1. La cultura nell’età della
Controriforma e del Barocco – L’età moderna è generalmente considerata l’epoca posta tra la scoperta
del continente americano nel 1492 e la definitiva affermazione del liberalismo
nel 1848. Questo arco di tempo è caratterizzato da profonde trasformazioni che
interessano ogni aspetto della vita umana. I viaggi di esplorazione, le nuove
rotte commerciali e la scoperta di nuovi continenti trasformano gli orizzonti
mentali ed economici dell’uomo europeo e avviano un processo di interrelazione
su scala mondiale della storia.
Analogamente,
le nuove forme statali si lanciano in conquiste e guerre a livello continentale
prima, planetario successivamente. L’unità religiosa dell’Occidente cristiano è
rotta dalla Riforma protestante, mentre il pensiero filosofico si avvale di
nuovi metodi sganciati dalla tradizione e dall’insegnamento delle autorità del
passato. Si teorizzano nuove forme di governo, e le rivoluzioni americana e
francese segnano il definitivo tramonto del sistema socio-politico basato sulla
divisione in ordini della società e, con l’avventura napoleonica, fondano le
basi dell’epoca contemporanea.
a)
La rivoluzione scientifica – L’aspetto che maggiormente caratterizzò la prima età moderna fu la grande rivoluzione
scientifica alla cui base vi era l’affermazione di uno dei principi cardine
del Rinascimento: lo stretto rapporto intercorrente fra il destino umano e la
capacità di rintracciare e controllare le leggi sottese alla realtà naturale.
Questo costituì il presupposto della rivoluzione
scientifica moderna e delle sue applicazioni.
La nascita della scienza moderna è un fenomeno complesso, che affonda
le proprie radici nel Rinascimento, di cui eredita la fiducia nelle capacità conoscitive dell’uomo, l’abbandono di principi trascendenti per
spiegare la realtà naturale, la rivalutazione
dei sensi e dell’esperienza diretta,
la pretesa di un sapere che non sia solo contemplativo, ma pratico e operativo,
il rifiuto del principio di autorità come
criterio di verità. Tuttavia, se nel Cinquecento il concetto di scienza era
ancora legato a una visione del mondo di tipo qualitativo, in cui la natura era
vista come un essere vivente, ordinata con suoi propri fini come un organismo,
nel Seicento si affermò una concezione della scienza come un sapere
oggettivamente verificabile e pubblicamente controllabile. La scienza moderna
respinge dal proprio ambito conoscitivo qualunque problematica di tipo
metafisico, relativa alle essenze o all’intima struttura delle cose, per
analizzare solo le cause dei fenomeni, alla ricerca di leggi, elaborate in
conformità a ipotesi vagliate da esperimenti, espresse in termini matematici.
In particolare, questa matematizzazione della natura porta a una riforma del
metodo d’indagine e all’adozione di modelli meccanici nella spiegazione della
realtà naturale, concepita come un insieme di corpi in movimento, che portò
pian piano all’affermazione del meccanicismo.
Il concetto di
rivoluzione scientifica è
tradizionalmente riferito al periodo compreso fra il 1543, anno di
pubblicazione di Le rivoluzioni dei mondi celesti di
Copernico, e il 1687, in cui appaiono i Principi matematici di filosofia naturale di
Newton. Si
tratta di un periodo caratterizzato da un profondo cambiamento culturale, che
vide la nascita della
moderna scienza
sperimentale e la sua
definitiva emancipazione dalla filosofia, con il contributo decisivo di Galilei.
Tra i secoli XVI e XVII il modo di
affrontare la conoscenza del mondo naturale cambiò profondamente. Le scoperte
astronomiche, mediche, fisiche e le innovazioni del metodo filosofico si
collegarono a uno spirito nuovo che scalzò la dogmatica scolastica in nome del metodo sperimentale e della libera e autonoma ricerca, del
progresso della conoscenza, con straordinarie implicazioni culturali, religiose
e tecnologiche.
L’avvio è possibile rintracciarlo
nella rivoluzione copernicana che scosse profondamente la cultura
europea e influenzò nel XVII secolo il pensiero di Galileo Galilei, di Newton e
di Keplero.
L’astronomo polacco Copernico (1473-1543), nel suo De revolutionibus orbium coelestium,
espose la teoria eliocentrica secondo la quale la terra e i pianeti si muovono
attorno al sole. La rivoluzione copernicana nacque come revisione della teoria
astronomica tolemaica, fondata sulla centralità e immobilità della Terra
nell’universo e sulla circolarità dei moti dei pianeti, a favore della teoria
eliocentrica, che pose il Sole come unico punto di riferimento dei moti dei
pianeti. Le basi dell’ipotesi di Copernico sono strettamente astronomiche: il
desiderio di stabilire rapporti determinati tra le varie sfere del sistema
planetario (ampiamente sconnessi nella teoria di Tolomeo) e quello di eliminare
alcuni artificiosi metodi di calcolo. Tuttavia la sua riforma astronomica,
ponendo la Terra in movimento, apre enormi problemi di ordine fisico, cosmologico
e filosofico e avvia una riforma di gran parte della cultura. La Terra perse la
sua centralità, non solo astronomica, ma anche metafisica, proiettando l’uomo
in un universo non più chiuso e limitato, ma infinito, privo di centro e di
periferia, omogeneo e soggetto alle stesse leggi fisico-matematiche. La
rivoluzione copernicana costrinse così a ripensare non solo l’immagine della
natura, ma anche le questioni dell’origine e del destino dell’uomo e del suo
rapporto con la divinità, com’era delineato dalla lettura tradizionale del
testo biblico.
Galileo Galilei (1564-1642), divulgatore delle
teorie di Copernico sull’immobilità del sole e sul movimento della terra, fece
numerose osservazioni sperimentali su altri pianeti con l’ausilio di un nuovo
strumento: il telescopio. Per aver sostenuto la teoria eliocentrica fu
processato dal Santo Uffizio,
condannato e costretto all’abiura. Il suo caso divenne simbolo dello scontro
fra la Chiesa cattolica e la cultura scientifica moderna.
L’astronomo tedesco J. Keplero (1571-1630) studiò le orbite
planetarie e diffuse la conoscenza delle leggi del moto dei pianeti, oltre al
metodo per calcolarne la posizione.
Le nuove conoscenze astronomiche
permisero allo scienziato inglese Isaac Newton (1642-1727),
autore di fondamentali opere in campo matematico, meccanico e ottico, di
rivoluzionare la scienza moderna con la scoperta delle leggi della gravitazione
universale, da lui espresse in formule matematiche.
L’attenzione per le questioni
metodologiche e l’importanza attribuita all’osservazione furono alla base dei
progressi compiuti dalla medicina. Il belga Andrea
Vesalio, grazie alle
ricerche anatomiche svolte sui cadaveri dei soldati, mise in discussione alcuni
principi stabiliti a priori dal modello aristotelico e li sostituì con
l’osservazione anatomica della figura umana. L’anatomista inglese W. Harley (1578-1657) scoprì la
circolazione del sangue; furono poste le basi della clinica (ovvero lo studio
della malattia al letto del malato) e dello studio dell’anatomia patologica.
La
propensione dell’uomo occidentale all’innovazione tecnologica ebbe una notevole
conseguenza: contribuì a scavare progressivamente un solco fra la società
occidentale e le altre civiltà (araba, indiana, cinese) proprio dal XVI sec. In
alcuni settori, come la navigazione o gli armamenti, questo divario fu per gli
europei il punto di forza per affermare il proprio dominio sul resto del globo
attraverso la formazione di imperi coloniali. Anche il pensiero politico e
quello economico subirono un’importante evoluzione, scrittori e pubblicisti di
diverse nazioni, spinti da motivi religiosi o solo ideologici, sostennero la
legittimità dei diversi regimi.
b)
La moderna gnoseologia – Se la problematica relativa alla natura e al metodo della conoscenza non
era una novità per la tradizione filosofica, è solo con la filosofia moderna
che acquista un’assoluta centralità per l’emergere di nuove esigenze
conoscitive, legate agli sviluppi tecnici e scientifici del sapere. È questo il
problema del metodo, cioè di un insieme di criteri e di regole che permettano
un uso corretto delle facoltà conoscitive dell’uomo al fine di raggiungere un
elevato grado di certezza, che si afferma prepotentemente nel pensiero moderno
a partire dalla riflessione di Francesco Bacone e di Cartesio. In particolare
sono le matematiche e la geometria, per
la loro chiarezza e rigorosità, il modello metodologico privilegiato a cui
ispirarsi per una riforma del metodo del conoscere.
Se la problematica relativa alla natura e al
metodo del conoscere non è una novità per la tradizione filosofica, fu solo con
la filosofia moderna che acquistò un’assoluta centralità per l’emergere di
nuove esigenze conoscitive, legate agli sviluppi tecnici e scientifici del
sapere. È questo il problema del metodo, cioè di un insieme di criteri e di
regole che permettessero un uso corretto delle facoltà conoscitive dell’uomo al
fine di raggiungere un elevato grado di certezza, che si afferma
prepotentemente nel pensiero moderno a partire dalla riflessione di Francesco
Bacone e di Cartesio. In particolare sono le matematiche e la geometria, per
la loro chiarezza e rigorosità, il modello metodologico privilegiato a cui
ispirarsi per una riforma del metodo del conoscere.
a)
La visione
estetica: il Manierismo – Il
termine Manierismo è assunto dalla critica per designare il complesso e
ramificato movimento stilistico italiano ed europeo che si colloca tra il 1520
e l’ultimo decennio del Cinquecento (ossia tra il culmine del Rinascimento e il
preannuncio del Barocco).
Caratterizzato da un estetismo
antinaturalistico e lontano dalla razionalità rinascimentale, si espresse in
suggestive alterazioni dei rapporti spaziali e subordinò le proporzioni
naturali della figura umana al ritmo fluido ed elegante della composizione. Il Manierismo,
va inteso come incrinatura dell’equilibrio armonico classicista e, più in
generale, come crisi della cultura umanistica e dei suoi ideali razionalistici,
in connessione con il travaglio storico della riforma luterana, della
controriforma cattolica e le drammatiche crisi che accompagnarono la formazione
dei grandi Stati europei.
I primi due centri di elaborazione del
manierismo furono inizialmente Firenze e Roma; da qui, si diffuse in
tutt’Italia e in Europa dando vita a esperienze locali differenziate.
Il Manierismo divenne lo stile delle corti, in
Italia come in Europa: un’arte colta, aristocratica, basata sulle iconografie
preziose, sui riferimenti dotti, sulle allegorie complicate. Ne fu un esempio
alla corte medicea l’attività (1540-70) di G. Vasari e dei manieristi
michelangioleschi. Il Manierismo fu cultura celebrativa e aulica, nell’ambito
della quale l’architettura si faceva scenografia, la scultura oscillava tra gli
opposti termini del gigantismo magniloquente (Ammannati, Fontana del Nettuno)
e del preziosismo dell’oggetto di oreficeria (Cellini, Saliera per Francesco I, Parigi, Louvre), la
pittura assumeva le diverse valenze del grande affresco celebrativo con Vasari
e del ritratto enigmatico e formale del Bronzino, il simbolo visivo e
concettuale più evidente è il celebre Studiolo
di Francesco I a Fontainebleau.
A Roma la parabola architettonica di Jacopo Barozzi detto il Vignola
(1507-73), dalle licenze inventive di Villa
Farnese a Caprarola alla nuova codificazione della Chiesa del Gesù a Roma e l’attività di pittori come Vasari,
Francesco Salviati (1510-63), Daniele da Volterra aprirono la via
all’accademismo eclettico degli Zuccari (Taddeo, 1529-66; e Federico,
1540/43-1609) e di Giuseppe Cavalier d’Arpino (1568-1640).
Verso la fine del Cinquecento, proprio dal centro
manierista di Bologna, che aveva conosciuto l’arte raffinata del Parmigianino e di Nicolò dell’Abate, partì
quel movimento di reazione antimanierista bandito dai Carracci che, rifluito a
Roma, diede vita all’accademia.
Lo stile delle corti
ebbe vita più lunga in Europa, nella sua accezione più cortigiana: nella Praga di
Rodolfo II con Bartholomeus Spranger
(1546-1611) e Hans von Aachen
(1552-1616); nei Paesi Bassi, in Baviera e, in un ultimo guizzo di autentica
forza di stile, in Spagna, con
l’esperienza del Greco.
d) Le reazioni al Manierismo: i Carracci e
Caravaggio – Negli ultimi due decenni del Cinquecento si
affermarono due importanti artisti: Annibale Carracci e Caravaggio. Pur essendo
stati considerati dalla critica, soprattutto seicentesca, come rivali, poiché
le opere del primo erano intrise di idealismo e quelle del secondo di schietto
realismo, entrambi condivisero l’opposizione dell’arte manieristica, pur
esprimendo caratteristiche pittoriche differenti. Il clima culturale in cui
agirono era segnato dal rinnovato interesse della Chiesa post-tridentina per
l’arte, che doveva con le sue immagini sacre suscitare nel fedele sentimenti di
profonda devozione.
Alla famiglia di
pittori bolognesi Carracci si deve la fioritura a Bologna nel 1590, dell’Accademia degli Incamminati, un centro
privato di educazione autoctono che ripropose la conoscenza dei grandi maestri
del Rinascimento, meditati alla luce di una rinnovata coscienza della natura e
della tradizione. L’accento fu posto sull’importanza del disegno come mezzo per
indagare la realtà e la natura così da arrivare a un nuovo modo di dipingere
che fosse scevro degli aspetti convenzionali del manierismo. Si voleva
restituire spontaneità e immediatezza alle forme, in direzione di un nuovo
classicismo. I tre fondatori furono Agostino, Annibale e Ludovico Carracci.
e) Annibale Carracci – Annibale Carracci (Bologna 1560-1609) fu il
più eminente. Nelle sue prime opere, compiute tra il 1583 e il 1585, si
individua l’interesse per soggetti della vita quotidiana, e umili (Crocifisso,
Bologna, chiesa di S. Nicolò; Il mangiafagioli, Roma, Galleria Colonna; Bottega del macellaio,
Oxford, Christ Church).
Nel Battesimo di Cristo (1585, Bologna, chiesa di S. Gregorio)
invece l’artista lascia intravedere interesse alla lezione del Correggio. Tra
il 1588 e il 1590 lavorò col fratello Agostino e il cugino Ludovico agli
affreschi del Palazzo Magnani (ora Salem) a Bologna.
Nel 1595 fu a Roma,
incaricato dal cardinale Odoardo Farnese di dipingere il Camerino Farnese, un
lavoro quasi preparatorio per la decorazione della fastosa Galleria Farnese. A
quest’ultima, collaborando col fratello Agostino, si applicò dal 1597 al 1602
con una straordinaria libertà compositiva e uno stimolante approfondimento dei
valori formali ed espressivi. Il programma iconografico della Galleria (fatta
costruire per raccogliere le collezioni di sculture antiche del cardinale), con
scene mitologiche e d’amore, venne soprattutto derivato dalle Metamorfosi di
Ovidio (scene con il Trionfo di Bacco e Arianna, Paride e Mercurio e Pan e Diana). La decorazione fu caratterizzata da una
particolare scelta tecnica, ovvero l’uso della quadratura e soprattutto la
realizzazione delle architetture dipinte che creano l’illusione di uno spazio
tangibile. Questi affreschi sono così premessa della decorazione tipica del
Seicento che insisterà molto sul concetto di illusionismo spaziale. Per
Annibale dunque fu fondamentale sia la rivivificazione della cultura classica
in direzione naturalistica sia l’intensità persuasiva dell’immagine.
Opere significative
furono anche la lunetta con la Fuga in Egitto (1604,
Roma, Galleria Doria Pamphili), in cui i personaggi si fondono armoniosamente
con il paesaggio; la Samaritana al pozzo e la struggente Pietà (ca 1603, Vienna, Kunsthistorisches
Museum).
f) Caravaggio – Michelangelo Merisi, detto
il Caravaggio (Caravaggio 1573 - Porto Ercole 1610), è uno dei pittori più
significativi del Cinquecento, creatore del cosiddetto luminismo caravaggesco, che definisce una caratteristica
innovatrice della funzione della luce, che fa emergere le cose dall’ombra e
costruisce i volumi.
Si formò a Milano nel
1584 nella bottega del pittore bergamasco Simone Peterzano (notizie fra
1573-96) e sulle opere dei maestri cinquecenteschi bergamaschi e bresciani
(Lorenzo Lotto, Savoldo e Moretto da Brescia), dai quali trasse l’attenzione al
fatto reale, quotidiano, e una religiosità schietta e priva di enfasi.
Degli anni successivi
al periodo di apprendistato sono riferite alcune opere: Bacco (Firenze, Uffizi), Fanciullo morso da un ramarro (Firenze, collezione R. Longhi), Buona ventura (Parigi, Louvre; Roma, Musei
capitolini), il Riposo nella fuga in Egitto e la Maddalena (Roma, Galleria Borghese).
Intorno al 1593
Caravaggio si trasferì a Roma, dove maturò e lavorò in aperta polemica con il
gusto manieristico ufficiale. Ai primi brani di realismo quotidiano, come il Bacchino malato (Roma, Galleria
Borghese), il più tardo I bari (Roma,
Galleria Sciarra) e il bellissimo Canestro
di frutta (Milano, Pinacoteca Ambrosiana), che apre un nuovo capitolo nella
storia della natura morta, succedono composizioni più complesse che culminano
nel ciclo per la cappella Contarelli in S. Luigi dei Francesi.
Nel 1595 firmò il
contratto per le tele in S. Luigi dei
Francesi a Roma (S. Matteo e l’angelo, Vocazione e Martirio di S. Matteo), che suscitarono scandalo per
l’ardita interpretazione realistica degli episodi religiosi, narrati con
drammatico linguaggio chiaroscurale. Così si configura il cosiddetto luminismo caravaggesco, basato sulla
funzione espressiva e strutturante del contrasto luce-ombra.
Forte ed essenziale
si presenta l’impianto dei dipinti per S.
Maria del Popolo, eseguiti tra il 1600 e il 1601: la Crocifissione di S. Pietro e la Conversione
di S. Paolo, che segnarono il culmine della sua maturità artistica.
Le ultime opere
romane, la Madonna di Loreto (Roma,
S. Agostino), la Madonna del serpe (1603-05,
Roma, Galleria Borghese), la Cena in
Emmaus (1605, Londra, National Gallery) e la Morte della Vergine (1605-06, Parigi, Louvre), furono aspramente
criticate per il crudo realismo, specie l’ultima, per la quale correva voce che
Caravaggio si fosse servito come modello del corpo di una mondana annegata nel
Tevere. Del resto egli fu spesso oggetto di critiche e ritenuto un contestatore
dell’ortodossia religiosa al punto che molte sue opere non furono accettate per
motivi di decoro, poiché vi erano rappresentate figure in atteggiamenti troppo
umili e spesso ritratte con mani e piedi sozzi.
Coinvolto nel 1606 in
una rissa mortale, ultima di una lunga serie di episodi di violenza dei quali
era stato protagonista, Caravaggio fu costretto a fuggire a Napoli. Le
opere qui realizzate, ovvero la Madonna
del Rosario (1606-07, Vienna, Kunsthistorisches Museum), le Sette opere della Misericordia (1607,
Napoli, Pio Monte della Misericordia) e la Flagellazione, mostrano
un ulteriore frantumarsi della luce e un accentuarsi del movimento delle
figure. Nella sua fuga, da Napoli passò a Malta e poi in Sicilia nel 1608.
Nelle ultime opere il suo estro divenne sempre più tragico, come testimoniano
il Seppellimento di S. Lucia (1608,
eseguito a Siracusa per l’omonima chiesa) e la Resurrezione di Lazzaro (1608 Messina, museo Nazionale).
2. Il Barocco – Il Barocco fu un movimento di vasta portata che investì i più svariati campi della cultura, dal teatro alla musica,
dalla poesia alla scienza, dalla pittura alla scultura all’architettura e la concezione stessa della vita. Iniziato
verso la fine del Cinquecento, sviluppatosi lungo il Seicento, ha avuto
diffusione, con esiti di diverso valore artistico, su un’area molto vasta, cioè
in quasi tutta l’Europa (soprattutto in Italia, Spagna, Francia e Inghilterra)
e, seguendo poi la penetrazione dei Gesuiti, toccò anche l’America
Latina in alcuni Paesi
dell’America Latina (Messico, Brasile).
Il Barocco divenne lo
stile artistico e architettonico proprio dell’epoca dell’Assolutismo e della
Chiesa della Controriforma. Le virtù ideali del Rinascimento (proporzione,
compostezza ecc.) furono stravolte da un’idea dell’arte che voleva persuadere,
emozionare e meravigliare il fedele. Così tra architettura, scultura e pittura
non esisteva più una stretta linea di demarcazione, poiché tutte e tre le
discipline concorrevano a dare una visione omogenea e spettacolare. Le
personalità più spiccatamente rappresentative di questo periodo furono Bernini,
Borromini e Pietro da Cortona (che operarono a Roma), cui fecero seguito altri
artisti italiani e stranieri, tra i quali Rubens e Rembrandt, quantunque né la
sua pittura né in generale la sua poetica siano classificabili come barocche in
senso stretto.
a) Origine e significato del termine - Il termine
Barocco deriva, secondo alcuni, dal vocabolo ispano-portoghese barroco, che
indica una perla di forma anomala; secondo altri da baroco, tipo di
sillogismo irregolare divenuto sinonimo di ragionamento stravagante. In
entrambi i casi la denominazione tende a mettere in evidenza il carattere di
diversità, di lontananza dalla regola, di rottura quindi coi moduli e i canoni
della tradizione, che è appunto la caratteristica fondamentale del Barocco.
Poiché, come abbiamo detto, il gusto e l’arte
barocca caratterizzano il secolo XVII, tale movimento fu chiamato anche, in
Italia, Secentismo, e, per la letteratura, Marinismo, dal nome
del suo più tipico esponente nella nostra letteratura, il poeta Gian Battista
Marino.
b) Il Barocco come espressione di una crisi
conoscitiva - Alla base della rottura coi modi e le forme
della tradizione, sta una crisi conoscitiva che si manifestò in quel periodo.
Le scoperte di Copernico, e, sulla sua scia, di Galileo, avevano ribaltato la
visione che l’uomo aveva di se stesso, della Terra e dell’Universo. La
constatazione che la Terra non stava ferma al centro del sistema solare, ma con
gli altri pianeti ruotava nello spazio intorno al sole, non era stata solo una
scoperta astronomica; essa aveva rappresentato il crollo di antiche certezze,
e soprattutto della certezza fondamentale che la scienza e la tradizione del
passato garantivano all’uomo: di essere il centro e il perno dell’Universo.
Ormai nulla appariva più fermo e sicuro; tutto era
messo o poteva essere messo in discussione; la realtà appariva diversa se
guardata da angolature differenti. Ne conseguiva per gli uomini del tempo,
stupiti e sconcertati, un senso diffuso di inquietudine e di instabilità.
L’arte, che esprime il senso che l’umanità ha del
proprio tempo, ovviamente non poteva più tradurre tale inquieta visione
attraverso le forme salde, armoniche, esatte, dell’arte rinascimentale; doveva
trovare nuovi modi espressivi che cercassero di esprimere i nuovi rapporti che
si stabilivano fra le cose, le nuove intraviste prospettive. Di qui, in
letteratura, il sostituirsi, al discorso disteso, organico, razionalmente
costruito, la ricerca invece dell’immagine fantasiosa, spesso bizzarra, che
suggerisce nuove dimensioni della realtà, intuite se anche non logicamente
chiarite. Da questa nuova coscienza deriva anche l’uso e l’abuso delle
analogie, cioè l’accostamento di cose lontanissime tra loro se i loro rapporti
vengono giudicati con criterio logico, ma nelle quali lo scrittore sembra
invece intuire un nesso che le accomuna, almeno se si guardano in prospettiva
diversa da quella consueta.
c) Lo «stupefacente» fine a se stesso – Peraltro questa
crisi conoscitiva, che costituisce l’elemento serio, addirittura drammatico,
dell’età del Barocco, non sempre sta alla base della produzione letteraria di
questo periodo.
Spesso gli scrittori barocchi sono soltanto dei
bizzarri ricercatori di immagini, dei creatori dì giochi formali fine a se
stessi, puro sfoggio di abilità tecnica che può sconfinare persine nel
grottesco. La «meraviglia» che essi dicono di voler suscitare nel lettore, non
è il riflesso dello stupore di fronte a una realtà che si trasforma, ma è la
sconcertante stupefazione che si prova di fronte ad abilissimi e complicati
fuochi d’artificio. Di tale tipo deteriore di Secentismo, che fu dominante
nella produzione letteraria italiana, sono testimonianza il passo del Marino
che qui riferiamo, e quello del padre Orchi, rispettivamente per la poesia e
per la prosa.
d) Il Barocco nelle arti figurative - Il Barocco segnò una
rottura con la tradizione anche nel campo delle arti figurative: in architettura,
dove, in antitesi con l’equilibrio dell’arte rinascimentale, si afferma la
linea curva, il gioco delle sporgenze e delle rientranze, il gusto coreografico
(grandi scalinate, sfondi di giardini e di fontane), gli effetti di chiaroscuro.
Lo stesso si dica per la pittura e la scultura,
nelle quali prevalgono le linee gonfie, sovraccariche, il movimento e la
tensione delle figure.
Le arti figurative inoltre si scambiano le tecniche
espressive: l’architettura sfrutta gli effetti del chiaroscuro, che è retaggio
tradizionale della pittura, si avvale del colore con l’alternanza di diversi
materiali (diversi marmi soprattutto); la pittura a sua volta da grande spazio
sulle tele a fastosi edifici, crea col colore effetti di altorilievo e di
basso-rilievo; nelle opere di scultura hanno gran parte il panneggio, le
pieghe, coi conseguenti giochi di luce.
Del resto anche in letteratura tendono a confluire
le tecniche di arti diverse, soprattutto della musica: il vocabolo e la frase
finiscono col non contare tanto per il loro significato, ma per la carica
musicale che contengono, e che crea nel lettore nuove suggestioni ed emozioni.
3. Torquato Tasso
– Torquato Tasso, è stato uno dei maggiori
poeti italiani del Cinquecento. La sua opera più importante e conosciuta è la Gerusalemme liberata del 1575, in cui vengono descritti gli
scontri tra cristiani e musulmani alla fine della Prima Crociata, durante
l’assedio di Gerusalemme.
a) La vita – Torquato
Tasso nacque a Sorrento nel 1544, da Bernardo, che discendeva da una nobile
famiglia bergamasca anch’egli apprezzato poeta e gentiluomo al servizio, come
segretario, del Ferrante Sanseverino, principe di Salerno e da Porzia de’ Rossi,
nobile napoletana.
Il piccolo Torquato iniziò gli studi a Salerno
quando i Tasso si trasferirono a Salerno, al seguito dei Sanseverino, vi fu una
sollevazione popolare contro il tentativo del viceré d’introdurre nella città
l’Inquisizione, Ferrante Sanseverino si schierò dalla parte del popolo e, con
lui, il padre di Torquato. Per ragioni di sicurezza il padre trasferì Torquato
a Napoli, mandandolo a scuola dai gesuiti. Ma gli eventi precipitarono e i
Sanseverino, con i loro fedeli, furono costretti ad abbandonare il regno,
trasferendosi a Ferrara, poi a Bergamo, in Francia e a Roma.
Ma nel 1554 fu chiamato a Roma dal padre, che aveva
seguito il principe Sanseverino nell’esilio quando questi, caduto in disgrazia
del Viceré, era stato bandito dal Regno nel 1550. La partenza per Roma e il
distacco dalla madre, che morì due anni dopo, forse assassinata da
suoi stessi fratelli per impossessarsi
delle sue proprietà,
senza che egli avesse potuto più rivederla fu per il ragazzo una lacerazione;
negli anni tardi egli l’avrebbe rievocata nella Canzone al Metauro come
la prima crudele piaga infertagli dalla sorte:
Me dal sen de la
madre empia fortuna pargoletto divelse...
ch’io non dovea
giugner più volto a volto
fra quelle
braccia accolto
con nodi così
stretti e sì tenaci.
Nel 1556 Tasso da Roma passò col padre ad Urbino,
presso la colta e signorile corte di Guidobaldo
II Della Rovere, dove fu educato secondo il modello del perfetto
cortigiano stabilito da Castiglione: culto delle lettere, della musica, delle
arti, esercizio delle virtù cavalleresche e dove Torquato divenne così compagno di studi del figlio del Duca.
Nel 1559, sempre col padre, a Venezia e poi a Padova
dove visse fino al 1565. Nel 1560-61 frequentò l’Università, seguendo gli studi
di legge, dove si dedicò agli studi di
filosofia ed approfondì la conoscenza dei classici, con una breve
interruzione bolognese, dove fu coinvolto in una vicenda goliardica, con
strascichi giudiziari, per aver scritto versi satirici che alludevano ai bassi
natali e all’effeminatezza di alcuni studenti e professori, e fu costretto a
lasciare in fretta e furia la città. Al
soggiorno padovano risalgono le prime liriche, composte per amore di Lucrezia
Bendiddio e, in seguito per la mantovana Laura Peperara nel 1564. Tali amori
seppero ispirare al giovane poeta alcune liriche che sono tra le più delicate e
melodiose del tempo.
Nel 1562 Tasso pubblicò il Rinaldo, dedicandolo al cardinale Luigi d’Este.
Nel 1565 anche in virtù della fama poetica che già
cominciava a conquistarsi, Tasso fu invitato a Ferrara presso la Corte Estense,
prima al servizio del cardinal Luigi d’Este, poi del duca Alfonso II.
I dieci anni che seguirono, dal 1565 al 1575 furono
i più felici – e forse gli unici felici – dell’esistenza di Tasso.
Tra il 1570 ed il 1571 Tasso
accompagnò il cardinale in Francia, ma qui il suo soggiorno non fu sereno ed il
poeta rientrò in Italia appena gli fu possibile.
Dal 1572 entrò a far parte, come cortigiano
stipendiato, del seguito del duca estense Alfonso II con il titolo di gentiluomo e nel 1576 poi con la carica di storiografo
di corte: compose poesie per feste e matrimoni, madrigali che rendevano
omaggio a dame e personaggi di corte, ottenne un sempre più ampio
riconoscimento delle sue qualità di letterato e intellettuale e fu nominato
socio dell’Accademia ferrarese.
Nel 1573 compose la favola pastorale Aminta.
La vita di Corte non era per lui una tollerata
necessità come per Ariosto, ma rappresentava la forma ideale di esistenza, fra
mondanità eleganti, incontri culturali, gratificanti affermazioni personali.
Ammirato e invidiato dagli altri cortigiani, corteggiato dalle dame, libero da
preoccupazioni economiche, diede in questo periodo il meglio di sé anche come
poeta, come testimoniano le sue opere di questi anni, cioè l’Aminta e La Gerusalemme
liberata.
Col 1575 ebbe inizio la fase discendente della vita
del Tasso. Dopo aver portato a termine il Goffredo, iniziato
nell’adolescenza e la cui originaria
ispirazione risaliva alla fanciullezza allorché più volte Torquato Tasso fu condotto
alla Badia di Cava, il monastero dei Benedettini di Cava de’ Tirreni, dove si
trova la tomba di Urbano II, il predicatore della prima Crociata, ed ebbe modo
di ascoltare dai monaci il racconto delle imprese dei Crociati.
Il poema diventò famoso col titolo di Gerusalemme liberata e, prima di pubblicarlo, Tasso volle
sottoporla al giudizio di cinque revisori dai quali si aspettava riconoscimenti
e lodi, e che invece, condizionati dalle teorie estetiche imperanti e da gretto
moralismo, mossero al poema numerose riserve di natura estetica e
religioso-morale. Ne derivarono a Tasso indebolito, spossato e già prostrato
dalla fatica della composizione, uno scontento e un’inquietudine che si trasformarono
presto in grave esaurimento nervoso. Assalito da forti febbri, Tasso cominciò a
manifestare i primi sintomi dello squilibrio interiore che lo tormentò fino
alla morte. Cominciò ad essere turbato da scrupoli religiosi pertanto decise di
rivedere la stesura di tutta l’opera e nel 1577 chiese addirittura di essere
esaminato dall’Inquisitore di Ferrara, per dissipare ogni dubbio
sull’ortodossia cattolica del suo pensiero. Fu assolto, ma non sentendosi
ancora soddisfatto, decise di recarsi presso gli inquisitori di Roma e di
denunciare addirittura le tendenze filocalviniste di alcuni Estensi. Il duca
Alfonso II, temendo che il papato potesse approfittarne per occupare la
signoria, lo fece vigilare. Cominciò inoltre a manifestarsi in lui una grave
mania di persecuzione che lo portò anche a gesti violenti. Un giorno, sentendosi
spiato da un servo mentre conversava con la sorella del duca, gli lanciò contro
un coltello ferendolo: per questo motivo Tasso fu rinchiuso, come malato di
mente, in una stanza del palazzo e poi liberato. Dopo altre manifestazioni di
follia, è rinchiuso in un monastero, da dove, però riesce a evadere
rifugiandosi presso la sorella, a Sorrento. Dopo qualche tempo riprende la vita
errabonda e avventurosa, recandosi a Mantova, Padova, Venezia, Urbino, Torino.
