Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

giovedì 11 settembre 2014

Letteratura italiana IV

1. La cultura nell’età della Controriforma e del Barocco – L’età moderna è generalmente considerata l’epoca posta tra la scoperta del continente americano nel 1492 e la definitiva affermazione del liberalismo nel 1848. Questo arco di tempo è caratterizzato da profonde trasformazioni che interessano ogni aspetto della vita umana. I viaggi di esplorazione, le nuove rotte commerciali e la scoperta di nuovi continenti trasformano gli orizzonti mentali ed economici dell’uomo europeo e avviano un processo di interrelazione su scala mondiale della storia.
Analogamente, le nuove forme statali si lanciano in conquiste e guerre a livello continentale prima, planetario successivamente. L’unità religiosa dell’Occidente cristiano è rotta dalla Riforma protestante, mentre il pensiero filosofico si avvale di nuovi metodi sganciati dalla tradizione e dall’insegnamento delle autorità del passato. Si teorizzano nuove forme di governo, e le rivoluzioni americana e francese segnano il definitivo tramonto del sistema socio-politico basato sulla divisione in ordini della società e, con l’avventura napoleonica, fondano le basi dell’epoca contemporanea.
a) La rivoluzione scientifica – L’aspetto che maggiormente caratterizzò la prima età moderna fu la grande rivoluzione scientifica alla cui base vi era l’affermazione di uno dei principi cardine del Rinascimento: lo stretto rapporto intercorrente fra il destino umano e la capacità di rintracciare e controllare le leggi sottese alla realtà naturale.
Questo costituì il presupposto della rivoluzione scientifica moderna e delle sue applicazioni.
La nascita della scienza moderna è un fenomeno complesso, che affonda le proprie radici nel Rinascimento, di cui eredita la fiducia nelle capacità conoscitive dell’uomo, l’abbandono di principi trascendenti per spiegare la realtà naturale, la rivalutazione dei sensi e dell’esperienza diretta, la pretesa di un sapere che non sia solo contemplativo, ma pratico e operativo, il rifiuto del principio di autorità come criterio di verità. Tuttavia, se nel Cinquecento il concetto di scienza era ancora legato a una visione del mondo di tipo qualitativo, in cui la natura era vista come un essere vivente, ordinata con suoi propri fini come un organismo, nel Seicento si affermò una concezione della scienza come un sapere oggettivamente verificabile e pubblicamente controllabile. La scienza moderna respinge dal proprio ambito conoscitivo qualunque problematica di tipo metafisico, relativa alle essenze o all’intima struttura delle cose, per analizzare solo le cause dei fenomeni, alla ricerca di leggi, elaborate in conformità a ipotesi vagliate da esperimenti, espresse in termini matematici. In particolare, questa matematizzazione della natura porta a una riforma del metodo d’indagine e all’adozione di modelli meccanici nella spiegazione della realtà naturale, concepita come un insieme di corpi in movimento, che portò pian piano all’affermazione del meccanicismo.
Il concetto di rivoluzione scientifica è tradizionalmente riferito al periodo compreso fra il 1543, anno di pubblicazione di Le rivoluzioni dei mondi celesti di Copernico, e il 1687, in cui appaiono i Principi matematici di filosofia naturale di Newton. Si tratta di un periodo caratterizzato da un profondo cambiamento culturale, che vide la nascita della moderna scienza sperimentale e la sua definitiva emancipazione dalla filosofia, con il contributo decisivo di Galilei.
Tra i secoli XVI e XVII il modo di affrontare la conoscenza del mondo naturale cambiò profondamente. Le scoperte astronomiche, mediche, fisiche e le innovazioni del metodo filosofico si collegarono a uno spirito nuovo che scalzò la dogmatica scolastica in nome del metodo sperimentale e della libera e autonoma ricerca, del progresso della conoscenza, con straordinarie implicazioni culturali, religiose e tecnologiche.
L’avvio è possibile rintracciarlo nella rivoluzione copernicana che scosse profondamente la cultura europea e influenzò nel XVII secolo il pensiero di Galileo Galilei, di Newton e di Keplero.
L’astronomo polacco Copernico (1473-1543), nel suo De revolutionibus orbium coelestium, espose la teoria eliocentrica secondo la quale la terra e i pianeti si muovono attorno al sole. La rivoluzione copernicana nacque come revisione della teoria astronomica tolemaica, fondata sulla centralità e immobilità della Terra nell’universo e sulla circolarità dei moti dei pianeti, a favore della teoria eliocentrica, che pose il Sole come unico punto di riferimento dei moti dei pianeti. Le basi dell’ipotesi di Copernico sono strettamente astronomiche: il desiderio di stabilire rapporti determinati tra le varie sfere del sistema planetario (ampiamente sconnessi nella teoria di Tolomeo) e quello di eliminare alcuni artificiosi metodi di calcolo. Tuttavia la sua riforma astronomica, ponendo la Terra in movimento, apre enormi problemi di ordine fisico, cosmologico e filosofico e avvia una riforma di gran parte della cultura. La Terra perse la sua centralità, non solo astronomica, ma anche metafisica, proiettando l’uomo in un universo non più chiuso e limitato, ma infinito, privo di centro e di periferia, omogeneo e soggetto alle stesse leggi fisico-matematiche. La rivoluzione copernicana costrinse così a ripensare non solo l’immagine della natura, ma anche le questioni dell’origine e del destino dell’uomo e del suo rapporto con la divinità, com’era delineato dalla lettura tradizionale del testo biblico.
Galileo Galilei (1564-1642), divulgatore delle teorie di Copernico sull’immobilità del sole e sul movimento della terra, fece numerose osservazioni sperimentali su altri pianeti con l’ausilio di un nuovo strumento: il telescopio. Per aver sostenuto la teoria eliocentrica fu processato dal Santo Uffizio, condannato e costretto all’abiura. Il suo caso divenne simbolo dello scontro fra la Chiesa cattolica e la cultura scientifica moderna.
L’astronomo tedesco J. Keplero (1571-1630) studiò le orbite planetarie e diffuse la conoscenza delle leggi del moto dei pianeti, oltre al metodo per calcolarne la posizione.
Le nuove conoscenze astronomiche permisero allo scienziato inglese Isaac Newton (1642-1727), autore di fondamentali opere in campo matematico, meccanico e ottico, di rivoluzionare la scienza moderna con la scoperta delle leggi della gravitazione universale, da lui espresse in formule matematiche.
L’attenzione per le questioni metodologiche e l’importanza attribuita all’osservazione furono alla base dei progressi compiuti dalla medicina. Il belga Andrea Vesalio, grazie alle ricerche anatomiche svolte sui cadaveri dei soldati, mise in discussione alcuni principi stabiliti a priori dal modello aristotelico e li sostituì con l’osservazione anatomica della figura umana. L’anatomista inglese W. Harley (1578-1657) scoprì la circolazione del sangue; furono poste le basi della clinica (ovvero lo studio della malattia al letto del malato) e dello studio dell’anatomia patologica.
La propensione dell’uomo occidentale all’innovazione tecnologica ebbe una notevole conseguenza: contribuì a scavare progressivamente un solco fra la società occidentale e le altre civiltà (araba, indiana, cinese) proprio dal XVI sec. In alcuni settori, come la navigazione o gli armamenti, questo divario fu per gli europei il punto di forza per affermare il proprio dominio sul resto del globo attraverso la formazione di imperi coloniali. Anche il pensiero politico e quello economico subirono un’importante evoluzione, scrittori e pubblicisti di diverse nazioni, spinti da motivi religiosi o solo ideologici, sostennero la legittimità dei diversi regimi.
b) La moderna gnoseologiaSe la problematica relativa alla natura e al metodo della conoscenza non era una novità per la tradizione filosofica, è solo con la filosofia moderna che acquista un’assoluta centralità per l’emergere di nuove esigenze conoscitive, legate agli sviluppi tecnici e scientifici del sapere. È questo il problema del metodo, cioè di un insieme di criteri e di regole che permettano un uso corretto delle facoltà conoscitive dell’uomo al fine di raggiungere un elevato grado di certezza, che si afferma prepotentemente nel pensiero moderno a partire dalla riflessione di Francesco Bacone e di Cartesio. In particolare sono le matematiche e la geometria, per la loro chiarezza e rigorosità, il modello metodologico privilegiato a cui ispirarsi per una riforma del metodo del conoscere.
Se la problematica relativa alla natura e al metodo del conoscere non è una novità per la tradizione filosofica, fu solo con la filosofia moderna che acquistò un’assoluta centralità per l’emergere di nuove esigenze conoscitive, legate agli sviluppi tecnici e scientifici del sapere. È questo il problema del metodo, cioè di un insieme di criteri e di regole che permettessero un uso corretto delle facoltà conoscitive dell’uomo al fine di raggiungere un elevato grado di certezza, che si afferma prepotentemente nel pensiero moderno a partire dalla riflessione di Francesco Bacone e di Cartesio. In particolare sono le matematiche e la geometria, per la loro chiarezza e rigorosità, il modello metodologico privilegiato a cui ispirarsi per una riforma del metodo del conoscere.
a)      La visione estetica: il ManierismoIl termine Manierismo è assunto dalla critica per designare il complesso e ramificato movimento stilistico italiano ed europeo che si colloca tra il 1520 e l’ultimo decennio del Cinquecento (ossia tra il culmine del Rinascimento e il preannuncio del Barocco).
Caratterizzato da un estetismo antinaturalistico e lontano dalla razionalità rinascimentale, si espresse in suggestive alterazioni dei rapporti spaziali e subordinò le proporzioni naturali della figura umana al ritmo fluido ed elegante della composizione. Il Manierismo, va inteso come incrinatura dell’equilibrio armonico classicista e, più in generale, come crisi della cultura umanistica e dei suoi ideali razionalistici, in connessione con il travaglio storico della riforma luterana, della controriforma cattolica e le drammatiche crisi che accompagnarono la formazione dei grandi Stati europei.
I primi due centri di elaborazione del manierismo furono inizialmente Firenze e Roma; da qui, si diffuse in tutt’Italia e in Europa dando vita a esperienze locali differenziate.
Il Manierismo divenne lo stile delle corti, in Italia come in Europa: un’arte colta, aristocratica, basata sulle iconografie preziose, sui riferimenti dotti, sulle allegorie complicate. Ne fu un esempio alla corte medicea l’attività (1540-70) di G. Vasari e dei manieristi michelangioleschi. Il Manierismo fu cultura celebrativa e aulica, nell’ambito della quale l’architettura si faceva scenografia, la scultura oscillava tra gli opposti termini del gigantismo magniloquente (Ammannati, Fontana del Nettuno) e del preziosismo dell’oggetto di oreficeria (Cellini, Saliera per Francesco I, Parigi, Louvre), la pittura assumeva le diverse valenze del grande affresco celebrativo con Vasari e del ritratto enigmatico e formale del Bronzino, il simbolo visivo e concettuale più evidente è il celebre Studiolo di Francesco I a Fontainebleau.
A Roma la parabola architettonica di Jacopo Barozzi detto il Vignola (1507-73), dalle licenze inventive di Villa Farnese a Caprarola alla nuova codificazione della Chiesa del Gesù a Roma e l’attività di pittori come Vasari, Francesco Salviati (1510-63), Daniele da Volterra aprirono la via all’accademismo eclettico degli Zuccari (Taddeo, 1529-66; e Federico, 1540/43-1609) e di Giuseppe Cavalier d’Arpino (1568-1640).
Verso la fine del Cinquecento, proprio dal centro manierista di Bologna, che aveva conosciuto l’arte raffinata del Parmigianino e di Nicolò dell’Abate, partì quel movimento di reazione antimanierista bandito dai Carracci che, rifluito a Roma, diede vita all’accademia.
Lo stile delle corti ebbe vita più lunga in Europa, nella sua accezione più cortigiana: nella Praga di Rodolfo II con Bartholomeus Spranger (1546-1611) e Hans von Aachen (1552-1616); nei Paesi Bassi, in Baviera e, in un ultimo guizzo di autentica forza di stile, in Spagna, con l’esperienza del Greco.
d) Le reazioni al Manierismo: i Carracci e Caravaggio – Negli ultimi due decenni del Cinquecento si affermarono due importanti artisti: Annibale Carracci e Caravaggio. Pur essendo stati considerati dalla critica, soprattutto seicentesca, come rivali, poiché le opere del primo erano intrise di idealismo e quelle del secondo di schietto realismo, entrambi condivisero l’opposizione dell’arte manieristica, pur esprimendo caratteristiche pittoriche differenti. Il clima culturale in cui agirono era segnato dal rinnovato interesse della Chiesa post-tridentina per l’arte, che doveva con le sue immagini sacre suscitare nel fedele sentimenti di profonda devozione.
Alla famiglia di pittori bolognesi Carracci si deve la fioritura a Bologna nel 1590, dell’Accademia degli Incamminati, un centro privato di educazione autoctono che ripropose la conoscenza dei grandi maestri del Rinascimento, meditati alla luce di una rinnovata coscienza della natura e della tradizione. L’accento fu posto sull’importanza del disegno come mezzo per indagare la realtà e la natura così da arrivare a un nuovo modo di dipingere che fosse scevro degli aspetti convenzionali del manierismo. Si voleva restituire spontaneità e immediatezza alle forme, in direzione di un nuovo classicismo. I tre fondatori furono Agostino, Annibale e Ludovico Carracci.
e) Annibale Carracci – Annibale Carracci (Bologna 1560-1609) fu il più eminente. Nelle sue prime opere, compiute tra il 1583 e il 1585, si individua l’interesse per soggetti della vita quotidiana, e umili (Crocifisso, Bologna, chiesa di S. Nicolò; Il mangiafagioli, Roma, Galleria Colonna; Bottega del macellaio, Oxford, Christ Church).
Nel Battesimo di Cristo (1585, Bologna, chiesa di S. Gregorio) invece l’artista lascia intravedere interesse alla lezione del Correggio. Tra il 1588 e il 1590 lavorò col fratello Agostino e il cugino Ludovico agli affreschi del Palazzo Magnani (ora Salem) a Bologna.
Nel 1595 fu a Roma, incaricato dal cardinale Odoardo Farnese di dipingere il Camerino Farnese, un lavoro quasi preparatorio per la decorazione della fastosa Galleria Farnese. A quest’ultima, collaborando col fratello Agostino, si applicò dal 1597 al 1602 con una straordinaria libertà compositiva e uno stimolante approfondimento dei valori formali ed espressivi. Il programma iconografico della Galleria (fatta costruire per raccogliere le collezioni di sculture antiche del cardinale), con scene mitologiche e d’amore, venne soprattutto derivato dalle Metamorfosi di Ovidio (scene con il Trionfo di Bacco e Arianna, Paride e Mercurio e Pan e Diana). La decorazione fu caratterizzata da una particolare scelta tecnica, ovvero l’uso della quadratura e soprattutto la realizzazione delle architetture dipinte che creano l’illusione di uno spazio tangibile. Questi affreschi sono così premessa della decorazione tipica del Seicento che insisterà molto sul concetto di illusionismo spaziale. Per Annibale dunque fu fondamentale sia la rivivificazione della cultura classica in direzione naturalistica sia l’intensità persuasiva dell’immagine.
Opere significative furono anche la lunetta con la Fuga in Egitto (1604, Roma, Galleria Doria Pamphili), in cui i personaggi si fondono armoniosamente con il paesaggio; la Samaritana al pozzo e la struggente Pietà (ca 1603, Vienna, Kunsthistorisches Museum).
f) Caravaggio – Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio (Caravaggio 1573 - Porto Ercole 1610), è uno dei pittori più significativi del Cinquecento, creatore del cosiddetto luminismo caravaggesco, che definisce una caratteristica innovatrice della funzione della luce, che fa emergere le cose dall’ombra e costruisce i volumi.
Si formò a Milano nel 1584 nella bottega del pittore bergamasco Simone Peterzano (notizie fra 1573-96) e sulle opere dei maestri cinquecenteschi bergamaschi e bresciani (Lorenzo Lotto, Savoldo e Moretto da Brescia), dai quali trasse l’attenzione al fatto reale, quotidiano, e una religiosità schietta e priva di enfasi.
Degli anni successivi al periodo di apprendistato sono riferite alcune opere: Bacco (Firenze, Uffizi), Fanciullo morso da un ramarro (Firenze, collezione R. Longhi), Buona ventura (Parigi, Louvre; Roma, Musei capitolini), il Riposo nella fuga in Egitto e la Maddalena (Roma, Galleria Borghese).
Intorno al 1593 Caravaggio si trasferì a Roma, dove maturò e lavorò in aperta polemica con il gusto manieristico ufficiale. Ai primi brani di realismo quotidiano, come il Bacchino malato (Roma, Galleria Borghese), il più tardo I bari (Roma, Galleria Sciarra) e il bellissimo Canestro di frutta (Milano, Pinacoteca Ambrosiana), che apre un nuovo capitolo nella storia della natura morta, succedono composizioni più complesse che culminano nel ciclo per la cappella Contarelli in S. Luigi dei Francesi.
Nel 1595 firmò il contratto per le tele in S. Luigi dei Francesi a Roma (S. Matteo e l’angelo, Vocazione e Martirio di S. Matteo), che suscitarono scandalo per l’ardita interpretazione realistica degli episodi religiosi, narrati con drammatico linguaggio chiaroscurale. Così si configura il cosiddetto luminismo caravaggesco, basato sulla funzione espressiva e strutturante del contrasto luce-ombra.
Forte ed essenziale si presenta l’impianto dei dipinti per S. Maria del Popolo, eseguiti tra il 1600 e il 1601: la Crocifissione di S. Pietro e la Conversione di S. Paolo, che segnarono il culmine della sua maturità artistica.
Le ultime opere romane, la Madonna di Loreto (Roma, S. Agostino), la Madonna del serpe (1603-05, Roma, Galleria Borghese), la Cena in Emmaus (1605, Londra, National Gallery) e la Morte della Vergine (1605-06, Parigi, Louvre), furono aspramente criticate per il crudo realismo, specie l’ultima, per la quale correva voce che Caravaggio si fosse servito come modello del corpo di una mondana annegata nel Tevere. Del resto egli fu spesso oggetto di critiche e ritenuto un contestatore dell’ortodossia religiosa al punto che molte sue opere non furono accettate per motivi di decoro, poiché vi erano rappresentate figure in atteggiamenti troppo umili e spesso ritratte con mani e piedi sozzi.
Coinvolto nel 1606 in una rissa mortale, ultima di una lunga serie di episodi di violenza dei quali era stato protagonista, Caravaggio fu costretto a fuggire a Napoli. Le opere qui realizzate, ovvero la Madonna del Rosario (1606-07, Vienna, Kunsthistorisches Museum), le Sette opere della Misericordia (1607, Napoli, Pio Monte della Misericordia) e la Flagellazione, mostrano un ulteriore frantumarsi della luce e un accentuarsi del movimento delle figure. Nella sua fuga, da Napoli passò a Malta e poi in Sicilia nel 1608. Nelle ultime opere il suo estro divenne sempre più tragico, come testimoniano il Seppellimento di S. Lucia (1608, eseguito a Siracusa per l’omonima chiesa) e la Resurrezione di Lazzaro (1608 Messina, museo Nazionale).

2. Il Barocco Il Barocco fu un movimento di vasta portata che investì i più svariati campi della cultura, dal teatro alla musica, dalla poesia alla scienza, dalla pittura alla scultura all’architettura e la concezione stessa della vita. Iniziato verso la fine del Cinquecento, sviluppatosi lungo il Seicento, ha avu­to diffusione, con esiti di diverso valore artistico, su un’area molto vasta, cioè in quasi tutta l’Europa (soprattutto in Italia, Spagna, Francia e Inghilterra) e, seguendo poi la penetrazione dei Gesuiti, toccò anche l’America Latina in alcuni Paesi dell’America Latina (Messico, Brasile).
Il Barocco divenne lo stile artistico e architettonico proprio dell’epoca dell’Assolutismo e della Chiesa della Controriforma. Le virtù ideali del Rinascimento (proporzione, compostezza ecc.) furono stravolte da un’idea dell’arte che voleva persuadere, emozionare e meravigliare il fedele. Così tra architettura, scultura e pittura non esisteva più una stretta linea di demarcazione, poiché tutte e tre le discipline concorrevano a dare una visione omogenea e spettacolare. Le personalità più spiccatamente rappresentative di questo periodo furono Bernini, Borromini e Pietro da Cortona (che operarono a Roma), cui fecero seguito altri artisti italiani e stranieri, tra i quali Rubens e Rembrandt, quantunque né la sua pittura né in generale la sua poetica siano classificabili come barocche in senso stretto.
a) Origine e significato del termine - Il termine Barocco deriva, secondo alcuni, dal vo­cabolo ispano-portoghese barroco, che indica una perla di forma anomala; secondo al­tri da baroco, tipo di sillogismo irregolare divenuto sinonimo di ragionamento strava­gante. In entrambi i casi la denominazione tende a mettere in evidenza il carattere di diversità, di lontananza dalla regola, di rottura quindi coi moduli e i canoni della tradi­zione, che è appunto la caratteristica fondamentale del Barocco.
Poiché, come abbiamo detto, il gusto e l’arte barocca caratterizzano il secolo XVII, ta­le movimento fu chiamato anche, in Italia, Secentismo, e, per la letteratura, Marini­smo, dal nome del suo più tipico esponente nella nostra letteratura, il poeta Gian Batti­sta Marino.
b) Il Barocco come espressione di una crisi conoscitiva - Alla base della rottura coi modi e le forme della tradizione, sta una crisi conoscitiva che si manifestò in quel periodo. Le scoperte di Copernico, e, sulla sua scia, di Galileo, avevano ribaltato la visione che l’uomo aveva di se stesso, della Terra e dell’Universo. La constatazione che la Terra non stava ferma al centro del sistema solare, ma con gli altri pianeti ruotava nello spa­zio intorno al sole, non era stata solo una scoperta astronomica; essa aveva rappresen­tato il crollo di antiche certezze, e soprattutto della certezza fondamentale che la scien­za e la tradizione del passato garantivano all’uomo: di essere il centro e il perno dell’Universo.
Ormai nulla appariva più fermo e sicuro; tutto era messo o poteva essere messo in di­scussione; la realtà appariva diversa se guardata da angolature differenti. Ne consegui­va per gli uomini del tempo, stupiti e sconcertati, un senso diffuso di inquietudine e di instabilità.
L’arte, che esprime il senso che l’umanità ha del proprio tempo, ovviamente non pote­va più tradurre tale inquieta visione attraverso le forme salde, armoniche, esatte, dell’arte rinascimentale; doveva trovare nuovi modi espressivi che cercassero di espri­mere i nuovi rapporti che si stabilivano fra le cose, le nuove intraviste prospettive. Di qui, in letteratura, il sostituirsi, al discorso disteso, organico, razionalmente costrui­to, la ricerca invece dell’immagine fantasiosa, spesso bizzarra, che suggerisce nuove di­mensioni della realtà, intuite se anche non logicamente chiarite. Da questa nuova co­scienza deriva anche l’uso e l’abuso delle analogie, cioè l’accostamento di cose lontanissime tra loro se i loro rapporti vengono giudicati con criterio logico, ma nelle quali lo scrittore sembra invece intuire un nesso che le accomuna, almeno se si guardano in prospettiva diversa da quella consueta.
c) Lo «stupefacente» fine a se stesso Peraltro questa crisi conoscitiva, che costituisce l’elemento serio, addirittura drammatico, dell’età del Barocco, non sempre sta alla base della produzione letteraria di questo periodo.
Spesso gli scrittori barocchi sono soltanto dei bizzarri ricercatori di immagini, dei crea­tori dì giochi formali fine a se stessi, puro sfoggio di abilità tecnica che può sconfinare persine nel grottesco. La «meraviglia» che essi dicono di voler suscitare nel lettore, non è il riflesso dello stupore di fronte a una realtà che si trasforma, ma è la sconcer­tante stupefazione che si prova di fronte ad abilissimi e complicati fuochi d’artificio. Di tale tipo deteriore di Secentismo, che fu dominante nella produzione letteraria italia­na, sono testimonianza il passo del Marino che qui riferiamo, e quello del padre Orchi, rispettivamente per la poesia e per la prosa.
d) Il Barocco nelle arti figurative - Il Barocco segnò una rottura con la tradizione anche nel campo delle arti figurative: in architettura, dove, in antitesi con l’equilibrio dell’ar­te rinascimentale, si afferma la linea curva, il gioco delle sporgenze e delle rientranze, il gusto coreografico (grandi scalinate, sfondi di giardini e di fontane), gli effetti di chia­roscuro.
Lo stesso si dica per la pittura e la scultura, nelle quali prevalgono le linee gonfie, so­vraccariche, il movimento e la tensione delle figure.
Le arti figurative inoltre si scambiano le tecniche espressive: l’architettura sfrutta gli ef­fetti del chiaroscuro, che è retaggio tradizionale della pittura, si avvale del colore con l’alternanza di diversi materiali (diversi marmi soprattutto); la pittura a sua volta da grande spazio sulle tele a fastosi edifici, crea col colore effetti di altorilievo e di basso-rilievo; nelle opere di scultura hanno gran parte il panneggio, le pieghe, coi conseguenti giochi di luce.
Del resto anche in letteratura tendono a confluire le tecniche di arti diverse, soprattutto della musica: il vocabolo e la frase finiscono col non contare tanto per il loro significa­to, ma per la carica musicale che contengono, e che crea nel lettore nuove suggestioni ed emozioni.

