
esorcizzare la morte.
A differenza delle precedenti raccolte in cui
l’elemento unificatore era completamente fantastico, la cornice del Decameron
fa riferimento a un avvenimento tragico e reale della storia contemporanea, la
peste, che coinvolge sia i narratori, e quindi il piano della finzione
letteraria, sia i lettori. Essa inoltre non ha solo la funzione di
giustificare la narrazione e di conferire ordine alle novelle, ma si
arricchisce di un suo significato autonomo. Racchiude e sintetizza, infatti,
due poli, quello della morte, simboleggiata dalla peste e dalle sue conseguenze
morali e sociali, e quello della vita, rappresentata dai giovani della lieta
brigata e dalla loro esistenza vissuta all’insegna dell’equilibrio, della
cortesia, della misura, del benessere fisico e psicologico.
La cornice è l’immagine del disegno coerente
ed equilibrato della vita, in cui ogni evento fuggevole e momentaneo si
inserisce e trova un senso e una valida giustificazione. In questa struttura narrativa messa a
punto da Boccaccio è possibile
all’autore conciliare varietà e unità: la varietà delle novelle e il loro costituirsi in gruppi unitari.
Quell’unità formale, esterna, che
si affianca a quella interna, più profonda, costituita dalla comune
visione della vita e del mondo
che governa tutta l’opera, si
raggiunge attraverso una struttura
complessa che prevede infatti un narratore di primo grado, Boccaccio stesso,
che racconta la storia-cornice, entro la quale dieci narratori di secondo
grado raccontano le cento novelle del Decameron.
Sul piano tematico sono presenti nell’opera
due nuclei essenziali di ispirazione: da una parte un mondo cavalleresco ormai
al tramonto, dall’altra una società borghese e cittadina. Boccaccio guarda con
un atteggiamento di nostalgia e di rimpianto al mondo aristocratico e
cavalleresco del passato, tanto che le novelle che ne celebrano gli ideali
sono poste a conclusione della raccolta e sembrano costituire una sorta di
Paradiso laico che si contrappone all’Inferno della prima giornata nella quale
sono raffigurati i vizi della società del tempo: l’avarizia e la viltà dei
grandi signori, la corruzione del clero, la spregiudicatezza morale dei
borghesi.
1) La
«Commedia umana» di Boccaccio —
Il Decameron è stato definito «commedia umana» in
contrapposizione a quella «divina» dantesca, perché in esso si muove, incontrastato protagonista, l’uomo terreno. Non solo
è ormai venuta meno la tensione verso Dio che aveva caratterizzato il mondo di
Dante, ma neppure vi è più traccia di quel doloroso dualismo fra aspirazioni religiose e passioni umane che
dominava l’opera di Petrarca.
Nelle novelle del Decameron pullula la vita di questo mondo,
libera da limitazioni e condizionamenti
morali e religiosi; di qui il gioioso vitalismo che la percorre. Tutta la realtà, in quanto esiste, è per
Boccaccio degna di interesse e dell’attenzione dell’artista. Se mai esiste una scala di valori, essa vede ai primi
posti non i valori che portano a
una salvezza eterna, ormai estranea all’interesse dei personaggi, ma quelli che consentono all’uomo di affermarsi su questa
terra.
2) I temi fondamentali del Decameron: la fortuna l’amore
e l’intelligenza — Fra i
molti aspetti della vita rappresentati nel Decameron quelli
fondamentali sono la fortuna, l’amore e l’intelligenza.
La Fortuna – intesa come intervento casuale
della sorte – si manifesta sia come forza della natura, sia come azione umana,
sia come intervento della collettività. Si tratta, comunque, di intrusioni che
ora ostacolano, ora favoriscono le azioni dei protagonisti. L’uomo rivela la
sua intelligenza quanto più sa piegare la Fortuna ai suoi scopi, in qualunque
modo essa si presenti, ostile (oggi diremmo sfortuna) o amica.
L’amore, che Boccaccio
considera una delle maggiori forze che muovono l’esistenza, è rappresentato nella vasta gamma delle sue
manifestazioni: l’amore sensuale, a volte grossolano, ma mai morboso, l’amore
disinteressato e cavalleresco, l’amore fedele e virtuoso, l’amore come fonte di
eroismo materiale e spirituale, o come forza esclusiva e sconvolgente che può anche portare alla follia.
L’intelligenza è lo
strumento per cui l’uomo si afferma sulla terra, e comporta accorgimento, abilità,
scaltrezza, spregiudicatezza. Dante collocava nell’Inferno coloro
che avevano
usato l’intelligenza, dono divino, a scopi moralmente iniqui. Boccaccio
guarda con interesse
divertito e con sostanziale ammirazione chi riesce, con l’uso anche spregiudicato e cinico dell’intelligenza, a risolvere
situazioni difficili, a togliersi d’impaccio. Caso tipico in questo senso è Ser Ciappelletto
della novella omonima, che in punto di morte non esita a fare una abilissima e
blasfema confessione, quasi a sfida giocosa al Cielo, per salvare una situazione pratica. E ricordiamo il giudeo che con la sua acuta risposta si
sottrae alle insidie del Saladino (Novella delle tre
anelta); e Chichibio cuoco che con un’inaspettata e azzeccata battuta
smonta l’ira del padrone. Spesso l’intelligenza
prende luce, per contrasto, dal suo contrario, la stoltezza: e intelligenza e
stoltezza sono messe a confronto in molte felicissime novelle di beffa, come
quella diCalandrino e l’elitropia.
3) Molteplicità di situazioni e di personaggi — La rappresentazione boccacciana della vita si concreta in innumerevoli situazioni e in una
ricca serie di personaggi. Sono introdotti nelle novelle uomini di paesi diversi, dall’Oriente all’Occidente, e di
tutte le classi sociali:
aristocratici e plebei, uomini di cultura e uomini di Chiesa. Ma soprattutto
vi campeggiano i rappresentanti
di quella borghesia mercantile italiana, operosa e avventurosa, ricca di esperienze e di denaro, che era
la classe ascendente e il nerbo della società al tempo del Boccaccio, e
che Boccaccio, figlio di mercanti e per qualche tempo mercante egli stesso, conosceva e ammirava.
La psicologia dei
personaggi rappresentati è sempre ricca e articolata, esente da unilateralità e da schematismo;
la loro caratteristica preminente non soffoca gli altri aspetti del loro carattere.
Perfino le figure dalla natura più elementare, gli stolti, sono articolatamente ritratti: la
stoltezza, che è limite intellettuale, coinvolge carenze morali e psicologiche e se ne
alimenta. Nella stoltezza di Calandrino, ad esempio, concorrono l’avarizia, l’egoismo, la
ghiottoneria, la prepotenza manesca con chi è più debole; e non gli manca neppure una
certa dose di disonestà.
4) Il concreto realismo degli ambienti — I personaggi del Decameron si
muovono sullo sfondo
di ambienti che non hanno mai nulla di vago e di gratuito, ma sono realisticamente definiti e concreti.
Particolarmente ricchi di evidenza sono quelli personalmente noti a Boccaccio: le
vie, le chiese, le piazze, la periferia e il contado di Firenze; e le inquadrature napoletane,
che spaziano dal ricco mercato della città, frequentato da mercanti provenienti da tutta
Italia, ma anche da imbroglioni, manigoldi, prostitute, alle vie strette e pericolose
della Napoli malfamata, alla splendida opulenza della sua cattedrale.
Accanto agli ambienti
esterni sono numerosi anche gli spaccati di interni: la casa patrizia, fastosamente
apparecchiata per il banchetto, di Currado Gianfigliazzi, e la cucina fragrante di odore di
arrosto (novella di Chichibio); l’appartamento dal fasto equivoco della «bella
Ciciliana» (novella di Andreuccio da Perugia); la povera casa dì Calandrino con dentro la moglie
battuta e in pianto, e il gran mucchio di pietre (novella di Calandrino e l’elitropia).
5) La borghesia vera protagonista del
Decameron – La vera protagonista dell’opera è la borghesia
rappresentata nei suoi diversi livelli e nei suoi aspetti positivi e negativi.
La realtà umana e naturale descritta nel Decameron appare come il campo di
tensione e di scontro di due forze antagonistiche: la fortuna e l’ingegno. La
prima si identifica con il caso capriccioso e imprevedibile, che predispone
circostanze favorevoli e sfavorevoli con le quali l’uomo deve misurarsi armato
solo della sua intelligenza, saggezza calcolatrice, capacità di previsione.
L’ingegno si manifesta non solo nell’azione avveduta e sagace, ma anche nella
battuta pronta, nel motto arguto e raffinato che mortifica gli sciocchi e i
tracotanti, e viene apprezzato dall’antagonista intelligente, capace di
gustare l’invenzione verbale ben congegnata. È proprio in virtù della parola
che talora possono essere annullate le distanze sociali. Il fornaio Cisti può
permettersi il lusso di un motto mordace con il banchiere Geri Spina e
Chichibìo può rivolgere una pronta e sollazzevole risposta a un gran signore
come Currado Gianfigliazzi perché lo scatto dell’ingegno per un attimo rende
complici un artigiano e un banchiere, un cuoco e un signore. Dopo però
ciascuno tornerà al suo posto, consapevole del proprio ruolo e della propria
posizione sociale.
6) Le forme narrative – Sul
piano delle forme narrative Boccaccio ha sperimentato un ampio ventaglio di
possibilità, utilizzando e trasformando generi preesistenti. Certo sarebbe
assurdo voler ricondurre le cento novelle a schemi precisi e rigorosi; si
possono però individuare alcune tipologie ricorrenti che naturalmente vanno
applicate con una certa elasticità:
1) la novella-azione,
costituita da una pura successione di fatti in cui non contano tanto i
personaggi quanto gli avvenimenti nei quali essi sono coinvolti e il loro
susseguirsi secondo un ritmo che è insieme di sorpresa e di casualità;
2) la novella-romanzo,
fondata non più sull’azione, ma sulla realtà interna dell’uomo, sulle
passioni, i sentimenti, gli impulsi che ne provocano le avventure;
3) la novella-motto, che ha
la misura del racconto breve in cui la semplicità della trama serve a mettere
in luce una risposta pronta e arguta;
4) la novella-beffa,
incentrata su inganni, beffe coniugali, situazioni e spunti burleschi in cui
ciò che conta è il tranello teso con abilità e studiato esattamente per dare
scacco all’antagonista;
5) la novella esemplare nella
quale il personaggio, trovandosi ad affrontare una prova difficile, manifesta
capacità e virtù che ne fanno un esempio, un modello di valori laici senza
alcun riferimento alla realtà ultraterrena.
Lo stile - Con il Decameron Boccaccio non ha soltanto condotto a perfezione
il genere novellistico, ma ha anche elaborato una lingua letteraria ricca e
mobile, nella quale si intrecciano differenti registri, da quello alto e
solenne a quello più basso e popolare, di volta in volta adeguati alla varietà
delle situazioni e dei personaggi. Nelle parti narrative prevale un periodare
ampio, sinuoso, nel quale si incastonano numerose subordinate sia esplicite sia
implicite; nelle parti dialogate la lingua diventa più agile, intessuta di
frasi brevi che riproducono il parlare quotidiano. La prosa di Boccaccio
presenta una grande varietà di modi, di toni e di registri, sempre pienamente
correlati alla materia narrata.
Versatile e mutevole, la scrittura boccaccesca sa essere
aristocratica, umile e popolaresca, commossa. Assume tonalità ora poetiche, ora
grottesche, ora tragiche, ora comiche; altre volte mantiene un tono medio in
cui si neutralizzano i contrasti della vita. Grazie alle sue variegate
articolazioni, alla perfezione della struttura sintattica che riecheggia il
periodare classico, alla molteplicità dei ritmi e del fraseggio, la prosa boccaccesca
sarà per secoli il modello a cui guarderanno con ammirazione i narratori
d’Italia e d’Europa dei secoli successivi.
· Il Decameron segna il culmine e la
conclusione della sua stagione artistica, giacché ad essa nulla aggiungerà il
successivo Corbaccio, violenta satira antifemminista, che trae
spunto da un’esperienza personale dello scrittore. L’opera racconta che
l’autore si trova in un labirinto d’amore ed incontra una vedova dalla quale è
respinto. In sogno gli viene il marito e gli dice come conquistare sua moglie,
ma in cambio gli chiede di scrivere un’opera su sua moglie.
· Quanto alle opere erudite dell’ultimo
periodo, se testimoniano la passione culturale dello scrittore, sono però di
tipo convenzionale e tradizionale. Fanno eccezione, per il calore che li
pervade e per gli elementi che hanno offerto ai futuri interpreti e commentatori
della Commedia, gli scritti che egli dedicò a Dante: il Trattatello
in laude di Dante e il Commento ai primi diciassette
canti dell’Inferno, frutto delle letture sul testo dantesco da lui tenute
pubblicamente, per incarico del Comune, nella chiesa fiorentina di Santo
Stefano in Badia.