Nel 1579, vinto dalla nostalgia per la sua città,
chiese il perdono del duca e fece ritorno a Ferrara, che, nella lontananza,
gli appariva pur sempre come un Eden perduto. Vi giunse però in un momento
inopportuno, mentre la Corte era impegnata nei preparativi delle nozze del
duca Alfonso II con Margherita Gonzaga. Non riuscendo a farsi accordare
udienza, Tasso ebbe l’impressione che poco si curassero di lui, e diede in
escandescenze contro il Duca. Questa volta fu rinchiuso come pazzo
nell’Ospedale di Sant’Anna, dove rimase dal 1579 al 1586, in una relegazione
che, durissima all’inizio, fu in seguito mitigata. Del resto egli stesso
alternava periodi turbati e tormentati da allucinazioni a periodi
assolutamente lucidi in cui si dedicava al suo lavoro letterario e poetico. Il reale motivo per cui il duca Alfonso tenne
a lungo rinchiuso l’infermo va cercato nel timore che il Tasso, con i suoi
dubbi religiosi, con l’ossessione eretica,
che lo aveva spinto ad accusarsi di eresia presso il tribunale
dell’Inquisizione, potesse recare danno politico alla Casa d’Este, già guardata
con sospetto dalla Curia Romana, dopo la conversione al calvinismo della
principessa Renata di Francia, figlia di Luigi XII e sposa di Ercole II d’Este.
Durante questi anni continuò a soffrire di allucinazioni e di manie di
persecuzione, ma scrisse anche molte lettere a illustri personaggi (soprattutto
per ottenere la libertà), molte poesie, i Dialoghi
filosofici, nei quali parla della sua sottomissione alle verità della
religione, e della sua concezione della politica, arte, letteratura, amore,
bellezza ecc., risentendo molto della filosofia platonica.
Nel 1580, mentre era ancora in carcere, alcuni
disonesti editori pubblicarono a sua insaputa la Gerusalemme: Tasso, per il
quale il poema non corrispondeva più ai suoi criteri, ne fu molto addolorato.
Tuttavia, quella pubblicazione determinò un acceso dibattito sul valore
dell’opera, soprattutto perché era messa a confronto con l’Orlando furioso di Ariosto. I suoi sostenitori
proclamarono che solo Tasso, fedele alle leggi aristoteliche, aveva saputo dare
il poema epico all’Italia; i denigratori invece lo accusavano di avere usato
delle impurità dialettali e
straniere, venendo così meno alla superiorità della lingua toscana. Tasso
stesso entrò nel dibattito pubblicando un’Apologia della Gerusalemme.
Nel 1586 Tasso ottenne la libertà per intercessione
dei principi Gonzaga di Mantova, che lo vollero presso la loro corte dove
compone la tragedia Torrismondo.
Tuttavia, dopo un anno di sereno e operoso soggiorno a Mantova, alla notizia che
per l’incoronazione di Vincenzo Gonzaga sarebbero giunti a Mantova Alfonso e
Margherita d’Este, fu ripreso di nuovo dall’inquietudine, fuggì da Mantova e
ricominciò a spostarsi di città in città: fu a Loreto, dove sciolse un voto,
Roma, a Napoli dove cercò di recuperare la dote materna, a Firenze dove
ricevette grandi onori dai Medici di nuovo brevemente a Mantova; ma più a lungo
soggiornò a Roma, dove ebbe la protezione di due nipoti del papa Clemente VIII
Aldobrandini e dove il papa stesso gli promise una pensione vitalizia e un
solenne riconoscimento del suo valore letterario: l’incoronazione in
Campidoglio di poeta laureato.
Conclusa la nuova redazione del poema, che intitolò Gerusalemme conquistata, pubblicata nel 1593, freddo rifacimento della Liberata, obbediente a
tutti i dogmi religiosi e letterari, morì a Roma nel 1595, alla vigilia
dell’incoronazione poetica in Campidoglio, che gli era stata decretata in
riconoscimento dei suoi meriti di scrittore.
b) Le opere – Precoce fu
l’attività poetica del Tasso.
Già al soggiorno urbinate risale la composizione di
alcune liriche; e liriche egli continuò poi a comporre per tutto l’arco della
vita. Il vasto corpus delle Rime tassesche (più di 1300)
comprende componimenti di diverso argomento (d’amore, religiose, di elogio
cortigiano) e di diverso valore: sempre dotate di indiscutibile decoro
letterario, esse peccano a volte, specie le encomiastiche, di convenzionalità;
ma a volte, soprattutto le amorose e in particolare i madrigali, raggiungono
la più alta poesia.
Nel periodo padovano compose il Rinaldo, poema
cavalleresco di imitazione ariostesca, che rivela nel giovane poeta facile
vena; e a questi stessi anni risale il primo abbozzo di un poema epico sulla
Crociata, il Gierusalemme, che sarebbe poi diventato la Gerusalemme
liberata.
Agli anni felici del primo soggiorno ferrarese
appartengono i due capolavori di Tasso:
l’Aminta, dramma pastorale composto per il teatro dì Corte e
rappresentato nel 1573, nel quale si rivela l’alta maturità artistica da lui
ormai raggiunta; e la sua opera maggiore, La Gerusalemme liberata, conclusa
nel 1575, poema epico-religioso in venti canti in ottave che ha per argomento
la prima crociata guidata da Goffredo di Buglione e predicata da Pietro
l’Eremita, e la liberazione del Santo Sepolcro dagli infedeli.
Si conclude a questo punto il momento alto della
produzione poetica tassiana. Le opere successive, anche se non prive a tratti
di lampi di poesia, riflettono anche artisticamente la parabola discendente
dell’esistenza del poeta. Fra esse, assai numerose, ricordiamo: La
Gerusalemme Conquistata, infelice rifacimento della Liberata, frutto
di scrupoli estetici e religiosi; un poema sulla creazione del mondo, Il mondo creato, e una cupa
tragedia di argomento nordico, Il re Torrismondo.
Accanto alla produzione tassiana in versi va
ricordata la sua vastissima produzione in prosa: le opere di riflessione
estetica sul poema eroico (i Discorsi dell’arte poetica e i Discorsi
del poema eroico), i Dialoghi, composti nella prigionia di
Sant’Anna, di argomento prevalentemente filosofico; e il vastissimo
epistolario, che è documento della travagliata esistenza del poeta.
c) Torquato Tasso, voce poetica fra Rinascimento
e Controriforma - Nella seconda metà del Cinquecento
cominciano a rivelarsi alcune incrinature in quella fiducia assoluta
nell’uomo, nelle sue capacità e nei valori terreni, che era stata la
connotazione fondamentale del trionfante Rinascimento, e che aveva trovato
l’espressione più matura nel pensiero del Machiavelli e nella poesia di
Ariosto.
È un mutato stato d’animo cui ha concorso non poco
la situazione politica italiana, dove le speranze machiavelliane di dar vita a
un forte stato autonomo sono del tutto fallite, e dove è ormai in atto il lento
declino sotto le dominazioni straniere.
In questo periodo si va sottilmente insinuando nelle
coscienze il dubbio inquietante che non tutto all’uomo, neppure all’uomo
eccezionalmente dotato, sia possibile; e che egli debba fare i conti con forze
ostili che incombono su di lui, assai più oscure e misteriose della
machiavelliana «fortuna», e perciò ben più difficili da affrontare. È questo
uno stato psicologico che apre naturalmente la via alla dimensione religiosa, e
che perciò costituisce il terreno propizio all’affermarsi della Controriforma e
alla rinnovata religiosità che essa si propone di instaurare: una religiosità
peraltro spesso imposta dall’esterno con strumenti di pressione (il Tribunale
dell’Inquisizione), generatori, negli spiriti più sensibili o più deboli, di
sconcerto e di turbamento. Di questo periodo, in cui il Rinascimento ormai al
tramonto e i suoi valori terreni non del tutto spenti si scontrano, spesso
dolorosamente, con una rivalutazione dei valori religiosi, e quindi con
un’antitetica concezione della vita, Torquato Tasso rappresenta la voce poetica
più alta e drammatica.
d) La parabola tassiana dal «Rinaldo» alla
«Liberata» - Le opere maggiori che precedono la Liberata,
e cioè il Rinaldo e l’Aminta, sono ancora immerse nello
spirito rinascimentale. Il protagonista del poema omonimo, il paladino
Rinaldo, è tutto proteso, senza incertezze né inquietudini, verso i doni che la
vita offre alla sua giovinezza, l’amore e la gloria, e che egli vuole afferrare
a piene mani.
La stessa tensione verso i valori terreni alimenta
l’altra, e ben più alta, prova poetica, l’Aminta. È una favola pastorale
in cui l’amore è presentato nei suoi molteplici aspetti e goduto in totale
libertà di spirito. Esso è sentito come una forza vitale, e come tale positiva,
della natura. Nel bellissimo coro che conclude il primo atto è esaltata la mitica
età dell’oro non già perché in essa, come raccontavano le antiche favole, gli
alberi stillassero miele e nei fiumi scorresse latte, ma perché l’«amore», cioè
il libero dispiegarsi degli istinti, non veniva contrastato dall’«onore», cioè
dalla legge morale. Questa antitesi fra «amore» e «onore», cioè fra le umane
passioni e il dovere e i condizionamenti etici, è invece tema fondamentale e
struggente nella Liberata, opera in cui è già ben presente la dimensione
religioso-controriformistica. Nel poema il «dovere» si configura concretamente
nella lotta contro gli infedeli, e si contrappone alle terrene passioni dei
crociati, siano esse la brama di personali conquiste e domini, o, assai più
frequentemente, la passione amorosa. Ne nascono situazioni di alta drammaticità
psicologica che si risolve in complessità e intensità poetica.
e) I temi della «Liberata» - Il poema inizia
narrando che al sesto anno di guerra dato che i principi si sono dimenticati
del sacro obiettivo da raggiungere Dio manda l’arcangelo Gabriele da Goffredo
(unico rimasto fedele) per rimettere in sesto un esercito con scopi più elevati
cosi abbiamo i primi scontri dei crociati sotto le mura di Gerusalemme. Ma
Satana contrasta i crociati attraverso i suoi demoni e la maga Armida, talmente
bella che parecchi soldati la seguono e sono imprigionati nel suo castello. Poi
abbiamo Argante che vuole porre fine all’assedio e così decide di sfidare
Tancredi, iniziano a duellare ma il duello è interrotto per il calar della sera
e qui Erminia travestendosi da Clorinda prova a raggiungere la tenda di
Tancredi ma scoperta dai cristiani fugge cosi il giorno seguente Tancredi cerca
di raggiungerla (pensando che fosse Clorinda la sua amata) ma viene
imprigionato da Armida. dopo altri episodi dove abbiamo l’intervento di angeli
e demoni la battaglia viene nuovamente interrotta. Al calar delle tenebre la
vera Clorinda (amata di Tancredi) viene uccisa in duello da Tancredi che non la
riconosce e cosi inizia la sua disperazione che lo conduce quasi alla morte ma
lo salva la stessa Clorinda che gli appare in un sogno dopo altre peripezie dio
capisce che è ora di porre fine alla guerra cosi manda a ripescare Rinaldo
anch’egli prigioniero di Armida (innamorata ormai di Rinaldo) cosi poi comincia
nuovamente l’assalto definitivo a Gerusalemme e termina con la morte del capo
dell’esercito egiziano da parte di Goffredo.
f) La componente eroico-religiosa - Tema della Gerusalemme
liberata è la prima Crociata, che, nella realtà storica, durò dal 1096 al
1099, ma che il Tasso, con dilatazione enfatizzante, immagina che sia durata
per ben sei anni. A somiglianza dell’Iliade, in cui la guerra di Troia è
descritta nella sua ultima fase, cioè nei decisivi quaranta giorni finali,
così nella Liberata sono rappresentate le vicende degli ultimi tre mesi,
cui le precedenti fanno da sfondo e da supporto: esse si concludono con la
sconfitta degli Infedeli, la caduta di Gerusalemme, e la liberazione del Santo
Sepolcro.L’argomento è dunque eroico-guerresco, quale si conveniva a un poema
epico, genere nel quale il Tasso ambiva di affermarsi e di acquistare gloria.
Ma la novità tassiana nei confronti della tradizione epica precedente è
costituita dalla componente religiosa, che rifletteva le aspirazioni e gli
ideali dell’età della Controriforma, nonché la diffusa sensibilità del tempo.
A questo si
aggiunga lo stimolo che veniva a Tasso da una precisa situazione storica
contemporanea che ridava attualità al mondo delle Crociate: il rinnovarsi cioè
di una minaccia turca sull’Europa, minaccia con Titro la quale Venezia
rappresentava un baluardo (e il primo progetto del poema nacque, come
sappiamo, a Venezia); e, dopo la battaglia di Lepanto del 1571, l’orgoglio
della cristianità per la vittoria riportata dalla «lega santa» sui Turchi.
Nel poema tassesco la guerra che i Crociati devono
combattere non è soltanto contro le forze del re di Gerusalemme, Aladino, ma
anche contro i forti alleati di costui, il re d’Egitto e il sultano turco
Solimano.
In campo e nell’altro spiccano individualisticamente
prodi personalità guerriere, e alla lotta partecipano anche forze
soprannaturali: celesti, diaboliche, magiche.
g) Gli «amori» e gli «incanti» - Se la
componente epico-religiosa costituisce la struttura portante della Liberata,
non è in tale dimensione che sono rinvenibili i suoi momenti poeticamente
più alti e intensi; ma vanno piuttosto ricercati negli episodi amorosi e di
suggestione magica che si innestano sul filone eroico e religioso, e con esso
strettamente si intrecciano.
Tasso stesso ne
aveva coscienza, tanto che difese strenuamente questi, che egli chiama «gli
amori» e «gli incanti», contro i revisori, che li consideravano disdicevoli a
un poema cristiano e li volevano da esso espunti.
L’amore è presente nella Liberata nella vasta
gamma delle sue manifestazioni, dall’amore sentimentale a quello sensuale, e
tocca tanto gli eroi cristiani che quelli pagani.
Ma sono ormai lontani gli amori felici del Rinaldo
e dell’Aminta. Gli
amori della Liberata hanno per denominatore comune il fallimento e
l’infelicità, o perché contrastati – come già abbiamo visto – dal «dovere», o
perché avversati dalla sorte, o semplicemente perché non ricambiati. Così il
cristiano Tancredi ama la pagana Clorinda che neppure si accorge di lui, e la
sorte si accanisce tanto che, non riconoscendola sotto l’armatura, l’uccide di
sua mano in combattimento; la pagana Erminia ama, non riamata, Tancredi; il
cristiano Rinaldo è conquistato dal fascino della pagana e maga Armida, ma deve
abbandonarla per riprendere il suo posto nelle file crociate, ecc. È una specie
di vana corsa verso la felicità che umanizza e conferisce poesia ai personaggi
che ne sono coinvolti, ma che crea intorno a loro un dolente senso di
sconfitta. Quanto agli «incanti», il Tasso indica con questo nome l’elemento
magico che non solo era congeniale al gusto del tempo, ma che egli considerava
essenziale per ottenere quel «meraviglioso» che giudicava ingrediente
irrinunciabile del poema eroico. Sono presenti nel poema le varie forme di
magia: la «magia naturale» o magia volta a buon fine, come quella del mago
d’Ascalona che concorre a sottrarre Rinaldo all’amore di Armida; la «magia
nera» o magia diabolica a fine perverso, utilizzata, ad esempio, dal mago
Ismeno che incanta la selva di Saron così che i Cristiani non possono più trame
legna per le loro macchine da guerra. A volte la «magia nera» prende bellissime
e seducenti fattezze femminili; ed è il caso della maga Armida, che col suo
fascino sottrae Rinaldo al combattimento; o prende l’aspetto selvaggio della
Furia Aletto, che scatena al combattimento e spinge al suo destino di morte il
solitario e prode eroe Solimano.
Permeati di influenze magiche sono taluni paesaggi, come
la selva di Saron su cui il mago Ismeno ha sparso la sua funesta incantagione;
e dalla natura stessa di altri sembrano emanare suggestioni stregate e
magiche, come dalla landa maledetta, sede un tempo di Sodoma e Gomorra, ora
occupata dalle acque bituminose e graveolenti del Mar Morto.
4. Galileo
Galilei – Galileo
Galilei è con Newton, Francesco Bacone e Cartesio uno dei grandi promotori
della rivoluzione scientifica del ‘600. Matematico, fisico e astronomo, la sua
figura ha avuto anche una grande rilevanza filosofica.
a) La vita – Nacque a Pisa nel
1564 e compì gli studi a Pisa e a Firenze. Fin dal 1583 aveva scoperto le leggi
dell’isocronismo del pendolo. Dal 1589 al 1592 insegnò matematica nello Studio
pisano; sono di questo periodo le sue esperienze sulla caduta dei gravi. Dal
1592 al 1610 insegnò presso l’Università di Padova; negli ultimi due anni del
soggiorno padovano, perfezionando un’invenzione venutagli dall’Olanda, costruì
il telescopio, che gli consentì importanti osservazioni astronomiche per le
quali fu spesso in urto con il conservatore e aristotelico ambiente accademico
padovano. Individuò in questi anni la costituzione della Via Lattea e scoprì
quattro satelliti di Giove. Nel 1610 tornò ad insegnare in Toscana, presso il
Granduca. Nel frattempo la sua adesione alle teorie del polacco Copernico
(1473-1543), secondo le quali la terra non sta immobile al centro
dell’Universo, ma ruota intorno al sole, che è il centro immobile del sistema
solare, gli sollevarono contro le diffidenze e poi la condanna dal Santo
Uffizio, cui pareva che la teoria copernicana contraddicesse alle Sacre
Scritture.
Chiamato
a Roma e sottoposto a processo, per non essere condannato a morte come eretico
dovette abiurare le sue teorie (22 giugno 1633). Morì ad Arcetri, presso
Firenze, dove, per ordine del Sant’Uffizio, era tenuto in controllata
segregazione.
b) Le opere - Fra le sue
opere ricordiamo il Saggiatore (1623), opuscolo polemico sulle comete
scritto contro il padre gesuita Orazio Grassi; il Dialogo dei massimi
sistemi (1632) in cui Galileo lascia chiaramente intendere la sua adesione
al sistema copernicano; il Dialogo delle nuove scienze (1638).
Importantissime sono poi la Lettera a don Benedetto Castelli (1613) e la
Lettera alla granduchessa Cristina di Lorena (1615) in cui Galileo
chiarisce il suo principio dell’autonomia reciproca dei Libri Sacri e della
ricerca scientifica.
c) Dialogo sui
due massimi sistemi del mondo – Eccezionale diffusione ha avuto, tra i suoi
scritti, il Dialogo sopra i due massimi
sistemi del mondo.
Nel 1623 Maffeo Barberini, che era considerato un
patrono di artisti e scienziati, divenne Papa Urbano VIII. Galileo cercò di
riproporre la questione copernicana, ed ottenne dal Papa il permesso di
scrivere un dialogo, nel quale esporre i principi della teoria, senza però
arrivare ad una conclusione sulla sua validità, bensì trattandola come una
semplice ipotesi matematica.
Galileo lavorò al Dialogo fino al 1630.
Il testo è diviso in quattro giornate, durante le
quali il copernicano Salviati (che rappresenta lo stesso Galileo) e
l’aristotelico Simplicio si confrontano esponendo le due teorie; un terzo
personaggio, Sagredo, interviene spesso nel dialogo tra i due, a favore di
Salviati.
Durante le prime
tre giornate, i tre prendono in considerazione il moto terrestre e alcuni
fenomeni celesti che sembrerebbero invalidare la cosmologia aristotelica.
La quarta
giornata è dedicata invece all’analisi del fenomeno che più degli altri
convinse Galileo della validità della teoria copernicana, cioè quello delle maree. Egli spiegava il fenomeno in maniera errata,
semplicemente come la combinazione del moto annuale di rivoluzione terrestre
con quello diurno di rotazione; non prese invece in considerazione l’attrazione
gravitazionale della Luna.
Nel Dialogo sono presentate alcune
conclusioni a favore della teoria copernicana. Quando Galileo sottopose l’opera
al giudizio della Chiesa, Papa Urbano VIII gliene impedì la diffusione e
segnalò la questione al Tribunale dell’Inquisizione. Le autorità ecclesiastiche
erano però disposte ad ammettere il sistema copernicano solo come ipotesi di
calcolo e reagirono ai suoi tentativi dapprima ammonendolo nel 1616 e poi
processandolo, condannandolo definitivamente ed infine costringendolo
all’abiura nel 1632.
La fama di
Galileo tra i suoi contemporanei viene dalle sue osservazioni astronomiche, che
impiegarono una versione perfezionata del telescopio, già noto da alcuni anni,
e mettono in discussione alcuni punti fermi della cosmologia aristotelica. Già
da tempo convinto copernicano, Galileo sostiene la superiorità del sistema
eliocentrico con varie argomentazioni. Fondamentale a questo proposito è
l’elaborazione del principio d’inerzia (per cui un oggetto in moto non
sottoposto a forze esterne continua a muoversi con velocità costante), grazie
al quale Galileo riesce a vanificare quasi tutte le obiezioni di tipo fisico
che da secoli venivano sollevate contro l’idea di una Terra in movimento.
L’idea di movimento inerziale, movimento privo di cause, rappresenta una
rottura di enorme portata rispetto al pensiero precedente, non solo per le sue
implicazioni a favore delle teorie copernicane, ma anche perché inaugura una
nuova forma di rapporto conoscitivo tra il soggetto e l’esperienza: il
principio non trae la sua validità dall’esperienza comune, quotidiana, ma
richiede uno sforzo di astrazione che liberi l’esperienza da tutti i fattori
perturbatori (in primo luogo l’attrito) che impediscono al principio di
manifestarsi in tutta la sua purezza.
Il principio
d’inerzia costituisce il primo principio della scienza moderna, fondando la
dinamica. Galileo contribuisce all’edificazione della dinamica anche con le sue
ricerche sulla caduta dei gravi, con cui inaugura il moderno approccio
sperimentale. Per Galileo l’esperimento assume forme artificiali precise e
determinate, che permettono un controllo numerico di ipotesi quantitative,
consente la misurazione dei fenomeni: è la via con cui l’esperienza può essere
matematizzata. L’esperimento ha anche la funzione di portare alla luce
comportamenti naturali che altrimenti rimarrebbero nascosti, occultati dalla
complessità dei fenomeni perturbatori sempre presenti nell’esperienza
quotidiana.
Galileo è
convinto che il copernicanesimo sia compatibile con le Sacre Scritture, purché
queste siano interpretate allegoricamente, e tenta di far accettare questa
posizione alla Chiesa.
d) Il metodo sperimentale e la
lotta contro il principio di autorità - Galileo, che si
colloca nella scia di Leonardo da Vinci, è l’instauratore deciso ed organico
del metodo sperimentale. Egli sostiene infatti che l’unico metodo valido di
conoscenza scientifica è quello che parte dall’esperienza, cioè dalla analisi
diretta dei fenomeni, e di lì induttivamente perviene alla formulazione delle
leggi scientifiche.
Tale metodo
sperimentale-induttivo si contrapponeva a quello deduttivo allora in auge, che,
partendo da un principio generale non conquistato sperimentalmente ma affermato
per autorità (era la «grande bugia» cui alludeva Leonardo) perveniva alle
applicazioni particolari di tale principio.
Contro il
principio di autorità Galileo combatte per tutta la sua vita di studioso. Esso
gli si presentava in due forme: l’autorità di Aristotele (l’ipse dixit), e
l’autorità dei Libri Sacri, cioè della Bibbia.
Negli anni in
cui Galileo maturava il suo pensiero e compiva le sue ricerche rivoluzionarie,
la cultura ufficiale italiana resisteva impavida sulle vecchie posizioni che
mettevano capo all’ipse dixit di Aristotele. Si narrava l’episodio di
quell’insegnante dell’Università di Padova, culla dell’aristotelismo, che,
invitato da Galileo a guardare le macchie solari attraverso il telescopio, si
rifiutava di farlo dicendo che non ci potevano essere macchie solari perché
Aristotele non aveva detto che c’erano. Gli aristotelici di stretta osservanza
fecero presto muro contro Galileo, e concorsero non poco alla sua rovina.
Ma l’«autorità»
più dura da combattere, e con cui Galileo dovette duramente scontrarsi fu
quella della Bibbia.
La Chiesa
rifiutava di considerare come valide, e considerava anzi ereticali, le conclusioni
scientifiche che si scostassero da affermazioni contenute nei testi sacri. E le
conclusioni della Chiesa erano affiancate, in campo operativo, dal Tribunale
dell’Inquisizione, le cui sentenze potevano portare all’imprigionamento, e
magari alla morte sul rogo, del dissenziente.
Nel caso
specifico di Galileo la Chiesa considerava eretica la teoria eliocentrica (élios
= sole) del polacco Copernico (sistema copernicano), teoria cui
Galileo aveva aderito, secondo la quale la Terra è uno dei tanti pianeti che
ruotano intorno al sole, che sta immobile al centro dell’universo. Tale teoria
era in antitesi con la tradizionale concezione geocentrica (gè = terra)
sostenuta dall’astronomo greco Tolomeo del II secolo dopo Cristo, che voleva la
Terra ferma al centro dell’universo, quasi perno di esso, mentre il sole le
ruotava intorno illuminandola (sistema tolemaico). La Chiesa ufficiale
giudicava che solo la concezione tolemaica sì accordasse ai testi sacri (si citava
l’episodio di Giosuè che fermò il sole, il che implicava il muoversi del sole
stesso); e inoltre sembrava che la concezione eliocentrica spodestasse il
nostro pianeta da quella posizione di privilegio per cui Dio vi sarebbe sceso
facendosi uomo per salvarne gli abitatori.
Galileo, che si
proclamò sempre cattolico, ribattè a queste accuse fra l’altro nella Lettera
alla granduchessa di Toscana, Cristina di Lorena. In essa sosteneva
l’autonomia della scienza dai Libri Sacri. Nella sua lucida esposizione il
Galilei vi affermava che Dio si è manifestato agli uomini per due vie: i testi
sacri e il libro della natura. Nei testi sacri stanno scritte verità eterne
religiose e morali, non già scientifiche; anzi il linguaggio scientifico della
Bibbia è volutamente adeguato alle cognizioni scientifiche degli uomini di
quelle lontane età. Le verità scientifiche stanno invece scritte nel libro
della natura, dove spetta agli uomini di ricercarle, portarle alla luce, ed
esporle infine, traducendole in formule matematiche.
e) La
lingua e il dialogo galileiani - Dopo le prime pubblicazioni
in latino, che era ancora la lingua ufficiale della scienza, Galileo usa
stabilmente il volgare, la lingua attuale che sentiva adeguata alla novità del
suo pensiero. L’italiano di Galileo è una lingua di un’eleganza non studiata,
essenziale, esatta a tratti mossa dall’emozione del ricercatore che tende alla
verità e la vede rivelarglisi.
La forma dei suoi scritti è prevalentemente
dialogica. Non si tratta però come nella maggior parte dei trattati del
Cinquecento in forma dialogica, di un dialogo formale, strumento per esprimere
dottrine già acquisite, ma di un dialogo che traduce lo scontro appassionato di
idee nel loro definirsi. Perciò anche i personaggi interlocutori hanno una loro
fisionomia e un loro rilievo psicologico.
5.
Giambattista Marino – Il napoletano Giambattista Marino è
lo scrittore più significativo del nostro Seicento e rappresentò un modello
imitato dagli scrittori dell’epoca in tutta Europa.
a)
La vita – Giambattista Marino nacque a Napoli il
14 ottobre 1569. Costretto dal padre giurista agli studi di legge fu spinto ad
andarsene di casa per il suo comportamento provocatorio e insubordinato. Nel
1596, entrato in contatto con gli ambienti letterari della città, diventò
segretario di Matteo di Capua, principe di Conca.
Nel 1598 fu
incarcerato per avere sedotto la figlia di un facoltoso mercante, morta di
aborto.
Nel 1559 fu
incarcerato una seconda volta per avere tentato di salvare dalla pena capitale
un amico facendolo passare per chierico con bolle vescovili falsificate.
Fuggito a Roma, entrò al servizio di Melchiorre Crescenzio, chierico di camera
di papa Clemente VIII, partecipando alla vita letteraria della città.
Dopo un
soggiorno veneziano (tra il 1602 e il 1603), fu accolto nel 1604 al servizio
del cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, che seguì nel 1606
nella sede vescovile di Ravenna e nel 1608 a Torino. Qui, alla corte di Carlo
Emanuele I di Savoia, ottenne i primi grandi riconoscimenti. Nel 1611 entrò in
conflitto con il poeta Gaspare Murtola, che arrivò a sparargli nella pubblica
via. Marino rimase illeso, ma un giovane fu ferito al suo posto. Murtola
dovette pagare con l’arresto e l’allontanamento dal Piemonte, ma lo stesso Marino,
per ragioni non ben chiarite, riprovò l’onta del carcere, da cui uscì solo nel
giugno del 1612.
Nel 1615 Maria
de’ Medici, la vedova di Enrico IV, lo invitò alla corte di Francia, dove, tra
gli onori e gli agi, Marino riordinò e concluse la sua produzione poetica.
Nel 1623,
ammalato e stanco della vita di corte, tornò a Roma, dove fu accolto
trionfalmente ed eletto Principe dell’Accademia degli Umoristi. Nel 1624 si
trasferì a Napoli, dove morì il 25 marzo 1625.
b)
Le opere - Marino fu poeta versatile e prolifico.
Egli deve la sua fama soprattutto all’Adone
edito a Parigi nel 1623. Le opere minori sono ordinate nelle seguenti raccolte:
La lira; gli Epitalami (1616), componimenti per le nozze di illustri
personaggi di corte; La Murtoleide,
81 sonetti contro Murtola (1619); La
galeria (1619), descrizioni in versi di opere d’arte reali o immaginarie; La sampogna (1620), serie di idilli e di
favole pastorali; La strage de
gl’Innocenti (1632, postumo), poemetto in ottave sulla storia evangelica.
Notevoli per
valore documentario sono le Lettere,
che costituiscono anche sul piano artistico un eccellente esempio di prosa
secentesca.
c)
L’ Adone – Il capolavoro di
Marino fu l’Adone. Esso fu terminato
e stampato a Parigi nel 1623. Già pensato negli anni romani, questo poema si
dilatò dal nucleo originario di tre canti alla forma definitiva di 24, per un
totale di oltre 40 mila versi in ottave.
L’argomento[[1]]
è tratto dalla favola mitologica di Venere che si innamora di Adone, provocando
l’ira e la vendetta di Marte. In questa trama esile, Marino innesta una
lussureggiante fantasia, una serie di episodi e digressioni, come la
descrizione del giardino del piacere, la gara tra il musico e l’usignolo, la
tragedia di Atteone ecc., derivando spunti dagli autori antichi: Ovidio,
Apuleio, Claudiano.
Manca unità
d’azione: ma proprio questa è la novità della tecnica di Marino. In essa si
mettono in discussione i fondamenti del poema classicista: la narrazione si
svolge per successive stratificazioni, con passaggi arditi e inattesi, senza
nesso logico, con l’appoggio di un tessuto verbale prezioso, fitto di metafore,
iperboli, antitesi, con effetti di pianissimo
e di sonorità acuta.
Il poema diventa
così una fabbrica di meraviglie,
volta a produrre continua sorpresa nel lettore. La poesia è intesa come viaggio
nell’imprevedibile. Un virtuosismo tecnico-stilistico che ad un lettore odierno
risulta noioso; i momenti più interessanti sono quelli in cui la sensualità di
Marino diventa capacità di auscultare e riprodurre voci insolite e segrete
della natura, e quando il suo stile raggiunge astratte perfezioni di ritmo e
gioco formale.
d)
La poetica - La poesia di
Marino è tutta impostata sul principio della «meraviglia», pur attuando una
medietà stilistica che rifugge dai concettismi più arditi e dalle provocazioni
più astruse che saranno invece proprie di certi suoi emulatori.
Marino non è
poeta del facile effetto, ma ingegnoso inventore di immagini preziose, abile
falsario della tradizione, irriducibile paladino della ricerca fantastica. Le
sue metafore mirano all’intelligenza del lettore, non alla sua
impressionabilità, tanto che si riconoscono un disegno ordinato e un principio
di freddezza razionale nel pullulare delle metafore e nella mutazione continua
di lingua e registri.
Nella poesia di
Marino si compone un mondo umano e naturale di straordinaria ricchezza e
varietà, mobile e sensuale, lontanissimo dalle rarefatte ed eteree atmosfere
petrarchiste, senza tuttavia che la scrittura risulti concretamente realistica.
L’impegno
incessante del poeta nella ricerca delle variazioni letterarie non ha infatti
altro fine che il piacere della bravura e dell’eleganza.
e)
Il poeta di
professione - Marino è un
virtuoso della parola: fu ammiratissimo in vita, disprezzato dalla critica del
XVIII e XIX secolo. Egli fu un professionista, un letterato che viveva della
sua penna per cui doveva essere attento al proprio pubblico, che doveva stupire
con gli argomenti e con le proprie capacità tecniche.
La mirabolante
varietà metrica costituisce uno degli artifici pirotecnici del poeta. Il suo
godimento e la sua bravura supremi sono nel continuo accarezzamento delle forme.
Marino non arretra davanti a nessuno spettacolo, a nessuna descrizione, la più
vasta e alata o la più volgare e minuziosa.
6.
La prosa scientifica e storiografica nell’età del Barocco - Lontana dal
gusto lambiccato e ozioso del concettismo seicentistico è la prosa scientifica
e storiografica di questo periodo, che, nel rigore razionale del pensiero,
nella lucidità della forma esatta e aderente alle cose, sembra piuttosto
continuare la tradizione del Rinascimento.
