L’età
dell’assolutismo: decadenza economica, sviluppo scientifico e trionfo del
barocco
L’assolutismo
- Durante i centocinquant’anni che vanno dalla pace di
Cateau-Cambrésis (1559) agli inizi del Settecento, le grandi monarchie erano
riuscite, con una dura lotta, ad indebolire in quasi tutti i paesi europei il
potere della nobiltà feudale, fino ad allora capace di condizionare lo stesso
potere del re. A poco a poco infatti i nobili avevano dovuto rinunciare a molti
privilegi e rassegnarsi al ruolo di cortigiani, limitandosi a fare da cornice
all’autorità incontrastata del sovrano. Anche i ministri e i funzionari, spesso
d’origine borghese, che circondavano il re, erano soltanto i suoi consiglieri:
ogni decisione spettava al sovrano, il quale esercitava così un potere
assoluto, cioè illimitato.
Per
questo, tale periodo viene indicato come l’età della monarchia assoluta, o età
dell’assolutismo[1].
L’affermazione
progressiva della sovranità e dell’impersonalità coincide con l’affermazione
(tra il XVI secolo e la Rivoluzione francese del 1789) della monarchia
assoluta. In questo lungo periodo la spersonalizzazione degli uffici non
escludeva il potere personale del re. La sua volontà poteva sovvertire le procedure
ordinarie e sovrapporsi alle decisioni di qualsiasi ufficio. Quando era suo
interesse fare un’eccezione nell’applicazione della legge, a favore o contro
questo o quel suo suddito, il re poteva sovvertire l’ordinaria attività degli
uffici.
Coesistevano,
insomma, aspetti diversi: lo Stato, spersonalizzato ai livelli inferiori,
aveva al vertice il potere personale del re.
La
sua importanza è capitale poiché tutte le forme di Stato oggi esistenti
derivano da quella. In teoria, il re disponeva di un potere assoluto, cioè
senza limiti (anche se doveva usarlo non per sé, ma nell’interesse dello
Stato). Secondo la teoria della monarchia
assoluta, infatti, il potere del re derivava dalla volontà (dalla grazia) di Dio. I sudditi, perciò, erano
totalmente soggetti alla volontà del sovrano, come alla volontà divina.
Tuttavia, contrariamente a quello che la formula «monarchia assoluta» potrebbe
far pensare, la pratica della monarchia assoluta era diversa.
Malgrado gli sforzi per imporre la propria autorità
assoluta, il re aveva di fronte a sé un regno composto di tanti poteri sociali
e locali (la nobiltà, il clero, le professioni, le città, ecc.), refrattari
all’ubbidienza assoluta. Questi, anzi, per tutto il periodo dell’assolutismo,
lottarono tra di loro e contro il re per strappargli privilegi e migliorare
così le proprie posizioni. Nei periodi di maggior forza, il re riusciva a
imporre il proprio potere personale e ridurre all’ubbidienza il suo regno. Nei
periodi di maggior debolezza, il re era costretto a venire a patti col suo
regno e a cedere pezzi consistenti del suo potere.
Ciò
che appare assoluto non è quindi il
potere personale del re, il quale a seconda dei casi era più o meno
condizionato. Assoluto è invece il potere della organizzazione politica
centrale che, oltre al re, comprendeva gli alti dignitari e il Parlamento, che
rappresentava le tante divisioni e i tanti interessi del regno.
Nella
concentrazione della politica consiste principalmente la novità delle monarchie
assolute rispetto al sistema feudale.
Tra
i due sistemi c’è una certa continuità, poiché non furono abolite del tutto le
cariche feudali, né gli ordini o ceti sociali, che continuavano ad avere uno
status giuridico privilegiato. Essi furono invece costretti, come in una
costellazione, a ruotare intorno ad un unico centro di potere, di cui il re era
l’elemento principale. L’assolutismo era dunque un sistema composto da elementi
nuovi e tradizionali: il potere del re coesisteva infatti con quello dei
diversi corpi sociali che derivavano dal feudalesimo. Si potrebbe dire che era
un regime monarchico non pienamente realizzato.
Jean Bodin - Giurista e teorico
politico francese, espone il suo pensiero in un’opera che si intitola I sei libri della repubblica (1576); in
essa l’autore definisce il concetto di sovranità assoluta (priva di
limitazioni) e indivisibile. Ciò significa che chiunque eserciti il potere, sia
esso una persona (re) o un organismo politico, la fonte legittima dell’autorità
(sovranità) rimane tutta intera nelle sue mani, anche se alcuni poteri possono
essere delegati a magistrati o funzionari. Bodin individua nella monarchia la
forma di organizzazione statale nella quale meglio si incarna il principio della sovranità; perciò fu uno dei massimi
teorici della monarchia assoluta.
Thomas
Hobbes (1588-1679) è considerato il teorizzatore dell’assolutismo.
Egli affronta il problema del potere politico in particolare nel saggio Leviathan (1651), che prende il titolo
dal nome del mostro biblico dotato di una forza smisurata e incontenibile:
Hobbes ne fa il simbolo del potere assoluto dello Stato monarchico. Egli fonda
queste sue idee sulla constatazione che l’uomo, portato ad agire sotto la
spinta delle passioni, dell’istinto di conservazione e di possesso, si comporta
come un lupo nei confronti di tutti gli altri uomini (homo homini lupus). In questa visione lo Stato nasce sì da un
contratto sociale, che però, nel momento stesso in cui viene fissato, determina
la definitiva assunzione, da parte di chi si vede riconosciuto il potere, di
un’autorità assoluta e illimitata, la sola che può assicurare una convivenza
civile.
Questo
periodo, e particolarmente il Seicento, può giustamente essere considerato come
un crinale della storia europea. In
alcuni Paesi si posero le premesse di trasformazioni economiche e sociali
destinate a creare differenze sempre più ampie tra essi e gli altri Stati
europei. Fu allora che a zone caratterizzate da una forte dinamica progressiva
se ne contrapposero altre di lenta crescita economica e di lenta trasformazione
sociale ed altre ancora di decisa stagnazione. Alla prima zona appartennero
l’Inghilterra e l’Olanda; alla seconda la Francia, la Germania e parte
dell’Europa Centrale; alla terza la Spagna, il Portogallo, la Polonia, l’Impero
turco e l’Italia.
1.
Gli Stati europei dal 1559 al 1701 - Questo periodo, che
per l’Italia può essere considerato unitariamente, per la storia d’Europa deve
essere suddiviso in due periodi: il primo, dal 1559 al 1648, è caratterizzato
dalla preponderanza degli Asburgo
d’Austria e dalle guerre di religione;
il secondo (1648-1701) dall’egemonia
francese.
a)
Le guerre di religione - Le guerre di religione, conseguenza della
rottura dell’unità religiosa dell’Europa trovarono il loro teatro principale nelle
Fiandre e in Francia. Nelle Fiandre Filippo II di Spagna subì uno smacco da
parte delle forze protestanti, con l’insurrezione del paese e la conseguente
nascita di un nuovo stato, l’Olanda; la Francia fu sconvolta dalle lotte fra cattolici e ugonotti[2] fra il 1562 ed
il 1594, cui si intrecciò la contesa per la successione fra tre pretendenti al
trono.
I
due campioni europei delle opposte fedi furono il cattolico Filippo II,
re di Spagna (1556-98), e la protestante Elisabetta, regina
d’Inghilterra (1558-1603). Una grande vittoria di quest’ultima che segnò
l’inizio della decadenza della Spagna e diede avvio alla ascesa
dell’Inghilterra a grande potenza, fu la distruzione, ad opera dell’agile
flotta inglese, della possente, ma lenta flotta spagnola, l’Invincibile
Armada (1588).
Successivamente
le guerre di religione ebbero il loro teatro in Germania, con lo scoppio della guerra
dei Trent’anni[3]. Essa,
iniziata come una semplice rivolta interna della Boemia nei confronti degli
Asburgo, si estese presto alla Danimarca e successivamente alla Svezia e alla
Francia, coinvolgendo anche l’Olanda e alcuni sovrani italiani, fra cui
Vittorio Amedeo I di Savoia.
La
guerra segnò lo scontro tra l’impero cattolico degli Asburgo e i principi
protestanti, che volevano la rimozione di alcune limitazioni alla libertà
religiosa che erano state stabilite dalla pace
di Augusta[4]
del 1555; inoltre rappresentò lo sforzo dei principi tedeschi per acquisire
autonomia nei confronti dell’imperatore; infine, offrì l’occasione ad alcune
potenze europee di abbattere l’egemonia degli Asburgo. La pace di Westfalia[5]
del 1648, con i due trattati, di Munster (tra gli Asburgo e le potenze
cattoliche), e di Osnabruck (fra gli Asburgo e le potenze protestanti),
riconosceva in Germania la libertà individuale di coscienza e di culto, e
segnava il crollo della potenza accentratrice degli Asburgo, riducendo ad un
puro nome l’autorità imperiale.
b)
L’egemonia francese - In Francia, al termine dei conflitti interni di
religione che l’avevano lasciata stremata, la monarchia riuscì, in un lungo
processo (dal 1598, editto di Nantes, al 1661, uscita di minorità e
assunzione del potere da parte di Luigi XIV), ad abbattere le resistenze
della nobiltà feudale e quelle della dissidenza religiosa (ugonotti), e a
creare la forma più esemplare di governo assoluto.
Le
tappe di tale processo furono le seguenti: Enrico IV[6]
(1594-1610) risollevò la nazione dalla rovina delle guerre civili; il cardinale
Richelieu[7]
(1624-42), ministro di Luigi XIII, contrastò con successo la potenza dei nobili
feudali e restrinse le libertà degli ugonotti; il cardinale Mazzarino
(1642-61) portò avanti il processo di accentramento dei poteri nella persona
del re, battendo le ultime resistenze della nobiltà feudale o fronda[8];
Luigi XIV[9]
realizzò pienamente l’assolutismo monarchico.
In
concomitanza con questo processo di riorganizzazione e rafforzamento del potere
monarchico, la Francia riassunse l’iniziativa politica all’estero, partecipando
alla guerra dei Trent’anni. Alla conseguente pace di Westfalia riuscì ad
ottenere l’Alsazia e a giungere così per la prima volta al Reno che considerò da
allora la sua frontiera naturale, da conquistare integralmente. L’ampliamento
del territorio verso la frontiera renana continuò con la successiva guerra di
Spagna, conclusasi con la pace dei
Pirenei del 1659. E fu la direttiva della politica estera di Luigi XIV:
egli mirò a completare l’acquisizione dei territori renani e a conseguire il
primato in Europa lottando con la Spagna già in decadenza, con l’Olanda
all’apice della sua potenza e con l’Inghilterra in ascesa. E questo il senso
delle guerre di devoluzione (1667-68), di Olanda (1672-78) e della lega di
Augusta (1688-97).
c)
L’ascesa dell’Inghilterra - L’Inghilterra, che durante il regno di
Enrico VIII (1509-1547) si era rafforzata all’interno, sotto il lungo regno
di Elisabetta[10]
(1558-1603) vide la trasformazione della sua economia da agricola in
commerciale. La ricchezza che ne venne incrementò la sua potenza marittima che
fu sanzionata dalla vittoria sulla Spagna (sconfitta dell’Invincibile Armada
nel 1588) e più tardi, prima sotto l’impulso e poi sotto la dittatura (1635-58)
di Oliviero Cromwell[11],
nella guerra vittoriosa contro l’Olanda (1652-4), e nella successiva guerra
contro la Spagna (1654-59).
L’evoluzione
interna dell’Inghilterra in questo tempo conobbe il passaggio dall’assolutismo
dei Tudor e degli Stuart (con la parentesi della dittatura cromwelliana) alla
prima forma di monarchia di tipo costituzionale che trovava le sue radici nella
Magna Charta[12].
Deposto l’ultimo Stuart, Giacomo II (la rivoluzione senza sangue del
1688), il Parlamento invitava ad assumere la corona Guglielmo d’Orange
che, salendo al trono, giurava di osservare la Dichiarazione dei diritti[13],
cioè una carta costituzionale che limitava il potere del sovrano.
2.
L’emarginazione dell’Italia - Per quanto riguarda la
storia d’Italia il periodo di tempo compreso tra il Congresso di Bologna
(1530) e il Trattato di Aquisgrana (1748), può essere considerato in
modo unitario. Anche se è giusto distinguere il periodo del predominio spagnolo
nella penisola (fino al Trattato di Rastadt, 1714) da quello del
predominio austriaco, molto meno funesto; tuttavia, questi 220 anni sono
accomunati dal perdurare di almeno due condizioni le cui conseguenze furono
determinanti per la vita della penisola.
La
prima fu la mancanza di autonomia politica degli Stati italiani,
divenuti o province di una potenza straniera o suoi satelliti; la seconda fu l’emarginazione
economica e culturale dell’Italia in seguito alla perdita dell’indipendenza
politica.
Perduta
la posizione di primato che aveva conquistato nei secoli precedenti, l’Italia
si trovò esclusa dai processi di rapido sviluppo economico e di profonde
trasformazioni politiche e sociali, da cui furono investite alcune grandi
potenze (in particolare l’Inghilterra, l’Olanda e, in misura minore, la
Francia) e fu relegata in una posizione marginale, dalla quale solo nel XIX
secolo, faticosamente e parzialmente, riuscirà ad emergere.
a)
Assetto italiano alla pace di Cateau-Cambrésis - La pace di
Cateau-Cambrésis ribadì, aggravandola, la dominazione spagnola in Italia. La
Spagna, infatti, oltre che nel regno di Napoli, dominava direttamente
nel ducato di Milano, di fatto trasformato in una provincia dipendente
da Madrid; e nello Stato dei Presidi (alcune terre della Toscana). Con
l’erezione a ducato delle città di Parma e Piacenza sorse un nuovo stato, feudo
della Chiesa. Ma anche gli Stati che conservavano la loro autonomia - repubblica
di Venezia, Stato della Chiesa, ducato di Toscana, repubblica
di Genova, ducato di Savoia, ducato di Mantova, ducato di
Ferrara, ducato di Modena e repubblica di Lucca - di fatto
dipesero dalla politica spagnola.
b)
Il malgoverno spagnolo - L’assetto dato all’Italia dalla pace di
Cateau-Cambrésis durò dal 1559 al 1701 (inizio della guerra di successione
spagnola).
Gli
Stati italiani dominati in questo periodo direttamente dalla Spagna presentano
uno dei quadri più tristi della loro storia. Lo caratterizzarono la rapina e il
fiscalismo della burocrazia straniera, l’altezzosità della nobiltà dominatrice,
il servilismo dilagante della popolazione, l’arretramento delle condizioni
economiche generali, la miseria e l’ignoranza delle plebi; il tutto in un clima
di soprusi e di anarchia. Un’efficace rappresentazione della situazione del
Milanese ci è stata data dal Manzoni nei Promessi Sposi.
Nel
ducato di Milano, il più civile e il più ricco dei domini spagnoli, la
compressione della borghesia a vantaggio della nobiltà terriera, favorita dal
governo, che ne ricercava l’appoggio, portò, unitamente ad altri fattori di cui
si farà cenno più avanti, al decadimento delle città e delle connesse attività
industriali e mercantili.
Questa
decadenza, frutto del cattivo governo spagnolo, fu meno evidente nel Meridione
e nelle isole, ma solo perché si innestava su una situazione già deteriorata
dal precedente malgoverno straniero, quello degli Aragonesi. Di fatto le
condizioni del Sud erano peggiori di quelle del ducato di Milano, a causa anche
del persistere delle istituzioni feudali che, diversamente che al Nord, non
erano state spazzate via dal sorgere dei Comuni.
Questa
situazione generò gravi malcontenti, che sfociarono in insurrezioni destinate
fin dalla nascita al fallimento. A Napoli Masaniello fece insorgere la
plebe chiedendo l’abolizione delle gabelle (1647), e finì ucciso dalla stessa
plebe abilmente eccitatagli contro dal viceré spagnolo; Gennaro Annese
che cercò di portare avanti l’insurrezione, con un disegno politico più chiaro,
fu battuto dall’intervento delle armi spagnole. Anche a Palermo la rivolta,
guidata nello stesso anno da Giuseppe D’Alessio per rimuovere le
gabelle, ebbe una misera conclusione: il D’Alessio finì col trovare contro di
sé la stessa folla che egli aveva sollevato. Più complessa fu, nel 1674, la
rivolta che, per l’insofferenza dei gravami fiscali, scoppiò a Messina; essa si
sostenne per quattro anni appoggiandosi alla Francia; ma anche in questo caso
la Spagna riuscì alla fine a prevalere sui rivoltosi e sui loro alleati.
c)
Gli Stati italiani indipendenti - A Firenze, dopo i successi di
Carlo V in Italia e il Congresso di Bologna, rientrarono i Medici con il
duca Alessandro. Cosimo I (1537-74), successo al duca Alessandro e insignito
dal papa del titolo di granduca (1569), diede un saggio ordinamento allo stato,
restaurando l’economia. Questa politica fu continuata da Ferdinando I
(1587-1609), che diede incremento al porto di Livorno. La politica estera
medicea si mosse comunque nell’orbita della politica spagnola fino ai tempi di
Ferdinando I, che cercò di controbilanciare l’influenza della Spagna con quella
della Francia, alla quale si avvicinò.
Nello
Stato della Chiesa, in questo periodo, l’azione dei pontefici presentò
un notevole mutamento nei confronti di quella dei papi del Rinascimento. In
armonia con la Controriforma essi si impegnarono soprattutto nel campo
spirituale, premurosi degli interessi generali del cattolicesimo più che non di
quelli del loro Stato. Proprio per questo non si preoccuparono di esercitare
una politica indipendente dalla Spagna.
La
Repubblica Veneta agì invece in modo autonomo nei confronti della
Spagna. Del resto essa aveva limitato la sua azione politica in terraferma per
preoccuparsi soprattutto della difesa delle sue posizioni in Levante, dove
dovette far fronte all’avanzata turca. Nonostante la vittoria nella battaglia
di Lepanto (1571), quando i maggiori stati cristiani affiancarono Venezia
per sconfiggere i Turchi, dovette però arretrare abbandonando le isole di Cipro
e Candia, perdita non certo compensata dall’effimera occupazione del
Peloponneso (1699). Dopo la perdita di Candia, la repubblica di Venezia si
chiuse nell’Adriatico, dove si limitò a sopravvivere ancora per un secolo, fino
alla venuta di Bonaparte in Italia.