3. Torquato Tasso – Torquato Tasso, è stato uno dei maggiori poeti italiani del Cinquecento. La sua opera più importante e conosciuta è la Gerusalemme liberata del 1575, in cui vengono descritti gli scontri tra cristiani e musulmani alla fine della Prima Crociata, durante l’assedio di Gerusalemme.
a) La vita Torquato Tasso nacque a Sorrento nel 1544, da Bernardo, che discendeva da una nobile famiglia bergamasca anch’egli apprezzato poeta e gentiluomo al servizio, come segretario, del Ferrante Sanseverino, principe di Salerno e da Porzia de’ Ros­si, nobile napoletana.
Il piccolo Torquato iniziò gli studi a Salerno quando i Tasso si trasferirono a Salerno, al seguito dei Sanseverino, vi fu una sollevazione popolare contro il tentativo del viceré d’introdurre nella città l’Inquisizione, Ferrante Sanseverino si schierò dalla parte del popolo e, con lui, il padre di Torquato. Per ragioni di sicurezza il padre trasferì Torquato a Napoli, mandandolo a scuola dai gesuiti. Ma gli eventi precipitarono e i Sanseverino, con i loro fedeli, furono costretti ad abbandonare il regno, trasferendosi a Ferrara, poi a Bergamo, in Francia e a Roma.
Ma nel 1554 fu chiamato a Roma dal padre, che aveva seguito il principe Sanseverino nell’esilio quando questi, caduto in disgrazia del Viceré, era stato bandito dal Regno nel 1550. La partenza per Roma e il distacco dalla madre, che morì due anni dopo, forse assassinata da suoi stessi fratelli per impossessarsi delle sue proprietà, senza che egli avesse potuto più rivederla fu per il ragazzo una lacerazione; negli anni tardi egli l’avrebbe rievocata nella Canzone al Metauro come la prima crudele piaga infertagli dalla sorte:
Me dal sen de la madre empia fortuna pargoletto divelse...
ch’io non dovea giugner più volto a volto
fra quelle braccia accolto
con nodi così stretti e sì tenaci.
Nel 1556 Tasso da Roma passò col padre ad Urbino, presso la colta e signorile corte di Guidobaldo II Della Rovere, dove fu educato secondo il modello del perfetto cortigiano stabilito da Castiglione: culto delle lettere, della musica, delle arti, esercizio delle virtù cavalleresche e dove Torquato divenne così compagno di studi del figlio del Duca.
Nel 1559, sempre col padre, a Venezia e poi a Padova dove visse fino al 1565. Nel 1560-61 frequentò l’Università, seguendo gli studi di legge, dove si dedicò agli studi di filosofia ed approfondì la conoscenza dei classici, con una breve interruzione bolognese, dove fu coinvolto in una vicenda goliardica, con strascichi giudiziari, per aver scritto versi satirici che alludevano ai bassi natali e all’effeminatezza di alcuni studenti e professori, e fu costretto a lasciare in fretta e furia la città. Al soggiorno padovano risalgono le prime liriche, composte per amore di Lucrezia Bendiddio e, in seguito per la mantovana Laura Peperara nel 1564. Tali amori seppero ispirare al giovane poeta alcune liriche che sono tra le più delicate e melodiose del tempo.
Nel 1562 Tasso pubblicò il Rinaldo, dedicandolo al cardinale Luigi d’Este.
Nel 1565 anche in virtù della fama poetica che già cominciava a conquistarsi, Tasso fu invitato a Ferrara presso la Corte Estense, prima al servizio del cardinal Luigi d’Este, poi del duca Alfonso II.
I dieci anni che seguirono, dal 1565 al 1575 furono i più felici – e forse gli unici felici – dell’esistenza di Tasso.
Tra il 1570 ed il 1571 Tasso accompagnò il cardinale in Francia, ma qui il suo soggiorno non fu sereno ed il poeta rientrò in Italia appena gli fu possibile.
Dal 1572 entrò a far parte, come cortigiano stipendiato, del seguito del duca estense Alfonso II con il titolo di gentiluomo e nel 1576 poi con la carica di storiografo di corte: compose poesie per feste e matrimoni, madrigali che rendevano omaggio a dame e personaggi di corte, ottenne un sempre più ampio riconoscimento delle sue qualità di letterato e intellettuale e fu nominato socio dell’Accademia ferrarese.
Nel 1573 compose la favola pastorale Aminta.
La vita di Corte non era per lui una tollerata necessità come per Ariosto, ma rappre­sentava la forma ideale di esistenza, fra mondanità eleganti, incontri culturali, gratifi­canti affermazioni personali. Ammirato e invidiato dagli altri cortigiani, corteggiato dalle dame, libero da preoccupazioni economiche, diede in questo periodo il meglio di sé anche come poeta, come testimoniano le sue opere di questi anni, cioè l’Aminta e La Gerusalemme liberata.
Col 1575 ebbe inizio la fase discendente della vita del Tasso. Dopo aver portato a termine il Goffredo, iniziato nell’adolescenza e la cui originaria ispirazione risaliva alla fanciullezza allorché più volte Torquato Tasso fu condotto alla Badia di Cava, il monastero dei Benedettini di Cava de’ Tirreni, dove si trova la tomba di Urbano II, il predicatore della prima Crociata, ed ebbe modo di ascoltare dai monaci il racconto delle imprese dei Crociati.
Il poema diventò famoso col titolo di Gerusalemme liberata e, prima di pubblicarlo, Tasso volle sottoporla al giudizio di cinque revisori dai quali si aspettava riconoscimenti e lodi, e che invece, condizionati dalle teorie estetiche imperanti e da gretto moralismo, mossero al poema numerose riserve di natura estetica e religioso-morale. Ne derivarono a Tasso indebolito, spossato e già prostrato dalla fatica della composizione, uno scontento e un’inquietudine che si trasfor­marono presto in grave esaurimento nervoso. Assalito da forti febbri, Tasso cominciò a manifestare i primi sintomi dello squilibrio interiore che lo tormentò fino alla morte. Cominciò ad essere turbato da scrupoli religiosi pertanto decise di rivedere la stesura di tutta l’opera e nel 1577 chiese addirittura di essere esaminato dall’Inquisitore di Ferrara, per dissipare ogni dubbio sull’ortodossia cattolica del suo pensiero. Fu assolto, ma non sentendosi ancora soddisfatto, decise di recarsi presso gli inquisitori di Roma e di denunciare addirittura le tendenze filocalviniste di alcuni Estensi. Il duca Alfonso II, temendo che il papato potesse approfittarne per occupare la signoria, lo fece vigilare. Cominciò inoltre a manifestarsi in lui una grave mania di persecuzione che lo portò anche a gesti violenti. Un giorno, sentendosi spiato da un servo mentre conversava con la sorella del duca, gli lanciò contro un coltello ferendolo: per questo motivo Tasso fu rinchiuso, come malato di mente, in una stanza del palazzo e poi liberato. Dopo altre manifestazioni di follia, è rinchiuso in un monastero, da dove, però riesce a evadere rifugiandosi presso la sorella, a Sorrento. Dopo qualche tempo riprende la vita errabonda e avventurosa, recandosi a Mantova, Padova, Venezia, Urbino, Torino.
Nel 1579, vinto dalla nostalgia per la sua città, chiese il perdono del duca e fece ri­torno a Ferrara, che, nella lontananza, gli appariva pur sempre come un Eden perduto. Vi giunse però in un momento inopportuno, mentre la Corte era impegnata nei prepa­rativi delle nozze del duca Alfonso II con Margherita Gonzaga. Non riuscendo a farsi accordare udienza, Tasso ebbe l’impressione che poco si curassero di lui, e diede in escandescenze contro il Duca. Questa volta fu rinchiuso come pazzo nell’Ospedale di Sant’Anna, dove rimase dal 1579 al 1586, in una relegazione che, durissima all’inizio, fu in seguito miti­gata. Del resto egli stesso alternava periodi turbati e tormentati da allucinazioni a pe­riodi assolutamente lucidi in cui si dedicava al suo lavoro letterario e poetico. Il reale motivo per cui il duca Alfonso tenne a lungo rinchiuso l’infermo va cercato nel timore che il Tasso, con i suoi dubbi religiosi, con l’ossessione eretica, che lo aveva spinto ad accusarsi di eresia presso il tribunale dell’Inquisizione, potesse recare danno politico alla Casa d’Este, già guardata con sospetto dalla Curia Romana, dopo la conversione al calvinismo della principessa Renata di Francia, figlia di Luigi XII e sposa di Ercole II d’Este. Durante questi anni continuò a soffrire di allucinazioni e di manie di persecuzione, ma scrisse anche molte lettere a illustri personaggi (soprattutto per ottenere la libertà), molte poesie, i Dialoghi filosofici, nei quali parla della sua sottomissione alle verità della religione, e della sua concezione della politica, arte, letteratura, amore, bellezza ecc., risentendo molto della filosofia platonica.
Nel 1580, mentre era ancora in carcere, alcuni disonesti editori pubblicarono a sua insaputa la Gerusalemme: Tasso, per il quale il poema non corrispondeva più ai suoi criteri, ne fu molto addolorato. Tuttavia, quella pubblicazione determinò un acceso dibattito sul valore dell’opera, soprattutto perché era messa a confronto con l’Orlando furioso di Ariosto. I suoi sostenitori proclamarono che solo Tasso, fedele alle leggi aristoteliche, aveva saputo dare il poema epico all’Italia; i denigratori invece lo accusavano di avere usato delle impurità dialettali e straniere, venendo così meno alla superiorità della lingua toscana. Tasso stesso entrò nel dibattito pubblicando un’Apologia della Gerusalemme.
Nel 1586 Tasso ottenne la libertà per intercessione dei principi Gonzaga di Mantova, che lo vollero presso la loro corte dove compone la tragedia Torrismondo. Tuttavia, dopo un anno di sereno e operoso soggiorno a Mantova, alla notizia che per l’incoronazione di Vincenzo Gonzaga sarebbero giunti a Mantova Alfonso e Margherita d’Este, fu ripreso di nuovo dall’inquietudine, fuggì da Mantova e ricominciò a spostarsi di città in città: fu a Loreto, dove sciolse un voto, Roma, a Napoli dove cercò di recuperare la dote materna, a Firenze dove ricevette grandi onori dai Medici di nuovo brevemente a Mantova; ma più a lun­go soggiornò a Roma, dove ebbe la protezione di due nipoti del papa Clemente VIII Aldobrandini e dove il papa stesso gli promise una pensione vitalizia e un solenne riconoscimento del suo valore letterario: l’incoronazione in Campidoglio di poeta laureato.
Conclusa la nuova redazione del poema, che intitolò Gerusalemme conquistata, pubblicata nel 1593, freddo rifacimento della Liberata, obbediente a tutti i dogmi religiosi e letterari, morì a Roma nel 1595, alla vigilia dell’incoronazione poetica in Campidoglio, che gli era stata decretata in riconoscimento dei suoi meriti di scrittore.
b) Le opere – Precoce fu l’attività poetica del Tasso.
Già al soggiorno urbinate risale la composizione di alcune liriche; e liriche egli continuò poi a comporre per tutto l’arco della vita. Il vasto corpus delle Rime tassesche (più di 1300) comprende componimenti di diverso argomento (d’amore, religiose, di elogio cortigiano) e di diverso valore: sem­pre dotate di indiscutibile decoro letterario, esse peccano a volte, specie le encomiastiche, di convenzionalità; ma a volte, soprattutto le amorose e in particolare i madrigali, rag­giungono la più alta poesia.
Nel periodo padovano compose il Rinaldo, poema cavalleresco di imitazione ariostesca, che rivela nel giovane poeta facile vena; e a questi stessi anni risale il primo abbozzo di un poema epico sulla Crociata, il Gierusalemme, che sarebbe poi diventato la Gerusa­lemme liberata.
Agli anni felici del primo soggiorno ferrarese appartengono  i due capolavori di Tasso: l’Aminta, dramma pastorale composto per il teatro dì Corte e rappresentato nel 1573, nel quale si rivela l’alta maturità artistica da lui ormai raggiunta; e la sua opera maggiore, La Gerusalemme liberata, conclusa nel 1575, poema epico-religioso in venti canti in ottave che ha per argomento la prima crociata guidata da Goffredo di Buglione e predicata da Pietro l’Eremita, e la liberazione del Santo Sepolcro dagli infedeli.
Si conclude a questo punto il momento alto della produzione poetica tassiana. Le ope­re successive, anche se non prive a tratti di lampi di poesia, riflettono anche artistica­mente la parabola discendente dell’esistenza del poeta. Fra esse, assai numerose, ricor­diamo: La Gerusalemme Conquistata, infelice rifacimento della Liberata, frutto di scrupoli estetici e religiosi; un poema sulla creazione del mondo, Il mondo creato, e una cupa tragedia di argomento nordico,  Il re Torrismondo.
Accanto alla produzione tassiana in versi va ricordata la sua vastissima produzione in prosa: le opere di riflessione estetica sul poema eroico (i Discorsi dell’arte poetica e i Discorsi del poema eroico), i Dialoghi, composti nella prigionia di Sant’Anna, di argomento prevalentemente filosofico; e il vastissimo epistolario, che è documento della travagliata esistenza del poeta.
c) Torquato Tasso, voce poetica fra Rinascimento e Controriforma - Nella seconda metà del Cinquecento cominciano a rivelarsi alcune incrinature in quella fiducia assolu­ta nell’uomo, nelle sue capacità e nei valori terreni, che era stata la connotazione fon­damentale del trionfante Rinascimento, e che aveva trovato l’espressione più matura nel pensiero del Machiavelli e nella poesia di Ariosto.
È un mutato stato d’animo cui ha concorso non poco la situazione politica italiana, dove le speranze machiavelliane di dar vita a un forte stato autonomo sono del tutto fallite, e dove è ormai in atto il lento declino sotto le dominazioni straniere.
In questo periodo si va sottilmente insinuando nelle coscienze il dubbio inquietante che non tutto all’uomo, neppure all’uomo eccezionalmente dotato, sia possibile; e che egli debba fare i conti con forze ostili che incombono su di lui, assai più oscure e misterio­se della machiavelliana «fortuna», e perciò ben più difficili da affrontare. È questo uno stato psicologico che apre naturalmente la via alla dimensione religiosa, e che perciò costituisce il terreno propizio all’affermarsi della Controriforma e alla rin­novata religiosità che essa si propone di instaurare: una religiosità peraltro spesso im­posta dall’esterno con strumenti di pressione (il Tribunale dell’Inquisizione), generato­ri, negli spiriti più sensibili o più deboli, di sconcerto e di turbamento. Di questo periodo, in cui il Rinascimento ormai al tramonto e i suoi valori terreni non del tutto spenti si scontrano, spesso dolorosamente, con una rivalutazione dei valori religiosi, e quindi con un’antitetica concezione della vita, Torquato Tasso rappresenta la voce poeti­ca più alta e drammatica.
d) La parabola tassiana dal «Rinaldo» alla «Liberata» - Le opere maggiori che prece­dono la Liberata, e cioè il Rinaldo e l’Aminta, sono ancora immerse nello spirito rina­scimentale. Il protagonista del poema omonimo, il paladino Rinaldo, è tutto proteso, senza incertezze né inquietudini, verso i doni che la vita offre alla sua giovinezza, l’amore e la gloria, e che egli vuole afferrare a piene mani.
La stessa tensione verso i valori terreni alimenta l’altra, e ben più alta, prova poetica, l’Aminta. È una favola pastorale in cui l’amore è presentato nei suoi molteplici aspetti e goduto in totale libertà di spirito. Esso è sentito come una forza vitale, e come tale positiva, della natura. Nel bellissimo coro che conclude il primo atto è esaltata la miti­ca età dell’oro non già perché in essa, come raccontavano le antiche favole, gli alberi stillassero miele e nei fiumi scorresse latte, ma perché l’«amore», cioè il libero dispiegarsi degli istinti, non veniva contrastato dall’«onore», cioè dalla legge morale. Questa antitesi fra «amore» e «onore», cioè fra le umane passioni e il dovere e i con­dizionamenti etici, è invece tema fondamentale e struggente nella Liberata, opera in cui è già ben presente la dimensione religioso-controriformistica. Nel poema il «dovere» si configura concretamente nella lotta contro gli infedeli, e si contrappone alle terrene passioni dei crociati, siano esse la brama di personali conquiste e domini, o, assai più frequentemente, la passione amorosa. Ne nascono situazioni di alta drammaticità psi­cologica che si risolve in complessità e intensità poetica.
e) I temi della «Liberata» - Il poema inizia narrando che al sesto anno di guerra dato che i principi si sono dimenticati del sacro obiettivo da raggiungere Dio manda l’arcangelo Gabriele da Goffredo (unico rimasto fedele) per rimettere in sesto un esercito con scopi più elevati cosi abbiamo i primi scontri dei crociati sotto le mura di Gerusalemme. Ma Satana contrasta i crociati attraverso i suoi demoni e la maga Armida, talmente bella che parecchi soldati la seguono e sono imprigionati nel suo castello. Poi abbiamo Argante che vuole porre fine all’assedio e così decide di sfidare Tancredi, iniziano a duellare ma il duello è interrotto per il calar della sera e qui Erminia travestendosi da Clorinda prova a raggiungere la tenda di Tancredi ma scoperta dai cristiani fugge cosi il giorno seguente Tancredi cerca di raggiungerla (pensando che fosse Clorinda la sua amata) ma viene imprigionato da Armida. dopo altri episodi dove abbiamo l’intervento di angeli e demoni la battaglia viene nuovamente interrotta. Al calar delle tenebre la vera Clorinda (amata di Tancredi) viene uccisa in duello da Tancredi che non la riconosce e cosi inizia la sua disperazione che lo conduce quasi alla morte ma lo salva la stessa Clorinda che gli appare in un sogno dopo altre peripezie dio capisce che è ora di porre fine alla guerra cosi manda a ripescare Rinaldo anch’egli prigioniero di Armida (innamorata ormai di Rinaldo) cosi poi comincia nuovamente l’assalto definitivo a Gerusalemme e termina con la morte del capo dell’esercito egiziano da parte di Goffredo. 
f) La componente eroico-religiosa - Tema della Gerusalemme liberata è la prima Crocia­ta, che, nella realtà storica, durò dal 1096 al 1099, ma che il Tasso, con dilatazione en­fatizzante, immagina che sia durata per ben sei anni. A somiglianza dell’Iliade, in cui la guerra di Troia è descritta nella sua ultima fase, cioè nei decisivi quaranta giorni fi­nali, così nella Liberata sono rappresentate le vicende degli ultimi tre mesi, cui le prece­denti fanno da sfondo e da supporto: esse si concludono con la sconfitta degli Infedeli, la caduta di Gerusalemme, e la liberazione del Santo Sepolcro.L’argomento è dunque eroico-guerresco, quale si conveniva a un poema epico, genere nel quale il Tasso ambiva di affermarsi e di acquistare gloria. Ma la novità tassiana nei confronti della tradizione epica precedente è costituita dalla componente religiosa, che rifletteva le aspirazioni e gli ideali dell’età della Controriforma, nonché la diffusa sensi­bilità del tempo.
A questo si aggiunga lo stimolo che veniva a Tasso da una precisa situazione storica contemporanea che ridava attualità al mondo delle Crociate: il rinnovarsi cioè di una minaccia turca sull’Europa, minaccia con Titro la quale Venezia rappresentava un baluar­do (e il primo progetto del poema nacque, come sappiamo, a Venezia); e, dopo la bat­taglia di Lepanto del 1571, l’orgoglio della cristianità per la vittoria riportata dalla «lega santa» sui Turchi.
Nel poema tassesco la guerra che i Crociati devono combattere non è soltanto contro le forze del re di Gerusalemme, Aladino, ma anche contro i forti alleati di costui, il re d’Egitto e il sultano turco Solimano.
In campo e nell’altro spiccano individualisticamente prodi personalità guerriere, e alla lotta partecipano anche forze soprannaturali: celesti, diaboliche, magiche.
g) Gli «amori» e gli «incanti» - Se la componente epico-religiosa costituisce la struttura portante della Liberata, non è in tale dimensione che sono rinvenibili i suoi momenti poeticamente più alti e intensi; ma vanno piuttosto ricercati negli episodi amorosi e di suggestione magica che si innestano sul filone eroico e religioso, e con esso strettamen­te si intrecciano.
Tasso stesso ne aveva coscienza, tanto che difese strenuamente questi, che egli chiama «gli amori» e «gli incanti», contro i revisori, che li consideravano disdicevoli a un poema cristiano e li volevano da esso espunti.
L’amore è presente nella Liberata nella vasta gamma delle sue manifestazioni, dall’amore sentimentale a quello sensuale, e tocca tanto gli eroi cristiani che quelli pa­gani.
Ma sono ormai lontani gli amori felici del Rinaldo e dell’Aminta. Gli amori della Libe­rata hanno per denominatore comune il fallimento e l’infelicità, o perché contrastati – come già abbiamo visto – dal «dovere», o perché avversati dalla sorte, o semplice­mente perché non ricambiati. Così il cristiano Tancredi ama la pagana Clorinda che neppure si accorge di lui, e la sorte si accanisce tanto che, non riconoscendola sotto l’armatura, l’uccide di sua mano in combattimento; la pagana Erminia ama, non ria­mata, Tancredi; il cristiano Rinaldo è conquistato dal fascino della pagana e maga Armida, ma deve abbandonarla per riprendere il suo posto nelle file crociate, ecc. È una specie di vana corsa verso la felicità che umanizza e conferisce poesia ai personaggi che ne sono coinvolti, ma che crea intorno a loro un dolente senso di sconfitta. Quanto agli «incanti», il Tasso indica con questo nome l’elemento magico che non so­lo era congeniale al gusto del tempo, ma che egli considerava essenziale per ottenere quel «meraviglioso» che giudicava ingrediente irrinunciabile del poema eroico. Sono presenti nel poema le varie forme di magia: la «magia naturale» o magia volta a buon fine, come quella del mago d’Ascalona che concorre a sottrarre Rinaldo all’amo­re di Armida; la «magia nera» o magia diabolica a fine perverso, utilizzata, ad esem­pio, dal mago Ismeno che incanta la selva di Saron così che i Cristiani non possono più trame legna per le loro macchine da guerra. A volte la «magia nera» prende bellis­sime e seducenti fattezze femminili; ed è il caso della maga Armida, che col suo fascino sottrae Rinaldo al combattimento; o prende l’aspetto selvaggio della Furia Aletto, che scatena al combattimento e spinge al suo destino di morte il solitario e prode eroe Soli­mano.
Permeati di influenze magiche sono taluni paesaggi, come la selva di Saron su cui il mago Ismeno ha sparso la sua funesta incantagione; e dalla natura stessa di altri sem­brano emanare suggestioni stregate e magiche, come dalla landa maledetta, sede un tempo di Sodoma e Gomorra, ora occupata dalle acque bituminose e graveolenti del Mar Morto.

4. Galileo Galilei – Galileo Galilei è con Newton, Francesco Bacone e Cartesio uno dei grandi promotori della rivoluzione scientifica del ‘600. Matematico, fisico e astronomo, la sua figura ha avuto anche una grande rilevanza filosofica.
a) La vita Nacque a Pisa nel 1564 e compì gli studi a Pisa e a Firenze. Fin dal 1583 aveva scoperto le leggi dell’isocronismo del pendolo. Dal 1589 al 1592 insegnò matema­tica nello Studio pisano; sono di questo periodo le sue esperienze sulla caduta dei gra­vi. Dal 1592 al 1610 insegnò presso l’Università di Padova; negli ultimi due anni del soggiorno padovano, perfezionando un’invenzione venutagli dall’Olanda, costruì il te­lescopio, che gli consentì importanti osservazioni astronomiche per le quali fu spesso in urto con il conservatore e aristotelico ambiente accademico padovano. Individuò in questi anni la costituzione della Via Lattea e scoprì quattro satelliti di Giove. Nel 1610 tornò ad insegnare in Toscana, presso il Granduca. Nel frattempo la sua adesione alle teorie del polacco Copernico (1473-1543), secondo le quali la terra non sta immobile al centro dell’Universo, ma ruota intorno al sole, che è il centro immobile del sistema so­lare, gli sollevarono contro le diffidenze e poi la condanna dal Santo Uffizio, cui pare­va che la teoria copernicana contraddicesse alle Sacre Scritture.
Chiamato a Roma e sottoposto a processo, per non essere condannato a morte come eretico dovette abiurare le sue teorie (22 giugno 1633). Morì ad Arcetri, presso Firenze, dove, per ordine del Sant’Uffizio, era tenuto in controllata segregazione.
b) Le opere - Fra le sue opere ricordiamo il Saggiatore (1623), opuscolo polemico sulle comete scritto contro il padre gesuita Orazio Grassi; il Dialogo dei massimi sistemi (1632) in cui Galileo lascia chiaramente intendere la sua adesione al sistema copernica­no; il Dialogo delle nuove scienze (1638). Importantissime sono poi la Lettera a don Benedetto Castelli (1613) e la Lettera alla granduchessa Cristina di Lorena (1615) in cui Galileo chiarisce il suo principio dell’autonomia reciproca dei Libri Sacri e della ricerca scientifica.

c) Dialogo sui due massimi sistemi del mondo – Eccezionale diffusione ha avuto, tra i suoi scritti, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo.

Nel 1623 Maffeo Barberini, che era considerato un patrono di artisti e scienziati, divenne Papa Urbano VIII. Galileo cercò di riproporre la questione copernicana, ed ottenne dal Papa il permesso di scrivere un dialogo, nel quale esporre i principi della teoria, senza però arrivare ad una conclusione sulla sua validità, bensì trattandola come una semplice ipotesi matematica.

Galileo lavorò al Dialogo fino al 1630.

Il testo è diviso in quattro giornate, durante le quali il copernicano Salviati (che rappresenta lo stesso Galileo) e l’aristotelico Simplicio si confrontano esponendo le due teorie; un terzo personaggio, Sagredo, interviene spesso nel dialogo tra i due, a favore di Salviati.

Durante le prime tre giornate, i tre prendono in considerazione il moto terrestre e alcuni fenomeni celesti che sembrerebbero invalidare la cosmologia aristotelica.
La quarta giornata è dedicata invece all’analisi del fenomeno che più degli altri convinse Galileo della validità della teoria copernicana, cioè quello delle maree. Egli spiegava il fenomeno in maniera errata, semplicemente come la combinazione del moto annuale di rivoluzione terrestre con quello diurno di rotazione; non prese invece in considerazione l’attrazione gravitazionale della Luna.
Nel Dialogo sono presentate alcune conclusioni a favore della teoria copernicana. Quando Galileo sottopose l’opera al giudizio della Chiesa, Papa Urbano VIII gliene impedì la diffusione e segnalò la questione al Tribunale dell’Inquisizione. Le autorità ecclesiastiche erano però disposte ad ammettere il sistema copernicano solo come ipotesi di calcolo e reagirono ai suoi tentativi dapprima ammonendolo nel 1616 e poi processandolo, condannandolo definitivamente ed infine costringendolo all’abiura nel 1632.
La fama di Galileo tra i suoi contemporanei viene dalle sue osservazioni astronomiche, che impiegarono una versione perfezionata del telescopio, già noto da alcuni anni, e mettono in discussione alcuni punti fermi della cosmologia aristotelica. Già da tempo convinto copernicano, Galileo sostiene la superiorità del sistema eliocentrico con varie argomentazioni. Fondamentale a questo proposito è l’elaborazione del principio d’inerzia (per cui un oggetto in moto non sottoposto a forze esterne continua a muoversi con velocità costante), grazie al quale Galileo riesce a vanificare quasi tutte le obiezioni di tipo fisico che da secoli venivano sollevate contro l’idea di una Terra in movimento. L’idea di movimento inerziale, movimento privo di cause, rappresenta una rottura di enorme portata rispetto al pensiero precedente, non solo per le sue implicazioni a favore delle teorie copernicane, ma anche perché inaugura una nuova forma di rapporto conoscitivo tra il soggetto e l’esperienza: il principio non trae la sua validità dall’esperienza comune, quotidiana, ma richiede uno sforzo di astrazione che liberi l’esperienza da tutti i fattori perturbatori (in primo luogo l’attrito) che impediscono al principio di manifestarsi in tutta la sua purezza.
Il principio d’inerzia costituisce il primo principio della scienza moderna, fondando la dinamica. Galileo contribuisce all’edificazione della dinamica anche con le sue ricerche sulla caduta dei gravi, con cui inaugura il moderno approccio sperimentale. Per Galileo l’esperimento assume forme artificiali precise e determinate, che permettono un controllo numerico di ipotesi quantitative, consente la misurazione dei fenomeni: è la via con cui l’esperienza può essere matematizzata. L’esperimento ha anche la funzione di portare alla luce comportamenti naturali che altrimenti rimarrebbero nascosti, occultati dalla complessità dei fenomeni perturbatori sempre presenti nell’esperienza quotidiana.
Galileo è convinto che il copernicanesimo sia compatibile con le Sacre Scritture, purché queste siano interpretate allegoricamente, e tenta di far accettare questa posizione alla Chiesa.
d) Il metodo sperimentale e la lotta contro il principio di autorità - Galileo, che si collo­ca nella scia di Leonardo da Vinci, è l’instauratore deciso ed organico del metodo sperimentale. Egli sostiene infatti che l’unico metodo valido di conoscenza scientifica è quello che parte dall’esperienza, cioè dalla analisi diretta dei fenomeni, e di lì indutti­vamente perviene alla formulazione delle leggi scientifiche.
Tale metodo sperimentale-induttivo si contrapponeva a quello deduttivo allora in auge, che, partendo da un principio generale non conquistato sperimentalmente ma afferma­to per autorità (era la «grande bugia» cui alludeva Leonardo) perveniva alle applica­zioni particolari di tale principio.
Contro il principio di autorità Galileo combatte per tutta la sua vita di studioso. Esso gli si presentava in due forme: l’autorità di Aristotele (l’ipse dixit), e l’autorità dei Libri Sacri, cioè della Bibbia.
Negli anni in cui Galileo maturava il suo pensiero e compiva le sue ricerche rivoluzio­narie, la cultura ufficiale italiana resisteva impavida sulle vecchie posizioni che mette­vano capo all’ipse dixit di Aristotele. Si narrava l’episodio di quell’insegnante dell’Uni­versità di Padova, culla dell’aristotelismo, che, invitato da Galileo a guardare le mac­chie solari attraverso il telescopio, si rifiutava di farlo dicendo che non ci potevano es­sere macchie solari perché Aristotele non aveva detto che c’erano. Gli aristotelici di stretta osservanza fecero presto muro contro Galileo, e concorsero non poco alla sua rovina.
Ma l’«autorità» più dura da combattere, e con cui Galileo dovette duramente scontrar­si fu quella della Bibbia.
La Chiesa rifiutava di considerare come valide, e considerava anzi ereticali, le conclu­sioni scientifiche che si scostassero da affermazioni contenute nei testi sacri. E le con­clusioni della Chiesa erano affiancate, in campo operativo, dal Tribunale dell’Inquisi­zione, le cui sentenze potevano portare all’imprigionamento, e magari alla morte sul rogo, del dissenziente.
Nel caso specifico di Galileo la Chiesa considerava eretica la teoria eliocentrica (élios = sole) del polacco Copernico (sistema copernicano), teoria cui Galileo aveva aderito, secondo la quale la Terra è uno dei tanti pianeti che ruotano intorno al sole, che sta immobile al centro dell’universo. Tale teoria era in antitesi con la tradizionale conce­zione geocentrica (gè = terra) sostenuta dall’astronomo greco Tolomeo del II secolo dopo Cristo, che voleva la Terra ferma al centro dell’universo, quasi perno di esso, mentre il sole le ruotava intorno illuminandola (sistema tolemaico). La Chiesa ufficiale giudicava che solo la concezione tolemaica sì accordasse ai testi sa­cri (si citava l’episodio di Giosuè che fermò il sole, il che implicava il muoversi del sole stesso); e inoltre sembrava che la concezione eliocentrica spodestasse il nostro pianeta da quella posizione di privilegio per cui Dio vi sarebbe sceso facendosi uomo per sal­varne gli abitatori.
Galileo, che si proclamò sempre cattolico, ribattè a queste accuse fra l’altro nella Lette­ra alla granduchessa di Toscana, Cristina di Lorena. In essa sosteneva l’autonomia del­la scienza dai Libri Sacri. Nella sua lucida esposizione il Galilei vi affermava che Dio si è manifestato agli uomini per due vie: i testi sacri e il libro della natura. Nei testi sacri stanno scritte verità eterne religiose e morali, non già scientifiche; anzi il linguaggio scientifico della Bibbia è volutamente adeguato alle cognizioni scientifiche degli uomini di quelle lontane età. Le verità scientifiche stanno invece scritte nel libro della natura, dove spetta agli uomini di ricercarle, portarle alla luce, ed esporle infine, traducendole in formule matematiche.
e) La lingua e il dialogo galileiani - Dopo le prime pubblicazioni in latino, che era anco­ra la lingua ufficiale della scienza, Galileo usa stabilmente il volgare, la lingua attuale che sentiva adeguata alla novità del suo pensiero. L’italiano di Galileo è una lingua di un’eleganza non studiata, essenziale, esatta a tratti mossa dall’emozione del ricercatore che tende alla verità e la vede rivelarglisi.
La forma dei suoi scritti è prevalentemente dialogica. Non si tratta però come nella maggior parte dei trattati del Cinquecento in forma dialogica, di un dialogo formale, strumento per esprimere dottrine già acquisite, ma di un dialogo che traduce lo scontro appassionato di idee nel loro definirsi. Perciò anche i personaggi interlocutori hanno una loro fisionomia e un loro rilievo psicologico.

5. Giambattista Marino – Il napoletano Giambattista Marino è lo scrittore più significativo del nostro Seicento e rappresentò un modello imitato dagli scrittori dell’epoca in tutta Europa.
a)      La vitaGiambattista Marino nacque a Napoli il 14 ottobre 1569. Costretto dal padre giurista agli studi di legge fu spinto ad andarsene di casa per il suo comportamento provocatorio e insubordinato. Nel 1596, entrato in contatto con gli ambienti letterari della città, diventò segretario di Matteo di Capua, principe di Conca.
Nel 1598 fu incarcerato per avere sedotto la figlia di un facoltoso mercante, morta di aborto.
Nel 1559 fu incarcerato una seconda volta per avere tentato di salvare dalla pena capitale un amico facendolo passare per chierico con bolle vescovili falsificate. Fuggito a Roma, entrò al servizio di Melchiorre Crescenzio, chierico di camera di papa Clemente VIII, partecipando alla vita letteraria della città.
Dopo un soggiorno veneziano (tra il 1602 e il 1603), fu accolto nel 1604 al servizio del cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, che seguì nel 1606 nella sede vescovile di Ravenna e nel 1608 a Torino. Qui, alla corte di Carlo Emanuele I di Savoia, ottenne i primi grandi riconoscimenti. Nel 1611 entrò in conflitto con il poeta Gaspare Murtola, che arrivò a sparargli nella pubblica via. Marino rimase illeso, ma un giovane fu ferito al suo posto. Murtola dovette pagare con l’arresto e l’allontanamento dal Piemonte, ma lo stesso Marino, per ragioni non ben chiarite, riprovò l’onta del carcere, da cui uscì solo nel giugno del 1612.
Nel 1615 Maria de’ Medici, la vedova di Enrico IV, lo invitò alla corte di Francia, dove, tra gli onori e gli agi, Marino riordinò e concluse la sua produzione poetica.
Nel 1623, ammalato e stanco della vita di corte, tornò a Roma, dove fu accolto trionfalmente ed eletto Principe dell’Accademia degli Umoristi. Nel 1624 si trasferì a Napoli, dove morì il 25 marzo 1625.
b)      Le opere - Marino fu poeta versatile e prolifico. Egli deve la sua fama soprattutto all’Adone edito a Parigi nel 1623. Le opere minori sono ordinate nelle seguenti raccolte: La lira; gli Epitalami (1616), componimenti per le nozze di illustri personaggi di corte; La Murtoleide, 81 sonetti contro Murtola (1619); La galeria (1619), descrizioni in versi di opere d’arte reali o immaginarie; La sampogna (1620), serie di idilli e di favole pastorali; La strage de gl’Innocenti (1632, postumo), poemetto in ottave sulla storia evangelica.
Notevoli per valore documentario sono le Lettere, che costituiscono anche sul piano artistico un eccellente esempio di prosa secentesca.
c)      L’ Adone – Il capolavoro di Marino fu l’Adone. Esso fu terminato e stampato a Parigi nel 1623. Già pensato negli anni romani, questo poema si dilatò dal nucleo originario di tre canti alla forma definitiva di 24, per un totale di oltre 40 mila versi in ottave.
L’argomento[[1]] è tratto dalla favola mitologica di Venere che si innamora di Adone, provocando l’ira e la vendetta di Marte. In questa trama esile, Marino innesta una lussureggiante fantasia, una serie di episodi e digressioni, come la descrizione del giardino del piacere, la gara tra il musico e l’usignolo, la tragedia di Atteone ecc., derivando spunti dagli autori antichi: Ovidio, Apuleio, Claudiano.
Manca unità d’azione: ma proprio questa è la novità della tecnica di Marino. In essa si mettono in discussione i fondamenti del poema classicista: la narrazione si svolge per successive stratificazioni, con passaggi arditi e inattesi, senza nesso logico, con l’appoggio di un tessuto verbale prezioso, fitto di metafore, iperboli, antitesi, con effetti di pianissimo e di sonorità acuta.
Il poema diventa così una fabbrica di meraviglie, volta a produrre continua sorpresa nel lettore. La poesia è intesa come viaggio nell’imprevedibile. Un virtuosismo tecnico-stilistico che ad un lettore odierno risulta noioso; i momenti più interessanti sono quelli in cui la sensualità di Marino diventa capacità di auscultare e riprodurre voci insolite e segrete della natura, e quando il suo stile raggiunge astratte perfezioni di ritmo e gioco formale.
d)     La poetica - La poesia di Marino è tutta impostata sul principio della «meraviglia», pur attuando una medietà stilistica che rifugge dai concettismi più arditi e dalle provocazioni più astruse che saranno invece proprie di certi suoi emulatori.
Marino non è poeta del facile effetto, ma ingegnoso inventore di immagini preziose, abile falsario della tradizione, irriducibile paladino della ricerca fantastica. Le sue metafore mirano all’intelligenza del lettore, non alla sua impressionabilità, tanto che si riconoscono un disegno ordinato e un principio di freddezza razionale nel pullulare delle metafore e nella mutazione continua di lingua e registri.
Nella poesia di Marino si compone un mondo umano e naturale di straordinaria ricchezza e varietà, mobile e sensuale, lontanissimo dalle rarefatte ed eteree atmosfere petrarchiste, senza tuttavia che la scrittura risulti concretamente realistica.
L’impegno incessante del poeta nella ricerca delle variazioni letterarie non ha infatti altro fine che il piacere della bravura e dell’eleganza.
e)      Il poeta di professione - Marino è un virtuoso della parola: fu ammiratissimo in vita, disprezzato dalla critica del XVIII e XIX secolo. Egli fu un professionista, un letterato che viveva della sua penna per cui doveva essere attento al proprio pubblico, che doveva stupire con gli argomenti e con le proprie capacità tecniche.
La mirabolante varietà metrica costituisce uno degli artifici pirotecnici del poeta. Il suo godimento e la sua bravura supremi sono nel continuo accarezzamento delle forme. Marino non arretra davanti a nessuno spettacolo, a nessuna descrizione, la più vasta e alata o la più volgare e minuziosa.