Il
maggiore dei prosatori scientifici, oltre che il maggiore scienziato, è Galileo
Galilei; il maggiore degli storiografi è Paolo Sarpi (1552-1623), un frate
servita divenuto consultore della repubblica veneta, e difensore
dell’autonomia politica di Venezia, sua patria, dalle ingerenze della Chiesa.
La sua opera più famosa è Historia del Concilio di Trento.
7. Gian Lorenzo Bernini - Gian Lorenzo Bernini (Napoli 1598 - Roma
1680), architetto, scultore, pittore, scenografo e autore di teatro, fu uno dei
personaggi dominanti del Seicento e il principale interprete del fasto della
Chiesa cattolica e dell'aristocrazia romana.
a) Gli
anni di formazione e le prime opere - Ebbe la sua prima educazione artistica sotto la
guida del padre Pietro, poi si formò a Roma, dove la famiglia si era trasferita
nel 1605, sommando il virtuosismo tecnico del tardo manierismo allo studio del
naturalismo ellenistico, le suggestioni dei grandi maestri del Cinquecento al
classicismo della pittura dei Carracci. Tale formazione appare evidente nei
gruppi marmorei di Giove fanciullo e la capra Amaltea (1615),
per molto tempo scambiata per opera ellenistica; Ratto di Proserpina (1621-22);
David (1623), in cui non viene
esaltato l'eroe, ma lo sforzo del corpo (accentuato dalla contrattura delle
membra e delle labbra) teso nel lancio della pietra in una scattante posa a
spirale; Apollo e Dafne (1622-25), un
vero prodigio tecnico per la leggerezza delle figure colte in corsa, libere
nello spazio, per l'abile lavorazione del marmo che pare cera traslucida nella
resa della metamorfosi della ninfa. Si coglie così come Bernini fosse
affascinato dalla mutevole e fuggevole apparenza delle cose in uno spazio
aperto e dinamico, e non dalla loro realtà.
b) La fabbrica di San Pietro - Nel 1624
iniziò la lunga serie di opere per S. Pietro, in cui fu impegnato per più di
quarant'anni. Il primo lavoro fu il Baldacchino
(1624-33), col quale sostituì ai tradizionali cibori un'originalissima
struttura bronzea, che s'inserisce nell'enorme vano sottostante la cupola
rendendolo vibrante e dinamico. Avvalorò poi questa soluzione con il riassetto
dei grandi piloni della cupola, le cui facce interne (rivolte cioè verso il
baldacchino) vengono animate con due ordini di nicchie. Ideò poi il
rivestimento di marmi policromi delle navate, realizzò i monumenti funebri dei
suoi due principali mecenati Urbano VIII Barberini (1628-47) e Alessandro VII Chigi
(1671-78); la Cappella del Sacramento e la sistemazione del vano absidale con
l'immensa macchina della Cattedra di S.
Pietro (1657-66) sorretta dalle colossali statue dei dottori della Chiesa e
culminante nel turbine di angeli e di raggi dorati che partono dal finestrone
con il simbolo dello Spirito Santo. L'attività di Bernini per S. Pietro culminò
con la costruzione del colonnato
(1656-67), la più famosa e geniale delle sue opere, nella quale realizzò con la
massima chiarezza la sua concezione di spazio dinamico, che lo spettatore
comprende solo muovendosi in esso, stimolato dall'inarrestabile successione di
scorci, e dando una lezione di urbanistica nel collegamento della basilica alla
città.
c) Le altre opere - La sua
concezione scenografica si riflette ancora nelle fontane delle Api, del Tritone
e soprattutto nella fontana dei Fiumi
(1648-51) di piazza Navona; nella Cappella
Cornaro in S. Maria della Vittoria, in cui l'Estasi di S. Teresa (1644-52) si drammatizza in un vero scenario
teatrale. Tra le molte altre opere sono da ricordare: Palazzo Barberini
(1625-44, dalla scenografica facciata); il Palazzo di Montecitorio (1650-55);
la Verità discoperta dal Tempo (1646-52, Roma, Galleria Borghese); la Beata Ludovica Albertoni (1674, S. Francesco a Ripa); i quadri
con gli autoritratti; la serie dei busti marmorei, da quelli ufficiali dei
pontefici, di Francesco I d'Este (1651,
Modena, Galleria estense), di Luigi XIV di Francia, (1655, Versailles) a quelli
"parlanti" (con la realizzazione delle labbra socchiuse) di Costanza Bonarelli (1635, Firenze, Bargello), di Scipione Borghese (1632 ca, Roma, Galleria Borghese) e
di Gabriele Fonseca (1668-73,
chiesa di S. Lorenzo in Lucina).
8. La lirica - La
poesia lirica continua ad essere un genere centrale anche nel Seicento; lo testimonia
prima di tutto la vastità della produzione: centinaia sono i poeti che
provengono da ogni parte d’Italia, anche da quelle più periferiche e senza
legami coi grandi centri della cultura rinascimentale.
Tale
fioritura, non certo di livello qualitativo sempre accettabile, testimonia un
«uso» della poesia legato alle occasioni, all’omaggio galante, alla
lode, all’intento di procurarsi fama dando prova d’ingegno e di arguzia.
Si afferma insomma l’idea di una poesia che è capace di produrre diletto,
piacere e svago per la sua originalità.
Alla vastità della produzione corrisponde una
diversità di esperienze; al centro, come fenomeno dominante, sta la poesia
barocca che ebbe il suo maestro in Giambattista Marino, caposcuola di uno
stile poetico che da lui prese il nome: il marinismo.
I caratteri più rilevanti dell’esperienza marinista
stanno nella ricerca di novità che conduce alla rottura degli schemi e
delle tematiche tradizionali, e alla proposta di una infinita varietà di
situazioni e di motivi: anche la poesia d’amore e la figura femminile vengono
proposte in modi inusitati e spesso sorprendenti. Ad esempio, accanto
all’immagine tradizionale della bella donna compare quella della donna brutta
o zoppa o balbuziente; oppure l’attenzione del poeta si ferma su un gesto, su
un particolare, su un oggetto. Uno dei pregi di questa poesia consiste nella capacità
di stupire, di suscitare meraviglia; il lettore deve essere
continuamente stupito dalie immagini evocate dalla poesia, attirato dalla
fantasia dell’invenzione, colpito dalla brillantezza dell’ingegno. Per questo
l’uso della metafora è l’elemento che caratterizza più fortemente il
linguaggio poetico del Seicento, con la predilezione per le metafore audaci e
sorprendenti. Tutti questi caratteri della poesia vengono proposti anche in
via teorica, tanto che il marinismo divenne un fenomeno non limitato
all’Italia ma di diffusione europea. Accanto alla sperimentazione e alla novità
della lirica marinista rimane una poesia d’ispirazione classicista che
contrappone al «disordine barocco» gli ideali della misura e della sobrietà.
9. Cultura e politica: il dispotismo illuminato –
L’influsso esercitato sull’economia dalla dottrina fisiocratica è una
manifestazione del più generale influsso esercitato dalle idee sulla pratica,
che costituì un aspetto peculiare del Settecento. La convinzione che l’uomo di
cultura, l’intellettuale deve operare in vista del miglioramento della realtà
sociale, la fiducia nell’efficacia pratica delle idee costituiscono un aspetto
saliente dell’Illuminismo. Portare la filosofia sul trono, l’antico ideale platonico
del filosofo-re, costituì per gli illuministi una meta realistica. E, in vario
modo, la realizzarono: o diventando consiglieri di sovrani (Voltaire di
Federico II di Prussia, Diderot di Caterina di Russia), o partecipando di
persona al governo del re (Turgot, ministro di Luigi XVI). L’influenza della
filosofia sulla politica fu notevole: oltre a creare nei sovrani e nei sudditi
una tendenza favorevole all’innovazione nei vari campi (dal diritto
all’economia), portò alla diffusa accettazione della concezione paternalistica
del governo («il sovrano è per i sudditi come un padre per i figli, e deve aver
cura della loro felicità»), concezione che, pur con tutti i suoi limiti,
costituì un indubbio progresso nei confronti della concezione assolutistica. Da
questo spirito – la ricerca della felicità dei sudditi unita all’interesse del sovrano – nacquero le
riforme.
Solo tra il
XVIII e il XIX secolo, questa posizione fu superata. Anche il re divenne un
funzionario statale, il cui primo e esclusivo dovere era di agire
nell’interesse aggettivo dello Stato. Si teorizzò la «ragion di Stato» per
esprimere questo interesse, superiore a quello di qualunque persona fisica,
compresa la persona del re. La sintesi di questa visione è nella celebre frase
di Federico II di Prussia, detto Federico il Grande (1740-1786), che si
definiva il «primo servitore dello Stato».
Lo Stato
poteva allora considerarsi un’organizzazione impersonale che non coincideva
più con nessuna persona fisica, nemmeno con quella del re. Tutti coloro che
agivano per lo Stato – dal più umile impiegato al re – ne erano divenuti
funzionari.
Lo Stato, a sua volta, divenne
titolare di situazioni giuridiche proprie. Esso assunse capacità giuridica
attraverso la personificazione del «fisco», cioè delle risorse dello Stato, che
vennero separate da quelle private del re come persona privata.
L’Illuminismo
dà forma a un’idea di società fondata su progresso, razionalità, tolleranza,
modernità, libertà di pensiero e di azione; ciò non è in conflitto col potere
dei sovrani e da molti di questi è accolto come un sostegno all’opera di
accentramento dello Stato.
Gli
anni di massima collaborazione sono tra il 1750 e il 1780: gli intellettuali
europei dànno il loro appoggio alle riforme promosse dai sovrani che agiscono
con la forza del loro potere assoluto, ma con intenti «filosofici» partecipano
alla diffusione dei Lumi; sono despoti illuminati Maria Teresa e Giuseppe II
d’Austria, Federico II di Prussia, Caterina II di Russia sono i protagonisti di
questa stagione.
Le
maggiori riforme riguardano: il giurisdizionalismo, i diritti civili, l’istruzione,l’ordinamento
giuridico e l’amministrazione.
10. L’Illuminismo italiano e le riforme in Italia -
La situazione creatasi in Italia dopo Aquisgrana creò le condizioni favorevoli
alla introduzione di riforme, sull’esempio di quelle che erano state attuate
dai sovrani illuminati di alcuni grandi Stati europei: da Federico II in
Prussia, da Caterina in Russia, da Maria Teresa e Giuseppe II in Austria. Fu in
questo clima di risveglio culturale e di fervore sociale che maturarono le
riforme. Non a caso la Lombardia, il Regno di Napoli e la Toscana furono gli
Stati in cui esse ebbero una realizzazione più vasta e consapevole, perché in
essi coincidevano gli interessi del sovrano con quelli della borghesia,
rappresentata dagli intellettuali illuminati. La soppressione di vincoli
feudali, infatti, e l’abolizione di privilegi, se corrispondeva alla duplice
esigenza della borghesia di un più libero sviluppo economico e di una
parificazione dei pesi fiscali, erano ben visti anche dal principe, perché
rendevano più piena la sua autorità, liberandola dalle limitazioni che tali
vincoli gli ponevano.
In particolare, lo sviluppo dell’economia dello Stato, se
andava a vantaggio dei sudditi, e in particolare dei grandi proprietari
terrieri, tornava a vantaggio anche del principe, che accresceva il suo potere
in relazione all’aumentata ricchezza del Paese, da cui poteva attingere
maggiori mezzi per la sua politica.
I principi illuminati che attuarono le riforme furono
l’imperatrice d’Austria Maria Teresa e l’imperatore Giuseppe II per la
Lombardia, il granduca Pietro Leopoldo per la Toscana, Carlo III di Borbone e
suo figlio Ferdinando IV a Napoli.
Le riforme interessarono tutti i piani della vita sociale e
politica e, pur nella diversità di attuazione nei diversi Stati, furono
accomunate da iniziative e disposizioni di legge molto simili: si soppressero
le corporazioni d’arti e mestieri che, con i loro statuti superati,
costituivano un impaccio per la manifattura e il commercio; applicando le idee
fisiocratiche e i consigli delle diverse accademie scientifiche, si curò la
razionalizzazione dell’agricoltura; si abolirono le limitazioni dei prezzi dei
prodotti agricoli; si costruirono importanti opere pubbliche quali canali,
bonifiche, strade. Per ottenere una più giusta distribuzione dei pesi fiscali
e, nel contempo, per incrementare le entrate, si abolirono le esenzioni e i
privilegi del clero e dei nobili; si ricorse ad un censimento generale delle proprietà
(il catasto); si abolirono gli appalti delle imposte. Per rispondere alle
diffuse esigenze umanitarie, si migliorò la legislazione penale, giungendo
perfino ad abolire la tortura e la pena di morte (in Toscana). Per rafforzare
l’indipendenza dello Stato dalla Chiesa e ridurre l’ingerenza di quest’ultima,
si limitarono o si abolirono alcuni privilegi, quali il foro ecclesiastico e il
diritto d’asilo dei luoghi sacri; si abolì l’inquisizione e la censura
ecclesiastica sui libri da stampare; si limitò il numero e l’entità degli
ordini religiosi che dipendevano direttamente da Roma e non dai vescovi locali;
si allontanarono i Gesuiti dall’insegnamento e poi li si espulsero dagli Stati.
Il Piemonte, lo Stato Pontificio e Venezia restarono al di
fuori del moto di rinnovamento che, comunque, entrò in crisi, e finì col
bloccarsi del tutto, quando gli eventi rivoluzionari di Francia mostrarono che
le mete della borghesia non potevano più conciliarsi con gli interessi del
principe.
a) Milano, Napoli e Firenze centri illuministici
– In Italia, infatti, già dopo la pace di Vienna (1738) si erano insediate
due nuove dinastie – i Lorena in Toscana e i Borbone a Napoli – che, pur
essendo straniere, godevano di notevole indipendenza; al retrivo e chiuso
dominio spagnolo in Lombardia si era sostituito quello austriaco, più aperto
alle nuove idee e caratterizzato da un’amministrazione onesta ed efficiente,
decisa a migliorare le condizioni della regione. La maggior vivacità di scambi
favorì, già prima della metà del secolo, il diffondersi nella penisola delle
nuove idee provenienti dall’Inghilterra e ancor più dalla Francia. Ben presto
si costituirono a Milano, a Napoli e a Firenze piccoli ma attivi gruppi di
intellettuali conquistati dalle nuove idee. La coscienza della propria
arretratezza culturale, e delle funeste conseguenze che ne derivavano sul piano
economico-sociale, creò in essi una decisa volontà di mettersi al passo col
pensiero europeo e li portò a ricercare i propri modelli a Londra e a Parigi,
stabilendo, in più casi, diretti contatti personali con i massimi
rappresentanti dell’Illuminismo francese e inglese. Si trattava, pertanto, di
un rinnovamento che partiva dal basso, strettamente connesso con la rinascita
della borghesia, che si risvegliava dal suo letargo secentesco.
Era una borghesia che, a diversità di quella comunale, non
trovava la base della sua ricchezza nella mercatura o nelle manifatture, ma
nella terra; e la sua rinascita fu una delle conseguenze della ripresa
dell’agricoltura.
b) A Milano le figure più eminenti di questi intellettuali
riformatori furono i due fratelli Verri,
Pietro ed Alessandro, e Cesare Beccaria.
I Verri furono al centro del gruppo che fondò la «Società dei Pugni» da cui nacque la rivista Il caffè, che nei suoi due anni di vita battagliera (1764-1766)
svolse un’efficace azione di critica agli aspetti negativi della società
lombarda (nella legislazione, nell’economia, nell’educazione, nelle lettere e
nel costume in genere), proponendo riforme ispirate alle innovazioni che venivano
d’oltralpe. Molti dei collaboratori, tra cui Pietro Verri, furono chiamati, dal
governo di Maria Teresa, a partecipare direttamente al rinnovamento
amministrativo della Lombardia. Cesare Beccaria, anch’egli collaboratore de Il
caffè e insegnante di economia politica a Milano, conseguì fama internazionale
con l’opera Dei Delitti e delle pene
del 1764, nella quale egli propugnava l’abolizione della tortura e della pena
di morte.
c) Napoli – La differenza più rilevante nell’attuazione delle
riforme si incontrò tra il regno di Napoli e gli altri due Stati italiani. A
differenza della Lombardia e della Toscana, a Napoli mancava una borghesia
politicamente attiva: quella esistente era costituita da professionisti, che
miravano ad inserirsi, direttamente o indirettamente, nell’apparato statale.
Per questo motivo le riforme, che miravano ad una trasformazione economico
sociale contro il potere dei baroni, non riuscirono ad acquistare incisività,
non mutarono sostanzialmente la situazione e arrivarono ben presto ad un punto
morto, mentre ebbero successo quelle contro il potere ecclesiastico, perché, in
questo caso, gli interessi e le richieste del sovrano, dei nobili e degli
uomini di cultura, coincidevano.A Napoli le condizioni ambientali furono meno
favorevoli allo sviluppo della cultura illuministica, perché non esisteva una
borghesia che la promuovesse e sostenesse. Ciò spiega le incertezze, i
ripensamenti e le contraddizioni che caratterizzano pensatori pur acuti e
preparati quali Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani, Gaetano Filangeri e Giuseppe
Palmieri.
L’oggetto privilegiato dei loro studi fu l’economia dove
accettarono, non senza limitazioni, le idee fisiocratiche: a Genovesi, autore
delle Lezioni sul commercio ossia
d’economia civile del 1765 fu affidata la prima cattedra di economia
politica istituita a Napoli da Carlo III; Galiani scrisse un Dialogo sul commercio dei grani del 1770
in francese, e un trattato Della moneta.
Essi approfondirono però anche il tema della legislazione statale, vista
soprattutto nei rapporti tra Stato e Chiesa, (sostenevano l’indipendenza del
primo nei confronti della seconda sulla quale esso aveva diritto di esercitare
un controllo) e il tema dell’istruzione: famosi furono il Piano delle scuole del 1740 di Genovesi e il Della pubblica e privata educazione del 1771 di Filangeri.
Sfortunatamente, l’azione culturale di questi autori non
trovò l’appoggio concreto della borghesia, praticamente inesistente e non in
grado di premere sul sovrano, per ottenere delle riforme.
c) In Toscana l’indirizzo empiristico, antimetafisico,
proprio della cultura toscana dai tempi di Galilei e della sua scuola, costituì
un terreno favorevole alla diffusione dell’Illuminismo, come dimostra anche il
fatto che l’Enciclopedia vi ebbe ben
due ristampe (a Lucca e a Livorno). Il centro culturale più attivo fu
l’Università di Pisa, nella quale si formarono quasi tutti gli intellettuali
che, con i loro scritti, stimolarono il granduca Pietro Leopoldo ad
intraprendere le riforme e che furono suoi collaboratori nel realizzarle. Tra
questi i più influenti furono gli economisti Pompeo Neri e Francesco
Gianni e il giurista Giulio Rucellai.
Strumento efficace per lo sviluppo e la razionalizzazione
dell’agricoltura fu poi l’Accademia dei
Georgofili, il cui indirizzo prevalente fu il rafforzamento della
mezzadria, considerata un’istituzione favorevole alla conservazione della pace
sociale.
8. Il periodo napoleonico - Il periodo
che va dal 1798 al 1815 è dominato dalla figura di Napoleone che, da oscuro
generale che comanda l’Armata d’Italia, diventa prima console nel 1799, poi
imperatore dei Francesi nel 1804 e crea un impero che abbraccia mezza Europa.
Quello che qui ci interessa spiegare è il significato europeo e italiano della
sua vicenda, le ragioni del suo fulmineo successo e dell’altrettanto rapido
crollo.
Napoleone,
da un certo punto di vista, chiude la Rivoluzione francese, in quanto,
instaurando una dittatura personale, ne nega i princìpi fondamentali, quelli
della partecipazione dei cittadini al governo e delle libertà politiche. Anche
sul piano internazionale la creazione a suo arbitrio di nuovi Stati, che egli
poi assegna ai suoi familiari, contrasta con il principio rivoluzionario del
diritto dei popoli a scegliersi il proprio governo. D’altra parte, le sue
campagne, che portano le armate francesi in tutta Europa, dalla Spagna alla
lontana Russia, vi diffondono le idee rivoluzionarie, gettando i semi da cui
fioriranno le rivoluzioni nazionali dell’Ottocento. Proprio questa bivalenza
dell’opera di Napoleone spiega l’atteggiamento, a un tempo di ammirazione e di
ostilità, dei suoi contemporanei; atteggiamento così evidente ad esempio, nel
nostro Foscolo.
Quando
Waterloo porrà fine alla parabola napoleonica, resterà di lui, oltre al suo
mito, che avrà presa ancora sulle generazioni future, una grande impronta nella
società europea. Essa non sarà più la società prerivoluzionaria; sarà ormai
diventata una società moderna, fondata su una maggiore uguaglianza giuridica
dei cittadini, ad ognuno dei quali viene offerta la possibilità di ascesa
sociale in base ai propri meriti. Il Codice napoleonico, acquisito da quasi
tutti gli Stati, assicurava, oltre alla libertà civile e alla tutela
giudiziaria, i diritti della proprietà privata, instaurava il matrimonio civile
e consentiva il divorzio. L’impegno di Napoleone per tutto quanto poteva
favorire lo sviluppo delle attività economiche e per la costruzione di grandi
opere pubbliche, diventerà dopo di lui funzione riconosciuta come doverosa
dagli Stati moderni. Tra le istituzioni che questi adotteranno per il controllo
delle finanze vi sarà sempre quella di una Banca nazionale sul tipo della Banca
di Francia, creata da Napoleone per porre riparo al disordine finanziario
determinato dalla Rivoluzione. La laicizzazione dello Stato, e conseguentemente
della società, che Napoleone aveva conseguito attraverso il Concordato col
Pontefice, diverrà anch’essa un’altra caratteristica di quasi tutti gli Stati
europei nell’Ottocento. È però nel campo amministrativo e in quello
dell’istruzione che il modello creato da Napoleone avrà il maggior successo.
Egli centralizzò l’amministrazione creando l’istituto dei prefetti, che
reggevano il dipartimento in dipendenza dal potere esecutivo centrale; tutta
quanta l’amministrazione statale era in mano a una burocrazia specializzata,
costituita da funzionari di carriera; la giustizia era affidata a giudici di
nomina statale. Anche l’ordinamento dell’istruzione diventerà un modello
comunemente seguito: le scuole vennero divise da Napoleone in elementari,
medie, superiori, ed erano controllate e regolamentate dallo Stato.
a) I patrioti italiani di fronte a
Napoleone - Quando Bonaparte si affacciò per la prima volta alle Alpi,
nel 1796, si accelerò il formarsi di una sinistra italiana singolarmente
avanzata, che diede vita a discussioni e polemiche sulla futura sistemazione
dell’Italia. Si trattava di controbattere le affermazioni di taluni circoli e giornali
parigini che sostenevano l’immaturità dell’Italia ad una politica autonoma. Il
centro di queste discussioni e polemiche fu Milano. A dimostrare la sensibilità
sociale di questi patrioti italiani sta il fatto che, nonostante la diversità
delle loro opinioni, tutti furono concordi nel riconoscere la necessità di
porre riparo alla miseria e all’arretratezza delle classi più povere.
La
politica di Napoleone che puntò alla formazione di tanti Stati vassalli, generò
una grande delusione; tanto più quando Napoleone, avendo già affermato la sua
dittatura personale come imperatore, trasformò la Repubblica Italiana nel Regno
d’Italia, di cui cinse egli stesso la corona.
Ai
patrioti italiani si prospettò allora la scelta tra questo nuovo dispotismo e
l’antico; ma essi seppero riconoscere la differenza fra i due. Il dispotismo
napoleonico portava con sé, anche se spesso traditi sul piano concreto, i
princìpi della Rivoluzione; risvegliava anche, suo malgrado, il sentimento
nazionale; educava, attraverso il servizio prestato nell’esercito, all’uso
delle armi; apriva, tramite l’amministrazione, possibilità di partecipazione
attiva alla vita dello Stato ad elementi sino ad allora esclusi.
E
si trattò di un’amministrazione quanto mai operosa, che portò a termine la trasformazione
dello Stato e della società solo timidamente avviata dai prìncipi riformatori
del Settecento. Furono soppressi i vincoli feudali ed economici, i privilegi
dei monasteri, dei tribunali particolari a cominciare da quelli ecclesiastici,
fu affermata l’uguaglianza civile, furono promosse l’istruzione pubblica,
l’agricoltura, i commerci e l’industria che si avvantaggiarono della caduta
delle barriere doganali e dei pedaggi, dell’ampliamento della rete stradale,
dell’unificazione dei pesi e delle misure.
Proprio
per questo, quando, sconfitto Napoleone, le grandi potenze vollero restaurare
nel Congresso di Vienna l’antico regime, erano già pronte anche in Italia le
forze che, tramite le congiure e le rivoluzioni, si sarebbero impegnate ad
abbattere il nuovo assetto: erano forze che avevano fatto il loro apprendistato
nelle armate e nell’amministrazione napoleonica.
9.
La cultura settecentesca – Il Settecento è
l’età dei lumi, l’epoca
dell’Illuminismo, delle nuove esigenze razionali e della prima rivoluzione
industriale. In tutta l’Europa si sviluppa una nuova idea di modernità, che si
basava sul senso laico della cultura, sulla ricerca di una nuova e maggiore
comunicatività del pensiero.
a)
Il self made man – La
rivoluzione americana nel 1775 e quella francese nel 1789 generaronono il nuovo
Stato borghese. La rivoluzione industriale modificò radicalmente la sfera della
produzione e della fruizione culturale.
1.
In primo luogo, l’industrializzazione
tecnica, gestionale e commerciale dell’editoria unita all’aumento della
popolazione alfabetizzata diede avvio alla rivoluzione
del libro, cioè all’abbassamento dei costi e alla diffusione di massa dei
giornali, delle riviste e soprattutto dei libri.
2.
In secondo luogo, nacque e si affermò la
tendenza a estendere e a riformare le istituzioni scolastiche per renderle
adeguate alle esigenze dello sviluppo industriale. I modelli di tale tendenza
furono da un lato l’Ecole polytechnique
fondata in Francia nel 1795 e dall’altro la riforma dell’Università di Berlino
nel 1810 ad opera di Humboldt. In entrambi i casi, si valorizzarono il nuovo
sapere matematico-scientifico e la sua applicazione tecnica.
3.
In terzo luogo, la convergenza di questi due
processi innescò la progressiva laicizzazione e borghesizzazione del ceto intellettuale:
mentre prima la maggior parte degli intellettuali (insegnanti, giornalisti,
scrittori, poeti, scienziati, artisti) faceva parte del clero o
dell’aristocrazia ora è di estrazione soprattutto medio e piccolo borghese.
In questo modo a una concezione dell’intelligenza come dote
innata delle classi superiori si sostituì quella dell’intelligenza come merito
e talento proprio di un individuo indipendentemente dalla sua nascita. Su
questa base, inoltre, la cultura diventa per il piccolo borghese uno strumento
di ascesa economico-sociale.
Per
comprendere le novità culturali del 700 bastano pochi esempi:
1.
nel 1712 J.
Addison e R. Steel pubblicano a Londra lo Spectator, primo esempio di
giornale che vuole informare dei fatti e costituire un modello sociale di
comportamento, volto a formare l’opinione
pubblica;
2.
nel 1719 D. De Foe pubblica il Robinson Crusoe, romanzo
realistico, che descrivendo la laboriosità e la tenacia di un naufrago su di
un’isola deserta, ripercorre le tappe dell’incivilimento umano e definisce il
lavoro, l’attività, l’insieme dei valori borghesi dell’operare come altamente
positivi;
3.
nel 1721 Montesquieu pubblica le Lettere Persiane, una sorta
di pamphlet che sconsacra alla luce della ragione i valori ufficiali e
dominanti nella società contemporanea;
4.
nel 1735 L. A. Muratori pubblica
la Filosofia morale,
che mette in ridicolo le pretese nobiliari, distinguendo gli uomini sulla base
delle qualità personali e della fedeltà ai valori ufficiali.
Tutte
queste opere indicano sempre più chiaramente che i valori ritenuti positivi,
proponibili all’intera società sono quelli di una classe sociale nuova: la
borghesia. Il borghese è il self
made man, l’uomo che si fa da sè, che può contare sul proprio lavoro
e che trova come antagonista sulla propria strada la nobiltà, che vive di
rendita e che conta sulla proprietà rispetto a lui che nel profitto e nel
lavoro trova la dignità umana. E proprio il conflitto tra borghesi e nobiltà
caratterizzerà le vicende del secolo fino a sfociare nella Rivoluzione
Francese. La forma assunta all’inizio è la contestazione su
base logica e razionale dei privilegi, leggi, dogmi che andavano rimossi e
sostituiti con norme razionali e identificabili come tali.
b)
I
luoghi della cultura – I luoghi di produzione della
cultura in parte si modificano nel Settecento: le corti non scompaiono, ma
perdono progressivamente importanza, sopravvivono le accademie, che in Italia
resistono molto di più che nelle altre nazioni europee: mentre nel resto
d’Europa, infatti, la borghesia emergente diventa la classe trainante anche sul
piano culturale, l’Italia presenta una condizione di notevole arretratezza e,
quindi, resta legata ai luoghi tradizionali di organizzazione della cultura.
Ovviamente, le accademie devono almeno parzialmente rinnovarsi,
per sopravvivere in tempi notevolmente mutati. L’accademia più importante e
significativa è quella dell’Arcadia, attiva nella prima metà del Settecento.
Essa presenta innanzitutto novità nella sua struttura, perché ha un centro di
diffusione, ma affianca ad esso sedi sparse in molte città e, in qualche modo,
collegate tra loro: ciò favorisce lo scambio e la circolazione delle idee.
Inoltre è uno dei primi centri culturali che avverte il
cambiamento dei tempi e l’esigenza di scelte nuove, esprimendo rifiuto per gli
eccessi, le stravaganze, il cattivo gusto
barocco, in nome di un ritorno ad ideali di equilibrio, di armonia, di compostezza
classici.
Importanti luoghi di aggregazione culturale diventarono i
caffè e i salotti.
c)
I
caffé – Luoghi di passaggio, di incontro, di conversazione. Sono
luoghi di aggregazione molto più informali, spontanei e non sistematici
rispetto a cenacoli ed accademie. Inoltre, si tratta di centri molto meno
elitari e selettivi. Infine, si tratta di luoghi aperti, immersi nella vita
cittadina, a contatto con la realtà (l’osservazione, l’analisi, lo studio dei
problemi concreti sono un elemento centrale per gli intellettuali dell’epoca);
tra l’altro, nei caffé si leggeva il giornale (nuovo strumento di diffusione
delle idee) e si commentano le notizie.
d)
I
salotti – Sono luoghi più esclusivi rispetto ai caffé perché si
tratta ovviamente dei salotti delle case dei nobili o dei ricchi borghesi. A
volte, i proprietari fanno a gara per invitare nel loro salotto personaggi di
particolare prestigio culturale e intellettuale. Nei salotti, come nei caffé, i
temi affrontati nelle conversazioni sono assai vari, mentre le diverse
accademie in genere si caratterizzano per interessi specifici diversi.
e)
Il
grand tour – Una caratteristica dell’intellettuale settecentesco è
quello di sentirsi cosmopolita, cioè cittadino del mondo: aumentano i viaggi
per l’Europa e non solo, per conoscere realtà diverse e confrontarsi con altri
modi di vita e con altre forme di pensiero. Il Grand Tour era un viaggio nei
luoghi della storia e dell’arte, dove poter apprezzare e conoscere tramite
un’esperienza diretta e tangibile ciò che si era fino a quel momento appreso
solo dai libri. Durante il Grand Tour i giovani appartenenti alle più facoltose
famiglie europee hanno occasione di completare il proprio ciclo di studi con la
visita dei maggiori centri culturali, artistici e politici dell’Europa continentale.
L’Italia è una delle mete preferite per questo viaggio, visto il notevole
patrimonio storico e architettonico di cui godono le sue principali città. I
viaggiatori del Grand Tour non mancano di acquistare riproduzioni artistiche
dei luoghi visitati, oggetti d’arte e d’antiquariato da portare in patria a
ricordo del loro viaggio. Nacque una vera e propria industria
turistica; escono i primi libri guida dei luoghi e
si vendono vedute dei paesaggi italiani. Uno strumento
importantissimo di comunicazione in quest’epoca è lo scambio epistolare. Alcune
lettere vengono scritte (o, comunque, revisionate) in vista della
pubblicazione. Tra fine Settecento e inizio Ottocento fiorirà il genere del
romanzo epistolare, cioè del romanzo costruito sotto forma di scambio di
lettere.
11. La filosofia – Il processo di
smantellamento della filosofia, iniziato con Machiavelli nel Cinquecento e
portato avanti con la grande rivoluzione scientifica del Seicento, fu
continuato durante il Settecento con la nascita di altre scienze con statuto
autonomo. Abbiamo, infatti, con Giambattista
Vico, i prodromi dello storicismo, e si sviluppa una attenzione agli aspetti
dell’esperienza estetica (si pensi alle dottrine del sublime).
In
questi anni si dissolse la divisione tra una casta di sapienti che lavorano
intorno alle università (come sono ancora Vico e Kant) e una comunità di laici curiosi e indipendenti, egualmente
versati in filosofia, scienze naturali, letteratura, capaci di usare l’arma del
trattatello o del pamphlet per far circolare nuove e corrosive idee (si pensi a
personaggi come Montesquieu, Voltaire e Diderot), in cui sono presentati
personaggi fantastici (persiani o abitanti di stelle lontane) per aiutarci a
guardare al nostro mondo con spirito critico e ironico. A questa atmosfera
appartiene anche il romanzo filosofico e la pleiade di romanzi utopici che
manifestano il gusto, l’ansia, l’eccitazione della scoperta di nuove terre e
nuove forme di società.