Il Rinascimento e la sua periodizzazione
– L’espansione economica
e politica degli Stati italiani aveva creato una condizione di benessere e,
presso le classi dominanti, una larghezza di mezzi finanziari e un tenore di
vita prima sconosciuti. Queste condizioni, esaltate da quarant’anni senza
guerre intercorrenti tra la pace di Lodi del 1454 e la calata
di Carlo VIII nel 1494, portarono al Rinascimento.
Esso è un movimento vasto e complesso che si
estende dagli ultimi decenni del Trecento alla metà circa del Cinquecento, e
che propone una nuova concezione della vita e nuovi orientamenti nel pensiero
e nell’arte.
La prima fase del Rinascimento, compresa fra
la fine del Trecento e la fine del Quattrocento, è designata col nome di Umanesimo. In
esso ha le radici il Rinascimento vero e proprio, la cui originale e splendida
fioritura si manifestò nella prima metà del Cinquecento: a quest’epoca
appartengono poeti come Ariosto, pensatori come Machiavelli, artisti come
Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano.
Il Rinascimento
L’Umanesimo e la rinascita del mondo
classico - Il nome di Umanesimo
deriva dal fatto che in questo periodo l’interesse appassionato degli uomini di
cultura si volge alle opere dei classici, chiamate humanae
litterae perché giudicate apportataci di humanitas, cioè
di civiltà e di raffinatezza spirituale.
A differenza di quanto avveniva nel Medioevo,
quando gli autori classici erano accettati e usufruiti solo nella misura in
cui non contraddicevano all’imperante concezione cristiana dell’esistenza, gli
umanisti vogliono invece recuperare integro il messaggio dei classici, senza
diaframmi interpretativi e senza stravolgimenti. In verità quest’esigenza era
già presente in Petrarca che in questo senso può essere considerato un
preumanista; con la differenza però che Petrarca era un caso pressoché isolato
nel suo tempo, mentre nell’Umanesimo questo nuovo modo di accostarsi alla
classicità si diffonde ad ampio raggio e da luogo a un vasto movimento
culturale.
Gli umanisti non limitano il loro interesse
allo studio dei testi classici già conosciuti e in circolazione, ma s’impegnano
nella ricerca di quei testi che durante le invasioni barbariche e le
devastazioni dell’Alto Medioevo erano andati perduti. Intraprendono a questo
scopo viaggi per l’Europa, facendo ricerche soprattutto nelle biblioteche dei
conventi, dove si presumeva che molti libri avessero potuto salvarsi dalle
distruzioni e dai saccheggi. Erano ricerche faticose, dispendiose, ma a volte
anche fruttuose.
Non sempre i testi classici in circolazione, o
dei quali si scopriva l’esistenza, erano pervenuti indenni dalle tumultuose
vicende dell’Alto Medioevo o dall’impegno moralizzatore di chi pure voleva che
fossero usufruiti. In tal caso gli umanisti si dedicano ad un’operazione che
potremmo definire di restauro interno: confrontando pazientemente codici
diversi di una stessa opera eliminano le modifiche in essi variamente introdotte,
recuperano passi soppressi, così da riportare i testi il più possibile alla
loro lezione originaria.
L’interesse degli umanisti si volge in un
primo tempo ai classici latini; ma successivamente anche a quelli greci,
specie dopo che, caduta Costantinopoli in mano ai Turchi nel 1453, molti dotti
greci emigrano in Italia diffondendovi l’insegnamento della loro lingua e la
conoscenza dei loro autori.
La rinascita del latino – Conseguenza dell’interesse per il mondo
classico è la reviviscenza nell’età umanistica del latino, cui si accompagna
spesso il disprezzo per la lingua volgare. Il latino non solo è la lingua
della cultura, ma diventa anche, nella prima fase dell’Umanesimo, quella della
poesia, dove pure sembrava, dopo Dante e il Petrarca, che il volgare dovesse
ormai dominare incontrastato.
Solo dopo la metà del Quattrocento, quando
sarà evidente che la lingua di una civiltà passata, per quanto splendida, non
può esprimere adeguatamente la sensibilità e il pensiero di un’età nuova, quali
che siano le sue analogie col passato, il volgare tornerà ad affermarsi. In
volgare scriveranno esclusivamente o prevalentemente i poeti della seconda
metà del Quattrocento, dal Magnifico al Poliziano, al Pulci, al Boiardo; e il
volgare sarà poi la lingua indiscussa del Cinquecento.
La visione antropocentrica del Rinascimento – Alla
concezione teocentrica del mondo che aveva dominato nel Medioevo si oppone nel
Rinascimento una concezione antropocentrica, quella tramandata dal mondo
classico, che colloca l’uomo (anthropos in greco) al centro
dell’Universo. E non è l’uomo che, vivendo sulla terra, è tuttavia proteso
verso la vita eterna, ma l’uomo che pone in primo piano la vita sul nostro
pianeta, la considera valida di per sé, per i suoi autonomi valori, e cerca di
affermarsi in essa con l’intelligenza, la capacità, il coraggio. Che è poi un
modo di vita che già era presente nel Decameron del
Boccaccio.
L’autonomo affermarsi delle scienze umane – La concezione antropocentrica del mondo si riflette
nel pensiero e nella cultura rinascimentali.
Viene meno la subordinazione medioevale delle varie branche
del sapere alla teologia:
·
La filosofia afferma
il suo diritto alla libera speculazione razionale, senza limiti e
condizionamenti teologici.
·
Le scienze naturali cessano
di riconoscere come scientificamente indiscutibili le affermazioni contenute
nei Libri sacri, e cercano la verità sui fenomeni terreni nello
studio diretto e sperimentale della natura.
·
La storia non è più
considerata il campo dell’azione provvidenziale di Dio, ma dell’azione e
dell’impegno dell’uomo.
·
La politica, anziché
strumento per condurre l’umanità a una perfezione terrena che preluda a quella
celeste, diventa una scienza con leggi proprie che si pone come fine la
costruzione e il mantenimento di uno stato.
·
L’arte non si propone più il fine pedagogico di educare e
migliorare moralmente gli uomini, ma il fine edonistico (dal gr. hedoné
= piacere) di creare bellezza che per gli uomini sia fonte di gioia.
Tutto il Rinascimento è percorso dalla convinzione della
potenza dell’uomo sulla terra. Scrive un umanista, Marsilio Ficino: «L’uomo si
serve degli elementi, misura la terra e il cielo, scruta la profondità del
Tartaro. Il cielo non gli sembra troppo alto, né il centro della Terra troppo
profondo... Nessun confine gli basta. Dovunque si sforza di comandare, di
essere lodato, di essere eterno come Dio».
La terra casa dell’uomo – Poiché il momento centrale della vita umana è quello
terreno, acquista nuovo valore la terra, che è la dimora dell’uomo. Ad essa il
Rinascimento non guarda più come a un’emanazione di Dio, pervasa da anelito
verso Dio come nel Cantico delle Creature di San Francesco,
né come al luogo delle vane passioni umane, «l’aiuola che ci fa tanto feroci»,
che Dante vede dal Paradiso; ma come a luogo che appartiene all’uomo e alla sua
iniziativa, che va indagato nella sua interna struttura e nelle leggi che vi
agiscono, che va scoperto nei suoi spazi geografici ancora ignoti, che infine
va goduto nella sua bellezza.
Alla conoscenza della struttura e delle leggi naturali del
nostro pianeta è diretto il nuovo metodo di ricerca instaurato da Leonardo da
Vinci, il metodo sperimentale. Le terre ignote sono raggiunte dall’infittirsi
di quelle imprese di navigatori e di scopritori già iniziate nei secoli
precedenti. La natura con la sua variegata bellezza campeggia nelle tele dei
pittori e, sotto forma di splendidi giardini, diventa elemento architettonica
delle dimore signorili. E fa infine la sua irruzione nella poesia, dal
Magnifico e da Poliziano al Furioso di Ariosto, sotto forma di
roseti in fiore, di alberi, acque, prati attraverso i quali si esprimono gli
stati d’animo dei personaggi o che diventano parti delle loro vicende.
Le corti, centri culturali del Rinascimento – Centri culturali del Rinascimento sono le corti dei
vari Signori che traggono lustro dalla presenza di poeti, studiosi, artisti. I
quali a loro volta vi trovano un ambiente ricco e confortevole, biblioteche ben
fornite, possibilità di lavoro, occasioni di incontro con altri uomini d’arte e
di cultura, sicurezza economica. Elementi che concorrono non poco alla
fioritura intellettuale e artistica di quest’età. Ma la vita di corte ha una
contropartita negativa: limita la libertà dell’artista e del poeta
condizionandola alla protezione e qualche volta alle esigenze del Signore, e
inoltre favorisce la nascita di un’arte d’elite, che ha nella corte la sua
origine e la sua esclusiva destinazione.
Intellettuali e pubblico nel
Rinascimento – In età umanistica, mentre nella Firenze repubblicana
persisteva l'intellettuale comunale, nel resto d'Italia la figura dominante era
quella dell'intellettuale cortigiano. Quest'ultimo, a differenza di quello che
caratterizzava l'età comunale, non traeva sostentamento da altre professioni,
ma faceva della conoscenza il proprio mestiere. Questo intellettuale era alle
dipendenze di un signore, un mecenate, il quale lo proteggeva in cambio dei
suoi servizi.
L'aspetto
negativo di questa situazione era che l'artista perdeva ogni autonomia a causa
di questa sorta di sottomissione; quello positivo era che egli poteva dedicarsi
completamente alla sua attività grazie al mantenimento dato dal signore. Chi,
invece, non voleva entrare a far parte di una corte, ma comunque era sua
intenzione occuparsi solamente del lavoro di intellettuale, l'unica alternativa
era la condizione clericale. Questa consisteva nel semplice usufrutto dei beni
ecclesiastici senza, però, l'obbligo della cura delle anime. Per quanto
riguarda il pubblico del primo `400 questi ritornò ad essere un gruppo
elitario. Questo perché, mentre nel `200 e `300 la traduzione dei testi e la
loro divulgazione si affermarono, nell'Umanesimo tornò ad essere determinate
l'uso di un latino raffinato e modellato in base alle opere classiche.
Dunque
la produzione umanistica era a circuito chiuso. Anche se successivamente c'era
stato un ritorno al volgare, si trattava, di nuovo, di una creazione elitaria
rivolta a dei colti dai modi aristocratici. Inoltre, nonostante l'invenzione
della stampa da parte di Gutenberg, il libro continuava ad essere un oggetto
per pochi. Gli unici testi che circolavano tra la popolazione erano gli
almanacchi e qualche opera devozionale.
Nel
Rinascimento, comprendendo anche il momento manierista, l'intellettuale
cittadino era in netto declino. Continuava, invece, ad affermarsi con decisione
il fenomeno del Mecenatismo.
L'intellettuale,
quindi, si identificava maggiormente in quello cortigiano. La richiesta
incessante degli artisti nelle corti era il motivo del loro spostamento
continuo, poiché davano lustro al proprio signore.
Verso la fine del `400, però, le corti persero potere a causa
della debolezza politica degli Stati italiani, a danno anche degli
intellettuali stessi. Essi, non trovando più una determinata identità,
cercarono altre forme d'aggregazione, come le accademie. Come era accaduto
nell'Umanesimo, anche nel Rinascimento molti studiosi intrapresero la carriera
religiosa. Gli intellettuali di questo periodo, però, sono i primi ad avere una
certa ribellione nei confronti di tutti quei precetti che, invece, rendevano
orgogliosi chi li seguiva. Gli appartenenti a questa sorta di opposizione
facevano parte di quella corrente detta Manierismo. Comunque anche il pubblico
rinascimentale,come quello che aveva caratterizzato l'Umanesimo, era formato da
una cerchia ristretta di individui. Solamente le rappresentazioni teatrali
erano momenti di partecipazione collettiva del popolo, caratterizzato da un
altissimo tasso di analfabetismo. L'era barocca è stata una fase in cui gli
intellettuali focalizzarono la loro attenzione sulla generale decadenza
economica,sociale e politica in Italia,la quale era soggetta da un lato
all'egemonia spagnola e dall'altro soggetta all'affermazione della Controriforma
cattolica. Gli intellettuali sul piano artistico ,preferiscono l'effetto al
gusto,la forma al contenuto. Il Barocco, dunque, rappresenta un grandissimo
cambiamento rispetto alle precedenti correnti. Gli intellettuali tendevano a
rifiutare il culto dell'autorità dei modelli classici e la loro rivendicazione
di autonomia,di autorità letteraria contro la precettistica si traduceva in una
ricerca continua di meraviglia e di stupore. In questo periodo agli
intellettuali si poneva il problema di un pubblico nuovo,assai più ampio di
quello delle corti rinascimentali(ormai in profonda decadenza);ma la
letteratura che gli intellettuali offrivano era spesso evasiva,per un pubblico
molto più arretrato culturalmente.