6. La prosa scientifica e storiografica nell’età del Barocco - Lontana dal gusto lambiccato e ozioso del concettismo seicentistico è la prosa scientifi­ca e storiografica di questo periodo, che, nel rigore razionale del pensiero, nella luci­dità della forma esatta e aderente alle cose, sembra piuttosto continuare la tradizione del Rinascimento.
Il maggiore dei prosatori scientifici, oltre che il maggiore scienziato, è Galileo Galilei; il maggiore degli storiografi è Paolo Sarpi (1552-1623), un frate servita divenuto consul­tore della repubblica veneta, e difensore dell’autonomia politica di Venezia, sua patria, dalle ingerenze della Chiesa. La sua opera più famosa è Historia del Concilio di Tren­to.

7. Gian Lorenzo Bernini - Gian Lorenzo Bernini (Napoli 1598 - Roma 1680), architetto, scultore, pittore, scenografo e autore di teatro, fu uno dei personaggi dominanti del Seicento e il principale interprete del fasto della Chiesa cattolica e dell'aristocrazia romana.
a) Gli anni di formazione e le prime opere - Ebbe la sua prima educazione artistica sotto la guida del padre Pietro, poi si formò a Roma, dove la famiglia si era trasferita nel 1605, sommando il virtuosismo tecnico del tardo manierismo allo studio del naturalismo ellenistico, le suggestioni dei grandi maestri del Cinquecento al classicismo della pittura dei Carracci. Tale formazione appare evidente nei gruppi marmorei di Giove fanciullo e la capra Amaltea (1615), per molto tempo scambiata per opera ellenistica; Ratto di Proserpina (1621-22); David (1623), in cui non viene esaltato l'eroe, ma lo sforzo del corpo (accentuato dalla contrattura delle membra e delle labbra) teso nel lancio della pietra in una scattante posa a spirale; Apollo e Dafne (1622-25), un vero prodigio tecnico per la leggerezza delle figure colte in corsa, libere nello spazio, per l'abile lavorazione del marmo che pare cera traslucida nella resa della metamorfosi della ninfa. Si coglie così come Bernini fosse affascinato dalla mutevole e fuggevole apparenza delle cose in uno spazio aperto e dinamico, e non dalla loro realtà.
b) La fabbrica di San Pietro - Nel 1624 iniziò la lunga serie di opere per S. Pietro, in cui fu impegnato per più di quarant'anni. Il primo lavoro fu il Baldacchino (1624-33), col quale sostituì ai tradizionali cibori un'originalissima struttura bronzea, che s'inserisce nell'enorme vano sottostante la cupola rendendolo vibrante e dinamico. Avvalorò poi questa soluzione con il riassetto dei grandi piloni della cupola, le cui facce interne (rivolte cioè verso il baldacchino) vengono animate con due ordini di nicchie. Ideò poi il rivestimento di marmi policromi delle navate, realizzò i monumenti funebri dei suoi due principali mecenati Urbano VIII Barberini (1628-47) e Alessandro VII Chigi (1671-78); la Cappella del Sacramento e la sistemazione del vano absidale con l'immensa macchina della Cattedra di S. Pietro (1657-66) sorretta dalle colossali statue dei dottori della Chiesa e culminante nel turbine di angeli e di raggi dorati che partono dal finestrone con il simbolo dello Spirito Santo. L'attività di Bernini per S. Pietro culminò con la costruzione del colonnato (1656-67), la più famosa e geniale delle sue opere, nella quale realizzò con la massima chiarezza la sua concezione di spazio dinamico, che lo spettatore comprende solo muovendosi in esso, stimolato dall'inarrestabile successione di scorci, e dando una lezione di urbanistica nel collegamento della basilica alla città.
c) Le altre opere - La sua concezione scenografica si riflette ancora nelle fontane delle Api, del Tritone e soprattutto nella fontana dei Fiumi (1648-51) di piazza Navona; nella Cappella Cornaro in S. Maria della Vittoria, in cui l'Estasi di S. Teresa (1644-52) si drammatizza in un vero scenario teatrale. Tra le molte altre opere sono da ricordare: Palazzo Barberini (1625-44, dalla scenografica facciata); il Palazzo di Montecitorio (1650-55); la Verità discoperta dal Tempo (1646-52, Roma, Galleria Borghese); la Beata Ludovica Albertoni (1674, S. Francesco a Ripa); i quadri con gli autoritratti; la serie dei busti marmorei, da quelli ufficiali dei pontefici, di Francesco I d'Este (1651, Modena, Galleria estense), di Luigi XIV di Francia, (1655, Versailles) a quelli "parlanti" (con la realizzazione delle labbra socchiuse) di Costanza Bonarelli (1635, Firenze, Bargello), di Scipione Borghese (1632 ca, Roma, Galleria Borghese) e di Gabriele Fonseca (1668-73, chiesa di S. Lorenzo in Lucina).

8. La lirica - La poesia lirica continua ad essere un ge­nere centrale anche nel Seicento; lo te­stimonia prima di tutto la vastità del­la produzione: centinaia sono i poeti che provengono da ogni parte d’Italia, an­che da quelle più periferiche e senza legami coi grandi centri della cultura rinascimentale.
Tale fioritura, non certo di livello qualitativo sem­pre accettabile, testimonia un «uso» della poesia legato alle occasioni, all’omaggio galante, alla lode, all’intento di procu­rarsi fama dando prova d’ingegno e di arguzia. Si afferma in­somma l’idea di una poesia che è capace di produrre diletto, piacere e svago per la sua originalità.
Alla vastità della produzione corrisponde una diversità di esperienze; al centro, come fenomeno dominante, sta la poe­sia barocca che ebbe il suo maestro in Giambattista Marino, caposcuola di uno stile poetico che da lui prese il nome: il marinismo.
I caratteri più rilevanti dell’esperienza marinista stanno nella ricerca di novità che conduce alla rottura degli schemi e delle tematiche tradizionali, e alla proposta di una infinita varietà di situazioni e di motivi: anche la poesia d’a­more e la figura femminile vengono proposte in modi inusi­tati e spesso sorprendenti. Ad esempio, accanto all’immagi­ne tradizionale della bella donna compare quella della don­na brutta o zoppa o balbuziente; oppure l’attenzione del poe­ta si ferma su un gesto, su un particolare, su un oggetto. Uno dei pregi di questa poesia consiste nella capacità di stupire, di suscitare meraviglia; il lettore deve essere continuamente stupito dalie immagini evocate dalla poesia, attirato dalla fantasia dell’invenzione, colpito dalla brillantezza dell’inge­gno. Per questo l’uso della metafora è l’elemento che caratterizza più fortemente il linguaggio poetico del Seicento, con la predilezione per le metafore audaci e sorprendenti. Tutti que­sti caratteri della poesia vengono proposti anche in via teori­ca, tanto che il marinismo divenne un fenomeno non limita­to all’Italia ma di diffusione europea. Accanto alla sperimentazione e alla novità della lirica mari­nista rimane una poesia d’ispirazione classicista che contrappone al «disordine barocco» gli ideali della misura e del­la sobrietà.

9. Cultura e politica: il dispotismo illuminato – L’influsso esercitato sull’economia dalla dottrina fisiocratica è una manifestazione del più generale influsso esercitato dalle idee sulla pratica, che costituì un aspetto peculiare del Settecento. La convinzione che l’uomo di cultura, l’intellettuale deve operare in vista del miglioramento della realtà sociale, la fiducia nell’efficacia pratica delle idee costituiscono un aspetto saliente dell’Illuminismo. Portare la filosofia sul trono, l’antico ideale platonico del filosofo-re, costituì per gli illuministi una meta realistica. E, in vario modo, la realizzarono: o diventando consiglieri di sovrani (Voltaire di Federico II di Prussia, Diderot di Caterina di Russia), o partecipando di persona al governo del re (Turgot, ministro di Luigi XVI). L’influenza della filosofia sulla politica fu notevole: oltre a creare nei sovrani e nei sudditi una tendenza favorevole all’innovazione nei vari campi (dal diritto all’economia), portò alla diffusa accettazione della concezione paternalistica del governo («il sovrano è per i sudditi come un padre per i figli, e deve aver cura della loro felicità»), concezione che, pur con tutti i suoi limiti, costituì un indubbio progresso nei confronti della concezione assolutistica. Da questo spirito – la ricerca della felicità dei sudditi  unita all’interesse del sovrano – nacquero le riforme.

Solo tra il XVIII e il XIX secolo, questa posizione fu superata. Anche il re divenne un funzionario statale, il cui primo e esclusivo dovere era di agire nell’interesse aggettivo dello Stato. Si teorizzò la «ragion di Stato» per esprimere questo interesse, superiore a quello di qualunque persona fisica, compresa la persona del re. La sintesi di questa visione è nella celebre frase di Federico II di Prussia, detto Federico il Grande (1740-1786), che si definiva il «primo servitore dello Stato».

Lo Stato poteva allora considerarsi un’organizzazione impersonale che non coin­cideva più con nessuna persona fisica, nemmeno con quella del re. Tutti coloro che agivano per lo Stato – dal più umile impiegato al re – ne erano divenuti funzionari.

Lo Stato, a sua volta, divenne titolare di situazioni giuridiche proprie. Esso assunse capacità giuridica attraverso la personificazione del «fisco», cioè delle risorse dello Stato, che vennero separate da quelle private del re come persona privata.

L’Illuminismo dà forma a un’idea di società fondata su progresso, razionalità, tolleranza, modernità, libertà di pensiero e di azione; ciò non è in conflitto col potere dei sovrani e da molti di questi è accolto come un sostegno all’opera di accentramento dello Stato.
Gli anni di massima collaborazione sono tra il 1750 e il 1780: gli intellettuali europei dànno il loro appoggio alle riforme promosse dai sovrani che agiscono con la forza del loro potere assoluto, ma con intenti «filosofici» partecipano alla diffusione dei Lumi; sono despoti illuminati Maria Teresa e Giuseppe II d’Austria, Federico II di Prussia, Caterina II di Russia sono i protagonisti di questa stagione.
Le maggiori riforme riguardano: il giurisdizionalismo, i diritti civili, l’istruzione,l’ordinamento giuridico e l’amministrazione.

10. L’Illuminismo italiano e le riforme in Italia - La situazione creatasi in Italia dopo Aquisgrana creò le condizioni favorevoli alla introduzione di riforme, sull’esempio di quelle che erano state attuate dai sovrani illuminati di alcuni grandi Stati europei: da Federico II in Prussia, da Caterina in Russia, da Maria Teresa e Giuseppe II in Austria. Fu in questo clima di risveglio culturale e di fervore sociale che maturarono le riforme. Non a caso la Lombardia, il Regno di Napoli e la Toscana furono gli Stati in cui esse ebbero una realizzazione più vasta e consapevole, perché in essi coincidevano gli interessi del sovrano con quelli della borghesia, rappresentata dagli intellettuali illuminati. La soppressione di vincoli feudali, infatti, e l’abolizione di privilegi, se corrispondeva alla duplice esigenza della borghesia di un più libero sviluppo economico e di una parificazione dei pesi fiscali, erano ben visti anche dal principe, perché rendevano più piena la sua autorità, liberandola dalle limitazioni che tali vincoli gli ponevano.
In particolare, lo sviluppo dell’economia dello Stato, se andava a vantaggio dei sudditi, e in particolare dei grandi proprietari terrieri, tornava a vantaggio anche del principe, che accresceva il suo potere in relazione all’aumentata ricchezza del Paese, da cui poteva attingere maggiori mezzi per la sua politica.
I principi illuminati che attuarono le riforme furono l’imperatrice d’Austria Maria Teresa e l’imperatore Giuseppe II per la Lombardia, il granduca Pietro Leopoldo per la Toscana, Carlo III di Borbone e suo figlio Ferdinando IV a Napoli.
Le riforme interessarono tutti i piani della vita sociale e politica e, pur nella diversità di attuazione nei diversi Stati, furono accomunate da iniziative e disposizioni di legge molto simili: si soppressero le corporazioni d’arti e mestieri che, con i loro statuti superati, costituivano un impaccio per la manifattura e il commercio; applicando le idee fisiocratiche e i consigli delle diverse accademie scientifiche, si curò la razionalizzazione dell’agricoltura; si abolirono le limitazioni dei prezzi dei prodotti agricoli; si costruirono importanti opere pubbliche quali canali, bonifiche, strade. Per ottenere una più giusta distribuzione dei pesi fiscali e, nel contempo, per incrementare le entrate, si abolirono le esenzioni e i privilegi del clero e dei nobili; si ricorse ad un censimento generale delle proprietà (il catasto); si abolirono gli appalti delle imposte. Per rispondere alle diffuse esigenze umanitarie, si migliorò la legislazione penale, giungendo perfino ad abolire la tortura e la pena di morte (in Toscana). Per rafforzare l’indipendenza dello Stato dalla Chiesa e ridurre l’ingerenza di quest’ultima, si limitarono o si abolirono alcuni privilegi, quali il foro ecclesiastico e il diritto d’asilo dei luoghi sacri; si abolì l’inquisizione e la censura ecclesiastica sui libri da stampare; si limitò il numero e l’entità degli ordini religiosi che dipendevano direttamente da Roma e non dai vescovi locali; si allontanarono i Gesuiti dall’insegnamento e poi li si espulsero dagli Stati.
Il Piemonte, lo Stato Pontificio e Venezia restarono al di fuori del moto di rinnovamento che, comunque, entrò in crisi, e finì col bloccarsi del tutto, quando gli eventi rivoluzionari di Francia mostrarono che le mete della borghesia non potevano più conciliarsi con gli interessi del principe.
a) Milano, Napoli e Firenze centri illuministici – In Italia, infatti, già dopo la pace di Vienna (1738) si erano insediate due nuove dinastie – i Lorena in Toscana e i Borbone a Napoli – che, pur essendo straniere, godevano di notevole indipendenza; al retrivo e chiuso dominio spagnolo in Lombardia si era sostituito quello austriaco, più aperto alle nuove idee e caratterizzato da un’amministrazione onesta ed efficiente, decisa a migliorare le condizioni della regione. La maggior vivacità di scambi favorì, già prima della metà del secolo, il diffondersi nella penisola delle nuove idee provenienti dall’Inghilterra e ancor più dalla Francia. Ben presto si costituirono a Milano, a Napoli e a Firenze piccoli ma attivi gruppi di intellettuali conquistati dalle nuove idee. La coscienza della propria arretratezza culturale, e delle funeste conseguenze che ne derivavano sul piano economico-sociale, creò in essi una decisa volontà di mettersi al passo col pensiero europeo e li portò a ricercare i propri modelli a Londra e a Parigi, stabilendo, in più casi, diretti contatti personali con i massimi rappresentanti dell’Illuminismo francese e inglese. Si trattava, pertanto, di un rinnovamento che partiva dal basso, strettamente connesso con la rinascita della borghesia, che si risvegliava dal suo letargo secentesco.
Era una borghesia che, a diversità di quella comunale, non trovava la base della sua ricchezza nella mercatura o nelle manifatture, ma nella terra; e la sua rinascita fu una delle conseguenze della ripresa dell’agricoltura.
b) A Milano le figure più eminenti di questi intellettuali riformatori furono i due fratelli Verri, Pietro ed Alessandro, e Cesare Beccaria. I Verri furono al centro del gruppo che fondò la «Società dei Pugni» da cui nacque la rivista Il caffè, che nei suoi due anni di vita battagliera (1764-1766) svolse un’efficace azione di critica agli aspetti negativi della società lombarda (nella legislazione, nell’economia, nell’educazione, nelle lettere e nel costume in genere), proponendo riforme ispirate alle innovazioni che venivano d’oltralpe. Molti dei collaboratori, tra cui Pietro Verri, furono chiamati, dal governo di Maria Teresa, a partecipare direttamente al rinnovamento amministrativo della Lombardia. Cesare Beccaria, anch’egli collaboratore de Il caffè e insegnante di economia politica a Milano, conseguì fama internazionale con l’opera Dei Delitti e delle pene del 1764, nella quale egli propugnava l’abolizione della tortura e della pena di morte.
c) Napoli – La differenza più rilevante nell’attuazione delle riforme si incontrò tra il regno di Napoli e gli altri due Stati italiani. A differenza della Lombardia e della Toscana, a Napoli mancava una borghesia politicamente attiva: quella esistente era costituita da professionisti, che miravano ad inserirsi, direttamente o indirettamente, nell’apparato statale. Per questo motivo le riforme, che miravano ad una trasformazione economico sociale contro il potere dei baroni, non riuscirono ad acquistare incisività, non mutarono sostanzialmente la situazione e arrivarono ben presto ad un punto morto, mentre ebbero successo quelle contro il potere ecclesiastico, perché, in questo caso, gli interessi e le richieste del sovrano, dei nobili e degli uomini di cultura, coincidevano.A Napoli le condizioni ambientali furono meno favorevoli allo sviluppo della cultura illuministica, perché non esisteva una borghesia che la promuovesse e sostenesse. Ciò spiega le incertezze, i ripensamenti e le contraddizioni che caratterizzano pensatori pur acuti e preparati quali Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani, Gaetano Filangeri e Giuseppe Palmieri.
L’oggetto privilegiato dei loro studi fu l’economia dove accettarono, non senza limitazioni, le idee fisiocratiche: a Genovesi, autore delle Lezioni sul commercio ossia d’economia civile del 1765 fu affidata la prima cattedra di economia politica istituita a Napoli da Carlo III; Galiani scrisse un Dialogo sul commercio dei grani del 1770 in francese, e un trattato Della moneta. Essi approfondirono però anche il tema della legislazione statale, vista soprattutto nei rapporti tra Stato e Chiesa, (sostenevano l’indipendenza del primo nei confronti della seconda sulla quale esso aveva diritto di esercitare un controllo) e il tema dell’istruzione: famosi furono il Piano delle scuole del 1740 di Genovesi e il Della pubblica e privata educazione del 1771 di Filangeri.
Sfortunatamente, l’azione culturale di questi autori non trovò l’appoggio concreto della borghesia, praticamente inesistente e non in grado di premere sul sovrano, per ottenere delle riforme.
c) In Toscana l’indirizzo empiristico, antimetafisico, proprio della cultura toscana dai tempi di Galilei e della sua scuola, costituì un terreno favorevole alla diffusione dell’Illuminismo, come dimostra anche il fatto che l’Enciclopedia vi ebbe ben due ristampe (a Lucca e a Livorno). Il centro culturale più attivo fu l’Università di Pisa, nella quale si formarono quasi tutti gli intellettuali che, con i loro scritti, stimolarono il granduca Pietro Leopoldo ad intraprendere le riforme e che furono suoi collaboratori nel realizzarle. Tra questi i più influenti furono gli economisti Pompeo Neri e Francesco Gianni e il giurista Giulio Rucellai.
Strumento efficace per lo sviluppo e la razionalizzazione dell’agricoltura fu poi l’Accademia dei Georgofili, il cui indirizzo prevalente fu il rafforzamento della mezzadria, considerata un’istituzione favorevole alla conservazione della pace sociale.

8. Il periodo napoleonico - Il periodo che va dal 1798 al 1815 è dominato dalla figura di Napoleone che, da oscuro generale che comanda l’Armata d’Italia, diventa prima console nel 1799, poi imperatore dei Francesi nel 1804 e crea un impero che abbraccia mezza Europa. Quello che qui ci interessa spiegare è il significato europeo e italiano della sua vicenda, le ragioni del suo fulmineo successo e dell’altrettanto rapido crollo.
Napoleone, da un certo punto di vista, chiude la Rivoluzione francese, in quanto, instaurando una dittatura personale, ne nega i princìpi fondamentali, quelli della partecipazione dei cittadini al governo e delle libertà politiche. Anche sul piano internazionale la creazione a suo arbitrio di nuovi Stati, che egli poi assegna ai suoi familiari, contrasta con il principio rivoluzionario del diritto dei popoli a scegliersi il proprio governo. D’altra parte, le sue campagne, che portano le armate francesi in tutta Europa, dalla Spagna alla lontana Russia, vi diffondono le idee rivoluzionarie, gettando i semi da cui fioriranno le rivoluzioni nazionali dell’Ottocento. Proprio questa bivalenza dell’opera di Napoleone spiega l’atteggiamento, a un tempo di ammirazione e di ostilità, dei suoi contemporanei; atteggiamento così evidente ad esempio, nel nostro Foscolo.
Quando Waterloo porrà fine alla parabola napoleonica, resterà di lui, oltre al suo mito, che avrà presa ancora sulle generazioni future, una grande impronta nella società europea. Essa non sarà più la società prerivoluzionaria; sarà ormai diventata una società moderna, fondata su una maggiore uguaglianza giuridica dei cittadini, ad ognuno dei quali viene offerta la possibilità di ascesa sociale in base ai propri meriti. Il Codice napoleonico, acquisito da quasi tutti gli Stati, assicurava, oltre alla libertà civile e alla tutela giudiziaria, i diritti della proprietà privata, instaurava il matrimonio civile e consentiva il divorzio. L’impegno di Napoleone per tutto quanto poteva favorire lo sviluppo delle attività economiche e per la costruzione di grandi opere pubbliche, diventerà dopo di lui funzione riconosciuta come doverosa dagli Stati moderni. Tra le istituzioni che questi adotteranno per il controllo delle finanze vi sarà sempre quella di una Banca nazionale sul tipo della Banca di Francia, creata da Napoleone per porre riparo al disordine finanziario determinato dalla Rivoluzione. La laicizzazione dello Stato, e conseguentemente della società, che Napoleone aveva conseguito attraverso il Concordato col Pontefice, diverrà anch’essa un’altra caratteristica di quasi tutti gli Stati europei nell’Ottocento. È però nel campo amministrativo e in quello dell’istruzione che il modello creato da Napoleone avrà il maggior successo. Egli centralizzò l’amministrazione creando l’istituto dei prefetti, che reggevano il dipartimento in dipendenza dal potere esecutivo centrale; tutta quanta l’amministrazione statale era in mano a una burocrazia specializzata, costituita da funzionari di carriera; la giustizia era affidata a giudici di nomina statale. Anche l’ordinamento dell’istruzione diventerà un modello comunemente seguito: le scuole vennero divise da Napoleone in elementari, medie, superiori, ed erano controllate e regolamentate dallo Stato.
a) I patrioti italiani di fronte a Napoleone - Quando Bonaparte si affacciò per la prima volta alle Alpi, nel 1796, si accelerò il formarsi di una sinistra italiana singolarmente avanzata, che diede vita a discussioni e polemiche sulla futura sistemazione dell’Italia. Si trattava di controbattere le affermazioni di taluni circoli e giornali parigini che sostenevano l’immaturità dell’Italia ad una politica autonoma. Il centro di queste discussioni e polemiche fu Milano. A dimostrare la sensibilità sociale di questi patrioti italiani sta il fatto che, nonostante la diversità delle loro opinioni, tutti furono concordi nel riconoscere la necessità di porre riparo alla miseria e all’arretratezza delle classi più povere.
La politica di Napoleone che puntò alla formazione di tanti Stati vassalli, generò una grande delusione; tanto più quando Napoleone, avendo già affermato la sua dittatura personale come imperatore, trasformò la Repubblica Italiana nel Regno d’Italia, di cui cinse egli stesso la corona.
Ai patrioti italiani si prospettò allora la scelta tra questo nuovo dispotismo e l’antico; ma essi seppero riconoscere la differenza fra i due. Il dispotismo napoleonico portava con sé, anche se spesso traditi sul piano concreto, i princìpi della Rivoluzione; risvegliava anche, suo malgrado, il sentimento nazionale; educava, attraverso il servizio prestato nell’esercito, all’uso delle armi; apriva, tramite l’amministrazione, possibilità di partecipazione attiva alla vita dello Stato ad elementi sino ad allora esclusi.
E si trattò di un’amministrazione quanto mai operosa, che portò a termine la trasformazione dello Stato e della società solo timidamente avviata dai prìncipi riformatori del Settecento. Furono soppressi i vincoli feudali ed economici, i privilegi dei monasteri, dei tribunali particolari a cominciare da quelli ecclesiastici, fu affermata l’uguaglianza civile, furono promosse l’istruzione pubblica, l’agricoltura, i commerci e l’industria che si avvantaggiarono della caduta delle barriere doganali e dei pedaggi, dell’ampliamento della rete stradale, dell’unificazione dei pesi e delle misure.
Proprio per questo, quando, sconfitto Napoleone, le grandi potenze vollero restaurare nel Congresso di Vienna l’antico regime, erano già pronte anche in Italia le forze che, tramite le congiure e le rivoluzioni, si sarebbero impegnate ad abbattere il nuovo assetto: erano forze che avevano fatto il loro apprendistato nelle armate e nell’amministrazione napoleonica.

9. La cultura settecentesca – Il Settecento è l’età dei lumi, l’epoca dell’Illuminismo, delle nuove esigenze razionali e della prima rivoluzione industriale. In tutta l’Europa si sviluppa una nuova idea di modernità, che si basava sul senso laico della cultura, sulla ricerca di una nuova e maggiore comunicatività del pensiero.
a)      Il self made man – La rivoluzione americana nel 1775 e quella francese nel 1789 generaronono il nuovo Stato borghese. La rivoluzione industriale modificò radicalmente la sfera della produzione e della fruizione culturale.
1.      In primo luogo, l’industrializzazione tecnica, gestionale e commerciale dell’editoria unita all’aumento della popolazione alfabetizzata diede avvio alla rivoluzione del libro, cioè all’abbassamento dei costi e alla diffusione di massa dei giornali, delle riviste e soprattutto dei libri.
2.      In secondo luogo, nacque e si affermò la tendenza a estendere e a riformare le istituzioni scolastiche per renderle adeguate alle esigenze dello sviluppo industriale. I modelli di tale tendenza furono da un lato l’Ecole polytechnique fondata in Francia nel 1795 e dall’altro la riforma dell’Università di Berlino nel 1810 ad opera di Humboldt. In entrambi i casi, si valorizzarono il nuovo sapere matematico-scientifico e la sua applicazione tecnica.
3.      In terzo luogo, la convergenza di questi due processi innescò la progressiva laicizzazione e borghesizzazione del ceto intellettuale: mentre prima la maggior parte degli intellettuali (insegnanti, giornalisti, scrittori, poeti, scienziati, artisti) faceva parte del clero o dell’aristocrazia ora è di estrazione soprattutto medio e piccolo borghese.
In questo modo a una concezione dell’intelligenza come dote innata delle classi superiori si sostituì quella dell’intelligenza come merito e talento proprio di un individuo indipendentemente dalla sua nascita. Su questa base, inoltre, la cultura diventa per il piccolo borghese uno strumento di ascesa economico-sociale.
Per comprendere le novità culturali del 700 bastano pochi esempi:
1.      nel 1712 J. Addison e R. Steel pubblicano a Londra lo Spectator, primo esempio di giornale che vuole informare dei fatti e costituire un modello sociale di comportamento, volto a formare l’opinione pubblica;
2.      nel 1719 D. De Foe pubblica il Robinson Crusoe, romanzo realistico, che descrivendo la laboriosità e la tenacia di un naufrago su di un’isola deserta, ripercorre le tappe dell’incivilimento umano e definisce il lavoro, l’attività, l’insieme dei valori borghesi dell’operare come altamente positivi;
3.      nel 1721 Montesquieu pubblica le Lettere Persiane, una sorta di pamphlet che sconsacra alla luce della ragione i valori ufficiali e dominanti nella società contemporanea;
4.      nel 1735 L. A. Muratori pubblica la Filosofia morale, che mette in ridicolo le pretese nobiliari, distinguendo gli uomini sulla base delle qualità personali e della fedeltà ai valori ufficiali.
Tutte queste opere indicano sempre più chiaramente che i valori ritenuti positivi, proponibili all’intera società sono quelli di una classe sociale nuova: la borghesia. Il borghese è il self made man, l’uomo che si fa da sè, che può contare sul proprio lavoro e che trova come antagonista sulla propria strada la nobiltà, che vive di rendita e che conta sulla proprietà rispetto a lui che nel profitto e nel lavoro trova la dignità umana. E proprio il conflitto tra borghesi e nobiltà caratterizzerà le vicende del secolo fino a sfociare nella Rivoluzione Francese. La forma assunta all’inizio è la contestazione su base logica e razionale dei privilegi, leggi, dogmi che andavano rimossi e sostituiti con norme razionali e identificabili come tali.
b)      I luoghi della cultura – I luoghi di produzione della cultura in parte si modificano nel Settecento: le corti non scompaiono, ma perdono progressivamente importanza, sopravvivono le accademie, che in Italia resistono molto di più che nelle altre nazioni europee: mentre nel resto d’Europa, infatti, la borghesia emergente diventa la classe trainante anche sul piano culturale, l’Italia presenta una condizione di notevole arretratezza e, quindi, resta legata ai luoghi tradizionali di organizzazione della cultura.
Ovviamente, le accademie devono almeno parzialmente rinnovarsi, per sopravvivere in tempi notevolmente mutati. L’accademia più importante e significativa è quella dell’Arcadia, attiva nella prima metà del Settecento. Essa presenta innanzitutto novità nella sua struttura, perché ha un centro di diffusione, ma affianca ad esso sedi sparse in molte città e, in qualche modo, collegate tra loro: ciò favorisce lo scambio e la circolazione delle idee.
Inoltre è uno dei primi centri culturali che avverte il cambiamento dei tempi e l’esigenza di scelte nuove, esprimendo rifiuto per gli eccessi, le stravaganze, il cattivo gusto barocco, in nome di un ritorno ad ideali di equilibrio, di armonia, di compostezza classici.
Importanti luoghi di aggregazione culturale diventarono i caffè e i salotti.
c)      I caffé – Luoghi di passaggio, di incontro, di conversazione. Sono luoghi di aggregazione molto più informali, spontanei e non sistematici rispetto a cenacoli ed accademie. Inoltre, si tratta di centri molto meno elitari e selettivi. Infine, si tratta di luoghi aperti, immersi nella vita cittadina, a contatto con la realtà (l’osservazione, l’analisi, lo studio dei problemi concreti sono un elemento centrale per gli intellettuali dell’epoca); tra l’altro, nei caffé si leggeva il giornale (nuovo strumento di diffusione delle idee) e si commentano le notizie.
d)     I salotti – Sono luoghi più esclusivi rispetto ai caffé perché si tratta ovviamente dei salotti delle case dei nobili o dei ricchi borghesi. A volte, i proprietari fanno a gara per invitare nel loro salotto personaggi di particolare prestigio culturale e intellettuale. Nei salotti, come nei caffé, i temi affrontati nelle conversazioni sono assai vari, mentre le diverse accademie in genere si caratterizzano per interessi specifici diversi.
e)      Il grand tour – Una caratteristica dell’intellettuale settecentesco è quello di sentirsi cosmopolita, cioè cittadino del mondo: aumentano i viaggi per l’Europa e non solo, per conoscere realtà diverse e confrontarsi con altri modi di vita e con altre forme di pensiero. Il Grand Tour era un viaggio nei luoghi della storia e dell’arte, dove poter apprezzare e conoscere tramite un’esperienza diretta e tangibile ciò che si era fino a quel momento appreso solo dai libri. Durante il Grand Tour i giovani appartenenti alle più facoltose famiglie europee hanno occasione di completare il proprio ciclo di studi con la visita dei maggiori centri culturali, artistici e politici dell’Europa continentale. L’Italia è una delle mete preferite per questo viaggio, visto il notevole patrimonio storico e architettonico di cui godono le sue principali città. I viaggiatori del Grand Tour non mancano di acquistare riproduzioni artistiche dei luoghi visitati, oggetti d’arte e d’antiquariato da portare in patria a ricordo del loro viaggio. Nacque una vera e propria industria turistica; escono i primi libri guida dei luoghi e si vendono vedute dei paesaggi italiani. Uno strumento importantissimo di comunicazione in quest’epoca è lo scambio epistolare. Alcune lettere vengono scritte (o, comunque, revisionate) in vista della pubblicazione. Tra fine Settecento e inizio Ottocento fiorirà il genere del romanzo epistolare, cioè del romanzo costruito sotto forma di scambio di lettere.