La
nuova filosofia, di cui certamente l’Encyclopédie
è il manifesto, si piega a riflettere sui nuovi portati della tecnica, sul
valore del sapere artigiano; e soprattutto si stabilisce un diverso legame tra
cultura e industria, nel senso che l’Encyclopédie è al tempo stesso una
monumentale impresa filosofico-scientifica e una impresa industriale, condotta
calcolando costi e ricavi.
D’altra
parte in questo secolo ogni impresa culturale (compresa la letteratura) diventa
contemporaneamente impresa economica: gli autori del nuovo romanzo inglese
fanno i conti con un pubblico determinato di acquirenti, composto non più di
mecenati, bensì di mercanti e di donne; d’altra parte per questa nuova
borghesia nasce che un genere di divulgazione scientifica, in cui la
trasmissione del sapere tiene d’occhio anche le classi emergenti. Tutti questi
fenomeni non possono influire su uno stile di pensiero, che spesso acquista
anche una maggiore affabilità, evita le formule ipertecniche per assumere il
tono pacato della conversazione tra laici ansiosi di conoscere ma estranei alle
dispute scolastiche.
a)
Gian Battista Vico – Se il secolo precedente aveva
visto con la grande rivoluzione scientifica la nascita della scienza come
disciplina autonoma dalla filosofia, nel Settecento nasce grazie a Muratori e Vico, fondatori di una nuova filosofia
della storia, la nascita di una nuova scienza la storiografia moderna che si
affrancò definitivamente dalla letteratura.
Una
posizione di preminenza spetta al napoletano Gian Battista Vico un pensatore
controcorrente: oltre
alla geometria e alla matematica, per Vico una tipica produzione umana è la
storia, quella scienza nuova che Vico presenta nel suo
capolavoro, i Principi di una scienza
nuova dintorno alla natura delle nazioni. Tale scienza si basa sulla
sintesi fondamentale di astratto e concreto, universale e particolare. La filosofia è la scienza dell’universale,
la filologia quella del particolare.
Esse non vanno intese come attività separate, perché non è concepibile la
filosofia senza la filologia, né questa senza quella. L’idea, di cui si occupa
la filosofia, è il vero; il fatto, di cui si occupa la filologia, è il certo.
La nuova scienza dovrà preoccuparsi di accertare il vero e inverare il certo.
Essa sarà scienza dell’universale applicato al concreto e del particolare
spiegato attraverso l’idea.
Studiata
nell’ottica di questa nuova scienza, la storia non è un succedersi di
avvenimenti slegati gli uni dagli altri, ma deve avere in sé un ordine
fondamentale e delle leggi che la governano. La storia si muove nel tempo, ma
sul fondamento di un ordine universale ed eterno, trascendente rispetto alla
storia particolare delle nazioni. Questa storia
ideale eterna costituisce la norma verso cui la storia concreta deve
elevarsi. Essa è tripartita: a un’età degli dei, caratterizzata dai bestioni o uomini primitivi privi di
capacità riflessiva, ma dotati di forti sensi, seguono l’età degli eroi,
caratterizzata dal predominio della fantasia sulla riflessione razionale e
l’età degli uomini, o della ragione dispiegata. La scansione di queste tre età
rappresenta il ciclo dell’incivilimento dell’uomo. Ma questo risultato di
incivilimento è del tutto sproporzionato alla modestia dei fini e dei mezzi
umani. Vico ritiene che l’incivilimento sia l’esito di una eterogenesi dei fini, cioè della collaborazione di due menti,
l’umana e la divina (sotto forma di Provvidenza), i cui fini diversi conducono
al medesimo risultato. La ragione dispiegata propria della terza età storica è
capace di chiudersi e ribellarsi alla Provvidenza, ma in tal modo provoca
l’arresto dell’incivilimento e la caduta nella barbarie della ragione. Il processo di incivilimento può assumere
così un carattere ciclico, perché, quando una civiltà riprecipita nella
barbarie, le forme mentali delle tre età storiche si ripresentano secondo la
loro scansione. Questa dottrina dei ricorsi
storici indica solo come la civiltà raggiunta non sia mai una conquista
definitiva.
b)
Nasce l’Estetica moderna – Nella
considerazione dell’arte l’Illuminismo mantenne un grande interesse per le
regole tradizionali di composizione, ma operò anche un rilevante spostamento
verso il problema del gusto, cioè verso l’ottica di chi fruisce dell’opera
d’arte.
Si spiega così
come proprio nel ‘700 si può parlare con il filosofo tedesco Alexander Gottfried Baumgarten (1714-1762) di fondazione dell’estetica come
scienza autonoma. Il termine Estetica
comparve per la prima volta, nel significato moderno di Teoria del Bello e dell’Arte, nel 1750, come titolo dell’opera Aesthetica di Baumgarten: il termine
deriva dal verbo greco αισθάνομαι
(aisthànomai) che significa percepire con
i sensi, provare sensazioni, ma
anche comprendere. Per questo motivo molti hanno individuato con questa pubblicazione il vero atto di nascita dell’estetica come scienza autonoma,
tale da raccogliere in modo unitario le diverse riflessioni intorno al bello e
alle
arti mettendo a fuoco un insieme di
concetti nuovi: gusto, genio, sentimento.
Con Baumgarten il termine estetica fu per la prima volta esplicitamente usato e definito.
Esso era già apparso nel 1735, nelle Riflessioni
sul testo poetico, al posto dell’espressione, fino allora consueta, di critica del gusto. Nel 1750 Baumgarten
diede il titolo a un’opera intera: esso designa quella scienza della conoscenza
sensibile che avrebbe come oggetto centrale l’analisi del bello e delle arti.
L’estetica è scienza della perfezione
della conoscenza sensibile come tale, cioè della bellezza. L’estetica è teoria delle arti perché è nelle arti
che tale perfezione si realizza. È proprio in questa identificazione della
sfera del sensibile con quella della bellezza, e dell’idea di bellezza con
l’idea di arte, che è stato indicato uno dei momenti fondamentali della cultura
dell’estetica in quanto scienza moderna. A Baumgarten spetterebbe il primato
della fondazione dell’estetica, intesa come specifica disciplina filosofica.
Quanto al valore dell’estetica, ci si accorge che altri filosofi sono ritenuti
altrettanto essenziali. Vico, per esempio, o lo studioso inglese Edmund Burke
(1729-1797) che, ne La ricerca filosofica sull’origine delle idee del
sublime e del bello del 1755,
aveva individuato il sublime come un elemento contrapposto al bello. Si
tratterebbe cioè di quel sentimento di sgomento che l’uomo prova di fronte al
terrore, all’oscurità, alla potenza, alla privazione, alla vastità,
all’infinità, alla difficoltà, alla magnificenza.
Il
concetto di Sublime è correlato e
contrapposto a quello di Bello.
Nell’idea di Burke è Sublime "Tutto
ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un
certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo
analogo al terrore", il sublime può anche essere definito come "l’orrendo che affascina". La
natura, nei suoi aspetti più terrificanti, come mari burrascosi, cime innevate
o eruzioni vulcaniche, diventa dunque la fonte del Sublime perché “produce la più forte emozione che l’animo
sia capace di sentire”, un’emozione però negativa, non prodotta dalla
contemplazione del fatto in sé, ma dalla consapevolezza della distanza
insuperabile che separa il soggetto dall’oggetto.
Altra posizione importante è quella dello storico dell’arte
tedesco Winckelmann nella cui opera
si individua non solo l’inizio del neoclassicismo, ma anche un
grande contributo alla nascita dell’estetica.
Nel suo libro più famoso, la Storia dell’arte
nell’antichità del 1764 Winckelmann
sancì la superiorità dell’arte greca su tutte le altre e vi elaborò l’idea che
l’armonia e la bellezza fossero il risultato di un’operazione di
razionalizzazione e di controllo delle passioni realizzata dall’artista,
sentendo con grande intensità e con vivo entusiasmo e tenne sempre presente, il
momento primario e insieme terminale dell’arte che è la bellezza.
Winckelmann, teorizzò il concetto di bellezza ideale, che è
una sintesi perfetta di umano e divino e che può derivare solo dal superiore
controllo delle passioni e dei sensi, riassumendo le caratteristiche
fondamentali dell’arte classica nella seguente formula: “La nobile semplicità e la calma grandezza”. Il primo sintagma si
riferisce all’eleganza di quest’arte, che deriva essenzialmente dalla sua
semplicità; il secondo, invece, rimanda a un significato più profondo:
Winckelmann pensava che l’arte greca trasmettesse sempre un messaggio di tipo
etico, quello secondo il quale l’uomo, pur accettando la parte emozionale della
sua natura, debba costantemente esercitare un controllo razionale sulle proprie
passioni in modo da mantenere equilibrio interiore e serenità d’aspetto.
L’artista contemporaneo, quindi, non deve limitarsi a imitare le forme
dell’arte classica, ma deve accettare e far propri i suoi valori, sentiti come
ancora attuali, ed esprimerli nelle sue opere.
In conformità a tale concezione, l’equilibrio dell’arte
classica si propose come modello di fusione tra lo spirito e il corpo. Lo
studioso tedesco identifica l’attività dell’artista con un procedimento di
autocontrollo che renda l’opera capace di suscitare nell’animo il pathos che ne costituisce l’unicità. Tal
eccezionalità prende il nome di “sublime”.
Le
riflessioni di Burke e di Winckelmann ebbero qualche eco nell’opera di Immanuel
Kant (1724-1804), che, nella Critica del giudizio del 1790 sostenne che si ha un giudizio estetico quando, commossi per
la contemplazione di uno spettacolo della natura o di un oggetto d’arte,
proviamo un piacere che non ha legami con la conoscenza intellettuale. Tale
piacere deriva dalla corrispondenza tra il bello cui assistiamo e le nostre più
profonde aspirazioni. Il Bello deve produrre armoniosa quiete e Kant distingue
fra il semplice bello e il sublime, vale a dire quello che appare
in oggetti di potenza e proporzioni smisurate. Di fronte a spettacoli sublimi,
l’uomo non può non percepire, da un lato la propria insignificanza ma,
dall’altro, la coscienza della propria superiorità morale e del proprio destino
soprasensibile. Kant sosteneva inoltre che il bello è dettato da un libero
gioco delle facoltà intellettive, per cui al vedere un bel paesaggio proviamo
piacere perché è come se esso si adeguasse spontaneamente alle nostre categorie
intellettive; per il sublime, invece, Kant – che aveva in mente il cielo
stellato, le catene montuose, il mare in tempesta – intende qualcosa di
ambiguo, che desta al contempo piacere e senso di smarrimento: l’oggetto in
questione – il mare in tempesta, il cielo stellato o le montagne – non si
adegua spontaneamente a noi e alle nostre facoltà conoscitive, ma ci incute
timore perché manifesta la sterminata grandezza e la sterminata potenza della
natura di fronte alla sterminata piccolezza e impotenza dell’uomo; mentre il
bello è univocamente positivo, il sublime è positivo e negativo al tempo
stesso.
c)
La rivoluzione copernicana di Kant –
Come Copernico, che nel campo astronomico capovolse la concezione dei Tolomeo
ponendo non più la Terra (geocentrismo) al centro del nostro sistema, ma il
Sole (eliocentrismo), allo stesso modo Immanuel Kant compì una rivoluzione nel
modo di intendere la filosofia: il soggetto (paragonabile al sole copernicano),
non gravitava più passivamente intorno all’oggetto (la terra), e non dipendeva
più da un mondo già costituito secondo propri principi e leggi, ma con la sua
attività a priori illuminava l’oggetto ordinando i dati sensibili.
Una
volta definito questo concetto, la riflessione di Kant si concentrò
sull’analisi critica di tutta l’attività dell’uomo, elaborando quella trilogia
unitaria che costituisce il cuore della filosofia kantiana: La Critica della ragion Pura, La critica della ragion Pratica e La Critica del Giudizio, tre passaggi
fondamentali che indagavano rispettivamente il modi di apprendere dell’uomo
(conoscenza nella critica della ragion pura), il suo modo di volere
(azione nella critica della ragion pratica), ed infine il suo modo di
sentire (sentimento nella critica del giudizio).
12. L’Illuminismo - Il Settecento chiamò
se stesso l’età dei lumi, intendendo
significare che in questo secolo l’umanità, nella sua evoluzione storica, era
pervenuta all’età della ragione. Con i lumi della ragione l’umanità avrebbe
dissipato le tenebre dell’ignoranza che nel passato avevano consentito il
prevalere dell’arbitrio, delle ingiuste posizioni di privilegio, della
superstizione e dell’intolleranza.
L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dalla minorità. «Abbi il
coraggio di servirti della tua propria intelligenza. Questo è il metodo
dell’Illuminismo». Così scriveva nel 1784 Kant, il grande filosofo tedesco che,
pur affrontando una tematica diversa da quella dell’Illuminismo e con metodi e
risultati di tutt’altra natura, considerava l’Illuminismo come una conquista
irrinunciabile dello spirito umano nel suo sviluppo.
a)
Origine e diffusione
- L’Illuminismo permeò di sé tutta la cultura del XVIII secolo ed ebbe il suo
centro di diffusione nella Francia. Ma gli stessi filosofi illuministi,
Voltaire e gli enciclopedisti per primi, indicavano nell’Inghilterra la patria
delle idee che lo caratterizzavano. Locke
[[2]],
il filosofo empirista che sosteneva essere l’esperienza l’unica fonte di ogni
nostra conoscenza, e Newton, che
fondava la fisica sull’esperienza e sulla matematica, erano indicati a modello
per il loro metodo scientifico. Le istituzioni politiche e i costumi civili
degli inglesi erano messi a confronto con quelli francesi per mostrarne la
superiorità dovuta ai principi di libertà e di tolleranza ai quali essi si
ispiravano. Gli scritti brillanti, anticonformisti, spregiudicati, dal
linguaggio immediato ed efficace, diffusero rapidamente la nuova filosofia ben al di là della ristretta cerchia degli studiosi
e degli eruditi, raggiungendo i ceti della borghesia in ascesa, creando
un’opinione pubblica. I temi trattati erano tutti quelli che riguardavano la
vita associata e che avevano un carattere di attualità, non esclusi quelli
della politica e della religione. La spregiudicatezza procurò ai loro autori
gravi noie e li portò, in alcuni casi, a risponderne in tribunale ed a subire
condanne al carcere. Grazie alla pubblicistica le idee dell’Illuminismo
travalicarono le frontiere e si diffusero in tutta Europa e anche nelle colonie
d’America. Il carattere di lingua internazionale che il francese aveva nel
XVIII secolo, grazie alla posizione di prestigio di cui la Francia da tempo
godeva, ne favorì la diffusione.
b)
L’Enciclopedia - Lo
strumento che maggiormente concorse alla diffusione della mentalità
illuministica fu un’impresa culturale di eccezionale impegno, la pubblicazione
tra il 1751 e il 1772 dell’Enciclopedia o
dizionario ragionato delle scienze delle arti e dei mestieri ad opera di
una società di uomini di lettere in 24 volumi. Ideatore del progetto fu Diderot
che ne fu anche direttore, per un certo tempo, assieme a D’Alembert. L’opera,
proponendosi di offrire un inventario critico
delle conoscenze umane per propagare la cultura, rischiarare le coscienze e combattere l’intolleranza e le
superstizioni,
offriva una sistemazione generale del sapere umano nei suoi
diversi settori, lontano da ogni accademismo e facilmente accessibile ad un
vasto pubblico. A fianco delle ultime acquisizioni delle scienze, erano
illustrate anche quelle della tecnica, accompagnandole con la descrizione dei
procedimenti e degli utensili dei diversi mestieri. Era un accostamento del
tutto nuovo, che rispecchiava la posizione acquisita dalle nuove tecniche di
lavoro, le cosiddette arti meccaniche
che soltanto un secolo prima erano considerate con disprezzo. Le autorità, in
particolare quella ecclesiastica, ostacolarono la pubblicazione dell’opera, che
fu sospesa per un certo tempo e che, per essere completata, dovette essere
stampata fuori dalla Francia e subire negli ultimi volumi tagli non
indifferenti. Il gruppo di letterati e tecnici che lavorò all’Enciclopedia era
abbastanza numeroso e comprendeva nel suo momento più felice personalità di primissimo
piano, come Voltaire, Rousseau, Quesnay, Turgot, Necker, D’Holbach, e tanti
altri.
L’arte tra Seicento e Settecento – I decenni a cavallo della metà del Settecento videro un singolare
intreccio di gusti, mode, ideali e modelli culturali. Al tramonto del Barocco
si sovrappose il nascente gusto Rococò e il sorgere del Neoclassicismo.
Un orientamento
importante venne dall'estetica, che in quei primi decenni del Settecento
acquistò autonomia disciplinare e rigore filosofico. La sfera artistica era assunta
come banco di prova della teoria estetico-filosofica del bello. Per il padre
del neoclassicismo, lo storico dell’arte tedesco Joachim Winckelmann, il bello
artistico non è più l'imitazione della natura, ma la sua modellizzazione in
forme ideali, capaci di cogliere il carattere spirituale e divino della
bellezza originaria, com'era accaduto con i greci.
a) Il
Rococò - Il Rococò è uno stile
architettonico e decorativo che si sviluppò in Francia verso il 1730 e di qui
si diffuse in tutta Europa, anche nel campo della scultura e della pittura. Il
nome gli deriva da un'alterazione scherzosa del termine francese rocaille (roccia artificiale). Caratterizzato
dalla tendenza a negare la forma architettonica rivestendola con un gioco
capriccioso e leggero di stucchi, cornici dorate, festoni, volute bizzarramente
intrecciate, il rococò si pone da un lato in contrapposizione al pesante plasticismo
barocco, dall'altro in stretta continuità con la ricerca di ritmi dinamici
tipica del Barocco stesso, ma interpretata in chiave raffinata e leziosa.
Aspramente avversato dalle contemporanee correnti classicistiche e
tardobarocche, questo stile fu considerato negativamente per tutto l'Ottocento.
Il
Rococò fu l'espressione artistica dell'aristocrazia cosmopolita al termine
della sua funzione storica, che mascherava la coscienza del declino
nell'evasione dalla realtà e nella costruzione di un mondo fittizio tramite il
mito dell'eterna giovinezza e dell'imperturbabile serenità.
La
rivoluzione estetica del rococò si realizzò nell'armoniosa interrelazione di
tutti i particolari dell'arredamento, a cui concorrevano in uguale misura tutte
le arti indirizzate alla creazione di ambienti in cui arredamento e
architettura interagiscono.
La
circostanza a cui si attribuisce l'inizio del Rococò fu il trasferimento della
corte reale francese da Versailles a Parigi dopo la morte di Luigi XIV nel 1715.
Questo spostamento costrinse la nobiltà a riorganizzare i palazzi privati della
capitale, da lunghi anni abitati solo saltuariamente. Per porre rimedio agli
spazi ristretti si sviluppò il gusto per le pareti chiare, spalancate dalla profusione di specchi e stucchi leggeri, per i
mobili piccoli e laccati a tinte pastello, per i quadri anch'essi dalle
tonalità chiare, per i soprammobili di dimensioni minime e di soggetto frivolo.
In
Francia il Rococò ebbe scarsa applicazione nell'esterno degli edifici, che
conservarono forme classicheggianti, ma raggiunse le sue espressioni più
raffinate e preziose nella decorazione e nell'arredamento degli interni.
Spicca
l'opera di Jean-Antoine Watteau
(1684-1721), pittore sensibile ai fiamminghi e agli olandesi che dipinse tele
con soggetti militari, galanti e ispirati al teatro (Gilles, 1717,
Parigi, Louvre; Giudizio di Paride, 1720,
Parigi, Louvre; Insegna di Gersaint, 1720,
Berlino, Charlottenburg).
Posteriore
è Jean-Honoré Fragonard (1732-1806),
che interpretò la cultura rococò con una grande varietà di soggetti, dai quadri
storico-mitologici (Geroboamo, 1732) a quelli di
carattere quotidiano (La fanciulla che legge) e,
soprattutto, alle rappresentazioni erotico-galanti (L'altalena,
1767; La
camicia rubata).
Nel
decennio 1730-40 gli artisti e gli artigiani francesi vennero invitati in tutte
le corti d'Europa dando inizio a quel fenomeno di internazionalizzazione della
cultura figurativa tipico di tutta la seconda metà del secolo. Tale fenomeno
visse appunto sulla figura dell'artista vagante (per l'Italia basti pensare a
Tiepolo), che stimolò soprattutto lo sviluppo dell'artigianato su canoni
europei comuni.
A Venezia ebbe uno sviluppo autonomo, indirizzato in
gran parte a una clientela straniera, una pittura definibile di gusto rococò
per la scelta di soggetti come il capriccio, la veduta fantastica e la scena di
vita. Essa ebbe i principali esponenti in Francesco
Guardi (1712-93) con Il Canal
Grande presso S. Geremia (Monaco,
Alte Pinakothek); Pietro Longhi (1720-85) con Scene contadinesche (Venezia, Ca' Rezzonico) e Scene di vita domestica (ca 1780, Venezia, Pinacoteca Querini Stampalia); Rosalba Carriera (1675-1757), che fece ampio uso del pastello e
dell'acquarello. Il dinamismo barocco ebbe ancora nel Settecento sviluppi impensati
e la pittura veneziana fu rappresentata da artisti come Giovanni Battista Piazzetta (1682-1754), autore di opere
dai drammatici effetti chiaroscurali che influirono profondamente sulla
formazione di Tiepolo; Giovanni Battista Pittoni (1687-1767), pittore elegante
e aggraziato; Ricci, Canaletto e Tiepolo.
b)
Il Neoclassicismo – Il Neoclassicismo è il movimento artistico
sviluppatosi in Europa tra la seconda metà del Settecento e i primi decenni
dell'Ottocento, negli anni tra lo scoppio della Rivoluzione francese nel 1789 e
la caduta di Napoleone nel 1815. La sua maggior diffusione fu comunque legata
alle fortune napoleoniche.
Ciò
che distinse nettamente il neoclassicismo da precedenti riferimenti al grande
patrimonio della classicità, è che esso si pose esplicitamente, per la prima
volta, il problema di una teorizzazione dell'arte. Non a caso intorno alla metà
del sec. XVIII si formò un'autonoma scienza dell'arte, cioè l'estetica
(teorizzata dal filosofo tedesco Alexander
Gottfried Baumgarten, (1714-62), e furono così affermati l'autonomia del
fare artistico e il suo riferirsi a ideali, canoni e modelli specifici del suo
ambito, cioè estetici. La teorizzazione neoclassica culminò negli scritti dello
storico dell’arte tedesco Joham Joachin
Winckelmann (1717-68; Storia dell'arte nell'antichità, 1764): proprio la
razionalità illuminista è alla base della scelta di un modello di bellezza
ideale, rintracciato nell'arte greca. Al costituirsi di tale modello
contribuirono notevolmente le scoperte archeologiche e la diffusione di
pubblicazioni sulle antichità greche.
Nell'estetica
del neoclassicismo la scultura occupò un ruolo primario, poiché in essa fu
individuata la forma principe in cui si era realizzato l'ideale di bellezza dei
greci. Fu quindi in questo campo che la ripresa del modello classico si fece
sentire pesantemente, specialmente nell'insegnamento accademico, che aveva come
base la copia dei gessi tratti da sculture antiche. Quelle caratteristiche di
impersonalità e freddezza, sottolineate come negative dai romantici, furono il
frutto di scelte precise, almeno da parte degli artisti maggiori: attraverso
un'esecuzione tecnicamente impeccabile essi volevano dichiarare la propria
disponibilità ad assolvere a una funzione civile e didascalica. Per grandissima
parte infatti la scultura neoclassica fu strettamente connessa
all'architettura, come complemento di edifici civili, monumenti, archi, colonne
commemorative.
c)
Antonio Canova - Antonio Canova (Possagno 1757 -
Venezia 1822) conobbe il favore dei papi e di Napoleone ed esercitò un grande
ascendente sulla scultura del tempo. Compì i primi studi fra Asolo e Venezia,
dove scolpì l'Orfeo ed Euridice (1773), il Dedalo e Icaro (1779, Venezia, Museo Correr) e l'Apollo (1779),
opere che risentono ancora dell'influsso di Bernini.
Nel
1779 si recò a Roma e vi si stabilì. Nel 1783 eseguì il monumento a Clemente XIV (Roma,
Santi Apostoli), prima opera d'impronta neoclassica nella quale ridusse il
movimentato insieme berniniano in uno schema geometrico poi applicato anche nel
monumento a Clemente XIII (Roma,
S. Pietro), ultimato nel 1792. Contemporaneamente scolpì l'Amore e Psiche (Parigi, Louvre), che documenta un sempre maggiore
interesse di Canova per l'antico, espresso anche nelle opere successive
(monumento Emo, 1792, Venezia, Museo navale; Adone e Venere, 1795, Ginevra, Villa Fabre a
Eaux-Vives; Ebe, 1796, Berlino).
Nel
1802 si recò a Parigi per scolpire il Ritratto di Napoleone e nel 1805 iniziò il Paolina Borghese raffigurata
come Venere vincitrice (1808,
Roma, Galleria Borghese). Il raffinato estetismo della sua produzione si
tradusse da un lato nell'esaltazione delle opere per Napoleone, di cui Canova
divenne scultore ufficiale, dall'altro in accenti sensuali e di nostalgica
rievocazione mitologica.
Nel
1813 terminò la Venere italica (Firenze,
Palazzo Pitti) e il gesso delle Tre Grazie (il marmo è del 1816, S.
Pietroburgo, Ermitage), opere in cui l'arte di Canova raggiunge il massimo di
astrazione formale e di voluta freddezza.
La pittura – Rispetto alla scultura, la
pittura neoclassica presenta con maggiore evidenza la complessità della cultura
neoclassica e i nessi con le contemporanee poetiche preromantiche. Se fu un
intento etico e civile ad animare l'attività di J.-L. David, l'interpretazione dell'italiano Andrea Appiani (Milano
1754-1827) fu più celebrativa, e diversa ancora la "cronaca" delle campagne napoleoniche del parigino Antoine Jean Gros (1771-1835), così come
è impossibile definire in modo unilaterale la personalità di J.-A.-D. Ingres, maestro dell'arte pura
e tuttavia presenza fondamentale per momenti culturali diversi, dal purismo al
nostalgico e idealizzato stile troubadour (sviluppatosi in Francia tra il 1780 e il
1820, e ispirato ai miti del Medioevo e del mondo cavalleresco), al
romanticismo storico.
Jacques-Louis David – Jacques-Louis David (Parigi
1748 - Bruxelles 1825) fu il pittore della rivoluzione francese e poi
dell'epopea napoleonica. A Roma tra il 1775 e il 1780, fu attratto soprattutto
dalla scultura classica, maturando quel rigore e quella nitidezza formale che
fanno delle sue opere gli esempi più coerenti della pittura neoclassica. Nel
1784 dipinse il Giuramento degli Orazi (Parigi, Louvre), presentato al Salon
di Parigi del 1785.
Durante la
rivoluzione partecipò attivamente alla vita pubblica; nel 1790 i giacobini gli
chiesero di dipingere Il giuramento della Pallacorda (Versailles), ma l'opera non fu mai
terminata e ne resta soltanto il bozzetto. Nel Marat assassinato (1793,
Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts) David affrontò nuovamente un tema di
storia contemporanea, ritraendo la scena con crudo realismo. Nel 1799 portò a
termine il dipinto Le Sabine (Parigi, Louvre), costruito
secondo i canoni del bello ideale, quasi un manifesto del neoclassicismo.
Quando Napoleone salì
al potere David gli fu al fianco e nel 1804 diventò suo primo pittore,
esaltandone tra gli altri l'epopea nei dipinti Napoleone varca le Alpi al Gran
S. Bernardo (1800,
Berlino, castello di Charlottenburg); la Consacrazione di Napoleone (1805-07, Parigi, Louvre); La distribuzione delle aquile (1810, Versailles); nel bozzetto dell'Ingresso di Napoleone all'Hôtel de Ville (1805). David dipinse anche numerosi
ritratti, eccellenti per la fine indagine psicologica e per la grazia della
composizione: Madame Récamier (1800), M. et M.me Sériziat (1795 ca), Pio VII, tutti al Louvre.
Ingres – Jean-Auguste-Dominique Ingres (Montauban 1780 – Parigi
1867), seppure legato all'estrema compostezza e al rigoroso purismo della
corrente pittorica neoclassica, se ne allontanò in senso quasi romantico per
l'acutezza psicologica dei suoi ritratti e per la tesa sensibilità espressiva e
formale di tutta la sua pittura. Allievo di David, nel 1801 vinse il Prix de
Rome ed eseguì una serie di ritratti, tra cui i famosi Napoleone primo console (1804,
Liegi, Musée des Beaux-Arts), Napoleone I sul trono imperiale (1806, Parigi, Musée de l'Armée) e
quelli della Famiglia Rivière (Parigi, Louvre).
Nel 1806 partì per
Roma, dove studiò Michelangelo e soprattutto Raffaello: (Raffaello e la Fornarina, Cambridge, Massachusetts,
Fogg Art Museum).
Dal 1810 al 1820
eseguì numerosi ritratti, decorò la Villa
Aldobrandini e un soffitto del Quirinale con il Sogno di Ossian (1813-15,
Montauban, Musée Ingres). Inoltre dipinse opere che, inviate a Parigi, furono
aspramente criticate, ma considerate poi tra le sue più significative: Giove implorato da Teti, (1811, Aix-en-Provence, Musée
Granet), la Grande odalisca, (1814) e Ruggero libera Angelica (1819), entrambe al Louvre di Parigi.
Su commissione della sua città natale dipinse Il volto di Luigi XIII (cattedrale di Montauban), che
nel 1824 portò egli stesso in Francia e che gli procurò onori e commissioni.
Direttore
dell'accademia di Francia a Roma, eseguì l'Odalisca con la schiava (1839, Cambridge, Massachusetts, Fogg
Art Museum) e Antioco e Stratonice (1840, Chantilly, Musée Condé), che gli
valsero un trionfale rientro in Francia (1841), dove si moltiplicarono le
commissioni e gli incarichi ufficiali. Dipinse bellissimi ritratti: Madame Gonse (1845-52,
Montauban, Musée Ingres), La baronessa di Rothschild (Parigi, collezione privata);
composizioni storico-esotiche, quali l'Apoteosi di Napoleone I per la prefettura di Parigi, la Sorgente e il Bagno turco (1859-63), entrambi al Louvre.