L’arte
rinascimentale – Il periodo del Rinascimento
(dal Quattrocento alla prima metà del Cinquecento) coincise con l'instaurazione
del sistema politico assolutistico dei grandi Stati nazionali che caratterizzò
l'Europa moderna. Se nella vita politica si affermò l'onnipotenza della
monarchia, nella storia socio-economica assunse rilievo centrale la figura del
mercante, mentre l'equilibrio tra città e campagna era attraversato da forti
tensioni provenienti dal mondo agrario.
Il Rinascimento fu un fenomeno
europeo, ma le sue radici furono italiane, anzi fiorentine: infatti fu
l'umanesimo fiorentino (F. Petrarca, L. Bruni, M. Ficino ecc.) a promuovere
inizialmente il recupero di testi latini e greci, a riassimilare per primo i
modelli dell'antichità classica nei campi dell'arte e della vita intellettuale,
a riscoprire il mondo, l'uomo e la natura quali luoghi primari di elaborazione
del sapere. Le manifestazioni più emblematiche dell'estetica rinascimentale
scaturirono dalle arti visive e dall'architettura (alle quali furono dedicati
anche testi e trattati normativi sulla prospettiva e la "città
ideale"), resi possibili grazie al mecenatismo sia delle corti italiane
sia del papato romano.
Apertosi
simbolicamente nel 1401 con il concorso tra Filippo Brunelleschi e Lorenzo
Ghiberti per la seconda porta del battistero di Firenze, il Rinascimento si
protrasse fino alla metà del sec. XVI. Si configurò come fenomeno tipicamente
italiano e stimolatore di nuove energie, anche se venne a maturazione nel clima
generale di rinnovato interesse naturalistico comune a tutta l'arte europea, in
particolare parallelamente e in fecondo intreccio con l'umanesimo nordico nato
nelle Fiandre.
a) Il concetto di Rinascimento – Il concetto di
Rinascimento come ripresa degli ideali e delle forme dell'arte classica, dopo
il Medioevo, trovò la sua esposizione sistematica nell'opera letteraria di
Giorgio Vasari (Vite de' più eccellenti architetti, scultori e
pittori, edita a Firenze nel 1550), che individuò il germe della
rinascita nella pittura di Giotto e nella scultura di Nicola Pisano.
La sintesi di Giotto
fu recuperata e superata largamente a Firenze agli inizi del Quattrocento da un
architetto, F. Brunelleschi, uno scultore, Donatello, e un pittore, Masaccio.
Costoro attuarono una rivoluzionaria trasformazione della concezione e delle
funzioni dell'attività artistica: nelle loro mani l'arte, non più attività
meccanica, ma intellettuale, diventò strumento di conoscenza e di indagine
della realtà, cioè disciplina basata su precisi fondamenti teorici. Tali
fondamenti sono riconoscibili per la prima volta nell'invenzione della
prospettiva da parte di Brunelleschi. Le possibilità fornite dal mezzo
prospettico di misurare, conoscere e ricreare uno spazio a misura umana furono
espresse nella nitida scansione geometrica delle architetture di Brunelleschi,
nel proporzionato ambito spaziale che accoglie le figure eroiche dei rilievi di Donatello e dei dipinti di Masaccio.
Filippo Brunelleschi
è universalmente considerato il pioniere del Rinascimento italiano e l'artefice
di una concezione dell'architettura che avrebbe dominato la scena artistica
europea, almeno fino al XIX secolo. Attraverso un appassionato studio
dell'antichità, che lo portò più volte a Roma a partire dal 1402, egli reagì
all'anticlassicismo dell'architettura e della cultura artistica tardogotica,
rifacendosi con coerenza al linguaggio degli antichi e proponendo nuovi sistemi
progettuali basati sulla modularità delle strutture. A lui è attribuita
l'invenzione della prospettiva a punto unico di fuga, cioè di un metodo per
rappresentare razionalmente lo spazio riportandolo a rigorose formule
matematiche. La stessa architettura classica era riproposta da Brunelleschi
come esempio dell'esatta misurabilità dello spazio, della possibilità concreta
di sottoporre a formule matematiche tutta la corposa realtà dello spazio
architettonico.
Con Brunelleschi si
inaugurò una nuova figura sociale di architetto e si definì un nuovo sistema di
organizzazione del cantiere e del lavorio edilizio. L'architetto non era più un
sovrintendente ai lavori, dotato di pari dignità rispetto a maestranze in larga
misura autonome, come accadeva in età medievale, bensì un intellettuale, colto
e aggiornato, che concepiva e dettagliatamente preparava il progetto della
struttura generale e dei particolari dell'edificio, progetto al quale doveva
conformarsi l'attività degli operai, degli artigiani e dei decoratori impegnati
nei lavori.
L'artista che per
primo, e con estrema coerenza, cercò di trasporre in campo pittorico gli ideali
laici, classicistici e razionali elaborati da Brunelleschi, fu Masaccio. La sua
carriera artistica, per quanto brevissima, segnò uno spartiacque preciso tra
fasi storiche diverse. Con Masaccio le vicende della pittura, imboccavano un
nuovo corso, quella della raffigurazione dell'uomo reale, dotato di sentimenti
terreni e sopratutto di un corpo solido, naturale, ben costruito sulla scorta
dei prototipi antichi e dello studio dal vivo. E questa umanità era collocata
in uno spazio regolato dalle leggi obiettive della visione oculare, cioè
costruito secondo le regole della prospettiva brunelleschiana.
Accanto a
Brunelleschi e Masaccio, Donatello fu il terzo grande innovatore del primo
Rinascimento fiorentino. Anch'egli ruppe con decisione nei confronti della
tradizione tardogotica, elaborando nuove forme all'interno del filone di
ricerca più caratteristico della maniera moderna: la riscoperta della realtà
naturale e l'assunzione delle forme antiche. La sua fu un'esperienza complessa,
fatta di scarti continui verso mete artistiche sempre discusse, negate e
mutate. Ma Donatello, ed è una grande novità, ebbe sopratutto una straordinaria
capacità di descrivere una gamma vastissima di atteggiamenti e moti dell'animo;
inoltre, nelle sue opere il sentimento personale dell'autore sembra più volte
trasparire: le figure bibliche, evangeliche o mitologiche, divengono le
portavoci del loro creatore.
Questo
antropocentrismo, per cui l'uomo è "misura di tutte le cose", rientra
nel grande programma di renovatio dell'antichità
classica che gli artisti del Quattrocento si proposero di attuare. L'antico
tuttavia non fu inteso, in questa prima fase, come un modello da imitare, bensì
come coscienza storica del passato, fonte di ispirazione per elaborazioni
autonome.
In questa linea
Donatello risuscitò il nudo classico (David bronzeo del Bargello), ricreò il
ritratto romano, realistico ed eroico, ripropose il tema del monumento equestre
(Gattamelata a
Padova), e su questa linea si mosse tutta la scultura fiorentina del secolo
fino a Michelangelo.
b)
Il
mecenatismo nell'Italia settentrionale – La corte signorile divenne
il luogo privilegiato per lo sviluppo del Rinascimento italiano anche nelle
città minori. Gli spostamenti di Donatello a Padova e di Leon Battista Alberti
a Mantova avviarono le esperienze dell'umanesimo settentrionale, dalla pittura
di A. Mantegna a quella lombarda di V. Foppa, e fornirono stimoli alle più
originali e autonome esperienze maturate a Ferrara e Venezia.
Sotto
la signoria degli Este, anzi per volontà di Ercole I d'Este, Ferrara accolse
l'esperienza urbanistica più vitale del Quattrocento, l'addizione erculea progettata (a iniziare dal 1492) da Biagio
Rossetti, cioè la grandiosa espansione della città verso nord basata su una
rete di strade rettilinee e larghe ai cui incroci dovevano sorgere grandiosi
palazzi. La contemporanea presenza in Ferrara di Piero della Francesca e del
fiammingo R. van der Weyden stimolò la formazione di una corrente pittorica di
straordinaria raffinatezza formale, i cui maggiori rappresentanti furono Tura,
del Cossa e de' Roberti, la quale esercitò un duraturo influsso sulla cultura
pittorica in Emilia.
La
Repubblica di Venezia, tesa ad ampliare i suoi domini nell'entroterra e venuta
quindi a contatto con Padova e Verona, accolse artisti da Firenze (Paolo
Uccello, Andrea del Castagno) e diede vita a una fiorente scuola pittorica il
cui indiscusso capofila fu Giovanni Bellini. Sempre a Venezia giunse a
maturazione l'esperienza di Antonello da Messina, formatosi nella Napoli degli
Aragonesi, aperta ad apporti spagnoli e franco-fiamminghi.
c) Il mecenatismo nell'Italia centrale –
Nell'Italia centrale assurse a grande centro di cultura artistica Rimini: vi
operarono Alberti (Tempio Malatestiano), Piero della Francesca, scultori,
decoratori e medaglisti. A poca distanza, Federico II da Montefeltro fece di
Urbino la sede di una corte raffinatissima, presso la quale operarono
architetti come L. Laurana e Francesco di Giorgio Martini, pittori italiani
(Piero della Francesca, Paolo Uccello) e stranieri (il fiammingo Giusto di
Gand, lo spagnolo Pedro Berruguete, 1450-1506), maestranze di scultori e
decoratori; in tale clima culturale maturarono le eccelse esperienze del
Bramante e di Raffaello. Pietro Perugino ebbe invece un ruolo fondamentale
nella diffusione della scuola umbra.
d)
Il mecenatismo nell'Italia meridionale
– Nella seconda metà del Quattrocento Napoli non ricoprì un ruolo culturale
paragonabile a quello esercitato da Firenze, Ferrara o Urbino, tuttavia diede
un apporto essenziale allo sviluppo della pittura rinascimentale con l'attività
di alcuni artisti, quali Colantonio e Antonello da Messina che a Napoli appunto
si formarono. Determinante a fissare quel clima culturale e artistico fu la
diffusione di opere fiamminghe (Roger Van der Weyden e Jan Van Eyck) raccolte
dai sovrani d'Angiò e d'Aragona.
Colantonio
(Napoli ca 1420-70) ebbe un'importante collocazione nel mondo culturale
napoletano, ricco di fermenti umanistici e aperto agli apporti borgognoni,
iberici e soprattutto fiamminghi. Nel S. Gerolamo e il leone (1445,
Napoli, Capodimonte) l'artista ripropone infatti un ambiente tipicamente
fiammingo.
e) Firenze nella seconda metà del Quattrocento
– Nella seconda metà del Quattrocento Firenze
era ancora la capitale incontrastata della cultura italiana e il mecenatismo
dei Medici toccò il punto più alto alla corte di Lorenzo il Magnifico. Ma già
prima della sua morte, l'asse delle esperienze artistiche italiane più vitali
cominciò a spostarsi in altri centri, sia perché le novità proposte dagli
artisti fiorentini del primo Quattrocento avevano fatto scuola al di fuori di
Firenze, sia per la tendenza dell'arte fiorentina a chiudersi in se stessa. Le
figure più rappresentative di questa seconda fase fiorentina furono Antonio Pollaiolo
e Andrea Verrocchio. Emblematico fu inoltre il caso di Sandro Botticelli che,
dapprima interprete delle idee neoplatoniche circolanti alla corte di Lorenzo
de' Medici, alla morte di quest'ultimo e con la crisi seguita alla condanna
della cultura neoplatonica da parte di Savonarola, realizzò infine opere sempre
più drammatiche. Di tale crisi risentì anche Luca Signorelli, nonostante non
fosse strettamente legato all'ambiente fiorentino.
f) l’arte fiamminga – Nella storia
dell'arte, l'espressione 'arte fiamminga' viene applicata alle manifestazioni
artistiche, specialmente pittoriche, fiorite con ben definite caratteristiche
storiche e stilistiche nelle Fiandre (regioni meridionali dei Paesi Bassi e
regioni settentrionali del Belgio) a partire dal sec. XV fino al XVII.