Il
Ducato di Savoia fu lo Stato che dimostrò il maggior dinamismo. La
volontà di attuare una politica espansionistica lo sottrasse, in alcune
occasioni, alla acquiescenza alla Spagna. Con Emanuele Filiberto i duchi
di Savoia incominciarono a volgere la loro attenzione all’Italia, e
precisamente al Piemonte. Sintomatico al riguardo fu il trasferimento, sotto
Emanuele Filiberto, della capitale da Chambery a Torino; la conquista del
marchesato di Saluzzo da parte di Carlo Emanuele I (1601) rappresentò il
primo grosso ampliamento dei possedimenti italiani.
d)
La decadenza del Mediterraneo - La situazione di depressione, che, sia
pure in misura diversa nei diversi Stati, caratterizzò tutta la penisola, ebbe
altre cause oltre a quelle di cui ci siamo occupati finora: tra queste la più
importante fu la perdita d’importanza del Mediterraneo, in seguito alle
scoperte dell’America e della nuova via marittima per le Indie. Il declino del
Mediterraneo non fu improvviso: i porti di Genova e di Venezia mantennero la
loro importanza ancora per tutto il Cinquecento; ma fu un declino
inarrestabile.
A
partire dal Seicento, i traffici portuali genovesi e veneziani assunsero la
caratterizzazione regionale che neppure l’apertura del Canale di Suez nel
secolo XIX riuscì a modificare. Grandi porti internazionali divennero le città
che si affacciavano sull’Atlantico, prima quelle della penisola iberica
(Lisbona, Siviglia e Cadice), centri dei traffici con le Americhe, e poi, e più
durevolmente, le città olandesi e inglesi (Anversa, Londra, e soprattutto
Amsterdam).
Lo
spostamento dell’asse dei traffici dal Mediterraneo all’Atlantico non fu dovuto
solo a ragioni geografiche. Dipese soprattutto dalla capacità di nazioni, come
l’Inghilterra e l’Olanda (e parzialmente la Francia), di mettere in atto una
politica mercantile e industriale adeguata alle esigenze di un mercato nuovo
più esteso e meno elitario.
La
Spagna e il Portogallo non seppero attuare queste trasformazioni. Legate alla
vecchia concezione delle colonie come terre da razziare e da spogliare -
soprattutto di metalli preziosi - furono incapaci di compiere il passaggio alla
nuova forma di colonialismo attuata dagli Inglesi e dagli Olandesi, che seppero
considerare le colonie come fonti di materie prime e come vasti mercati di
smercio per le industrie nazionali.
e)
L’involuzione dell’economia italiana - L’emarginazione economica
dell’Italia fu dovuta a più fattori, connessi tanto all’economia quanto alla
modificazione della situazione sociale e politica. All’economia cittadina
chiusa in forme sclerotizzate da una fortunata e consolidata tradizione e dagli
statuti vincolanti di potenti corporazioni, mancò l’elasticità necessaria per
passare dalla produzione e dal commercio di beni scarsi e costosi (spezie,
seta, panni fini di lana) alla produzione e al commercio di beni meno pregiati
e di più largo consumo (canna da zucchero, cotone, panni meno raffinati). Non
essendo in grado di ridurre i propri costi di produzione, inoltre, l’economia
cittadina perse competitività non solo sui mercati esteri, ma anche su quelli
italiani.
Contemporaneamente,
in connessione col minor reddito del commercio e della manifattura, si
assistette ad una fuga di capitali verso la terra che divenne di nuovo
la base predominante della ricchezza e del potere. Il ritorno alla terra - con
la parallela riduzione dell’importanza delle città, nelle quali si verificò una
diminuzione della popolazione - fu tanto un atteggiamento di riflusso, quanto
un’operazione di investimento che consentì alti guadagni, grazie anche alla
libertà di sfruttare i contadini.
La
triste situazione di sudditanza politica, infine, subordinò l’economia degli
Stati italiani alle esigenze della potenza egemone (soprattutto alla Spagna),
privandola dei necessari incentivi a superare le difficoltà della concorrenza,
fattasi sempre più agguerrita. Le distruzioni e i danni operati dalle guerre
che trovarono così spesso nella penisola (soprattutto al Nord) il loro campo di
battaglia, costituirono altri gravi fattori di freno allo sviluppo economico
degli Stati italiani.
f)
La semplificazione della società italiana - Il ritorno alla terra fu
solo uno degli aspetti di un complesso fenomeno, che è stato indicato dagli
storici con il nome di rifeudalizzazione[14].
Con questo termine si vuole indicare il venir meno delle iniziative economiche
e del dinamismo sociale che avevano caratterizzato i secoli precedenti a
partire proprio dall’Italia, dove, per la prima volta, le forze della borghesia
emergente avevano spezzato e ridotto il potere della feudalità dominante. Nel
Seicento si ha una netta inversione di tendenza:
·
nel Sud essa sboccò in una regressione permanente, che
rafforzò l’antica nobiltà feudale;
·
nel Nord e nel Centro, dove più vivace era stata la vita
comunale e più rilevante la presenza della classe mercantile, quest’ultima,
grazie all’acquisto della terra, andò ad ingrossare le fila della nobiltà
feudale, assimilandosi ad essa.
Il
risultato di questo processo fu una semplificazione e un irrigidimento della
struttura sociale: tutto il potere economico si accentrò nelle mani della
nobiltà, dalle cui fila soltanto uscivano i membri della classe dirigente. Al
di fuori della nobiltà non restarono che sparute forze produttive; quasi a
nulla furono ridotte le possibilità di ascesa delle altre classi sociali.
3.
La Controriforma - A ribadire la situazione di emarginazione della vita italiana
nel suo complesso concorse la Controriforma che in Italia (e dovunque
essa si trovò ad operare con l’appoggio della monarchia spagnola) fece sentire
pesantemente la sua azione repressiva. Ne risultò una progressiva contrazione
della vivacità creativa nel campo della letteratura, della filosofia, della
scienza e delle arti, campo nel quale l’Italia si era conquistata, nei secoli
precedenti, un indiscusso primato europeo.
a)
Il concilio di Trento - La Controriforma fu motivata dalla volontà di
porre riparo al distacco di buona parte dell’Europa dalla Chiesa di Roma e di
arginare le eresie che andavano diffondendosi nei paesi latini e in particolare
in Francia. A questo fine il papato si preoccupò di una precisa definizione
dogmatica e di una decisa riforma dei costumi ecclesiastici.
L’iniziativa pontificia si concretò nel Concilio di Trento che,
scartando la tesi che ricercava la conciliazione con i dissidenti, preferì
quella della contrapposizione recisa alla Riforma. Così, al principio del
libero esame si contrappose quello dell’autorità della Sacra Scrittura
secondo l’interpretazione della Chiesa; alla tesi luterana secondo cui ogni
uomo può porsi in rapporto diretto con Dio, si contrappose
l’affermazione che la salvezza è solo nella Chiesa attraverso i sacramenti;
infine si affermò l’assoluta superiorità del pontefice cui solo spetta
di convocare i concili. Le verità di fede furono compendiate dal Concilio nella
Professione di fede tridentina, un estratto della quale è il catechismo
romano, testo di insegnamento religioso in tutte le scuole parrocchiali.
Per
moralizzare il clero si fissarono rigorose norme disciplinari, riconfermando
l’obbligo del celibato e, per prepararlo alle sue funzioni, si istituirono i Seminari.
b)
I nuovi ordini religiosi - L’opera del Concilio di Trento sarebbe stata
inutile se non fosse stata sostenuta dal sorgere di ordini religiosi che,
operando tra i fedeli, ravvivarono gli ideali di vita cristiana. Tra gli ordini ricordiamo i Barnabiti,
i Somaschi, gli Scolopi che si preoccuparono tutti di aprire
collegi per la gioventù; mentre i Teatini furono istituiti per
coadiuvare i parroci nel loro ministero, i Fatebenefratelli, le Suore
di carità e i Lazzaristi per assistere gli infermi; i Cappuccini
(un ordine francescano riformato) per la predicazione fra il popolo; gli Oratoriani
per la cura dei giovani delle classi umili.
c)
I Gesuiti - Il più importante fra tutti gli ordini religiosi sorti in
questo periodo fu senz’altro l’ordine dei Gesuiti, fondato da Sant’Ignazio di
Loyola (1491-1556) che si propose queste finalità:
·
difesa della fede cattolica,
·
sua diffusione,
·
formazione di sacerdoti in grado di essere al passo con
l’evoluzione culturale dei tempi,
·
creazione di scuole aperte a tutti, ma mirate alla formazione
cattolica delle classi dirigenti.
Sant’Ignazio
creò una gerarchia di tipo militare, fondata sull’assoluta obbedienza ai
superiori; inoltre legò con un giuramento di fedeltà al papa tutti i
gesuiti.
In
pochi anni questi divennero un pilastro della Chiesa cattolica; fondarono
missioni in tutti i continenti, favorendo l’avvicinamento al cattolicesimo con
una graduale integrazione della nuova fede nelle culture e nei costumi dei vari
popoli. Nei Paesi cattolici seppero conquistare posizioni influenti come
confessori e consiglieri di re e principi, attuando politiche di mediazione e
di prudenza.
I
Gesuiti scelsero come loro campo preferito di attività l’organizzazione di
scuole ad orientamento umanistico, destinate alla classe dirigente: dalle
elementari all’università, essi organizzarono percorsi didattici moderni ed
efficaci, per dare una preparazione culturale seria, senza mai perdere di vista
l’obiettivo principale, la formazione del buon cristiano.
I
gesuiti che dimostravano propensione per una disciplina erano destinati a
coltivarla ai massimi livelli, perciò molti ebbero un ruolo di rilievo nello
sviluppo della scienza, della letteratura, dell’arte.
Il
Collegio romano, l’università dei gesuiti, fu un centro di ricerca
scientifica di cui riconoscevano il prestigio anche gli studiosi non cattolici.
I
gesuiti erano totalmente indipendenti dalla gerarchia ecclesiastica e
rispondevano della loro azione esclusivamente al papa; per questo, all’interno
della Chiesa, si formò un partito antigesuita che li accusava di
allargare il proprio potere tramite l’appoggio dei potenti e i molti
compromessi nel campo del comportamento e della morale.
d)
Il controllo del pensiero - Per combattere poi lo spirito critico da cui
era nata la Riforma e per avere il controllo sui testi scritti la Chiesa
affiancò all’Inquisizione un istituto di repressione, la congregazione dell’Indice
dei libri proibiti, voluta dal papa Paolo IV Carafa nel 1559. Si
trattava di una commissione con l’incarico di redigere e tenere aggiornata la
lista di opere e autori che i cattolici non potevano leggere, possedere e divulgare,
perché veicoli di idee contrarie alla morale e alla dottrina. L’Indice era
diviso in tre parti: la prima degli autori messi totalmente al bando, la
seconda di singole opere, la terza di scritti anonimi.
Il
fine dell’Indice era di impedire la stampa dei testi proibiti e di bruciarne le
copie eventualmente sequestrate. L’efficacia dell’Indice era limitata, perché
impossibile il controllo capillare, ma serie furono le conseguenze indotte:
·
spinta all’autocensura degli autori che, per evitare noie con
la Chiesa, eliminavano dai loro libri ogni idea o riferimento che potesse
essere contestato; è una delle cause del conformismo controriformista che si
manifesta nel Seicento nei Paesi cattolici in cui più potente è la Chiesa, come
Spagna e Italia;
·
diffusione di testi classici «purgati», con soppressione di
parti, soprattutto a uso scolastico; si diffondeva così un’idea distorta della
letteratura, moralistica e staccata dai comuni sentimenti;
·
sviluppo delle stamperie clandestine e del contrabbando dei
libri; gli autori che temevano di non ottenere il permesso del vescovo facevano
stampare i loro testi nei Paesi protestanti, da dove poi rientravano di
nascosto.
In
molti casi però si ricorreva al trucco di indicare nel volume come luogo di
stampa una città straniera.
Infine
si rafforzò la Congregazione del Sant’Uffizio come tribunale supremo
dell’Inquisizione che, già vigorosa nel secolo XIII, era poi decaduta.
La
preoccupazione della Chiesa di controllare il pensiero attraverso la censura
preventiva della stampa (non si poteva pubblicare un libro senza
l’autorizzazione ecclesiastica) limitò lo sviluppo della filosofia, della
scienza e delle arti. Ne seguirono spesso situazioni di lacerazione interna e
un clima di paura, che la condanna di alcuni filosofi (Bruno, Campanella) e
scienziati (Galileo) rafforzò.
Illuminismo, riforme e rivoluzione; la parabola napoleonica
1. La politica di equilibrio in Europa e le guerre di
successione - Le tre guerre di successione di Spagna, di Polonia,
d’Austria che caratterizzarono la storia europea dal 1701 al 1748, furono in
sostanza guerre che miravano ad impedire l’instaurarsi del predominio di
un’unica nazione. La loro conclusione fu l’adozione di una politica di
equilibrio tra le grandi potenze.
Caratteristica
costante delle guerre di successione fu che, pur nel mutare delle alleanze, si
trovarono sempre di fronte Francia e Austria (la prima sostenuta dal ramo
Borbone di Spagna in grave decadenza, la seconda dall’Inghilterra), con la
conseguenza che il territorio italiano fu trasformato in permanente campo di
battaglia.
Durante
questi conflitti vennero alla ribalta come grandi potenze due nuovi stati, la
Russia e il regno di Prussia.
1. Pietro il Grande
(1696-1725) fu lo zar che «portò» la Russia in Occidente: il grande impero che
si era formato attorno al principato di Mosca era rimasto per religione (quella
ortodossa), costumi, struttura feudale una realtà estranea all’Europa; salito
al trono nel 1689, dopo essersi sbarazzato della sorella, Pietro I aveva
compiuto alcuni viaggi in incognito in Europa; ne tornò consapevole dell’enorme
ritardo del suo Paese, sia sul piano economico, che su quello militare e
sociale. Sfruttando il potere che gli derivava dall’essere zar, quindi sovrano
assoluto, introdusse profonde modifiche nel modo di vivere dei russi (per
esempio fu il primo zar a tagliarsi la barba e impose questo ai suoi funzionari
e soldati). Sostenne guerre vittoriose contro la Svezia e conquistò al suo
impero la riva orientale del Baltico, dove fondò San Pietroburgo che divenne la
capitale. La sua opera di modernizzazione e di riforme rimase comunque
nell’ambito di una concezione del potere «orientale» e tirannica, fondata
sull’uso della forza.
2. Federico II di Prussia
(1712-1786), educato dal padre con rigore militare, dedicò la giovinezza agli
studi, interessandosi di teoria politica (scrisse anche un trattato, l’Antimachiavelli).
Salito al trono nel 1740, si impossessò della Slesia, togliendola all’Austria e
seppe mantenerla anche quando la Prussia fu attaccata e invasa dagli eserciti
di Russia, Austria e Francia (guerra dei Sette anni), perché la fortuna volle
che divenisse zar Pietro III che lo ammirava tanto da indurre anche gli alleati
alla pace. In realtà Federico si guadagnò l’appellativo il Grande perché incarnò agli occhi dei contemporanei il
tipo ideale di despota illuminato: rafforzò l’amministrazione che fece
funzionare con efficienza e puntualità maniacali e rese l’esercito prussiano la
macchina da guerra più forte del tempo. Amico di Voltaire, che ospitò anche
quando era in guerra con la Francia, mise in atto alcune idee degli
illuministi, come l’istruzione elementare obbligatoria, la fondazione e il
potenziamento delle accademie scientifiche e dell’università, la riforma dei
codici penale e civile.
2.
Il predominio austriaco in Italia - Il predominio spagnolo,
instaurato in Italia dal 1530 e confermato dalla pace di Cateau-Cambrésis (1559), continuò inalterato fino alla
prima delle tre guerre di successione, quella di successione spagnola,
conclusasi con le paci di Utrecht (1713) e Rastadt (1714), quando esso fu
sostituito dal predominio austriaco.
La
guerra della Quadruplice, col trattato dell’Aia (1720), e le due ulteriori guerre
di successione, polacca (trattato di Vienna 1738) ed austriaca (trattato di
Aquisgrana, 1748), confermando il predominio austriaco, diedero all’Italia un
assetto tale da favorirne la ripresa.
E
per più ragioni:
·
il predominio austriaco era meno esteso e condizionante di
quello spagnolo, perché i domini dell’Austria si limitavano al ducato di Milano
e a quello di Mantova, anche se l’Austria poteva contare sull’appoggio del
granducato di Toscana, assegnato ai Lorena imparentati con la dinastia
austriaca;
·
con l’acquisizione da parte dei duchi di Savoia di tutto il
territorio piemontese, dell’isola di Sardegna e del titolo regio, si era
costituito un forte stato in grado di contrastare il predominio austriaco;
·
si era costituito un nuovo vasto regno (Napoli e Sicilia più
lo stato dei Presidi) assegnato ai Borbone di Francia, che lo avviarono ad una
ripresa dal lungo stato di degradazione in cui si trovava dal tempo del dominio
aragonese. Ad un ramo collaterale dei Borbone era stato assegnato anche il
ducato di Parma e Piacenza;
·
la diversa natura della dominazione austriaca, caratterizzata
da un’amministrazione onesta, impegnata nello sviluppo economico del paese ed
aperta alle riforme;
·
le dinastie straniere dei Borbone e dei Lorena si
assimilarono alla vita del paese, divenendo ben presto italiane.
Queste
condizioni daranno i loro frutti quando, dopo il trattato di Aquisgrana (1748),
si aprirà per la penisola un periodo di pace.
a)
Quarantotto anni di pace
- Per poco meno di 250 anni, dal 1494, quando Carlo VIII di Francia aveva
iniziato la sua impresa italiana, alla pace di Aquisgrana del 1748, l’Italia
era stata un perenne campo di battaglia tra le maggiori potenze straniere, in
lotta per la conquista del predominio in Europa. Dopo Aquisgrana ha inizio,
invece, un lungo periodo di pace finchè, nel 1796, sulle Alpi comparve l’armata
rivoluzionaria comandata dal generale Napoleone Bonaparte. La politica europea
con Aquisgrana aveva avviato un nuovo corso: esaurito l’antagonismo
Francia-Austria che aveva prima portato le due nazioni a scontrarsi nella
nostra penisola, e, attuato il rovesciamento delle alleanze che vedeva alleate
le due ex nemiche, le contese delle grandi potenze si erano spostate verso il
Nord d’Europa e nelle colonie d’America e d’Asia, mentre l’Italia diventava un
elemento marginale nei rapporti fra i grandi Stati europei.
b)
La
ripresa dell’agricoltura in Italia - Questa situazione
politica favorevole fu un elemento fondamentale per la ripresa dell’economia
italiana, ma non fu il solo. Vi concorsero altre condizioni, prima fra tutte,
la fine del dominio spagnolo, sostituito, già nel secondo decennio del secolo
XVIII, da quello austriaco che creò le condizioni favorevoli per una ripresa.