11. La filosofia – Il processo di smantellamento della filosofia, iniziato con Machiavelli nel Cinquecento e portato avanti con la grande rivoluzione scientifica del Seicento, fu continuato durante il Settecento con la nascita di altre scienze con statuto autonomo. Abbiamo, infatti, con Giambattista Vico, i prodromi dello storicismo, e si sviluppa una attenzione agli aspetti dell’esperienza estetica (si pensi alle dottrine del sublime).
In questi anni si dissolse la divisione tra una casta di sapienti che lavorano intorno alle università (come sono ancora Vico e Kant) e una comunità di laici curiosi e indipendenti, egualmente versati in filosofia, scienze naturali, letteratura, capaci di usare l’arma del trattatello o del pamphlet per far circolare nuove e corrosive idee (si pensi a personaggi come Montesquieu, Voltaire e Diderot), in cui sono presentati personaggi fantastici (persiani o abitanti di stelle lontane) per aiutarci a guardare al nostro mondo con spirito critico e ironico. A questa atmosfera appartiene anche il romanzo filosofico e la pleiade di romanzi utopici che manifestano il gusto, l’ansia, l’eccitazione della scoperta di nuove terre e nuove forme di società.
La nuova filosofia, di cui certamente l’Encyclopédie è il manifesto, si piega a riflettere sui nuovi portati della tecnica, sul valore del sapere artigiano; e soprattutto si stabilisce un diverso legame tra cultura e industria, nel senso che l’Encyclopédie è al tempo stesso una monumentale impresa filosofico-scientifica e una impresa industriale, condotta calcolando costi e ricavi.
D’altra parte in questo secolo ogni impresa culturale (compresa la letteratura) diventa contemporaneamente impresa economica: gli autori del nuovo romanzo inglese fanno i conti con un pubblico determinato di acquirenti, composto non più di mecenati, bensì di mercanti e di donne; d’altra parte per questa nuova borghesia nasce che un genere di divulgazione scientifica, in cui la trasmissione del sapere tiene d’occhio anche le classi emergenti. Tutti questi fenomeni non possono influire su uno stile di pensiero, che spesso acquista anche una maggiore affabilità, evita le formule ipertecniche per assumere il tono pacato della conversazione tra laici ansiosi di conoscere ma estranei alle dispute scolastiche.
a) Gian Battista Vico Se il secolo precedente aveva visto con la grande rivoluzione scientifica la nascita della scienza come disciplina autonoma dalla filosofia, nel Settecento nasce grazie a  Muratori e Vico, fondatori di una nuova filosofia della storia, la nascita di una nuova scienza la storiografia moderna che si affrancò definitivamente dalla letteratura.
Una posizione di preminenza spetta al napoletano Gian Battista Vico un pensatore controcorrente: oltre alla geometria e alla matematica, per Vico una tipica produzione umana è la storia, quella scienza nuova che Vico presenta nel suo capolavoro, i Principi di una scienza nuova dintorno alla natura delle nazioni. Tale scienza si basa sulla sintesi fondamentale di astratto e concreto, universale e particolare. La filosofia è la scienza dell’universale, la filologia quella del particolare. Esse non vanno intese come attività separate, perché non è concepibile la filosofia senza la filologia, né questa senza quella. L’idea, di cui si occupa la filosofia, è il vero; il fatto, di cui si occupa la filologia, è il certo. La nuova scienza dovrà preoccuparsi di accertare il vero e inverare il certo. Essa sarà scienza dell’universale applicato al concreto e del particolare spiegato attraverso l’idea.
Studiata nell’ottica di questa nuova scienza, la storia non è un succedersi di avvenimenti slegati gli uni dagli altri, ma deve avere in sé un ordine fondamentale e delle leggi che la governano. La storia si muove nel tempo, ma sul fondamento di un ordine universale ed eterno, trascendente rispetto alla storia particolare delle nazioni. Questa storia ideale eterna costituisce la norma verso cui la storia concreta deve elevarsi. Essa è tripartita: a un’età degli dei, caratterizzata dai bestioni o uomini primitivi privi di capacità riflessiva, ma dotati di forti sensi, seguono l’età degli eroi, caratterizzata dal predominio della fantasia sulla riflessione razionale e l’età degli uomini, o della ragione dispiegata. La scansione di queste tre età rappresenta il ciclo dell’incivilimento dell’uomo. Ma questo risultato di incivilimento è del tutto sproporzionato alla modestia dei fini e dei mezzi umani. Vico ritiene che l’incivilimento sia l’esito di una eterogenesi dei fini, cioè della collaborazione di due menti, l’umana e la divina (sotto forma di Provvidenza), i cui fini diversi conducono al medesimo risultato. La ragione dispiegata propria della terza età storica è capace di chiudersi e ribellarsi alla Provvidenza, ma in tal modo provoca l’arresto dell’incivilimento e la caduta nella barbarie della ragione. Il processo di incivilimento può assumere così un carattere ciclico, perché, quando una civiltà riprecipita nella barbarie, le forme mentali delle tre età storiche si ripresentano secondo la loro scansione. Questa dottrina dei ricorsi storici indica solo come la civiltà raggiunta non sia mai una conquista definitiva.
b) Nasce l’Estetica moderna Nella considerazione dell’arte l’Illuminismo mantenne un grande interesse per le regole tradizionali di composizione, ma operò anche un rilevante spostamento verso il problema del gusto, cioè verso l’ottica di chi fruisce dell’opera d’arte.
Si spiega così come proprio nel ‘700 si può parlare con il filosofo tedesco Alexander Gottfried Baumgarten (1714-1762) di fondazione dell’estetica come scienza autonoma. Il termine Estetica comparve per la prima volta, nel significato moderno di Teoria del Bello e dell’Arte, nel 1750, come titolo dell’opera Aesthetica di Baumgarten: il termine deriva dal verbo greco αισθάνομαι (aisthànomai) che significa percepire con i sensi, provare sensazioni, ma anche comprendere. Per questo motivo molti hanno individuato con questa pubblicazione il vero atto di nascita dell’estetica come scienza autonoma, tale da raccogliere in modo unitario le diverse riflessioni intorno al bello e alle arti mettendo a fuoco un insieme di concetti nuovi: gusto, genio, sentimento.
Con Baumgarten il termine estetica fu per la prima volta esplicitamente usato e definito. Esso era già apparso nel 1735, nelle Riflessioni sul testo poetico, al posto dell’espressione, fino allora consueta, di critica del gusto. Nel 1750 Baumgarten diede il titolo a un’opera intera: esso designa quella scienza della conoscenza sensibile che avrebbe come oggetto centrale l’analisi del bello e delle arti. L’estetica è scienza della perfezione della conoscenza sensibile come tale, cioè della bellezza. L’estetica è teoria delle arti perché è nelle arti che tale perfezione si realizza. È proprio in questa identificazione della sfera del sensibile con quella della bellezza, e dell’idea di bellezza con l’idea di arte, che è stato indicato uno dei momenti fondamentali della cultura dell’estetica in quanto scienza moderna. A Baumgarten spetterebbe il primato della fondazione dell’estetica, intesa come specifica disciplina filosofica. Quanto al valore dell’estetica, ci si accorge che altri filosofi sono ritenuti altrettanto essenziali. Vico, per esempio, o lo studioso inglese Edmund Burke (1729-1797) che, ne La ricerca filosofica sull’origine delle idee del sublime e del bello del 1755, aveva individuato il sublime come un elemento contrapposto al bello. Si tratterebbe cioè di quel sentimento di sgomento che l’uomo prova di fronte al terrore, all’oscurità, alla potenza, alla privazione, alla vastità, all’infinità, alla difficoltà, alla magnificenza.
Il concetto di Sublime è correlato e contrapposto a quello di Bello. Nell’idea di Burke è Sublime "Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore", il sublime può anche essere definito come "l’orrendo che affascina". La natura, nei suoi aspetti più terrificanti, come mari burrascosi, cime innevate o eruzioni vulcaniche, diventa dunque la fonte del Sublime perché “produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire”, un’emozione però negativa, non prodotta dalla contemplazione del fatto in sé, ma dalla consapevolezza della distanza insuperabile che separa il soggetto dall’oggetto.
Altra posizione importante è quella dello storico dell’arte tedesco Winckelmann nella cui opera si individua non solo l’inizio del neoclassicismo, ma anche un grande contributo alla nascita dell’estetica.
Nel suo libro più famoso, la Storia dell’arte nell’antichità del 1764 Winckelmann sancì la superiorità dell’arte greca su tutte le altre e vi elaborò l’idea che l’armonia e la bellezza fossero il risultato di un’operazione di razionalizzazione e di controllo delle passioni realizzata dall’artista, sentendo con grande intensità e con vivo entusiasmo e tenne sempre presente, il momento primario e insieme terminale dell’arte che è la bellezza.
Winckelmann, teorizzò il concetto di bellezza ideale, che è una sintesi perfetta di umano e divino e che può derivare solo dal superiore controllo delle passioni e dei sensi, riassumendo le caratteristiche fondamentali dell’arte classica nella seguente formula: “La nobile semplicità e la calma grandezza”. Il primo sintagma si riferisce all’eleganza di quest’arte, che deriva essenzialmente dalla sua semplicità; il secondo, invece, rimanda a un significato più profondo: Winckelmann pensava che l’arte greca trasmettesse sempre un messaggio di tipo etico, quello secondo il quale l’uomo, pur accettando la parte emozionale della sua natura, debba costantemente esercitare un controllo razionale sulle proprie passioni in modo da mantenere equilibrio interiore e serenità d’aspetto. L’artista contemporaneo, quindi, non deve limitarsi a imitare le forme dell’arte classica, ma deve accettare e far propri i suoi valori, sentiti come ancora attuali, ed esprimerli nelle sue opere.
In conformità a tale concezione, l’equilibrio dell’arte classica si propose come modello di fusione tra lo spirito e il corpo. Lo studioso tedesco identifica l’attività dell’artista con un procedimento di autocontrollo che renda l’opera capace di suscitare nell’animo il pathos che ne costituisce l’unicità. Tal eccezionalità prende il nome di “sublime.
Le riflessioni di Burke e di Winckelmann ebbero qualche eco nell’opera di Immanuel Kant (1724-1804), che, nella Critica del giudizio del 1790 sostenne che si ha un giudizio estetico quando, commossi per la contemplazione di uno spettacolo della natura o di un oggetto d’arte, proviamo un piacere che non ha legami con la conoscenza intellettuale. Tale piacere deriva dalla corrispondenza tra il bello cui assistiamo e le nostre più profonde aspirazioni. Il Bello deve produrre armoniosa quiete e Kant distingue fra il semplice bello e il sublime, vale a dire quello che appare in oggetti di potenza e proporzioni smisurate. Di fronte a spettacoli sublimi, l’uomo non può non percepire, da un lato la propria insignificanza ma, dall’altro, la coscienza della propria superiorità morale e del proprio destino soprasensibile. Kant sosteneva inoltre che il bello è dettato da un libero gioco delle facoltà intellettive, per cui al vedere un bel paesaggio proviamo piacere perché è come se esso si adeguasse spontaneamente alle nostre categorie intellettive; per il sublime, invece, Kant – che aveva in mente il cielo stellato, le catene montuose, il mare in tempesta – intende qualcosa di ambiguo, che desta al contempo piacere e senso di smarrimento: l’oggetto in questione – il mare in tempesta, il cielo stellato o le montagne – non si adegua spontaneamente a noi e alle nostre facoltà conoscitive, ma ci incute timore perché manifesta la sterminata grandezza e la sterminata potenza della natura di fronte alla sterminata piccolezza e impotenza dell’uomo; mentre il bello è univocamente positivo, il sublime è positivo e negativo al tempo stesso.
c) La rivoluzione copernicana di Kant – Come Copernico, che nel campo astronomico capovolse la concezione dei Tolomeo ponendo non più la Terra (geocentrismo) al centro del nostro sistema, ma il Sole (eliocentrismo), allo stesso modo Immanuel Kant compì una rivoluzione nel modo di intendere la filosofia: il soggetto (paragonabile al sole copernicano), non gravitava più passivamente intorno all’oggetto (la terra), e non dipendeva più da un mondo già costituito secondo propri principi e leggi, ma con la sua attività a priori illuminava l’oggetto ordinando i dati sensibili.
Una volta definito questo concetto, la riflessione di Kant si concentrò sull’analisi critica di tutta l’attività dell’uomo, elaborando quella trilogia unitaria che costituisce il cuore della filosofia kantiana: La Critica della ragion Pura, La critica della ragion Pratica e La Critica del Giudizio, tre passaggi fondamentali che indagavano rispettivamente il modi di apprendere dell’uomo (conoscenza nella critica della ragion pura), il suo modo di volere (azione nella critica della ragion pratica), ed infine il suo modo di sentire (sentimento nella critica del giudizio).

12. L’Illuminismo - Il Settecento chiamò se stesso l’età dei lumi, intendendo significare che in questo secolo l’umanità, nella sua evoluzione storica, era pervenuta all’età della ragione. Con i lumi della ragione l’umanità avrebbe dissipato le tenebre dell’ignoranza che nel passato avevano consentito il prevalere dell’arbitrio, delle ingiuste posizioni di privilegio, della superstizione e dell’intolleranza.
L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dalla minorità. «Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza. Questo è il metodo dell’Illuminismo». Così scriveva nel 1784 Kant, il grande filosofo tedesco che, pur affrontando una tematica diversa da quella dell’Illuminismo e con metodi e risultati di tutt’altra natura, considerava l’Illuminismo come una conquista irrinunciabile dello spirito umano nel suo sviluppo.
a)      Origine e diffusione - L’Illuminismo permeò di sé tutta la cultura del XVIII secolo ed ebbe il suo centro di diffusione nella Francia. Ma gli stessi filosofi illuministi, Voltaire e gli enciclopedisti per primi, indicavano nell’Inghilterra la patria delle idee che lo caratterizzavano. Locke [[2]], il filosofo empirista che sosteneva essere l’esperienza l’unica fonte di ogni nostra conoscenza, e Newton, che fondava la fisica sull’esperienza e sulla matematica, erano indicati a modello per il loro metodo scientifico. Le istituzioni politiche e i costumi civili degli inglesi erano messi a confronto con quelli francesi per mostrarne la superiorità dovuta ai principi di libertà e di tolleranza ai quali essi si ispiravano. Gli scritti brillanti, anticonformisti, spregiudicati, dal linguaggio immediato ed efficace, diffusero rapidamente la nuova filosofia ben al di là della ristretta cerchia degli studiosi e degli eruditi, raggiungendo i ceti della borghesia in ascesa, creando un’opinione pubblica. I temi trattati erano tutti quelli che riguardavano la vita associata e che avevano un carattere di attualità, non esclusi quelli della politica e della religione. La spregiudicatezza procurò ai loro autori gravi noie e li portò, in alcuni casi, a risponderne in tribunale ed a subire condanne al carcere. Grazie alla pubblicistica le idee dell’Illuminismo travalicarono le frontiere e si diffusero in tutta Europa e anche nelle colonie d’America. Il carattere di lingua internazionale che il francese aveva nel XVIII secolo, grazie alla posizione di prestigio di cui la Francia da tempo godeva, ne favorì la diffusione.
b)      L’Enciclopedia - Lo strumento che maggiormente concorse alla diffusione della mentalità illuministica fu un’impresa culturale di eccezionale impegno, la pubblicazione tra il 1751 e il 1772 dell’Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze delle arti e dei mestieri ad opera di una società di uomini di lettere in 24 volumi. Ideatore del progetto fu Diderot che ne fu anche direttore, per un certo tempo, assieme a D’Alembert. L’opera, proponendosi di offrire un inventario critico delle conoscenze umane per propagare la cultura, rischiarare le coscienze e combattere l’intolleranza e le superstizioni, offriva una sistemazione generale del sapere umano nei suoi diversi settori, lontano da ogni accademismo e facilmente accessibile ad un vasto pubblico. A fianco delle ultime acquisizioni delle scienze, erano illustrate anche quelle della tecnica, accompagnandole con la descrizione dei procedimenti e degli utensili dei diversi mestieri. Era un accostamento del tutto nuovo, che rispecchiava la posizione acquisita dalle nuove tecniche di lavoro, le cosiddette arti meccaniche che soltanto un secolo prima erano considerate con disprezzo. Le autorità, in particolare quella ecclesiastica, ostacolarono la pubblicazione dell’opera, che fu sospesa per un certo tempo e che, per essere completata, dovette essere stampata fuori dalla Francia e subire negli ultimi volumi tagli non indifferenti. Il gruppo di letterati e tecnici che lavorò all’Enciclopedia era abbastanza numeroso e comprendeva nel suo momento più felice personalità di primissimo piano, come Voltaire, Rousseau, Quesnay, Turgot, Necker, D’Holbach, e tanti altri.

L’arte tra Seicento e SettecentoI decenni a cavallo della metà del Settecento videro un singolare intreccio di gusti, mode, ideali e modelli culturali. Al tramonto del Barocco si sovrappose il nascente gusto Rococò e il sorgere del Neoclassicismo.
Un orientamento importante venne dall'estetica, che in quei primi decenni del Settecento acquistò autonomia disciplinare e rigore filosofico. La sfera artistica era assunta come banco di prova della teoria estetico-filosofica del bello. Per il padre del neoclassicismo, lo storico dell’arte tedesco Joachim Winckelmann, il bello artistico non è più l'imitazione della natura, ma la sua modellizzazione in forme ideali, capaci di cogliere il carattere spirituale e divino della bellezza originaria, com'era accaduto con i greci.
a) Il Rococò - Il Rococò è uno stile architettonico e decorativo che si sviluppò in Francia verso il 1730 e di qui si diffuse in tutta Europa, anche nel campo della scultura e della pittura. Il nome gli deriva da un'alterazione scherzosa del termine francese rocaille (roccia artificiale). Caratterizzato dalla tendenza a negare la forma architettonica rivestendola con un gioco capriccioso e leggero di stucchi, cornici dorate, festoni, volute bizzarramente intrecciate, il rococò si pone da un lato in contrapposizione al pesante plasticismo barocco, dall'altro in stretta continuità con la ricerca di ritmi dinamici tipica del Barocco stesso, ma interpretata in chiave raffinata e leziosa. Aspramente avversato dalle contemporanee correnti classicistiche e tardobarocche, questo stile fu considerato negativamente per tutto l'Ottocento.
Il Rococò fu l'espressione artistica dell'aristocrazia cosmopolita al termine della sua funzione storica, che mascherava la coscienza del declino nell'evasione dalla realtà e nella costruzione di un mondo fittizio tramite il mito dell'eterna giovinezza e dell'imperturbabile serenità.
La rivoluzione estetica del rococò si realizzò nell'armoniosa interrelazione di tutti i particolari dell'arredamento, a cui concorrevano in uguale misura tutte le arti indirizzate alla creazione di ambienti in cui arredamento e architettura interagiscono.
La circostanza a cui si attribuisce l'inizio del Rococò fu il trasferimento della corte reale francese da Versailles a Parigi dopo la morte di Luigi XIV nel 1715. Questo spostamento costrinse la nobiltà a riorganizzare i palazzi privati della capitale, da lunghi anni abitati solo saltuariamente. Per porre rimedio agli spazi ristretti si sviluppò il gusto per le pareti chiare, spalancate dalla profusione di specchi e stucchi leggeri, per i mobili piccoli e laccati a tinte pastello, per i quadri anch'essi dalle tonalità chiare, per i soprammobili di dimensioni minime e di soggetto frivolo.
In Francia il Rococò ebbe scarsa applicazione nell'esterno degli edifici, che conservarono forme classicheggianti, ma raggiunse le sue espressioni più raffinate e preziose nella decorazione e nell'arredamento degli interni.
Spicca l'opera di Jean-Antoine Watteau (1684-1721), pittore sensibile ai fiamminghi e agli olandesi che dipinse tele con soggetti militari, galanti e ispirati al teatro (Gilles, 1717, Parigi, Louvre; Giudizio di Paride, 1720, Parigi, Louvre; Insegna di Gersaint, 1720, Berlino, Charlottenburg).
Posteriore è Jean-Honoré Fragonard (1732-1806), che interpretò la cultura rococò con una grande varietà di soggetti, dai quadri storico-mitologici (Geroboamo, 1732) a quelli di carattere quotidiano (La fanciulla che legge) e, soprattutto, alle rappresentazioni erotico-galanti (L'altalena, 1767; La camicia rubata).
Nel decennio 1730-40 gli artisti e gli artigiani francesi vennero invitati in tutte le corti d'Europa dando inizio a quel fenomeno di internazionalizzazione della cultura figurativa tipico di tutta la seconda metà del secolo. Tale fenomeno visse appunto sulla figura dell'artista vagante (per l'Italia basti pensare a Tiepolo), che stimolò soprattutto lo sviluppo dell'artigianato su canoni europei comuni.
A Venezia ebbe uno sviluppo autonomo, indirizzato in gran parte a una clientela straniera, una pittura definibile di gusto rococò per la scelta di soggetti come il capriccio, la veduta fantastica e la scena di vita. Essa ebbe i principali esponenti in Francesco Guardi (1712-93) con Il Canal Grande presso S. Geremia (Monaco, Alte Pinakothek); Pietro Longhi (1720-85) con Scene contadinesche (Venezia, Ca' Rezzonico) e Scene di vita domestica (ca 1780, Venezia, Pinacoteca Querini Stampalia); Rosalba Carriera (1675-1757), che fece ampio uso del pastello e dell'acquarello. Il dinamismo barocco ebbe ancora nel Settecento sviluppi impensati e la pittura veneziana fu rappresentata da artisti come Giovanni Battista Piazzetta (1682-1754), autore di opere dai drammatici effetti chiaroscurali che influirono profondamente sulla formazione di Tiepolo; Giovanni Battista Pittoni (1687-1767), pittore elegante e aggraziato; Ricci, Canaletto e Tiepolo.
b) Il Neoclassicismo – Il Neoclassicismo è il movimento artistico sviluppatosi in Europa tra la seconda metà del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento, negli anni tra lo scoppio della Rivoluzione francese nel 1789 e la caduta di Napoleone nel 1815. La sua maggior diffusione fu comunque legata alle fortune napoleoniche.
Ciò che distinse nettamente il neoclassicismo da precedenti riferimenti al grande patrimonio della classicità, è che esso si pose esplicitamente, per la prima volta, il problema di una teorizzazione dell'arte. Non a caso intorno alla metà del sec. XVIII si formò un'autonoma scienza dell'arte, cioè l'estetica (teorizzata dal filosofo tedesco Alexander Gottfried Baumgarten, (1714-62), e furono così affermati l'autonomia del fare artistico e il suo riferirsi a ideali, canoni e modelli specifici del suo ambito, cioè estetici. La teorizzazione neoclassica culminò negli scritti dello storico dell’arte tedesco Joham Joachin Winckelmann (1717-68; Storia dell'arte nell'antichità, 1764): proprio la razionalità illuminista è alla base della scelta di un modello di bellezza ideale, rintracciato nell'arte greca. Al costituirsi di tale modello contribuirono notevolmente le scoperte archeologiche e la diffusione di pubblicazioni sulle antichità greche.
Nell'estetica del neoclassicismo la scultura occupò un ruolo primario, poiché in essa fu individuata la forma principe in cui si era realizzato l'ideale di bellezza dei greci. Fu quindi in questo campo che la ripresa del modello classico si fece sentire pesantemente, specialmente nell'insegnamento accademico, che aveva come base la copia dei gessi tratti da sculture antiche. Quelle caratteristiche di impersonalità e freddezza, sottolineate come negative dai romantici, furono il frutto di scelte precise, almeno da parte degli artisti maggiori: attraverso un'esecuzione tecnicamente impeccabile essi volevano dichiarare la propria disponibilità ad assolvere a una funzione civile e didascalica. Per grandissima parte infatti la scultura neoclassica fu strettamente connessa all'architettura, come complemento di edifici civili, monumenti, archi, colonne commemorative.
c) Antonio Canova - Antonio Canova (Possagno 1757 - Venezia 1822) conobbe il favore dei papi e di Napoleone ed esercitò un grande ascendente sulla scultura del tempo. Compì i primi studi fra Asolo e Venezia, dove scolpì l'Orfeo ed Euridice (1773), il Dedalo e Icaro (1779, Venezia, Museo Correr) e l'Apollo (1779), opere che risentono ancora dell'influsso di Bernini.
Nel 1779 si recò a Roma e vi si stabilì. Nel 1783 eseguì il monumento a Clemente XIV (Roma, Santi Apostoli), prima opera d'impronta neoclassica nella quale ridusse il movimentato insieme berniniano in uno schema geometrico poi applicato anche nel monumento a Clemente XIII (Roma, S. Pietro), ultimato nel 1792. Contemporaneamente scolpì l'Amore e Psiche (Parigi, Louvre), che documenta un sempre maggiore interesse di Canova per l'antico, espresso anche nelle opere successive (monumento Emo, 1792, Venezia, Museo navale; Adone e Venere, 1795, Ginevra, Villa Fabre a Eaux-Vives; Ebe, 1796, Berlino).
Nel 1802 si recò a Parigi per scolpire il Ritratto di Napoleone e nel 1805 iniziò il Paolina Borghese raffigurata come Venere vincitrice (1808, Roma, Galleria Borghese). Il raffinato estetismo della sua produzione si tradusse da un lato nell'esaltazione delle opere per Napoleone, di cui Canova divenne scultore ufficiale, dall'altro in accenti sensuali e di nostalgica rievocazione mitologica.
Nel 1813 terminò la Venere italica (Firenze, Palazzo Pitti) e il gesso delle Tre Grazie (il marmo è del 1816, S. Pietroburgo, Ermitage), opere in cui l'arte di Canova raggiunge il massimo di astrazione formale e di voluta freddezza.
La pittura – Rispetto alla scultura, la pittura neoclassica presenta con maggiore evidenza la complessità della cultura neoclassica e i nessi con le contemporanee poetiche preromantiche. Se fu un intento etico e civile ad animare l'attività di J.-L. David, l'interpretazione dell'italiano Andrea Appiani (Milano 1754-1827) fu più celebrativa, e diversa ancora la "cronaca" delle campagne napoleoniche del parigino Antoine Jean Gros (1771-1835), così come è impossibile definire in modo unilaterale la personalità di J.-A.-D. Ingres, maestro dell'arte pura e tuttavia presenza fondamentale per momenti culturali diversi, dal purismo al nostalgico e idealizzato stile troubadour (sviluppatosi in Francia tra il 1780 e il 1820, e ispirato ai miti del Medioevo e del mondo cavalleresco), al romanticismo storico.
Jacques-Louis David – Jacques-Louis David (Parigi 1748 - Bruxelles 1825) fu il pittore della rivoluzione francese e poi dell'epopea napoleonica. A Roma tra il 1775 e il 1780, fu attratto soprattutto dalla scultura classica, maturando quel rigore e quella nitidezza formale che fanno delle sue opere gli esempi più coerenti della pittura neoclassica. Nel 1784 dipinse il Giuramento degli Orazi (Parigi, Louvre), presentato al Salon di Parigi del 1785.
Durante la rivoluzione partecipò attivamente alla vita pubblica; nel 1790 i giacobini gli chiesero di dipingere Il giuramento della Pallacorda (Versailles), ma l'opera non fu mai terminata e ne resta soltanto il bozzetto. Nel Marat assassinato (1793, Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts) David affrontò nuovamente un tema di storia contemporanea, ritraendo la scena con crudo realismo. Nel 1799 portò a termine il dipinto Le Sabine (Parigi, Louvre), costruito secondo i canoni del bello ideale, quasi un manifesto del neoclassicismo.
Quando Napoleone salì al potere David gli fu al fianco e nel 1804 diventò suo primo pittore, esaltandone tra gli altri l'epopea nei dipinti Napoleone varca le Alpi al Gran S. Bernardo (1800, Berlino, castello di Charlottenburg); la Consacrazione di Napoleone (1805-07, Parigi, Louvre); La distribuzione delle aquile (1810, Versailles); nel bozzetto dell'Ingresso di Napoleone all'Hôtel de Ville (1805). David dipinse anche numerosi ritratti, eccellenti per la fine indagine psicologica e per la grazia della composizione: Madame Récamier (1800), M. et M.me Sériziat (1795 ca), Pio VII, tutti al Louvre.
Ingres – Jean-Auguste-Dominique Ingres (Montauban 1780 – Parigi 1867), seppure legato all'estrema compostezza e al rigoroso purismo della corrente pittorica neoclassica, se ne allontanò in senso quasi romantico per l'acutezza psicologica dei suoi ritratti e per la tesa sensibilità espressiva e formale di tutta la sua pittura. Allievo di David, nel 1801 vinse il Prix de Rome ed eseguì una serie di ritratti, tra cui i famosi Napoleone primo console (1804, Liegi, Musée des Beaux-Arts), Napoleone I sul trono imperiale (1806, Parigi, Musée de l'Armée) e quelli della Famiglia Rivière (Parigi, Louvre).
Nel 1806 partì per Roma, dove studiò Michelangelo e soprattutto Raffaello: (Raffaello e la Fornarina, Cambridge, Massachusetts, Fogg Art Museum).
Dal 1810 al 1820 eseguì numerosi ritratti, decorò la Villa Aldobrandini e un soffitto del Quirinale con il Sogno di Ossian (1813-15, Montauban, Musée Ingres). Inoltre dipinse opere che, inviate a Parigi, furono aspramente criticate, ma considerate poi tra le sue più significative: Giove implorato da Teti, (1811, Aix-en-Provence, Musée Granet), la Grande odalisca, (1814) e Ruggero libera Angelica (1819), entrambe al Louvre di Parigi. Su commissione della sua città natale dipinse Il volto di Luigi XIII (cattedrale di Montauban), che nel 1824 portò egli stesso in Francia e che gli procurò onori e commissioni.
Direttore dell'accademia di Francia a Roma, eseguì l'Odalisca con la schiava (1839, Cambridge, Massachusetts, Fogg Art Museum) e Antioco e Stratonice (1840, Chantilly, Musée Condé), che gli valsero un trionfale rientro in Francia (1841), dove si moltiplicarono le commissioni e gli incarichi ufficiali. Dipinse bellissimi ritratti: Madame Gonse (1845-52, Montauban, Musée Ingres), La baronessa di Rothschild (Parigi, collezione privata); composizioni storico-esotiche, quali l'Apoteosi di Napoleone I per la prefettura di Parigi, la Sorgente e il Bagno turco (1859-63), entrambi al Louvre.