L'arte
fiamminga ha le sue origini verso la metà del Trecento per il confluire di
esperienze del raffinato gotico francese e di influssi senesi sul fondo del
vivace naturalismo locale, ma soltanto nel secolo seguente, con Jan Van Eyck
(ca 1390 - Bruges 1441, le cui opere più celebri sono i Coniugi Arnolfini (1434, Londra, National Gallery) e la Madonna del cancelliere Rolin (1433, Parigi, Louvre) oltre a
numerosi ritratti, si affermò nei suoi caratteri essenziali. La grande
protagonista dell'umanesimo fiammingo, che nasce parallelamente all'umanesimo
italiano, è la natura, indagata con lenticolare attenzione in tutte le sue
particolarità e di cui l'uomo è aspetto fondamentale ma non predominante; e il
fattore unificante della visione non è la concezione razionale e geometrica
dello spazio, ma la luce, principio stesso della visione, una luce reale e non
astratta. Questa poetica venne arricchita dalle ricerche di Robert Campin (Tournai ca 1375 - 1444) identificato con il Maestro di
Flémalle; dalle tendenze più drammatiche di Roger Van der Weyden (Tournai ca
1400 - Bruxelles 1464), che si interessò al particolare realistico e
all'analisi della psicologia umana unitamente alla sensibilità luministica e
produsse un'importante serie di ritratti come Il Gran Bastardo Antonio di Borgogna di Bruxelles e la Giovane donna di Berlino; dall'intimismo di Petrus
Christus (Baerle, Gand ca 1410 - Bruges 1472/73); dalla severità morale e dalla
luminosità di Dierik Bouts (Haarlem 145 - Lovanio 1475); dall'intenso
naturalismo di Hans Memling (Mömligen ca 1435 - Bruges
1494). Un posto di rilievo trova la eterodossa, visionaria arte di Hieronymus Bosch (ca 1450-1516), creatore di un magico e demoniaco mondo di
allegorie, visto con spirito critico e moraleggiante.
Intanto,
nel corso del sec. XV, la pittura fiamminga aveva esteso il suo influsso a
livello europeo, dalla Francia meridionale alla Spagna e al Portogallo (dove
Van Eyck viaggiò nel 1428), dai paesi tedeschi alla stessa Italia dove si
ricordano i viaggi di Van der Weyden a Ferrara nel 1450, dell'altro pittore
Giusto di Gand (attivo tra il 1460-75) a Urbino nel 1473-75, e l'influsso
esercitato da opere importate dalle Fiandre come il celebre Trittico Portinari (1476 ca) di Hugo Van der Goes
(1435-1482) a Firenze.
g) Il maturo Rinascimento – Il Cinquecento fu un
secolo caratterizzato da laceranti e drammatici contrasti: la scossa della
riforma protestante di Lutero (1517), i successivi sviluppi della controriforma
cattolica. Eventi che alterarono profondamente i termini dell'operare
artistico: l'arte diventò ricerca inquieta delle ragioni dell'azione umana
nella storia, dell'esperienza umana del divino. Questi contrasti si
rispecchiarono in modo esemplare nelle esperienze dei più grandi artisti del
momento: nell'indagine sperimentale di Leonardo; nella bruciante tensione
spirituale di Michelangelo; nel misurato e luminoso classicismo compositivo di
Raffaello. Venezia parve vivere più a lungo una felice stagione di classicismo,
nella pittura di Giorgione e del primo periodo di Tiziano. Ma la vera erede del
prestigio di Firenze fu Roma, che dopo il ritorno dei papi da Avignone aveva
conosciuto, per il mecenatismo papale, un intenso rinnovamento edilizio e
culturale.
La lirica – Nel Quattrocento la produzione lirica è
copiosissima, ma non nascono grandi poeti e opere di spicco, almeno fino agli
ultimi decenni del secolo. La poesia tende a divenire una forma di letteratura
slegata da finalità intellettualmente importanti; si affievolisce cioè la
funzione che aveva avuto nei secoli precedenti, quando la poesia aveva
trattato anche temi filosofici, morali, politici, ecc.
Anche la ricerca di
forme nuove subisce una battuta d’arresto e i poeti preferiscono ripercorrere
le orme della tradizione: la lirica del Duecento, Dante e Petrarca, ma anche
la poesia popolare e quella giullaresca, sono tutti modelli ripresi e imitati
nel Quattrocento, senza che si manifesti una tendenza dominante.
Un aspetto comune alla
lirica del Quattrocento è l’affermarsi delle forme poetiche più legate al
consumo; per esempio, diventa più vasta la poesia per musica e, più in
generale, si sviluppa la poesia d’occasione, quella scritta in concomitanza e
per celebrare i piccoli e i grandi avvenimenti della vita di corte.
Tra i molti poeti che
appartengono ad aree geografiche diverse, ricordiamo Agnolo Poliziano, Matteo
Maria Boiardo, Iacopo Sannazaro e Lorenzo de’ Medici.
Un discorso a sé
merita la lirica latina che si sviluppò soprattutto nei centri umanistici di
Siena, Firenze e Napoli e che visse all’interno di un ristretto gruppo di
intellettuali.
Dopo la molteplicità
delle esperienze quattrocentesche, nel nuovo secolo la produzione lirica sembra
incanalarsi verso l’assunzione del modello petrarchesco; questa tendenza,
dapprima incerta, trova una consacrazione definitiva nell’opera di Pietro
Bembo e porta, dopo il 1530, a una vera esplosione della produzione lirica.
Bembo propone infatti
il linguaggio del Canzoniere di Petrarca come modello assoluto
della poesia lirica, ma anche le situazioni, le mille sfumature della
contemplazione, del sogno, del pensiero amoroso, i modi in cui l’amore si
manifesta come gioia, nostalgia, ricordo. Il dissidio di fondo della poesia
petrarchesca rimane estraneo a questa lettura che sicuramente appiattisce
l’opera di Petrarca, ma nello stesso tempo la trasforma in un formidabile
«serbatoio» cui attingere temi, immagini e anche rime, aggettivi e interi
versi. Il fenomeno, chiamato petrarchismo, trionfa ben presto in
Italia e in Europa e travalica i limiti del Cinquecento; esso fornisce un
modello e delle regole così precise, funzionanti e applicabili a infinite situazioni
tanto che la produzione lirica diventa un fenomeno di massa, nel senso che
tutti coloro che in qualche modo hanno a che fare con la letteratura scrivono
poesia, magari utilizzandola come scuola di apprendimento della lingua letteraria
o come strumento da usare nei rapporti mondani.
Naturalmente ci sono
anche poeti che pur nell’alveo del petrarchismo espressero una loro
originalità; tra questi ricordiamo le voci di Giovanni Della Casa, Luigi
Tansillo, Michelangelo Buonarroti, e fra le poetesse Gaspara Stampa e Veronica
Franco.
Anche la produzione
lirica risente fortemente dei mutamenti culturali che percorrono il
Cinquecento. Dopo la metà del secolo si afferma una poesia religiosa; inoltre
la grande quantità di accademie letterarie promuove la composizione di tante
poesie che nascono per celebrare i diversi momenti della vita accademica: la
lirica d’occasione già diffusa nelle corti, trova quindi un ulteriore sviluppo.
Da ricordare infine che accanto alla lirica
d’amore e a quella impostata su toni alti, continua a essere presente nella
prima parte del secolo una produzione burlesca che ebbe in Francesco Berni
l’autore più interessante.
La novella – Nei primi decenni del Cinquecento, la produzione
di novelle fu scarsa e non riesce ad affrancarsi dall’imitazione del modello
boccaccesco. Il genere trovò una nuova vivacità nella seconda metà del Cinquecento
grazie ad autori che propongono soluzioni narrative di una certa novità:
ricordiamo i nomi del piemontese Matteo Bandello, del ferrarese Giambattista
Giraldi Cinzio, del toscano Anton Francesco Grazzini detto il Lasca.
Il trattato - La dimensione e la vitalità della cultura umanistica si
rispecchia con evidenza nella produzione di trattati che fu assai vasta e
riguardò soprattutto argomenti filosofici, letterari, linguistici e politici.
Una delle forme di trattato più diffusa fra
gli umanisti è il dialogo: l’autore immagina una situazione e un luogo, in
genere una casa o un giardino, nel quale fa incontrare un certo numero di personaggi,
reali o immaginari, e fa sì che il discorso si indirizzi su un argomento.
Ognuno dei personaggi espone una propria tesi, in modo che il discorso procede
per verifiche successive, attraverso mediazioni o scontri di opinioni. La conclusione
non è, quindi, l’affermazione certa di una verità; è il lettore che deve
ricavare dal confronto delle idee gli elementi per una personale elaborazione
dell’argomento.
È questa una delle strade che gli umanisti
intrapresero rinnovando profondamente la tradizione medievale del trattato e
dando ad esso una nuova eleganza e un’impostazione più libera dello sviluppo
delle argomentazioni.
Fino agli ultimi decenni del Quattrocento la
lingua principe del trattato rimane il latino, ma nella seconda metà del secolo
si afferma anche una trattatistica in volgare impegnata nella riflessione
teorica sulle varie «arti» e sulle tematiche civili.
Figura centrale di questa riconversione del
trattato dal latino al volgare fu Leon Battista Alberti il quale indicò i due
filoni tematici all’interno dei quali la trattatistica in volgare si affermò
con maggior forza nella seconda metà del Quattrocento: la riflessione sulla
dimensione familiare e civile dell’individuo e la riflessione teorica
sull’arte.
Nel Quattrocento i trattati in latino e in
volgare diedero voce al dibattito attraverso il quale si affermò la cultura
umanistica. Il genere continua nel Cinquecento ad avere un ruolo di primo
piano, trasformandosi in relazione ai mutamenti delle tendenze culturali: da
una parte continua la trattatistica in latino che circola in ambiti specialistici,
dall’altra compare una nuova trattatistica, l’espressione più viva e
interessante del momento culturale; scritta in italiano, riguarda diversi
settori e tende a fissare la fisionomia della nuova cultura, a scriverne le
«regole».
In particolare nei primi decenni del secolo
alcuni intellettuali fanno compiere un salto qualitativo di grande importanza
al dibattito culturale, fissando con i loro trattati le coordinate dell’intera
civiltà rinascimentale in Italia e in Europa. Il trattato si afferma così come
luogo privilegiato nel quale vengono posti i fondamenti della letteratura,
della politica, della lingua, del comportamento sociale.
I libri che fondarono una civiltà – La politica e l’arte del governare ebbero
una nuova definizione proprio nel momento storico in cui la penisola era
contesa da Francia e Spagna e avveniva la trasformazione di alcune signorie in
principati, ma incontrando difficoltà nel dare un’organizzazione moderna allo
Stato.
Niccolò Machiavelli con Il Principe e
Francesco Guicciardini con gli scritti storici e I Ricordi pongono
le basi della politica come scienza laica.
Altrettanto netto è il salto di qualità
delle Prose della volgar lingua del 1525 di Pietro Bembo, il
trattato che disegna il volto della lingua letteraria del Cinquecento e dei
secoli successivi.
Un’altra opera fondamentale per la civiltà del
Cinquecento è il Cortegiano del 1528 di Baldassar Castiglione.
La discussione sulla figura e sulle specifiche funzioni e caratteri dell’intellettuale
di corte costituiva un argomento nuovo, moderno, reso urgente dai rapidi mutamenti
del ruolo delle corti dall’ultima metà del Quattrocento ai primi anni del
Cinquecento. Il Cortegiano forniva indicazioni che furono prese come modello
in tutte le corti d’Europa e fecero di questo trattato un testo letto,
studiato, imitato dall’Inghilterra alla Spagna. Dal libro del Castiglione si
sviluppò un’ampia trattatistica sui costumi e sul comportamento del cortigiano
che, sotto una veste letteraria a volte frivola, affrontò il tema, molto serio,
del rapporto fra intellettuale e potere.
Niccolò Machiavelli – Acuto testimone della storia del suo tempo e
uno dei maggiori prosatori italiani, è il teorico di una politica rigorosamente
razionale, come unica risposta possibile all'egoismo degli uomini.
La vita e le opere – Machiavelli nacque a Firenze nel
1469 quando la città di Lorenzo de' Medici era all'apice della potenza e
del prestigio culturale, da una famiglia di nobili origini – i Machiavelli
erano stati signori di Montespertoli trasferitisi a Firenze, sottomettendosi
alla sua legge e dividendone le glorie – famiglia guelfa che diede alla città
di Firenze ben tredici Gonfalonieri di giustizia e una cinquantina di Priori;
la stirpe della madre originaria di Fucecchio era altresì di antica nobiltà e
la famiglia diede a Firenze un Gonfaloniere e cinque priori.
La madre rimasta vedova con Niccolò in giovane
età, si risposò con Francesco di Nello che era giureconsulto e tesoriere della
Marca. Machiavelli ricevette un'educazione di tipo umanistico, inizialmente
dalla madre che era anche poetessa.
La formazione di Machiavelli, come quella di
tutti i giovani di buona famiglia del suo tempo, fu di tipo umanistico: studiò
il latino e lesse i classici. Fin da allora, però, il suo interesse non era di
natura estetico-letteraria, ma contenutistico; i classici lo interessavano non
per il loro pregio artistico, ma nella misura in cui trovava riflessi nelle
loro opere i propri sentimenti e le proprie emozioni, e gli offrivano
esperienze utili per la vita pratica. Questo spiega la sua predilezione per gli
storici.
Nel 1494 fu allievo di Marcello Virgilio
Adriani; la sua educazione fu caratterizzata dalla presenza del latino, ma non
del greco antico. Va poi considerato che lesse opere come il De rerum
natura di Lucrezio, allora quasi clandestine.