Anche le nuove dinastie insediatesi in Italia (i Borbone a Napoli, in Sicilia e
a Parma-Piacenza; i Lorena in Toscana), godendo ora di maggior autonomia, si
dimostrarono più aperte agli influssi provenienti dall’estero, e ruppero
l’isolamento dell’Italia nei confronti delle tendenze generali dell’economia
europea in netta ripresa. Domina nell’azione dei principi una chiara coscienza
della coincidenza dell’interesse dinastico col progresso dell’economia che
continua ad identificarsi con l’agricoltura. La ripresa lenta, ma costante, di
alcune regioni italiane (in particolare Lombardia, Toscana e parzialmente
Piemonte) non significa infatti una trasformazione della loro economia. Il ritorno alla terra, che aveva
caratterizzato il secolo precedente, non conosce inversione di tendenza. Anche
lo sviluppo, sia pur limitato, di nuove manifatture si disloca frequentemente
nella campagna, con esiti comunque positivi per un più equilibrato rapporto di
questa con la città. Ma il fattore forse più incisivo di questa ripresa fu il
ravvivato interesse europeo per l’agricoltura a seguito del trionfo delle idee
fisiocratiche[15],
il cui nocciolo era costituito dalla valorizzazione della terra. Non è senza
significato il fatto che nuove accademie eclissino le vecchie accademie
letterarie; che si discutano studi e ricerche sulle tecniche agricole, e che
spesso i protagonisti siano uomini di un patriziato che incomincia ad
interessarsi, in modo attivo, della terra, in cui gli avi avevano investito i
capitali accumulati con il commercio e con le manifatture. Si comincia inoltre
ad interessarsi, con spirito filantropico, dei contadini, delle loro condizioni
di vita, della loro istruzione.
3. L’illuminismo - Il Settecento chiamò
se stesso l’età dei lumi, intendendo
significare che in questo secolo l’umanità, nella sua evoluzione storica, era
pervenuta all’età della ragione. Con i lumi della ragione l’umanità avrebbe
dissipato le tenebre dell’ignoranza che nel passato avevano consentito il
prevalere dell’arbitrio, delle ingiuste posizioni di privilegio, della
superstizione e dell’intolleranza.
L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dalla minorità. «Abbi il
coraggio di servirti della tua propria intelligenza. Questo è il metodo
dell’Illuminismo». Così scriveva nel 1784 Kant, il grande filosofo tedesco che,
pur affrontando una tematica diversa da quella dell’Illuminismo e con metodi e
risultati di tutt’altra natura, considerava l’Illuminismo come una conquista
irrinunciabile dello spirito umano nel suo sviluppo.
a)
Origine e diffusione
- L’Illuminismo permeò di sé tutta la cultura del XVIII secolo ed ebbe il suo
centro di diffusione nella Francia. Ma gli stessi filosofi illuministi,
Voltaire e gli enciclopedisti per primi, indicavano nell’Inghilterra la patria
delle idee che lo caratterizzavano. Locke[16], il filosofo
empirista che sosteneva essere l’esperienza l’unica fonte di ogni nostra
conoscenza, e Newton, che fondava la
fisica sull’esperienza e sulla matematica, erano indicati a modello per il loro
metodo scientifico. Le istituzioni politiche e i costumi civili degli inglesi
erano messi a confronto con quelli francesi per mostrarne la superiorità dovuta
ai principi di libertà e di tolleranza ai quali essi si ispiravano. Gli scritti
brillanti, anticonformisti, spregiudicati, dal linguaggio immediato ed
efficace, diffusero rapidamente la nuova
filosofia ben al di là della ristretta cerchia degli studiosi e degli
eruditi, raggiungendo i ceti della borghesia in ascesa, creando un’opinione
pubblica. I temi trattati erano tutti quelli che riguardavano la vita associata
e che avevano un carattere di attualità, non esclusi quelli della politica e
della religione. La spregiudicatezza procurò ai loro autori gravi noie e li
portò, in alcuni casi, a risponderne in tribunale ed a subire condanne al
carcere. Grazie a questa pubblicistica[17] le idee
dell’illuminismo travalicarono le frontiere e si diffusero in tutta Europa e
anche nelle colonie d’America. Ne favorì la diffusione il carattere di lingua
internazionale che il francese aveva nel XVIII secolo, grazie alla posizione di
prestigio di cui la Francia da tempo godeva.
b)
L’Enciclopedia - Lo
strumento che maggiormente concorse alla diffusione della mentalità
illuministica fu un’impresa culturale di eccezionale impegno, la pubblicazione
tra il 1751 e il 1772 dell’Enciclopedia o
dizionario ragionato delle scienze delle arti e dei mestieri ad opera di
una società di uomini di lettere in 24 volumi. Ideatore del progetto fu Diderot
che ne fu anche direttore, per un certo tempo, assieme a D’Alembert. L’opera
offriva una sistemazione generale del sapere umano nei suoi diversi settori,
lontano da ogni accademismo e facilmente accessibile ad un vasto pubblico. A
fianco delle ultime acquisizioni delle scienze, venivano illustrate anche
quelle della tecnica, accompagnandole con la descrizione dei procedimenti e
degli utensili dei diversi mestieri. Era un accostamento del tutto nuovo, che
rispecchiava la posizione acquisita dalle nuove tecniche di lavoro, le
cosiddette arti meccaniche che
soltanto un secolo prima erano considerate con disprezzo. Le autorità, in
particolare quella ecclesiastica, ostacolarono la pubblicazione dell’opera, che
fu sospesa per un certo tempo e che, per essere completata, dovette essere
stampata fuori dalla Francia e subire negli ultimi volumi tagli non
indifferenti. Il gruppo di letterati e tecnici che lavorò all’Enciclopedia era
abbastanza numeroso e comprendeva nel suo momento più felice personalità di
primissimo piano, come Voltaire, Rousseau, Quesnay, Turgot, Necker, D’Holbach,
e tanti altri.
4. I caratteri fondamentali dell’Illuminismo -
Parlando dell’Illuminismo, occorre ricordare subito la varietà di posizioni che
si riscontrano tra quelli che ne vengono considerati i rappresentanti; varietà
che a volte giunge a profonde divaricazioni anche su temi centrali, di politica
e di religione. Al di là di ogni diversità esiste, però, un atteggiamento
mentale comune e la comune accettazione di alcuni principi fondamentali.
a)
La società come tema privilegiato -
Mentre finora la filosofia aveva avuto come oggetto principale Dio o la natura
e i rapporti uomo-Dio, uomo-natura, gli illuministi si propongono come tema
principale la società e le sue istituzioni e il rapporto tra gli uomini. L’uomo
deve essere liberato, in nome della ragione, da tutti gli impacci e i legami
della tradizione. La critica alla tradizione è il procedimento tipico
dell’Illuminismo.
b)
La fiducia nella ragione come
metodo - La ragione è esaltata come la luce che disperderà
l’oscurantismo del passato e indicherà le soluzioni da prendere per realizzare
una società dalla quale sia bandito, assieme all’ignoranza e alla
superstizione, anche il vizio, e nella quale sia assicurata la felicità. È
chiaro che la ragione a cui ci si riferisce non è la ragione astratta dei filosofi,
ma è uno strumento di ricerca. Per questo sarebbe più preciso parlare di
fiducia nella scienza, o nel suo metodo, che si vuol applicare oltre che allo
studio della natura anche all’esame della società e dei suoi problemi.
c)
L’uguaglianza degli uomini e la
libertà - una delle prime verità che la ragione proclama è che gli
uomini sono per natura uguali. Le uniche differenze, ragionevolmente
accettabili, sono quelle dovute ai meriti personali; tutte le altre sono da
respingere, a cominciare dai privilegi connessi alla nascita. Come per natura
gli uomini sono uguali, così sono liberi, e nessuno può essere privato di
questo diritto fondamentale, che consiste nel poter disporre della propria
persona e dei propri beni, nel modo che si ritiene più conveniente alla propria
felicità. Se un sovrano pretende di disporre a suo arbitrio della vita e dei
beni dei sudditi, questi hanno il diritto di ribellarsi, perché, comportandosi
così, il sovrano va contro alla finalità dello Stato che consiste nella difesa
degli inalienabili diritti naturali.
d)
La tolleranza
- una delle espressioni fondamentali della libertà è la libertà di pensiero e,
in particolare, la libertà di religione. Unico limite a questa libertà è il
rispetto delle leggi, che garantiscono il diritto degli altri e una ordinata
convivenza. Lo Stato, per tanto, non può imporre una religione, né perseguitare
i dissidenti, ma deve tollerare qualsiasi confessione. L’intolleranza e il
fanatismo religioso sono sempre stati causa di atroci delitti e di sanguinose
guerre: la tolleranza, invece, ha sempre favorito la convivenza civile e il
fiorire delle arti, delle scienze e delle attività economiche.
e)
L’universalismo
- affermare che tutti gli uomini sono uguali davanti alla ragione significa
considerare le differenze storiche e nazionali come non essenziali. Per questo
nelle Dichiarazioni dei diritti, come quella americana e quella francese si
pretende che esse siano valide «per tutti gli uomini, per tutti i tempi, per
tutti i Paesi». E l’uomo che ha assimilato la nuova filosofia si considera,
come scriveva Baretti, «cittadino del mondo» (cosmopolitismo).
f)
Funzione sociale della cultura:
se ogni epoca espresse un suo proprio ideale d’uomo, quello del Settecento fu
il filosofo, inteso come l’intellettuale che, libero da pregiudizi e da timori
reverenziali, affronta e dibatte i problemi della realtà sociale alla luce
della ragione. E il suo fine non è puramente teoretico: con la sua ricerca egli
si sente impegnato in una grande opera a favore dell’umanità e del progresso.
La cultura è per lui uno strumento al servizio della «felicità degli uomini»,
perché la lotta contro l’ignoranza è lotta contro il vizio e contro le miserie
materiali e morali. Una fiducia illimitata nel sapere gli fa guardare con
ottimismo all’avvenire che, grazie al trionfo dei lumi al quale egli ha portato
il suo contributo, non può che essere migliore del passato.
5. Cultura e politica: il dispotismo illuminato -
L’influsso esercitato sull’economia dalla dottrina fisiocratica è una
manifestazione del più generale influsso esercitato dalle idee sulla pratica,
che costituì un aspetto peculiare del Settecento. La convinzione che l’uomo di
cultura, l’intellettuale deve operare in vista del miglioramento della realtà
sociale, la fiducia nell’efficacia pratica delle idee costituiscono un aspetto
saliente dell’Illuminismo. Portare la filosofia sul trono, l’antico ideale
platonico del filosofo-re, costituì per gli illuministi una meta realistica. E,
in vario modo, la realizzarono: o diventando consiglieri di sovrani (Voltaire
di Federico II di Prussia, Diderot di Caterina di Russia), o partecipando di
persona al governo del re (Turgot, ministro di Luigi XVI). L’influenza della
filosofia sulla politica fu notevole: oltre a creare nei sovrani e nei sudditi
una tendenza favorevole all’innovazione nei vari campi (dal diritto
all’economia), portò alla diffusa accettazione della concezione paternalistica
del governo («il sovrano è per i sudditi come un padre per i figli, e deve aver
cura della loro felicità»), concezione che, pur con tutti i suoi limiti,
costituì un indubbio progresso nei confronti della concezione assolutistica. Da
questo spirito - la ricerca della felicità dei sudditi unita all’interesse del sovrano - nacquero le
riforme[18].
L’Illuminismo
dà forma a un’idea di società fondata su progresso, razionalità, tolleranza,
modernità, libertà di pensiero e di azione; ciò non è in conflitto col potere
dei sovrani e da molti di questi è accolto come un sostegno all’opera di
accentramento dello Stato.
Gli
anni di massima collaborazione sono tra il 1750 e il 1780: gli intellettuali
europei dànno il loro appoggio alle riforme promosse dai sovrani che agiscono
con la forza del loro potere assoluto, ma con intenti «filosofici» partecipano
alla diffusione dei Lumi; sono despoti illuminati Maria Teresa e Giuseppe II
d’Austria, Federico II di Prussia, Caterina II di Russia sono i protagonisti di
questa stagione.
Le
maggiori riforme riguardano:
·
il giurisdizionalismo: cioè limitazione dei poteri
della Chiesa, eliminazione di antichi privilegi (tribunali riservati agli
ecclesiastici, l’asilo, cioè l’impunità per chi si rifugiava nei conventi e
nelle chiese, ecc.), e controllo da parte dei sovrani sulle Chiese nazionali.
Molti ordini religiosi e leggi che impedivano la vendita dei beni ecclesiastici
furono aboliti. Il giurisdizionalismo riguardò i Paesi cattolici e provocò
l’espulsione dei gesuiti da molti Stati, fino a quando il papa soppresse la
Compagnia di Gesù (1773);
·
i diritti civili: furono estesi e fu riconosciuta la
libertà di culto a ogni religione; in alcuni Paesi fu introdotta la libertà di
stampa;
·
l’istruzione: i provvedimenti ebbero due scopi,
l’estensione dell’istruzione elementare (la Prussia introdusse per prima
l’obbligo nel 1763) e creazione di nuove scuole superiori, e la rottura del
monopolio ecclesiastico sull’istruzione;
·
l’ordinamento giuridico: si adottarono nuovi codici;
in Austria Giuseppe II abolì la tortura e limitò i casi di pena di morte
·
l’amministrazione: razionalizzazione della raccolta
delle imposte, anche attraverso la costituzione di catasti dei beni immobili
(campi, case, ecc.).
L’Illuminismo italiano e le riforme in Italia -
La situazione creatasi in Italia dopo Aquisgrana creò le condizioni favorevoli
alla introduzione di riforme, sull’esempio di quelle che erano state attuate
dai sovrani illuminati di alcuni grandi Stati europei: da Federico II in
Prussia, da Caterina in Russia, da Maria Teresa e Giuseppe II in Austria.
Milano, Napoli e Firenze centri illuministici -
In Italia, infatti, già dopo la pace di Vienna (1738) si erano insediate due
nuove dinastie - i Lorena in Toscana e i Borbone a Napoli - che, pur essendo
straniere, godevano di notevole indipendenza; al retrivo e chiuso dominio
spagnolo in Lombardia si era sostituito quello austriaco, più aperto alle nuove
idee e caratterizzato da un’amministrazione onesta ed efficiente, decisa a
migliorare le condizioni della regione. La maggior vivacità di scambi favorì,
già prima della metà del secolo, il diffondersi nella penisola delle nuove idee
provenienti dall’Inghilterra e ancor più dalla Francia. Ben presto si
costituirono a Milano, a Napoli e a Firenze piccoli ma attivi gruppi di
intellettuali conquistati dalle nuove idee. La coscienza della propria
arretratezza culturale, e delle funeste conseguenze che ne derivavano sul piano
economico-sociale, creò in essi una decisa volontà di mettersi al passo col
pensiero europeo e li portò a ricercare i propri modelli a Londra e a Parigi,
stabilendo, in più casi, diretti contatti personali con i massimi
rappresentanti dell’Illuminismo francese e inglese. Si trattava, pertanto, di
un rinnovamento che partiva dal basso, strettamente connesso con la rinascita
della borghesia, che si risvegliava dal suo letargo secentesco.
Era una borghesia che, a diversità di quella comunale, non
trovava la base della sua ricchezza nella mercatura o nelle manifatture, ma
nella terra; e la sua rinascita fu una delle conseguenze della ripresa
dell’agricoltura.
A Milano le figure più eminenti di questi intellettuali
riformatori furono i due fratelli Verri, Pietro ed Alessandro, e Cesare
Beccaria. I Verri furono al centro del gruppo che fondò la « Società dei Pugni»
da cui nacque la rivista Il caffè, che nei suoi due anni di vita battagliera
(1764-1766) svolse una efficace azione di critica agli aspetti negativi della
società lombarda (nella legislazione, nell’economia, nell’educazione, nelle
lettere e nel costume in genere), proponendo riforme ispirate alle innovazioni
che venivano d’oltralpe. Molti dei collaboratori, tra cui Pietro Verri, furono
chiamati, dal governo di Maria Teresa, a partecipare direttamente al
rinnovamento amministrativo della Lombardia. Cesare Beccaria, anch’egli
collaboratore de Il caffè e insegnante di economia politica a Milano, conseguì
fama internazionale con l’opera Dei Delitti e delle pene (1764), nella quale
egli propugnava l’abolizione della tortura e della pena di morte.
A Napoli le condizioni ambientali furono meno favorevoli allo
sviluppo della cultura illuministica, perché non esisteva una borghesia che la
promuovesse e sostenesse. Ciò spiega le incertezze, i ripensamenti e le
contraddizioni che caratterizzano pensatori pur acuti e preparati quali Antonio
Genovesi, Ferdinando Galiani, Gaetano Filangeri e Gaetano Palmieri.
L’oggetto privilegiato dei loro studi fu l’economia ove
accettarono, non senza limitazioni, le idee fisiocratiche: al Genovesi, autore
delle Lezioni sul commercio ossia d’economia civile (1765) fu affidata la prima
cattedra di economia politica istituita a Napoli da Carlo III; il Galiani
scrisse un Dialogo sul commercio dei grani (1770) in francese, e un trattato
Della moneta. Essi approfondirono però anche il tema della legislazione
statale, vista soprattutto nei rapporti tra Stato e Chiesa, (sostenevano
l’indipendenza del primo nei confronti della seconda sulla quale esso aveva
diritto di esercitare un controllo) e il tema dell’istruzione: famosi furono il
Piano delle scuole (1740) del Genovesi e il Della pubblica e privata educazione
(1771) del Filangeri.
Sfortunatamente, l’azione culturale di questi autori non
trovò l’appoggio concreto della borghesia, praticamente inesistente e non in
grado di premere sul sovrano, per ottenere delle riforme.
In Toscana l’indirizzo empiristico, antimetafisico, proprio
della cultura toscana dai tempi del Galilei e della sua scuola, costituì un
terreno favorevole alla diffusione dell’Illuminismo, come dimostra anche il
fatto che l’Enciclopedia vi ebbe ben due ristampe (a Lucca e a Livorno). Il
centro culturale più attivo fu l’Università di Pisa, nella quale si formarono
quasi tutti gli intellettuali che, con i loro scritti, stimolarono il granduca
Pietro Leopoldo ad intraprendere le riforme e che furono suoi collaboratori nel
realizzarle. Tra questi i più influenti furono gli economisti Pompeo Neri e
Francesco Gianni e il giurista Giulio Rucellai.
Strumento efficace per lo sviluppo e la razionalizzazione
dell’agricoltura fu poi l’Accademia dei Georgofili, il cui indirizzo prevalente
fu il rafforzamento della mezzadria, considerata un’istituzione favorevole alla
conservazione della pace sociale.