13. I caratteri fondamentali dell’Illuminismo - Parlando dell’Illuminismo, occorre ricordare subito la varietà di posizioni che si riscontrano tra quelli che ne sono considerati i rappresentanti; varietà che a volte giunge a profonde divaricazioni anche su temi centrali, di politica e di religione. Al di là di ogni diversità esiste, però, un atteggiamento mentale comune e la comune accettazione di alcuni principi fondamentali.
a)      La società come tema privilegiato – Mentre finora la filosofia aveva avuto come oggetto principale Dio o la natura e i rapporti uomo-Dio, uomo-natura, gli illuministi si propongono come tema principale la società e le sue istituzioni e il rapporto tra gli uomini. L’uomo deve essere liberato, in nome della ragione, da tutti gli impacci e i legami della tradizione. La critica alla tradizione è il procedimento tipico dell’Illuminismo.
b)      La fiducia nella ragione come metodo – La ragione è esaltata come la luce che disperderà l’oscurantismo del passato e indicherà le soluzioni da prendere per realizzare una società dalla quale sia bandito, assieme all’ignoranza e alla superstizione, anche il vizio, e nella quale sia assicurata la felicità. È chiaro che – rispetto alla razionalità moderna, impegnata nei grandi problemi metafisici – la ragione illuministica è soprattutto rivolta allo studio della realtà terrena e quotidiana, con un’attenzione particolare alle dimensioni della felicità e dell’utilità: per questo la ragione a cui ci si riferisce non è la ragione astratta dei filosofi, ma è uno strumento di ricerca. Per questo sarebbe più preciso parlare di fiducia nella scienza, o nel suo metodo, che si vuol applicare oltre che allo studio della natura anche all’esame della società e dei suoi problemi.
c)      L’uguaglianza degli uomini e la libertà – Una delle prime verità che la ragione proclama è che gli uomini sono per natura uguali. Le uniche differenze, ragionevolmente accettabili, sono quelle dovute ai meriti personali; tutte le altre sono da respingere, a cominciare dai privilegi connessi alla nascita. Come per natura gli uomini sono uguali, così sono liberi, e nessuno può essere privato di questo diritto fondamentale, che consiste nel poter disporre della propria persona e dei propri beni, nel modo che si ritiene più conveniente alla propria felicità. Se un sovrano pretende di disporre a suo arbitrio della vita e dei beni dei sudditi, questi hanno il diritto di ribellarsi, perché, comportandosi così, il sovrano va contro alla finalità dello Stato che consiste nella difesa degli inalienabili diritti naturali.
d)     La tolleranza – L’affermarsi di una razionalità mondana e pragmatica si congiunge a una tendenza polemica contro le religioni tradizionali e la Chiesa, considerate frutto di imposizione autoritaria, strumento di dominio politico, di superstizione e intolleranza. Insieme alla libertà e all’uguaglianza, trova enorme diffusione la parola d’ordine della tolleranza. Non solo è affermata vigorosamente l’autonomia della coscienza morale, ma vi si ravvisa il criterio e la garanzia dell’efficacia e validità della religione stessa. La divinità è concepita come un ente supremo, in un senso deistico più che teistico e spogliata di molti degli attributi assegnati da secoli di teologia e metafisica. Per questi motivi, una delle espressioni fondamentali della libertà fu la libertà di pensiero e, in particolare, la libertà di religione. Unico limite a questa libertà è il rispetto delle leggi, che garantiscono il diritto degli altri e un’ordinata convivenza. Lo Stato, pertanto, non può imporre una religione, né perseguitare i dissidenti, ma deve tollerare qualsiasi confessione. L’intolleranza e il fanatismo religioso sono sempre stati causa di atroci delitti e di sanguinose guerre: la tolleranza, invece, ha sempre favorito la convivenza civile e il fiorire delle arti, delle scienze e delle attività economiche.
e)      L’universalismo – Affermare che tutti gli uomini sono uguali davanti alla ragione significa considerare le differenze storiche e nazionali come non essenziali. Per questo nelle Dichiarazioni dei diritti, come quella americana e quella francese si pretende che esse siano valide «per tutti gli uomini, per tutti i tempi, per tutti i Paesi». E l’uomo che ha assimilato la nuova filosofia si considera, come scriveva Baretti, «cittadino del mondo», il cosmopolitismo che prende in considerazione anche le civiltà extraeuropee, e laica della storia, che ne amplia l’orizzonte rispetto a quella cristianocentrica e di ispirazione teologica.
f)       Funzione sociale della cultura – Se ogni epoca espresse un suo proprio ideale d’uomo, quello del Settecento fu il filosofo, inteso come l’intellettuale che, libero da pregiudizi e da timori reverenziali, affronta e dibatte i problemi della realtà sociale alla luce della ragione. La più radicale messa in discussione dalla figura tradizionale del letterato di corte si ebbe, però, nella metà del secolo quando si diffuse anche in Italia il modello illuministico del philosophe, l’intellettuale politico che doveva guidare l’azione dei governi: lo scrittore, insomma non era più rinchiuso nel culto della parola fine a se stesso ma doveva partecipare alla vita politica. E il suo fine non è puramente teoretico: con la sua ricerca egli si sente impegnato in una grande opera a favore dell’umanità e del progresso. La cultura è per lui uno strumento al servizio della «felicità degli uomini», perché la lotta contro l’ignoranza è lotta contro il vizio e contro le miserie materiali e morali. Una fiducia illimitata nel sapere gli fa guardare con ottimismo all’avvenire che, grazie al trionfo dei lumi al quale egli ha portato il suo contributo, non può che essere migliore del passato.
g)      L’Onnipotenza dell’educazione – Il disagio della civiltà e la nostalgia dello stato primitivo si combinano nel produrre la convinzione, largamente diffusa nell’Età dei lumi che la natura umana è buona e che sono le istituzioni sociali e politiche a corromperla. La critica delle istituzioni e della disuguaglianza sociale (cui fa riscontro l’uguaglianza degli uomini allo stato di natura) occupa gran parte della letteratura illuminista. Poiché gli uomini sono resi malvagi dall’ambiente sociale in cui vivono (non già dal peccato originale) e dalle cattive abitudini che ne derivano, ne consegue che un’educazione buona, che assecondi le inclinazioni naturali avviandole a maturazione produrrà uomini buoni e cittadini rispettosi della libertà e dei diritti degli altri. A questo concetto di educazione naturale, intesa come un sostanziale non intervento, si accompagna l’ideale illuministico di fare dell’istruzione una funzione sociale e pubblica, gestita dallo stato e offerta gratuitamente a tutti i cittadini.
h)      La concezione della storia – L’Illuminismo ebbe un senso fortissimo della propria identità e dell’originalità dei propri connotati storici. Con l’Illuminismo e con l’ascesa della classe borghese la nozione stessa di storia acquista quel carattere universalizzante che le è dopo tutto essenziale. Nel contempo la storiografia illuminista ridimensionò avvenimenti come le guerre, i trattati diplomatici, le successioni al trono ecc., per concentrarsi piuttosto sull’analisi delle istituzioni, dei costumi, delle leggi, dell’economia e dei vari poteri. Di qui il concetto di «storia universale» che costituisce un tipico prodotto della cultura illuminista. L’Illuminismo nonostante la nostalgia per lo stato selvaggio e le critiche rivolte alla civiltà, inclina verso un cauto ottimismo. La lotta dei lumi contro le tenebre dell’ignoranza appare garanzia di progresso e di emancipazione umana lo sviluppo della tecnica e dell’industria, l’aumento della ricchezza, il diffondersi della cultura, diventano strumenti di felicità e di miglioramento per il genere umano.

14. La letteratura – I primi decenni del Settecento si caratterizzano come rifiuto e smantellamento dell’estetica barocca. Con gli anni Trenta e Quaranta cominciò ad affermarsi la nuova cultura dell’Illuminismo.
In Italia, la prima età del secolo è caratterizzato dall’opera dell’Arcadia, mentre nella seconda metà del secolo penetreranno le idee illuministiche.
Al Settecento appaiono di cattivo gusto, l’abbondanza, lo sfarzo, la libertà espressiva, la ricerca di squilibri e di eccessi tipici del Barocco. Per reazione, si propone un’estetica radicalmente diversa, che reagisca al Barocco, recuperando la lezione del mondo classico.
Il Settecento è, dunque, una nuova epoca di classicismo, anche se in forme diverse rispetto a quanto si era fatto in età umanistica.
Non si ricorre più all’imitazione di precisi modelli, ma si riprendono valori fondamentali e generali tipici dell’estetica classica: arte che sia manifestazione dell’uomo e della realtà in tutte le sue caratteristiche, ma sempre sorvegliata dalla ragione (contro l’irrazionalità di certi esiti barocchi); ne derivavano ideali di compostezza, armonia, equilibrio delle parti, semplicità, rigore, cioè tutti i valori di fondo dell’arte antica. Inoltre, si sostiene che l’arte non debba avere semplicemente fini edonistici (come era stato tipico dell’arte barocca, che si proponeva di piacere, stupire, intrattenere, non di insegnare), ma debba perseguire un equilibrio tra edonismo e finalità educative. Questo concetto confluirà poi nell’estetica illuministica, che mirerà soprattutto ad un’arte utile e finalizzata alla realizzazione della “pubblica felicità”.
In Italia il Barocco resiste più a lungo, ma in Francia già alla fine del Seicento esso fu rifiutato e spesso accomunato al Manierismo (che in realtà è molto diverso): Barocco e Manierismo sono accusati di esser un’arte che ha abbandonato la ragione per fare affidamento esclusivamente sui sensi e sulle impressioni (si tratta di una cultura profondamente influenzata dal razionalismo cartesiano). Anche l’arte è una forma di conoscenza e dev’essere quindi guidata dalla ragione.
Ne derivano:
·         rifiuto della polisemia barocca (gioco delle metafore, ambiguità, pluralità di suggestioni)
·         linguaggio semplice e comunicativo, che esprima significati chiari e comprensibili.
·         L’influenza di Condillac – In età illuminista si affermano, accanto al razionalismo, anche l’empirismo e il sensismo. Teorico del sensismo è Condillac che afferma la necessità dell’esperienza per attingere alla conoscenza. Poiché veicolo fondamentale dell’esperienza sono i sensi, la sensazione diventa strumento conoscitivo per eccellenza: senza la sensazione non si dà conoscenza. Condillac analizza i vari livelli di sensazione, da quella più immediata a quella che perdura nel tempo e che permette di avere memoria di determinate esperienze e, quindi, di ripetere quelle piacevoli e di fuggire quelle spiacevoli. Condillac distingue due grandi gruppi di sensazione: quelle che ci danno piacere e quelle che ci danno dolore. Le sensazioni si distinguono anche in base ad altri parametri, per esempio in base al diverso grado di interesse che noi manifestiamo per ciascuna di esse.
Condillac ci interessa perché pone grandissima attenzione non più sulla ragione, ma sui sensi, cioè su facoltà fisiche ed istintive, influenzando notevolmente l’elaborazione delle idee estetiche dell’epoca. Si comincia infatti a pensare all’arte e alla letteratura come a manifestazioni che hanno per fine il piacere, cioè il benessere dell’uomo: quello che si ricerca non è un piacere razionale, ma fisico e sensuale. Ciò implicherà un forte soggettivismo, dal momento che il piacere non è esattamente uguale per tutti.
·         La diffusione dell’Illuminismo in ItaliaIn Italia l’Illuminismo fu quasi sempre mediato da una perdurante eredità classica. L’Arcadia, Metastasio, persino l’opera rigorosa di Parini, come il gusto neoclassico di fine secolo, perseguivano un equilibrio tutto italiano fra ricerca razionale, reazione antibarocca e recupero del miglior classicismo della tradizione.
Solo a metà secolo l’Illuminismo italiano trovò un carattere originale soprattutto in area lombarda e napoletana.
In Italia, le idee sensiste arrivano nella seconda metà del Settecento, in un’epoca in cui gli intellettuali si sono fortemente orientati verso l’impegno civile: gli intellettuali più vivaci dell’epoca sono Verri, Beccaria ecc., quindi non letterati, poeti, narratori tradizionali, ma philosophes, che si occupano di politica, di economia, di diritto, cioè di problemi concreti, collegandoli al loro impegno letterario. Pertanto, non c’è contraddizione tra gli ideali più tipici dell’illuminismo e le nuove istanze del sensismo (in comune c’è l’attenzione alla concretezza delle esperienze): l’arte continua ad avere come scopo primario l’educazione al bene e ai cosiddetti valori civili nell’ottica del raggiungimento della pubblica felicità; ma, al tempo stesso, deve trattarsi di un’arte capace di procurare piacere fisico e sensoriale all’individuo e, quindi, attenta alla piacevolezza e gradevolezza delle forme, dei colori, delle immagini. Sono abbandonate tematiche tradizionali astratte e razionalistiche, in nome dell’adesione alle esperienza che concretamente danno piacere ai sensi, quindi in nome di un’adesione al fluire vero della vita.
I nuovi intellettuali rivendicano una lingua concreta, aderente anch’essa ai problemi e ai bisogni di comunicazione reale. Beccaria nel saggio Ricerche intorno alla natura dello stile, rifiuta arcaismi, astrattismi ed espressioni convenzionali, in nome di una lingua capace di creare immagini e significati chiari ed evidenti. In epoca di sensismo, si sottolinea che il piacere della lettura deriva dalla soddisfazione di comprendere bene ciò che l’autore vuole dire. Un’opera d’arte non è bella perché ornata da fronzoli e capace di stupire e meravigliare con le sue eccentricità (com’era tipico del barocco). Si rifiuta una sintassi spezzata ed ambigua, a favore di sintassi chiara e fluida; si raccomanda un uso sorvegliato degli accorgimenti retorici (possono essere utilizzati solo quelli che servono ad esprimere più efficacemente e con maggiore evidenza un concetto). Il lessico dev’essere denotativo più che connotativo; esso dev’essere, al tempo stesso sentito, quindi padroneggiato pienamente anche dal lettore, e non solo dallo scrittore che lo usa (ovviamente, per quanto riguarda la lingua italiana, questo è un obiettivo assai difficile da raggiungere, visto che la lingua italiana è ancora una lingua esclusivamente letteraria).
In età illuminista anche in Italia fioriscono i giornali: i primi fogli si rifanno al modello dell’inglese Spectator, in quanto non si occupano di tematiche specifiche, ma offrono un quadro generale della società. Interesse predominante per gli illuministi è la ricerca della felicità: anche l’arte è uno dei mezzi per raggiungere la felicità.
L’Illuminismo tende a vedere la felicità non tanto sotto l’aspetto del sentimento privato e individuale (nonostante il sensismo operi in questa direzione), quanto sotto l’aspetto del benessere collettivo. Muratori afferma che la felicità è prima di tutto pace e tranquillità sociale, poi sicurezza della vita e dei beni individuali; poi essa è giustizia (anche a livello fiscale e tributario); infine, essa è anche agiatezza. Quest’ultimo aspetto si fonda sulla speranza nei progressi scientifici. Inoltre, questi sono valori tipicamente borghesi.
Nel teatro la letteratura settecentesca diede gli esiti più innovativi: Goldoni a Venezia riformò la commedia in senso borghese; Alfieri rinvigorì la tragedia portando sulla scena l’odio per ogni forma di tirannide. A cavallo fra Settecento e Ottocento, nell’epoca della rivoluzione francese e dell’impero napoleonico, il Neoclassicismo fu rappresentato dall’importante esperienza di Monti, mentre nuova mediazione fra classicità e romanticismo sarà espressa dall’opera di Ugo Foscolo.
·         La lirica Nella prima metà del secolo, la lirica si trovò al centro di un programma inno­vatore imperniato sulla polemica contro il barocco e sulla proposta di un ritorno a un linguaggio poetico più linea­re. Si trattò di una vera «battaglia» per il ri­pristino in letteratura del buon gusto e della na­turalezza; queste furono infatti le parole d’ordine di un disegno riformatore che ebbe come protagonista l’accademia dell’Arcadia, fondata a Roma nel 1690. Tra i nomi più illustri degli accademici arcadi ricordiamo Pietro Metastasio, Paolo Rolli, Giambattista Felice Zappi. All’insegna del programma dell’Arcadia si scrissero migliaia di versi, che si presentano come innumerevoli variazioni del «già detto» sia per quanto riguarda i temi, che ruotano in gran parte intorno a un amore «sospiroso», sia per il lin­guaggio.
Qualche novità si affacciò solo nella seconda metà del secolo, con la ripresa in poesia di tematiche ispirate all’impegno civile.
Interessanti, sempre nella seconda metà del Settecento, le in­fluenze che giungono nella nostra letteratura dai modelli stranieri: Melchiorre Cesarotti traduce una raccolta poetica inglese, i Canti di Ossian, che divenne uno dei maggiori ca­si letterari del tempo e che introdusse anche da noi il gusto per una poesia indicata come sepolcrale, notturna per le scelte tematiche che prediligono paesaggi notturni, lugubri, miste­riosi, presagi di morte, stati d’animo indefiniti.
Una menzione meritano le Rime di Vittorio Alfieri che, uti­lizzando in prevalenza il sonetto, volle esprimere una poesia impregnata di senso morale, di adesione alla forza che pro­mana dalla natura; Alfieri fu considerato un modello di lin­guaggio nobile e «forte» da molti poeti successivi, in particolare da Foscolo.
·         Il trattato – La straordinaria ricchezza del dibattito culturale del Settecento, l’esplosione del confronto di idee, la spinta alla diffusione del pensiero, si rispecchiano in una trattatistica assai vivace e copiosa che si rivolge a un pubblico più ampio e in for­me differenziate, pensate anche per la divulga­zione. In particolare nella seconda metà del secolo il trattato, rinnovato nel linguaggio, trasformato in strumento di intervento più diretto e immediato entro un dibattito cul­turale che coinvolge non soltanto gli specialisti, si conferma come la vera «arma» degli illuministi. Le idee dei Lumi, che vengono in gran parte dalla Francia, sono riassunte, spiega­te e adattate alla realtà italiana, messe in circolazione attra­verso una trattatistica che si differenzia profondamente dal­l’analoga produzione dei secoli precedenti. Infatti il trattato risente in maniera diretta del trionfo delle tendenze razionaliste e della «rivoluzione scientifica» e pertanto tende ad es­sere una esposizione razionalmente ordinata; si spoglia, an­che se non completamente, dei caratteri di scrittura letteraria, per puntare di più sulla forza dimostrativa del ragionamen­to. Si può dire, insomma, che nel Settecento si forma una nuova prosa di pensiero volendo indicare con questa espres­sione uno stile che, senza cadere nella lingua d’uso, è tuttavia enormemente semplificato.
Entro questo quadro prendono un’evidenza particolare alcune novità:
·         la tendenza alla divulgazione scientifica: l’esempio italiano più efficace è l’opera di Francesco Algarotti Newtonianismo per le dame, nella quale l’esposizione delle moderne teorie fisi­che è affidata al dialogo fra l’autore e una marchesa, in un’atmosfera da salotto, senza che questo tuttavia pregiudichi la sostanziale correttezza dei contenuti scientifici;
  • l’attenzione per i dati, l’erudizione: si tratta di una novità di ri­lievo, di un atteggiamento mentale e di metodo che deriva dallo sviluppo delle scienze sperimentali; esso sostiene l’im­portanza della qualità e della quantità dei dati e delle prove per qualsiasi processo di conoscenza. E in effetti l’erudizione settecentesca diede un apporto rilevante alla crescita della cultura moderna ed ebbe un particolare peso nel campo del­la ricerca storica, poiché l’importanza attribuita alla docu­mentazione fece compiere un deciso passo in avanti verso una ricostruzione storica attendibile e scrupolosamente verificata. La testimonianza più grande, che sorprende anche per la mole di lavoro che l’ha prodotta, è l’opera di Ludovico An­tonio Muratori che raccolse nei 25 volumi dei Rerum italicarum scriptores, salvandole dalla dimenticanza, le «fonti» della storia medievale in Italia;
·         l’analisi della società e le scienze umane: nella produzione di trattati del Settecento si colgono bene le tendenze della cultura illuministica a spostare l’attenzione sull’analisi della realtà sociale e politica, sui comportamenti intesi come fenomeni sociali. Un tema centrale è rappresentato dall’economia ricondotta all’analisi delle leggi economiche e indagata nelle sue componenti come, ad esempio, la circolazione del denaro, il prestito, il credito finanziario, i problemi dello scambio e del mercato. Altri settori particolarmente studiati sono testimoniati dai trattati sulla superstizione e in difesa della ragione, dai trattati sull’ordina­mento giuridico e sulla pena di morte, dai trattati sul carat­tere e il ruolo dell’istruzione e sul concetto di «felicità pub­blica», vale a dire sulle possibilità di progresso e di migliora­mento delle istituzioni. A tutti questi vanno aggiunti i tratta­ti di letteratura tra i quali ha un posto di assoluto rilievo la Storia della Letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi.
·         Il romanzoNel corso del Settecento si consumò la cri­si dei generi narrativi in versi, in parti­colare scomparve il poema cavalleresco e il poema eroico; la lunga narrazione in versi di imprese straordinarie era ormai in aperta contraddizione con gli orientamenti della cultura e del gusto.
Il fenomeno segnò, in molte culture europee, il decollo del romanzo come genere narrativo di più facile lettura: nacque così e si diffuse con straordinaria varietà di generi e forme il romanzo moderno rivolto ad un pubblico di lettori non specialisti, i borghesi, che amano identificarsi con la fantasia nell’eroe o nell’eroina.
Il romanzo è un’opera di invenzione che si avvicina alla realtà: la vicenda narrata è articolata secondo nessi logico-temporali ed i personaggi sono spesso individui comuni con comportamenti che riflettono la mentalità degli ambienti rappresentati.
In questo secolo il romanzo divenne sempre più popolare, gli scrittori furono in grado di analizzare la società con sempre maggiore profondità e i romanzi rivelarono le condizioni di vita delle persone, schiacciate dai condizionamenti della società o impegnate a liberarsene. Alcuni scrittori inglesi svilupparono il genere, producendo modelli formali e strutturali destinati a influenzare tutta la narrativa europea e americana.
Nel corso del Settecento il romanzo, a seguito della grande diffusione e del successo di pubblico, andò sempre più differenziandosi in molteplici varianti o sottogeneri. Una caratteristica fondamentale del romanzo è infatti ciò che il critico russo Michail Bachtin ha definito enciclopedismo, la capacità cioè di assorbire al proprio interno ogni forma di sapere, ogni linguaggio e soprattutto ogni aspetto della realtà: la straordinaria novità del genere romanzo risiede nella sua plasticità e nel suo dinamismo, nel fatto di cambiare continuamente, contaminando e modificando anche i propri sottogeneri.
Fra i generi romanzeschi del XVIII secolo spicca quello allegorico-filosofico [[3]], quello  di impianto didattico-pedagogico [[4]], Il castello di Otranto del 1764 di Horace Walpole è il primo esempio di romanzo gotico[[5]]. Richardson inaugurò un nuovo modello narrativo, il romanzo epistolare [[6]], in cui la vicenda viene rappresentata indirettamente dal testo delle lettere scambiate tra due o più personaggi.
Questa proliferazione in Italia non av­venne infatti il romanzo fu il genere letterario per il quale più am­pia era stata la «distanza» fra l’Italia e l’Europa del Settecento. Si può parla­re di un vero ritardo culturale, determi­nato sia da situazioni sociologiche (scar­sità del pubblico dì lettori borghesi, debolez­za dell’industria editoriale), sia dalla forza di pregiudizi da parte di letterati che ritenevano il romanzo un genere minore, un ibrido non ben definito, dal­le riserve di intellettuali, ecclesiastici che ne indicavano la «pericolosità». Per questo la produzione di romanzi restò infatti limitata ad opere di basso profilo letterario e artistico.
·         Le ultime lettere di Jacopo Ortis – Soltanto alle soglie dell’Ottocento compaiono le Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, il primo ro­manzo che viene tradizionalmente accolto nella nostra storia letteraria.
La forma epistolare adottata da Foscolo si rifà a modelli narrativi rintracciabili nella Clarissa di Richardson, ne La Nuova Eloisa di Rousseau e nei Dolori del giovane Werther di Goethe, a cui Foscolo si ispira direttamente. I caratteri principali dell’Ortis sono:
  1. il motivo sentimentale: il romanzo indugia a descrivere i sentimenti personali del protagonista di fronte alla realtà;
  2. l’autobiografismo: il romanzo è espressione di una vicenda personale.
A differenza del Werther, nell’Ortis il motivo sentimentale si complica con la delusione politica, causata nella fattispecie dalla caduta di Venezia. La passione viene contrapposta all’intelletto governato dalla ragione; la natura diviene lo sfondo delle vicende umane. Il tono adottato è irruente, di sfogo.
Acquistarono invece un significativo rilievo le memorie e le autobiografie, fra le quali troviamo testi che possono essere considerati fra i capolavori del genere, come le Memorie inutili di Carlo Gozzi, veneziano, autore di testi teatrali che si opponevano alle proposte gol­doniane di una nuova commedia, fondatore di giornali, e le Memorie di Lorenzo Da Ponte, avventuriero, poeta, scritto­re, autore di famosi libretti musicati da Mozart.

15. Giuseppe Parini - Parini fu un grande poeta. Fu un rinnovatore della materia poetica e un artista capace di atteggiamenti assai disparati. Chi passa dall’Arcadia e dallo stesso Metastasio a Parini, si meraviglia che in quel secolo sia nato un poeta capace di tanta concretezza, e in campi del tutto ignoti alla poesia contemporanea. L’ambiente elegante è sottinteso in gran parte della lirica del tempo: solo in Parini è descritto. E la sua descrizione non è lo sforzo retorico della poesia didascalica del secolo; ma uno specchio luminoso e preciso. I salotti, i lunghi ordini di sale, gli scaloni, i mobili, gli arnesi e i ninnoli sono ora delineati con un pennello largo e sicuro, ora delimitati e intagliati dalla parola con un nitido rilievo: sicché anche l’ambiente materiale, che di solito è assente dalla poesia o è cosa morta, qui diventa, per questo sguardo attento e chiaro, vera e difficile poesia.
a) La vita - Giuseppe Parini nacque a Bosisio in Brianza nel 1729 da famiglia di umili condizioni e di scarsi mezzi economici (il padre era un modesto commerciante di seta). Poté lasciare il paese natale per compiere gli studi superiori a Milano solo per l’aiuto economico di una zia, che però condizionò l’appoggio che dava al nipote al fatto che egli si facesse prete. Così il Parini fu indotto ad accettare un orientamento di vita che sentiva poco congeniale alla sua natura. E benché abbia poi sempre vissuto la condizio­ne di prete con dignità ed onestà, è frequente nella sua poesia il rimpianto per gli affet­ti e per una vita familiare che non gli era stata concessa dalla sorte. Fu ordinato sacer­dote nel 1754. Coltivava intanto con passione lo studio dei classici e la poesia. Fin dal 1753 la notorietà acquisita con un volumetto di versi giovanili gli aveva consentito l’in­gresso nell’Accademia milanese dei «Trasformati», un ambiente che, pur nel culto del­la tradizione, era moderatamente aperto al nuovo pensiero illuministico. Qui frequentò al­cuni degli uomini più significativi del mondo culturale milanese.
Aggravatasi intanto, con la morte del padre, la condizione economica dei suoi, e co­stretto a provvedere anche alla vecchia madre, cercò lavoro in qualità di precettore - come era uso allora - presso famiglie nobili. Fu assunto in casa dei duchi Serbelloni, dove rimase per otto anni, dal ‘54 al ‘62; e successivamente (1762) in casa dei conti Imbonati, dove fu maestro di Carlo Imbonati cui dedicò la sua ode L’educazione. Questo periodo segnò profondamente il Parini uomo e poeta. Il suo lavoro lo metteva a contatto con quel mondo aristocratico che, se da una parte, con la sua raffinata ele­ganza, esercitava su di lui, per natura ammiratore del bello, un indubbio fascino, dall’altra suscitava il suo sdegno morale per la vita fastosa e oziosa che la maggior par­te dei nobili conduceva, per la superbia insolente del loro comportamento, la loro va­cuità intellettuale e l’insensibilità morale. È uno stato d’animo bivalente, di attrazione e di repulsione, in cui però la repulsione etica prevale, che troveremo presente anche nella sua opera maggiore, Il Giorno.
Fu proprio la pubblicazione delle prime due parti del Giorno, Il Mattino (1763) e Il Meriggio (1765), a richiamare sul Parini, oltre all’ammirazione degli ambienti letterari, anche l’attenzione del governo asburgico «illuminato», che intelligentemente cercava la collaborazione dei più capaci e colti fra i sudditi lombardi. Così il ministro plenipoten­ziario di Maria Teresa, il conte di Firmian, gli affidò prima la direzione della Gazzetta di Milano (1768), e successivamente (1769) lo chiamò a coprire la cattedra di eloquen­za, cioè di letteratura, nelle Scuole Palatine, trasformate poi nel Ginnasio di Brera. A questo incarico seguì più tardi l’ufficio di soprintendente delle scuole pubbliche. «Il piccolo abate plebeo - scrive il Sapegno - il povero e disprezzato pedagogo, era or­mai un letterato illustre e una figura importante nell’ambiente culturale di Milano, par­tecipe di ogni impresa od iniziativa letteraria o artistica, pubblica o privata». Lo scoppio della rivoluzione francese suscitò nel Parini, come in tanti altri spiriti pro­gressisti, la speranza che si instaurasse una società più giusta; ma gli sviluppi sanguino­si del movimento rivoluzionario lo riempirono di sgomento; le violenze del Terrore gli parve deturpassero, come egli stesso disse, una delle più nobili cause dell’umanità. Tuttavia, quando, nel 1796, i Francesi vennero in Italia con Bonaparte, accettò di col-laborare col nuovo governo: fece parte della Municipalità, e in essa rappresentò la ten­denza più equilibrata e moderata. Vi difese anche, con libertà di spirito e di parola, il diritto della Lombardia a darsi un’amministrazione autonoma, indipendente dalla Francia. Spiacque perciò ai Francesi occupanti, e fu rimosso dall’incarico. Morì nell’agosto del 1799, subito dopo il ritorno degli Austriaci in Milano.
b) Le opere - Lasciando da parte la sua produzione minore, ricordiamo le seguenti ope­re: il Dialogo sopra la nobiltà (1757), dove è sostenuto, con passione e impeto polemico, il principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini; il poemetto satirico in endecasillabi sciolti Il Giorno, di cui le due prime parti, Il Mattino e Il Meriggio, uscirono rispettivamente nel 1763 e nel 1765, e le ultime due, Il Vespro e La notte uscirono postume, l’ultima incompiuta; le Odi, che furono composte in tempi diversi, dal 1757 al 1795. I principi sul fine e sulla funzione della poesia furono esposti dal Parini in alcuni scrit­ti di riflessione estetica.
c) I fermenti illuministici lombardi e Parini - Negli anni in cui si formava e dava poi i suoi frutti la personalità del Parini, in Francia l’Illuminismo era giunto al suo periodo più maturo. Nel 1772 si concludeva la pubblicazione di quella summa del pensiero illumi­nistico che fu l’Enciclopedia.
Ma gli stimoli dell’Illuminismo erano già operanti anche in Italia (ne abbiamo visto la presenza nello stesso teatro goldoniano), e soprattutto in Lombardia, nel movimento che metteva capo all’Accademia dei Pugni e al periodico «II caffè». Anche il Parini sentì l’influenza delle nuove idee e concorse coi suoi scritti ad avvalo­rarle. Fra i temi proposti dal pensiero illuministico alcuni gli furono particolarmente congeniali: anzitutto il principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini e il rifiuto del pri­vilegio di nascita (e in questo caso l’Illuminismo si incontrava con quel cristianesimo cui egli fu sempre fedele); il principio della responsabilità sociale dell’individuo in quanto membro di una comunità, princìpio che sottintende una rigorosa disciplina eti­ca nella vita privata; e infine la funzione della cultura e in particolare della poesia, che, se deve dar diletto al lettore, deve anche e soprattutto educarlo, deve cioè agire positivamente all’interno della società,
Alla poesia del Marino che mirava a stupire il lettore, a quella frivola degli Arcadi, il Pari­ni sostituiva così una poesia che mirava « a render saggi e buoni i cittadini suoi ». L’Illuminismo del Parini fu sempre, come del resto tutto l’Illuminismo lombardo, assai moderato, lontano da posizioni estreme. La stessa polemica pariniana contro la no­biltà, che è motivo ispiratore del Dialogo sopra la nobiltà e del Giorno, non ha caratte­re eversivo, ma riformistico. Il Parini non mira a spazzar via questa corrotta e inutile classe sociale, come avrebbe poi fatto la Rivoluzione francese, ma a correggerne i difet­ti e a renderla migliore, così che potesse proficuamente agire nella vita pubblica insie­me e accanto all’emergente borghesia.
d) Il «lusinghevol canto» - In una delle Odi il Parini sostiene che il poeta quale egli lo
intende può considerarsi lieto della meta raggiunta quando «Putii unir può al vanto /
di lusinghevol canto».
Dalla funzione educatrice della poesia («l’utìl») egli giudica quindi inscindibile il pre­gio dell’arte, che da gioia e offre bellezza agli uomini (il «lusinghevol canto»), A differenza degli Illuministi del Caffè, che nei loro scritti puntavano esclusivamente sui contenuti e trascuravano la forma, il Parini della forma ebbe il culto, e la voleva esatta, nitida, elegante; e perciò sottopose sempre i suoi lavori a lunga e attenta riela­borazione. Maestri di bella forma giudicava i classici, soprattutto Orazio, che aveva esortato i poeti all’uso della lima, cioè all’attenta e paziente elaborazione formale. In que­sto senso Parini, illuminista di spiriti, fu partecipe delle istanze del movimento neoclassi­co.
e) Ispirazione e temi del «Giorno» - Come abbiamo detto, il Giorno è un vasto poema in endecasillabi sciolti, suddiviso in quattro parti: Mattino, Meriggio, Vespro e Notte. In questi quattro tempi della giornata il Parini immagina di accompagnare e guidare, in qualità di maestro, di «precettor d’amabil rito», un giovane patrizio, il «giovin Si­gnore».
Passa così davanti al lettore la giornata futile, vuota, di tanta parte della società aristo­cratica, la mancanza di ideali che la connota, la tronfia superbia e l’arida crudeltà. Nel Mattino la scena si concentra intorno al personaggio del «giovin Signore» intento alla lunga toilette, alle prime frivole occupazioni della giornata, circondato da una schiera di servi. Poi via via il paesaggio umano si dilata. Il giovin Signore si reca a pranzo dal­la dama di cui è «cavalier servente» (e la moralità del Parini si ribella a questa istitu­zione che corrode il matrimonio); e intorno alla tavola sono raccolti alcuni campioni curiosi di questa deteriore umanità. Nel Vespro la coppia è rappresentata durante la passeggiata al corso, nei suoi rapporti con gli altri aristocratici, che anch’essi non hanno altro scopo se non di farsi ammirare. La Notte infine, rimasta incompiuta, descrive un fastoso ricevimento nella casa di una nobile dama, ed è un largo affresco in cui si muove una società ormai decrepita, in preda a una noia che cerca invano di affogare in squallidi divertimenti e in hobbies maniacali.
Procedendo dalla prima all’ultima parte del Giorno muta la tecnica rappresentativa usata dal poeta: alla descrizione minuziosa e analitica del Mattino e del Meriggio si so­stituisce, nel Vespro e nella Notte, una rappresentazione più rapida, a pennellate sempre più larghe.
Musa del poema è l’ironia, qualche volta lieve, a volte dura fino al sarcasmo, là dove la coscienza morale offesa del poeta si rivela più risentita. Significativo in questo senso è l’episodio della «vergine cuccia».
Mentre Parini componeva il Giorno, la Rivoluzione francese spazzava via nel sangue la classe nobile. Forse per questo, perché cioè gli pareva di incrudelire contro chi aveva duramente pagato le sue colpe, il Parini non pubblicò le ultime due parti del poema, che, come abbiamo detto, uscirono postume.
f) Le Odi - Se nel Giorno il Parini denuncia quello che una società non deve essere, in 16 delle 19 Odi propone il modello di una società nuova e migliore. Fra di esse alcune sono particolarmente significative. Nella Salubrità dell’aria, metten­do Milano a confronto col suo salubre paese brianzolo, il Parini denuncia gli specula­tori che per lucro mettono a repentaglio la salute della città, circondandola di malsane risaie e marcite; descrive poi con un linguaggio nuovo, audacemente realistico, le intol­lerabili condizioni igieniche di cui è responsabile «l’inerzia privata», cioè il cieco assen­teismo dei cittadini che si disinteressano dei problemi della collettività; e infine afferma energicamente la funzione civile della poesia. Nell’Educazione delinea un equilibrato ideale pedagogico che mira a sviluppare armonicamente nei giovani la sanità fisica e quella morale, alimentata quest’ultima da una religiosità non formalistica ma interiormente vissuta. Nella Caduta esprime il suo sdegno amaro verso chi si prostituisce ai potenti, e, per avidità di successo o di ricchezze, viene a patti con la propria dignità e la propria onestà. Nell’ode Alla Musa infine, l’ultima in ordine di tempo, viene rappre­sentato l’ideale pariniano di vita: una esistenza misurata e serena, confortata dall’ami­cizia e dagli affetti familiari, improntata al vero, al giusto, al godimento onesto del bello. È questa l’unica forma di vita - afferma il Parini - dalla quale può nascere auten­tica poesia.
Carattere diverso hanno le tre odi Il pericolo, Il dono, Il messaggio, nelle quali il Pari­ni si abbandona alla contemplazione della bellezza femminile. Di esse la migliore è Il messaggio, in cui sono presenti toni nuovissimi, di intensa e suggestiva malinconia, quasi prefoscoliani.