13. I caratteri fondamentali dell’Illuminismo -
Parlando dell’Illuminismo, occorre ricordare subito la varietà di posizioni che
si riscontrano tra quelli che ne sono considerati i rappresentanti; varietà che
a volte giunge a profonde divaricazioni anche su temi centrali, di politica e
di religione. Al di là di ogni diversità esiste, però, un atteggiamento mentale
comune e la comune accettazione di alcuni principi fondamentali.
a)
La società come tema privilegiato –
Mentre finora la filosofia aveva avuto come oggetto principale Dio o la natura
e i rapporti uomo-Dio, uomo-natura, gli illuministi si propongono come tema
principale la società e le sue istituzioni e il rapporto tra gli uomini. L’uomo
deve essere liberato, in nome della ragione, da tutti gli impacci e i legami
della tradizione. La critica alla tradizione è il procedimento tipico
dell’Illuminismo.
b)
La fiducia nella ragione come
metodo – La ragione è esaltata come la luce che disperderà
l’oscurantismo del passato e indicherà le soluzioni da prendere per realizzare
una società dalla quale sia bandito, assieme all’ignoranza e alla
superstizione, anche il vizio, e nella quale sia assicurata la felicità. È
chiaro che –
rispetto alla razionalità moderna, impegnata nei grandi problemi metafisici –
la ragione illuministica è soprattutto rivolta allo studio della realtà terrena
e quotidiana, con un’attenzione particolare alle dimensioni della felicità e
dell’utilità: per questo la ragione a cui ci si riferisce non è la ragione
astratta dei filosofi, ma è uno strumento di ricerca. Per questo sarebbe più
preciso parlare di fiducia nella scienza, o nel suo metodo, che si vuol
applicare oltre che allo studio della natura anche all’esame della società e
dei suoi problemi.
c)
L’uguaglianza degli uomini e la
libertà – Una delle prime verità che la ragione proclama è che gli
uomini sono per natura uguali. Le uniche differenze, ragionevolmente
accettabili, sono quelle dovute ai meriti personali; tutte le altre sono da
respingere, a cominciare dai privilegi connessi alla nascita. Come per natura
gli uomini sono uguali, così sono liberi, e nessuno può essere privato di
questo diritto fondamentale, che consiste nel poter disporre della propria
persona e dei propri beni, nel modo che si ritiene più conveniente alla propria
felicità. Se un sovrano pretende di disporre a suo arbitrio della vita e dei
beni dei sudditi, questi hanno il diritto di ribellarsi, perché, comportandosi
così, il sovrano va contro alla finalità dello Stato che consiste nella difesa
degli inalienabili diritti naturali.
d)
La tolleranza
– L’affermarsi di una razionalità mondana e pragmatica si congiunge a una
tendenza polemica contro le religioni tradizionali e la Chiesa, considerate
frutto di imposizione autoritaria, strumento di dominio politico, di
superstizione e intolleranza. Insieme alla libertà e all’uguaglianza, trova
enorme diffusione la parola d’ordine della tolleranza. Non solo è affermata
vigorosamente l’autonomia della coscienza morale, ma vi si ravvisa il criterio
e la garanzia dell’efficacia e validità della religione stessa. La divinità è
concepita come un ente supremo, in un senso deistico più che
teistico e spogliata di molti degli attributi assegnati da secoli di teologia e
metafisica. Per questi motivi, una delle espressioni fondamentali
della libertà fu la libertà di pensiero e, in particolare, la libertà di
religione. Unico limite a questa libertà è il rispetto delle leggi, che garantiscono
il diritto degli altri e un’ordinata convivenza. Lo Stato, pertanto, non può
imporre una religione, né perseguitare i dissidenti, ma deve tollerare
qualsiasi confessione. L’intolleranza e il fanatismo religioso sono sempre
stati causa di atroci delitti e di sanguinose guerre: la tolleranza, invece, ha
sempre favorito la convivenza civile e il fiorire delle arti, delle scienze e
delle attività economiche.
e)
L’universalismo
– Affermare che tutti gli uomini sono uguali davanti alla ragione significa considerare
le differenze storiche e nazionali come non essenziali. Per questo nelle
Dichiarazioni dei diritti, come quella americana e quella francese si pretende
che esse siano valide «per tutti gli uomini, per tutti i tempi, per tutti i
Paesi». E l’uomo che ha assimilato la nuova filosofia si considera, come
scriveva Baretti, «cittadino del mondo», il cosmopolitismo
che prende in considerazione anche le civiltà extraeuropee, e laica della
storia, che ne amplia l’orizzonte rispetto a quella cristianocentrica e di
ispirazione teologica.
f)
Funzione sociale della cultura
– Se ogni epoca espresse un suo proprio ideale d’uomo, quello del Settecento fu
il filosofo, inteso come l’intellettuale che, libero da pregiudizi e da timori
reverenziali, affronta e dibatte i problemi della realtà sociale alla luce
della ragione. La più radicale messa in discussione dalla figura tradizionale
del letterato di corte si ebbe, però, nella metà del secolo quando si diffuse
anche in Italia il modello illuministico del philosophe, l’intellettuale
politico che doveva guidare l’azione dei governi: lo scrittore, insomma non era
più rinchiuso nel culto della parola fine a se stesso ma doveva partecipare
alla vita politica. E il suo fine non è puramente teoretico: con la sua ricerca
egli si sente impegnato in una grande opera a favore dell’umanità e del
progresso. La cultura è per lui uno strumento al servizio della «felicità degli
uomini», perché la lotta contro l’ignoranza è lotta contro il vizio e contro le
miserie materiali e morali. Una fiducia illimitata nel sapere gli fa guardare
con ottimismo all’avvenire che, grazie al trionfo dei lumi al quale egli ha
portato il suo contributo, non può che essere migliore del passato.
g)
L’Onnipotenza
dell’educazione – Il disagio della civiltà e la nostalgia dello stato
primitivo si combinano nel produrre la convinzione, largamente diffusa nell’Età
dei lumi che la natura umana è buona e che sono le istituzioni sociali e
politiche a corromperla. La critica delle istituzioni e della disuguaglianza
sociale (cui fa riscontro l’uguaglianza degli uomini allo stato di natura)
occupa gran parte della letteratura illuminista. Poiché gli uomini sono resi
malvagi dall’ambiente sociale in cui vivono (non già dal peccato originale) e
dalle cattive abitudini che ne derivano, ne consegue che un’educazione buona,
che assecondi le inclinazioni naturali avviandole a maturazione produrrà uomini
buoni e cittadini rispettosi della libertà e dei diritti degli altri. A questo
concetto di educazione naturale, intesa come un sostanziale non intervento, si
accompagna l’ideale illuministico di fare dell’istruzione una funzione sociale
e pubblica, gestita dallo stato e offerta gratuitamente a tutti i cittadini.
h)
La
concezione della storia – L’Illuminismo ebbe un senso
fortissimo della propria identità e dell’originalità dei propri connotati
storici. Con l’Illuminismo e con l’ascesa della classe borghese la nozione
stessa di storia acquista quel carattere universalizzante che le è dopo tutto
essenziale. Nel contempo la storiografia illuminista ridimensionò avvenimenti
come le guerre, i trattati diplomatici, le successioni al trono ecc., per
concentrarsi piuttosto sull’analisi delle istituzioni, dei costumi, delle
leggi, dell’economia e dei vari poteri. Di qui il concetto di «storia universale»
che costituisce un tipico prodotto della cultura illuminista. L’Illuminismo
nonostante la nostalgia per lo stato selvaggio e le critiche rivolte alla
civiltà, inclina verso un cauto ottimismo. La lotta dei lumi contro le tenebre
dell’ignoranza appare garanzia di progresso e di emancipazione umana lo
sviluppo della tecnica e dell’industria, l’aumento della ricchezza, il
diffondersi della cultura, diventano strumenti di felicità e di miglioramento
per il genere umano.
14. La letteratura
– I primi decenni del Settecento si caratterizzano come rifiuto e
smantellamento dell’estetica barocca. Con gli anni Trenta e Quaranta cominciò
ad affermarsi la nuova cultura dell’Illuminismo.
In Italia, la prima età del secolo è caratterizzato dall’opera
dell’Arcadia, mentre nella seconda
metà del secolo penetreranno le idee illuministiche.
Al Settecento appaiono di cattivo
gusto, l’abbondanza, lo sfarzo, la
libertà espressiva, la ricerca di squilibri e di eccessi tipici del Barocco.
Per reazione, si propone un’estetica radicalmente diversa, che reagisca al Barocco,
recuperando la lezione del mondo classico.
Il Settecento è, dunque, una nuova epoca di classicismo,
anche se in forme diverse rispetto a quanto si era fatto in età umanistica.
Non si ricorre più all’imitazione di precisi modelli, ma si
riprendono valori fondamentali e generali tipici dell’estetica classica: arte
che sia manifestazione dell’uomo e della realtà in tutte le sue
caratteristiche, ma sempre sorvegliata dalla ragione (contro l’irrazionalità di
certi esiti barocchi); ne derivavano ideali di compostezza, armonia, equilibrio
delle parti, semplicità, rigore, cioè tutti i valori di fondo dell’arte antica.
Inoltre, si sostiene che l’arte non debba avere semplicemente fini edonistici
(come era stato tipico dell’arte barocca, che si proponeva di piacere, stupire,
intrattenere, non di insegnare), ma debba perseguire un equilibrio tra edonismo
e finalità educative. Questo concetto confluirà poi nell’estetica illuministica,
che mirerà soprattutto ad un’arte utile e finalizzata alla realizzazione della
“pubblica felicità”.
In Italia il Barocco resiste più a lungo, ma in Francia già
alla fine del Seicento esso fu rifiutato e spesso accomunato al Manierismo (che
in realtà è molto diverso): Barocco e Manierismo sono accusati di esser un’arte
che ha abbandonato la ragione per fare affidamento esclusivamente sui sensi e
sulle impressioni (si tratta di una
cultura profondamente influenzata dal razionalismo cartesiano). Anche l’arte è
una forma di conoscenza e dev’essere quindi guidata dalla ragione.
Ne derivano:
·
rifiuto della polisemia barocca (gioco delle metafore,
ambiguità, pluralità di suggestioni)
·
linguaggio semplice e comunicativo, che esprima significati
chiari e comprensibili.
·
L’influenza
di Condillac – In età illuminista si affermano, accanto al razionalismo,
anche l’empirismo e il sensismo. Teorico del sensismo è Condillac che afferma
la necessità dell’esperienza per attingere alla conoscenza. Poiché veicolo
fondamentale dell’esperienza sono i sensi, la sensazione diventa strumento
conoscitivo per eccellenza: senza la sensazione non si dà conoscenza. Condillac
analizza i vari livelli di sensazione, da quella più immediata a quella che
perdura nel tempo e che permette di avere memoria di determinate esperienze e,
quindi, di ripetere quelle piacevoli e di fuggire quelle spiacevoli. Condillac
distingue due grandi gruppi di sensazione: quelle che ci danno piacere e quelle
che ci danno dolore. Le sensazioni si distinguono anche in base ad altri
parametri, per esempio in base al diverso grado di interesse che noi
manifestiamo per ciascuna di esse.
Condillac ci interessa perché pone grandissima attenzione non
più sulla ragione, ma sui sensi, cioè su facoltà fisiche ed istintive,
influenzando notevolmente l’elaborazione delle idee estetiche dell’epoca. Si
comincia infatti a pensare all’arte e alla letteratura come a manifestazioni
che hanno per fine il piacere, cioè il benessere dell’uomo: quello che si
ricerca non è un piacere razionale, ma fisico e sensuale. Ciò implicherà un
forte soggettivismo, dal momento che il piacere non è esattamente uguale per
tutti.
·
La
diffusione dell’Illuminismo in Italia –
In Italia l’Illuminismo fu quasi sempre mediato da una
perdurante eredità classica. L’Arcadia,
Metastasio, persino l’opera rigorosa
di Parini, come il gusto neoclassico
di fine secolo, perseguivano un equilibrio tutto italiano fra ricerca
razionale, reazione antibarocca e recupero del miglior classicismo della
tradizione.
Solo a metà secolo l’Illuminismo italiano trovò un carattere
originale soprattutto in area lombarda e napoletana.
In Italia, le idee sensiste arrivano nella seconda metà del
Settecento, in un’epoca in cui gli intellettuali si sono fortemente orientati
verso l’impegno civile: gli intellettuali più vivaci dell’epoca sono Verri,
Beccaria ecc., quindi non letterati, poeti, narratori tradizionali, ma philosophes, che si occupano di
politica, di economia, di diritto, cioè di problemi concreti, collegandoli al
loro impegno letterario. Pertanto, non c’è contraddizione tra gli ideali più
tipici dell’illuminismo e le nuove istanze del sensismo (in comune c’è
l’attenzione alla concretezza delle esperienze): l’arte continua ad avere come
scopo primario l’educazione al bene e ai cosiddetti valori civili nell’ottica
del raggiungimento della pubblica
felicità; ma, al tempo stesso, deve trattarsi di un’arte capace di
procurare piacere fisico e sensoriale all’individuo e, quindi, attenta alla
piacevolezza e gradevolezza delle forme, dei colori, delle immagini. Sono
abbandonate tematiche tradizionali astratte e razionalistiche, in nome
dell’adesione alle esperienza che concretamente danno piacere ai sensi, quindi
in nome di un’adesione al fluire vero della vita.
I nuovi intellettuali rivendicano una lingua concreta,
aderente anch’essa ai problemi e ai bisogni di comunicazione reale. Beccaria
nel saggio Ricerche intorno alla natura
dello stile, rifiuta arcaismi, astrattismi ed espressioni convenzionali, in
nome di una lingua capace di creare immagini e significati chiari ed evidenti.
In epoca di sensismo, si sottolinea che il piacere della lettura deriva dalla
soddisfazione di comprendere bene ciò che l’autore vuole dire. Un’opera d’arte
non è bella perché ornata da fronzoli e capace di stupire e meravigliare con le
sue eccentricità (com’era tipico del barocco). Si rifiuta una sintassi spezzata
ed ambigua, a favore di sintassi chiara e fluida; si raccomanda un uso
sorvegliato degli accorgimenti retorici (possono essere utilizzati solo quelli
che servono ad esprimere più efficacemente e con maggiore evidenza un
concetto). Il lessico dev’essere denotativo più che connotativo; esso
dev’essere, al tempo stesso sentito,
quindi padroneggiato pienamente anche dal lettore, e non solo dallo scrittore che
lo usa (ovviamente, per quanto riguarda la lingua italiana, questo è un
obiettivo assai difficile da raggiungere, visto che la lingua italiana è ancora
una lingua esclusivamente letteraria).
In età illuminista anche in Italia fioriscono i giornali: i primi
fogli si rifanno al modello dell’inglese Spectator,
in quanto non si occupano di tematiche specifiche, ma offrono un quadro
generale della società. Interesse predominante per gli illuministi è la ricerca
della felicità: anche l’arte è uno dei mezzi per raggiungere la felicità.
L’Illuminismo tende a vedere la felicità non tanto sotto
l’aspetto del sentimento privato e individuale (nonostante il sensismo operi in
questa direzione), quanto sotto l’aspetto del benessere collettivo. Muratori
afferma che la felicità è prima di tutto pace e tranquillità sociale, poi
sicurezza della vita e dei beni individuali; poi essa è giustizia (anche a
livello fiscale e tributario); infine, essa è anche agiatezza. Quest’ultimo
aspetto si fonda sulla speranza nei progressi scientifici. Inoltre, questi sono
valori tipicamente borghesi.
Nel teatro la letteratura settecentesca
diede gli esiti più innovativi: Goldoni a Venezia riformò la commedia in senso
borghese; Alfieri rinvigorì la tragedia portando sulla scena l’odio per ogni
forma di tirannide. A cavallo fra Settecento e Ottocento, nell’epoca della
rivoluzione francese e dell’impero napoleonico, il Neoclassicismo fu
rappresentato dall’importante esperienza di Monti, mentre nuova mediazione fra
classicità e romanticismo sarà espressa dall’opera di Ugo Foscolo.
·
La
lirica – Nella prima metà del secolo, la lirica si trovò al
centro di un programma innovatore
imperniato sulla polemica contro il barocco e sulla proposta di un ritorno a un linguaggio poetico più lineare. Si trattò
di una vera «battaglia» per il ripristino in letteratura del buon
gusto e della naturalezza; queste furono infatti le parole d’ordine
di un disegno riformatore che ebbe come
protagonista l’accademia dell’Arcadia, fondata a Roma nel 1690.
Tra i nomi più illustri degli accademici arcadi ricordiamo Pietro Metastasio, Paolo Rolli, Giambattista Felice Zappi. All’insegna del
programma dell’Arcadia si scrissero migliaia di versi, che si presentano come
innumerevoli variazioni del «già
detto» sia per quanto riguarda i temi, che ruotano in gran parte intorno a un amore «sospiroso», sia per
il linguaggio.
Qualche novità si affacciò solo nella
seconda metà del secolo, con la ripresa in
poesia di tematiche ispirate all’impegno civile.
Interessanti, sempre nella seconda metà
del Settecento, le influenze che giungono nella nostra
letteratura dai modelli stranieri: Melchiorre Cesarotti traduce una raccolta poetica inglese, i Canti di Ossian, che divenne uno dei
maggiori casi letterari del tempo e che introdusse
anche da noi il gusto per una poesia
indicata come sepolcrale, notturna
per le scelte tematiche che prediligono paesaggi
notturni, lugubri, misteriosi, presagi di morte, stati d’animo
indefiniti.
Una menzione meritano le Rime di Vittorio Alfieri che, utilizzando in prevalenza il sonetto, volle esprimere una
poesia impregnata di senso morale, di adesione
alla forza che promana dalla natura; Alfieri fu
considerato un modello di linguaggio nobile
e «forte» da molti poeti successivi, in particolare da Foscolo.
·
Il trattato – La straordinaria ricchezza del dibattito culturale
del Settecento, l’esplosione del confronto
di idee, la spinta alla diffusione del pensiero, si rispecchiano
in una trattatistica assai vivace e
copiosa che si rivolge a un pubblico più ampio e
in forme differenziate, pensate anche per la
divulgazione. In particolare nella seconda
metà del secolo il trattato, rinnovato nel linguaggio,
trasformato in strumento di intervento più diretto e immediato entro un
dibattito culturale che coinvolge non soltanto gli
specialisti, si conferma come la vera «arma» degli illuministi.
Le idee dei Lumi, che vengono in gran parte dalla Francia,
sono riassunte, spiegate e adattate alla realtà italiana,
messe in circolazione attraverso una trattatistica
che si differenzia profondamente dall’analoga
produzione dei secoli precedenti. Infatti il trattato risente in maniera diretta del trionfo delle tendenze
razionaliste e della «rivoluzione
scientifica» e pertanto tende ad essere una esposizione razionalmente
ordinata; si spoglia, anche se non completamente, dei caratteri
di scrittura letteraria, per puntare di più sulla forza
dimostrativa del ragionamento. Si può
dire, insomma, che nel Settecento si forma una nuova prosa di pensiero volendo indicare con questa espressione uno stile che, senza cadere nella lingua d’uso, è
tuttavia enormemente semplificato.
Entro questo quadro prendono un’evidenza
particolare alcune novità:
·
la tendenza alla divulgazione
scientifica: l’esempio italiano più efficace è
l’opera di Francesco Algarotti Newtonianismo per le dame, nella quale l’esposizione delle moderne teorie fisiche
è affidata al dialogo fra l’autore e una marchesa, in un’atmosfera da salotto, senza che questo tuttavia pregiudichi la sostanziale correttezza dei contenuti scientifici;
- l’attenzione
per i dati, l’erudizione: si tratta di una novità di rilievo, di un atteggiamento mentale e di metodo che deriva dallo sviluppo delle scienze sperimentali; esso sostiene l’importanza della qualità e della quantità dei dati e delle prove per qualsiasi processo di conoscenza. E in effetti l’erudizione settecentesca diede un apporto rilevante alla crescita della cultura moderna ed ebbe un particolare peso nel campo della ricerca storica, poiché l’importanza attribuita alla documentazione fece compiere un deciso passo in avanti verso una ricostruzione storica attendibile e scrupolosamente
verificata. La testimonianza più grande, che sorprende anche per la mole di lavoro che l’ha prodotta, è l’opera di Ludovico Antonio
Muratori che raccolse nei 25 volumi dei Rerum italicarum scriptores, salvandole
dalla dimenticanza, le «fonti» della storia
medievale in Italia;
·
l’analisi della società e le scienze umane: nella produzione di trattati del Settecento si colgono bene le tendenze della cultura illuministica a spostare l’attenzione sull’analisi della realtà sociale e politica, sui comportamenti intesi come fenomeni sociali. Un tema centrale è rappresentato dall’economia ricondotta all’analisi delle leggi economiche e indagata nelle sue componenti come, ad esempio, la circolazione del denaro, il prestito, il credito finanziario, i problemi dello scambio e del mercato. Altri settori particolarmente studiati sono testimoniati dai trattati sulla superstizione e in
difesa della ragione, dai trattati sull’ordinamento giuridico e sulla pena di morte, dai trattati sul carattere e il
ruolo dell’istruzione e sul concetto di «felicità pubblica», vale a dire sulle possibilità di progresso
e di miglioramento delle
istituzioni. A tutti questi vanno aggiunti i trattati di letteratura tra i quali ha un posto di
assoluto rilievo la Storia della Letteratura italiana di Girolamo
Tiraboschi.
·
Il romanzo – Nel corso del Settecento
si consumò la crisi dei generi narrativi in versi, in particolare scomparve il poema cavalleresco e il poema eroico; la lunga narrazione in versi di imprese straordinarie era ormai in aperta contraddizione con gli orientamenti della cultura e del gusto.
Il fenomeno segnò, in molte culture
europee, il decollo del romanzo come genere narrativo di più facile
lettura: nacque così e
si diffuse con straordinaria varietà di generi e forme il romanzo moderno
rivolto ad un pubblico di lettori non specialisti, i borghesi, che amano
identificarsi con la fantasia nell’eroe o nell’eroina.
Il
romanzo è un’opera di invenzione che si avvicina alla realtà: la vicenda
narrata è articolata secondo nessi logico-temporali ed i personaggi sono spesso
individui comuni con comportamenti che riflettono la mentalità degli ambienti
rappresentati.
In
questo secolo il romanzo divenne sempre più popolare, gli scrittori furono in
grado di analizzare la società con sempre maggiore profondità e i romanzi
rivelarono le condizioni di vita delle persone, schiacciate dai condizionamenti
della società o impegnate a liberarsene. Alcuni scrittori inglesi svilupparono
il genere, producendo modelli formali e strutturali destinati a influenzare
tutta la narrativa europea e americana.
Nel
corso del Settecento il romanzo, a seguito della grande diffusione e del
successo di pubblico, andò sempre più differenziandosi in molteplici varianti o
sottogeneri. Una caratteristica fondamentale del romanzo è infatti ciò che il
critico russo Michail Bachtin ha
definito enciclopedismo, la capacità cioè di assorbire al proprio
interno ogni forma di sapere, ogni linguaggio e soprattutto ogni aspetto della
realtà: la straordinaria novità del genere romanzo risiede nella sua plasticità
e nel suo dinamismo, nel fatto di cambiare continuamente, contaminando e
modificando anche i propri sottogeneri.
Fra
i generi romanzeschi del XVIII secolo spicca quello allegorico-filosofico [[3]], quello di impianto didattico-pedagogico [[4]],
Il castello di Otranto del 1764 di Horace
Walpole è il primo esempio di romanzo gotico[[5]].
Richardson inaugurò un nuovo modello narrativo, il romanzo epistolare [[6]],
in cui la vicenda viene rappresentata indirettamente dal testo delle lettere
scambiate tra due o più personaggi.
Questa proliferazione in Italia non avvenne infatti il romanzo fu il genere
letterario per il quale più ampia era stata la «distanza» fra
l’Italia e l’Europa del Settecento. Si può parlare di un vero ritardo culturale, determinato sia da
situazioni sociologiche (scarsità del pubblico dì lettori
borghesi, debolezza dell’industria editoriale), sia dalla forza di pregiudizi da parte di letterati che ritenevano il romanzo un genere minore, un ibrido non ben definito, dalle riserve di intellettuali, ecclesiastici che ne indicavano la «pericolosità». Per questo la produzione di
romanzi restò infatti limitata ad opere di basso profilo
letterario e artistico.
·
Le ultime lettere di Jacopo Ortis – Soltanto
alle soglie dell’Ottocento compaiono le Ultime lettere
di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, il primo romanzo che viene
tradizionalmente accolto nella nostra storia letteraria.
La
forma epistolare adottata da Foscolo si rifà a modelli narrativi rintracciabili
nella Clarissa di Richardson, ne La Nuova Eloisa di Rousseau e
nei Dolori del giovane Werther di Goethe, a cui Foscolo si ispira
direttamente. I caratteri principali dell’Ortis sono:
- il motivo
sentimentale: il romanzo indugia a descrivere i sentimenti personali del
protagonista di fronte alla realtà;
- l’autobiografismo:
il romanzo è espressione di una vicenda personale.
A differenza del Werther, nell’Ortis
il motivo sentimentale si complica con la delusione politica, causata nella
fattispecie dalla caduta di Venezia. La passione viene contrapposta all’intelletto
governato dalla ragione; la natura diviene lo sfondo delle vicende umane. Il
tono adottato è irruente, di sfogo.
Acquistarono invece un significativo rilievo le memorie e le autobiografie, fra le
quali troviamo testi che possono essere considerati fra i
capolavori del genere, come le Memorie inutili di Carlo Gozzi,
veneziano, autore di testi teatrali che si opponevano alle proposte
goldoniane di una nuova commedia, fondatore di giornali, e
le Memorie di Lorenzo Da Ponte, avventuriero, poeta, scrittore, autore di famosi libretti musicati da Mozart.
15. Giuseppe
Parini
- Parini fu un grande poeta. Fu un rinnovatore della materia poetica e un
artista capace di atteggiamenti assai disparati. Chi passa dall’Arcadia e dallo
stesso Metastasio a Parini, si meraviglia che in quel secolo sia nato un poeta
capace di tanta concretezza, e in campi del tutto ignoti alla poesia
contemporanea. L’ambiente elegante è sottinteso in gran parte della lirica del
tempo: solo in Parini è descritto. E la sua descrizione non è lo sforzo
retorico della poesia didascalica del secolo; ma uno specchio luminoso e
preciso. I salotti, i lunghi ordini di sale, gli scaloni, i mobili, gli arnesi
e i ninnoli sono ora delineati con un pennello largo e sicuro, ora delimitati e
intagliati dalla parola con un nitido rilievo: sicché anche l’ambiente
materiale, che di solito è assente dalla poesia o è cosa morta, qui diventa,
per questo sguardo attento e chiaro, vera e difficile poesia.
a) La vita - Giuseppe Parini
nacque a Bosisio in Brianza nel 1729 da famiglia di umili condizioni e di
scarsi mezzi economici (il padre era un modesto commerciante di seta). Poté
lasciare il paese natale per compiere gli studi superiori a Milano solo per
l’aiuto economico di una zia, che però condizionò l’appoggio che dava al nipote
al fatto che egli si facesse prete. Così il Parini fu indotto ad accettare un
orientamento di vita che sentiva poco congeniale alla sua natura. E benché
abbia poi sempre vissuto la condizione di prete con dignità ed onestà, è frequente
nella sua poesia il rimpianto per gli affetti e per una vita familiare che non
gli era stata concessa dalla sorte. Fu ordinato sacerdote nel 1754. Coltivava
intanto con passione lo studio dei classici e la poesia. Fin dal 1753 la
notorietà acquisita con un volumetto di versi giovanili gli aveva consentito
l’ingresso nell’Accademia milanese dei «Trasformati», un ambiente che, pur nel
culto della tradizione, era moderatamente aperto al nuovo pensiero
illuministico. Qui frequentò alcuni degli uomini più significativi del mondo
culturale milanese.
Aggravatasi
intanto, con la morte del padre, la condizione economica dei suoi, e costretto
a provvedere anche alla vecchia madre, cercò lavoro in qualità di precettore -
come era uso allora - presso famiglie nobili. Fu assunto in casa dei duchi
Serbelloni, dove rimase per otto anni, dal ‘54 al ‘62; e successivamente (1762)
in casa dei conti Imbonati, dove fu maestro di Carlo Imbonati cui dedicò la sua
ode L’educazione. Questo periodo segnò profondamente il Parini uomo e
poeta. Il suo lavoro lo metteva a contatto con quel mondo aristocratico che, se
da una parte, con la sua raffinata eleganza, esercitava su di lui, per natura
ammiratore del bello, un indubbio fascino, dall’altra suscitava il suo sdegno
morale per la vita fastosa e oziosa che la maggior parte dei nobili conduceva,
per la superbia insolente del loro comportamento, la loro vacuità
intellettuale e l’insensibilità morale. È uno stato d’animo bivalente, di
attrazione e di repulsione, in cui però la repulsione etica prevale, che
troveremo presente anche nella sua opera maggiore, Il Giorno.
Fu proprio la
pubblicazione delle prime due parti del Giorno, Il Mattino (1763) e Il Meriggio (1765), a richiamare
sul Parini, oltre all’ammirazione degli ambienti letterari, anche l’attenzione
del governo asburgico «illuminato», che intelligentemente cercava la
collaborazione dei più capaci e colti fra i sudditi lombardi. Così il ministro
plenipotenziario di Maria Teresa, il conte di Firmian, gli affidò prima la
direzione della Gazzetta di Milano (1768), e successivamente (1769) lo
chiamò a coprire la cattedra di eloquenza, cioè di letteratura, nelle Scuole
Palatine, trasformate poi nel Ginnasio di Brera. A questo incarico seguì più
tardi l’ufficio di soprintendente delle scuole pubbliche. «Il piccolo abate
plebeo - scrive il Sapegno - il povero e disprezzato pedagogo, era ormai un
letterato illustre e una figura importante nell’ambiente culturale di Milano,
partecipe di ogni impresa od iniziativa letteraria o artistica, pubblica o
privata». Lo scoppio della rivoluzione francese suscitò nel Parini, come in
tanti altri spiriti progressisti, la speranza che si instaurasse una società
più giusta; ma gli sviluppi sanguinosi del movimento rivoluzionario lo riempirono
di sgomento; le violenze del Terrore gli parve deturpassero, come egli stesso
disse, una delle più nobili cause dell’umanità. Tuttavia, quando, nel 1796, i
Francesi vennero in Italia con Bonaparte, accettò di col-laborare col nuovo
governo: fece parte della Municipalità, e in essa rappresentò la tendenza più
equilibrata e moderata. Vi difese anche, con libertà di spirito e di parola, il
diritto della Lombardia a darsi un’amministrazione autonoma, indipendente dalla
Francia. Spiacque perciò ai Francesi occupanti, e fu rimosso dall’incarico.
Morì nell’agosto del 1799, subito dopo il ritorno degli Austriaci in Milano.
b) Le opere - Lasciando da parte la sua
produzione minore, ricordiamo le seguenti opere: il Dialogo sopra la
nobiltà (1757), dove è sostenuto, con passione e impeto polemico, il
principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini; il poemetto satirico in
endecasillabi sciolti Il Giorno, di
cui le due prime parti, Il Mattino e Il Meriggio, uscirono
rispettivamente nel 1763 e nel 1765, e le ultime due, Il Vespro e La notte uscirono postume, l’ultima
incompiuta; le Odi, che furono composte in tempi diversi, dal 1757 al
1795. I principi sul fine e sulla funzione della poesia furono esposti dal
Parini in alcuni scritti di riflessione estetica.
c) I fermenti illuministici
lombardi e Parini
- Negli anni in cui si formava e dava poi i suoi frutti la personalità del
Parini, in Francia l’Illuminismo era giunto al suo periodo più maturo. Nel 1772
si concludeva la pubblicazione di quella summa del pensiero illuministico
che fu l’Enciclopedia.
Ma gli stimoli
dell’Illuminismo erano già operanti anche in Italia (ne abbiamo visto la
presenza nello stesso teatro goldoniano), e soprattutto in Lombardia, nel
movimento che metteva capo all’Accademia dei Pugni e al periodico «II caffè».
Anche il Parini sentì l’influenza delle nuove idee e concorse coi suoi scritti
ad avvalorarle. Fra i temi proposti dal pensiero illuministico alcuni gli
furono particolarmente congeniali: anzitutto il principio dell’uguaglianza di tutti
gli uomini e il rifiuto del privilegio di nascita (e in questo caso
l’Illuminismo si incontrava con quel cristianesimo cui egli fu sempre fedele);
il principio della responsabilità sociale dell’individuo in quanto membro di
una comunità, princìpio che sottintende una rigorosa disciplina etica nella
vita privata; e infine la funzione della cultura e in particolare della poesia,
che, se deve dar diletto al lettore, deve anche e soprattutto educarlo, deve
cioè agire positivamente all’interno della società,
Alla poesia del
Marino che mirava a stupire il lettore, a quella frivola degli Arcadi, il Parini
sostituiva così una poesia che mirava « a render saggi e buoni i cittadini suoi
». L’Illuminismo del Parini fu sempre, come del resto tutto l’Illuminismo
lombardo, assai moderato, lontano da posizioni estreme. La stessa polemica
pariniana contro la nobiltà, che è motivo ispiratore del Dialogo sopra la
nobiltà e del Giorno, non ha carattere eversivo, ma riformistico.
Il Parini non mira a spazzar via questa corrotta e inutile classe sociale, come
avrebbe poi fatto la Rivoluzione francese, ma a correggerne i difetti e a
renderla migliore, così che potesse proficuamente agire nella vita pubblica
insieme e accanto all’emergente borghesia.
d) Il «lusinghevol canto» - In una delle Odi il Parini
sostiene che il poeta quale egli lo
intende può considerarsi lieto della meta raggiunta quando «Putii unir può al vanto /
di lusinghevol canto».
intende può considerarsi lieto della meta raggiunta quando «Putii unir può al vanto /
di lusinghevol canto».
Dalla funzione
educatrice della poesia («l’utìl») egli giudica quindi inscindibile il pregio
dell’arte, che da gioia e offre bellezza agli uomini (il «lusinghevol canto»),
A differenza degli Illuministi del Caffè, che nei loro scritti puntavano
esclusivamente sui contenuti e trascuravano la forma, il Parini della forma
ebbe il culto, e la voleva esatta, nitida, elegante; e perciò sottopose sempre
i suoi lavori a lunga e attenta rielaborazione. Maestri di bella forma
giudicava i classici, soprattutto Orazio, che aveva esortato i poeti all’uso
della lima, cioè all’attenta e paziente elaborazione formale. In questo senso
Parini, illuminista di spiriti, fu partecipe delle istanze del movimento
neoclassico.
e) Ispirazione e temi del «Giorno» - Come abbiamo
detto, il Giorno è un vasto poema in endecasillabi sciolti, suddiviso in
quattro parti: Mattino, Meriggio, Vespro e Notte. In questi
quattro tempi della giornata il Parini immagina di accompagnare e guidare, in
qualità di maestro, di «precettor d’amabil rito», un giovane patrizio, il
«giovin Signore».
Passa così
davanti al lettore la giornata futile, vuota, di tanta parte della società
aristocratica, la mancanza di ideali che la connota, la tronfia superbia e
l’arida crudeltà. Nel Mattino la scena si concentra intorno al personaggio
del «giovin Signore» intento alla lunga toilette, alle prime frivole
occupazioni della giornata, circondato da una schiera di servi. Poi via via il
paesaggio umano si dilata. Il giovin Signore si reca a pranzo dalla dama di
cui è «cavalier servente» (e la moralità del Parini si ribella a questa istituzione
che corrode il matrimonio); e intorno alla tavola sono raccolti alcuni campioni
curiosi di questa deteriore umanità. Nel Vespro la coppia è
rappresentata durante la passeggiata al corso, nei suoi rapporti con gli altri
aristocratici, che anch’essi non hanno altro scopo se non di farsi ammirare. La
Notte infine, rimasta incompiuta, descrive un fastoso ricevimento nella
casa di una nobile dama, ed è un largo affresco in cui si muove una società
ormai decrepita, in preda a una noia che cerca invano di affogare in squallidi
divertimenti e in hobbies maniacali.
Procedendo dalla
prima all’ultima parte del Giorno muta la tecnica rappresentativa usata
dal poeta: alla descrizione minuziosa e analitica del Mattino e del Meriggio
si sostituisce, nel Vespro e nella Notte, una
rappresentazione più rapida, a pennellate sempre più larghe.