Le riforme
- Fu in questo clima di risveglio culturale e di fervore sociale che maturarono
le riforme. Non a caso la Lombardia, il Regno di Napoli e la Toscana furono gli
Stati in cui esse ebbero una realizzazione più vasta e consapevole, perché in
essi coincidevano gli interessi del sovrano con quelli della borghesia,
rappresentata dagli intellettuali illuminati. La soppressione di vincoli
feudali, infatti, e l’abolizione di privilegi, se corrispondeva alla duplice
esigenza della borghesia di un più libero sviluppo economico e di una
parificazione dei pesi fiscali, erano ben visti anche dal principe, perché
rendevano più piena la sua autorità, liberandola dalle limitazioni che tali
vincoli gli ponevano.
In particolare, lo sviluppo dell’economia dello Stato, se
andava a vantaggio dei sudditi, e in particolare dei grandi proprietari
terrieri, tornava a vantaggio anche del principe, che accresceva il suo potere
in relazione all’aumentata ricchezza del Paese, da cui poteva attingere
maggiori mezzi per la sua politica.
I principi illuminati che attuarono le riforme furono
l’imperatrice d’Austria Maria Teresa e l’imperatore Giuseppe II per la
Lombardia, il granduca Pietro Leopoldo per la Toscana, Carlo III di Borbone e
suo figlio Ferdinando IV a Napoli.
Le riforme interessarono tutti i piani della vita sociale e
politica e, pur nella diversità di attuazione nei diversi Stati, furono
accomunate da iniziative e disposizioni di legge molto simili: si soppressero
le corporazioni d’arti e mestieri che, con i loro statuti superati,
costituivano un impaccio per la manifattura e il commercio; applicando le idee
fisiocratiche e i consigli delle diverse accademie scientifiche, si curò la
razionalizzazione dell’agricoltura; si abolirono le limitazioni dei prezzi dei
prodotti agricoli; si costruirono importanti opere pubbliche quali canali,
bonifiche, strade. Per ottenere una più giusta distribuzione dei pesi fiscali
e, nel contempo, per incrementare le entrate, si abolirono le esenzioni e i
privilegi del clero e dei nobili; si ricorse ad un censimento generale delle
proprietà (il catasto); si abolirono gli appalti delle imposte. Per rispondere
alle diffuse esigenze umanitarie, si migliorò la legislazione penale, giungendo
perfino ad abolire la tortura e la pena di morte (in Toscana). Per rafforzare
l’indipendenza dello Stato dalla Chiesa e ridurre l’ingerenza di quest’ultima,
si limitarono o si abolirono alcuni privilegi, quali il foro ecclesiastico e il
diritto d’asilo dei luoghi sacri; si abolì l’inquisizione e la censura
ecclesiastica sui libri da stampare; si limitò il numero e l’entità degli
ordini religiosi che dipendevano direttamente da Roma e non dai vescovi locali;
si allontanarono i Gesuiti dall’insegnamento e poi li si espulsero dagli Stati.
La differenza più rilevante nell’attuazione delle riforme si
incontrò tra il regno di Napoli e gli altri due Stati italiani. A differenza
della Lombardia e della Toscana, a Napoli mancava una borghesia politicamente
attiva: quella esistente era costituita da professionisti, che miravano ad
inserirsi, direttamente o indirettamente, nell’apparato statale. Per questo
motivo le riforme, che miravano ad una trasformazione economico sociale contro
il potere dei baroni, non riuscirono ad acquistare incisività, non mutarono
sostanzialmente la situazione e arrivarono ben presto ad un punto morto, mentre
ebbero successo quelle contro il potere ecclesiastico, perché, in questo caso,
gli interessi e le richieste del sovrano, dei nobili e degli uomini di cultura,
coincidevano.
Il Piemonte, lo Stato Pontificio e Venezia restarono al di
fuori del moto di rinnovamento che, comunque, entrò in crisi, e finì col
bloccarsi del tutto, quando gli eventi rivoluzionari di Francia mostrarono che
le mete della borghesia non potevano più conciliarsi con gli interessi del
principe.
La rivoluzione industriale - L’impulso
innovatore delle idee degli illuministi provocò in tutta Europa un grande
interesse per i problemi connessi con la vita civile e in diversi paesi mise
addirittura in movimento processi di profonda trasformazione delle condizioni
economiche e sociali. Alle attività tradizionali dell’agricoltura e
dell’artigianato andarono a poco a poco affiancandosi, prima in Inghilterra,
poi nelle zone più ricche del continente, forme, via via più complesse, di
produzione industriale basata sull’impiego delle macchine e sull’organizzazione
sistematica del lavoro.
Questa
profonda trasformazione dei metodi produttivi è stata chiamata rivoluzione
industriale e non a torto, se si considera che l’avvento dell’industria ebbe
conseguenze importantissime sulla società e sul modo di vivere degli uomini e
influenzò profondamente anche il pensiero filosofico e la letteratura, creando
nuovi problemi e stimolando nuove idee.
Nasceva
così in modo ancora rudimentale una nuova civiltà, destinata a svilupparsi
nell’Ottocento e ad affermarsi pienamente, con sorprendenti conquiste, nel
nostro secolo.
-
Dall’artigianato
all’industria - Agli inizi del Settecento l’artigianato era ancora ciò che
era stato per tanti secoli: un’attività esclusivamente manuale, svolta con
l’aiuto di una tecnica poco progredita e sulla base di un’organizzazione del
lavoro che affidava al maestro-proprietario la direzione del laboratorio e a un
numero limitato di apprendisti e di operai le varie fasi dell’esecuzione
dell’opera. La qualità dei prodotti (tessuti, armi, attrezzi metallici,
gioielli, vasellame, vetri) era spesso assai buona, ma la produzione era
scarsissima e i manufatti, ottenuti con tante ore di lavoro, finivano per avere
un costo così elevato che soltanto pochi potevano permettersi di acquistarli.
Per
diminuire i prezzi e conquistare quindi strati sempre più larghi di compratori,
bisognava aumentare la produzione sottraendo lavoratori all’agricoltura che ne
aveva in abbondanza. I primi tentativi in questo senso furono fatti nel campo
della lavorazione tessile: gli imprenditori cominciarono ad affidare lavori di
tessitura, anche al di fuori della filanda, ai contadini, i quali vennero ad
avere una seconda occupazione più redditizia che associavano alla coltivazione
dei campi.
C’era
però una grave difficoltà: non tutte le fasi della lavorazione potevano infatti
essere svolte in questi laboratori domestici dove si poteva filare e anche
tessere, ma non pettinare o tingere i tessuti, operazioni per le quali erano
necessarie attrezzature più complicate e particolare competenza nei lavoratori.
Si sentì quindi l’esigenza di concentrare i lavoratori in ambienti attrezzati
per una data produzione, così da organizzare più efficacemente le varie fasi
del lavoro.
-
Le
prime fabbriche - Nacquero così, intorno alla metà del Settecento, le prime
fabbriche attrezzate via via con macchine sempre più perfezionate che
agevolavano il lavoro umano e consentivano una produzione in serie e di qualità
garantita, in tempi molto più brevi. L’avvento delle fabbriche modificò anche
profondamente la condizione del lavoratore: si impose il principio della
specializzazione e della divisione del lavoro, per cui ciascuna fase del lavoro
venne affidata a un determinato operaio.
I
lavoratori, reclutati nelle campagne, poterono disporre di un salario regolare,
ma le loro condizioni restarono spesso miserevoli e sorse tra la classe operaia
e quella degli imprenditori che controllavano la produzione, un conflitto
sociale destinato ad aggravarsi nel secolo successivo.
-
Le
grandi invenzioni e lo sviluppo della tecnica - I problemi
tecnici che si incontravano nell’organizzazione industriale del lavoro
portarono all’invenzione di nuove macchine che consentirono un più intenso
sfruttamento delle risorse naturali, oppure incrementarono la produzione dei
manufatti.
L’industria
tessile ebbe una spinta decisiva quando si introdussero nelle fabbriche la
macchina filatrice e il telaio meccanico ideato dall’inglese Arkwright: la
produzione aumentò e si poterono abbassare sensibilmente i prezzi dei manufatti
di cotone.
Nell’industria
la produzione di ferro ebbe, in Inghilterra, un fortissimo incremento quando
nella fusione di questo metallo, del quale il paese era ricco, si impiegò non
più il carbone di legna, ma quello fossile di cui si erano scoperti nell’isola
ricchissimi giacimenti.
L’invenzione
più importante fu però quella della macchina a vapore, ideata da James Watt:
dapprima essa fu usata soltanto per azionare le pompe che estraevano acqua dai
pozzi carboniferi, ma successivamente ebbe tutta una vasta serie di
applicazioni. Grazie a queste invenzioni e alle sue applicazioni l’Inghilterra,
nella seconda metà del Settecento, divenne il primo paese industriale del
mondo.
Sempre
al XVIII secolo risale la scoperta di un’altra fonte di energia naturale che
doveva in seguito rivelarsi importantissima: l’elettricità, studiata dal
francese Coulomb e da Alessandro Volta che inventò la pila.
Lo
stimolo della mentalità illuministica, tuttavia, non si sentì soltanto nel
campo della tecnica. In questo periodo nasce anche la chimica moderna
soprattutto per merito del francese Lavoisier che per primo distinse sul piano
teorico gli elementi dai composti e studiò la dilatazione termica e i fenomeni
connessi con la combustione.
Il
progresso della chimica ebbe ripercussioni favorevoli anche nella medicina.
Pian piano si debellarono i grandi mali che periodicamente decimavano con
terribili epidemie, favorite dalla mancanza di igiene e di rimedi adeguati, la
popolazione europea. L’inglese Jenner scoprì il vaccino antivaioloso, aprendo
così la ricerca medica a prospettive del tutto nuove.
-
Le
città industriali - La più importante conseguenza dell’affermazione
dell’industria e dei progressi scientifici e tecnici, fu che masse crescenti di
popolazione abbandonarono le campagne dove si guadagnava pochissimo e si
trasferirono nelle città. Tutt’attorno agli antichi centri cittadini sorsero
sterminati e squallidi quartieri operai, mentre nelle zone minerarie nacquero
addirittura nuove città, popolate esclusivamente da lavoratori dell’industria.
Per
dare un’idea concreta della misura in cui si concentrava la popolazione nelle
zone industriali dando vita a città sempre più grandi, basteranno queste cifre
che si riferiscono alla città inglese di Manchester: tra il 1685-1760 la città
passò da 6000 a 45.000 abitanti; nel 1800 ne aveva 72.000, nel 1850 303.000.
Lo
stesso paesaggio iniziò una profonda trasformazione e l’Inghilterra ne subì per
prima le conseguenze: sulla verde pianura, ricca di grano e di pascoli, si
levarono sempre più numerose le ciminiere e sui declivi delle colline boscose
si spalancarono i pozzi delle miniere.
La Rivoluzione americana (1765-1783) -
Nella seconda metà del secolo si verificò un evento storico determinante: la
ribellione alla madrepatria delle colonie inglesi d’America e la costituzione,
al di là dell’Atlantico, di uno Stato indipendente, gli Stati Uniti d’America.
La ribellione fu favorita dalla diffusione, tra i coloni, dei principi
dell’Illuminismo e dalla fine della pressione che la Francia esercitava sulle
colonie prima di essere sconfitta dall’Inghilterra nella guerra dei sette anni.
Quando, per rinsanguare l’erario esaurito dalle spese di
questa lunga guerra, il parlamento inglese e il governo di Giorgio III
pretesero di imporre nuove imposte alle colonie, senza aver avuto
l’approvazione delle assemblee locali, queste si rifiutarono di pagarle.
Dapprima (1764-1767) si tentò una soluzione di compromesso, poi, vista
l’intransigenza dell’Inghilterra, si passò alla lotta armata (1767-1783). Le
colonie riunitesi il 4 luglio 1776 dichiarano la loro indipendenza nel
Congresso di Filadelfia, confermata dalla vittorie militari ottenute da Giorgio
Washington a Saratoga (dicembre 1777) e a Yorktown (1781). Alle colonie
americane si erano affiancate nella guerra all’Inghilterra la Francia, la
Spagna e l’Olanda.
Fra gli atti approvati dai rappresentanti delle colonie ancor
prima della dichiarazione d’indipendenza, vi fu la famosa Dichiarazione dei
diritti (1774), nota come la «grande dichiarazione», che, rifacendosi alle idee
di libertà e di democrazia elaborate in Europa dai filosofi del Settecento,
affermava l’uguaglianza di tutti gli uomini e il loro diritto naturale alla
vita, alla libertà, alla felicità, e proclamava il diritto dei cittadini a
ribellarsi al sovrano che tali diritti non rispettasse.
La Rivoluzione francese (1789-1799)
- Verso la metà del Settecento, la Francia si presentava come la maggiore
potenza politica e militare del continente europeo.
Il
modello di vita proposto dalla corte di Versailles, simbolo della Francia in
uno dei momenti più gloriosi della sua storia, trionfava nei salotti di tutta
Europa, mentre i princìpi progressisti e umanitari propugnati dagli illuministi
non solo ricevevano entusiastica accoglienza presso gli uomini di cultura, ma
trovavano realizzazione pratica nelle riforme attuate dai sovrani illuminati.
Tuttavia dietro lo splendore della corte, dietro la floridezza economica e il
prestigio culturale, la Francia nascondeva un’altra realtà. Nonostante i
tentativi fatti da valenti ministri per dare un ordinamento razionale alla
struttura amministrativa dello Stato, questa restava per molti versi arcaica e
inefficiente, mentre profondi contrasti dilaniavano la società francese, ancora
fondata sul privilegio aristocratico e sulla proprietà terriera.
Avvenne
così che proprio la Francia che aveva proposto agli altri sovrani d’Europa il
modello di un Re Sole che traeva il suo potere direttamente da Dio e che
appariva il più sicuro baluardo della monarchia assoluta, divenne, a partire
dal 1789, teatro di una grandiosa rivoluzione, destinata a mutare la storia non
soltanto di quel paese, ma di tutta l’umanità.
a)
La
società francese prerivoluzionaria - Le radici storiche
della Rivoluzione francese, al di là delle circostanze particolari che ne
favorirono il verificarsi alla fine del secolo XVIII, si trovano nella ormai
insostenibile contraddizione tra la struttura sociale aristocratica della
Francia - con il predominio degli ordini privilegiati (nobiltà e clero) - e la
potenza economica che il Terzo Stato (o meglio la parte più elevata di esso, la
borghesia) aveva conseguita nel corso degli ultimi secoli. La monarchia,
realizzato con l’appoggio del Terzo Stato l’accentramento del potere nelle
proprie mani, nel Settecento aveva ripreso una politica di protezione delle
classi privilegiate, in particolare della nobiltà, riconfermandole tutti i
privilegi sociali, quasi a compensarla del potere politico che le aveva tolto,
e attribuendole onorari elevati, pensioni e stipendi militari e per le cariche
di corte. La nobiltà finiva così con l’assorbire circa la quarta parte del
bilancio dello Stato. Ciò avveniva mentre la borghesia registrava un momento di
grande espansione e, nel contempo, acquisiva coscienza di essere l’effettiva
forza della nazione. Era naturale che chiedesse di avere un corrispondente peso
politico.
b)
L’influenza
delle idee illuministiche - Questa consapevolezza fu
chiarita e confermata dall’opera degli illuministi. I letterati scrivevano per
il gran pubblico, ne chiarivano e sostenevano le rivendicazioni: la libertà,
l’uguaglianza, la sovranità popolare. Le venerabili istituzioni del passato, a
cominciare da quelle religiose, che erano il più saldo sostegno dell’antico
regime, cadevano sotto la critica spregiudicata dei filosofi, critica che gli
stessi nobili, inconsapevoli di preparare così la loro fine, condividevano e
aiutavano a diffondere. Era qui, nel mondo delle idee, che la rivoluzione era
incominciata. Una rivoluzione che pertanto non venne dal basso, dalle classi
popolari, ma dall’alto, così come dall’alto sarà guidata: dalla borghesia.
c)
La
borghesia - Il Terzo Stato, che stava al di sotto degli ordini
privilegiati e rappresentava la stragrande maggioranza della popolazione, era
estremamente composito. Ne facevano parte i contadini, gli artigiani, gli
operai, ma anche la borghesia, formata da intellettuali, professionisti,
banchieri, commercianti, imprenditori di opifici e manifatture, proprietari
terrieri. Era questa la forza che si contrapponeva alla vecchia classe feudale.
Nonostante le pastoie delle vecchie istituzioni, il commercio (interno ed
estero, con l’Europa e con le colonie) e l’industria si erano sviluppati, le
banche si erano moltiplicate, erano nate Società per azioni che operavano nel campo
del commercio, delle assicurazioni, dell’industria. La terra era passata e
continuava a passare dalle mani dei nobili indebitati a quelle dei borghesi,
che si erano arricchiti. Al di sotto dell’alta borghesia, che abbelliva con i
suoi palazzi le vie di Parigi e delle altre città di Francia, si era formata
una piccola borghesia, il cui livello di vita si veniva elevando. In altre
parole, mentre la nobiltà, rovinata dalla dispendiosa vita di corte, veniva
costantemente perdendo di peso, la borghesia ne acquistava ogni giorno di più.
Questo squilibrio di classi fu una delle cause della rivoluzione: la borghesia
volle abolire l’ordine sociale esistente per sostituirlo con uno nuovo, in cui
essa avesse il riconoscimento al quale riteneva d’avere diritto. La rivoluzione
pertanto non nacque in una Francia immiserita, ma in una nazione fiorente, e fu
la borghesia, che di questa floridezza godeva i frutti, ad assumerne la
direzione, per orientarla secondo i suoi interessi.
d)
I
contadini - La quasi totalità del terzo Stato era costituita da
contadini, perché la Francia, nonostante lo sviluppo del commercio e delle
manifatture, continuava ad essere una nazione prevalentemente rurale. E i
contadini erano anche il ceto più sfruttato e più oberato di carichi di ogni genere.