16. L’arte nell’età napoleonica: il Neoclassicismo e il Preromanticismo - Nell’età napoleo­nica, accanto a un persistente e vigoroso filone culturale illuministico, vanno diffon­dendosi un gusto e una cultura neoclassici; mentre già si fa strada una sensibilità nuo­va, di tipo preromantico.
a) Il Neoclassicismo – Il Neoclassicismo che, come dice il nome, rappresenta un ritorno al mondo classico, fu originariamente un fenomeno germanico ed italiano. Trovò infatti il suo primo stimolo nell’interesse di alcuni studiosi tedeschi della seconda metà del Settecento (l’archeologo Winckelmann, il letterato Lessing) per l’arte antica, e incontrò fortuna soprattutto in Italia dove apparve come una difesa e una rivendicazione delle nostre tradizioni classiche.
Più tardi l’arte neoclassica, assunta ufficialmente alla corte di Napoleone, il quale si compiaceva di dare lustro al suo recente impero connotandolo con le forme classiche «imperiali», si diffuse per tutta l’Europa al seguito dei vittoriosi eserciti francesi.
·         Il «bello ideale» - Il Neoclassicismo nel campo delle arti figurative, dove si afferma più vigorosamente che altrove, propugna il perseguimento di un «bello ideale», cioè dì una bellezza intesa come pura armonia, che trascende la stessa bellezza naturale e che si identifica con le forme dell’arte classica, soprattutto greca (si pensi alle sculture di Canova, ai dipinti di Appiani); in letteratura sollecita un ritorno alle opere dei classi­ci, considerate modelli di perfezione.
Tuttavia la denominazione di Neoclassicismo è generica e comprende manifestazioni fra loro diversissime: dalle fantasie mitologiche di un Monti, alle immagini e figurazio­ni classiche di Foscolo maggiore, attraverso le quali questo poeta esprime una sensibi­lità appassionata e già di tono romantico.
·         Il «purismo linguistico» - In sede linguistica il neoclassicismo diede luogo al fenomeno del purismo, cioè a una difesa della purezza della lingua tradizionale contro le infil­trazioni straniere, soprattutto francesi.
b) Il preromanticismo - È prematuro qui parlare di romanticismo vero e proprio; infatti i primi documenti romantici in Italia saranno pubblicati solo nel 1816, e nei primi de cenni dell’Ottocento si spiega appieno l’attività del Manzoni, che è considerato il capo­scuola del romanticismo italiano. Tuttavia, questo scorcio di Settecento italiano e inizio di Ottocento può essere considerato preromantico perché vi si sente la presenza di una sensibilità nuova, connessa a quel movimento romantico già in pieno sviluppo in Ger­mania e in altri Paesi dell’Europa.
Così ad esempio sono preromantici certi atteggiamenti elegiaci, dolcemente malinconici, in cui alcuni poeti si adagiano; la predilezione per i paesaggi cimiteriali; il senso perenne d’esilio così vivo ad esempio nell’opera foscoliana; l’ansia di valori assoluti quali la bellezza, l’immortalità; la violenta lacerazione delle passioni.

17. Ugo Foscolo – Ugo Foscolo è stato il principale esponente letterario italiano del periodo, a cavallo fra Settecento e Ottocento, nel quale si manifestano o cominciano ad apparire in Italia le correnti del Neoclassicismo, del Preromanticismo e del Romanticismo. “Se Vincenzo Monti fu lo specchio dell’Italia fra i due secoli, Ugo Foscolo ne fu la coscienza”: con queste parole Attilio Momigliano inizia il capitolo dedicato a Foscolo nella sua Storia della Letteratura italiana, sintetizzando un giudizio complessivo sulla validità storica della presenza foscoliana.
a) La vita Nel 1778, Ugo Foscolo nacque a Zante, una delle isole Ionie, da padre veneziano, medico di vascello e da madre greca, primo di quattro fratelli.
Nel 1785 si trasferì con la famiglia a Spalato.
Nel 1789 la madre si trasferì a Venezia con i figli Rubina e Costantino, mentre Ugo e Gian Dionigi (Giovanni) rimasero a Zante, Giovanni presso la nonna materna e Ugo presso una zia.
Nel 1793, Foscolo, accompagnato dal Provveditore dell’isola, poté raggiungere la madre e i fratelli.
Nel 1795, Foscolo mutò il suo nome da Niccolò in Ugo e a Venezia, partecipò ad alcuni circoli culturali, conoscendo fra gli altri Pindemonte e Cesarotti: Venezia divenne la sua pa­tria politica, così come Zante rimase la sua patria sentimentale.
Nel 1796, Foscolo scrisse alcuni articoli sul Mercurio d’Italia che destarono i sospetti del governo veneto ed il giovane, per prudenza si rifugiò sui colli Euganei.
Nel 1797, venuto in sospetto del governo veneziano per le sue idee democratiche, si recò a Bologna, dove Bonaparte aveva costituito la Repubblica Cispadana, e si arruolò nell’esercito francese.
Nel 1797 si rifugia a Bologna per poco tempo; nel frattempo si svolge la prima rappresentazione del Tieste.
Il 12 maggio 1797 il doge Ludovico Manin e il Maggior Consiglio furono costretti da Napoleone ad abdicare, per proclamare il Governo Provvisorio della Municipalità di Venezia. Caduto il governo oligarchico e costituito il nuovo governo giacobineggiante, Foscolo ritornò a Venezia e partecipò intensamente alla vita politica della città, ma ne ripartì nell’ottobre del 1797, quando, col trattato di Campoformio, Bonaparte cedette Venezia all’Austria: Foscolo giudicò questo trattato un tradimento delle spe­ranze di libertà degli Italiani. Il 17 ottobre del 1797 il giovane Foscolo, sdegnato, si dimise dagli incarichi pubblici e partì in volontario esilio per Milano, dove conobbe Parini.
Nel 1798, Foscolo si trasferì a Bologna: Iniziò le stampe del romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis che dovette interrompere per l’occupazione di Bologna da parte degli Austro-Russi, che avevano invaso l’Italia durante l’assenza di Bonaparte per la campagna in Egitto nell’aprile del 1799.
Negli an­ni 1799-1800 Foscolo combatté, come ufficiale dell’esercito francese, contro l’Austro-Russi.
Nel 1804, Foscolo fu a Boulogne-sur-mer, sulla Manica, col corpo di spedizione là inviato da Napoleone con l’intenzione di invadere l’Inghilterra.
Nel 1805, Foscolo ritornò in Italia: all’intensa vita politica e militare si accompagnava una altrettanto intensa attività letteraria. Durante questi anni Foscolo scrisse un romanzo epistolare, le Ulti­me ledere di Jacopo Ortis, due odi, 12 sonetti.
Nel 1806, Foscolo scrisse il carme dei Sepolcri, poi pubblicato nel 1807, e L’Esperimento di traduzione dell’Iliade, in collaborazione con l’amico Vincenzo Monti.
Nel 1807, Foscolo si trasferì in Francia dove ebbe una relazione con giovane donna inglese dalla quale nacque Floriana.
Nel 1808, a Foscolo fu affidato l’insegnamento di letteratura italiana presso l’Università di Pavia, insegnamento che tenne per un anno.
Lo troviamo successivamente a Milano,
Poi a Firenze, dove dal 1811 al 1813 lavorò prevalentemente al Carme delle Grazie.
Nel 1813, ca­duto Napoleone con la battaglia di Lipsia, Foscolo, non volendo accettare le profferte di lavoro fattegli dagli Austriaci sopravvenuti, preferì l’esilio all’asservimento del suo pensiero e della sua opera di scrittore.
Il 31 marzo del 1815, Foscolo lasciò l’Italia e prese la via del volontario esilio per rifugiarsi a Hottinger, in Svizzera, dove pubblicò l’Ipercalisse, satira in latino contro gli avversari letterari.
Il 12 settembre 1816, Foscolo giunse a Londra dove trascorse l’ultimo periodo della sua vita fra gravi difficoltà economiche e morali, dedicandosi all’attività pubblicistica e in particolare alla critica letteraria,
Nel 1825 scrisse il Discorso sul testo della Divina Commedia.
Nel 1827, Foscolo morì nel piccolo sobborgo londinese di Turnham Green, ammalato di idropisia.
I suoi resti furono traslati nella chiesa di Santa Croce a Firenze, da lui nominata nel carme Dei Sepolcri nel 1871.
c)      Foscolo tra Illuminismo, Neoclassicismo e PreromanticismoVissuto alla confluenza di tre grandi movimenti, l’illuminismo ormai maturo, il romanticismo in via di affer­mazione, il neoclassicismo, Foscolo ne assorbì variamente le influenze, preso dagli influssi europei del filosofo francese Jean-Jacques Rousseau e del poeta tedesco Goethe, che insieme concorsero a formare la sua originale personalità.
Illuminista come formazione filosofica, egli apprezzò la ragione come il maggior stru­mento conoscitivo; era inoltre illuministicamente convinto che, dopo la morte, l’indivi­duo non sopravvive in una trascendenza, e che tutti torniamo materia alla materia, partecipando al ciclo meccanico di trasformazione che la materia subisce.
Romantico di temperamento, sostenne il valore del sentimento accanto a quello della ragione. Nacque di qui il suo mito delle «illusioni», che nel sentimento trovavano giustificazione e appog­gio: prima fra tutte le illusioni che l’uomo e i suoi valori positivi non muoiono del tutto se possono sopravvivere nel ricordo dei superstiti.
Classico di cultura e di gusto, tra­dusse la sua sensibilità di uomo moderno nelle forme e nei miti della tradizione, che ne erano così rinnovati e attualizzati; e in questo senso può essere definito neoclassico.
d)     Poesia e vita - L’opera di Foscolo è strettamente legata alle sue esperienze biografiche, e in essa è costante il rapporto fra poesia e vita, e di conseguenza fra poesia e società.
Accanito lettore dei classici e seguace del materialismo illuminista, Foscolo sin dai precoci inizi letterari si distinse per l’attenzione alle problematiche più discusse, aderendo ai programmi di rivoluzione ed oscillando fra odio ed amore per i Francesi e soprattutto per Napoleone: nel 1796 scrisse le Odi A Bonaparte e Ai novelli Repubblicani, ora acclamato come salvatore dalla patria; ora additato come traditore delle speranze democratiche, ora incitato a farsi leale garante della libertà italiana.
Proprio da uno spunto politico nasce l’opera Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis, di carattere chiaramente autobiografico.
In questo romanzo Foscolo disegna la figura del patriota deluso, che va in esilio ed è pronto a morire per la propria patria. Jacopo Ortis è un eroe preromantico, che aspira alla libertà della patria, ma quando questo sogno si infrange, decide di togliersi la vita.
In questo romanzo già si ritrovano molte caratteristiche del giovane Foscolo: gli stessi temi trattati nel romanzo, come l’amor di patria, l’esilio, l’importanza della sepoltura, il significato delle tombe, sono rintracciabili nelle sue opere, nelle Odi, nei Sonetti, nei Sepolcri e nelle stesse Grazie.
e)      L’impegno politico e il ‘liberal carme’ - Un aspetto fondamentale di questo costante rapporto con la vita è l’impegno politico foscoliano.
Se Monti ebbe un interesse tutto superficiale per le vicende storiche del suo tempo, e le considerò solo motivi occasionali per suoi versi, l’atteggia­mento foscoliano è invece dì autentica partecipazione e di responsabile coinvolgimento.
Vissuto in un periodo complesso e drammatico della storia europea, in quell’età napoleonica, che segnò la linea di demarcazione fra le rivoluzioni con cui si chiudeva il Settecento e la Restaurazione che trionfò nella Santa Alleanza e nel Congresso di Vien­na, egli vi prese una lucida e decisa posizione politica. Fra i due blocchi che si contrap­ponevano in Europa, l’uno aggregato intorno alla Francia, che, pur fra deviazioni, ri­torni ed abusi, portava avanti le idee progressiste ereditate dalla Rivoluzione del 1789, e l’altro capeggiato dall’Austria, che rappresentava l’immobilismo e la conservazione, scelse senza incertezze il primo. Si arruolò, di conseguenza, nell’esercito napoleonico e vi militò fino alla caduta di Napoleone.
Dopo questo evento nel 1813, rifiutò di mettere la sua attività di scrittore al servizio dell’Austria, succeduta alla Francia nel dominio del nostro Paese, nonostante le lusinghe del governo austriaco e nonostante i pericoli che tale rifiuto comportava e che lo costrinsero all’esilio.
Perché, Foscolo sosteneva, se il poeta deve essere politicamente impegnato, deve, però mantenersi libero nei confronti del potere politico; la sua poesia non deve essere contaminata dal servilismo e dall’adulazione. Perciò, pur avendo sostanzialmente dato la sua adesione alla Francia e all’indirizzo politico che essa rappresentava, egli non esitò a denunciare con veemenza gli abusi delle milizie francesi in Italia, e soprattutto alzò la voce contro Napoleone, quando gli parve che con la sua politica avesse tradito le speranze di indipendenza degli Italiani in seguito alla forte delusione verso Napoleone che, in nome di un freddo calcolo politico, cedette Venezia, da sempre libera repubblica, all’Austria.
Questa autonomia di giudizio e di parola, che egli pagò di persona prima con l’emarginazione nella sua carriera di ufficiale napoleonico e poi con l’esilio, fu da lui ripetutamente rivendicata nei suoi versi.
Nei Sepolcri egli definisce orgogliosamente liberal carme la sua poesia e chiama vergini, cioè incontaminate, le Muse che l’hanno ispirata.
f)        La funzione immortalatrice della poesia - La poesia, nel pensiero foscoliano, consente all’uomo e ai valori che gli sono cari di sfuggire alla distruzione operata dal tempo e di vincere la morte.
È un tema ricorrente nei versi di Foscolo e che ha il suo più notevole svolgimento nei Sepolcri, scritto come risposta all’editto napoleonico di Saint-Cloud che decretava i cimiteri fuori dei centri abitati, ma soprattutto stabiliva che le tombe dovevano essere uguali e non portassero il nome dei defunti.
Nei Sepolcri egli afferma che le glorie dei grandi uomini otterranno l’immorta­lità, se affidate prima alla memoria tramandata dai sepolcri e successivamente alla poesia, che non è sottoposta all’erosione del tempo che distrugge anche i sepolcri. In uno dei passi più alti del carme il poeta immagina che sui sepolcri degli eroi, distrutti dal tempo, si levi il canto delle Muse, che raccolgono ed eternano le memorie fi­no a quel momento conservate dai sepolcri.
g)      Altri temi della poesia foscoliana - Oltre a questo, che è il tema centrale della poesia foscoliana, altri ne ricorrono frequentemente, di volta in volta accennati, ripresi, ampiamente svolti. Ricordiamo fra i più insistiti e suggestivi:
  • l’attrazione per la morte e il richiamo della vita;
  • la bellezza femminile ristoro unico ai mali;
  • la passione politica;
  • il perenne senso di esilio;
  • il rimpianto per Zacinto, l’isola greca natale, e per la sua lu­minosa bellezza;
  • la funzione civile della poesia;
  • il sepolcro come collegamento fra i vivi e i morti, come segno di civiltà e come conservazione di grandi memorie.

18. Il Romanticismo - La civiltà europea della fine del Settecento e di buona parte dell’Ottocento è caratterizzata da quel grande movimento che va sotto il nome di Ro­manticismo.
Il Romanticismo è fenomeno complesso, che ha coinvolto tutte le manifestazioni dei pensiero e dell’arte e il senso stesso della vita. Ha avuto origine in Inghilterra e di lì è rapidamente giunto in Germania, dove si è definito nei suoi caratteri filosofici e nelle sue tendenze letterarie ed artistiche.
Dalla Germania il movimento romantico si è propagato per tutta Europa e, venendo a contatto con tradizioni ed esigenze storiche diverse, ha assunto orientamenti differen­ti nei diversi Paesi. Benché in esso le tendenze rinnovatrici siano convissute accanto a spinte reazionarie, tanto che con felice ironia è stato possibile dire che nel Romanticismo è rinvenibile tutto e il contrario di tutto, tuttavia le spinte progressiste furono di gran lunga prevalenti in molti Paesi europei e lo furono, in senso assoluto, in Italia.
Queste sono le principali linee di tendenza del movimento:
a)      La rivalutazione del sentimento - Accanto alla ragione esaltata dagli illuministi i romantici sostengono l’importanza del sentimento. Anzitutto come mezzo conoscitivo: se il sentimento non può dare all’uomo una conoscenza esatta e sicura come quella razionale, rappresenta però il solo strumento che gli consenta di penetrare nelle zone dove non può giungere la ragione. Inoltre, il sentimento, se a volte genera ansia frustrante, abbandono al sogno, evasione dalla realtà, più spesso è sentito come forza di propulsione e stimolo vitale.
b)      L’individualismo - La rivalutazione del sentimento implica talune importanti conseguenze: ad esempio, il fenomeno tipicamente romantico dell’individualismo. Men­tre la ragione livella, il sentimento diversifica gli uomini stimolandone gli impulsi, le reazioni, che, varie da individuo a individuo, ne costituiscono la fisionomia specifica. Fra le individualità prendono naturalmente spicco, nell’interesse e nell’ammirazione dei contemporanei, quelle d’eccezione: i grandi artisti, i ribelli, gli eroi.
c)      La religiosità - L’ansia di sondare il senso della vita e della morte, di sopravvive­re oltre i limiti dell’esistenza terrena, la impossibilità della ragione di rispondere a que­sti interrogativi e a queste istanze, porta il sentimento a postulare risposte religiose. La religiosità è un elemento costante del Romanticismo. Essa si concreta a volte nell’adesione a religioni rivelate (si pensi alla conversione cattolica del Manzoni); a vol­te, invece, si esprime in forme indeterminate e vaghe: pensiamo, per rimanere in Italia, al Foscolo e alla sua religione laica del sepolcro e della «memoria» che consente all’uomo una sia pur limitata sopravvivenza dopo la morte; o alla religione leopardiana dell’infinito, che esprime l’inappagata ansia del poeta di superare i limiti angusti dell’esistenza e delle possibilità umane.
d)      Lo storicismo - Col Romanticismo nasce, nei vari Paesi, il culto per le loro tradizioni storiche; e al recupero del passato si volgono in questo periodo ricercatori e scrittori. Di qui il fiorire delle ricerche storiche e la moda dei romanzi, dei drammi, delle liriche, di argomento storico. I romantici non ignorano che nel passato vi sono innumerevoli errori da respingere, ma sostengono che vi sono anche importanti conquiste positive, di cui sì deve tener conto, e che, soprattutto, il passato costituisce la storia di un popolo, si identifica col complesso di vicende, di tradizioni, di sofferenze, di gioie che gli abitanti di uno stesso territorio hanno in comune; è quindi quel popolo, e solo partendo dal suo passato un popolo potrà conseguire il senso della propria identità. Non per niente Foscolo, nella introduzione alle sue lezioni all’Università di Pavia, esorta con calore appassionato gli Italiani allo studio della loro storia. È evidente che nello storicismo romantico troverà le sue radici il principio della nazione, che comincia a profilarsi in Italia nell’età napoleonica e che avrà sviluppo e maturazione nel Risorgimento.
e)      La poetica romantica - In campo artistico il Romanticismo propugna la libertà dell’artista da tutto quello che ne condiziona l’ispirazione, e il suo dovere di essere po­polare, cioè di accostarsi al gusto e alla mentalità del popolo e di esercitare fra il popo­lo una funzione educativa.

19. Romanticismo e Risorgimento – Il Risorgimento europeo, e italiano in particola­re, può essere visto come l’espressione, in campo politico, del più generale movimento romantico. Il Risorgimento nazionale ha infatti le radici nello storicismo romantico, da cui nasce il senso della identità specifica dei singoli popoli.
È significativo il fatto, ad esempio, che Mazzini, per definire il concetto di patria, faccia appello alla storia, alla tradizione: la patria, egli scrive, non è un territorio, il territorio non ne è che la base; la patria è l’insieme di esperienze, di sofferenze, di sen­timenti che legano gli abitanti della stessa terra. E Manzoni rivendica all’Italia il di­ritto di essere una e libera in nome non solo dell’unità etnica della sua gente, ma dell’unità delle sue tradizioni:
«una d’arme, di lingua, d’altare,
di memorie, di sangue, di cor».
Oltre al sentimento dell’identità nazionale, e la conseguente spinta alla liberazione dallo straniero, il Risorgimento deriva dal Romanticismo altri fondamentali caratteri:
1        la fiducia nelle forze della volontà e del sentimento capaci di «muovere le montagne» (donde le imprese temerarie, gli scontri impari sostenuti con impavido coraggio);
2        la convinzione che la storia è governata da una provvidenza
«Ma se il popolo si desta
Dio si mette alla sua testa,
la sua folgore gli da»
scrive Mameli;
3        il fascino per le figure di eccezionale rilievo (donde l’atmosfera mitica ed eroizzante che avvolge i personaggi-guida del Risorgimento, Garibaldi soprattutto, ma anche Mazzini, Cavour, e i martiri delle varie imprese).
Questa convergenza di Romanticismo e di Risorgimento ha i suoi riflessi nell’arte: nella musica, nella pittura, e soprattutto nella letteratura.
La letteratura italiana dell’età romantica fu per eccellenza letteratura «impegnata». Dalla maggior parte degli scrittori di questo periodo essa fu considerata come mezzo per intervenire nell’azione politica e sociale, per orientarla e stimolarla. Furono penetrati di spiriti patriottici tutti i «generi letterari», dal romanzo al teatro, dalle opere autobiografiche al giornalismo, alla poesia. Le liriche patriottiche furono a volte veri canti di guerra e di rivolta, come l’inno di Mameli ai «fratelli d’Italia», o le poesie di Berchet, cariche dell’odio antiaustriaco maturato negli esili, nelle carceri, presso i patiboli dei compagni di fede. A volte, invece, come nel caso di Manzoni, pur nella loro appassionata partecipazione alla contemporanea realtà politica, assursero ad alte meditazioni che inserivano il problema della libertà e dell’unità d’Italia nel più vasto proble­ma della giustizia fra gli uomini.
Del resto, molti scrittori e poeti romantici furono essi stessi combattenti e cospirato­ri. Per fare solo alcuni esempi fra i più famosi, Mameli morì nel 1849 difendendo la Repubblica Romana; Berchet e Pellico patirono rispettivamente esilio e prigionia; Nievo fu dei Mille di Garibaldi; Tommaseo fu l’anima della difesa di Venezia nel 1849.
La identificazione di patriota e di romantico a un certo punto fu così stretta da consentire a Pellico di dire: «romantico fu riconosciuto per sinonimo di liberale, né più osarono dirsi classicisti [cioè antiromantici] fuorché gli ultra e le spie».

20. Liberalismo e liberismo - L’ideologia che sta alla base del movimento risorgimen­tale è il liberalismo, che si può sinteticamente riassumere nelle richieste di libertà e di indipendenza.
Per libertà si intendeva il regime costituzionale e l’insieme di garanzie che esso assicurava: partecipazione dei cittadini (o almeno della parte di essi che sola si considerava adeguatamente preparata) al governo dello Stato; uguaglianza dei cittadini di fronte al­la legge; difesa dell’individuo dall’arbitrio del potere statale; libertà di espressione a co­minciare dalla libertà di stampa.
L’indipendenza era invece identificata con l’autodecisione dei popoli, i quali, presa coscienza della loro identità nazionale, non intendevano più tollerare dominazioni stra­niere.
La richiesta di indipendenza in Italia si tradurrà praticamente nella prospettiva di cacciare dalla penisola l’Austria, considerata il baluardo della reazione e il più grave ostacolo alla conquista delle libertà costituzionali.
Successivamente si andrà sempre più affermando la convinzione che i due problemi tra loro connessi della libertà e dell’indipendenza si legavano a quello dell’unificazione politica della penisola. Anticipando i tempi, già nel ‘21, Manzoni proclamava: «Li­beri non sarem se non siam uni». Sarà questo lo sbocco delle lotte, non sempre con­cordi, dei liberali italiani.
Alla ideologia politica del liberalismo si accompagnava coerentemente la dottrina economica del liberismo. Fiduciosa nella capacità di autoregolazione delle forze economiche, che si pensava portassero ad un effettivo progresso globale, tale dottrina soste­neva che lo Stato doveva lasciare libero campo all’iniziativa privata, non interferendo, con regolamentazioni e dazi protettivi, sul libero sviluppo dell’economia. «Lasciate fa­re» è il motto dell’economia liberista.

21. L’ascesa della borghesia in Italia – La borghesia è la classe sociale protagonista dei nuovi tempi, quella che cerca, in ogni modo, di mutare l’assetto politico e sociale, in senso liberale.
In Italia essa è ancora allo stato nascente; agli inizi, ad operare sono piccole avanguardie che mirano a sensibilizzare quello che esse chiamano il popolo, costituito da possidenti, professionisti e commercianti, che cercano alleanze con gli artigiani e, solo più tardi e marginalmente, col proletariato urbano.
Nella prima metà dell’800 sino alla costituzione del regno nel 1861, la borghesia si viene rafforzando grazie alla progressiva crescita dell’economia italiana. Nel contempo, l’opera chiarificatrice e stimolante di alcuni pensatori ne determina un sempre maggior coinvolgimento nella trasformazione delle istituzioni (esemplare è la funzione esercitata dal pensiero di Mazzini, di Gioberti, di D’Azeglio, di Cattaneo, di Balbo, ecc.).
Lo Stato costituzionale, che rappresenta il punto di arrivo di tale trasformazione, costituirà anche lo strumento dell’ulteriore affermazione e sviluppo della borghesia.

22. Alla rivoluzione nazionale non seguì la rivoluzione sociale - L’Italia, in questo periodo, è ancora ai margini della rivoluzione industriale. La sua economia, infatti, è ancora quasi esclusivamente una economia rurale che, per mancanza di investimenti, fruisce scarsamente dei processi di modernizzazione tecnica.
È vero che, parlando dell’economia in Italia, bisogna tener presente la grande diversità delle situazioni delle varie parti della penisola, diversità che ha le due espressioni estreme nell’Italia settentrionale (in particolare Lombardia e Piemonte) e nel Sud.
Nell’Italia settentrionale, e in Toscana, già nel Settecento l’agricoltura, anche per l’impulso dato ad essa da intellettuali (membri di Accademie e Associazioni agrarie) si era avvantaggiata dell’introduzione di innovazioni tecniche (bonifiche e irrigazioni) e della conseguente razionalizzazione delle colture.
Nel Sud, invece, dopo qualche tentativo di rinnovamento che rimase senza seguito, la situazione ristagnò, e il quadro era dominato dalla presenza schiacciante del latifondo. Il proprietario, appartenente di solito all’aristocrazia, non era interessato ad uno sfruttamento intensivo delle sue terre, che spesso rimanevano semincolte.
L’industria aveva uno sviluppo molto limitato e predominava ancora la forma di produzione artigianale. Di conseguenza, in questi anni non esisteva in Italia un proleta­riato operaio urbano; quello italiano era sostanzialmente un proletariato agricolo. Si trattava di una massa di contadini che costituiva la quasi totalità della popolazione.
La condizione di questi ultimi era, in generale, molto dura, anche se bisogna ancora una volta distinguere tra regione e regione. Era una condizione caratterizzata da una diffusa indigenza, da insufficiente alimentazione, dallo squallore delle abitazioni, dalla costante presenza di malattie endemiche derivate da carenze alimentari ed igieniche, dall’ignoranza aggravata dall’analfabetismo diffuso.
Né la rivoluzione nazionale, cioè la costituzione del regno nazionale unitario, contribuì a mutarne le condizioni. Diversamente dalle diffuse speranze suscitate nelle masse contadine, ad essa non si accompagnò la rivoluzione sociale, per cui i contadini, delusi, o si ripiegarono su se stessi assumendo un atteggiamento di indifferenza, o esplosero in furiose rivolte. Significative, in questo senso, le testimonianze, qui riportate, dell’Abba, del Nievo, e l’episodio di violenza e di sangue che ebbe luogo a Bronte in Sicilia.
Questa situazione di estrema indigenza risultava aggravata dalla sua immobilità, derivante da più cause:
a) il disinteresse per una migliore condizione contadina da parte della classe borghese impegnata a realizzare i propri progetti politici ed economici e ti­morosa di sbocchi socialistici;
b) la mancanza di organizzazione delle grandi masse ru­rali, che le privava di ogni forza politica;
c) la sovrabbondanza di manodopera, che consentiva alla borghesia di imporre salari al limite della pura sussistenza.

23. Iniziative culturali per il popolo - La situazione delle masse popolari era caratterizzata da una diffusa ignoranza denunciata da una elevata per­centuale di analfabetismo. Alcuni tentativi per modificarla furono fatti dai pensatori li­berali, preoccupati di adeguare l’istruzione del popolo alle esigenze tecniche richieste dal progresso nell’agricoltura e nell’industria, e timorosi che le condizioni di ignoranza delle plebi, unite alle tristi condizioni di vita, favorissero la diffusione del comunismo, il cui spettro si aggirava in Europa dopo le rivoluzioni del 1830 e del 1848. Le iniziative in questo senso consistettero fondamentalmente nella creazione di istituti per incrementare l’istruzione, sia a livello di istruzione elementare, sia a livello di specializzazione professionale, ad integrazione della insufficiente struttura scolastica ufficiale.
Esse furono più diffuse nelle regioni più progredite: nella Lombardia, nel Regno di Sardegna, in Toscana. Nel Mezzogiorno, invece, caratterizzato dalla assoluta mancanza di una struttura scolastica popolare, iniziative di questo tipo non ebbero le condizioni per nascere e svilupparsi. E fu un altro elemento che aggravò il distacco fra Nord e Sud.
La stampa popolare - e vi riuscì nei limiti consentiti dalla scarsa alfabetizzazione - mirò al progresso sociale e culturale delle masse: giornali, fogli ed almanacchi, che trattavano temi e problemi relativi al mondo della produzione agricola e industriale e alle condizioni di vita delle classi proletarie.
Infine, non va dimenticata l’opera, significativa per gli sviluppi futuri, anche se al momento assai limitata, delle Società di mutuo soccorso, che si proponevano il miglio­ramento delle condizioni retributivo-contrattuali e anche culturali degli operai e dei contadini.