Musa del poema è
l’ironia, qualche volta lieve, a volte dura fino al sarcasmo, là dove la
coscienza morale offesa del poeta si rivela più risentita. Significativo in
questo senso è l’episodio della «vergine cuccia».
Mentre Parini
componeva il Giorno, la Rivoluzione francese spazzava via nel sangue la
classe nobile. Forse per questo, perché cioè gli pareva di incrudelire contro
chi aveva duramente pagato le sue colpe, il Parini non pubblicò le ultime due
parti del poema, che, come abbiamo detto, uscirono postume.
f) Le Odi - Se nel Giorno
il Parini denuncia quello che una società non deve essere, in 16 delle 19 Odi
propone il modello di una società nuova e migliore. Fra di esse alcune sono
particolarmente significative. Nella Salubrità dell’aria, mettendo
Milano a confronto col suo salubre paese brianzolo, il Parini denuncia gli
speculatori che per lucro mettono a repentaglio la salute della città,
circondandola di malsane risaie e marcite; descrive poi con un linguaggio
nuovo, audacemente realistico, le intollerabili condizioni igieniche di cui è
responsabile «l’inerzia privata», cioè il cieco assenteismo dei cittadini che si
disinteressano dei problemi della collettività; e infine afferma energicamente
la funzione civile della poesia. Nell’Educazione delinea un equilibrato
ideale pedagogico che mira a sviluppare armonicamente nei giovani la sanità
fisica e quella morale, alimentata quest’ultima da una religiosità non
formalistica ma interiormente vissuta. Nella Caduta esprime il suo
sdegno amaro verso chi si prostituisce ai potenti, e, per avidità di successo o
di ricchezze, viene a patti con la propria dignità e la propria onestà.
Nell’ode Alla Musa infine, l’ultima in ordine di tempo, viene rappresentato
l’ideale pariniano di vita: una esistenza misurata e serena, confortata
dall’amicizia e dagli affetti familiari, improntata al vero, al giusto, al
godimento onesto del bello. È questa l’unica forma di vita - afferma il Parini
- dalla quale può nascere autentica poesia.
Carattere
diverso hanno le tre odi Il pericolo,
Il dono, Il messaggio, nelle quali il Parini si abbandona alla
contemplazione della bellezza femminile. Di esse la migliore è Il messaggio,
in cui sono presenti toni nuovissimi, di intensa e suggestiva
malinconia, quasi prefoscoliani.
16. L’arte
nell’età napoleonica: il Neoclassicismo e il Preromanticismo - Nell’età napoleonica,
accanto a un persistente e vigoroso filone culturale illuministico, vanno
diffondendosi un gusto e una cultura neoclassici; mentre già si fa strada una
sensibilità nuova, di tipo preromantico.
a) Il Neoclassicismo – Il
Neoclassicismo che, come dice il nome, rappresenta un ritorno al mondo
classico, fu originariamente un fenomeno germanico ed italiano. Trovò infatti
il suo primo stimolo nell’interesse di alcuni studiosi tedeschi della seconda
metà del Settecento (l’archeologo Winckelmann, il letterato Lessing) per l’arte
antica, e incontrò fortuna soprattutto in Italia dove apparve come una difesa e
una rivendicazione delle nostre tradizioni classiche.
Più tardi l’arte
neoclassica, assunta ufficialmente alla corte di Napoleone, il quale si
compiaceva di dare lustro al suo recente impero connotandolo con le forme
classiche «imperiali», si diffuse per tutta l’Europa al seguito dei vittoriosi
eserciti francesi.
·
Il «bello
ideale» - Il Neoclassicismo nel campo delle arti figurative, dove si
afferma più vigorosamente che altrove, propugna il perseguimento di un «bello
ideale», cioè dì una bellezza intesa come pura armonia, che trascende la stessa
bellezza naturale e che si identifica con le forme dell’arte classica,
soprattutto greca (si pensi alle sculture di Canova, ai dipinti di Appiani); in
letteratura sollecita un ritorno alle opere dei classici, considerate modelli
di perfezione.
Tuttavia la denominazione di Neoclassicismo è generica e comprende manifestazioni fra loro diversissime: dalle fantasie mitologiche di un Monti, alle immagini e figurazioni classiche di Foscolo maggiore, attraverso le quali questo poeta esprime una sensibilità appassionata e già di tono romantico.
Tuttavia la denominazione di Neoclassicismo è generica e comprende manifestazioni fra loro diversissime: dalle fantasie mitologiche di un Monti, alle immagini e figurazioni classiche di Foscolo maggiore, attraverso le quali questo poeta esprime una sensibilità appassionata e già di tono romantico.
·
Il «purismo
linguistico» - In
sede linguistica il neoclassicismo diede luogo al fenomeno del purismo, cioè a
una difesa della purezza della lingua tradizionale contro le infiltrazioni
straniere, soprattutto francesi.
b) Il preromanticismo - È prematuro qui
parlare di romanticismo vero e proprio; infatti i primi documenti romantici in
Italia saranno pubblicati solo nel 1816, e nei primi de cenni dell’Ottocento si
spiega appieno l’attività del Manzoni, che è considerato il caposcuola del
romanticismo italiano. Tuttavia, questo scorcio di Settecento italiano e inizio
di Ottocento può essere considerato preromantico perché vi si sente la presenza
di una sensibilità nuova, connessa a quel movimento romantico già in pieno
sviluppo in Germania e in altri Paesi dell’Europa.
Così ad esempio
sono preromantici certi atteggiamenti elegiaci, dolcemente malinconici, in cui
alcuni poeti si adagiano; la predilezione per i paesaggi cimiteriali; il senso
perenne d’esilio così vivo ad esempio nell’opera foscoliana; l’ansia di valori
assoluti quali la bellezza, l’immortalità; la violenta lacerazione delle
passioni.
17. Ugo Foscolo
– Ugo Foscolo è stato il principale esponente letterario
italiano del periodo, a cavallo fra Settecento e Ottocento,
nel quale si manifestano o cominciano ad apparire in Italia le correnti del Neoclassicismo, del Preromanticismo e del Romanticismo. “Se Vincenzo Monti
fu lo specchio dell’Italia fra i due secoli, Ugo Foscolo ne fu la coscienza”:
con queste parole Attilio Momigliano inizia il capitolo dedicato a Foscolo
nella sua Storia della Letteratura
italiana, sintetizzando un giudizio complessivo sulla validità storica
della presenza foscoliana.
a) La vita – Nel 1778, Ugo
Foscolo nacque a Zante, una delle isole Ionie, da padre veneziano, medico di
vascello e da madre greca, primo di quattro fratelli.
Nel 1785 si
trasferì con la famiglia a Spalato.
Nel 1789 la madre
si trasferì a Venezia con i figli Rubina e Costantino, mentre Ugo e Gian
Dionigi (Giovanni) rimasero a Zante, Giovanni presso la nonna materna e Ugo
presso una zia.
Nel 1793,
Foscolo, accompagnato dal Provveditore dell’isola, poté raggiungere la madre e
i fratelli.
Nel 1795,
Foscolo mutò il suo nome da Niccolò in Ugo e a Venezia, partecipò ad alcuni
circoli culturali, conoscendo fra gli altri Pindemonte e Cesarotti: Venezia
divenne la sua patria politica, così come Zante rimase la sua patria sentimentale.
Nel 1796,
Foscolo scrisse alcuni articoli sul Mercurio
d’Italia che destarono i sospetti del governo veneto ed il giovane, per
prudenza si rifugiò sui colli Euganei.
Nel 1797, venuto
in sospetto del governo veneziano per le sue idee democratiche, si recò a
Bologna, dove Bonaparte aveva costituito la Repubblica
Cispadana, e si arruolò nell’esercito francese.
Nel 1797 si
rifugia a Bologna per poco tempo; nel frattempo si svolge la prima
rappresentazione del Tieste.
Il 12 maggio
1797 il doge Ludovico Manin e il Maggior Consiglio furono costretti da Napoleone ad abdicare, per proclamare
il Governo Provvisorio della Municipalità
di Venezia. Caduto il governo oligarchico e costituito il nuovo governo
giacobineggiante, Foscolo ritornò a Venezia e partecipò intensamente alla vita
politica della città, ma ne ripartì nell’ottobre del 1797, quando, col trattato di Campoformio, Bonaparte
cedette Venezia all’Austria: Foscolo giudicò questo trattato un tradimento
delle speranze di libertà degli Italiani. Il 17 ottobre del 1797 il giovane
Foscolo, sdegnato, si dimise dagli incarichi pubblici e partì in volontario
esilio per Milano, dove conobbe Parini.
Nel 1798,
Foscolo si trasferì a Bologna: Iniziò le stampe del romanzo epistolare Ultime
lettere di Jacopo Ortis che dovette interrompere per l’occupazione di
Bologna da parte degli Austro-Russi, che avevano invaso l’Italia durante
l’assenza di Bonaparte per la campagna in Egitto nell’aprile del 1799.
Negli anni
1799-1800 Foscolo combatté, come ufficiale dell’esercito francese, contro
l’Austro-Russi.
Nel 1804,
Foscolo fu a Boulogne-sur-mer, sulla
Manica, col corpo di spedizione là inviato da Napoleone con l’intenzione di
invadere l’Inghilterra.
Nel 1805,
Foscolo ritornò in Italia: all’intensa vita politica e militare si accompagnava
una altrettanto intensa attività letteraria. Durante questi anni Foscolo
scrisse un romanzo epistolare, le Ultime ledere di Jacopo Ortis, due odi, 12 sonetti.
Nel 1806,
Foscolo scrisse il carme dei Sepolcri, poi pubblicato nel 1807, e L’Esperimento di traduzione
dell’Iliade, in collaborazione con l’amico Vincenzo Monti.
Nel 1807, Foscolo si trasferì in Francia dove ebbe una relazione con
giovane donna inglese dalla quale nacque Floriana.
Nel 1808, a Foscolo fu affidato
l’insegnamento di letteratura italiana presso l’Università di Pavia, insegnamento che tenne per un anno.
Lo troviamo
successivamente a Milano,
Poi a Firenze,
dove dal 1811 al 1813 lavorò prevalentemente al Carme delle Grazie.
Nel 1813, caduto
Napoleone con la battaglia di Lipsia, Foscolo, non volendo accettare le
profferte di lavoro fattegli dagli Austriaci sopravvenuti, preferì l’esilio
all’asservimento del suo pensiero e della sua opera di scrittore.
Il 31 marzo del
1815, Foscolo lasciò l’Italia e prese la via del volontario esilio per
rifugiarsi a Hottinger, in Svizzera, dove pubblicò l’Ipercalisse, satira in latino contro gli avversari letterari.
Il 12 settembre
1816, Foscolo giunse a Londra dove trascorse l’ultimo periodo della sua vita
fra gravi difficoltà economiche e morali, dedicandosi all’attività
pubblicistica e in particolare alla critica letteraria,
Nel 1825 scrisse
il Discorso sul testo della Divina
Commedia.
Nel 1827,
Foscolo morì nel piccolo sobborgo londinese di Turnham Green, ammalato di
idropisia.
I suoi resti
furono traslati nella chiesa di Santa Croce a Firenze, da lui nominata nel
carme Dei Sepolcri nel 1871.
c)
Foscolo tra Illuminismo, Neoclassicismo e Preromanticismo – Vissuto alla
confluenza di tre grandi movimenti, l’illuminismo ormai maturo, il romanticismo
in via di affermazione, il neoclassicismo, Foscolo ne assorbì variamente le
influenze, preso dagli influssi europei del filosofo francese Jean-Jacques Rousseau e del poeta
tedesco Goethe, che insieme
concorsero a formare la sua originale personalità.
Illuminista come formazione
filosofica, egli apprezzò la ragione come il maggior strumento conoscitivo;
era inoltre illuministicamente convinto che, dopo la morte, l’individuo non
sopravvive in una trascendenza, e che tutti torniamo materia alla materia,
partecipando al ciclo meccanico di trasformazione che la materia subisce.
Romantico di temperamento,
sostenne il valore del sentimento accanto a quello della ragione. Nacque di qui
il suo mito delle «illusioni», che nel sentimento trovavano giustificazione e
appoggio: prima fra tutte le illusioni che l’uomo e i suoi valori positivi non
muoiono del tutto se possono sopravvivere nel ricordo dei superstiti.
Classico di cultura e di
gusto, tradusse la sua sensibilità di uomo moderno nelle forme e nei miti
della tradizione, che ne erano così rinnovati e attualizzati; e in questo senso
può essere definito neoclassico.
d)
Poesia e vita - L’opera di Foscolo è strettamente
legata alle sue esperienze biografiche, e in essa è costante il rapporto fra
poesia e vita, e di conseguenza fra poesia e società.
Accanito lettore
dei classici e seguace del materialismo illuminista, Foscolo sin dai precoci
inizi letterari si distinse per l’attenzione alle problematiche più discusse,
aderendo ai programmi di rivoluzione ed oscillando fra odio ed amore per i
Francesi e soprattutto per Napoleone: nel 1796 scrisse le Odi A Bonaparte e Ai novelli Repubblicani, ora acclamato come salvatore dalla patria;
ora additato come traditore delle speranze democratiche, ora incitato a farsi
leale garante della libertà italiana.
Proprio da uno
spunto politico nasce l’opera Le Ultime
Lettere di Jacopo Ortis, di carattere chiaramente autobiografico.
In questo
romanzo Foscolo disegna la figura del patriota deluso, che va in esilio ed è
pronto a morire per la propria patria. Jacopo Ortis è un eroe preromantico, che
aspira alla libertà della patria, ma quando questo sogno si infrange, decide di
togliersi la vita.
In questo
romanzo già si ritrovano molte caratteristiche del giovane Foscolo: gli stessi
temi trattati nel romanzo, come l’amor di patria, l’esilio, l’importanza della
sepoltura, il significato delle tombe, sono rintracciabili nelle sue opere, nelle
Odi, nei Sonetti, nei Sepolcri e nelle stesse Grazie.
e)
L’impegno politico e il ‘liberal carme’ - Un aspetto
fondamentale di questo costante rapporto con la vita è l’impegno politico
foscoliano.
Se
Monti ebbe un interesse tutto superficiale per le vicende storiche del suo
tempo, e le considerò solo motivi occasionali per suoi versi, l’atteggiamento
foscoliano è invece dì autentica partecipazione e di responsabile
coinvolgimento.
Vissuto
in un periodo complesso e drammatico della storia europea, in quell’età napoleonica, che segnò la linea di
demarcazione fra le rivoluzioni con cui si chiudeva il Settecento e la
Restaurazione che trionfò nella Santa
Alleanza e nel Congresso di Vienna,
egli vi prese una lucida e decisa posizione politica. Fra i due blocchi che si
contrapponevano in Europa, l’uno aggregato intorno alla Francia, che, pur fra
deviazioni, ritorni ed abusi, portava avanti le idee progressiste ereditate
dalla Rivoluzione del 1789, e l’altro capeggiato dall’Austria, che
rappresentava l’immobilismo e la conservazione, scelse senza incertezze il
primo. Si arruolò, di conseguenza, nell’esercito napoleonico e vi militò fino
alla caduta di Napoleone.
Dopo
questo evento nel 1813, rifiutò di mettere la sua attività di scrittore al
servizio dell’Austria, succeduta alla Francia nel dominio del nostro Paese,
nonostante le lusinghe del governo austriaco e nonostante i pericoli che tale
rifiuto comportava e che lo costrinsero all’esilio.
Perché,
Foscolo sosteneva, se il poeta deve essere politicamente impegnato, deve, però
mantenersi libero nei confronti del potere politico; la sua poesia non deve
essere contaminata dal servilismo e dall’adulazione. Perciò, pur avendo
sostanzialmente dato la sua adesione alla Francia e all’indirizzo politico che
essa rappresentava, egli non esitò a denunciare con veemenza gli abusi delle
milizie francesi in Italia, e soprattutto alzò la voce contro Napoleone, quando
gli parve che con la sua politica avesse tradito le speranze di indipendenza
degli Italiani in seguito alla forte delusione verso Napoleone che, in nome di
un freddo calcolo politico, cedette Venezia, da sempre libera repubblica,
all’Austria.
Questa
autonomia di giudizio e di parola, che egli pagò di persona prima con
l’emarginazione nella sua carriera di ufficiale napoleonico e poi con l’esilio,
fu da lui ripetutamente rivendicata nei suoi versi.
Nei
Sepolcri egli definisce orgogliosamente liberal carme la sua poesia e chiama vergini, cioè incontaminate, le Muse che l’hanno ispirata.
f)
La funzione immortalatrice della poesia - La poesia, nel
pensiero foscoliano, consente all’uomo e ai valori che gli sono cari di
sfuggire alla distruzione operata dal tempo e di vincere la morte.
È
un tema ricorrente nei versi di Foscolo e che ha il suo più notevole
svolgimento nei Sepolcri, scritto
come risposta all’editto napoleonico di Saint-Cloud che decretava i
cimiteri fuori dei centri abitati, ma soprattutto stabiliva che le tombe
dovevano essere uguali e non portassero il nome dei defunti.
Nei
Sepolcri egli afferma che le glorie dei
grandi uomini otterranno l’immortalità, se affidate prima alla memoria
tramandata dai sepolcri e successivamente alla poesia, che non è sottoposta
all’erosione del tempo che distrugge anche i sepolcri. In uno dei passi più
alti del carme il poeta immagina che sui sepolcri degli eroi, distrutti dal
tempo, si levi il canto delle Muse, che raccolgono ed eternano le memorie fino
a quel momento conservate dai sepolcri.
g)
Altri temi della poesia foscoliana - Oltre a questo,
che è il tema centrale della poesia foscoliana, altri ne ricorrono
frequentemente, di volta in volta accennati, ripresi, ampiamente svolti.
Ricordiamo fra i più insistiti e suggestivi:
- l’attrazione per la morte e il
richiamo della vita;
- la bellezza femminile ristoro unico ai mali;
- la passione politica;
- il perenne senso di esilio;
- il rimpianto per Zacinto, l’isola
greca natale, e per la sua luminosa bellezza;
- la funzione civile della poesia;
- il sepolcro come collegamento fra i
vivi e i morti, come segno di civiltà e come conservazione di grandi
memorie.
18. Il
Romanticismo -
La civiltà europea della fine del Settecento e di buona parte dell’Ottocento è
caratterizzata da quel grande movimento che va sotto il nome di Romanticismo.
Il Romanticismo
è fenomeno complesso, che ha coinvolto tutte le manifestazioni dei pensiero e
dell’arte e il senso stesso della vita. Ha avuto origine in Inghilterra e di lì
è rapidamente giunto in Germania, dove si è definito nei suoi caratteri
filosofici e nelle sue tendenze letterarie ed artistiche.
Dalla Germania
il movimento romantico si è propagato per tutta Europa e, venendo a contatto
con tradizioni ed esigenze storiche diverse, ha assunto orientamenti differenti
nei diversi Paesi. Benché in esso le tendenze rinnovatrici siano convissute accanto
a spinte reazionarie, tanto che con felice ironia è stato possibile dire che
nel Romanticismo è rinvenibile tutto e il contrario di tutto, tuttavia le
spinte progressiste furono di gran lunga prevalenti in molti Paesi europei e lo
furono, in senso assoluto, in Italia.
Queste sono le
principali linee di tendenza del movimento:
a) La rivalutazione
del sentimento -
Accanto alla ragione esaltata dagli illuministi i romantici sostengono
l’importanza del sentimento. Anzitutto come mezzo conoscitivo: se il sentimento
non può dare all’uomo una conoscenza esatta e sicura come quella razionale,
rappresenta però il solo strumento che gli consenta di penetrare nelle zone
dove non può giungere la ragione. Inoltre, il sentimento, se a volte genera
ansia frustrante, abbandono al sogno, evasione dalla realtà, più spesso è
sentito come forza di propulsione e stimolo vitale.
b) L’individualismo
- La
rivalutazione del sentimento implica talune importanti conseguenze: ad esempio,
il fenomeno tipicamente romantico dell’individualismo. Mentre la
ragione livella, il sentimento diversifica gli uomini stimolandone gli impulsi,
le reazioni, che, varie da individuo a individuo, ne costituiscono la
fisionomia specifica. Fra le individualità prendono naturalmente spicco,
nell’interesse e nell’ammirazione dei contemporanei, quelle d’eccezione: i
grandi artisti, i ribelli, gli eroi.
c) La religiosità - L’ansia di
sondare il senso della vita e della morte, di sopravvivere oltre i limiti
dell’esistenza terrena, la impossibilità della ragione di rispondere a questi
interrogativi e a queste istanze, porta il sentimento a postulare risposte
religiose. La religiosità è un elemento costante del Romanticismo. Essa si
concreta a volte nell’adesione a religioni rivelate (si pensi alla conversione
cattolica del Manzoni); a volte, invece, si esprime in forme indeterminate e
vaghe: pensiamo, per rimanere in Italia, al Foscolo e alla sua religione laica
del sepolcro e della «memoria» che consente all’uomo una sia pur limitata
sopravvivenza dopo la morte; o alla religione leopardiana dell’infinito, che
esprime l’inappagata ansia del poeta di superare i limiti angusti
dell’esistenza e delle possibilità umane.
d) Lo storicismo - Col
Romanticismo nasce, nei vari Paesi, il culto per le loro tradizioni storiche; e
al recupero del passato si volgono in questo periodo ricercatori e scrittori.
Di qui il fiorire delle ricerche storiche e la moda dei romanzi, dei
drammi, delle liriche, di argomento storico. I romantici non
ignorano che nel passato vi sono innumerevoli errori da respingere, ma
sostengono che vi sono anche importanti conquiste positive, di cui sì deve
tener conto, e che, soprattutto, il passato costituisce la storia di un popolo,
si identifica col complesso di vicende, di tradizioni, di sofferenze, di gioie
che gli abitanti di uno stesso territorio hanno in comune; è quindi quel popolo,
e solo partendo dal suo passato un popolo potrà conseguire il senso della
propria identità. Non per niente Foscolo, nella introduzione alle sue lezioni
all’Università di Pavia, esorta con calore appassionato gli Italiani allo
studio della loro storia. È evidente che nello storicismo romantico troverà le
sue radici il principio della nazione, che comincia a profilarsi in Italia
nell’età napoleonica e che avrà sviluppo e maturazione nel Risorgimento.
e) La poetica
romantica -
In campo artistico il Romanticismo propugna la libertà dell’artista da
tutto quello che ne condiziona l’ispirazione, e il suo dovere di essere popolare,
cioè di accostarsi al gusto e alla mentalità del popolo e di esercitare fra
il popolo una funzione educativa.
19. Romanticismo
e Risorgimento –
Il Risorgimento europeo, e italiano in particolare, può essere visto come
l’espressione, in campo politico, del più generale movimento romantico. Il
Risorgimento nazionale ha infatti le radici nello storicismo romantico, da cui
nasce il senso della identità specifica dei singoli popoli.
È significativo
il fatto, ad esempio, che Mazzini, per definire il concetto di patria, faccia
appello alla storia, alla tradizione: la patria, egli scrive, non è un
territorio, il territorio non ne è che la base; la patria è l’insieme di
esperienze, di sofferenze, di sentimenti che legano gli abitanti della stessa
terra. E Manzoni rivendica all’Italia il diritto di essere una e libera in
nome non solo dell’unità etnica della sua gente, ma dell’unità delle sue
tradizioni:
«una
d’arme, di lingua, d’altare,
di
memorie, di sangue, di cor».
Oltre al
sentimento dell’identità nazionale, e la conseguente spinta alla liberazione
dallo straniero, il Risorgimento deriva dal Romanticismo altri fondamentali
caratteri:
1
la
fiducia nelle forze della volontà e del sentimento capaci di «muovere le
montagne» (donde le imprese temerarie, gli scontri impari sostenuti con
impavido coraggio);
2
la
convinzione che la storia è governata da una provvidenza
«Ma se il popolo
si desta
Dio si mette
alla sua testa,
la sua folgore
gli da»
scrive Mameli;
3
il
fascino per le figure di eccezionale rilievo (donde l’atmosfera mitica ed
eroizzante che avvolge i personaggi-guida del Risorgimento, Garibaldi
soprattutto, ma anche Mazzini, Cavour, e i martiri delle varie imprese).
Questa
convergenza di Romanticismo e di Risorgimento ha i suoi riflessi nell’arte:
nella musica, nella pittura, e soprattutto nella letteratura.
La letteratura
italiana dell’età romantica fu per eccellenza letteratura «impegnata». Dalla
maggior parte degli scrittori di questo periodo essa fu considerata come mezzo
per intervenire nell’azione politica e sociale, per orientarla e stimolarla.
Furono penetrati di spiriti patriottici tutti i «generi letterari», dal romanzo
al teatro, dalle opere autobiografiche al giornalismo, alla poesia. Le liriche
patriottiche furono a volte veri canti di guerra e di rivolta, come l’inno
di Mameli ai «fratelli d’Italia», o le poesie di Berchet, cariche dell’odio
antiaustriaco maturato negli esili, nelle carceri, presso i patiboli dei
compagni di fede. A volte, invece, come nel caso di Manzoni, pur nella loro
appassionata partecipazione alla contemporanea realtà politica, assursero ad
alte meditazioni che inserivano il problema della libertà e dell’unità d’Italia
nel più vasto problema della giustizia fra gli uomini.
Del resto, molti
scrittori e poeti romantici furono essi stessi combattenti e cospiratori. Per
fare solo alcuni esempi fra i più famosi, Mameli morì nel 1849 difendendo la
Repubblica Romana; Berchet e Pellico patirono rispettivamente esilio e
prigionia; Nievo fu dei Mille di Garibaldi; Tommaseo fu l’anima della difesa di
Venezia nel 1849.
La identificazione
di patriota e di romantico a un certo punto fu così stretta da consentire a
Pellico di dire: «romantico fu riconosciuto per sinonimo di liberale,
né più osarono dirsi classicisti [cioè antiromantici] fuorché gli
ultra e le spie».
20. Liberalismo
e liberismo -
L’ideologia che sta alla base del movimento risorgimentale è il liberalismo,
che si può sinteticamente riassumere nelle richieste di libertà e di
indipendenza.
Per libertà si
intendeva il regime costituzionale e l’insieme di garanzie che esso assicurava:
partecipazione dei cittadini (o almeno della parte di essi che sola si
considerava adeguatamente preparata) al governo dello Stato; uguaglianza dei
cittadini di fronte alla legge; difesa dell’individuo dall’arbitrio del potere
statale; libertà di espressione a cominciare dalla libertà di stampa.
L’indipendenza era invece
identificata con l’autodecisione dei popoli, i quali, presa coscienza della
loro identità nazionale, non intendevano più tollerare dominazioni straniere.
La richiesta di
indipendenza in Italia si tradurrà praticamente nella prospettiva di cacciare
dalla penisola l’Austria, considerata il baluardo della reazione e il più grave
ostacolo alla conquista delle libertà costituzionali.
Successivamente
si andrà sempre più affermando la convinzione che i due problemi tra loro
connessi della libertà e dell’indipendenza si legavano a quello
dell’unificazione politica della penisola. Anticipando i tempi, già nel ‘21,
Manzoni proclamava: «Liberi non sarem se non siam uni». Sarà questo lo sbocco
delle lotte, non sempre concordi, dei liberali italiani.
Alla ideologia
politica del liberalismo si accompagnava coerentemente la dottrina economica
del liberismo. Fiduciosa nella capacità di autoregolazione delle forze
economiche, che si pensava portassero ad un effettivo progresso globale, tale
dottrina sosteneva che lo Stato doveva lasciare libero campo all’iniziativa
privata, non interferendo, con regolamentazioni e dazi protettivi, sul libero
sviluppo dell’economia. «Lasciate fare» è il motto dell’economia liberista.
21. L’ascesa
della borghesia in Italia – La borghesia è la classe sociale protagonista dei
nuovi tempi, quella che cerca, in ogni modo, di mutare l’assetto politico e
sociale, in senso liberale.
In Italia essa è
ancora allo stato nascente; agli inizi, ad operare sono piccole avanguardie che
mirano a sensibilizzare quello che esse chiamano il popolo, costituito
da possidenti, professionisti e commercianti, che cercano alleanze con gli
artigiani e, solo più tardi e marginalmente, col proletariato urbano.
Nella prima metà
dell’800 sino alla costituzione del regno nel 1861, la borghesia si viene
rafforzando grazie alla progressiva crescita dell’economia italiana. Nel
contempo, l’opera chiarificatrice e stimolante di alcuni pensatori ne determina
un sempre maggior coinvolgimento nella trasformazione delle istituzioni
(esemplare è la funzione esercitata dal pensiero di Mazzini, di Gioberti, di
D’Azeglio, di Cattaneo, di Balbo, ecc.).
Lo Stato
costituzionale, che rappresenta il punto di arrivo di tale trasformazione,
costituirà anche lo strumento dell’ulteriore affermazione e sviluppo della
borghesia.
22. Alla
rivoluzione nazionale non seguì la rivoluzione sociale - L’Italia, in
questo periodo, è ancora ai margini della rivoluzione industriale. La sua
economia, infatti, è ancora quasi esclusivamente una economia rurale che, per
mancanza di investimenti, fruisce scarsamente dei processi di modernizzazione
tecnica.
È vero che,
parlando dell’economia in Italia, bisogna tener presente la grande diversità
delle situazioni delle varie parti della penisola, diversità che ha le due
espressioni estreme nell’Italia settentrionale (in particolare Lombardia e
Piemonte) e nel Sud.
Nell’Italia
settentrionale, e in Toscana, già nel Settecento l’agricoltura, anche per
l’impulso dato ad essa da intellettuali (membri di Accademie e Associazioni
agrarie) si era avvantaggiata dell’introduzione di innovazioni tecniche
(bonifiche e irrigazioni) e della conseguente razionalizzazione delle colture.
Nel Sud, invece,
dopo qualche tentativo di rinnovamento che rimase senza seguito, la situazione
ristagnò, e il quadro era dominato dalla presenza schiacciante del latifondo.
Il proprietario, appartenente di solito all’aristocrazia, non era interessato
ad uno sfruttamento intensivo delle sue terre, che spesso rimanevano
semincolte.
L’industria
aveva uno sviluppo molto limitato e predominava ancora la forma di produzione
artigianale. Di conseguenza, in questi anni non esisteva in Italia un proletariato
operaio urbano; quello italiano era sostanzialmente un proletariato agricolo.
Si trattava di una massa di contadini che costituiva la quasi totalità della
popolazione.
La condizione di
questi ultimi era, in generale, molto dura, anche se bisogna ancora una volta
distinguere tra regione e regione. Era una condizione caratterizzata da una
diffusa indigenza, da insufficiente alimentazione, dallo squallore delle
abitazioni, dalla costante presenza di malattie endemiche derivate da carenze
alimentari ed igieniche, dall’ignoranza aggravata dall’analfabetismo diffuso.
Né la rivoluzione
nazionale, cioè la costituzione del regno nazionale unitario, contribuì a
mutarne le condizioni. Diversamente dalle diffuse speranze suscitate nelle
masse contadine, ad essa non si accompagnò la rivoluzione sociale, per
cui i contadini, delusi, o si ripiegarono su se stessi assumendo un
atteggiamento di indifferenza, o esplosero in furiose rivolte. Significative,
in questo senso, le testimonianze, qui riportate, dell’Abba, del Nievo, e
l’episodio di violenza e di sangue che ebbe luogo a Bronte in Sicilia.
Questa
situazione di estrema indigenza risultava aggravata dalla sua immobilità,
derivante da più cause:
a) il
disinteresse per una migliore condizione contadina da parte della classe
borghese impegnata a realizzare i propri progetti politici ed economici e timorosa
di sbocchi socialistici;
b) la mancanza di
organizzazione delle grandi masse rurali, che le privava di ogni forza
politica;
c) la
sovrabbondanza di manodopera, che consentiva alla borghesia di imporre salari
al limite della pura sussistenza.
23. Iniziative
culturali per il popolo - La situazione delle masse popolari era
caratterizzata da una diffusa ignoranza denunciata da una elevata percentuale
di analfabetismo. Alcuni tentativi per modificarla furono fatti dai pensatori
liberali, preoccupati di adeguare l’istruzione del popolo alle esigenze
tecniche richieste dal progresso nell’agricoltura e nell’industria, e timorosi
che le condizioni di ignoranza delle plebi, unite alle tristi condizioni di
vita, favorissero la diffusione del
comunismo, il cui spettro si aggirava in Europa dopo le rivoluzioni del
1830 e del 1848. Le iniziative in questo senso consistettero fondamentalmente
nella creazione di istituti per incrementare l’istruzione, sia a livello di
istruzione elementare, sia a livello di specializzazione professionale, ad
integrazione della insufficiente struttura scolastica ufficiale.
Esse furono più
diffuse nelle regioni più progredite: nella Lombardia, nel Regno di Sardegna,
in Toscana. Nel Mezzogiorno, invece, caratterizzato dalla assoluta mancanza di
una struttura scolastica popolare, iniziative di questo tipo non ebbero le
condizioni per nascere e svilupparsi. E fu un altro elemento che aggravò il
distacco fra Nord e Sud.
La stampa
popolare - e vi riuscì nei limiti consentiti dalla scarsa alfabetizzazione -
mirò al progresso sociale e culturale delle masse: giornali, fogli ed almanacchi,
che trattavano temi e problemi relativi al mondo della produzione agricola
e industriale e alle condizioni di vita delle classi proletarie.