Su di loro pesavano gli antichi obblighi feudali (corvées, decime, censi,
imposte regie, proibizione di caccia, servizio militare), ai quali si erano
sovrapposte le richieste dei nuovi padroni borghesi, talvolta più esosi degli
antichi. La soppressione dei pascoli comuni e dei diritti di spigolatura e di
legnatico aveva privato i più poveri anche delle più piccole risorse. E’
comprensibile che i contadini, in queste condizioni di sfruttamento e di
miseria, fossero pronti per la rivolta. La situazione delle classi inferiori
era migliore nelle città, ove gli artigiani, nonostante i vincoli delle
corporazioni, avevano maggiori possibilità di avanzamento. Gli operai occupati
nelle manifatture spesso erano anche contadini per i quali il salario
industriale era un’integrazione del reddito agricolo. Comunque, mancando di
ogni coscienza di classe, nel momento rivoluzionario non ebbero difficoltà ad
identificarsi con i borghesi. Contadini e popolani costituiranno la massa che
fu la protagonista delle grandi azioni rivoluzionarie e diede al Terzo Stato il
peso necessario per far valere le proprie richieste e portare avanti con
successo le proprie rivendicazioni.
a)
L’Assemblea
Nazionale Costituente - Le difficoltà finanziarie in cui, nonostante la floridezza
dell’economia nazionale, si dibatteva la monarchia, incapace di risanare il
disavanzo del bilancio statale, furono la circostanza che fece scoppiare la
rivoluzione. Il Parlamento di Parigi non aveva approvato le proposte della
monarchia per risanare il deficit e il re si vide costretto a convocare gli
Stati Generali[19],
che da semplice assemblea consultiva, per un atto rivoluzionario del Terzo
Stato, si trasformarono in Assemblea Nazionale Costituente[20] (9 luglio
1789) con l’impegno di non sciogliersi sino a che non avesse dato una nuova
Costituzione alla Francia. Questo primo passo rivoluzionario fu rinsaldato
dall’insurrezione popolare (presa della Bastiglia, 14 luglio) e dalla
costituzione della Guardia Nazionale, che assicurarono al Terzo Stato,
all’interno dell’Assemblea e nel Paese, la forza per fronteggiare i tentativi
dei nobili e della monarchia di fermare la rivoluzione. La rivolta dei
contadini estese la rivoluzione in tutta la Francia. L’abolizione dei diritti feudali (decretata dall’Assemblea la notte
del 4 agosto) e la Dichiarazione dei
diritti furono due tappe fondamentali per l’instaurazione di un nuovo
ordine, che trovò la sua codificazione nella Costituzione del 1791, una
costituzione monarchica moderata, in cui il re e i suoi ministri erano
affiancati da un’Assemblea legislativa che venne eletta quando l’Assemblea
Costiuente si sciolse.
b)
L’Assemblea
Legislativa - La borghesia poteva dire d’aver raggiunto il suo scopo, ma
presto si vide che la monarchia non era disposta ad accettare le limitazioni
impostele dalla costituzione. Così, sotto la spinta di più circostanze
(dichiarazione di guerra dell’Austria e della Prussia, tentativo di fuga del
re, prime sconfitte militari, tradimento di alcuni generali, timori di
complotti antirivoluzionari all’interno) la rivoluzione si radicalizzò: i
moderati, che numericamente prevalevano nell’Assemblea Legislativa, furono
travolti dalla sinistra, rappresentata da Girondini[21]
e Giacobini[22],
e dalle pressioni della piazza, che concordemente volevano la fine della
monarchia e l’instaurazione di una repubblica. L’Assemblea Legislativa si
sciolse dopo aver indetto le elezioni per una nuova assemblea costituente che,
in omaggio alla dottrina della sovranità popolare del Rousseau si chiamò
Convenzione.
c)
La
Convenzione e la Repubblica - La Convenzione proclamò la
repubblica, processò Luigi XVI e lo condannò alla ghigliottina e s’impegno a
dare una nuova Costituzione alla Francia. Fu un’opera turbata da lotte feroci
tra i diversi gruppi politici. I Girondini, rappresentanti dell’alta borghesia
provinciale e dei moderati, furono travolti dai Giacobini e la politica della
Convenzione si spostò sempre più a sinistra. Fu votata una costituzione ultra
democratica (costituzione dell’anno I), che però venne subito sospesa e non fu
mai applicata. Si crearono organismi speciali con poteri dittatoriali: il Comitato di salute pubblica[23], il Comitato
per la sicurezza nazionale e il Triumvirato (Robespierre, Saint-Just, Couthon).
Dal giugno 1793, si aprì il periodo del Terrore[24], che fu
dominato dalla figura di Robespierre[25], e la
repubblica, anche per le pressioni dei popolani (i Sanculotti[26]), assunse
atteggiamenti socialisteggianti, con viva attenzione per i problemi sociali.
Nonostante i suoi eccessi, il Terrore, grazie all’opera inflessibile di Robespierre,
ebbe il merito di soffocare i tentativi controrivoluzionari interni, di fermare
l’invasione straniera e portare le armate francesi al di là delle proprie
frontiere.
d)
Il
colpo di stato di Termidoro e la reazione borghese
- Quando la rivoluzione ebbe superati i gravi pericoli che la minacciavano,
Robespierre (che aveva combattuto su due fronti: contro l’opposizione moderata
di Danton[27]
e contro quella estremista di Hebert) si trovò isolato, e la borghesia,
contraria alle tendenze sociali che avevano caratterizzato il Terrore, riprese
in mano la situazione con un colpo di stato effettuato il 9 Termidoro[28] (27 luglio
‘94). Robespierre e i suoi sostenitori furono ghigliottinati, fu emanata una
nuova costituzione (la Costituzione dell’anno III, 1795), che diede vita ad una
repubblica moderata, basata sul censo, il cui organo esecutivo era il
Direttorio, un collegio di cinque membri. Il Direttorio ebbe vita difficile,
insidiato da destra dai monarchici e da sinistra dagli estremisti democratici,
e fu presto abbattuto con un nuovo colpo di stato da Napoleone (18 brumaio
‘99), che getterà così le basi per la sua dittatura personale. Comunque,
nonostante queste evoluzioni, la borghesia col colpo di stato di Termidoro
aveva raggiunto il suo scopo, perché d’ora in avanti, pur nelle diverse forme
che successivamente assumerà, lo Stato francese riserverà alla borghesia, in
particolare ai suoi strati più elevati, effettive possibilità di governo. La
Rivoluzione si era conclusa con la nascita dello Stato borghese.
Il
periodo napoleonico - Il periodo che va dal 1798 al 1815 è dominato dalla figura
di Napoleone che, da oscuro generale che comanda l’Armata d’Italia, diventa
prima console (1799), poi imperatore dei Francesi (1804) e crea un impero che
abbraccia mezza Europa. Le tappe fondamentali della sua carriera splendida e
drammatica sono indicate nella cronologia. Quello che qui ci interessa spiegare
è il significato europeo e italiano della sua vicenda, le ragioni del suo
fulmineo successo e dell’altrettanto rapido crollo.
a)
Il
significato della vicenda napoleonica - Napoleone, da un
certo punto di vista, chiude la Rivoluzione francese, in quanto, instaurando
una dittatura personale, ne nega i princìpi fondamentali, quelli della
partecipazione dei cittadini al governo e delle libertà politiche. Anche sul
piano internazionale la creazione a suo arbitrio di nuovi Stati, che egli poi
assegna ai suoi familiari, contrasta con il principio rivoluzionario del
diritto dei popoli a scegliersi il proprio governo. D’altra parte, le sue
campagne, che portano le armate francesi in tutta Europa, dalla Spagna alla
lontana Russia, vi diffondono le idee rivoluzionarie, gettando i semi da cui
fioriranno le rivoluzioni nazionali dell’Ottocento. Proprio questa bivalenza
dell’opera di Napoleone spiega l’atteggiamento, a un tempo di ammirazione e di
ostilità, dei suoi contemporanei; atteggiamento così evidente ad esempio, nel
nostro Foscolo.
b)
Le
cause dei successi napoleonici - Le armate francesi,
guidate prima dai generali del Direttorio e poi da Napoleone, vinsero le
potenze nemiche e sconvolsero l’assetto europeo precedente. Che cosa rese
possibili successi di tanta portata? Vi ebbero certo gran parte le capacità
militari di alcuni di questi generali e di Napoleone, l’entusiasmo delle
truppe, che, pur malamente equipaggiate, combattevano per idealità da loro
condivise. Ma la spiegazione va cercata soprattutto nel fatto che, alle spalle
dell’esercito, era stata creata, prima dalla Convenzione e poi, e in misura ben
maggiore, da Napoleone, un’organizzazione politico-amministrativa che aveva
fatto della Francia uno stato moderno. Napoleone infatti, portando avanti
l’opera di Luigi XIV e quella del giacobino Comitato di Salute Pubblica, aveva
costruito un organismo fortemente centralizzato, in grado di disporre
rapidamente di tutte le energie del Paese. Un Paese che egli aveva curato in
modo che rifiorisse nella sua economia e nei cui confronti si era presentato
come il pacificatore tra le opposte fazioni, e tra la Chiesa e la rivoluzione,
assicurandosene il consenso. Infine, la diffusione dei princìpi rivoluzionari
precorse le armate francesi, creò all’interno degli stessi Stati nemici gruppi
filofrancesi, pronti a favorire il loro successo e ad accogliere come
liberatori quei soldati che prima si erano battuti contro il pericolo
dell’invasione della Francia da parte delle potenze che volevano soffocare la
rivoluzione, e poi erano passati al contrattacco per muovere «guerra ai
tiranni», e portare giustizia e libertà ai Popoli. Sotto il loro urto cadevano le
vecchie impalcature statali, sociali e giuridiche offrendo possibilità di
affermazione alle nuove forze nutrite dal pensiero illuministico. A differenza
delle precedenti guerre, che avevano a base gli interessi delle dinastie, ora
si trattava della lotta tra due opposte concezioni del mondo: l’una basata
sull’autorità e il privilegio, l’altra sulla libertà e la ragione.
c)
L’impero
napoleonico - Prima della spedizione in Russia (1812) Napoleone dominava
l’Europa:
-
Francia: erano annessi allo Stato francese come territori gli
Stati tedeschi sulla riva orientale del Reno, Belgio, Olanda, Savoia, Piemonte,
Liguria, Toscana, ducato di Parma, Stato della Chiesa (tranne le Marche),
Carinzia (regione austriaca), Trieste, Istria e Dalmazia;
-
Spagna: cacciati i Borbone, divenne re Giuseppe, fratello di
Napoleone (1808);
-
regno di Napoli: dato a Giuseppe, poi dal 1808 a Gioacchino
Murat, cognato di Napoleone;
-
regno d’Italia: Lombardia, Trentino, Veneto, Friuli, Modena,
Bologna, Romagna e Marche costituirono (1804) il regno di cui era re lo stesso
Napoleone;
-
Germania: alcuni Stati del Nord furono riuniti nel regno di
Westfalia dato al fra tello Gerolamo; restava indipendente la Prussia, ma
costretta al ruolo di alleato di Napoleone;
-
Polonia: spartita fra Prussia e Russia non esisteva come
Stato; Napoleone creò il Granducato di Varsavia;
-
Svezia: possedeva anche la Norvegia; alleato della Francia,
il re Carlo XIII nominò successore il generale francese Bernadotte, che governò
dal 1810 e fondò la dinastia che regna tuttora;
-
Austria e Ungheria: sciolto l’impero, gli Asburgo divennero
imperatori d’Austria; sconfitti, si allearono con Napoleone che sposò Maria
Luigia, figlia dell’imperatore.
-
Russia: tra il 1808 e il 1812 anche lo zar Alessandro I fu
alleato di Napoleone.
L’unica
potenza nemica e indipendente era l’Inghilterra che con la flotta proteggeva
l’indipendenza del Portogallo, del regno di Sardegna (la sola isola) dei
Savoia, e il regno di Sicilia dove si erano ritirati i Borbone cacciati da
Napoli.
d)
Le
ragioni del rapido sfacelo - Ma, contrariamente alle comuni
aspettative e alle speranze, queste guerre non tardarono a rivelare un’altra
faccia: dimostrarono di essere lo strumento dell’ambizione dinastica di
Napoleone e degli interessi della borghesia francese. E allora i popoli, ai
quali le armate napoleoniche avevano portato il principio
dell’autodeterminazione, offesi nei loro sentimenti nazionali, si ribellarono.
Napoleone sarà impotente di fronte alle guerre nazionali scatenategli contro in
Spagna, Russia e Germania, e sarà trascinato al crollo. Tanto più che i vecchi
sovrani, ai quali, per spirito nazionalistico, si erano avvicinati i popoli,
avevano appreso la lezione impartita loro da Napoleone, non solo sul piano
militare, ma anche su quello dell’organizzazione dello Stato, e si erano
affrettati a fare concessioni di tipo moderatamente liberale, che poi, passata
la bufera, ritirarono.
e)
L’eredità
napoleonica - Quando Waterloo porrà fine alla parabola napoleonica,
resterà di lui, oltre al suo mito, che avrà presa ancora sulle generazioni
future, una grande impronta nella società europea. Essa non sarà più la società
prerivoluzionaria; sarà ormai diventata una società moderna, fondata su una
maggiore uguaglianza giuridica dei cittadini, ad ognuno dei quali viene offerta
la possibilità di ascesa sociale in base ai propri meriti. Il Codice
napoleonico, acquisito da quasi tutti gli Stati, assicurava, oltre alla libertà
civile e alla tutela giudiziaria, i diritti della proprietà privata, instaurava
il matrimonio civile e consentiva il divorzio. L’impegno di Napoleone per tutto
quanto poteva favorire lo sviluppo delle attività economiche e per la
costruzione di grandi opere pubbliche, diventerà dopo di lui funzione
riconosciuta come doverosa dagli Stati moderni. Tra le istituzioni che questi
adotteranno per il controllo delle finanze vi sarà sempre quella di una Banca
nazionale sul tipo della Banca di Francia, creata da Napoleone per porre riparo
al disordine finanziario determinato dalla Rivoluzione. La laicizzazione dello
Stato, e conseguentemente della società, che Napoleone aveva conseguito
attraverso il Concordato col Pontefice, diverrà anch’essa un’altra
caratteristica di quasi tutti gli Stati europei nell’Ottocento. È però nel
campo amministrativo e in quello dell’istruzione che il modello creato da
Napoleone avrà il maggior successo. Egli centralizzò l’amministrazione creando
l’istituto dei prefetti, che reggevano il dipartimento in dipendenza dal potere
esecutivo centrale; tutta quanta l’amministrazione statale era in mano a una
burocrazia specializzata, costituita da funzionari di carriera; la giustizia
era affidata a giudici di nomina statale. Anche l’ordinamento dell’istruzione
diventerà un modello comunemente seguito: le scuole vennero divise da Napoleone
in elementari, medie, superiori, ed erano controllate e regolamentate dallo
Stato.
L’assetto
dell’Italia nell’età napoleonica
a) Dopo la prima campagna - La prima campagna militare che Napoleone
condusse in Italia quale generale del Direttorio (1796-1797) scardinò, con una
serie di brillanti vittorie che portarono alla pace di Campoformio (1797),
l’assetto che la penisola aveva avuto ad Aquisgrana, con il trattato di pace
che nel 1748 pose fine alle cosiddette guerre di successione. Furono creati
nuovi Stati: la Repubblica Cispadana e la Repubblica Traspadana, che daranno
origine con la loro fusione alla Repubblica Cisalpina con capitale Milano; la
Repubblica Ligure, vassalla della Francia, in luogo della vecchia repubblica
oligarchica; e una Repubblica Romana creata dai Francesi dopo avere allontanato
il Pontefice. Breve vita ebbe una Repubblica Veneziana promossa dai Giacobini,
perché Venezia, col trattato di Campoformio, fu ceduta da Napoleone
all’Austria.
Successivamente, durante la
campagna di Napoleone in Egitto, si costituì a Napoli, cacciati i Borboni che
si rifugiarono in Sicilia, una Repubblica Partenopea. Così, agli inizi del
1799, tutta la penisola si trovava sotto il controllo diretto o indiretto della
Francia.
Il rapido successo delle armate
francesi in Italia fu dovuto tra l’altro all’atteggiamento favorevole di una
minoranza di intellettuali che, conquistati dalle idee rivoluzionarie,
collaborarono con gli occupanti. La costituzione di più repubbliche fu
considerata da costoro solo un momento transitorio, che avrebbe dovuto portare
alla formazione di una federazione o di una grande repubblica unitaria.
La inconsistenza di questi Stati si
mostrò chiaramente quando le truppe francesi, battute dalle potenze avversarie
alleate nella seconda Coalizione dovettero abbandonare la penisola: essi
crollarono tutti. L’episodio più drammatico fu la fine della Repubblica
Partenopea (1799) e l’esecuzione dei patrioti che ne erano stati l’anima.
b) Dopo la seconda campagna - La vittoria a Marengo (1800) di
Napoleone, ormai primo console, e la successiva pace di Lunéville (1801),
portarono alla ricostituzione della Repubblica Ligure e di una più ampia
Repubblica Cisalpina che, nel 1802, fu trasformata in Repubblica Italiana, con
grande delusione degli Italiani che vedevano eleggere presidente di essa lo
stesso Bonaparte, il che testimoniava concretamente la mancanza di autonomia
del nuovo Stato. Quando Napoleone si fece nominare imperatore di Francia
(1804), la Repubblica Italiana fu trasformata in Regno d’Italia, di cui era re
lo stesso Napoleone e il cui governo fu affidato al viceré Eugenio di
Beauharnais, figliastro di Napoleone (1805).
La condizione di satelliti degli
Stati italiani fu ribadita quando (dal 1805) i territori della Repubblica
Ligure, del Ducato di Toscana e del Lazio furono annessi direttamente alla
Francia, e il Regno di Napoli fu assegnato prima a un fratello di Napoleone,
Giuseppe, poi al cognato Gioacchino Murat. In Sicilia e in Sardegna si erano
rifugiati rispettivamente il sovrano borbonico e il Savoia.
c) I patrioti italiani di fronte a Napoleone - Quando Bonaparte si
affacciò per la prima volta alle Alpi, nel 1796, si accelerò il formarsi di una
sinistra italiana singolarmente avanzata, che diede vita a discussioni e
polemiche sulla futura sistemazione dell’Italia. Si trattava di controbattere
le affermazioni di taluni circoli e giornali parigini che sostenevano
l’immaturità dell’Italia ad una politica autonoma. Il centro di queste
discussioni e polemiche fu Milano. A dimostrare la sensibilità sociale di questi
patrioti italiani sta il fatto che, nonostante la diversità delle loro
opinioni, tutti furono concordi nel riconoscere la necessità di porre riparo
alla miseria e all’arretratezza delle classi più povere.
La politica di Napoleone che puntò
alla formazione di tanti Stati vassalli, generò una grande delusione; tanto più
quando Napoleone, avendo già affermato la sua dittatura personale come
imperatore, trasformò la Repubblica Italiana nel Regno d’Italia, di cui cinse
egli stesso la corona.