Interessato alla politica già nella
giovinezza, approfittò della costituzione della Repubblica di Firenze per
cercare di partecipare alla vita politica della sua città.
Nel 1498, dopo la cacciata dei Medici da
Firenze e dopo il rogo di Savonarola, Niccolò Machiavelli fu eletto
segretario della seconda cancelleria della repubblica fiorentina, assumendo
importanti funzioni, tra cui quella di viaggiare all'estero per informare la
città sui principali provvedimenti presi dai più importanti governi europei.
L'entrare direttamente a contatto con le varie forme di governo, assieme alla
sua passione per i classici, contribuirono alla formazione del suo pensiero.
Nel 1499 Machiavelli scrisse il Discorso
fatto al magistrato de' Dieci sopra le cose di Pisa.
Dal 1500 al 1511 fu incaricato di svolgere
diverse missioni diplomatiche per conto della Repubblica e del Papato. Negli
anni passati al servizio della Repubblica partecipò a parecchie ambascerie: fra
queste se ne ricordano due presso Cesare Borgia, due alla Corte papale, quattro
presso Luigi XII re di Francia, una presso l’imperatore Massimiliano. Erano
contatti che gli davano modo di osservare il comportamento, le astuzie, le
abilità di molti uomini politici e di acquisire quell’esperienza diretta della
politica che gli sarebbe stata preziosa poi nella composizione delle sue opere
di teoria politica.
Nel 1503, Machiavelli scrisse la Descrizione
del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli,
Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini, una
breve opera storica in cui sono ripercorse le vicende di Vitellozzo
Vitelli, Oliverotto da Fermo, Paolo e Francesco Orsini,
quarto duca di Gravina, che avevano partecipato ad una congiura contro
Cesare Borgia, la cosiddetta congiura della Magione, nell’ottobre del1502,
e credendo di rappacificarsi con lui furono da questi catturati e uccisi mentre
si trovavano a Senigallia e ne stavano assediando la cittadella
difesa da Andrea Doria. In quest’opera è già visibile il suo interesse
per Cesare Borgia che nel Principe sarà poi proposto come
modello ai politici italiani.
Nel 1510, Machiavelli scrisse il Ritratto delle cose di
Francia in cui rileva che la corona di Francia è molto potente.
Il primo luogo per l’ereditarietà della corona, le migliori terre di Francia
sono in mano alla corona, in secondo luogo perché c'è un potere monarchico
personalizzato: le terre appartengono alla corona ed essendo un’istituzione
passano ai singoli re, che le trasmettono ai successori. In terzo luogo perché
la corona francese mise fine alle autonomie e alle guerre feudali (accadevano
quando il barone pensava di essere un piccolo monarca). Adesso c'è solo un re e
i baroni ubbidiscono e lo difendono. In quarto luogo per il principio del
maggiorascato: solo il figlio maschio maggiore eredità le proprietà di
famiglia.
Nel 1512, con la caduta della Repubblica fiorentina e con il
ritorno dei Medici a Firenze, le cariche tenute da Machiavelli
nell’amministrazione repubblicana gli suscitarono contro i sospetti del nuovo
governo e fu allontanato dal suo ufficio; in questo stesso anno scrisse
il Ritratto delle cose della Magna in cui rileva il
particolarismo e l'inesistenza di un potere centrale. C'erano conflitti tra
Imperatore contro principi e città, fra Principi contro città. Questi conflitti,
più il desiderio di indipendenza e lo spirito anti nobiliare portò la Germania
a una situazione esattamente contraria da quella francese. Lo stato tedesco
infatti non riesce ad emergere dalla frammentazione feudale.
Nel 1513, con il ritorno dei Medici a Firenze in seguito ad
accordi presi con il re di Spagna,Machiavelli fu sospettato di aver partecipato
ad una congiura antimedicea, incarcerato e sottoposto a tortura e nuovamente
condannato al confino. Fu amnistiato poco dopo con l'elezione di papa Leone X
dei Medici. Nello stesso anno si ritirò in completo isolamento nelle sue
proprietà a San Casciano in Val di Pesa e qui, nell’ozio forzato, facendo
tesoro delle esperienze acquisite e degli ammaestramenti che gli venivano
dalle amate letture degli storici latini, i compose le sue maggiori opere di
riflessione politica, il Principe e i Discorsi sopra
la prima deca di Tito Livio.
Nel 1513, Machiavelli scrisse Il
Principe, scritto di getto nel 1513, interrompendo la stesura
dei Discorsi, in cui si propone di mettere al servizio di un
principe che abbia la capacità di creare a un vasto e forte stato in Italia,
la propria esperienza politica e di illustrargli le leggi che devono guidare la
sua azione. L'opera nasce come approfondimento delle riflessioni su
quell’esperienza e sul suo fallimento, riflessioni che andavano trovando, nei
diciotto capitoli già stesi dei Discorsi, il filo di
una problematica incentrata sui principi che reggono le repubbliche e le cause
per cui esse cedono e volgono a un ordinamento monarchico. L'interruzione di
questo lavoro, ancora improntato dall'apparato della tradizionale etica
politica, è segnato dalla necessità che spinge Machiavelli a volgersi verso le
immediate esigenze della politica attuale, a sollecitarne le forze in gestazione
affrontando direttamente il grande problema del suo tempo: quello del
principato. Il 10 dicembre del 1513 Machiavelli dà all'amico Vettori notizia del compimento dell'opera, iniziata
probabilmente nel luglio dello stesso anno. Machiavelli sembra muovere,
infatti, da una classificazione puramente scientifica, distinguendo le
monarchie in tre specie: quelle ereditarie, quelle nuove e quelle miste. Ma
subito la trattazione si focalizza sul nucleo di problemi che si va ponendo;
cioè come si formano, al di fuori di ogni tradizione di prestigio e dignità, i
principati nuovi; come si conquistano, o con armi proprie o con truppe
mercenarie, con la fortuna o con la virtù; come, comunque conquistati, possano
essere conservati. Più che i modelli canonici degli antichi fondatori di Stati,
da Mosè a Romolo, a Machiavelli interessa però chiamare in causa quei
particolari protagonisti di capitali vicende politico-militari che erano stati
i capitani di ventura, dal vittorioso Francesco Sforza fino
al più recente Cesare Borgia, quel Valentino che gli
appare meglio incarnare l'ideale figura del principe:
«... io non saprei quali precetti mi dare
migliori a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua; e se li ordini
suoi non profittorno, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed
estrema malignità di fortuna».
Il limite permanente dell'azione individuale
è, infatti, la necessità dell'ordine delle cose, ordine naturale e non più
trascendente e provvidenziale: la “virtù” del principe non riveste quindi
caratteri etici, ma piuttosto psicologici, e si sostanzia di abilità, potenza
individuale, fiuto delle situazioni e misura delle proprie possibilità. Al
principe si richiede la virtù congiunta della volpe e del leone, intelligenza
delle situazioni e istintività di intuito ferino che solo può indicargli le vie
della “fortuna”; la sua natura deve quindi essere duplice come quella del
centauro, metà uomo e metà bestia. Esistono però alcuni principi generali
nell'organizzazione degli Stati, e a questi fondamenti, “le buone leggi e le
buone armi”, il principe deve anzitutto attenersi. È per averli trascurati,
quindi per la loro “ignavia”, che i principi italiani, privi di eserciti
cittadini fidati da contrapporre ai nemici, hanno dovuto pensare “a fuggirsi, e
non a difendersi”: poiché “non può essere buone leggi dove non sono buone arme,
e dove sono buone arme conviene che sieno buone leggi”. Due anni più tardi
Machiavelli indirizzò l'operetta a Lorenzo de' Medici, duca
di Urbino, aggiungendo un XXVI capitolo di esortazione al Medici a farsi
“principe nuovo”, a intraprendere l'opera di unificazione delle province
italiane e “liberarle dai barbari”. Si sarebbe così realizzato quel disegno
monarchico-unitario che Machiavelli aveva ben individuato come moderno orientamento
della politica europea. Al carattere politico-militare di questo scritto
corrisponde la precisa invenzione di uno stile enunciativo, sciolto dalle forme
scolastiche del sillogismo, ma che procede invece per interne concatenazioni
con andamento analogo a quello che sarà proprio di tutta la prosa scientifica
moderna.
Negli anni di isolamento si dedica anche alla
stesura di opere letterarie e filosofiche.
Il successo ottenuto in una rappresentazione
della sua commedia La Mandragola, scritta nel 1518, gli consentì di
smussare il clima di sospetto nei suoi confronti. La visione
pessimistica del comportamento umano, che si acuì nel periodo in cui non
partecipò alla vita politica e si manifestò nella Mandragola, tagliente
e amara satira della corruzione dei costumi contemporanei, dove l'essere
umano è rappresentato come incapace di andare oltre il meschino interesse
personale. Racconta la beffa, di sapore boccaccesco, giocata dal giovane
Callimaco e dal suo servo Ligurio al vecchio e balordo messer Nicia, sposo
della bella Lucrezia e desideroso di avere a ogni costo da lei un figlio.
Fingendosi esperto di medicina, Callimaco gli fa credere che, per vincere la
sterilità della moglie, è necessaria una pozione di mandragola, i cui effetti però sono letali per chi, per
primo, si congiunge con colei che l'ha bevuta: occorre pertanto trovare una
persona che per una notte sostituisca il marito. L'inganno sarà effettuato
grazie alla complicità di Sostrata, madre della giovane, e dell'avido e cinico
fra' Timoteo, suo confessore, che mettono a tacere gli scrupoli dell'onesta
Lucrezia, la quale, arrendendosi all'immoralità altrui, finirà con il diventare
l'amante di Callimaco. Capolavoro del teatro italiano del
Rinascimento, La Mandragola rispecchia un'umanità negata a ogni
trascendenza ed esclusivamente volta a soddisfare i propri istinti, contemplata
con spietata e impassibile ironia da Machiavelli, che in quell'inganno amoroso,
comico risvolto degli inganni politici de Il Principe, trova
la conferma della sua pessimistica massima secondo cui “nel mondo non è se non
vulgo”.La protagonista femminile della commedia, Lucrezia, è ingannata al fine
di essere conquistata, è vittima di intrighi, ma poi riesce a cogliere
un'occasione fortunata ed a diventare artefice del proprio destino.
Fra il 1513 e il 1519, Machiavelli scrisse
i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in cui, commentando
i primi dieci libri delle Storie di Livio, trae da esse
riflessioni che reputa ancora attuali e valide per i suoi tempi. L'opera, concepita
come una serie di considerazioni in margine al testo liviano (la
prima decade dei libri Ab urbe condita, dall'origine di Roma
all'anno 293 a. C.), è ordinata senza sistematico rigore in tre libri: il primo
tratta dell'origine e della costituzione interna dello Stato, il secondo della
sua struttura militare e delle conquiste per l'espansione del dominio, il terzo
delle cause che ne determinano la stabilità o la decadenza.
Nel 1516, Machiavelli iniziò a frequentare le
riunioni nei giardini del Palazzo Rucellai – gli Orti Oricellari – dove
discuteva di argomenti letterari, filosofici e politici.
Fra il 1516 e il 1520, Machiavelli
scrisse Dell'arte della guerra, dove sono trattati problemi di
tecnica militare, ed è ribadita la superiorità delle milizie cittadine su
quelle mercenarie.
Nel 1520, Machiavelli scrisse la Vita
di Castruccio Castracani da Lucca è un'operetta letteraria ispirata
alla vita dell'uomo d'arme lucchese Castruccio Antelminelli,
condottiero ghibellino del Trecento. Machiavelli. Riprende il modello delle
biografie di stampo classico e umanistico dei cosiddetti uomini Illustri,
descrizione dell'aspetto fisico e del carattere, discorsi e aneddoti. Il
Personaggio in sé assume rilievo di tono narrativo e drammatico ma comunque di
forte stampo politico, L'autore riflette nel condottiero del '300 l'ideale del
Principe virtuoso. Riacquistata la fiducia dei Medici, ebbe da loro
qualche piccolo incarico pubblico.
Fra il 1520 e il 1525 scrisse su
commissione del cardinale Giulio dei Medici le Istorie fiorentine che
espongono la storia di Firenze fino alla morte di Lorenzo il Magnifico nel
1492.
Nel 1521 a Carpi conosce personalmente
Francesco Guicciardini con cui stringe un'amicizia testimoniata da molte
lettere.
Nel 1525, Machiavelli portò in scena a Firenze
la commedia grottesca Clizia. Nello stesso anno ottenne la revoca
dall'interdizione agli incarichi pubblici e tornò a svolgere un'attività
politico-diplomatica al servizio dei Medici nella lega anti imperiale, formata
da Firenze, il Papato e la Francia.