24. L’intellettuale e la formazione dell’opinione pubblica - Se nel Risorgimento la letteratura e la poesia erano concepite come impegno civile, come mezzo per maturare il popolo alla coscienza nazionale, le scarne ma vivissime pattuglie dell’intellighenzia li­berale disposero anche di uno strumento più diretto e più efficace per agire sull’opinio­ne pubblica: il giornale e la rivista.
Giornali e riviste, che avevano preso piede in Italia per l’impulso degli illuministi mi­ranti a divulgare un sapere concreto, volto a incidere sulla realtà sociale, ebbero una intensa e appassionata fioritura nell’età romantico-risorgimentale, e consentirono agli intellettuali progressisti di compiere un’opera penetrante nell’opinione pubblica, in mo­do da orientarla in senso nazionale, e stimolarla alla costituzione e al rafforzamento di una società borghese.
Il pubblico, già esercitato da giornali e riviste ad affrontare con prospettiva naziona­le e di trasformazione civile i problemi concreti dell’economia (in primo piano dell’agricoltura), della tecnica, dell’industria, dell’educazione, del diritto, della lingua, sarà disponibile e preparato - specie quando le proposte neoguelfe e filosabaude cree­ranno il clima favorevole a questo tipo di dibattito - ad affrontare i problemi schiet­tamente politici delle istituzioni liberali (costituzione, rappresentatività, libertà di stam­pa ecc.), dell’indipendenza, dell’unità.
Non dobbiamo tuttavia dimenticare che si trattò pur sempre di un’opinione pubblica limitata ad una cerchia molto ristretta, i cui confini erano segnati dal saper leggere, il quale a sua volta era connesso alla condizione sociale e a un almeno relativo benessere economico. Perciò, non ne partecipavano le grandi masse proletarie, specie contadine, chiuse nel dramma della loro miseria e dell’analfabetismo.

25. La letteratura – Alcuni elementi tipici della nuova sensibilità romantica in Italia si possono già trovare in Ugo Foscolo, sebbene però risultino in parte legati alla corrente del Neoclassicismo. Un’altra estensione dell’ideale letterario a fatto politico e sociale della rinascita dell’Italia si ebbe con Vittorio Alfieri (1749-1803), che diede inizio a quel filone letterario e politico risorgimentale che si sviluppò nei primi decenni del XIX secolo.
La data vera e propria di inizio del Romanticismo italiano è il 1816: nel gennaio di tale anno, infatti, Madame de Staël pubblicò nella Biblioteca Italiana un articolo (Sulla maniera e utilità delle traduzioni) nel quale invitava gli italiani a conoscere e tradurre le letterature straniere come mezzo per rinnovare la propria cultura. Inoltre, sempre nello stesso anno, Giovanni Berchet scrisse quello che poi divenne il manifesto del Romanticismo letterario italiano: la Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo, nella quale si esalta la nuova corrente letteraria e si deridono i canoni del Classicismo (per questo l’opera è definita semiseria).
Successivamente alcuni letterati si staccarono dalla Biblioteca Italiana, rivista a carattere conservatore, e fondarono nel 1818 il Conciliatore, rivista diretta da Silvio Pellico con Ludovico Di Breme, Pietro Borsieri, Giovanni Berchet e Ermes Visconti. Il Conciliatore si proponeva di "conciliare" ricerca tecnico-scientifica con letteratura, sia illuminista che romantica, con pensiero laico e con il cattolicesimo. La rivista fu però chiusa nel 1819 per ordine degli austriaci.
Nel complesso il Romanticismo italiano fu soprattutto l’espressione del nuovo ambiente storico e sociale della borghesia, come si era sviluppato, specie in Lombardia, durante la Rivoluzione francese, in cui si esprimevano quelle esigenze di nazionalità e popolarismo che contraddistinsero quest’epoca rispetto alle precedenti esperienze settecentesche.
a)      I giornali - Quella che nel Settecento è stata definita «prosa di pensiero» confluisce nei giornali. Alcuni di questi si presenta­no come fascicoli composti di parecchie pagine (ad esempio «La Biblioteca italiana» usciva ogni mese in fascicoli di circa 150 pagi­ne, «L’Antologia», anch’essa mensile, di 150-200 pagine) e possono pertanto ospitare articoli che han­no la consistenza di piccoli saggi, mentre gli interventi più strettamente legati a una situazione, magari d’intonazione polemica, trovano posto in fogli che escono con una maggio­re frequenza, solitamente settimanali. Nei primi cinquant’anni del secolo nacquero molte nuove testate; il fenomeno non è limitato agli Stati italiani più avanzati, ma interessa anche zone fino ad ora ai margini del dibattito culturale. Il carattere che accomuna una produzione per altri versi assai diversificata è la matrice politica. Naturalmente i contenuti politici sono mediati e i temi affrontati possono dirsi politici solo in senso lato; tuttavia si deve riconoscere che il giornalismo del primo Ottocento ebbe piena consapevolezza del compito di dare voce ai processi culturali e sociali in atto e si attribuì la funzione di «formare opinione», di indirizzare e organizzare le cono­scenze dei lettori. E in effetti riuscì ad avere un ruolo signifi­cativo, nonostante la censura che, soprattutto nel Lombardo-Veneto, imponeva dei limiti oggettivi alla stampa e la costringeva a trovare strade indirette per compiere battaglie di opposizione. Inoltre la presenza della componente politica e ideologica favorì la trasformazione di giornali e gazzette in punti di riferimento per gruppi intellettuali che perseguiva­no finalità comuni. Il fenomeno fu più marcato nei periodici di maggior impegno culturale che rappresentavano anche uno schieramento politico, ci riferiamo alla «Biblioteca italiana» caldeggiata dal governo austriaco, al «Politecnico» fondato e diretto da Carlo Cattaneo, alla «Antologia» voce del gruppo liberale fiorentino, e soprattutto al «Conciliato­re» fondato a Milano nel 1818 e chiuso per problemi con la censura nel 1819. L’esperienza dei fondatori del «Conciliato­re», le battaglie che furono condotte dalle sue pagine per la difesa delle idee romantiche, del romanzo, per la diffusione dell’istruzione, l’ammodernamento dell’agricoltura, ne fanno un’efficace espressione del clima culturale e delle istanze politiche degli intellettuali romantici milanesi. Oltre a questo «Il Conciliatore», per il tono dei suoi articoli e per l’attenzione alla divulgazione, costituì un esempio di prosa rivolta a un pubblico ampio, digiuno di competenze specifiche intorno agli argomenti trattati.
b)      Il trattato - I trattati di argomento letterario-retorico appaiono in decli­no mentre, l’ideolo­gia, l’economia, la storia sono i temi che maggiormente atti­rano l’attenzione di scrittori e intellettuali. Ma un posto di as­soluta preminenza è occupato dalla politica: le questioni politico-ideologiche assorbirono quasi completamente l’impegno degli intellettuali e degli scrittori di trattati, che furono espressione di tutte le posizioni ideologiche interne al movimento risorgimentale e costituirono strumento assai rilevan­te nello scontro tra i diversi gruppi di opinione. Ad esempio, lo schieramento cattolico moderato ebbe un punto di riferi­mento in un trattato famosissimo, Del primato civile e mora­le degli italiani di Vincenzo Gioberti, gli ideali cavouriani trovarono espressione nelle opere di Massimo D’Azeglio, e Giuseppe Mazzini diffuse l’ideale repubblicano e unitario non solo attraverso i giornali, ma anche in opuscoli e trattati, mentre sono espressione della corrente democratica gli scrit­ti di Carlo Cattaneo e il saggio di Carlo Pisacane, La rivoluzione.
c)      Le memorie - Nella prima metà dell’Ottocento gli scrit­ti di memorie abbondano; molti di que­sti nacquero dalla volontà di testimo­niare la propria partecipazione e il pro­prio contributo ad avvenimenti storici che unanimemente furono sentiti come straordinari, siano essi legati alla rivoluzione o alle guerre d’indipendenza o all’impresa dei Mille. Co­sì ampia è la produzione di patrioti che seguirono Garibaldi che si parla di letteratura garibaldina come di un fenomeno let­terario ben definito. Fra questi scrittori Giuseppe Cesare Abba, autore delle Noterelle di uno dei Mille. Tuttavia il libro più importante nell’ambito delle memorie del primo Otto­cento restano Le mie prigioni di Silvio Pellico.
d)     Il romanzo - È il genere letterario per il quale più am­pia era stata la «distanza» fra l’Italia e l’Europa del Settecento: si può parla­re di un vero ritardo culturale, determinato sia da situazioni sociologiche (scar­sità del pubblico di lettori borghesi, debolezza dell’industria editoriale, ecc,), sia dalla forza di pregiudizi da parte di letterati che ritenevano il romanzo un genere minore, un ibrido non ben definito, dalle riserve di intellettuali, ecclesiastici che ne indicavano la «pericolosità». Soltanto alle soglie dell’Ottocento compaiono le Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, il primo romanzo che è tradizionalmente accolto nella nostra storia letteraria.
Una delle caratteristiche del romanzo moderno ed una delle caratteristiche del Romanticismo è il valore conferito alla storia. All’inizio del XIX secolo la letteratura inglese fu dominata da Walter Scott, divenuto celebre con romanzi fra i quali Ivanhoe del 1820, con cui Scott diede avvio al romanzo storico, il genere più diffuso nei primi decenni dell’Ottocento e con il quale quasi tutti i massimi scrittori europei, fino al 1860 circa, vi si cimentarono.
Nel momento in cui in Italia si accese la disputa italiana fra classicisti e romantici, questi ultimi indicarono proprio nel romanzo uno dei segnali più importanti del rinnovamento letterario ed anche l’Italia fu coinvolta nell’ondata della moda e dell’interesse per il romanzo storico; anche in Italia esso ebbe molto successo.
Il romanzo storico soddisfaceva le esigenze più vive del Romanticismo: comporre un’opera utile al popolo e, nello stesso tempo, rappresentare la realtà, il vero. In questo clima cul­turale nacquero I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, l’opera che fece compiere un salto qualitativo eccezionale al nostro romanzo. Il romanzo di Manzoni, di enorme portata innovativa per la scelta tematica di una vicenda che mette in scena personaggi umili, vessati dai soprusi dei potenti, e per il fondamentale lavoro di ricerca linguistica, si colloca come capostipite di tutta la tradizione romanzesca della letteratura italiana. La vicenda privata di Renzo e Lucia è narrata sullo sfondo delle vicende di tutto un paese e di tutto un popolo. La poetica romanzesca è nuova e si fonda su tre cardini: il vero come oggetto, l’interessante come mezzo, l’utile come scopo. A differenza dei romanzi storici di Walter Scott, ne I Promessi Sposi non vi è gusto per il romanzesco e il tema amoroso non è approfondito, mentre vi è più gusto per l’analisi psicologica dei personaggi.
Gli epigoni di Manzoni finirono con l’esasperare eccessivamente le caratteristiche, cadendo nell’esplicita propaganda politica e patriottica, o facendo degenerare il realismo nel fotografico. Le vicende narrate avevano la propria origine, spesso, nel Medioevo, epoca in cui si pensava di poter ritrovare i primi germi della futura nazione italiana. Dopo Manzoni, il romanzo storico non diede, in Italia, risultati rilevanti: sul modello manzoniano si scris­sero molti romanzi storici che tuttavia rimasero a un livello del tutto modesto.
Popolari furono i suoi romanzi storico-patriottici di Massimo d’Azeglio: Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta (1833), Nicolò de’Lapi (1841), caratterizzati da velocità di ritmo narrativo, disegno vivace di ambienti e figure, abile alternanza di elementi patetici e grotteschi, tragici e moderatamente comici: nel complesso però si tratta di romanzi di maniera. Sempre in ambiente lombardo fu Tommaso Grossi che nel 1834 pubblicò il romanzo storico Marco Visconti romanzo che riflette il suo un temperamento inquieto, incline al visionarismo del romanticismo appassionato, ma anche sensibile alle esigenze di compostezza e decoro formale.
Ci furono anche autori che intrapresero strade diverse da quella del romanzo storico scrivendo ope­re sostanzialmente irrisolte:
1.      Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo racconta la storia di Giovanni e Maria che si confidano il loro passato, le loro esperienze amorose: i due si sposano, continuando a confidarsi, anche durante il matrimonio, ogni più piccolo moto dell’anima. Giovanni viene ferito durante un duello, guarisce, soltanto per vedersi morire fra le braccia Maria, uccisa dalla tisi. La narrazione è complessa, condotta attraverso rievocazioni o pagine di diario. Il romanzo riflette la personalità dell’autore, combattuto da una sensualità congenita e un’aspirazione alla purezza, che gli deriva dalla profonda religiosità. Si oscilla fra misticismo ed erotismo, senso del peccato e fede contrastata. Con Fede e bellezza ci si sposta dall’analisi della realtà esterna all’analisi della realtà interiore dell’uomo. Possiamo finalmente parlare di romanzo psicologico compiuto.
2.      Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, un’opera che contiene elementi di novità e soluzioni apprezzabili, pubblicata postuma nel 1867, ma scritta negli anni 1857-1858 diede voce alla coscienza nazionale innestando elementi tipici del romanzo di formazione, in un vasto affresco dell’Italia tra la fine della Repubblica di Venezia e il 1856.
3.      Cento anni di Giuseppe Rovani, apparso sulla Gazzetta di Milano tra il 1857 e il 1858. Cento anni è un originalissimo affresco della vita milanese sotto la dominazione austriaca. Il romanzo, alternando un vivace cronachismo e un impulso antistoricistico, è ispirato all’idoleggiamento dell’età giovanile come stagione della felice libertà individuale e al conseguente dissidio causato dal contatto con il mondo adulto. Alla forma del romanzo storico e d’analisi risponde un ibridismo linguistico del tutto nuovo e una sensibilità decadente ed anticonformista, assolutamente ante litteram. Rovani, storico e letterato lombardo, è modello e precursore della generazione successiva, quella della Scapigliatura.
f) La lirica - Nella storia della poesia lirica i decenni tra la fine del Settecento e l’inizio del nuo­vo secolo non segnano mutamenti di rilievo: la poesia celebra gli eventi, grandi e piccoli, continua ad essere momento e occasione di vita sociale nelle acca­demie. Nello stesso tempo conservano vitalità le suggestioni della poesia notturna e sepolcrale sull’esempio della lirica d’oltralpe. In questo panorama si alza la voce altissima e originale di Ugo Foscolo, il quale riassume in sé le diverse istanze della cultura settecentesca. Negli stessi anni ha grande successo la poesia di Vincenzo Monti che si rifà alle idee e al gusto del neoclassicismo.
L’affermazione del romanticismo coincide con una produzione lirica di modesto valore: le novità investono tutti gli aspetti del far poesia, ma la nostra lirica non riesce a liberarsi quasi mai dal retaggio di un linguaggio accademico, aulico, «vecchio».
Solitaria e ini­mitabile è la figura e l’opera di Giacomo Leopardi.
Un’esperienza di qualità rilevante nella nostra letteratura di primo Ottocento, la poesia in dialetto, trovò due interpreti ec­cezionali nel milanese Carlo Porta e nel romano Giuseppe Gioachino Belli.

11. Alessandro Manzoni – Uno dei maggiori autori della letteratura italiana, Alessandro Manzoni è anche l’esponente più importante del Romanticismo italiano. Autore di molte opere, Manzoni vive il rapporto con il suo tempo interpretandone gli ideali e l’impegno morale, sempre teso alla ricerca di una lingua viva. 
a) La vita - Alessandro Manzoni nasce a Milano il 7 marzo 1785, unico figlio di Giulia Beccaria e del conte Pietro Manzoni (ma probabilmente il padre naturale fu il minore dei fratelli Verri, Giovanni). La madre era figlia di Cesare Beccaria. Un’infanzia e una fanciullezza passate tra balie e collegi con i genitori distanti o assenti e la disciplina chiusa e un po’ ottusa degli educatori (prima i frati barnabiti, poi i frati somaschi), mentre Napoleone diffonde per l’Europa gli ideali della Rivoluzione francese, spingono il giovane Manzoni ad accogliere le idee giacobine e anticlericali, registrate fedelmente nel poemetto Il trionfo della libertà del 1801.
L’uscita dal collegio nel 1801 rappresenta una svolta, perché permette a Manzoni di entrare in contatto con l’ambiente culturale milanese. L’incontro con Vincenzo Monti gli fa conoscere la poesia neoclassica, mentre quello con Vincenzo Cuoco lo mette in contatto con l’ala liberale e moderata del Risorgimento italiano, che sosteneva la necessità di privilegiare la via delle riforme rispetto ai metodi rivoluzionari e che eserciterà una notevole influenza su Manzoni, spingendolo ad attenuare il radicalismo dell’adolescenza. Del 1803 è l’idillio Adda, una delle prove più riuscite del suo neoclassicismo.
Nel 1805 Manzoni giunge a Parigi, accogliendo l’invito della madre e del conte Imbonati, con il quale Giulia conviveva da diversi anni dopo aver divorziato dal marito nel 1792. Imbonati, amico dei fratelli Verri e di altri intellettuali milanesi, muore però poco prima dell’arrivo di Manzoni, che ne onora la memoria con un componimento in endecasillabi sciolti intitolato Carme in morte di Carlo Imbonati.
Tornato nel 1807 a Milano per la morte del padre, Manzoni conosce Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere ginevrino. Il matrimonio è celebrato con rito calvinista nel 1808.
Dal 1807 al 1808 Manzoni risiede tra Milano e Brusuglio, in Brianza, poi torna con la madre e la moglie a Parigi, dove nasce la prima figlia, Giulia Claudia, ma nel 1810 è di nuovo in Lombardia. Del 1809 è la pubblicazione del poemetto neoclassico Urania (dedicato a una delle nove muse), in cui viene esaltata la funzione civilizzatrice della poesia. Ma si tratta dell’ultima opera neoclassica di Manzoni, che ormai si orienta sempre più verso un ben diverso orizzonte ideologico e poetico. In questi anni matura infatti la conversione religiosa dello scrittore, il quale, anche in seguito a lunghe conversazioni con religiosi di ispirazione giansenista, approda a un cattolicesimo estremamente severo e rigoroso.
Nel 1810 celebra il matrimonio secondo il rito cattolico con Enrichetta che abiura il calvinismo.
Del 1812 è il progetto degli Inni sacri, che avrebbe dovuto comprendere dodici poesie dedicate alle principali festività cristiane. In realtà, furono composti soltanto cinque inni: i primi quattro (La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale e La Passione) furono pubblicati nel 1815, mentre La Pentecoste, abbozzata per la prima volta nel 1817, fu completata nel 1822. 
Dal 1811 Manzoni vive tra il palazzo milanese di piazza Belgioioso e la villa di Brusuglio. Intensi restano però i rapporti con gli intellettuali parigini, che si concretizzano in nutriti scambi epistolari, soprattutto con Claude Fauriel, e in un nuovo soggiorno a Parigi tra il 1819 e il 1820. La famiglia intanto è sempre più numerosa: dopo Giulia (1808), nascono Pietro (1813), Cristina (1815), Sofia (1817), Enrico (1819) e Clara (1821), che muore a due anni. Sarebbero poi nati Vittoria (1822), Filippo (1826) e Matilde (1830).
Tra il 1816 e il 1820, con diverse interruzioni dovute alla stesura di altre opere, si colloca la composizione della tragedia Il conte di Carmagnola, seguita dalla Lettera al critico francese Chauvet, in cui Manzoni difende le sue scelte anticlassiciste e spiega le ragioni della propria adesione al romanticismo. Dopo le Osservazioni sulla morale cattolica del 1819, nel 1820 Manzoni comincia la stesura di una nuova tragedia, Adelchi, ambientata al tempo della caduta del regno longobardo in Italia a opera dei franchi e pubblicata nel 1822 insieme al Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia.
Sono anni di ininterrotto fervore creativo: le opere e i progetti si succedono gli uni agli altri senza che i precedenti siano stati terminati. Il 1821 è l’anno di composizione delle due odi civili Marzo 1821 e Il cinque maggio, che danno voce, rispettivamente, alle speranze presto deluse per il rapido raggiungimento dell’indipendenza italiana e a un bilancio, in chiave cristiana, della vicenda terrena di Napoleone, protagonista degli eventi storici accaduti durante la giovinezza dello scrittore.
Dall’aprile 1821 al settembre 1823 Manzoni si dedica alla composizione di un romanzo storico. Appena terminata la prima stesura del romanzo, oggi indicata come Fermo e Lucia, comincia un’impegnativa opera di rifacimento strutturale e di riscrittura linguistica, coronata dalla pubblicazione dei Promessi sposi nel 1827 (la cosiddetta edizione "ventisettana"). L’autore però, insoddisfatto della veste linguistica dell’opera, compie nello stesso anno, con tutta la famiglia, un viaggio in Toscana, con l’obiettivo di studiare dal vivo il linguaggio toscano e soprattutto il fiorentino. Il fiorentino parlato dalle persone colte – cioè, un dialetto distillato letterariamente – sarà il modello di riferimento della seconda edizione del romanzo, pubblicata, dopo lunghi studi e un’attenta revisione, tra il 1840 e il 1842. Insieme all’edizione definitiva dei Promessi sposi compare, completamente rifatta rispetto a una prima stesura mai data alle stampe, la Storia della colonna infame un testo di carattere saggistico in cui l’autore affronta il tema della giustizia ricostruendo un processo avvenuto nel 1630, ai tempi della peste a Milano.
La stagione creativa di Manzoni romanziere si chiude nel 1827; la successiva revisione dei Promessi sposi sarà infatti soltanto linguistica e la Storia della colonna infame può essere considerata un’opera storiografica. Alla base di questa rinuncia sta il rifiuto, maturato in sede teorica, del romanzo storico. Come si legge nel saggio Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione (elaborato intorno al 1830 e pubblicato, dopo numerose revisioni, nel 1850), il romanzo storico è per Manzoni un genere ibrido e incoerente, che non rispetta la storia e anzi la falsifica con elementi romanzeschi. Il romanzo storico, inoltre, non gode più, a parere di Manzoni, del successo di pubblico che aveva ai tempi di Walter Scott e ha pertanto perduto efficacia come forma di letteratura divulgativa.
Effettivamente, in Europa la fortuna del romanzo storico stava declinando: Stendhal, Balzac e poi Flaubert avrebbero attinto il materiale per i loro romanzi dal presente, ossia dall’attualità osservata e studiata con uno sguardo attento alle relazioni fra l’individuo, le dinamiche sociali e gli avvenimenti storici.
La vita familiare di Manzoni, a partire dagli anni Trenta, si fa sempre più cupa. La moglie Enrichetta Blondel muore dopo anni di malattia il giorno di Natale del 1833. La prima figlia, Giulia, dopo alcuni anni di infelice vita coniugale (il matrimonio con Massimo D’Azeglio era stato praticamente imposto dai familiari), muore nel 1834, lasciando una figlia di un anno. Altre tre figlie – Cristina, Sofia e Matilde – muoiono tra il 1841 e il 1856. I figli Enrico e Filippo, poi, sono una fonte continua di dispiaceri, a causa della loro vita dissoluta fra debiti e carcere. Filippo sarebbe morto nel 1868. Dei dieci figli soltanto Enrico e Vittoria sopravvivranno al padre.
Nel 1837 Manzoni, non sentendosi in grado di badare alla numerosa famiglia e vivamente consigliato dai parenti, si risposa con Teresa Borri vedova Stampa. Ospite spesso del figlio di Teresa, Stefano Stampa, a Lesa, in una villa sul lago Maggiore, frequenta il sacerdote e filosofo Antonio Rosmini, che dirige nella vicina Stresa il suo Istituto della Carità. All’influenza di Rosmini si deve la composizione del trattato Dell’invenzione del 1850, centrato su un’idea fondamentale della poetica manzoniana: il poeta non crea ma "inventa", nel senso latino del termine, cioè "trova" la poesia che è già nella realtà. Rosmini, di dodici anni più giovane di Manzoni, muore nel 1855. Nel 1853 era morto un altro caro amico, Tommaso Grossi, e nel 1861 scomparirà anche la seconda moglie.
In questa seconda fase della vita dello scrittore, la vena poetica manzoniana sembra quasi completamente inaridita. Degli inni Il Natale del 1833 (che non va confuso con l’inno sacro Il Natale) e Ognissanti, ultimi tentativi di meditazione religiosa in forma poetica, restano solo frammenti. Il Natale del 1833 cerca di risolvere in chiave cristiana il mistero della morte di Enrichetta Blondel, ma la parola poetica si arresta di fronte alla visione terribile della divinità: "Mentre a stornar la folgore / trepido il prego ascende / sorda la folgor scende / dove tu vuoi ferir!" (i frammenti sono datati 14 marzo 1835). L’inno Ognissanti, ideato intorno al 1830 e solo in parte realizzato nel 1847, è dedicato alle esistenze votate a Dio, che vivono nello spazio di una preghiera e muoiono in un sogno di santità. Dopo questo ultimo tentativo, il tempo della poesia sembra chiudersi sulla tragica consapevolezza della lontananza di Dio dalla vita e dalla storia.
Proseguono nel frattempo gli studi linguistici, che hanno tenuto costantemente impegnato lo scrittore a partire dagli anni Trenta, tanto da essere sintetizzati nella formula "l’eterno lavoro sulla lingua". Tali studi, culminanti nello strenuo lavoro di revisione linguistica dei Promessi sposi, mirano soprattutto a contribuire all’unità linguistica italiana. Il lavoro sulla lingua si traduce anche in intervento politico quando, nel 1868, Manzoni accetta di presiedere una commissione ministeriale incaricata di formulare progetti per diffondere in tutte le classi sociali la conoscenza della lingua italiana. Gli studi linguistici sono in questo periodo interrotti soltanto da quelli storici. La principale opera storica intrapresa da Manzoni è La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859, dove la prima rivoluzione è considerata illegittima e distruttiva perché mossa da folle violente di facinorosi che rappresentano soltanto una piccola parte della nazione francese, mentre la seconda è vista come legittima e costruttiva perché moderata e sostenuta dalla volontà dell’intera nazione italiana.
Il 6 febbraio 1873, andando a messa nella chiesa milanese di San Fedele, Manzoni cade sui gradini, batte la fronte e torna a casa insanguinato. Da allora la sua mente non è più lucida e il decadimento fisico procede rapidamente. Le sue condizioni si aggravano quando il figlio Pietro, presso il quale lo scrittore abita negli ultimi anni, si ammala gravemente. Nonostante la notizia della morte di Pietro, avvenuta il 24 aprile, gli sia tenuta nascosta, l’assenza del figlio torna negli incubi dello scrittore, che confonde le immagini della malattia con le memorie dell’epoca del Terrore, oggetto delle sue letture e dei suoi studi.
Il 22 maggio 1873 Manzoni muore a Milano.
b) Il «cattolicesimo democratico» del Manzoni - L’incontro giovanile con l’Illuminismo prima a Milano poi a Parigi concorse in grande misura ad orientare il cattolicesimo manzoniano. Nel Vangelo infatti lo scrittore cercò e trovò una risposta a quelle istanze di uguaglianza e di fraternità che erano state i punti chiave dell’Illumini­smo (si ricordi il famoso trinomio «libertà, uguaglianza, fraternità») e che egli aveva fatto sue. Con la differenza che, mentre gli illuministi ponevano a base di tali istanze il fatto che la ragione è bene comune a tutti gli uomini, e per tutti stabilisce parità di di­ritti e di doveri, egli le collegò alla comune paternità di Dio, che fa sì che tutti gli uo­mini, in quanto suoi figli, siano fra loro uguali e fratelli. In questo senso sì può parlare di un cattolicesimo democratico del Manzoni.
La sollecitudine per gli umili, per i diseredati della società e gli ignorati dalla storia ufficiale, è costante nello scrittore, dagli Inni sacri, alle tragedie, ai Promessi Sposi.
Nei Promessi sposi il ruolo di protagonisti è tenuto da due operai di estrazione contadina, «genti meccaniche e di piccolo affare», come dice Manzoni nell’introduzione al romanzo. E, con un capovolgimento rivoluzionario, coloro che nel giudizio del mon­do sono in alto nella scala sociale, i cosiddetti «personaggi d’autorità», sono qui valu­tati positivamente o negativamente a seconda che si mettano al servizio degli umili o che siano loro avversi.
c) I temi fondamentali della moralità manzoniana: la giustizia e la provvidenza - Alle ingiustizie del mondo, alla prevaricazione dei forti e alla sopraffazione costante dei debo­li, Manzoni contrappone l’istanza della giustizia.
Se, nella sua pienezza, la giustizia per il cristiano Manzoni potrà realizzarsi solo nell’aldilà, tuttavia gli uomini degni dì questo nome devono battersi perché anche su questa terra essa si attui il più possibile, perché l’ingiustizia venga sconfitta. Con questo spirito agiscono i personaggi positivi e combattivi del romanzo: padre Cristoforo, il cardinal Federigo, lo stesso Renzo per quanto glielo consentono le sue limitate forze.
Chi combatte per la giustizia ha Dio dalla sua parte. Al tema della giustizia si collega in tal modo quello della provvidenza, il tema che percorre tutta l’opera manzoniana e si dispiega soprattutto nel romanzo. In esso la provvidenza conforta gli umili nelle loro tribolazioni, da loro fiducia e persino sicurezza d’animo; ma anche confonde e annien­ta i prepotenti, così che alla fine la giustizia, sia pure faticosamente, trionfa, come dimostra la vicenda dei due promessi sposi, gente di «buona volontà», che dopo tante traversie riescono a raggiungere anche su questa terra la serenità che si sono meritata.
d) La soluzione manzoniana al problema della lingua - Il problema della lingua travagliò a lungo Manzoni e fu da lui sentito con particolare acutezza nel periodo della composizione del romanzo, un’opera che egli voleva rivolta ad un vasto pubblico e per la quale sentiva l’esigenza di una lingua che fosse popolare e viva, e che inoltre - poiché la sua aspirazione di patriota andava a un’Italia unita in nazione - non avesse caratte­re regionale, ma nazionale. Dopo lunga riflessione e sperimentazione, egli si convinse che la soluzione linguistica possibile in Italia era quella di estendere a tutta la penisola il più evoluto dei suoi dialetti, il fiorentino, e più precisamente il fiorentino parlato dalle persone colte, cioè da quella classe borghese che i romantici identificavano col «popolo».