Ai patrioti italiani si prospettò
allora la scelta tra questo nuovo dispotismo e l’antico; ma essi seppero
riconoscere la differenza fra i due. Il dispotismo napoleonico portava con sé,
anche se spesso traditi sul piano concreto, i princìpi della Rivoluzione;
risvegliava anche, suo malgrado, il sentimento nazionale; educava, attraverso
il servizio prestato nell’esercito, all’uso delle armi; apriva, tramite
l’amministrazione, possibilità di partecipazione attiva alla vita dello Stato
ad elementi sino ad allora esclusi.
E si trattò di un’amministrazione
quanto mai operosa, che portò a termine la trasformazione dello Stato e della
società solo timidamente avviata dai prìncipi riformatori del Settecento.
Furono soppressi i vincoli feudali ed economici, i privilegi dei monasteri, dei
tribunali particolari a cominciare da quelli ecclesiastici, fu affermata
l’uguaglianza civile, furono promosse l’istruzione pubblica, l’agricoltura, i
commerci e l’industria che si avvantaggiarono della caduta delle barriere
doganali e dei pedaggi, dell’ampliamento della rete stradale, dell’unificazione
dei pesi e delle misure.
Proprio per questo, quando,
sconfitto Napoleone, le grandi potenze vollero restaurare nel Congresso di
Vienna l’antico regime, erano già pronte anche in Italia le forze che, tramite
le congiure e le rivoluzioni, si sarebbero impegnate ad abbattere il nuovo
assetto: erano forze che avevano fatto il loro apprendistato nelle armate e
nell’amministrazione napoleonica.
6.
Restaurazione, Romanticismo e Risorgimento
Il congresso di Vienna: il mercato dei popoli -
La sconfitta di Napoleone era avvenuta nel segno del nascente sentimento
nazionale: la Rivoluzione francese lo aveva suscitato affermando il principio
dell’autodecisione dei popoli, Napoleone lo aveva calpestato nella costruzione
del suo impero personale e familiare.
Il congresso di Vienna, riunitosi in seguito alla sconfitta
napoleonica a Lipsia, era stato cieco di fronte a questa realtà e l’ordine
europeo fu da esso concepito in funzione dell’interesse delle grandi potenze e
i popoli furono considerati merce di scambio. Il congresso ebbe il compito di
stabilire un equilibrio nell’Europa devastata dagli eserciti napoleonici e vi
presero parte decine di delegazioni, ma lo dominarono Metternich,
rappresentante dell’impero d’Austria, lo zar Alessandro I, Castlereagh,
ministro inglese, e Tayllerand, il plenipotenziario francese che riuscì a far
passare l’idea che la Francia e Luigi XVIII erano «vittime» di Napoleone.
a)
La
Restaurazione - Il congresso di Vienna volle dare l’idea di agire in nome
dei popoli e delle nazioni, fissando princìpi ideali ai quali ispirarsi, come
quello di legittimità: quanto fatto dalla rivoluzione e da Napoleone erano
infatti violazioni dei diritti dei sovrani e dei popoli, e occorreva perciò
ripristinare quei diritti; su questa base furono rimesse sul trono le vecchie
dinastie. Lo zar Alessandro, pervaso da un atteggiamento mistico, propose una
Santa alleanza che impegnasse tutte le potenze a sorvegliare sui popoli e
imporre una pace fondata sui princìpi cristiani; l’Inghilterra rifiutò di farne
parte e Metternich trasformò il progetto in impegno di reciproca assistenza
militare fra Austria, Prussia e Russia per soffocare eventuali nuove
rivoluzioni. Col congresso di Vienna la carta d’Europa non fu sconvolta, caso
mai fu riportata alla situazione precedente le grandi campagne napoleoniche e
si chiuse con la convinzione dei partecipanti di aver dato un assetto durevole
al vecchio continente. Nonostante i suoi limiti il congresso di Vienna rimane
tuttavia un fatto importante nella storia: inaugurò infatti la stagione delle
grandi «conferenze» fra potenze che dura ancora oggi; l’obiettivo è sempre lo
stesso e, forse, potremmo dire, identica l’illusione che, se le grandi potenze
che dominano il mondo si mettono d’accordo, possano creare un «ordine
internazionale garantito dalla loro forza» che instauri una situazione di pace.
b)
Debolezza
interna della Restaurazione - La restaurazione progettata dal
congresso di Vienna si rivelò un «ordine» destinato a non durare. In primo
luogo c’era una diversità fra le potenze europee: la Russia viveva la contraddizione fra modernità e concezione
autocratica (divina e assoluta) del potere dello zar; l’impero d’Austria spendeva le sue forze per mantenere un posto di
rilievo in Germania e il dominio su molte nazioni (slavi, ungheresi, italiani,
croati, polacchi, ecc.); la Prussia
seguiva una strada efficace di modernizzazione e di egemonia sul mondo tedesco
basata sulla forza militare. Con queste potenze poco avevano da spartire l’Inghilterra, già avviata da tempo a
rafforzare il regime parlamentare e liberale, e la Francia, che non poteva eliminare con un colpo di spugna le
abitudini di vita civile e politica assunti dalla rivoluzione in poi: la
spaccatura in Francia si rese infatti subito evidente con la rivoluzione di
luglio del 1830, quando il popolo e le classi borghesi si ribellarono al
tentativo di Carlo X di imporre una
monarchia assoluta: al suo posto fu instaurata la monarchia costituzionale di Luigi Filippo; il fronte delle potenze
vincitrici di Napoleone era di fatto rotto: da una parte le monarchie assolute,
dall’altra Francia e Inghilterra. In secondo luogo, accanto a queste grosse
diversità fra le varie potenze il dispregio delle aspirazioni nazionali suscitò
agitazioni, insurrezioni e rivoluzioni che avrebbero portato al crollo
dell’assetto stabilito a Vienna e al sorgere di nuovi stati nazionali: la
Grecia, il Belgio, l’Italia, la Germania; mentre la Polonia, l’Ungheria e gli
Stati baltici dovranno attendere la prima guerra mondiale per raggiungere
l’indipendenza. L’assetto dato all’Europa dal congresso di Vienna non teneva
conto delle aspirazioni dei popoli all’unità nazionale e all’indipendenza, e fu
ben presto scosso da moti rivoluzionari che esplosero in varie parti del
continente. Tuttavia, grazie agli sforzi della Santa Alleanza, esso poté essere
faticosamente mantenuto fino quasi alla metà del secolo, e costituì il quadro
entro il quale le maggiori potenze (soprattutto l’Inghilterra e la Francia) si
avviarono a un rapido sviluppo economico e industriale. Assai più lento e
contrastato fu il cammino dei paesi come la Germania e l’Italia, frazionate in
molti staterelli e sottoposte all’egemonia diretta o indiretta dell’Austria.
Qui la via del progresso economico e civile passava necessariamente per
l’unificazione nazionale e poteva essere imboccata solo dopo lunghe e difficili
lotte.
c)
I
primi moti per la libertà - Nonostante la rivoluzione
americana e quella francese avessero affermato i diritti dell’uomo alla libertà
e all’uguaglianza di fronte alla legge, i sovrani rimessi sul trono dal
congresso di Vienna nel 1815 ripresero a governare in generale come sovrani
assoluti e restaurarono i privilegi della nobiltà. Contro questi sovrani, nei
diversi Stati europei, gli uomini più aperti e animati da idee innovatrici si
batterono con accanimento per strappare loro non solo l’uguaglianza dei
cittadini di fronte alla legge e le libertà di parola, di stampa, di associazione,
ma anche la partecipazione alla formazione delle leggi dello Stato, mediante
l’elezione di propri rappresentanti alle assemblee legislative (parlamenti). In
una parola, chiedevano la costituzione o carta o statuto: un documento scritto,
che doveva valere come legge suprema dello Stato, con il quale il sovrano
concedeva questi diritti e si impegnava a rispettarli. Coloro che si batterono
in favore delle libertà individuali e della costituzione, furono detti
liberali. Si trattava in genere di borghesi, cioè di intellettuali,
commercianti, professionisti, oppure degli elementi più avanzati e aperti
dell’aristocrazia; le masse popolari, condizionate dalla propaganda reazionaria
e dall’ignoranza, erano ancora assai arretrate e non potevano ancora manifestare
esigenze di progresso sociale e politico. Sul modo di partecipare al potere
politico i liberali non erano però tutti d’accordo. Alcuni, i moderati, volevano una costituzione sul
tipo di quella inglese, con un parlamento eletto dalla parte più ricca della
popolazione. Altri, i cosiddetti democratici,
volevano una vera e propria democrazia sul tipo di quella espressa dalla
rivoluzione francese, con un parlamento eletto, senza distinzioni, da tutti i
cittadini. Nei paesi soggetti a un sovrano straniero, la lotta dei liberali
divenne anche lotta per l’indipendenza nazionale. In Italia i liberali si
mossero in diverse direzioni; da un lato svolsero attività cospirativa per
tentare, con l’insurrezione armata, di costringere i sovrani a concedere la
costituzione; dall’altra presero iniziative culturali, fondando giornali e
riviste per diffondere le loro idee, e iniziative pratiche, adoperandosi,
soprattutto nell’Italia settentrionale, per apportare le più urgenti riforme in
ogni campo, per migliorare l’agricoltura e l’industria e fondare nuove scuole.
d)
Il
1848: una grande rivoluzione europea - Il 1848 segna una
svolta nella storia d’Europa; in quell’anno un’unica grande rivoluzione, di
carattere nettamente liberale, scuote tutta l’Europa; i popoli insorgono contro
i sovrani o per riscattare una condizione di miseria e di oppressione sociale
(così in Francia), o per realizzare le proprie aspirazioni alla libertà,
all’indipendenza e all’unità nazionale (così in Germania e nei Paesi
dell’impero asburgico, tra cui l’Italia). Si trattò, quindi, di una rivoluzione
europea, che nasceva da esigenze comuni. Per comprendere la vastità e la
rapidità del grande incendio rivoluzionario che avvolse l’Europa nel 1848-49
occorre tener presente innanzi tutto che lo sviluppo economico e sociale,
realizzato in Europa nei decenni precedenti, aveva reso la sistemazione
politica fissata dal congresso di Vienna sempre più insoddisfacente e
inadeguata alle nuove esigenze dei popoli. Inoltre, proprio negli anni
immediatamente precedenti il 1848 c’era stata una grande carestia per lo scarso
raccolto di frumento e di patate (in Irlanda oltre mezzo milione di persone
erano morte di fame), e nel 1847 si era avuta una crisi nel settore
dell’industria che aveva prodotto fallimenti, disoccupazione e miseria. Se
comuni all’intera Europa erano le condizioni di crisi e di disagio economico,
diversi, almeno in parte, erano nei singoli paesi i problemi da risolvere. Nei
paesi industrialmente più progrediti dell’Europa occidentale (come la Francia e
le regioni renane in Germania), le rivendicazioni liberali si intrecciavano con
le richieste del proletariato. Le condizioni di sfruttamento cui erano
sottoposti e il diffondersi delle idee socialiste, spingevano infatti i
proletari all’azione politica. Nel centro-sud del continente europeo, invece,
gli obiettivi della rivoluzione furono essenzialmente di tipo nazionale e
liberale; e le principali forze che la mossero furono la borghesia evoluta e il
ceto intellettuale. In Italia, in Germania, in Ungheria si lottò per conseguire
l’unificazione politica e l’indipendenza da un governo straniero, oltre che per
ottenere quelle riforme costituzionali che garantissero le libertà fondamentali
e i diritti dei cittadini. L’ondata rivoluzionaria investì nel febbraio del 1848 la Francia, dove al
governo sempre più reazionario di Luigi Filippo, repubblicani e democratici
risposero cacciando il re e costituendo un governo provvisorio, presieduto dal
poeta Lamartine, al quale parteciparono anche i socialisti, tra cui Louis Blanc.
L’Assemblea eletta a suffragio universale per dare alla Francia una
costituzione repubblicana risultò tuttavia composta in maggioranza di moderati
e conservatori; il proletariato, deluso nelle sue speranze, reagì con
l’insurrezione che tuttavia venne soffocata nel sangue dalle truppe regolari
del generale Cavaignac. In dicembre Luigi Napoleone Bonaparte fu eletto
presidente della repubblica. Nell’impero asburgico le rivendicazioni ebbero
carattere liberale e nazionale: oltre alle riforme e alla costituzione si
chiedeva da parte dei popoli soggetti una maggiore autonomia dal governo
austriaco. In marzo scoppiarono tumulti a
Vienna e Metternich fu costretto ad abbandonare l’incarico.
Contemporaneamente a Praga e a Budapest si costituirono governi provvisori.
Nonostante le pro messe iniziali della monarchia austriaca, le insurrezioni di
Vienna e di Praga furono rapidamente domate e anche in Ungheria, malgrado
l’eroica resistenza dei patrioti, venne ristabilito l’ordine con l’aiuto dello
zar di Russia (agosto 1849). Nella
Confederazione germanica[29],
dove in quegli anni si era andata affermando la potenza della Prussia,
scoppiarono nel marzo del ‘48 in vari Stati numerose insurrezioni che
costrinsero i principi a concedere riforme e a indire un’assemblea di rappresentanti
di tutti gli Stati per elaborare una nuova costituzione. L’Assemblea si riunì a
Francoforte e decise di dar vita a una nuova Confederazione germanica, di cui
fu offerta la corona al re di Prussia. Ma questi, temendo l’ostilità
dell’Austria, esclusa dalla Confederazione, rifiutò l’offerta e fece sciogliere
l’Assemblea. A poco più di un anno dall’inizio dei moti rivoluzionari, la
vittoria delle forze conservatrici appariva completa. Nel 1849 Austria, Prussia
e Russia riuscirono a soffocare le rivoluzioni, ma l’Europa del congresso di
Vienna era ormai morta: in realtà, gli avvenimenti del 1848 avevano recato un
grave colpo al prestigio delle monarchie europee, costringendole a scendere a
patti con le borghesie nazionali e in un caso almeno, quello francese, a
capitolare. Il processo di rafforzamento della Prussia da un lato, e di
disgregazione dell’impero asburgico dall’altro, sebbene momentaneamente
fermato, era destinato a continuare e ad aggravarsi. Per la prima volta nella
storia, masse di uomini ispirate da un programma e da una fede socialista
avevano combattuto per le strade a fianco dei liberali e dei repubblicani. «Uno
spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo»; con queste parole si
apriva il Manifesto del Partito Comunista[30]
pubblicato da Marx e Engels al principio del 1848. Se dalle prove del 1848
queste nuove forze uscivano indubbiamente sconfitte, grandi paassi avanti erano
stati fatti nell’elaborazione di quella dottrina socialista che nei decenni
successivi era destinata ad avere un peso sempre maggiore nella storia europea.
Fasi del Risorgimento italiano[31]
- Il processo di formazione dello Stato nazionale italiano
(1815-61) va sotto il nome di Risorgimento, inteso non come riconquista di una
unità politica, mai esistita nel nostro Paese, ma come rinascita dell’Italia
alla libertà, all’indipendenza, alla dignità di nazione, così da colmare il
distacco che la separava dai maggiori Stati europei.
Nel Risorgimento possiamo distinguere le seguenti fasi:
a)
I
moti carbonari - I primi tentativi di mutare la situazione determinata in
Italia dal congresso di Vienna furono opera delle società segrete e in
particolare della Carboneria, che fu l’artefice dei moti del 1820-1821 nel
Napoletano e nel Piemonte. L’obiettivo dei patrioti era di ottenere dai
prìncipi una moderata costituzione. Dopo un iniziale successo, i moti fallirono
per l’intervento dell’Austria. Nel Lombardo Veneto non si arrivò neppure
all’azione perché le congiure furono preventivamente scoperte e i patrioti
incarcerati (tra questi Pellico). Nel 1831, sull’onda del felice esito della
Rivoluzione francese del 1830, scoppiò a Modena un moto, che si allargò a parte
dell’Emilia e fu soffocato militarmente, anche questa volta dall’Austria.
b)
La
«Giovine Italia» e i moti mazziniani - I Carbonari
fallirono nel loro intento per tre motivi fondamentali: perché avevano
confidato nella solidarietà dei sovrani, che invece li tradirono (Ferdinando I
a Napoli, Carlo Alberto in Piemonte, Francesco IV a Modena); perché si erano
proposti finalità solo locali, senza coordinare i vari moti; perché, per
segretezza, mancavano di comunicazione col popolo. Sono queste le critiche che Giuseppe Mazzini[32],
carbonaro egli stesso, mosse alla Carboneria. Di conseguenza egli fondò una
nuova società, la Giovine Italia[33],
che, facendo leva sulle forze di tutto il popolo, mirava a costituire uno Stato
unitario, libero, indipendente, repubblicano. La Giovine Italia organizzò una
serie di moti, caratterizzati tanto dalla generosa disponibilità al sacrifico
dei loro protagonisti, quanto da una mancanza di realismo destinò al
fallimento: è del 1834 il tentativo di far sollevare il Regno di Sardegna con
l’invasione della Savoia e la contemporanea sollevazione di Genova; è del 1844
lo sbarco in Calabria dei fratelli Bandiera per far insorgere le popolazioni
del Napoletano. Tutti falliti.
c)
Le
proposte moderate - L’insuccesso dei moti mazziniani e il radicalismo della
Giovine Italia, che turbava particolarmente la coscienza dei liberali
cattolici, favorì il tramonto del mazzinianesimo e il rafforzarsi di una
corrente moderata che si attestò sostanzialmente su tre posizioni:
-
il neoguelfismo di
Gioberti[34]
(autore del Primato morale e civile degli
Italiani, 1843), per il quale la soluzione del problema italiano stava in
una federazione di principi sotto la presidenza del Pontefice e nella
concessione di limitate riforme liberali;
-
la soluzione filosabauda di Cesare Balbo[35]
(autore di Le speranze d’Italia,
1844), che proponeva anch’egli una federazione italiana sotto la presidenza del
re di Sardegna, dalla quale però doveva essere esclusa l’Austria, compensata
con territori nei Balcani;
-
la proposta filosabauda di Massimo D’Azeglio[36]
(Ultimi casi di Romagna, 1846), che
sottolineava la necessità di cacciare l’Austria anche con le armi, fidando
nell’esercito piemontese.
-
Un posto a sé occupò il gruppo federalista repubblicano, nel
quale primeggiava Carlo Cattaneo[37].