Nel 1527, la discesa in Italia dell'esercito
imperiale di Carlo V travolse la lega e la stessa città di Firenze, dove fu
restaurata la repubblica democratica in seguito alla gravissima crisi
sorta nei rapporti tra Papa Clemente VII de' Medici) e Carlo V,
conclusasi con il Sacco di Roma. Il popolo fiorentino credette che fosse
venuto il momento opportuno per cacciare i Medici e restaurare la
Repubblica da esponenti savonaroliani e la famiglia dei Medici fu
costretta alla fuga: la presenza di Machiavelli fu sgradita al nuovo governo
repubblicano che guardava con sospetto al suo passato svolto dapprima al
servizio della Repubblica fiorentina e successivamente della famiglia dei
Medici e per tali motivi fu allontanato nuovamente da ogni incarico pubblico.
Tra il 1518 e
il 1527 Machiavelli scrisse la novella Belfagor arcidiavolo
Fra il 1497 – 1527 scrisse un Epistolario.
Nel 1527, Niccolò Machiavelli morì improvvisamente a Firenze a cinquantotto
anni in condizioni di povertà.
Il pensiero politico – Sulla scorta del rinnovamento posto in
essere dall'umanesimo, con Machiavelli e la
sua visione laica della vita la politica compì la propria rivoluzione
copernicana, assumendo una dimensione e una dignità autonome rispetto alle
altre sfere della religione e della morale; le pagine del
Principe mantengono la loro straordinaria attualità e vitalità perché
dimostrano che il potere è il più macroscopico fenomeno umano di cui, anziché
cercare giustificazioni o legittimazioni trascendentali e metafisiche, occorre
studiare realisticamente, e demistificare, i meccanismi di esercizio e di
funzionamento al di là di ogni sovrastruttura ideologica. L'“incanto” della
religione veniva spezzato per sempre, e da allora, dopo la lezione di
Machiavelli, il modo di intendere e spiegare tutta la fenomenologia politica è
cambiato. Filosofi e pensatori politici, trattando le eterne, spinose questioni
della migliore organizzazione del potere all'interno dello Stato, discorderanno
sui modi per garantire e tutelare la libertà e la dignità degli individui, ma
non potranno più prescindere da una metodologia interpretativa rigorosamente
empirica e realistica e non si porranno più come assunto fondamentale il
raggiungimento di fini oltremondani quali la salvezza dell'anima dei cittadini.
La politica tende così a convertirsi nella
scienza politica.
1) La politica come scienza autonoma - È
opera di Machiavelli la formulazione del principio che la politica è una
scienza autonoma che mira a fini propri e obbedisce a proprie leggi. Il fine
della politica è la costituzione e il mantenimento dello Stato; le sue leggi
quelle che, applicate con capacità ed energia, consentono al politico (e cioè
al principe, perché nel principato Machiavelli vede la forma politica adeguata
ai suoi tempi) di pervenire a tale meta. In tal modo la politica, coerentemente
con lo spirito rinascimentale, non è più concepita in funzione
religioso-morale, cioè come guida al retto vivere sulla terra in preparazione
della beatitudine nell’Aldilà; ma si prende atto che, nella concreta realtà, la
politica e la morale si muovono in ambiti diversi: la politica nell’ambito
dell’utile, la morale nell’ambito del buono e del giusto.
2) La «verità effettuale» - La
presa di coscienza della realtà effettiva in cui si trova ad operare (di quella
che Machiavelli chiama «verità effettuale»), la capacità di valutarla con
occhi snebbiati, senza illusioni, è condizione necessaria al successo del
principe. Solo se si renderà conto lucidamente della situazione
storico-politica in cui è immerso, se saprà prendere atto che gli uomini sono
generalmente malvagi, infidi, avidi, crudeli, e al massimo grado lo sono gli
uomini politici coi quali deve misurarsi; e se saprà poi agire di conseguenza,
ed essere a suo volta malvagio, infido, avido, crudele, solo in questo caso il
principe potrà ottenere successo. Al senso concreto e disincantato dellaverità
effettuale, Machiavelli contrappone quella che egli chiama l’immaginazione
della cosa, cioè l’illusione che il mondo non sia quello che è ma quello,
migliore, che ci piacerebbe che fosse. Illusione nefasta per il principe,
perché lo costringe a lottare coi suoi avversari ad armi impari. «Elli è tanto
discosto da come si vive a come si doverebbe vivere che colui che lascia quello
che si fa per quello che si doverebbe fare, impara più tosto la ruina che la
preservazione sua: perché uno uomo, che voglia fare in tutte le parti
professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni».
3) Il principe e la
virtù - Solo se saprà adeguarsi intelligentemente ai suoi tempi e
agli uomini con i quali deve cimentarsi, il principe sarà virtuoso.
La parolavirtù va intesa ovviamente in una accezione che non ha
più niente in comune con quella cristiana. La «virtù» di un principe è,
infatti, esclusivamente di natura politica, e significa capacità di successo
politico. Pur di raggiungere la meta che gli compete, cioè di costituire e
mantenere il suo Stato, il principe può commettere tutte quelle azioni che sono
considerate riprovevoli nei privati: può uccidere, tradire, non mantenere la
parola data, ecc. Su tali presupposti si capisce come Machiavelli possa
proporre come modello ai principi Cesare Borgia, personaggio feroce, infido,
corrotto, ma che era giunto vicino alla costituzione di uno stato vasto e
forte. Il principe cesserà di essere virtuoso solo quando il
suo comportamento, magari onesto e santo dal punto di vista morale, gli causerà
la perdita dello stato. Viene dunque posta una netta distinzione fra morale
pubblica, cioè la morale del politico, e morale privata,cioè
la morale dell’uomo quotidiano, che per il Machiavelli rimane quella
tradizionale.
4) Le leggi della politica - Per
raggiungere il successo il principe deve conoscere le leggi che regolano la
politica e sapersene valere. A tali leggi si perviene sperimentalmente,
partendo dall’analisi dei fenomenipolitici, cioè delle azioni e dei
comportamenti tenuti dagli uomini politici nelle più diverse situazioni. Come
avviene per le scienze naturali, le leggi che in questo modo si possono
formulare saranno tanto più valide e universalmente applicabili quanto maggiore
sarà il numero dei «fenomeni», cioè dei fatti, presi in esame. Perciò il
politico dovrà prendere in considerazione non soltanto le situazioni e le
azioni politiche contemporanee che egli può conoscere direttamente di persona
(esperienza delle cose presenti), ma anche quelle del
passato, di cui verrà a conoscenza mediante lo studio delle storie (esperienza
delle cose passate).
5) Le milizie - Strumento
indispensabile al successo del principe è un esercito efficiente. E tale non
può essere un esercito formato da milizie mercenarie, pronte a vendersi al
migliore offerente, e neppure da milizie ausiliarie, cioè fornite da un altro
principe e perciò pronte a tradire a suo vantaggio. Il principe deve dunque
possedere milizie proprie, cioè formate dai cittadini del suo Stato debitamente
addestrati alle armi.
6) Virtù e fortuna –
Alla virtù del principe, cioè alla sua energia, intelligenza,
spregiudicatezza, capacità di successo, si contrappone spesso la fortuna.
In lei gli uomini del Rinascimento non vedono più, come vedevano i medioevali,
una forza provvidenziale voluta da Dio per mantenere l’equilibrio del mondo, ma
una forza ostile che mira di solito a sconvolgere i piani degli uomini virtuosi.
Dalla fortuna il principe dovrà sapersi difendere prevenendone
i trabocchetti, così come gli uomini che vivono presso fiumi impetuosi si
difendono dalle piene costruendo dighe che le prevengano.
7) Il principe e il popolo –
La concezione politica del Machiavelli è molto aristocratica e
individualistica. La politica dì uno Stato è per lui tutta nelle mani del
principe che, uomo eccezionalmente dotato, lo costruisce e lo regge secondo
criteri propri insindacabili dai sudditi. I sudditi, la massa cioè del popolo,
non hanno voce; sono usati dal principe strumentalmente per la costruzione del
suo edificio politico. Questo disprezzo per la massa dei
cittadini, chiamati sprezzantemente vulgo, è uno dei limiti
maggiori, proprio in sede politica, del pensiero machiavelliano: una massa non
educata, ma semplicemente e arbitrariamente sfruttata, si rivelerà alla fine
debole e inefficiente anche come strumento politico.
Il pensiero di Machiavelli alla luce della
realtà politica del suo tempo - Nel pensiero politico machiavelliano è sempre presente,
condizionandolo, una esigenza fondamentale: che in Italia si costruisca
rapidamente uno Stato il più possibile vasto e forte. Machiavelli, infatti, con
lucida diagnosi, si era reso conto che l’Italia, divisa in piccoli Stati
perennemente in lotta fra loro, non avrebbe potuto resistere alla forza d’urto
delle grandi monarchie che andavano consolidandosi in Europa: Francia, Spagna,
Impero, che già avevano cominciato a volgere verso l’Italia le loro mire di
conquista. Solo uno Stato italiano forte avrebbe potuto contrastarle e salvare
l’indipendenza della penisola. La diagnosi era esatta: il sogno politico del
Machiavelli non si attuò, e cominciò per l’Italia, come egli aveva previsto, il
lungo periodo delle dominazioni straniere.
Un problema rimasto aperto: il rapporto
politica-morale - Se
Machiavelli ha avuto il merito di individuare l’autonomia reciproca della
politica e della morale, sgombrando il terreno da falsi presupposti, non si è
posto però l’essenziale problema di come queste due distinte attività possano,
pur nella distinzione, conciliarsi nella coscienza umana; se cioè sia
possibile, e come lo sia, attuare una politica che, pur perseguendo fini suoi
propri, non contraddica ai fondamentali principi etici dell’umanità.
È il problema che il Machiavelli ha lasciato
aperto ai posteri, e che nella pratica politica ancora non è stato risolto, ma
alla cui soluzione l’umanità deve tendere come a meta fondamentale.
Ludovico Ariosto – Ariosto
è la tipica figura di intellettuale cortigiano del Rinascimento, come
Castiglione, Bembo e molti altri letterati dell’epoca. La personalità di
Ariosto è però complessa ed inoltre nutre nei confronti dell'ambiente in cui
vive e lavora sentimenti di malcelato rifiuto e scaglia contro di esso una
sottile polemica.
La vita e le opere – Primo di dieci figli, Ludovico Ariosto
nacque nel 1474 a Reggio Emilia da Daria Malaguzzi (di nobiltà
reggiana) e dal conte Niccolò Ariosto (discendente da nobile famiglia
bolognese trapiantata a Ferrara) dove questi era capitano, della rocca
della città, in nome degli Estensi.
Nel 1481, la famiglia si trasferì prima, a
Rovigo, dove Niccolò era stato inviato dal duca Ercole I d'Este con l'incarico
di comandante della guarnigione; poi, a seguito della guerra scoppiata tra
Ferrara e Venezia, a Reggio, infine nel 1484, a Ferrara, sede della Corte
Estense, uno dei centri culturali più evoluti e raffinati del Rinascimento.
Tra il 1489 e il 1494, contro voglia, per
volere del padre, e con esiti piuttosto modesti, studiò diritto presso
l'Università di Ferrara. Ma intanto partecipava alla vivace vita della corte di
Ercole I, dove entrò in contatto con vari e prestigiosi letterati e umanisti
(Ercole Strozzi, Pietro Bembo e molti altri). Lasciato finalmente libero dal padre
di dedicarsi ai prediletti studi letterari, abbandonò il diritto e intraprese
lo studio della letteratura latina, cominciando a frequentare i corsi
dell'umanista Gregorio da Spoleto ed impegnandosi anche in una produzione
poetica sia latina sul modello dei grandi poeti dell’antichità, Tibullo,
Catullo, Orazio (liriche amorose, elegie, De diversis amoribus, De
laudibus Sophiae ad Herculem Ferrariae ducem primum, Epithalamium,
epitaffi ed epigrammi) sia volgare, le Rime di argomento
prevalentemente amoroso e di timbro petrarchesco (pubblicate postume 1546).
Nel 1500, in seguito alla morte del padre e,
poiché era il primogenito, la necessità di provvedere a una numerosa famiglia,
lo costrinse a cercare un impiego e ad abbandonare così la vita meditativa degli
studi per quella pratica: la tutela delle cinque sorelle e dei quattro fratelli
(tre dei quali minorenni e il maggiore Gabriele paralitico, che rimane con lui
tutta la vita). In una delle Satire così egli rievoca
argutamente questo momento della sua vita:
Mi more il padre, e da Maria il pensiero.
dietro a Marta bisogna ch’io rivolga.
Nel 1502, Ariosto ottenne il capitanato della
rocca di Canossa.