Infine, non va
dimenticata l’opera, significativa per gli sviluppi futuri, anche se al momento
assai limitata, delle Società di mutuo soccorso, che si proponevano il
miglioramento delle condizioni retributivo-contrattuali e anche culturali
degli operai e dei contadini.
24.
L’intellettuale e la formazione dell’opinione pubblica - Se nel
Risorgimento la letteratura e la poesia erano concepite come impegno civile,
come mezzo per maturare il popolo alla coscienza nazionale, le scarne ma
vivissime pattuglie dell’intellighenzia liberale disposero anche di uno
strumento più diretto e più efficace per agire sull’opinione pubblica: il
giornale e la rivista.
Giornali e
riviste, che avevano preso piede in Italia per l’impulso degli illuministi miranti
a divulgare un sapere concreto, volto a incidere sulla realtà sociale, ebbero
una intensa e appassionata fioritura nell’età romantico-risorgimentale, e
consentirono agli intellettuali progressisti di compiere un’opera penetrante
nell’opinione pubblica, in modo da orientarla in senso nazionale, e stimolarla
alla costituzione e al rafforzamento di una società borghese.
Il pubblico, già
esercitato da giornali e riviste ad affrontare con prospettiva nazionale e di
trasformazione civile i problemi concreti dell’economia (in primo piano
dell’agricoltura), della tecnica, dell’industria, dell’educazione, del diritto,
della lingua, sarà disponibile e preparato - specie quando le proposte
neoguelfe e filosabaude creeranno il clima favorevole a questo tipo di
dibattito - ad affrontare i problemi schiettamente politici delle istituzioni
liberali (costituzione, rappresentatività, libertà di stampa ecc.),
dell’indipendenza, dell’unità.
Non dobbiamo
tuttavia dimenticare che si trattò pur sempre di un’opinione pubblica limitata
ad una cerchia molto ristretta, i cui confini erano segnati dal saper leggere,
il quale a sua volta era connesso alla condizione sociale e a un almeno
relativo benessere economico. Perciò, non ne partecipavano le grandi masse
proletarie, specie contadine, chiuse nel dramma della loro miseria e
dell’analfabetismo.
25. La
letteratura – Alcuni elementi tipici della nuova sensibilità romantica in
Italia si possono già trovare in Ugo
Foscolo, sebbene però risultino in parte legati alla corrente del Neoclassicismo. Un’altra estensione
dell’ideale letterario a fatto politico e sociale della rinascita dell’Italia
si ebbe con Vittorio Alfieri (1749-1803), che diede inizio a quel
filone letterario e politico risorgimentale che si sviluppò nei primi decenni
del XIX secolo.
La data vera e propria di inizio del
Romanticismo italiano è il 1816:
nel gennaio di tale anno,
infatti, Madame de Staël pubblicò nella Biblioteca Italiana un articolo (Sulla maniera e
utilità delle traduzioni) nel quale invitava gli italiani a conoscere e
tradurre le letterature straniere come mezzo per rinnovare la propria cultura.
Inoltre, sempre nello stesso anno, Giovanni Berchet scrisse quello che poi divenne il
manifesto del Romanticismo letterario italiano: la Lettera semiseria di Grisostomo al
suo figliolo, nella quale si esalta la nuova corrente letteraria e si deridono i canoni del
Classicismo (per questo l’opera è definita semiseria).
Successivamente alcuni letterati si
staccarono dalla Biblioteca Italiana,
rivista a carattere conservatore, e fondarono nel 1818 il Conciliatore,
rivista diretta da Silvio Pellico con Ludovico
Di Breme, Pietro Borsieri, Giovanni Berchet e Ermes
Visconti. Il Conciliatore si proponeva di "conciliare"
ricerca tecnico-scientifica con letteratura, sia illuminista che romantica, con
pensiero laico e con il cattolicesimo. La rivista fu però chiusa nel 1819 per
ordine degli austriaci.
Nel complesso il Romanticismo italiano fu
soprattutto l’espressione del nuovo ambiente storico e sociale della borghesia, come si era sviluppato,
specie in Lombardia, durante la Rivoluzione francese, in cui si
esprimevano quelle esigenze di nazionalità e popolarismo che contraddistinsero
quest’epoca rispetto alle precedenti esperienze settecentesche.
a)
I giornali - Quella che nel
Settecento è stata definita «prosa di pensiero» confluisce nei giornali. Alcuni
di questi si presentano come fascicoli composti di parecchie pagine (ad
esempio «La Biblioteca italiana» usciva ogni mese in fascicoli di circa 150
pagine, «L’Antologia», anch’essa mensile, di 150-200 pagine) e possono
pertanto ospitare articoli che hanno la consistenza di piccoli saggi, mentre
gli interventi più strettamente legati a una situazione, magari d’intonazione
polemica, trovano posto in fogli che escono con una maggiore frequenza,
solitamente settimanali. Nei primi cinquant’anni del secolo nacquero molte
nuove testate; il fenomeno non è limitato agli Stati italiani più avanzati, ma
interessa anche zone fino ad ora ai margini del dibattito culturale. Il
carattere che accomuna una produzione per altri versi assai diversificata è la
matrice politica. Naturalmente i contenuti politici sono mediati e i temi
affrontati possono dirsi politici solo in senso lato; tuttavia si deve
riconoscere che il giornalismo del primo Ottocento ebbe piena consapevolezza
del compito di dare voce ai processi culturali e sociali in atto e si attribuì
la funzione di «formare opinione», di indirizzare e organizzare le conoscenze
dei lettori. E in effetti riuscì ad avere un ruolo significativo, nonostante
la censura che, soprattutto nel Lombardo-Veneto, imponeva dei limiti oggettivi
alla stampa e la costringeva a trovare strade indirette per compiere battaglie
di opposizione. Inoltre la presenza della componente politica e ideologica
favorì la trasformazione di giornali e gazzette in punti di riferimento per
gruppi intellettuali che perseguivano finalità comuni. Il fenomeno fu più
marcato nei periodici di maggior impegno culturale che rappresentavano anche
uno schieramento politico, ci riferiamo alla «Biblioteca italiana» caldeggiata
dal governo austriaco, al «Politecnico» fondato e diretto da Carlo Cattaneo,
alla «Antologia» voce del gruppo liberale fiorentino, e soprattutto al
«Conciliatore» fondato a Milano nel 1818 e chiuso per problemi con la censura
nel 1819. L’esperienza dei fondatori del «Conciliatore», le battaglie che
furono condotte dalle sue pagine per la difesa delle idee romantiche, del
romanzo, per la diffusione dell’istruzione, l’ammodernamento dell’agricoltura,
ne fanno un’efficace espressione del clima culturale e delle istanze politiche
degli intellettuali romantici milanesi. Oltre a questo «Il Conciliatore», per
il tono dei suoi articoli e per l’attenzione alla divulgazione, costituì un
esempio di prosa rivolta a un pubblico ampio, digiuno di competenze specifiche
intorno agli argomenti trattati.
b)
Il trattato - I trattati di
argomento letterario-retorico appaiono in declino mentre, l’ideologia,
l’economia, la storia sono i temi che maggiormente attirano l’attenzione di
scrittori e intellettuali. Ma un posto di assoluta preminenza è occupato dalla
politica: le questioni politico-ideologiche assorbirono quasi completamente
l’impegno degli intellettuali e degli scrittori di trattati, che furono espressione
di tutte le posizioni ideologiche interne al movimento risorgimentale e
costituirono strumento assai rilevante nello scontro tra i diversi gruppi di
opinione. Ad esempio, lo schieramento cattolico moderato ebbe un punto di
riferimento in un trattato famosissimo, Del primato civile e morale degli
italiani di Vincenzo Gioberti, gli ideali cavouriani trovarono espressione
nelle opere di Massimo D’Azeglio, e Giuseppe Mazzini diffuse l’ideale
repubblicano e unitario non solo attraverso i giornali, ma anche in opuscoli e
trattati, mentre sono espressione della corrente democratica gli scritti di
Carlo Cattaneo e il saggio di Carlo Pisacane, La rivoluzione.
c)
Le memorie - Nella prima
metà dell’Ottocento gli scritti di memorie abbondano; molti di questi
nacquero dalla volontà di testimoniare la propria partecipazione e il proprio
contributo ad avvenimenti storici che unanimemente furono sentiti come
straordinari, siano essi legati alla rivoluzione o alle guerre d’indipendenza o
all’impresa dei Mille. Così ampia è la produzione di patrioti che seguirono
Garibaldi che si parla di letteratura garibaldina come di un fenomeno
letterario ben definito. Fra questi scrittori Giuseppe Cesare Abba, autore
delle Noterelle di uno dei Mille. Tuttavia il libro più importante
nell’ambito delle memorie del primo Ottocento restano Le mie prigioni di
Silvio Pellico.
d)
Il romanzo
- È il genere letterario per il
quale più ampia era stata la «distanza» fra l’Italia e l’Europa del
Settecento: si può parlare di un vero ritardo culturale, determinato sia da
situazioni sociologiche (scarsità del pubblico di lettori borghesi, debolezza
dell’industria editoriale, ecc,), sia dalla forza di pregiudizi da parte
di letterati che ritenevano il romanzo un genere minore, un ibrido non ben
definito, dalle riserve di intellettuali, ecclesiastici che ne indicavano la
«pericolosità». Soltanto alle soglie dell’Ottocento compaiono le Ultime
lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, il primo romanzo che è
tradizionalmente accolto nella nostra storia letteraria.
Una delle caratteristiche del romanzo moderno ed una delle
caratteristiche del Romanticismo è il valore conferito alla storia. All’inizio
del XIX secolo la letteratura inglese fu dominata da Walter Scott, divenuto
celebre con romanzi fra i quali Ivanhoe del 1820, con cui Scott diede
avvio al romanzo storico, il genere più diffuso nei primi decenni
dell’Ottocento e con il quale quasi tutti i massimi scrittori europei, fino al
1860 circa, vi si cimentarono.
Nel momento in cui in Italia si accese la disputa italiana fra
classicisti e romantici, questi ultimi indicarono proprio nel romanzo uno dei segnali più importanti del rinnovamento letterario ed anche l’Italia fu coinvolta nell’ondata della moda e
dell’interesse per il romanzo storico; anche
in Italia esso ebbe molto successo.
Il romanzo
storico soddisfaceva le esigenze più vive del Romanticismo: comporre un’opera
utile al popolo e, nello stesso tempo, rappresentare la realtà, il vero. In questo clima culturale nacquero I Promessi Sposi di
Alessandro Manzoni, l’opera che fece
compiere un salto qualitativo eccezionale al nostro romanzo. Il romanzo
di Manzoni, di enorme portata innovativa per la scelta tematica di una vicenda
che mette in scena personaggi umili, vessati dai soprusi dei potenti, e per il
fondamentale lavoro di ricerca linguistica, si colloca come capostipite di
tutta la tradizione romanzesca della letteratura italiana. La vicenda privata
di Renzo e Lucia è narrata sullo sfondo delle vicende di tutto un paese e di
tutto un popolo. La poetica romanzesca è nuova e si fonda su tre cardini: il
vero come oggetto, l’interessante come mezzo, l’utile come scopo.
A differenza dei romanzi storici di Walter Scott, ne I Promessi Sposi
non vi è gusto per il romanzesco e il tema amoroso non è approfondito, mentre
vi è più gusto per l’analisi psicologica dei personaggi.
Gli epigoni di Manzoni
finirono con l’esasperare eccessivamente le caratteristiche, cadendo
nell’esplicita propaganda politica e patriottica, o facendo degenerare il
realismo nel fotografico. Le vicende narrate avevano la propria origine,
spesso, nel Medioevo, epoca in cui si pensava di poter ritrovare i primi germi
della futura nazione italiana. Dopo Manzoni, il romanzo storico non diede, in
Italia, risultati rilevanti: sul modello
manzoniano si scrissero molti romanzi storici che tuttavia rimasero a
un livello del tutto modesto.
Popolari
furono i suoi romanzi storico-patriottici di Massimo d’Azeglio: Ettore
Fieramosca o La disfida di Barletta (1833), Nicolò de’Lapi (1841),
caratterizzati da velocità di ritmo narrativo, disegno vivace di ambienti e
figure, abile alternanza di elementi patetici e grotteschi, tragici e
moderatamente comici: nel complesso però si tratta di romanzi di maniera.
Sempre in ambiente lombardo fu Tommaso Grossi che nel 1834 pubblicò il romanzo
storico Marco Visconti romanzo che riflette il suo un temperamento
inquieto, incline al visionarismo del romanticismo appassionato, ma anche
sensibile alle esigenze di compostezza e decoro formale.
Ci
furono anche autori che intrapresero strade
diverse da quella del romanzo storico scrivendo opere sostanzialmente irrisolte:
1.
Fede e bellezza di Niccolò
Tommaseo racconta la storia di Giovanni e Maria che si confidano il loro
passato, le loro esperienze amorose: i due si sposano, continuando a
confidarsi, anche durante il matrimonio, ogni più piccolo moto dell’anima.
Giovanni viene ferito durante un duello, guarisce, soltanto per vedersi morire
fra le braccia Maria, uccisa dalla tisi. La narrazione è complessa, condotta
attraverso rievocazioni o pagine di diario. Il romanzo riflette la personalità
dell’autore, combattuto da una sensualità congenita e un’aspirazione alla
purezza, che gli deriva dalla profonda religiosità. Si oscilla fra misticismo
ed erotismo, senso del peccato e fede contrastata. Con Fede e bellezza ci si
sposta dall’analisi della realtà esterna all’analisi della realtà interiore dell’uomo.
Possiamo finalmente parlare di romanzo psicologico compiuto.
2.
Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, un’opera che contiene elementi di novità e soluzioni apprezzabili, pubblicata
postuma nel 1867, ma scritta negli anni 1857-1858 diede voce alla coscienza
nazionale innestando elementi tipici del romanzo
di formazione, in un vasto affresco dell’Italia tra la fine della
Repubblica di Venezia e il 1856.
3.
Cento anni di Giuseppe Rovani, apparso sulla Gazzetta
di Milano tra il 1857 e il 1858. Cento anni è un originalissimo
affresco della vita milanese sotto la dominazione austriaca. Il romanzo,
alternando un vivace cronachismo e un impulso antistoricistico, è ispirato
all’idoleggiamento dell’età giovanile come stagione della felice libertà
individuale e al conseguente dissidio causato dal contatto con il mondo adulto.
Alla forma del romanzo storico e d’analisi risponde un ibridismo linguistico
del tutto nuovo e una sensibilità decadente ed anticonformista, assolutamente ante
litteram. Rovani, storico e letterato lombardo, è modello e precursore
della generazione successiva, quella della Scapigliatura.
f) La lirica - Nella storia
della poesia lirica i decenni tra la fine del Settecento e l’inizio del nuovo
secolo non segnano mutamenti di rilievo: la poesia celebra gli eventi, grandi e
piccoli, continua ad essere momento e occasione di vita sociale nelle accademie.
Nello stesso tempo conservano vitalità le suggestioni della poesia notturna e
sepolcrale sull’esempio della lirica d’oltralpe. In questo panorama si alza la
voce altissima e originale di Ugo Foscolo, il quale riassume in sé le diverse
istanze della cultura settecentesca. Negli stessi anni ha grande successo la
poesia di Vincenzo Monti che si rifà alle idee e al gusto del neoclassicismo.
L’affermazione
del romanticismo coincide con una produzione lirica di modesto valore: le
novità investono tutti gli aspetti del far poesia, ma la nostra lirica non
riesce a liberarsi quasi mai dal retaggio di un linguaggio accademico, aulico,
«vecchio».
Solitaria e inimitabile
è la figura e l’opera di Giacomo Leopardi.
Un’esperienza di
qualità rilevante nella nostra letteratura di primo Ottocento, la poesia in
dialetto, trovò due interpreti eccezionali nel milanese Carlo Porta e nel
romano Giuseppe Gioachino Belli.
11. Alessandro
Manzoni – Uno dei maggiori autori della letteratura italiana,
Alessandro Manzoni è anche l’esponente più importante del Romanticismo
italiano. Autore di molte opere, Manzoni vive il rapporto con il suo tempo
interpretandone gli ideali e l’impegno morale, sempre teso alla ricerca di una
lingua viva.
a) La vita - Alessandro
Manzoni nasce a Milano il 7 marzo 1785, unico figlio di Giulia Beccaria e del
conte Pietro Manzoni (ma probabilmente il padre naturale fu il minore dei
fratelli Verri, Giovanni). La madre era figlia di Cesare Beccaria. Un’infanzia e una
fanciullezza passate tra balie e collegi con i genitori distanti o assenti e la
disciplina chiusa e un po’ ottusa degli educatori (prima i frati barnabiti, poi
i frati somaschi), mentre Napoleone diffonde per l’Europa gli ideali della
Rivoluzione francese, spingono il giovane Manzoni ad accogliere le idee
giacobine e anticlericali, registrate fedelmente nel poemetto Il trionfo della libertà del 1801.
L’uscita dal collegio nel 1801 rappresenta una svolta, perché
permette a Manzoni di entrare in contatto con l’ambiente culturale milanese.
L’incontro con Vincenzo Monti gli fa conoscere la poesia neoclassica, mentre
quello con Vincenzo Cuoco lo mette in contatto con l’ala liberale e moderata
del Risorgimento italiano, che sosteneva la necessità di privilegiare la via
delle riforme rispetto ai metodi rivoluzionari e che eserciterà una notevole
influenza su Manzoni, spingendolo ad attenuare il radicalismo dell’adolescenza.
Del 1803 è l’idillio Adda, una delle
prove più riuscite del suo neoclassicismo.
Nel 1805 Manzoni giunge a Parigi, accogliendo l’invito della
madre e del conte Imbonati, con il quale Giulia conviveva da diversi anni dopo
aver divorziato dal marito nel 1792. Imbonati, amico dei fratelli Verri e di
altri intellettuali milanesi, muore però poco prima dell’arrivo di Manzoni, che
ne onora la memoria con un componimento in endecasillabi sciolti intitolato Carme in morte di Carlo
Imbonati.
Tornato nel 1807 a Milano per la morte del padre, Manzoni
conosce Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere ginevrino. Il matrimonio è
celebrato con rito calvinista nel 1808.
Dal 1807 al 1808 Manzoni risiede tra Milano e Brusuglio, in
Brianza, poi torna con la madre e la moglie a Parigi, dove nasce la prima
figlia, Giulia Claudia, ma nel 1810 è di nuovo in Lombardia. Del 1809 è la
pubblicazione del poemetto neoclassico Urania (dedicato a una delle nove muse), in
cui viene esaltata la funzione civilizzatrice della poesia. Ma si tratta
dell’ultima opera neoclassica di Manzoni, che ormai si orienta sempre più verso
un ben diverso orizzonte ideologico e poetico. In questi anni matura infatti la
conversione religiosa dello scrittore, il quale, anche in seguito a lunghe conversazioni
con religiosi di ispirazione giansenista, approda a un cattolicesimo
estremamente severo e rigoroso.
Nel 1810 celebra il matrimonio secondo il rito cattolico con
Enrichetta che abiura il calvinismo.
Del 1812 è il progetto degli Inni
sacri, che avrebbe dovuto comprendere dodici poesie dedicate alle
principali festività cristiane. In realtà, furono composti soltanto cinque
inni: i primi quattro (La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale e La
Passione) furono pubblicati nel 1815, mentre La Pentecoste, abbozzata per
la prima volta nel 1817, fu completata nel 1822.
Dal 1811 Manzoni vive tra il palazzo milanese di piazza
Belgioioso e la villa di Brusuglio. Intensi restano però i rapporti con gli
intellettuali parigini, che si concretizzano in nutriti scambi epistolari,
soprattutto con Claude Fauriel, e in un nuovo soggiorno a Parigi tra il 1819 e
il 1820. La famiglia intanto è sempre più numerosa: dopo Giulia (1808), nascono
Pietro (1813), Cristina (1815), Sofia (1817), Enrico (1819) e Clara (1821), che
muore a due anni. Sarebbero poi nati Vittoria (1822), Filippo (1826) e Matilde
(1830).
Tra il 1816 e il 1820, con diverse interruzioni dovute alla
stesura di altre opere, si colloca la composizione della tragedia Il conte di Carmagnola, seguita
dalla Lettera al critico francese Chauvet, in cui Manzoni difende le sue
scelte anticlassiciste e spiega le ragioni della propria adesione al
romanticismo. Dopo le Osservazioni
sulla morale cattolica del 1819,
nel 1820 Manzoni comincia la stesura di una nuova tragedia, Adelchi, ambientata al tempo
della caduta del regno longobardo in Italia a opera dei franchi e pubblicata
nel 1822 insieme al Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in
Italia.
Sono anni di ininterrotto fervore creativo: le opere e i
progetti si succedono gli uni agli altri senza che i precedenti siano stati
terminati. Il 1821 è l’anno di composizione delle due odi civili Marzo 1821 e Il
cinque maggio, che danno voce, rispettivamente, alle speranze presto deluse
per il rapido raggiungimento dell’indipendenza italiana e a un bilancio, in
chiave cristiana, della vicenda terrena di Napoleone, protagonista degli eventi
storici accaduti durante la giovinezza dello scrittore.
Dall’aprile 1821 al settembre 1823 Manzoni si dedica alla
composizione di un romanzo storico. Appena terminata la prima stesura del
romanzo, oggi indicata come Fermo e Lucia,
comincia un’impegnativa opera di rifacimento strutturale e di riscrittura
linguistica, coronata dalla pubblicazione dei Promessi
sposi nel 1827 (la cosiddetta
edizione "ventisettana"). L’autore però, insoddisfatto della veste
linguistica dell’opera, compie nello stesso anno, con tutta la famiglia, un
viaggio in Toscana, con l’obiettivo di studiare dal vivo il linguaggio toscano
e soprattutto il fiorentino. Il fiorentino parlato dalle persone colte – cioè,
un dialetto distillato letterariamente – sarà il modello di riferimento della
seconda edizione del romanzo, pubblicata, dopo lunghi studi e un’attenta
revisione, tra il 1840 e il 1842. Insieme all’edizione definitiva dei Promessi sposi compare, completamente rifatta
rispetto a una prima stesura mai data alle stampe, la Storia della colonna infame un testo di carattere saggistico
in cui l’autore affronta il tema della giustizia ricostruendo un processo
avvenuto nel 1630, ai tempi della peste a Milano.
La stagione creativa di Manzoni romanziere si chiude nel 1827;
la successiva revisione dei Promessi
sposi sarà infatti soltanto
linguistica e la Storia della
colonna infame può essere considerata un’opera storiografica. Alla base di
questa rinuncia sta il rifiuto, maturato in sede teorica, del romanzo storico.
Come si legge nel saggio Del
romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione (elaborato
intorno al 1830 e pubblicato, dopo numerose revisioni, nel 1850), il romanzo
storico è per Manzoni un genere ibrido e incoerente, che non rispetta la storia
e anzi la falsifica con elementi romanzeschi. Il romanzo storico, inoltre, non
gode più, a parere di Manzoni, del successo di pubblico che aveva ai tempi di
Walter Scott e ha pertanto perduto efficacia come forma di letteratura
divulgativa.
Effettivamente, in Europa la fortuna del romanzo storico stava
declinando: Stendhal, Balzac e poi Flaubert avrebbero attinto il materiale per
i loro romanzi dal presente, ossia dall’attualità osservata e studiata con uno
sguardo attento alle relazioni fra l’individuo, le dinamiche sociali e gli
avvenimenti storici.
La vita familiare di Manzoni, a partire dagli anni Trenta, si
fa sempre più cupa. La moglie Enrichetta Blondel muore dopo anni di malattia il
giorno di Natale del 1833. La prima figlia, Giulia, dopo alcuni anni di
infelice vita coniugale (il matrimonio con Massimo D’Azeglio era stato praticamente imposto dai
familiari), muore nel 1834, lasciando una figlia di un anno. Altre tre figlie –
Cristina, Sofia e Matilde – muoiono tra il 1841 e il 1856. I figli Enrico e
Filippo, poi, sono una fonte continua di dispiaceri, a causa della loro vita
dissoluta fra debiti e carcere. Filippo sarebbe morto nel 1868. Dei dieci figli
soltanto Enrico e Vittoria sopravvivranno al padre.
Nel 1837 Manzoni, non sentendosi in grado di badare alla
numerosa famiglia e vivamente consigliato dai parenti, si risposa con Teresa
Borri vedova Stampa. Ospite spesso del figlio di Teresa, Stefano Stampa, a
Lesa, in una villa sul lago Maggiore, frequenta il sacerdote e filosofo Antonio
Rosmini, che dirige nella vicina Stresa il suo Istituto della Carità.
All’influenza di Rosmini si deve la composizione del trattato Dell’invenzione del 1850, centrato su un’idea
fondamentale della poetica manzoniana: il poeta non crea ma
"inventa", nel senso latino del termine, cioè "trova" la
poesia che è già nella realtà. Rosmini, di dodici anni più giovane di Manzoni,
muore nel 1855. Nel 1853 era morto un altro caro amico, Tommaso Grossi, e nel
1861 scomparirà anche la seconda moglie.
In questa seconda fase della vita dello scrittore, la vena
poetica manzoniana sembra quasi completamente inaridita. Degli inni Il Natale del 1833 (che non va confuso con l’inno sacro Il Natale) e Ognissanti, ultimi tentativi di
meditazione religiosa in forma poetica, restano solo frammenti. Il Natale del 1833 cerca di risolvere in chiave cristiana
il mistero della morte di Enrichetta Blondel, ma la parola poetica si arresta
di fronte alla visione terribile della divinità: "Mentre a stornar la
folgore / trepido il prego ascende / sorda la folgor scende / dove tu vuoi
ferir!" (i frammenti sono datati 14 marzo 1835). L’inno Ognissanti, ideato intorno al
1830 e solo in parte realizzato nel 1847, è dedicato alle esistenze votate a
Dio, che vivono nello spazio di una preghiera e muoiono in un sogno di santità.
Dopo questo ultimo tentativo, il tempo della poesia sembra chiudersi sulla
tragica consapevolezza della lontananza di Dio dalla vita e dalla storia.
Proseguono nel frattempo gli studi linguistici, che hanno
tenuto costantemente impegnato lo scrittore a partire dagli anni Trenta, tanto
da essere sintetizzati nella formula "l’eterno lavoro sulla lingua".
Tali studi, culminanti nello strenuo lavoro di revisione linguistica dei Promessi sposi, mirano
soprattutto a contribuire all’unità linguistica italiana. Il lavoro sulla
lingua si traduce anche in intervento politico quando, nel 1868, Manzoni
accetta di presiedere una commissione ministeriale incaricata di formulare
progetti per diffondere in tutte le classi sociali la conoscenza della lingua
italiana. Gli studi linguistici sono in questo periodo interrotti soltanto da
quelli storici. La principale opera storica intrapresa da Manzoni è La Rivoluzione francese del 1789 e
la Rivoluzione italiana del 1859, dove la prima rivoluzione è considerata
illegittima e distruttiva perché mossa da folle violente di facinorosi che
rappresentano soltanto una piccola parte della nazione francese, mentre la
seconda è vista come legittima e costruttiva perché moderata e sostenuta dalla
volontà dell’intera nazione italiana.
Il 6 febbraio 1873, andando a messa nella chiesa milanese di
San Fedele, Manzoni cade sui gradini, batte la fronte e torna a casa
insanguinato. Da allora la sua mente non è più lucida e il decadimento fisico
procede rapidamente. Le sue condizioni si aggravano quando il figlio Pietro,
presso il quale lo scrittore abita negli ultimi anni, si ammala gravemente.
Nonostante la notizia della morte di Pietro, avvenuta il 24 aprile, gli sia
tenuta nascosta, l’assenza del figlio torna negli incubi dello scrittore, che
confonde le immagini della malattia con le memorie dell’epoca del Terrore,
oggetto delle sue letture e dei suoi studi.
Il 22 maggio 1873 Manzoni muore a Milano.
b) Il
«cattolicesimo democratico» del Manzoni - L’incontro giovanile con
l’Illuminismo prima a Milano poi a Parigi concorse in grande misura ad
orientare il cattolicesimo manzoniano. Nel Vangelo infatti lo scrittore cercò e
trovò una risposta a quelle istanze di uguaglianza e di fraternità che erano
state i punti chiave dell’Illuminismo (si ricordi il famoso trinomio «libertà,
uguaglianza, fraternità») e che egli aveva fatto sue. Con la differenza che,
mentre gli illuministi ponevano a base di tali istanze il fatto che la ragione
è bene comune a tutti gli uomini, e per tutti stabilisce parità di diritti e
di doveri, egli le collegò alla comune paternità di Dio, che fa sì che tutti
gli uomini, in quanto suoi figli, siano fra loro uguali e fratelli. In questo
senso sì può parlare di un cattolicesimo democratico del Manzoni.
La sollecitudine
per gli umili, per i diseredati della società e gli ignorati dalla storia
ufficiale, è costante nello scrittore, dagli Inni sacri, alle tragedie,
ai Promessi Sposi.
Nei Promessi
sposi il ruolo di protagonisti è tenuto da due operai di estrazione
contadina, «genti meccaniche e di piccolo affare», come dice Manzoni
nell’introduzione al romanzo. E, con un capovolgimento rivoluzionario, coloro
che nel giudizio del mondo sono in alto nella scala sociale, i cosiddetti
«personaggi d’autorità», sono qui valutati positivamente o negativamente a
seconda che si mettano al servizio degli umili o che siano loro avversi.
c) I temi
fondamentali della moralità manzoniana: la giustizia e la provvidenza - Alle ingiustizie
del mondo, alla prevaricazione dei forti e alla sopraffazione costante dei deboli,
Manzoni contrappone l’istanza della giustizia.
Se, nella sua
pienezza, la giustizia per il cristiano Manzoni potrà realizzarsi solo
nell’aldilà, tuttavia gli uomini degni dì questo nome devono battersi perché
anche su questa terra essa si attui il più possibile, perché l’ingiustizia
venga sconfitta. Con questo spirito agiscono i personaggi positivi e combattivi
del romanzo: padre Cristoforo, il cardinal Federigo, lo stesso Renzo per quanto
glielo consentono le sue limitate forze.
Chi combatte per
la giustizia ha Dio dalla sua parte. Al tema della giustizia si collega in tal
modo quello della provvidenza, il tema che percorre tutta l’opera manzoniana e
si dispiega soprattutto nel romanzo. In esso la provvidenza conforta gli umili
nelle loro tribolazioni, da loro fiducia e persino sicurezza d’animo; ma anche
confonde e annienta i prepotenti, così che alla fine la giustizia, sia pure
faticosamente, trionfa, come dimostra la vicenda dei due promessi sposi, gente
di «buona volontà», che dopo tante traversie riescono a raggiungere anche su
questa terra la serenità che si sono meritata.
d) La soluzione
manzoniana al problema della lingua - Il problema della lingua travagliò a
lungo Manzoni e fu da lui sentito con particolare acutezza nel periodo della
composizione del romanzo, un’opera che egli voleva rivolta ad un vasto pubblico
e per la quale sentiva l’esigenza di una lingua che fosse popolare e viva, e
che inoltre - poiché la sua aspirazione di patriota andava a un’Italia unita in
nazione - non avesse carattere regionale, ma nazionale. Dopo lunga riflessione
e sperimentazione, egli si convinse che la soluzione linguistica possibile in
Italia era quella di estendere a tutta la penisola il più evoluto dei suoi
dialetti, il fiorentino, e più precisamente il fiorentino parlato dalle persone
colte, cioè da quella classe borghese che i romantici identificavano col
«popolo».
Giacomo Leopardi
a) La vita – Giacomo Leopardi nacque nel 1798
a Recanati nelle Marche, da famiglia nobile e di spiriti
conservatori; ebbe la fanciullezza e la giovinezza impegnate negli studi, che
perseguì con appassionata perseveranza tanto che, a diciassette anni, non solo
conosceva perfettamente il latino e il greco, ma aveva anche già composto due
opere di erudizione, la Storia dell’astronomia ed il Saggio sugli
errori popolari degli antichi:
fu tanto lo sforzo di questo periodo che ne ebbe guastata la salute.
Nel 1816
Leopardi preparò una risposta ad una nota lettera della Stael, Lettera ai compilatori della ‘‘Biblioteca
italiana’’, che però non fu pubblicata.
Nel 1817
cominciò a scrivere lo Zibaldone,
fondamentale quaderno di appunti, di osservazioni di carattere culturale, di
confessioni autobiografiche, che continuò a farsi alterne e con varia intensità
fino al 1832.
Secondo la
consuetudine delle famiglie aristocratiche, il giovane Giacomo, fu educato in
casa insieme con i fratelli da un precettore ecclesiastico, il quale ben presto
non ebbe più nulla da insegnargli. Egli allora continuò a studiare
autonomamente sui libri della sterminata biblioteca del padre; imparò il greco
e l’ebraico e si dette a lavori di profonda erudizione, che ottennero il plauso
e l’ammirazione di importanti studiosi del tempo, italiani e stranieri.
Furono sette anni di studio matto e disperatissimo,
come egli stesso ebbe a definirli, che ebbero gravi ripercussioni sulla sua
salute, già da tempo precaria.
Il primo saggio
importante di poetica fu il Discorso di
un italiano intorno alla poesia romantica, nato nel 1818 in
risposta ad un articolo del di Breme,
ma anche questo fu pubblicato solo postumo; nello stesso anno compose le prime
canzoni, tra cui All’Italia.
Man mano che,
col passare degli anni, si evolveva spiritualmente, Leopardi sentiva sempre
più intollerabile il chiuso ambiente familiare e quello paesano e gretto di
Recanati.