Poiché avversava le posizioni neoguelfe, questa corrente fu chiamata
neo-ghibellina.
d)
Le
riforme e la concessione delle Costituzioni - Le teorie del
Gioberti ebbero larga diffusione fra gli spiriti moderati, che desideravano una
soluzione non traumatica del problema politico italiano. L’elezione al
pontificato di Pio IX Mastai Ferretti, le riforme concesse prima da lui e poi
dagli altri principi, il progetto di un’unione doganale tra il Papa, il re di
Sardegna e il granduca di Toscana, fecero credere che la federazione auspicata
da Gioberti stesse per realizzarsi. Il processo riformistico, avviatosi con
un’intesa fra prìncipi e popolazioni, si concluse con la concessione di
Costituzioni in tutti gli Stati: concessione che fu però subìta dai prìncipi
con riluttanza e sotto la pressione del popolo.
e)
La
rivoluzione del ‘48 in Italia e la prima guerra d’indipendenza
- Come conseguenza dell’insurrezione parigina, scoppiarono disordini a Berlino,
Vienna e in altre città. Su questi moti si innestò la prima guerra di
indipendenza contro l’Austria, capeggiata, pur dopo molte sue incertezze, da
Carlo Alberto. La partecipazione di truppe provenienti dalla Toscana, da
Napoli, dallo Stato Pontificio smbrò trasformare la guerra regia in una guerra
nazionale per l’indipendenza della penisola. Sembrava avverarsi la tesi
sostenuta da D’Azeglio: Carlo Alberto, con l’aiuto degli altri prìncipi,
avrebbe cacciato l’Austria, dando vita a una federazione di Stati con
costituzioni liberali.
f)
Il
1849 e la ripresa del mazzinianesimo - La sconfitta finale
di Carlo Alberto a Novara nel 1849, rimasto solo dopo il ritiro dalla guerra
degli altri prìncipi italiani, segnò la momentanea eclissi del programma
moderato. Per contraccolpo si affermarono governi radicali di ispirazione
mazziniana: in Toscana con Guerrazzi; a Roma, dopo la fuga del Papa, fu
proclamata una repubblica al cui governo partecipò lo stesso Mazzini e la cui
difesa fu demandata al mazziniano Garibaldi; a Venezia, fu proclamata la
Repubblica democratica di San Marco. La difesa di Roma e di Venezia (che
caddero dopo strenua resistenza), nel loro disperato eroismo e nel lucido
olocausto di giovani patrioti, fu la più alta testimonianza del valore morale,
religioso, che la causa italiana aveva assunto grazie anche alla predicazione
di Mazzini.
g)
Il
Piemonte si prepara a diventare lo Stato-guida (1849-1858)
- Mentre la reazione imperversava negli Stati italiani, il Piemonte, il cui re,
Vittorio Emanuele II, aveva mantenuto la Costituzione emanata da Carlo Alberto,
e che era diventato rifugio di esuli e perseguitati, richiamò su di sé le
speranze dei liberali italiani. Tanto più che, per l’opera soprattutto di Cavour
diventato primo ministro (1852), il Piemonte si avviava ad assumere in campo
politico, economico e sociale, la fisionomia di uno Stato moderno. Cavour
riuscì, con la partecipazione alla guerra
di Crimea e il successivo congresso
di Parigi, a fare del problema italiano un problema europeo e a trovare
consensi e alleanze militari per la sua azione contro l’Austria. La
reviviscenza del mazzinianesimo che si manifestò in attentati e moti ed ebbe la
sua espressione più rilevante nella spedizione
di Sapri, fornì a Cavour motivi per sollecitare la soluzione del problema
italiano.
h)
Il
1859 e la seconda guerra di indipendenza - La politica italiana
è ormai nelle mani di Cavour, che nel 1859 tira le fila della trama
precedentemente ordita: stretta un’alleanza con Napoleone III, desideroso di
sostituire in Italia il predominio francese a quello austriaco, Cavour affronta
l’Austria (seconda guerra di indipendenza) e ottiene, se non tutto il
LombardoVeneto, almeno la Lombardia. Il dilagare dei moti filosabaudi nell’Italia
centrale e la conseguente cacciata dei prìncipi, consente di annettere al
Piemonte anche la Toscana e l’Emilia-Romagna.
i)
La
spedizione garibaldina - Nell’impresa dei Mille che portò
a una rapida occupazione della Sicilia e del Napoletano, si manifestò in modo
quasi emblematico l’opposizione fra le due anime del Risorgimento: quella
mazziniano-popolare e quella sabaudo-piemontese. La spedizione dei Mille,
nonostante i proclami di lealtà di Garibaldi a Vittorio Emanuele, fu di chiara
ispirazione mazziniana, sia per gli uomini che la costituirono, sia per il suo
porsi al di fuori della politica diplomatica del Cavour. E del resto Mazzini
aveva raggiunto Garibaldi a Palermo. Se l’impresa avesse potuto raggiungere
indisturbata le mete che si prefiggeva, avrebbe dovuto concludersi con la
convocazione di un’Assemblea Costituente, cui sarebbe spettato di decidere
l’assetto da dare al nuovo Stato nazionale; Garibaldi inoltre non si sarebbe
fermato a Napoli, ma avrebbe proseguito sino alla liberazione di Roma. Timoroso
di questi sviluppi istituzionali e delle complicazioni interne ed estere che
essi potevano portare (la rottura con la Francia), Cavour fece intervenire
l’esercito regio e raccolse politicamente i frutti dell’impresa garibaldina. La
Sicilia, il Napoletano, e le Marche (già appartenenti allo Stato Pontificio)
furono così annesse al Piemonte mediante il solito plebiscito. Roma e il Lazio
rimasero al Pontefice.
j)
1861:
la proclamazione del Regno - Si era costituito un nuovo
Stato: a Torino il primo Parlamento italiano, cui partecipavano rappresentanti
di tutte le regioni annesse, ne prendeva atto, proclamando Vittorio Emanuele II
«per grazia di Dio e volontà della Nazione, Re d’Italia»
In un tempo brevissimo - dall’aprile del ‘59 all’ottobre del
‘60 - si era realizzata l’unità politica della penisola, spezzata dai tempi
dell’invasione longobarda (VI secolo). Vi concorsero più fattori: la
preparazione spirituale di una generazione che Mazzini aveva formata al culto
del sacrificio per la causa nazionale; l’iniziativa popolare di stampo
mazziniano prevalente nella spedizione dei Mille; la maturazione dell’idea
unitaria grazie all’influsso dei pensatori moderati che avevano reso il
problema italiano oggetto di pubblico dibattito; l’azione politico-militare del
Regno di Sardegna e in particolare di Cavour, che seppe cogliere un complesso
di circostanze favorevoli presenti nella politica internazionale. La soluzione
cui si pervenne - la costituzione di un nuovo Stato, che nasceva per annessione
al Piemonte dei territori degli Stati preesistenti, tramite plebisciti -
privilegiava il momento sabaudo.
La
proclamazione del nuovo sovrano «per grazia di Dio e per volontà della Nazione»
accentuava questo aspetto, dando la preminenza al diritto divino sulla
designazione popolare; il titolo di «secondo» che Vittorio Emanuele volle
mantenere, mirava a far prevalere il carattere di continuità col precedente
regno sabaudo. Erano fatti che sottolineavano la piemontizzazione dell’Italia, dando ragione a Mazzini che, al
metodo delle annessioni per plebiscito, aveva sempre contrapposto quello della
convocazione di una Assemblea Costituente che definisse l’assetto istituzionale
del nuovo Stato nazionale. Si sarebbe, così, evitata l’impressione (e il fatto)
di una aggregazione dall’esterno, quasi di una conquista, in luogo di una
creazione popolare. E questo fatto avrebbe avuto le sue conseguenze.
[1]
APPROFONDIMENTO: DIRITTO
Le fasi dell’assolutismo - L’assolutismo è una forma di regime monarchico nella quale il potere è
esercitato da un sovrano che si ritiene libero da controlli e condizionamenti
da parte di istanze politiche e rappresentative superiori o inferiori.
La monarchia assoluta è passata attraverso varie
fasi.
a) Lo Stato personale è quello della prima fase, quando
Luigi XIV di Francia, il «Re Sole», poteva dire: «Lo Stato sono io». La persona
del re si considerava cosa pubblica (ogni avvenimento che la riguardava, la
nascita, la morte, il matrimonio, la procreazione, ecc. era un avvenimento di
Stato) e si identificava pienamente con lo Stato. La volontà personale del re
era volontà dello Stato.
b) Lo Stato patrimoniale fu la tappa successiva. Lo
Stato, a cominciare dal territorio statale, era proprietà (o patrimonio) del
re. I regni (territori e abitanti) potevano essere portati in dote nel
matrimonio dei re e dei principi e gli Stati si accrescevano o si riducevano
attraverso la politica matrimoniale. C’erano però le premesse di un’evoluzione:
il re non era (più) lo Stato, secondo la formula di Luigi XIV. Si poteva fare
un passo avanti e dire che lo Stato era del re, ma occorreva distinguere quel
che serviva ai suoi interessi personali e quel che serviva all’interesse dello
Stato . In effetti, il re non poteva disporre di tutto ciò che v’era nel suo
regno, poiché la gran parte delle terre e dei beni si considerava patrimonio
utile al regno, non al re. Era la premessa per la distinzione tra le risorse
private del re e le risorse pubbliche. e) Con l’espressione Stato di polizia si
intende il tipo di Stato che si trova in Francia, Spagna, Austria, Prussia,
Toscana, Piemonte nel corso del XVIII secolo. L’espressione «Stato di polizia»
non indica solo quello Stato che mantiene l’ordine pubblico (secondo la
concezione attuale della «polizia») ma lo Stato che si occupa del «buon
governo» (in greco, «politeia») e quindi ha come suo scopo la felicità dei
sudditi.
c) Lo Stato di polizia, per la felicità dei sudditi,
allargò la sua attività, controllando nuovi settori in precedenza totalmente
liberi, oppure controllati autonomamente dalle città o dalle corporazioni: la
religione, l’attività della Chiesa e la moralità della gente; la sanità,
l’alimentazione, la sicurezza e la tranquillità pubblicarla viabilità e i lavori
pubblici, le scienze e le arti, il commercio e le manifatture private
(aprendone di pubbliche), i dazi doganali, le condizioni dei lavoratori, l’assistenza
ai malati poveri e ai vagabondi, i catasti, ecc. Quali fossero i bisogni dei
sudditi, erano però sempre il re e i suoi ministri a stabilirlo. Si trattava
perciò di «dispotismi illuminati» o «regimi paternalistici» (che trattavano i
sudditi come figli incapaci, di fronte al padre, il re), che sono all’origine
dello «Stato del benessere» del nostro tempo.
[2] Lotte fra cattolici e ugonotti -
Prolungato conflitto civile tra cattolici e calvinisti francesi per motivi
politici, economici e religiosi.
Gli
scontri furono scatenati dai cattolici, insoddisfatti della politica oscillante
della reggente Caterina de’ Medici verso gli ugonotti, protestanti francesi di
tendenza calvinista guidati dal principe di Condé e successivamente da de
Coligny.
Nonostante
le misure repressive poste in atto nella prima metà del Cinquecento, si
diffusero in diverse province, a partire dalle città universitarie e dai centri
commerciali, come La Rochelle
e Lione. Erano gruppi di operai, mercanti e piccoli proprietari, spesso
sostenuti dalle autorità cittadine. Alla Chiesa di Parigi (creata nel 1555) e a
quelle fondate in seguito aderirono anche membri dell’alta borghesia e
dell’aristocrazia.
Con
la morte di Enrico II (1559) e l’ascesa dei cattolici Guisa, nelle vicende
degli ugonotti, guidati dai Borbone, si intrecciarono la lotta
politico-dinastica e contrasti religiosi.
Dopo
una prima fase, il conflitto riprese nel 1567 e la regina si decise a trattare:
con la pace di Saint-Germain (1570) gli ugonotti ottennero la libertà di culto
e alcune città (places de sûreté) completamente autonome sotto il loro
controllo quattro piazzeforti e de Coligny entrò nel consiglio della corona. Fu
poi però la stessa Caterina, contraria alla sua politica antispagnola, a
ispirare l’omicidio di de Coligny e il massacro degli ugonotti nella notte di San Bartolomeo (1572), un
massacro di 2300 ugonotti a Parigi e di altri 12.000 in provincia nei
giorni successivi. L’eccidio fu deciso da Carlo IX su istigazione della regina
madre Caterina de’ Medici, che voleva impedire che il re, su consiglio
dell’influente capo ugonotto Gaspard de Coligny, appoggiasse la ribellione dei
Paesi bassi, ostacolando così la sua politica filospagnola.
La
strage dei capi ugonotti della notte di san Bartolomeo ne accelerò poi la
trasformazione in partito politico e diede impulso alle dottrine della monarcomachia, una teoria
politico-religiosa del XVI-XVII secolo che giustifica come legittima la
resistenza contro un sovrano ritenuto ingiusto e nemico della fede. Tale
dottrina fu elaborata e sostenuta soprattutto in Francia, nel contesto delle
guerre di religione, da alcuni scrittori ugonotti. Più che un appello generico
alla ribellione popolare, era l’idea che la resistenza al tiranno debba essere
condotta dai magistrati e dalle istituzioni rappresentative del regno.
In
conseguenza di ciò la guerra civile riesplose con maggiore violenza. Nasceva
intanto la lega cattolica capeggiata dal duca Enrico di Guisa che limitò
fortemente l’autonomia del nuovo re Enrico III (1574), giudicato troppo
arrendevole.
Nel
1585 ci fu un’ultima recrudescenza degli scontri. Il re eliminò a tradimento i
Guisa e cercò l’appoggio ugonotto, designando Enrico di Borbone suo successore.
Questi, salito al trono con il nome di Enrico IV, nel 1593 abiurò il
protestantesimo e, con l’editto di Nantes (1598), regolò la convivenza delle
due confessioni per pacificare i rapporti fra cattolici e ugonotti, garantiva a
questi ultimi la libertà di culto ovunque tranne Parigi e le residenze reali e
dava loro in pegno un centinaio di piazzeforti, fra cui La Rochelle.
Ma
la situazione peggiorò con la reggenza di Maria de’ Medici e con Luigi XIII.
Nel 1628-1629 Richelieu, con l’assedio di La Rochelle e l’inglobamento
di tutte le places de sûreté, segnò la fine della loro potenza politica.
Il distacco della grande nobiltà, le repressioni e le conseguenti emigrazioni
li indebolirono, fino alla revoca dell’editto di Nantes (1685). Luigi XIV, teso
a riaffermare il gallicanesimo, colpì gli ugonotti con una serie di gravi
misure, ricorrendo anche alle dragonnades (obbligo di alloggiare i
dragoni) e alle conversioni forzate. Ne seguì un vero esodo, soprattutto verso
l’Olanda e l’Inghilterra, che arricchì questi paesi di artigiani e
professionisti di valore e fece tornare la Francia un paese esclusivamente cattolico.
L’editto
del 1787 garantì ai protestanti residui l’esercizio dei diritti civili che la Rivoluzione estese
paritariamente a tutte le confessioni religiose.
[3]
Guerra dei trent’anni - (1618-1648).
Conflitto che coinvolse l’Europa centrale. Combattuta soprattutto sul suolo
tedesco e boemo, con eserciti ai quali era permesso il saccheggio, ebbe
conseguenze fortemente negative per l’economia degli stati tedeschi provocando,
tra l’altro, una forte caduta demografica. Le cause furono di ordine religioso,
politico ed economico. La pace di Augusta del 1555 aveva lasciato insoluti
molti problemi: la
Controriforma stava creando gravi attriti. A ciò si
aggiungeva la vecchia rivalità politica ed economica tra gli Asburgo e vari
stati dell’impero. La monarchia francese inoltre, dopo un periodo di forti
conflitti interni, aspirava a contrastare il ruolo egemonico degli Asburgo,
mentre la Svezia
era interessata a rafforzarsi sul Baltico. La guerra iniziò con la
defenestrazione di Praga (23 maggio 1618), quando i rappresentanti del governo
asburgico furono gettati dagli hussiti fuori dal palazzo dell’università. La
successiva elezione a re di Boemia del protestante Federico V del Palatinato
fece schierare gli stati europei in due campi: quelli favorevoli agli Asburgo
(Spagna, Baviera, Sassonia, Polonia) e quelli che appoggiavano Federico (la
maggior parte degli stati protestanti germanici, l’Inghilterra e l’Olanda).
L’esercito asburgico sconfisse duramente i boemi nella battaglia della Montagna
bianca (1620) e penetrò anche nel Palatinato. Cominciò così una dura
repressione contro i protestanti, mentre la corona boema venne dichiarata
eredità degli Asburgo. Frattanto la
Spagna iniziò le ostilità contro le Province unite, e il re
Cristiano IV di Danimarca, il re Gustavo Adolfo di Svezia e più tardi la Francia scendevano in
campo contro l’Austria. La fine del conflitto (solo Francia e Spagna
continuarono le ostilità tra di loro) fu sancita dalla pace di Vestfalia,
firmata nelle due località di Münster e Osnabrück (1648).
[4] Pace di Augusta - Legge imperiale
(Reichsabschied) promulgata dalla dieta imperiale di Augusta, che sancì la
libertà confessionale dei principi tedeschi per garantire la pace interna e la
concordia religiosa dopo l’indebolimento dell’autorità imperiale in seguito
alla guerra dei principi. Il compromesso raggiunto tra il re di Boemia
Ferdinando e i ceti imperiali riconobbe la confessione di Augusta. Secondo il
successivo principio cuius regio, eius
religio, soltanto i ceti imperiali laici ottennero la libertà religiosa,
mentre i loro sudditi di altre religioni avevano solo il diritto di
emigrazione. La pace proteggeva infine i diritti delle minoranze religiose, che
erano soprattutto cattoliche, nelle città imperiali. La pace di Augusta escluse
l’imperatore dagli affari religiosi dell’impero e rafforzò i ceti imperiali,
che acquistarono l’autorità religiosa sui propri territori.
[5] Pace di Westfalia - Il trattato aveva
il valore di una costituzione del Sacro romano impero germanico, garantita dal
diritto pubblico europeo. Essa bloccò ogni tentativo di governo monarchico
dell’impero e attribuì ai ceti imperiali il diritto di alleanza e la quasi
sovranità interna (Landeshoheit). Dal punto di vista religioso furono
riconosciute le paci di Passau (1552) e Augusta (1555), estese ai calvinisti,
con la conferma del principio cuius regio eius religio. La distribuzione
delle proprietà ecclesiastiche e delle confessioni fu congelata nella
situazione del 1624.