Nel 1503, ebbe un figlio, Giambattista, dalla
domestica Maria. Sempre nello stesso anno entrò al servizio del cardinale
Ippolito d'Este, figlio di Ercole I e fratello del duca Alfonso e divenne
funzionario di corte. Al servizio del cardinale, uomo gretto, avaro e
insensibile alla cultura e alla poesia, svolse svariati, faticosi, mal
retribuiti e ingrati compiti: dalle incombenze pratiche, quali aiutare il
signore a spogliarsi, alle faccende amministrative, dalle funzioni di
intrattenimento e di rappresentanza alle delicate e rischiose missioni
politiche e diplomatiche. Il lavoro presso il cardinale lo costringeva ad
attività troppo lontane dai suoi gusti, dal suo amore per la poesia. La vita
stessa di corte, cui pure ambivano la maggior parte degli uomini di cultura del
tempo, la sentiva come una necessità alquanto fastidiosa e l’accettava di
malavoglia, anche se con bonaria rassegnazione. Vagheggiava per contrasto una
esistenza modesta e pacifica, libera da impegni gravosi e confacente ai suoi
amati studi. È un ideale che argutamente esprime in una delle Satire:
In casa mia mi sa meglio una rapa,
ch’io cuoca, e cotta
su ‘n stecco me inforco
e mondo e spargo poi
di aceto e sapa
che all’altrui mensa
tordo, starna o porco selvaggio.
Tra il 1507 e il 1515, periodo assai ricco di
incidenti diplomatici, Ariosto fu spesso costretto a fare viaggi a cavallo per
recarsi ad Urbino, a Venezia, a Firenze, a Bologna, a Modena, a Mantova e a
Roma. E così, mentre attendeva alla stesura dell'Orlando furioso, e si
impegnava nell'ambito del teatro di corte, scrivendo e mettendo in scena i
primi importanti esperimenti del nuovo teatro volgare, le
commedie Cassaria e I Suppositi, Ariosto fu protagonista di
una delle fasi più aspre delle guerre d'Italia.
Fra gli anni 1507 e 1531 compose per il teatro
di corte cinque commedie modellate per la struttura sui classici greci e
latini, ma nelle quali spesso si riflettono la vita e la società
contemporanee.
La situazione del Ducato,
restio alla soggezione allo Stato della Chiesa, divenne, in seguito alle
vicende provocate dalla Lega di Cambrai del 1508, delicata sul piano militare e diplomatico.
Nel 1509, Ariosto seguì il cardinale nella
guerra contro Venezia.
Nel 1510, Ariosto si recò a Roma per ottenere
la revoca della scomunica inflitta da papa Giulio II Della Rovere al
cardinale e su quest'ultimo fu richiesta
l'opera di Ariosto, inviato spesso come messaggero presso Giulio II: la risolutezza del poeta è indicata dal fatto che il papa giunse a
minacciarlo di morte e di essere gettato ai pesci.
Nel 1512, Ariosto insieme al duca
Alfonso, che dopo la vittoria dei Francesi
e dei Ferraresi sulle truppe papali aRavenna cercava di rappacificarsi col pontefice, visse
una romanzesca fuga attraverso gli Appennini, per sottrarsi alle ire del
pontefice, deciso a non riconciliarsi con gli Estensi, alleatisi con i francesi
nella guerra della Lega Santa.
Nel 1513, alla morte di Giulio II, si recò
nuovamente a Roma per felicitarsi con il nuovo papa Leone X de’ Medici, che aveva con lui rapporti amichevoli, sperando,
tuttavia invano, di ottenere un beneficio generoso che gli permettesse una
sistemazione più tranquilla, ma rimase deluso.
Nel viaggio di ritorno Ariosto conobbe a Firenze Alessandra Benucci, una
fiorentina sposata con il ferrarese Tito Strozzi:
fu l'unico amore della sua vita.
Nel 1515, morto il marito, la Benucci andò ad
abitare a Ferrara, ma non visse mai con lui, neppure dopo il matrimonio,
celebrato in gran segreto nel 1527 — affinché lei non perdesse i diritti
all'eredità del marito e lui i suoi benefici ecclesiastici.
Nel 1516, uscì la prima edizione dell'Orlando
furioso, in quaranta canti, dedicata al cardinale Ippolito d'Este, che
tuttavia non dimostrò alcuna gratitudine.
Nel 1517, Ariosto lasciò il servizio del
cardinale Ippolito, quando questi fu nominato vescovo di Budapest. Ariosto si
rifiutò di seguirlo in un paese che giudicava inospitale per costumi e per
clima; e soprattutto perché sarebbe stato costretto ad abbandonare, oltre che
la sua città («a me piace abitar la mia contrada»), anche la donna amata,
Alessandra Benucci.
Tra il 1517 e il 1521, attende alla
composizione delle sette Satire componimenti in terzine e in
forma epistolare (pubblicate solo nel 1534): realistica e amara meditazione
sugli ambienti cortigiani e sulla sorte degli uomini di lettere. Non sono
satire nel senso che è oggi dato al termine, ma conversazioni argute e
riflessive come le Satire oraziane che Ariosto ebbe a modello.
In esse l’autore delinea il proprio ritratto che, se non corrisponde sempre a
ciò che egli veramente fu nella realtà, coglie però i tratti essenziali della
sua natura e del suo carattere: la predilezione per la vita studiosa e
appartata, l’insofferenza per la mondanità vacua della corte, l’amore per la
sua donna e per la sua città e la sofferenza a staccarsi da entrambe,
l’ammirazione per la cultura classica; e poi le speranze e le delusioni che a
lui, come a tutti gli uomini, elargiva la vita: il tutto guardato con maturo e
bonario equilibrio.
Questi sono probabilmente anche gli anni a cui
risale la stesura dei Cinque Canti, composti in vista di un inserimento
nel Furioso, ma poi lasciati da parte a causa dei toni cupi e perciò dissonanti
rispetto al resto del poema.
Nel 1518, lasciato il cardinale Ippolito,
entrò al servizio del duca Alfonso I: anche questa «servitù» non fu leggera,
pur senza migliorare la situazione economica.
Tra il 1519 e il 1520 prosegue la composizione
delle rime in volgare e compone, inoltre, due commedie Il Negromante e I
studenti (incompiuta).
Nel 1521, seguì una seconda edizione dell’Orlando
furioso.
Dal 1522 al 1525, per volere del duca dovette,
assumere, seppur malvolentieri, l’incarico di governatore della regione
montuosa e selvatica della Garfagnana, un paese violento, infestato dai
briganti. E, benché amasse rappresentarsi come inetto alle cose pratiche, tenne
questo difficile ufficio con fermezza ed equilibrio. Le Lettere,
scritte per dovere d'ufficio al duca, rivelano la grande fermezza, serietà e
sagacia amministrativa e politica con cui Ariosto cercò di ricondurre la legge
e l'ordine in quel territorio di confine, infestato dai banditi e dalle violenza
delle fazioni rivali.
Nel 1525, lasciata la Garfagnana, si apre un
periodo più sereno e per il poeta e per il suo ducato. Tornato a Ferrara, il
duca gli affida varie cariche amministrative ma anche incarichi a lui più
congeniali. Fu chiamato, infatti, a far parte delMaestrato dei savi e
fu nominato sovrintendente agli spettacoli di corte. Riscrive in versi
la Cassaria e I Suppositi, rielabora Il Negromante.
Nel 1528 è a Modena con il duca per scortare
l'imperatore Carlo V di passaggio nello Stato estense e nel 1528 scrive una
nuova commedia, la Lena, in
versi rappresentata a Ferrara nel carnevale del 1528 e ripresa l'anno
successivo con l'aggiunta di nuove scene. Imperniata sui maneggi della ruffiana
Lena per favorire gli amori contrastati della giovane figlia di un suo amante,
è il miglior testo teatrale ariostesco, in quanto riscatta la convenzionalità
del tema ancorandolo alla realtà ferrarese del Rinascimento.
Tornato a Ferrara si ritirò finalmente a vita
privata; si comprò una modesta casetta con un piccolo orto, e lì trascorse gli
ultimi suoi anni, fra le occupazioni agresti e i diletti studi, curando
soprattutto l’ultima revisione della sua opera maggiore, L’Orlando
furioso.
Nel 1531, dopo essere stato a Firenze, ad
Abano e a Venezia, il marchese del Vasto, Alfonso d'Avalos, condottiero
dell'esercito imperiale, gli assegna, a Correggio, una pensione di cento ducati
d'oro.
Nel 1532 seguì una terza edizione dell’Orlando
furioso aumentata di sei canti: notevolissima l’elaborazione
linguistica e formale che intercorre fra la prima edizione e l’ultima. Nello
stesso anno diresse le recite di una compagnia padovana inviata a Ferrara dal
Ruzzante.
Ammalatosi di enterite, morì nel 1533 nella parva domus acquistata
sei anni prima in contrada Mirasole.
Il «Furioso» libro per la Corte - Il Furioso, nato nella
Corte estense e dedicato al cardinale Ippolito d’Este, si rivolge all’ambiente
della Corte e viene incontro al suo desiderio di svago e al suo gusto
raffinato e maturo.
Questa «udienza» signorile è sempre presente
sia al poeta che al lettore, per il quale essa acquista concreta evidenza
nelle frequenti apostrofi che Ariosto rivolge ai suoi ascoltatori, nelle
informazioni che da loro, alla fine di alcuni canti, sul futuro svolgimento
dell’azione, o nelle considerazioni che accompagnano il racconto di vicende e
il comportamento di personaggi, e che si sentono nate da un’intesa esistenziale
e culturale comune al poeta e a chi lo ascolta.
La materia cavalleresca - La materia del poema è cavalleresca ed è
enunciata da Ariosto nelle ottave iniziali: egli canterà vicende d’armi e di
amori che hanno per protagonisti i paladini di Carlo Magno difensori della
cristianità e i Saraceni che, guidati dal loro re Agramante, sono giunti con la
loro offensiva fin sotto la mura di Parigi.
È una materia che Ariosto trae dai due grandi
cicli medioevali, il carolingio e il bretone, nonché da numerosi cantari
composti successivamente sulla scia dei cicli stessi. Tale materia, in tempi ad
Ariosto vicini, aveva ispirato
due altri poeti, Pulci, autore del Margante
maggiore e Boiardo autore dell’Orlando innamorato. Era
stato proprio Boiardo ad aprire la strada che poi Ariosto avrebbe percorso
trionfalmente, cioè ad operare la fusione dei due cicli medioevali, il
carolingio e il bretone, attribuendo ai paladini di Carlo Magno, che nelle
antiche chanson erano impegnati senza distrazioni e umane
debolezze nella difesa della patria e della fede, quelle umane passioni, e
soprattutto la passione amorosa, che avevano caratterizzato gli eroi del ciclo
bretone. Se, in virtù di tale «contaminazione», nel poema di Boiardo Orlando
era diventato innamorato, in quello di Ariosto diventerà
addirittura furioso, cioè pazzo per amore.
La materia cavalleresca era dunque già di casa
alla Corte estense. Ma mentre Boiardo aveva recuperato vicende e personaggi
con commossa ammirazione e con seria adesione agli ideali che il mondo
cavalleresco aveva rappresentato, Ariosto vede in esso una realtà ormai troppo
remota da quella dei suoi tempi, che era la realtà feroce da cui nasceva il
pensiero di Machiavelli. Rievoca perciò questo mondo come una favola bella e
improbabile; e di essa si avvale per esprimere la sua concezione della vita,
che è poi la concezione del Rinascimento.
Se la materia romanza alimenta in modo
prevalente la molteplice varietà delle vicende del Furioso, nel
poema concorrono altre «fonti», cioè episodi e situazioni tratte dagli autori
classici.
Ma tutti gli apporti esterni, quale che ne sia
l’origine, acquistano originalità per il modo con cui sono rielaborati
dall’autore, e per lo spirito nuovo che in essi è infuso.
Le vicende - Le complicate e molteplici vicende del Furioso si
possono raccogliere intorno a tre filoni fondamentali che costituiscono
l’ossatura del poema:
1) L’amore del paladino Orlando per
Angelica, principessa del Catari: amore perennemente deluso perché Angelica,
bellissima e irraggiungibile, gli sfugge, e dal quale sarà provocata la pazzia
di Orlando.
2) Gli amori del guerriero saracino
Ruggero e della guerriera cristiana Bradamante, che si concluderà, dopo varie
vicissitudini in cui hanno gran parte gli incantesimi del mago Atlante, con la
conversione di Ruggero al Cristianesimo e con le nozze dei due. Ed è questo il
filone cortigiano-encomiastico del poema, perché dalle nozze di Ruggero e di
Bradamante avrà origine la casa estense; e la narrazione delle loro vicende
offre il destro al poeta di elogiare in forma di predizione i maggiorenti della
famiglia.
3) La guerra fra Cristiani e Saraceni,
che, tema quasi esclusivo delle chanson medioevali del Ciclo
carolingio, qui costituisce poco più che lo sfondo a tante variegate vicende
private.
Intorno a questi tre temi fondamentali si
svolgono innumerevoli vicende collaterali, e agisce una miriade di personaggi:
azioni e personaggi mossi da Ariosto con un’abilissima e sicura regia che gli
consente di mantenere al poema, pur nella varietà delle sue elemento,
un’articolata e salda unità.