Giacomo Leopardi
a) La vita – Giacomo Leopardi nacque nel 1798 a Recanati nelle Marche, da famiglia nobile e di spiriti conservatori; eb­be la fanciullezza e la giovinezza impegnate negli studi, che perseguì con appassionata perseveranza tanto che, a diciassette anni, non solo conosceva perfettamente il latino e il greco, ma aveva anche già composto due opere di erudizione, la Storia dell’astronomia ed il Saggio sugli errori popolari degli antichi: fu tanto lo sforzo di questo periodo che ne ebbe guastata la salute.
Nel 1816 Leopardi preparò una risposta ad una nota lettera della Stael, Lettera ai compilatori della ‘‘Biblioteca italiana’’, che però non fu pubblicata.
Nel 1817 cominciò a scrivere lo Zibaldone, fondamentale quaderno di appunti, di osservazioni di carattere culturale, di confessioni autobiografiche, che continuò a farsi alterne e con varia intensità fino al 1832.
Secondo la consuetudine delle famiglie aristocratiche, il giovane Giacomo, fu educato in casa insieme con i fratelli da un precettore ecclesiastico, il quale ben presto non ebbe più nulla da insegnargli. Egli allora continuò a studiare autonomamente sui libri della sterminata biblioteca del padre; imparò il greco e l’ebraico e si dette a lavori di profonda erudizione, che ottennero il plauso e l’ammirazione di importanti studiosi del tempo, italiani e stranieri.
Furono sette anni di studio matto e disperatissimo, come egli stesso ebbe a definirli, che ebbero gravi ripercussioni sulla sua salute, già da tempo precaria. 
Il primo saggio importante di poetica fu il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, nato nel 1818 in risposta ad un articolo del di Breme, ma anche questo fu pubblicato solo postumo; nello stesso anno compose le prime canzoni, tra cui All’Italia.
Man mano che, col passare degli anni, si evolveva spiritual­mente, Leopardi sentiva sempre più intollerabile il chiuso ambiente familiare e quello paesano e gretto di Recanati.
Nel 1820, una crisi intellettuale e spirituale prima lo indusse al tentativo di suicidio, poi al tentativo di fuga da casa,  sventata dai suoi genitori; solo tre anni più tardi, nel 1822, ottenne di lasciare la famiglia e il paese per recarsi a Roma ma, deluso dall’ambiente, fece ritorno a Recanati nel 1824;  da al­lora soggiornò in varie città italiane, Milano, Bologna, Firenze, Pisa, ancora Roma, Napoli, con l’intervallo di alcuni più o meno lunghi ritorni a Recanati.
Rientratovi nel 1828, vi ritrovò l’atmosfera degli anni giovanili che, osservata con occhi nuovi, suscitò in lui emozioni e ricordi, ispirandogli la creazione delle sue liriche più alte, tra cui A Silvia, Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta, Il passero solitario, Le ricordanze, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Tornato a Firenze, Leopardi ritrovò l’amico Antonio Ranieri, conosciuto qualche anno prima, con il quale successivamente si trasferì a Napoli, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Nel periodo napoletano compose i Paralipomeni alla Batracomiomachia, la Palinodia.
Maturava intanto in lui un’amara filosofia della vita che trovò espressione poetica nelle sue liri­che, i Canti, e poetico-meditativa nelle prose delle Operette morali.
Nella prima opera, i Canti, che includeva tutte le opere più significative dell’intera produzione leopardiana (i cosiddetti piccoli e grandi idilli), egli dà voce al respiro della sua anima, cioè ai sentimenti, all’onda di ricordi e di emozioni, ma anche alle profonde riflessioni esistenziali che uno spettacolo naturale o un momento della vita del borgo suscitano in lui. In seguito alla morte di Leopardi, nel 1845, Ranieri curò un’edizione postuma dei Canti, che comprendeva anche il canto La Ginestra.
Oltre a queste due opere, che sono le maggiori, ricordiamo lo Zibaldone, vasta raccolta di osservazioni, di riflessioni di varia natura, assai utile per comprendere l’evoluzione del poeta, e i Pen­sieri.
Morì a soli 39 anni, in seguito ad un’epidemia di colera che aggravò i mali che lo tormentavano da tempo, senza aver ottenuto in vita quella fama che gli sarebbe stata ampiamente tributata, invece, dopo la sua morte.
b) L’arido vero  e gli ameni inganniLa caratteristica principale delle poetica leopardiana è quella di essere una lirica di taglio filosofico: essa trae origine quasi sempre da un’osservazione del mondo esterno e della natura e, attraverso le sensazioni e i sentimenti che tale osservazione suscita, sviluppa ampie parti meditative, nelle quali il poeta colloca la sostanza del proprio ragionamento poetico.
Fin dalla prima giovinezza Leopardi si con­vinse che l’unica verità è quella cui l’uomo perviene mediante la ragione, e a questa convinzione si mantenne fedele per tutta la vita.
Ma la verità che la ragione rivela all’uomo è squallida e amara, è quella che Leopardi chiama l’arido vero. La ragione, infatti, smaschera come inconsistenti quei va­lori in cui l’uomo istintivamente crede: la bellezza, la gloria, l’amore, la giovinezza. Es­si, guardati alla fredda e spietata luce della ragione, si rivelano ingannevoli e caduchi, illusioni.
Ma se questa è la verità che bisogna coraggiosamente accettare, è certo che, privata di questi valori, la vita perde ogni gioia e ogni bellezza, perché, se è vero che essi sono inganni, è altrettanto vero, come dice il poeta nelle Ricordanze, che sono ameni inganni, fonte unica di speranza e di gioia.
La civiltà, prodotto della ragione, condanna gli uomini all’infelicità. Leopardi infatti era convinto che l’anima umana trovasse un autentico piacere soprattutto nei pensieri vaghi e indefiniti che, spesso inafferrabili, lasciano dietro di sé molteplici suggestioni, desideri ed idee. Su questa base contenutistica, Leopardi avvia un profondo processo di rinnovamento della lingua della poesie italiana, abbandonando la metrica classica e lasciando che la sua poesia si snodasse sulla linea della musicalità e del ritmo, producendo un forte effetto evocativo.
Da questo contrasto fra la realtà e le esigenze profonde dello spirito umano nascono i temi più alti della poesia e del romanticismo leopardiani: e innanzitutto il tema della nostalgia e del rimpianto.
I Canti leopardiani traboccano di questi non valori vagheggiati e intensamente invocati, tanto che è stato detto giustamente che nessun poeta, forse, ha cantato la giovinezza e l’amore con l’intensità appassionata di Leopardi, che negava loro reale consistenza e che li vedeva perciò idealizzati dal desiderio e dalla nostalgia che hanno le cose amate e non possedute. Leopardi, nell’arco della sua vita, ideò ben due teorie sul piacere: nella prima, il poeta spiega che il piacere non poteva mai essere soddisfatto, in quanto l’uomo ha in sé connaturata l’esigenza di provare piacere, ma allo stesso piacere segue l’assuefazione; nella seconda, invece, Leopardi spiega come il piacere sia impossibile da raggiungere ed esista solo come cessazione del dolore.
Da questa constatazione nasce, oltre al rimpianto, anche la protesta: essa si rivolge soprattutto alla Natura, che dovrebbe essere madre ai suoi figli, e invece è per loro matrigna, e crudelmente promette gioie che poi non mantiene. Essa si mostra indifferente alle loro pene, e non teme di distruggere in un istante, con un terremoto, un’alluvione o l’eruzione di un vulcano, le opere pazienti costruite dall’uomo e la sua stessa vita.
c) Il natio borgo selvaggio – Recanati, scena di gran parte della vita di Leopardi, è presente anche in molte sue liriche. Il poeta ne soffre la chiusa grettezza, l’isolamento dalle correnti di civiltà e di pensiero, il difficile rapporto con i retrivi abitanti. E tutta­via Recanati vive poeticamente nei suoi versi, con un amore che supera l’intolleranza: vi è ritratta ora in una ferma notte lunare
Dolce, chiara è la notte e senza vento
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna e di lontan rivela
serena ogni montagna,
ne La sera del dì di festa; ora invasa nelle sue strade dal caldo sole di maggio, del maggio odoroso in A Silvia; si distende luminosa fra monte e mare
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lunge,
e quindi il monte;
è aperta verso la vicina campagna
passero solitario, alla campagna
cantando vai,
ne Il passero solitario, e su di essa nelle notti serene brillano le vaghe stelle dell’Orsa ne Le ricordanze.
d) Il non senso dell’esistenza umana e il pessimismo leopardiano - Nel Canto notturno la vita dell’uomo è paragonata alla corsa di un vecchio debole e infermo, gravato da pesi, su un terreno sassoso che gli lacera i piedi scalzi: corsa che ha per meta un abisso dove egli alla fine precipita.
La vita è dunque sofferenza senza senso, che non acquista senso neanche dalla morte. Infatti, a differenza di Manzoni, per Leopardi con la morte tutto ha termine, e non esiste una vita ultraterrena che ristabilisca la giustizia, che dia significato al dolore terreno.
Il non senso della vita umana, non confortata da alcuna provvidenza, si esprime nei grandi interrogativi presenti nei Canti leopardiani (che senso ha la vita? perché essa è solo dolore? perché la natura ci è matrigna?), interrogativi che suonano nel vuoto, che rimangono senza risposta.
Tuttavia l’uomo ha una stagione felice: quella della fanciullezza e della giovinezza, perché questa è un’età in cui domina il sentimento e la ragione ancora non gli ha rivelato la verità amara della sua condizione.
e) L’ultimo Leopardi: la social catena - Nell’ultimo periodo della sua vita, un nuovo atteggiamento psicologico si fa strada in Leopardi, e si esprime soprattutto nella lirica La ginestra.
Fermo restando il principio che la natura è matrigna e al mondo non esiste provvidenza, il poeta sostituisce all’elegiaco lamento sulla condizione umana una vigorosa e costruttiva presa di posizione. Pur sapendo di combattere una battaglia perduta – egli dice – bisogna che gli uomini si alleino fra loro in patto solidale, in social ca­tena, per combattere l’avversa sorte.
Leopardi giunge così a postulare, in nome del­la mancanza di provvidenza nel loro destino, quella fraternità fra gli uomini cui Manzoni perveniva in nome della provvidenziale paternità di Dio.

L’arte romanticaMomento complesso della cultura figurativa europea, il romanticismo offrì una tale varietà di forme e d'impostazioni, di tendenze e di accenti, da apparire una serie di episodi legati da corrispondenze di tono o di atmosfera piuttosto che da una matrice culturale omogenea. La sua fioritura più significativa appartiene alla prima metà dell'Ottocento. Prima di manifestarsi nelle arti figurative il romanticismo annunciò nella letteratura e nella musica, un generale cambiamento di gusto centrato sulla forte valorizzazione dell'individuo e della sua sfera sentimentale e passionale, sui temi della natura e del mondo fantastico, del recupero della storia in chiave nazionale e liberale. Non da ultimo si rinnovò nell'espressione un apprezzamento dell'arte dei primitivi e del Quattrocento italiano.
Nelle arti figurative, il termine romanticismo è riferito in senso stretto al movimento che si avvia in Francia nel primo decennio dell'Ottocento, in vivace polemica con la cultura neoclassica, con talune opere di Gros e di Géricault, e conosce la sua massima fioritura intorno al 1830, grazie a Delacroix e Corot, oltre ad artisti minori operanti in Francia, Germania e Inghilterra, protraendosi sin quasi alla metà del secolo, quando inizia ad affermarsi la poetica del realismo. In senso più esteso, in questo si ebbero fenomeni correttamente qualificabili come romantici anche nel campo dell'architettura, della scultura e delle arti minori.
a) Le tematiche – La sensibilità romantica si affermò quale momento critico della cultura illuminista e reazione al crollo dell'utopia "razionale" e le sue radici sono nel neoclassicismo e nella cultura accademica, ai quali tuttavia finì per contrapporsi polemicamente. L'arte del romanticismo rifiutò ogni ideale e ogni univoca classificazione del bello, per dare libero sfogo alla creazione individuale che si esprime in un approccio emotivo al fare artistico, tendente a riportare alla luce valori squisitamente soggettivi, fantastici e sentimentali. Alla perfetta e definita forma classica l'arte romantica preferì la rappresentazione caratterizzante che fa dell'oggetto ritratto un unicum, l'evocazione di suggestivi e fuggevoli aspetti della natura e dell'uomo.
Ribelle alle imposizioni dell'accademia, e dunque del potere costituito, l'arte romantica condivise inoltre, con la filosofia e la letteratura contemporanee, l'impegno politico e civile e le aspirazioni liberali, indirizzate contro l'assolutismo napoleonico e poi contro quello della Restaurazione. Di qui deriva la predilezione dei soggetti storici specie contemporanei oltre che dei temi suggeriti dalla più varia attualità (Géricault, Zattera della Medusa, 1819; Delacroix, Libertà che guida il popolo, 1830).
Sulla scia della letteratura, i nuovi motivi di fondo dell'arte del romanticismo consistono nella rivalutazione delle tradizioni figurative nazionali, della fede religiosa e della famiglia, assunte quali veicoli di un'effusione sentimentale che conferma il tono di polemica opposizione alla ragione degli illuministi e alla fredda bellezza della classicità.
b)  Goya – Francisco Goya y Lucientes (Fuendetodos, Saragozza 1746 - Bordeaux 1828) iniziò a Madrid una densa attività di affrescatore e pittore che lo portarono al successo presso gli ambienti aristocratici con una serie di bellissimi ritratti (Conte di Miranda, 1774, La duchessa d'Alba, 1795; La Maja desnuda e La Maja vestida, 1800-03?).
Nel 1799 divenne primo pittore del re: per lui e per la famiglia reale dipinse altri ritratti. Si vennero chiarendo i motivi d'ispirazione più profondi e personali dell'opera di Goya, in particolare in seguito all'invasione della Spagna da parte delle armate napoleoniche. La ragione illuministica, culminata nella rivoluzione francese scopriva così un volto di tragica irrazionalità che Goya descrisse facendo scaturire dal reale l'irrazionale e il mostruoso (esemplificato nell'incisione Il sonno della ragione produce mostri). Segnano altrettanti momenti di approfondimento di questa sua nuova tematica le Divagazioni popolari (1793), il Funerale della Sardina; Processione di flagellanti; Tribunale di Inquisizione (Madrid, Academia de San Fernando).
Con la tela Le fucilazioni - Il 3 maggio 1808, (1814, Madrid, Museo del Prado) illustrò un momento delle vicende della resistenza spagnola, ritraendo nel momento di maggior terrore una schiera di patrioti mentre stanno per essere fucilati dai soldati francesi.
Un altro punto d'arrivo del suo linguaggio figurativo fu costituito dalle allucinanti visioni, dipinte nel 1819-23 sulle pareti della sua casa, la Quinta del Sordo: Crono divora i suoi figli (Madrid, Museo del Prado), in cui la visione fantastica, il mostruoso, l'enigma e il simbolo assumono un significato universale e si fondono a comporre quell'idea pessimista che è espressione della sensibilità del Goya maturo.
Di notevole importanza sono le incisioni di Goya: I disastri della guerra (1808-09) e Tauromachia (1815-16).
Nell'opera di Goya s'individuano motivi, intenzioni, sensibilità già romantici: dall'attenzione alla storia contemporanea al riaffiorare di sostrati psichici inconsci, dall'ispirazione onirica alla libertà dell'esecuzione. In quanto sintesi e superamento degli estremi esiti barocchi e neoclassici, l'arte di Goya assume un significato essenziale di anticipazione alle esperienze dell'impressionismo, del surrealismo e dell'espressionismo tra fine Ottocento e Novecento.
c) La Germania – In Germania, confluirono anche gli apporti del romanticismo nordico e scandinavo, tipici del pittore danese Asmus Jacob Carstens (1754-98). Il paesaggio romantico informato alla nuova idea di natura, insieme oggetto d'indagine scientifica e fulcro di forze magiche e occulte, si tinse di toni surreali nell'opera di Philipp Otto Runge (1777-1810) e di Friedrich, iniziatori della pittura romantica tedesca.
Caspar David Friedrich (1774-1840) predilesse la rappresentazione dei paesaggi della Pomerania e le sue visioni della natura sono sempre pervase da un senso profondo di solitudine (Monaco in riva al mare, 1808-09, Berlino, Staatliche Museen; Scogliere bianche a Rügen, 1818, Winterthur, collezione Reinhart; Abbazia nel querceto, 1809, Berlino, Charlottenburg).
d) I nazareniIl nascente nazionalismo avviò l'interesse per lo stile gotico (erroneamente considerato tipicamente germanico), il quale a sua volta tese a confluire e a identificarsi con tendenze misticheggianti e di rinnovata sensibilità religiosa; a questi motivi si ispirò l'opera pittorica dei nazareni, un gruppo di artisti che, in opposizione al neoclassicismo, aspiravano a un rinnovamento dell'arte su basi religiose. Il movimento vero e proprio, stimolato dalla rivalutazione romantica del Medioevo, si costituì a Vienna nel 1809 per iniziativa di Johann Friedrich Overbeck (1789-1869) e Franz Pforr (1788-1812). Nel 1810 il gruppo si trasferì a Roma stabilendosi nel convento abbandonato di S. Isidoro; qui si aggiunsero altri artisti (Peter von Cornelius, 1783-1867; Philip Veit, 1793-1877; Wilhelm von Schadow, 1788-1862; Julius Schnorr von Carolsfeld, 1794-1872) dando vita a una sorta di comunità di lavoro monastica. I loro ideali, basati sull'etica e sul misticismo delle antiche corporazioni medievali, li condussero da un lato a un recupero delle forme del Quattrocento italiano, dall'altro a una rivalutazione, dettata da intenti patriottici, dell'antica pittura tedesca.
e) Inghilterra – Il contributo più valido e precoce (preromanticismo) all'arte romantica va ricercato in Inghilterra, e particolarmente nelle opere di Füssli e di Blake, caratterizzate dall'insorgere di un accentuato interesse per il mondo fantastico dei sogni e dell'occulto. I più alti vertici qualitativi raggiunse anche la pittura di paesaggio, soprattutto con Constable e Turner. La pittura visionaria di Füssli e di Blake, la natura panica e sublime di Turner contengono una potenzialità surreale, una costante allusione al magico e all'occulto. Intorno alla metà del secolo i preraffaelliti, avviando un processo di recupero storico che è tipico della cultura romantica, contrapposero alla decadenza dell'arte barocca e contemporanea la purezza dell'arte del Quattrocento.
Heinrich Füssli (Zurigo 1741 - Londra 1825), scrittore e pittore, dopo studi teologici, soggiornò per un lungo periodo (1769-77) in Italia e si stabilì infine a Londra. Lì fu maestro di Blake. Attratto dalle immagini oniriche e dal mondo del fantastico, realizzò suggestive opere pittoriche di visioni misteriose e inquietanti, come l'Incubo(1781, Francoforte, Goethemuseum).
William Blake (Londra 1757-1827), fu poeta oltre che pittore e nelle sue opere proseguì l'indagine del fantastico e del visionario avviata da Füssli (illustrazioni per il Libro di Giobbe e per le Notti dello scrittore preromantico E. Yung; I pellegrini di Canterbury, 1809). Famose sono anche le illustrazioni all'acquarello per la Divina Commedia (Londra, Tate Gallery).
f) Francia – Carattere di particolare aderenza alla vita politica nazionale ebbe l'arte del romanticismo francese, le cui premesse erano già ravvisabili nell'attività dei pittori neoclassici Ingres e David. Ma fu Géricault a esprimere attraverso un'impostazione formale classica la sua sensibilità drammatica e il suo titanico patetismo, mentre dopo di lui Delacroix realizzò un definitivo distacco dalla forma classica. Le aspirazioni sociali e gli esiti moderati della rivoluzione di luglio indirizzarono da un lato Honoré Daumier (1803-79) alla satira politica e antiborghese, dall'altro i paesaggisti della scuola di Barbizon a effondere il desiderio di rinascita sociale e spirituale nel contatto diretto con la natura e la sua forza vitale.
g) Jean-Louis-Théodore Géricault – Jean-Louis-Théodore Géricault (Rouen 1791 - Parigi 1824), pittore, disegnatore e litografo, ottenne grande successo al Salon del 1812 con l'Ufficiale dei cacciatori a cavallo durante la carica (Parigi, Louvre) e nel 1814 con il Corazziere ferito (Rouen, Musée des Beaux-Arts). Nel 1818, traendo ispirazione dal naufragio della fregata Méduse, avvenimento che aveva fatto molto scalpore, anche per il sospetto di cannibalismo tra i naufraghi, cominciò a dipingere la gigantesca (35 m2) Zattera della Medusa (Parigi, Louvre). L'opera, preceduta da innumerevoli studi preparatori (bellissime le copie dal vero di pezzi anatomici provenienti dall'ospedale Beaujon), ricca di suggestione romantica per la gamma livida e cupa e per la violenta drammaticità, mostra un realismo straordinario nell'osservazione penetrante dei particolari. Eseguì interessanti schizzi per grandi quadri mai eseguiti, in cui si esprimevano i suoi ideali di libertà e democrazia: La tratta dei negri, La liberazione delle vittime dell'Inquisizione, La guerra d'indipendenza greca. L'interesse per la psichiatria sociale lo indusse a dipingere dieci quadri sulla pazzia (ne rimangono 5, fra cui: Alienato con monomania della gloria militare e Alienato con mania del gioco, 1822-23, Parigi, Louvre).
h) Eugène DelacroixEugène Delacroix (Charenton-St-Maurice 1798 - Parigi 1863) fu caposcuola della pittura romantica francese, dipinse opere di grande libertà fantastica e d'intensa potenza espressiva, caratterizzate dal colore denso e acceso che influì notevolmente sul sorgere dell'impressionismo.
Nel 1822 espose al Salon la Barca di Dante (1822, Parigi, Louvre), conseguendo un enorme successo. Il Massacro di Scio (1822, Parigi, Louvre) e la Morte di Sardanapalo (1827, Parigi, Louvre) risvegliarono l'interesse del pubblico, ma indignarono i classicisti.
La rivoluzione di luglio del 1830 che portò al trono Luigi Filippo di Orléans, suo protettore, aprì il suo periodo migliore: La Libertà che guida il popolo (1830, Parigi, Louvre), esposta al Salon del 1831, venne acquistata dallo Stato.
Il viaggio compiuto nel 1832 in Marocco (per un negoziato diplomatico), in Algeria e nella Spagna meridionale gli suggerì innumerevoli spunti e una nuova visione del colore (Donne d'Algeri, 1834, Parigi, Louvre; Il caid marocchino, 1837, Nantes). Dal 1833 si dedicò anche alle grandi decorazioni: il Salon du Roi e la biblioteca del Palazzo Borbone (1833-47), la biblioteca del Palazzo del Lussemburgo (1840-47), il soffitto della Galleria di Apollo al Louvre (1850-51), il soffitto del Salon de la Paix nell'Hôtel de Ville (1852-54, distrutto nel 1871). Lasciò anche litografie, disegni, acquerelli. La sua pittura, complessa e ricca di sapienza, di cultura storica specifica e di profondi legami con la politica, la letteratura, la musica, la filosofia e la scienza del suo tempo, è l'espressione di un modo di vedere, di sentire e di pensare in tutto romantico.
i) La scuola di BarbizonAnche se viene designata con il termine di scuola, prendendo il nome dal villaggio di Barbizon situato ai margini della foresta di Fontainebleau, dove alcuni artisti si erano stabiliti (1830-50) e altri si recavano a lavorare, questa corrente artistica non fu mai una scuola vera e propria, ma piuttosto un gruppo legato dallo stesso desiderio di dipingere paesaggi naturalistici. Vi appartennero Théodore Rousseau (1812-67), il maggiore esponente, considerato uno dei maggiori paesaggisti francesi, di lirica sensibilità malinconica e di profondo impegno morale; inoltre Charles Jacque (1813-94), Wigile-Narcisse Díaz de La Peña (1808-76), Jules Dupré (1811-89), Constant Troyon (1810-65), Charles-François Daubigny (1817-78).
I maestri di Barbizon furono accomunati dall'uso di una gamma cromatica molto esigua con preferenza per i neri e i bruni.
Un'attenzione al mondo contadino fu particolare di Jean-François Millet (Gruchy 1814 - Barbizon 1875) che rispondeva a un manifesto intento sociale e umanitario (Il seminatore, 1850, Boston, Museum of Fine Arts; Le spigolatrici, 1857; L'Angelus ,1858-59, entrambi a Parigi, Louvre).
Jean-Baptiste-Camille CorotJean-Baptiste-Camille Corot (Parigi 1796-1875) è considerato uno dei rappresentanti della scuola di Barbizon per l'interesse al paesaggio, ma se ne differenzia per un diverso atteggiamento nei confronti della società e della natura. Fondamentali furono i soggiorni italiani: il primo a Roma (1825-28), che lo attrasse con gli antichi monumenti e con il paesaggio della campagna romana; il secondo in Toscana, a Genova e a Venezia nel 1834. Nelle opere di questo periodo (Veduta di Firenze, Veduta di Tivoli, Parigi, Louvre) la luminosità, quasi impalpabile pulviscolo, crea un'armonia tonale e nel contempo esalta i valori plastici. Corot conservò sempre interesse per la mitologia e fuse nella visione "affettuosa" dei suoi paesaggi la presenza di ninfe, pastori e divinità (Omero e i pastori, Bagno di Diana). Dipinse anche figure considerate tra le sue opere più significative (Autoritratto, Italiana seduta, La donna con la perla, Parigi, Louvre). Negli ultimi anni di vita, dipinse antichi monumenti e vedute di paesaggi (Ponte di Nantes, 1870; Il campanile di Donai, 1871; Interno della cattedrale di Sens, 1874; tutti a Parigi, Louvre), che per vibrante atmosfera furono determinanti sulla pittura degli impressionisti.
Gustave Courbet - Gustave Courbet (Ornans, Franca Contea 1819 - La Tour-de-Beilz, Vaud 1877) nel 1844 partecipò per la prima volta al Salon con l'autoritratto Courbet col cane nero (1842, Parigi, Petit Palais) e cominciò a definire la sua arte realista in contrasto coi neoclassici e i romantici.
Nel 1847 l'autoritratto L'uomo con la pipa (Montpellier, Museo) venne rifiutato al Salon e avviò le polemiche sulla sua arte. Nel 1855, poiché la giuria dell'Esposizione Universale rifiutò L'atelier del pittore (Parigi, Louvre), Courbet allestì una mostra di quaranta quadri in un edificio fatto costruire a sue spese, il Pavillon du Réalisme. Il catalogo da lui redatto contiene il celebre Manifeste du réalisme e le sue teorie sull'arte. Arrestato per la sua partecipazione alla Comune di Parigi, si rifugiò in Svizzera, dove morì. Negli ultimi anni dipinse luminose marine, paesaggi, animali, scene venatorie che influenzano gli impressionisti.
Italia – Verso la metà dell'Ottocento le suggestioni proposte dalla Francia e dall'Inghilterra furono accolte in Italia superficialmente e in un'accezione estetizzante che si manifestò con una predilezione per soggetti storici e sentimentali (Hayez). Un autentico momento d'interesse fu rappresentato soltanto dall'arte del lombardo Piccio e dell'emiliano Fontanesi, che appartennero al purismo, tendenza artistica di natura romantica e idealizzante, sulle orme dei nazareni tedeschi.
A partire dagli anni '60 si aprì un nuovo capitolo della pittura italiana, rappresentato dalle correnti dei macchiaioli e dagli scapigliati.
Francesco Hayez - Francesco Hayez (Venezia 1791 - Milano 1882) frequentò a Roma la cerchia del Canova. Nel 1820 si stabilì a Milano, dove ottenne un immediato successo col suo Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri a Pontremoli, che diede inizio alla lunghissima serie di soggetti storici. Hayez assurse a caposcuola del nascente romanticismo italiano. A un rinnovamento dei temi storici o letterari, ma svolti con rispetto del "vero" e del colore, si accompagnano nelle sue opere soluzioni formali ancora neoclassiche e tecnicamente accuratissime: Il bacio di Romeo e Giulietta (1823, Tremezzo, Villa Carlotta), La malinconia (1842, Milano, Brera), Il bacio (1859, Milano, Brera). La sua pittura storica fu talvolta animata da un intento politico patriottico (I Vespri siciliani, 1821, Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna; I profughi di Praga, 1830, Brescia, Pinacoteca Tosio-Martinengo). Molto significativa fu anche la sua attività di ritrattista (Manzoni, Rossini, Rosmini, D'Azeglio, Milano, Brera).
Fontanesi e il Piccio – Antonio Fontanesi (Reggio Emilia 1818 - Torino 1882) fu pittore e incisore.
La sua pittura, venata di intimismo romantico, si caratterizza per una tecnica ricca di chiaroscuro, di varietà di toni e di luci (Mattino, 1855-60, Torino, Museo civico, Tramonto sull'Arno, Firenze, Galleria d'Arte Moderna e Il lavoro della terra). Importanti le sue acqueforti e litografie, caratterizzate dalle stesse ricerche di valori atmosferici perseguite nella pittura.
Giovanni Cornovali, detto il Piccio (Montegrino Valtravaglia, Luino 1804 - Caltaro sul Po 1873), si accostò presto alle forme pittoriche del romanticismo lombardo (Educazione della Vergine,1826, Parrocchiale di Almenno). Nei paesaggi (Lungo l'Adda, 1844) e nei ritratti di borghesi e aristocratici lombardi raggiunse una grande modernità di stile, annunciando così il gusto della scapigliatura (La collana verde, 1862, Milano, collezione privata; La bagnante, 1869, Milano, Galleria d'arte moderna).
Gli scultori Bartolini e Vela – Lorenzo Bartolini (Savignano 1777 - Firenze 1850) nonostante la sua ammirazione per i quattrocentisti non si allontanò dal programma neoclassico (ritratti di Napoleone, bassorilievi sulla Battaglia di Austerlitz per la colonna Vendôme), anche se il linearismo neoclassico veniva addolcito attraverso l'uso di luci e ombre. Molte delle sue opere più famose rientrano nell’ambito della scultura ritrattistica o allegorica (ritratto di Pellegrino
Rossi, Carità educatrice,1817-24 Firenze Galleria Pitti, La fiducia in Dio, 1835 Milano Museo Poldi Pezzoli).
Vincenzo Vela (Ligornetto Ticino 1822-1891), con la statua Spartaco (1847, Ginevra, Musée d'Art et d'Histoire) si qualificò tra i più dotati esponenti del romanticismo italiano. Visse a lungo a Torino, dove eseguì numerose opere celebrative, tra cui il monumento all'Esercito sardo. La sua produzione più tarda, di cui è esempio la sua opera più famosa (Vittime del lavoro, 1883, Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna), rivelò un'adesione al "verismo" sociale, sviluppatosi in Italia negli ultimi decenni del secolo in corrispondenza con il naturalismo francese.


[1] Adone - Amore, punito dalla madre Venere, per vendicarsi la fa innamorare del bellissimo Adone, che visita con la dea il Palazzo d'Amore. La descrizione di questo palazzo, inframezzata dal racconto di varie favole (Amore e Psiche, Eco e Narciso, Ganimede, Ila), dall'elenco delle delizie del Giardino del Piacere, dall'unione dei due amanti, da un excursus autobiografico sono l'argomento di molti canti successivi. Stravaganti avventure, provocate dalla gelosia di Marte e dalla maga Falsirena, separano i due amanti. Venere fa eleggere Adone ritrovato re di Cipro. Mentre la dea è a Citera, Marte fa uccidere Adone da un cinghiale. Venere celebra per l'amante esequie fastose, mutandone poi il cuore in un fiore.
[2] John Locke - Dal 1667 segretario e medico personale di lord Shaftesbury, lo seguì nel 1683 in Olanda quando, per la sua opposizione a Carlo II, questi fuggì dall’Inghilterra. In Olanda pubblicò la Lettera sulla tolleranza, nella quale combatteva il principio della chiesa di stato e difendeva la libertà di coscienza, sostenendo che la tolleranza andava negata alle confessioni intolleranti, come il cattolicesimo, e agli atei, per il carattere antisociale delle loro dottrine.
Nel 1689 tornò in patria al seguito di Maria Stuart e Guglielmo d’Orange e pubblicò, nel 1690, i Due trattati sul governo civile. Il primo confutava la legittimazione biblica e patriarcale dell’assolutismo data da Robert Filmer; il secondo teorizzava lo stato come garante dei diritti naturali (in particolare la libertà e la proprietà) e delineava i caratteri di una monarchia parlamentare fondata sul principio della divisione dei poteri. Nello stesso anno apparve anche la sua opera più importante, il Saggio sull’intelletto umano.
Dal 1696 al 1700 fece parte del Consiglio per il commercio e le colonie.
[3] che ebbe straordinari esempi nell’opera di Jonathan Swift e di Voltaire; nei Viaggi di Gulliver (1726) Swift mescola il gusto comico del paradosso a una vigorosa vena satirica.
[4] che ebbe straordinari esempi nel Candido (1759) di Voltaire, il romanzo che divenne strumento di confutazione intellettuale di teorie pedagogiche, sistemi filosofici e ideologie politiche e soprattutto il romanzo Emilio o dell’educazione (1762) di Jean-Jacques Rousseau
[5] A questo romanzo fecero seguito altri capolavori del sottogenere come I misteri di Udolfo (1794) di Ann Radcliffe, Il monaco (1796) di Matthew Gregory Lewis e Frankenstein (1818) di Mary Wollstonecraft Shelley. La tensione al gotico e all’orrore fu sempre molto viva nello sviluppo del romanzo, e negli ultimi anni si è anzi rinnovata, tanto da far sì che le horror stories siano oggi uno dei generi romanzeschi più frequentati.
[6] Il modello narrativo del romanzo epistolare annovera nel Settecento altri importanti capolavori come La nuova Eloisa (1761) di Jean-Jacques Rousseau (che allude fin dal titolo a un famoso archetipo del genere epistolare: il carteggio medievale tra Abelardo ed Eloisa), I dolori del giovane Werther (1774) di Johann Wolfgang Goethe e Le ultime lettere di Jacopo Ortis (prima edizione, incompleta, 1798) di Ugo Foscolo.

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