Nel 1820, una
crisi intellettuale e spirituale prima lo indusse al tentativo di suicidio, poi
al tentativo di fuga da casa, sventata
dai suoi genitori; solo tre anni più tardi, nel 1822, ottenne di lasciare la
famiglia e il paese per recarsi a Roma ma, deluso dall’ambiente, fece ritorno a
Recanati nel 1824; da allora soggiornò
in varie città italiane, Milano, Bologna, Firenze, Pisa, ancora Roma, Napoli,
con l’intervallo di alcuni più o meno lunghi ritorni a Recanati.
Rientratovi nel
1828, vi ritrovò l’atmosfera degli anni giovanili che, osservata con occhi
nuovi, suscitò in lui emozioni e ricordi, ispirandogli la creazione delle sue
liriche più alte, tra cui A Silvia, Il
sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta, Il passero solitario, Le
ricordanze, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Tornato a
Firenze, Leopardi ritrovò l’amico Antonio Ranieri, conosciuto qualche anno
prima, con il quale successivamente si trasferì a Napoli, dove trascorse gli
ultimi anni della sua vita. Nel periodo napoletano compose i Paralipomeni alla Batracomiomachia, la Palinodia.
Maturava intanto
in lui un’amara filosofia della vita che trovò espressione poetica nelle sue
liriche, i Canti, e poetico-meditativa nelle prose delle Operette
morali.
Nella prima opera, i Canti, che includeva tutte le opere più
significative dell’intera produzione leopardiana (i cosiddetti piccoli e
grandi idilli), egli dà voce al respiro della sua anima, cioè ai
sentimenti, all’onda di ricordi e di emozioni, ma anche alle profonde
riflessioni esistenziali che uno spettacolo naturale o un momento della vita
del borgo suscitano in lui. In seguito alla morte di Leopardi, nel 1845,
Ranieri curò un’edizione postuma dei Canti, che comprendeva anche il canto La
Ginestra.
Oltre a queste
due opere, che sono le maggiori, ricordiamo lo Zibaldone, vasta raccolta
di osservazioni, di riflessioni di varia natura, assai utile per comprendere
l’evoluzione del poeta, e i Pensieri.
Morì a soli 39
anni, in seguito ad un’epidemia di colera che aggravò i mali che lo
tormentavano da tempo, senza aver ottenuto in vita quella fama che gli sarebbe
stata ampiamente tributata, invece, dopo la sua morte.
b) L’arido
vero e gli ameni inganni – La caratteristica
principale delle poetica leopardiana è quella di essere una lirica di taglio filosofico: essa trae
origine quasi sempre da un’osservazione del mondo esterno e della natura e,
attraverso le sensazioni e i sentimenti che tale osservazione suscita, sviluppa
ampie parti meditative, nelle quali il poeta colloca la sostanza del proprio
ragionamento poetico.
Fin dalla prima
giovinezza Leopardi si convinse che l’unica verità è quella cui l’uomo
perviene mediante la ragione, e a questa convinzione si mantenne fedele per
tutta la vita.
Ma la verità che
la ragione rivela all’uomo è squallida e amara, è quella che Leopardi chiama l’arido vero. La ragione, infatti,
smaschera come inconsistenti quei valori in cui l’uomo istintivamente crede:
la bellezza, la gloria, l’amore, la giovinezza. Essi, guardati alla fredda
e spietata luce della ragione, si rivelano ingannevoli e caduchi, illusioni.
Ma se questa è
la verità che bisogna coraggiosamente accettare, è certo che, privata di questi
valori, la vita perde ogni gioia e ogni bellezza, perché, se è vero che essi
sono inganni, è altrettanto vero,
come dice il poeta nelle Ricordanze, che sono ameni inganni, fonte unica di speranza e di gioia.
La civiltà,
prodotto della ragione, condanna gli uomini all’infelicità. Leopardi infatti
era convinto che l’anima umana trovasse un autentico piacere soprattutto nei pensieri vaghi e indefiniti che, spesso
inafferrabili, lasciano dietro di sé molteplici suggestioni, desideri ed idee.
Su questa base contenutistica, Leopardi avvia un profondo processo di
rinnovamento della lingua della poesie italiana, abbandonando la metrica
classica e lasciando che la sua poesia si snodasse sulla linea della musicalità
e del ritmo, producendo un forte effetto evocativo.
Da questo
contrasto fra la realtà e le esigenze profonde dello spirito umano nascono i
temi più alti della poesia e del romanticismo leopardiani: e innanzitutto il
tema della nostalgia e del rimpianto.
I Canti leopardiani
traboccano di questi non valori
vagheggiati e intensamente invocati, tanto che è stato detto giustamente che
nessun poeta, forse, ha cantato la giovinezza e l’amore con l’intensità
appassionata di Leopardi, che negava loro reale consistenza e che li vedeva
perciò idealizzati dal desiderio e dalla nostalgia che hanno le cose amate e
non possedute. Leopardi, nell’arco della sua vita, ideò ben due teorie sul piacere: nella prima, il poeta spiega
che il piacere non poteva mai essere soddisfatto, in quanto l’uomo ha in sé
connaturata l’esigenza di provare piacere, ma allo stesso piacere segue
l’assuefazione; nella seconda, invece, Leopardi spiega come il piacere sia
impossibile da raggiungere ed esista solo come cessazione del dolore.
Da questa
constatazione nasce, oltre al rimpianto, anche la protesta: essa si rivolge
soprattutto alla Natura, che dovrebbe essere madre ai suoi figli, e invece è
per loro matrigna, e crudelmente
promette gioie che poi non mantiene. Essa si mostra indifferente alle loro
pene, e non teme di distruggere in un istante, con un terremoto, un’alluvione o
l’eruzione di un vulcano, le opere pazienti costruite dall’uomo e la sua stessa
vita.
c) Il natio borgo selvaggio – Recanati,
scena di gran parte della vita di Leopardi, è presente anche in molte sue
liriche. Il poeta ne soffre la chiusa grettezza, l’isolamento dalle correnti di
civiltà e di pensiero, il difficile rapporto con i retrivi abitanti. E tuttavia
Recanati vive poeticamente nei suoi versi, con un amore che supera
l’intolleranza: vi è ritratta ora in una ferma notte lunare
Dolce,
chiara è la notte e senza vento
e
queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa
la luna e di lontan rivela
serena
ogni montagna,
ne La sera
del dì di festa; ora invasa nelle sue strade dal caldo sole di maggio, del
maggio odoroso in A Silvia; si
distende luminosa fra monte e mare
Mirava
il ciel sereno,
le
vie dorate e gli orti,
e
quinci il mar da lunge,
e
quindi il monte;
è aperta verso
la vicina campagna
passero
solitario, alla campagna
cantando
vai,
ne Il passero
solitario, e su di essa nelle notti serene brillano le vaghe stelle dell’Orsa ne Le ricordanze.
d) Il non senso dell’esistenza
umana e il pessimismo leopardiano - Nel Canto notturno la vita
dell’uomo è paragonata alla corsa di un vecchio debole e infermo, gravato da
pesi, su un terreno sassoso che gli lacera i piedi scalzi: corsa che ha per
meta un abisso dove egli alla fine precipita.
La vita è dunque
sofferenza senza senso, che non acquista senso neanche dalla morte. Infatti, a
differenza di Manzoni, per Leopardi con la morte tutto ha termine, e non esiste
una vita ultraterrena che ristabilisca la giustizia, che dia significato al
dolore terreno.
Il non senso
della vita umana, non confortata da alcuna provvidenza, si esprime nei grandi
interrogativi presenti nei Canti
leopardiani (che senso ha la vita? perché essa è solo dolore? perché la natura
ci è matrigna?), interrogativi che suonano nel vuoto, che rimangono senza
risposta.
Tuttavia l’uomo
ha una stagione felice: quella della fanciullezza e della giovinezza, perché
questa è un’età in cui domina il sentimento e la ragione ancora non gli ha
rivelato la verità amara della sua condizione.
e) L’ultimo
Leopardi: la social catena - Nell’ultimo periodo della sua vita, un
nuovo atteggiamento psicologico si fa strada in Leopardi, e si esprime
soprattutto nella lirica La ginestra.
Fermo restando
il principio che la natura è matrigna e al mondo non esiste provvidenza, il
poeta sostituisce all’elegiaco lamento sulla condizione umana una vigorosa e
costruttiva presa di posizione. Pur sapendo di combattere una battaglia perduta
– egli dice – bisogna che gli uomini si alleino fra loro in patto solidale, in social catena, per combattere
l’avversa sorte.
Leopardi giunge
così a postulare, in nome della mancanza di provvidenza nel loro destino,
quella fraternità fra gli uomini cui Manzoni perveniva in nome della
provvidenziale paternità di Dio.
L’arte
romantica
– Momento
complesso della cultura figurativa europea, il romanticismo offrì una tale
varietà di forme e d'impostazioni, di tendenze e di accenti, da apparire una
serie di episodi legati da corrispondenze di tono o di atmosfera piuttosto che
da una matrice culturale omogenea. La sua fioritura più significativa
appartiene alla prima metà dell'Ottocento. Prima di manifestarsi nelle arti
figurative il romanticismo annunciò nella letteratura e nella musica, un
generale cambiamento di gusto centrato sulla forte valorizzazione
dell'individuo e della sua sfera sentimentale e passionale, sui temi della
natura e del mondo fantastico, del recupero della storia in chiave nazionale e
liberale. Non da ultimo si rinnovò nell'espressione un apprezzamento dell'arte
dei primitivi e del Quattrocento italiano.
Nelle arti
figurative, il termine romanticismo è riferito in senso stretto al movimento
che si avvia in Francia nel primo decennio dell'Ottocento, in vivace polemica
con la cultura neoclassica, con talune opere di Gros e di Géricault, e conosce
la sua massima fioritura intorno al 1830, grazie a Delacroix e Corot, oltre ad
artisti minori operanti in Francia, Germania e Inghilterra, protraendosi sin quasi
alla metà del secolo, quando inizia ad affermarsi la poetica del realismo. In
senso più esteso, in questo si ebbero fenomeni correttamente qualificabili come
romantici anche nel campo
dell'architettura, della scultura e delle arti minori.
a) Le tematiche – La sensibilità romantica si affermò
quale momento critico della cultura illuminista e reazione al crollo
dell'utopia "razionale" e
le sue radici sono nel neoclassicismo e nella cultura accademica, ai quali
tuttavia finì per contrapporsi polemicamente. L'arte del romanticismo rifiutò
ogni ideale e ogni univoca classificazione del bello, per dare libero sfogo
alla creazione individuale che si esprime in un approccio emotivo al fare
artistico, tendente a riportare alla luce valori squisitamente soggettivi,
fantastici e sentimentali. Alla perfetta e definita forma classica l'arte
romantica preferì la rappresentazione caratterizzante che fa dell'oggetto
ritratto un unicum, l'evocazione di suggestivi e fuggevoli aspetti
della natura e dell'uomo.
Ribelle alle
imposizioni dell'accademia, e dunque del potere costituito, l'arte romantica
condivise inoltre, con la filosofia e la letteratura contemporanee, l'impegno
politico e civile e le aspirazioni liberali, indirizzate contro l'assolutismo
napoleonico e poi contro quello della Restaurazione. Di qui deriva la
predilezione dei soggetti storici specie contemporanei oltre che dei temi
suggeriti dalla più varia attualità (Géricault, Zattera della Medusa,
1819; Delacroix, Libertà che guida il popolo, 1830).
Sulla scia della
letteratura, i nuovi motivi di fondo dell'arte del romanticismo consistono
nella rivalutazione delle tradizioni figurative nazionali, della fede religiosa
e della famiglia, assunte quali veicoli di un'effusione sentimentale che
conferma il tono di polemica opposizione alla ragione degli illuministi e alla
fredda bellezza della classicità.
b) Goya
– Francisco Goya y Lucientes (Fuendetodos, Saragozza 1746 - Bordeaux 1828)
iniziò a Madrid una densa attività di affrescatore e pittore che lo portarono
al successo presso gli ambienti aristocratici con una serie di bellissimi
ritratti (Conte di Miranda, 1774, La duchessa d'Alba, 1795; La Maja desnuda e La Maja vestida, 1800-03?).
Nel 1799 divenne
primo pittore del re: per lui e per la famiglia reale dipinse altri ritratti.
Si vennero chiarendo i motivi d'ispirazione più profondi e personali dell'opera
di Goya, in particolare in seguito all'invasione della Spagna da parte delle
armate napoleoniche. La ragione illuministica, culminata nella rivoluzione
francese scopriva così un volto di tragica irrazionalità che Goya descrisse
facendo scaturire dal reale l'irrazionale e il mostruoso (esemplificato
nell'incisione Il sonno della ragione produce mostri). Segnano
altrettanti momenti di approfondimento di questa sua nuova tematica le Divagazioni popolari (1793), il Funerale della Sardina;
Processione di flagellanti; Tribunale di Inquisizione (Madrid, Academia de San Fernando).
Con la tela Le fucilazioni - Il 3 maggio
1808, (1814, Madrid,
Museo del Prado) illustrò un momento delle vicende della resistenza spagnola,
ritraendo nel momento di maggior terrore una schiera di patrioti mentre stanno
per essere fucilati dai soldati francesi.
Un altro punto
d'arrivo del suo linguaggio figurativo fu costituito dalle allucinanti visioni,
dipinte nel 1819-23 sulle pareti della sua casa, la Quinta del Sordo: Crono divora i suoi figli (Madrid,
Museo del Prado), in cui la visione fantastica, il mostruoso, l'enigma e il
simbolo assumono un significato universale e si fondono a comporre quell'idea
pessimista che è espressione della sensibilità del Goya maturo.
Di notevole importanza
sono le incisioni di Goya: I disastri della guerra (1808-09) e Tauromachia (1815-16).
Nell'opera di Goya
s'individuano motivi, intenzioni, sensibilità già romantici: dall'attenzione
alla storia contemporanea al riaffiorare di sostrati psichici inconsci, dall'ispirazione
onirica alla libertà dell'esecuzione. In quanto sintesi e superamento degli
estremi esiti barocchi e neoclassici, l'arte di Goya assume un significato
essenziale di anticipazione alle esperienze dell'impressionismo, del
surrealismo e dell'espressionismo tra fine Ottocento e Novecento.
c) La Germania – In Germania, confluirono anche gli apporti del
romanticismo nordico e scandinavo, tipici del pittore danese Asmus Jacob
Carstens (1754-98). Il paesaggio romantico informato alla nuova idea di natura,
insieme oggetto d'indagine scientifica e fulcro di forze magiche e occulte, si
tinse di toni surreali nell'opera di Philipp Otto Runge (1777-1810) e di
Friedrich, iniziatori della pittura romantica tedesca.
Caspar David
Friedrich (1774-1840) predilesse la
rappresentazione dei paesaggi della Pomerania e le sue visioni della natura
sono sempre pervase da un senso profondo di solitudine (Monaco in riva al mare, 1808-09,
Berlino, Staatliche Museen; Scogliere bianche a Rügen,
1818, Winterthur, collezione Reinhart; Abbazia nel querceto, 1809, Berlino, Charlottenburg).
d) I nazareni – Il nascente nazionalismo avviò l'interesse per lo stile
gotico (erroneamente considerato tipicamente germanico), il quale a sua volta
tese a confluire e a identificarsi con tendenze misticheggianti e di rinnovata
sensibilità religiosa; a questi motivi si ispirò l'opera pittorica dei
nazareni, un gruppo di artisti che, in opposizione al neoclassicismo,
aspiravano a un rinnovamento dell'arte su basi religiose. Il movimento vero e
proprio, stimolato dalla rivalutazione romantica del Medioevo, si costituì a
Vienna nel 1809 per iniziativa di Johann Friedrich Overbeck (1789-1869) e Franz
Pforr (1788-1812). Nel 1810 il gruppo si trasferì a Roma stabilendosi nel
convento abbandonato di S. Isidoro; qui si aggiunsero altri artisti (Peter von
Cornelius, 1783-1867; Philip Veit, 1793-1877; Wilhelm von Schadow, 1788-1862;
Julius Schnorr von Carolsfeld, 1794-1872) dando vita a una sorta di comunità di
lavoro monastica. I loro ideali, basati sull'etica e sul misticismo delle
antiche corporazioni medievali, li condussero da un lato a un recupero delle
forme del Quattrocento italiano, dall'altro a una rivalutazione, dettata da
intenti patriottici, dell'antica pittura tedesca.
e) Inghilterra
– Il contributo più valido e precoce (preromanticismo) all'arte romantica va
ricercato in Inghilterra, e particolarmente nelle opere di Füssli e di Blake,
caratterizzate dall'insorgere di un accentuato interesse per il mondo
fantastico dei sogni e dell'occulto. I più alti vertici qualitativi raggiunse
anche la pittura di paesaggio, soprattutto con Constable e Turner. La pittura
visionaria di Füssli e di Blake, la natura panica e sublime di Turner
contengono una potenzialità surreale, una costante allusione al magico e
all'occulto. Intorno alla metà del secolo i preraffaelliti, avviando un
processo di recupero storico che è tipico della cultura romantica,
contrapposero alla decadenza dell'arte barocca e contemporanea la purezza
dell'arte del Quattrocento.
Heinrich Füssli (Zurigo 1741 - Londra 1825), scrittore e pittore, dopo
studi teologici, soggiornò per un lungo periodo (1769-77) in Italia e si
stabilì infine a Londra. Lì fu maestro di Blake. Attratto dalle immagini
oniriche e dal mondo del fantastico, realizzò suggestive opere pittoriche di
visioni misteriose e inquietanti, come l'Incubo(1781,
Francoforte, Goethemuseum).
William Blake (Londra 1757-1827), fu poeta oltre che pittore e nelle
sue opere proseguì l'indagine del fantastico e del visionario avviata da Füssli
(illustrazioni per il Libro di Giobbe e
per le Notti dello scrittore preromantico E. Yung; I pellegrini di Canterbury, 1809).
Famose sono anche le illustrazioni all'acquarello per la Divina Commedia (Londra,
Tate Gallery).
f) Francia – Carattere
di particolare aderenza alla vita politica nazionale ebbe l'arte del
romanticismo francese, le cui premesse erano già ravvisabili nell'attività dei
pittori neoclassici Ingres e David. Ma fu Géricault a esprimere attraverso
un'impostazione formale classica la sua sensibilità drammatica e il suo
titanico patetismo, mentre dopo di lui Delacroix realizzò un definitivo
distacco dalla forma classica. Le aspirazioni sociali e gli esiti moderati
della rivoluzione di luglio indirizzarono da un lato Honoré Daumier (1803-79)
alla satira politica e antiborghese, dall'altro i paesaggisti della scuola di
Barbizon a effondere il desiderio di rinascita sociale e spirituale nel
contatto diretto con la natura e la sua forza vitale.
g) Jean-Louis-Théodore Géricault – Jean-Louis-Théodore Géricault (Rouen 1791 - Parigi 1824),
pittore, disegnatore e litografo, ottenne grande successo al Salon del 1812 con
l'Ufficiale dei cacciatori a cavallo durante la carica (Parigi, Louvre) e nel 1814 con il Corazziere ferito (Rouen, Musée des Beaux-Arts). Nel
1818, traendo ispirazione dal naufragio della fregata Méduse, avvenimento che aveva fatto molto scalpore,
anche per il sospetto di cannibalismo tra i naufraghi, cominciò a dipingere la
gigantesca (35 m2) Zattera della Medusa (Parigi, Louvre). L'opera, preceduta
da innumerevoli studi preparatori (bellissime le copie dal vero di pezzi
anatomici provenienti dall'ospedale Beaujon), ricca di suggestione romantica
per la gamma livida e cupa e per la violenta drammaticità, mostra un realismo
straordinario nell'osservazione penetrante dei particolari. Eseguì interessanti
schizzi per grandi quadri mai eseguiti, in cui si esprimevano i suoi ideali di
libertà e democrazia: La tratta dei negri, La liberazione delle vittime
dell'Inquisizione, La guerra d'indipendenza greca.
L'interesse per la psichiatria sociale lo indusse a dipingere dieci quadri
sulla pazzia (ne rimangono 5, fra cui: Alienato con monomania della gloria militare e Alienato con mania del gioco, 1822-23, Parigi,
Louvre).
h) Eugène Delacroix – Eugène Delacroix (Charenton-St-Maurice 1798 - Parigi
1863) fu caposcuola della pittura romantica francese, dipinse opere di grande
libertà fantastica e d'intensa potenza espressiva, caratterizzate dal colore
denso e acceso che influì notevolmente sul sorgere dell'impressionismo.
Nel 1822 espose al Salon la Barca di Dante (1822, Parigi, Louvre), conseguendo un
enorme successo. Il Massacro di Scio (1822,
Parigi, Louvre) e la Morte di Sardanapalo (1827, Parigi, Louvre) risvegliarono
l'interesse del pubblico, ma indignarono i classicisti.
La rivoluzione di luglio del 1830 che portò al trono
Luigi Filippo di Orléans, suo protettore, aprì il suo periodo migliore: La Libertà che guida il popolo (1830, Parigi, Louvre), esposta al
Salon del 1831, venne acquistata dallo Stato.
Il viaggio compiuto nel 1832 in Marocco (per un negoziato
diplomatico), in Algeria e nella Spagna meridionale gli suggerì innumerevoli
spunti e una nuova visione del colore (Donne d'Algeri,
1834, Parigi, Louvre; Il caid marocchino, 1837, Nantes). Dal 1833 si dedicò
anche alle grandi decorazioni: il Salon
du Roi e la biblioteca del Palazzo Borbone (1833-47), la biblioteca
del Palazzo del Lussemburgo
(1840-47), il soffitto della Galleria di
Apollo al Louvre (1850-51), il
soffitto del Salon de la Paix nell'Hôtel de Ville (1852-54, distrutto nel
1871). Lasciò anche litografie, disegni, acquerelli. La sua pittura, complessa
e ricca di sapienza, di cultura storica specifica e di profondi legami con la
politica, la letteratura, la musica, la filosofia e la scienza del suo tempo, è
l'espressione di un modo di vedere, di sentire e di pensare in tutto romantico.
i) La scuola di Barbizon – Anche se viene designata con il termine di scuola, prendendo il nome dal villaggio
di Barbizon situato ai margini della foresta di Fontainebleau, dove alcuni
artisti si erano stabiliti (1830-50) e altri si recavano a lavorare, questa
corrente artistica non fu mai una scuola vera e propria, ma piuttosto un gruppo
legato dallo stesso desiderio di dipingere paesaggi naturalistici. Vi
appartennero Théodore Rousseau (1812-67), il maggiore esponente, considerato
uno dei maggiori paesaggisti francesi, di lirica sensibilità malinconica e di
profondo impegno morale; inoltre Charles Jacque (1813-94), Wigile-Narcisse Díaz
de La Peña (1808-76), Jules Dupré (1811-89), Constant Troyon (1810-65),
Charles-François Daubigny (1817-78).
I maestri di Barbizon furono accomunati dall'uso di una
gamma cromatica molto esigua con preferenza per i neri e i bruni.
Un'attenzione al mondo contadino fu particolare di Jean-François Millet (Gruchy 1814 -
Barbizon 1875) che rispondeva a un manifesto intento sociale e umanitario (Il seminatore, 1850,
Boston, Museum of Fine Arts; Le spigolatrici, 1857; L'Angelus ,1858-59, entrambi a Parigi, Louvre).
Jean-Baptiste-Camille Corot –
Jean-Baptiste-Camille Corot (Parigi
1796-1875) è considerato uno dei rappresentanti della scuola di Barbizon per
l'interesse al paesaggio, ma se ne differenzia per un diverso atteggiamento nei
confronti della società e della natura. Fondamentali furono i soggiorni
italiani: il primo a Roma (1825-28), che lo attrasse con gli antichi monumenti
e con il paesaggio della campagna romana; il secondo in Toscana, a Genova e a
Venezia nel 1834. Nelle opere di questo periodo (Veduta di Firenze, Veduta di
Tivoli, Parigi,
Louvre) la luminosità, quasi impalpabile pulviscolo, crea un'armonia tonale e
nel contempo esalta i valori plastici. Corot conservò sempre interesse per la
mitologia e fuse nella visione "affettuosa" dei suoi paesaggi la
presenza di ninfe, pastori e divinità (Omero e i pastori, Bagno di Diana). Dipinse anche figure considerate tra
le sue opere più significative (Autoritratto, Italiana seduta,
La donna con la perla, Parigi, Louvre). Negli ultimi anni di
vita, dipinse antichi monumenti e vedute di paesaggi (Ponte di Nantes, 1870; Il campanile di Donai, 1871; Interno della cattedrale di
Sens, 1874;
tutti a Parigi, Louvre), che per vibrante atmosfera furono determinanti sulla
pittura degli impressionisti.
Gustave Courbet - Gustave Courbet (Ornans, Franca Contea 1819 - La
Tour-de-Beilz, Vaud 1877) nel 1844 partecipò per la prima volta al Salon con
l'autoritratto Courbet col cane nero (1842,
Parigi, Petit Palais) e cominciò a definire la sua arte realista in contrasto coi
neoclassici e i romantici.
Nel 1847 l'autoritratto L'uomo con la pipa (Montpellier,
Museo) venne rifiutato al Salon e avviò le polemiche sulla sua arte. Nel 1855,
poiché la giuria dell'Esposizione Universale rifiutò L'atelier del pittore (Parigi,
Louvre), Courbet allestì una mostra di quaranta quadri in un edificio fatto
costruire a sue spese, il Pavillon du
Réalisme. Il catalogo da lui redatto contiene il celebre Manifeste du réalisme e le sue teorie sull'arte. Arrestato
per la sua partecipazione alla Comune di Parigi, si rifugiò in Svizzera, dove
morì. Negli ultimi anni dipinse luminose marine, paesaggi, animali, scene
venatorie che influenzano gli impressionisti.
Italia – Verso la metà dell'Ottocento le suggestioni proposte
dalla Francia e dall'Inghilterra furono accolte in Italia superficialmente e in
un'accezione estetizzante che si manifestò con una predilezione per soggetti
storici e sentimentali (Hayez). Un autentico momento d'interesse fu
rappresentato soltanto dall'arte del lombardo Piccio e dell'emiliano Fontanesi,
che appartennero al purismo, tendenza artistica di natura romantica e
idealizzante, sulle orme dei nazareni tedeschi.
A partire dagli anni '60 si aprì un nuovo capitolo della pittura
italiana, rappresentato dalle correnti dei macchiaioli e dagli scapigliati.
Francesco Hayez - Francesco Hayez (Venezia 1791 - Milano 1882) frequentò a
Roma la cerchia del Canova. Nel 1820 si stabilì a Milano, dove ottenne un
immediato successo col suo Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri a Pontremoli,
che diede inizio alla lunghissima serie di soggetti storici. Hayez assurse a
caposcuola del nascente romanticismo italiano. A un rinnovamento dei temi
storici o letterari, ma svolti con rispetto del "vero" e del colore,
si accompagnano nelle sue opere soluzioni formali ancora neoclassiche e
tecnicamente accuratissime: Il bacio di Romeo e Giulietta (1823,
Tremezzo, Villa Carlotta), La malinconia (1842, Milano, Brera), Il bacio (1859,
Milano, Brera). La sua pittura storica fu talvolta animata da un intento
politico patriottico (I Vespri siciliani, 1821, Roma,
Galleria Nazionale d'Arte Moderna; I profughi di Praga, 1830, Brescia, Pinacoteca
Tosio-Martinengo). Molto significativa fu anche la sua attività di ritrattista
(Manzoni, Rossini, Rosmini, D'Azeglio, Milano, Brera).
Fontanesi e il Piccio – Antonio
Fontanesi (Reggio Emilia 1818 - Torino 1882) fu pittore e incisore.
La sua pittura, venata di intimismo romantico, si
caratterizza per una tecnica ricca di chiaroscuro, di varietà di toni e di luci
(Mattino, 1855-60, Torino, Museo civico, Tramonto sull'Arno, Firenze, Galleria d'Arte Moderna e Il lavoro della terra).
Importanti le sue acqueforti e litografie, caratterizzate dalle stesse ricerche
di valori atmosferici perseguite nella pittura.
Giovanni
Cornovali, detto il Piccio (Montegrino
Valtravaglia, Luino 1804 - Caltaro sul Po 1873), si accostò presto alle forme
pittoriche del romanticismo lombardo (Educazione della Vergine,1826,
Parrocchiale di Almenno). Nei paesaggi (Lungo l'Adda, 1844)
e nei ritratti di borghesi e aristocratici lombardi raggiunse una grande
modernità di stile, annunciando così il gusto della scapigliatura (La collana verde, 1862, Milano, collezione privata; La bagnante, 1869,
Milano, Galleria d'arte moderna).
Gli scultori Bartolini e Vela – Lorenzo Bartolini (Savignano 1777 - Firenze 1850)
nonostante la sua ammirazione per i quattrocentisti non si allontanò dal
programma neoclassico (ritratti di Napoleone, bassorilievi sulla Battaglia di Austerlitz per la
colonna Vendôme), anche se il linearismo neoclassico veniva addolcito
attraverso l'uso di luci e ombre. Molte delle sue opere più famose rientrano
nell’ambito della scultura ritrattistica o allegorica (ritratto di Pellegrino
Rossi, Carità educatrice,1817-24 Firenze Galleria Pitti, La fiducia in Dio, 1835 Milano Museo Poldi Pezzoli).
Vincenzo Vela (Ligornetto Ticino 1822-1891), con la statua Spartaco (1847,
Ginevra, Musée d'Art et d'Histoire) si qualificò tra i più dotati esponenti del
romanticismo italiano. Visse a lungo a Torino, dove eseguì numerose opere
celebrative, tra cui il monumento all'Esercito sardo. La
sua produzione più tarda, di cui è esempio la sua opera più famosa (Vittime del lavoro, 1883,
Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna), rivelò un'adesione al
"verismo" sociale, sviluppatosi in Italia negli ultimi decenni del
secolo in corrispondenza con il naturalismo francese.
Rossi, Carità educatrice,1817-24 Firenze Galleria Pitti, La fiducia in Dio, 1835 Milano Museo Poldi Pezzoli).
[1] Adone - Amore, punito dalla madre Venere, per vendicarsi la fa
innamorare del bellissimo Adone, che visita con la dea il Palazzo d'Amore. La
descrizione di questo palazzo, inframezzata dal racconto di varie favole (Amore
e Psiche, Eco e Narciso, Ganimede, Ila), dall'elenco delle delizie del Giardino
del Piacere, dall'unione dei due amanti, da un excursus autobiografico sono
l'argomento di molti canti successivi. Stravaganti avventure, provocate dalla
gelosia di Marte e dalla maga Falsirena, separano i due amanti. Venere fa
eleggere Adone ritrovato re di Cipro. Mentre la dea è a Citera, Marte fa
uccidere Adone da un cinghiale. Venere celebra per l'amante esequie fastose,
mutandone poi il cuore in un fiore.
[2] John Locke
- Dal 1667 segretario e medico personale di lord Shaftesbury, lo seguì nel 1683
in Olanda quando, per la sua opposizione a Carlo II, questi fuggì
dall’Inghilterra. In Olanda pubblicò la Lettera sulla tolleranza, nella
quale combatteva il principio della chiesa di stato e difendeva la libertà di
coscienza, sostenendo che la tolleranza andava negata alle confessioni
intolleranti, come il cattolicesimo, e agli atei, per il carattere antisociale
delle loro dottrine.
Nel 1689 tornò in patria al seguito di Maria Stuart e
Guglielmo d’Orange e pubblicò, nel 1690, i Due trattati sul governo civile.
Il primo confutava la legittimazione biblica e patriarcale dell’assolutismo
data da Robert Filmer; il secondo teorizzava lo stato come garante dei diritti
naturali (in particolare la libertà e la proprietà) e delineava i caratteri di
una monarchia parlamentare fondata sul principio della divisione dei poteri.
Nello stesso anno apparve anche la sua opera più importante, il Saggio
sull’intelletto umano.
Dal 1696 al 1700 fece parte del Consiglio per il
commercio e le colonie.
[3] che ebbe straordinari esempi nell’opera di Jonathan
Swift e di Voltaire; nei Viaggi di Gulliver (1726) Swift mescola il
gusto comico del paradosso a una vigorosa vena satirica.
[4] che ebbe straordinari esempi nel Candido
(1759) di Voltaire, il romanzo che divenne strumento di confutazione
intellettuale di teorie pedagogiche, sistemi filosofici e ideologie politiche e
soprattutto il romanzo Emilio o dell’educazione (1762) di Jean-Jacques
Rousseau
[5] A questo romanzo fecero seguito altri capolavori del
sottogenere come I misteri di Udolfo (1794) di Ann Radcliffe, Il
monaco (1796) di Matthew Gregory Lewis e Frankenstein (1818) di Mary
Wollstonecraft Shelley. La tensione al gotico e all’orrore fu sempre molto viva
nello sviluppo del romanzo, e negli ultimi anni si è anzi rinnovata, tanto da
far sì che le horror stories siano oggi uno dei generi romanzeschi più
frequentati.
[6] Il modello narrativo del romanzo epistolare annovera
nel Settecento altri importanti capolavori come La nuova Eloisa (1761)
di Jean-Jacques Rousseau (che allude fin dal titolo a un famoso archetipo del
genere epistolare: il carteggio medievale tra Abelardo ed Eloisa), I dolori
del giovane Werther (1774) di Johann Wolfgang Goethe e Le ultime lettere
di Jacopo Ortis (prima edizione, incompleta, 1798) di Ugo Foscolo.
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