La «geografia» e la natura nel «Furioso» - In una delle Satire, ironizzando
sui suoi gusti sedentari, il poeta così si rappresenta:
Chi vuole andare a torno, a torno vada,
vegga Inghilterra, Ongheria, Francia e Spagna;
a me piace abitar la mia contrada.
E aggiunge che le terre lontane che non
conosce gli basterà percorrerle sulla carta geografica, o, come dice, sulla
scorta dell’antico geografo egiziano Tolomeo (II sec. d.C.):
il resto della terra
senza mai pagar l’oste, andrò cercando
con Tolomeo, sia il mondo in pace o in guerra.
Quasi per giocoso contrasto i suoi paladini e
le sue dame invece corrono incessantemente il mondo: Angelica viene
dall’Oriente, gira per l’Occidente e poi torna in Oriente; Orlando, Rinaldo,
Ruggero, inseguendo i loro personali programmi, lanciano i cavalli in terre
remotissime, e Ruggero ha addirittura a disposizione un cavallo alato,
l’Ippogrifo, per superare più rapidamente le distanze. Alle loro
avventure non basta neppure la terra: Astolfo, infatti, venuto in possesso
dell’Ippogrifo, affronterà il viaggio sulla luna per recuperare il senno di
Orlando che nel frattempo è impazzito. A questa mobilità dei personaggi si
accompagna la varietà degli sfondi naturali nei quali essi si muovono: boschi
folti e fioriti o cupi e minacciosi, fiumi e ruscelli, lande desolate e rupi
marine, o il mare nella sua violenza quando è sconvolto dalle procelle, o anche
l’alone lunare e la fredda struttura dell’astro. Il fascino rinascimentale
della natura, di cui abbiamo parlato, ha nel poema ariostesco un esempio tipico
e fastoso.
Gli «appetiti» degli uomini - Per Ariosto il mondo cavalleresco, nel quale
egli non crede più, è un veicolo per esprimere la sua visione della realtà e
per rappresentare le perenni e molteplici passioni, i «vari appetiti» degli
uomini.
Attraverso i personaggi e i loro
comportamenti, la natura umana vi è ritratta nella sua molteplice varietà: il
bene coesiste accanto al male, la generosità accanto alla grettezza, l’eroismo
accanto alla viltà, E il poeta da al bene e al male, al bello e al brutto,
uguale spazio e interesse, nella matura coscienza che di questi contrasti è
fatta la vita, o, come avrebbe detto il suo contemporaneo Machiavelli, «la
verità effettuale». Funzione del poeta non è tanto di giudicarla, ma di capirla
e di ritrarla. Scrive Caretti, riprendendo un giudizio di Croce, che il
segreto della poesia ariostesca, e l’elemento che da ad essa unità, va
ricercato «nel modo adulto e superiore con cui Ariosto, quasi "occhio di
Dio" che scruta e vede e intende l’intero universo, ha saputo contemplare
e rappresentare l’armonia cosmica che in sé rilega, senza dissonanza alcuna,
tutti gli aspetti della vita, anche i più contraddittori e contrastanti».
Francesco Guicciardini - Francesco Guicciardini fu
protagonista della politica italiana negli anni delle guerre tra Francia e
Spagna per il dominio della penisola, e ne divenne anche il lucido interprete
sul piano storiografico.
Francesco Guicciardini nacque a Firenze nel
marzo del 1483, da una famiglia di tradizionale fede medicea che proprio dai
Medici aveva ottenuto benessere, autorità ed onori come poche altre famiglie
all'interno delle mura fiorentine. Il padre Piero, profondamente legato al
filosofo Marsilio Ficino, lo indirizzò verso gli studi di giurisprudenza, studi
che Francesco intraprese prima a Firenze, poi a Padova e in ultimo a Pisa.
Nel 1508, Guicciardini cominciò a dedicarsi al
mestiere di avvocato e sposò Maria Salviati, nonostante l'opposizione familiare
dovuta all'appartenenza di Alamanno Salviati, il padre di lei, al partito degli
ottimati.
Dal 1512 al 1514, Guicciardini fu in Spagna
come ambasciatore della Repubblica Fiorentina presso Ferdinando il Cattolico e,
nel 1515, diventò uno dei 9 membri della Signoria.
Dal 1516 in poi, si susseguirono per
Guicciardini gli incarichi per conto di organismi o esponenti ecclesiastici:
venne nominato avvocato concistoriale e governatore di Modena da papa Leone X
dei Medici nello stesso 1516 e, tra il '21 ed il '26, fu commissario generale
dell'esercito pontificio, Presidente della Romagna e diplomatico presso la lega
di Cognac, fortemente voluta da papa Clemente VII dei Medici per unire gli
stati italiani contro Carlo V.
L'annus horribilis di Francesco
Guicciardini fu il 1527, l'anno del sacco di Roma da parte dei lanzichenecchi
al servizio di Carlo V e l'anno in cui cadde la signoria dei Medici, con
conseguente ripristino della Repubblica. Guicciardini, la cui tradizione
familiare e il cui servizio presso due pontefici medicei lo rendevano
particolarmente inviso alla Firenze repubblicana, fu oggetto di numerose accuse
(alcune delle quali riuscì a dimostrare false), non poté più ricoprire
incarichi e si ritirò a vita privata.
Nel 1529, Guicciardini fu oggetto di un
processo da parte della Repubblica e, dopo essere stato condannato in
contumacia, gli furono confiscati i beni. Nello stesso anno si trasferì a Roma.
Nel 1530, gli imperiali riportarono i Medici a
Firenze dopo un lungo assedio alla città e papa Clemente VII tentò di
riorganizzare il governo. Dopo violente lotte di potere all'interno della
dinastia medicea, assunse il potere Cosimo de' Medici, il cui assolutismo
Guicciardini, tornato nella sua città, cercò inutilmente di frenare.
Morì nel 1540, dal 1538 si era definitivamente
ritirato dalla vita politica.
La vita e le opere
Discendente di una delle più importanti
famiglie fiorentine, ricevette una solida formazione umanistica. Nel 1512
interruppe la stesura della sua prima opera, le Storie fiorentine, per assumere
un incarico diplomatico, un'ambasceria alla corte di Spagna, ove rimase fino al
1514. Qui scrisse l'opera politica il Discorso di Logrogno (1512), una proposta
di organizzazione politica dello Stato fiorentino, cui fece seguire poco dopo
l'altro discorso Del governo di Firenze dopo la restaurazione dei Medici e un
Diario di viaggio. Tornato in Italia ed entrato in buoni rapporti con i Medici
di nuovo al potere, nel 1516 ebbe da papa Leone X l'incarico di governatore di
Modena (in seguito governerà Reggio Emilia e la Romagna). In quegli anni si
dedicò alla stesura del Dialogo del reggimento di Firenze (1525). In campo
politico operò soprattutto per favorire l'alleanza tra Francia e Papato in
funzione antimperiale (lega di Cognac), al cui interno fu nominato luogotenente
generale della Chiesa. Dopo il sacco di Roma (1527), venne rimosso dalle
cariche che ricopriva.
Tornato a Firenze, da cui nel frattempo erano
stati cacciati i Medici, si dedicò all'attività letteraria: scrisse una parte
dei Ricordi (1528) e opere storiche, come le Cose fiorentine (1528-31) e
soprattutto le Considerazioni sopra i Discorsi del Machiavelli (1528), rilevanti
per comprendere la sua concezione della politica. Bandito dalla città a causa
delle sue simpatie medicee, prima si ritirò nella proprietà di Finocchieto e
poi si rifugiò in Romagna presso Clemente VII. Quando nel 1530 la Repubblica
fiorentina fu abbattuta, Guicciardini riprese i rapporti di collaborazione con
il papa, che nel 1531 lo nominò governatore a Bologna e nel 1533 lo volle con
sé in un viaggio a Marsiglia per incontrare il re di Francia. Si dedicò quindi
all'organizzazione del potere mediceo a Firenze, ma poco alla volta venne
emarginato: ritiratosi allora nelle sue proprietà, si dedicò sempre più al
lavoro letterario e in particolare alla stesura del suo capolavoro, la Storia
d'Italia, iniziata nel 1536 e non del tutto terminata quando lo colse la morte
nella villa di Montici.
I "Ricordi"
Nessun'opera di Guicciardini fu pubblicata
durante la sua vita: fra le altre, rimasero tra le carte di famiglia più di
duecento pensieri e aforismi pubblicati nel 1576 con il nome di Avvertimenti e
poi con il titolo ottocentesco di Ricordi. La stesura di queste brevi
riflessioni coprì tutto l'arco della vita dello scrittore, dagli anni giovanili
(la prima serie di pensieri risale addirittura agli anni spagnoli) fino al
1530. Guicciardini riflette sulla "ruina d'Italia" con una lucidità
che esclude ogni riferimento a modelli e teorie: non cerca e non accetta
spiegazioni e interpretazioni universali della realtà politica. Egli è convinto
che, in linea di massima, i rapporti umani siano caratterizzati da una negatività
raramente modificabile e che quindi il risultato di ogni azione politica sia
determinato più da mutamenti in superficie che da iniziative che pretendono di
agire sui meccanismi profondi del processo storico. A essi si deve abituare
"il buon occhio del saggio" per esercitare la
"discrezione", cioè la capacità di comprendere e sapersi orientare in
mezzo alle infinite variazioni che si propongono allo sguardo di chi deve
guidare la cosa pubblica. In questo quadro l'obiettivo da perseguire è
costituito dal "particulare", che riguarda sia la sfera personale e
si identifica con il "decoro" (cioè la reputazione e l'onore
personali e familiari), sia il campo politico, in cui si realizza come il
migliore equilibrio possibile tra le violente e oscure forze contrastanti. Il
"particulare" non è quindi la trasformistica capacità di fare
comunque i propri interessi (come a lungo è stato interpretato), quanto la
salvaguardia della propria dignità in tempi di crisi in cui non si riescono a
realizzare alti ideali collettivi.
La "Storia d'Italia"
Questa concezione dell'agire umano è il
risultato di una drammatica sconfitta non solo di una politica o di una
strategia militare, ma di tutta una civiltà. La Storia d'Italia (20 libri) fu
pubblicata, con numerosi tagli censori, a Firenze nel 1561 e più completa a
Venezia nel 1564. Il periodo considerato è relativamente breve: dal 1492 (morte
di Lorenzo il Magnifico) al 1534 (morte di Clemente VII, l'ultimo papa Medici).
In questi decenni si passò dalla prosperità e dall'equilibrio del tardo
Quattrocento alla rovina totale, drammaticamente rappresentata dal sacco di
Roma (1527) da parte delle truppe dell'Impero, raccontato da Guicciardini in
pagine di alto valore letterario. Egli individua i principali responsabili di
tale disastro in Ludovico il Moro e in papa Alessandro VI, che, mossi da un
irrefrenabile desiderio di potenza, chiamarono in Italia gli eserciti
stranieri. Più in generale la narrazione mette in risalto il percorso di
violenza, di presunzione, di cecità dei principi italiani che si illusero di
saper controllare e utilizzare per i propri piccoli interessi dinastici o
territoriali forze di gran lunga più potenti di loro. Da queste vicende
Guicciardini ricava la convinzione che non è più possibile ragionare in termini
campanilistici, in quanto le cause della rovina di ogni singolo stato italiano
derivano dalla crisi di tutto il sistema politico. Così dallo studio del
passato nasce una riflessione politica proiettata nel futuro: l'identità
storico-culturale d'Italia ha bisogno di realizzarsi in un organismo unitario,
che egli pensa di tipo federale. Ma Guicciardini non si illuse che ciò potesse
avvenire in tempi brevi: nel suo radicale pessimismo egli avvertì costantemente
lo scarto tra le teorizzazioni della ragione e la resistenza opposta dalla
realtà.
Unica opera che Guicciardini
scrisse per la pubblicazione, la Storia d'Italia presenta una lingua di grande
nobiltà formale, a cui non fu estraneo il confronto con le Prose della volgar
lingua di Bembo.
[1]È un’autobiografia scritta per dare
conto di un singolare e tragico destino.
Nato nel 1079 vicino a Nantes, in Francia, Abelardo dimostrò
sin da giovanissimo un talento e una cultura
eccezionali; prima insegnò all’Università di Parigi, poi come ‘libero maestro’
in una scuola da lui stesso fondata.
Parigi conobbe Eloisa, figlia del
canonico Fulberto, se ne innamorò ed
ebbe con lei una relazione: scoperto dal padre della ragazza,
fu evirato. La storia d’amore tra Abelardo ed Eloisa, ricostruibile anche
grazie ad un carteggio fra i due (anche Eloisa era un’intellettuale, dotta di
latino, in un’epoca in cui una simile competenza, per una donna, era molto
rara) divenne leggendaria.
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