[6] Enrico IV - Re di Navarra (1572-1610) e
re di Francia (1589-1610). Figlio di Antonio di Borbone, fu educato dalla madre
Giovanna d’Albret alla fede calvinista e nel 1569 divenne capo indiscusso del
partito ugonotto in lotta contro il potente partito cattolico dei Guisa. Alla
morte della madre (1572), ereditò il trono di Navarra e contemporaneamente
sposò la sorella del re Carlo IX, Margherita di Valois. Dopo la morte di Carlo
IX (1574) e di suo fratello Francesco (1584), divenne presunto erede al trono
di Francia, ma, per ottenerlo, dovette combattere contro Enrico Guisa ed Enrico
III la guerra dei tre Enrichi e tenere a bada la Spagna di Filippo II venuta
in aiuto alla Lega cattolica. Enrico III, dopo essere stato colpito a morte in
un agguato, lo riconobbe suo successore, così che, sconfitta la Lega cattolica a Ivry (1590),
il 25 luglio 1593 poté entrare trionfante nella capitale dopo essersi
convertito pubblicamente al cattolicesimo. Nel 1598 firmò la pace di Vervins
con la Spagna
e promulgò l’editto di Nantes con cui proclamava il cattolicesimo religione
ufficiale ma assicurava la libertà di culto ai protestanti. Aiutato dal duca di
Sully, riordinò le finanze dello stato, rafforzò il potere regio e assicurò
alla Francia un relativo periodo di pace. Morì assassinato da un fanatico
cattolico.
[7] Cardinale
Richelieu - Cardinale e politico francese. Il padre, Francesco, era
stato al seguito dei re Enrico III prima e Enrico IV poi, guadagnando prestigio
e favori, ma la sua morte precoce (1590) lasciò la vedova e i cinque figli in
una situazione difficile. Armand, terzo maschio, studiò nel collegio
aristocratico di Navarra e fu poi avviato alla carriera militare, ma dovette
intraprendere la carriera ecclesiastica per subentrare al fratello
secondogenito Alphonse, infermo, cui sarebbe toccato il vescovado di Luçon,
beneficio di famiglia. Col favore di Enrico IV e la dispensa papale per la sua
giovane età, fu eletto vescovo nel 1606 e consacrato nel 1607. Riorganizzò
quindi le finanze del vescovado lottando contro la corruzione e l’indisciplina
del clero e contro gli ugonotti. Agli Stati generali del 1614 Richelieu,
rappresentante del clero di Poitou, si mise in luce con la regina madre, Maria
de’ Medici, che lo nominò prima elemosiniere, poi segretario di stato alla
Guerra e agli Affari esteri. Nel 1622 fu nominato cardinale e nel 1624 entrò a
far parte del consiglio del re Luigi XIII, divenendone ben presto l’elemento
più influente. Richelieu si prefisse principalmente il compito di restaurare
l’autorità monarchica e di migliorare la situazione finanziaria del paese.
Primo obiettivo furono gli ugonotti che con i privilegi ottenuti con l’editto
di Nantes rischiavano di diventare un corpo separato all’interno dello stato.
Nel 1628 espugnò il loro forte della Rochelle e nel 1629 tolse loro le garanzie
militari e i diritti amministrativi. Anche gli aristocratici furono colpiti da
numerose condanne a morte per delitti contro lo stato. Le rivolte contadine
furono duramente represse. Riorganizzò l’amministrazione statale, aumentando i
poteri degli intendenti, e dette impulso alla marina, alle compagnie mercantili
e alle manifatture. In politica estera cercò di ripristinare il ruolo della
Francia in funzione antiasburgica, appoggiando all’estero quei protestanti che
aveva invece duramente colpito in Francia. Nel 1635 entrò direttamente nella
guerra dei Trent’anni, la cui gestione lasciò, morendo nel 1642, al suo
successore Mazarino.
[8] Fronda (1648-1653).
- Movimento di opposizione antiassolutista in Francia.
Si svolse in due
fasi durante la minore età di Luigi XIV e la reggenza di Anna d’Austria,
coadiuvata dal cardinale Mazzarino. Fu causata, oltre che dal malcontento
popolare per la guerra con la
Spagna , dal dissesto economico e dall’inasprimento fiscale,
dalle resistenze dei corpi privilegiati alla politica di accentramento del
potere perseguita dalla monarchia. All’origine della prima fase (fronda
parlamentare) vi fu il rifiuto del parlamento di Parigi di registrare
l’editto di sospensione degli emolumenti alle corti sovrane (1648) e la sua
rivendicazione dell’antico diritto di controllo sulle decisioni regie in
materia fiscale e della soppressione degli intendenti. In seguito agli arresti
disposti da Mazzarino, il parlamento istigò la folla alla rivolta, che dalla
capitale si diffuse nelle province ma fu sedata dall’esercito guidato dal
principe di Condé. Il momento, favorevole alla grande nobiltà, indusse il Condé
a capeggiare un movimento antigovernativo che nel 1650 sfociò nella seconda
fase (fronda dei principi), costringendo la corte e Mazzarino a fuggire.
Gli atteggiamenti assunti dal principe vittorioso gli alienarono l’appoggio
della borghesia e l’intervento delle truppe regie ripristinò l’ordine nella
capitale e nelle province.
[9] Luigi XIV - (Saint-Germain-en-Laye 1638 - Versailles 1715). Re di Francia
(1643-1715). Figlio e successore di Luigi XIII, salito al trono sotto la
reggenza della madre Anna d’Austria, fu dichiarato maggiorenne nel 1651. Fino
al 1661 il governo effettivo dello stato fu tenuto da G. Mazzarino, alla morte
del quale egli assunse personalmente il potere. Nei primi anni del suo regno,
anche se insidiati dalle fronde, la
Francia trionfò nella guerra dei Trent’anni e, con la pace
dei Pirenei (1659), sulla Spagna.
Con lui l’ assolutismo
divenne un sistema di governo imitato da molti sovrani europei: egli riunì in
sé la coscienza della dignità del suo ufficio con una grande ambizione e con
una forte capacità di lavoro. Anche se la celebre espressione attribuitagli, L’Etat c’est moi (lo stato sono io), probabilmente non fu mai pronunciata, tuttavia
esprime bene la concezione e la pratica di governo del re. La sua figura fu
esaltata anche dai modelli di comportamento affermatisi alla corte di
Versailles, la cui reggia fu trasformata, per suo ordine, in una splendida
residenza nella quale il sovrano attirò la grande nobiltà del regno,
completandone la trasformazione in nobiltà
di corte, legata al monarca da pensioni, cariche e titoli. Tutti i poteri
erano concentrati nelle mani del re che li esercitava con l’assistenza di un
consiglio segreto e di ministri, spesso di origine non nobile. Tra i più validi
collaboratori vi furono J.B. Colbert e F.M. Louvois. Il controllo capillare sul
territorio, raggiunto grazie all’impiego degli intendenti, e lo smantellamento
delle dogane interne, propugnato da Colbert, definirono un grande spazio
politico ed economico sul cui governo avevano scarsa presa gli organi
rappresentativi locali e le aristocrazie.
Anche la
politica religiosa di Luigi XIV non si discostò dalle direttive che erano
applicate in altri campi. Con gli articoli
gallicani (1682), il clero francese affermò, per le questioni non
dottrinali, la propria indipendenza da Roma; nel 1685 la revoca dell’editto di
Nantes pose fuori legge la confessione ugonotta. L’uniformità religiosa e la
nascita di una chiesa di stato sanzionarono il carattere sacrale della
monarchia: Luigi XIV era diventato il re
Sole.
Tra
il 1667 e il 1714 promosse una serie di guerre tese a imporre l’egemonia della
Francia sull’Europa e a ingrandire lo stato: la guerra di devoluzione, la
guerra d’Olanda, la guerra della lega d’Augusta e quella di successione di
Spagna. Con questi conflitti solo in parte furono conseguiti gli obiettivi
sperati. La Francia
ascese al rango di grande potenza, ma a costo di immensi sacrifici e di
tensioni che né la vita di corte né la splendida fioritura delle arti
riuscivano a nascondere.
[10] Elisabetta I Tudor - (1533-1603). Regina
d’Inghilterra (1558-1603). Figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, fu
dichiarata illegittima nel 1536, quando la madre fu decapitata sotto l’accusa
di adulterio. Durante il regno della sorellastra, Maria Tudor, fu tenuta
prigioniera nella torre di Londra, perché sospettata di complottare con gli
oppositori della politica religiosa della regina (1554). Salì al trono il 17
novembre 1558 inaugurando una politica prudente ed equilibrata, esente da colpi
di scena e da imposizioni violente, ma non per questo meno oculata ed efficace.
In campo religioso Elisabetta promulgò, nel 1559, l’Atto di uniformità con cui
rimetteva in vigore il Book of common prayer, il libro di preghiere
ufficiale della Chiesa anglicana, e, quattro anni dopo, l’Atto di supremazia,
con cui ristabiliva l’autorità della corona sulla chiesa. Rifuggì tutta la vita
il matrimonio, evitando alleanze che potessero rivelarsi sbagliate. In politica
interna Elisabetta dovette affrontare i problemi connessi alla presenza sul
trono scozzese della cattolica Maria Stuart. Dopo una rivolta protestante
quest’ultima fu costretta a rifugiarsi in Inghilterra (1568) dove diventò il
principale punto di riferimento delle trame ordite ai danni di Elisabetta. La
scoperta del complotto di Throckmorton (1584) e di quello di Babington (1586)
fece ricadere su Maria Stuart l’accusa di alto tradimento ed Elisabetta colse
l’occasione per condannarla a morte (1587). Sul piano internazionale Elisabetta
assunse posizioni via via più nettamente anticattoliche e antispagnole. La
lotta contro la Spagna
prese dapprima soprattutto la forma degli attacchi corsari e del contrabbando
ai danni di navi e colonie spagnole, ma l’esplosione del conflitto divenne
inevitabile nel 1588 quando la flotta spagnola (Invencible armada) salpò
alla volta di Calais, dove avrebbe dovuto congiungersi con le truppe di
Alessandro Farnese: nelle acque della Manica venne attaccata e vinta dalla più
piccola ma più efficiente e meglio organizzata flotta inglese. Iniziava così il
definitivo declino della potenza spagnola e l’ascesa dell’Inghilterra come
potenza militare, mercantile e marinara. Elisabetta regnò ancora per quindici
anni e morì il 24 marzo 1603. Le sarebbe succeduto il figlio di Maria Stuart,
Giacomo I, a cui era stata però impartita un’educazione protestante.
[11] Oliviero
Cromwell (1599 - 1658).
Politico inglese. Figlio di un nobile di campagna, nel 1628 divenne deputato al
parlamento nel quale propugnò apertamente le sue convinzioni calviniste. Con lo
scoppio della guerra civile (1642) assunse un ruolo di primo piano: organizzò
un corpo di cavalleria (gli Ironsides) e, nel 1645, un esercito regolare
(la New Model
Army). Riuscì così a sconfiggere le truppe regie a Marston Moor (luglio
1644) e a Naseby (giugno 1645), costringendo Carlo I ad arrendersi.
L’unità del
parlamento, intanto, era messa in pericolo dalle divisioni interne: i
conservatori presero il sopravvento e proposero di sciogliere la New Model Army.
L’esercito allora si rivoltò, espulse dal suo interno i conservatori e catturò
il re. Cromwell, schieratosi a fianco dei soldati, marciò su Londra, assumendo
il pieno controllo della situazione. Epurò il parlamento dalla maggioranza
presbiteriana (conservatrice), soffocando al tempo stesso le spinte
estremistiche presenti nell’esercito. Subito dopo Carlo I fu processato,
condannato a morte e giustiziato il 9 febbraio 1649. Abolita la Camera dei lord e
proclamata la repubblica, Cromwell dovette domare una rivolta in Irlanda (1649)
e fronteggiare un tentativo realista in Scozia (1650); represse spietatamente
le due sommosse e annetté i territori conquistati all’Inghilterra. La sua
politica portò alla promulgazione dell’Atto
di navigazione (1651) che mirava a colpire l’Olanda e il suo dominio
commerciale sui mari, e fu all’origine della prima guerra anglo-olandese
(1652-1654).
Nella primavera
del 1653, davanti a nuovi dissidi sorti all’interno del troncone di parlamento
rimasto (il Rump Parliament), Cromwell lo sciolse con la forza. Nel
dicembre di quello stesso anno si proclamò Lord protettore di Inghilterra,
Scozia e Irlanda, titolo che mantenne fino alla morte, nel settembre 1658. La
sua azione tuttavia non riuscì a sanare i conflitti costituzionali e le
divisioni all’interno del parlamento.
Assai
più efficace fu invece il suo contributo all’espansione commerciale e al
potenziamento della flotta. La sua politica economica, ispirata ai dettami del
più ortodosso mercantilismo, diede un forte impulso allo sviluppo economico e
commerciale del paese.
[12] Magna charta libertatum - Carta
fondamentale delle libertà inglesi, concessa a Runnymedes nel 1215 dal re
Giovanni Senzaterra ai baroni del regno e al parlamento della città di Londra.
La monarchia, che si era rafforzata nei decenni precedenti, era indebolita
dalle sconfitte patite da Giovanni in Normandia e dalla lotta contro il papato
e i baroni. Questo documento accoglieva innanzitutto le richieste dei baroni,
cui fu riconosciuto un insieme di libertà e di immunità; ma concedeva anche una
tutela dei diritti di tutti gli uomini liberi. Contiene alcuni principi di
grande importanza, soprattutto in campo giudiziario (Habeas corpus). Più volte riformata negli anni seguenti, è ancora
in vigore ed è tuttora il primo testo delle collezioni di leggi vigenti in
Inghilterra.
[13]
Dichiarazione dei diritti - Con la Dichiarazione
dei diritti (Bill of Rights, 1689) Guglielmo riconobbe i diritti del
parlamento e la libertà di parola. Repressa nel sangue la resistenza giacobita
dei cattolici irlandesi (1690), si instaurò un regime di tacita separazione dei
poteri tra re (esecutivo) e parlamento (legislativo con controllo sui
ministri). L’unione personale tra Paesi bassi e Inghilterra, da un secolo
rivali sui mari, favorì la creazione di una potenza navale insuperabile.
[14]
Rifeudalizzazione - Ricomparsa o
rafforzamento di elementi di carattere feudale nella vita sociale, politica,
economica italiana a partire dalla fine del Cinquecento sino a buona parte del
Settecento. I residui feudali furono di varia natura: dalla ricomparsa di
titoli nobiliari (marchese, conte ecc.), alla riaffermazione della nobiltà
nelle gerarchie sociali e nelle cariche politiche, alla ripresa di forme di
oppressione dei lavoratori nelle campagne. Rifeudalizzazione è, dunque,
sinonimo d’involuzione sociale, politica ed economica e di crisi. Qualcosa di
analogo sembra essere avvenuto anche in Francia (réaction seigneuriale).
[15] Fisiocrazia - Dottrina economica che si
affermò in Francia verso il 1750 e si diffuse ben presto in Europa.
Il termine, che
deriva dal greco phsis (natura) e kratêin (dominare), fu usato da
P. S. Dupont de Nemours nel 1767,
in una raccolta di scritti di François Quesnay (La Physiocratie ).
La premessa
fondamentale era che esiste un ordine naturale della società analogo a quello
che si ritrova nella natura fisica. Ma questo ordine naturale esiste solo se
gli uomini non ne ostacolano la realizzazione. Interessati soprattutto
all’analisi economica, i fisiocratici si opponevano al mercantilismo, che
individuava nel commercio internazionale la fonte della ricchezza dello stato. Per
loro, invece, la fonte era la terra, dal momento che essa era l’unico fattore
di produzione in grado di generare valori aggiunti. Solo la terra era capace di
fornire un prodotto netto, un surplus rispetto agli investimenti
apportati. L’agricoltura, perciò, era in grado di produrre, mentre
l’artigianato e la manifattura trasformavano soltanto.
La classe
agricola degli imprenditori e degli affittuari era quindi, per i fisiocratici,
produttiva, mentre artigiani, commercianti, manifattori e liberi professionisti
costituivano la classe sterile; i proprietari fondiari, il clero, i funzionari
pubblici e il sovrano, infine, si identificavano con la classe oziosa. Costoro
ricevevano sotto forma di rendite, decime o imposte il prodotto netto, che poi,
attraverso i loro consumi, ridistribuivano alla classe sterile e a quella
produttiva.
I
fisiocratici erano quindi favorevoli al libero commercio dei prodotti agricoli
e particolarmente interessati allo sviluppo dell’agricoltura. Poiché lo stato
si doveva impegnare a garantire la libertà, la proprietà e la sicurezza, si
giustificava il prelievo fiscale, che doveva essere però attuato sul prodotto
netto attraverso un’imposta diretta e reale sulla terra, che gravava quindi
unicamente sui proprietari fondiari.
[16]
John Locke - Filosofo e scrittore
politico inglese. Dal 1667 segretario e medico personale di lord Shaftesbury,
lo seguì nel 1683 in
Olanda quando, per la sua opposizione a Carlo II, questi fuggì
dall’Inghilterra. In Olanda pubblicò la Lettera sulla tolleranza, nella
quale combatteva il principio della chiesa di stato e difendeva la libertà di
coscienza, sostenendo che la tolleranza andava negata alle confessioni
intolleranti, come il cattolicesimo, e agli atei, per il carattere antisociale
delle loro dottrine. Nel 1689 tornò in patria al seguito di Maria Stuart e
Guglielmo d’Orange e pubblicò, nel 1690, i Due trattati sul governo civile.
Il primo confutava la legittimazione biblica e patriarcale dell’assolutismo
data da Robert Filmer; il secondo teorizzava lo stato come garante dei diritti
naturali (in particolare la libertà e la proprietà) e delineava i caratteri di
una monarchia parlamentare fondata sul principio della divisione dei poteri.
Nello stesso anno apparve anche la sua opera più importante, il Saggio sull’intelletto
umano. Dal 1696 al 1700 fece parte del Consiglio per il commercio e le
colonie.
[17] costituita da opere agili, da romanzi,
da saggi divulgativi, da lavori teatrali, da dizionari tascabili, da opuscoli.
[18] APPROFONDIMENTO: DIRITTO
La spersonalizzazione della posizione del re
- Solo tra il XVIII e
il XIX secolo, questa posizione fu superata. Anche il re divenne un funzionario
statale, il cui primo e esclusivo dovere era di agire nell’interesse aggettivo
dello Stato. Si teorizzò la «ragion di Stato» per esprimere questo interesse,
superiore a quello di qualunque persona fisica, compresa la persona del re. La
sintesi di questa visione è nella celebre frase di Federico II di Prussia,
detto Federico il Grande (1740-1786), che si definiva il «primo servitore dello
Stato».
Lo Stato poteva allora
considerarsi un’organizzazione impersonale che non coincideva più con nessuna
persona fisica, nemmeno con quella del re. Tutti coloro che agivano per lo
Stato - dal più umile impiegato al re - ne erano divenuti funzionari.
Lo Stato, a sua volta,
divenne titolare di situazioni giuridiche proprie. Esso assunse capacità
giuridica attraverso la personificazione del «fisco», cioè delle risorse dello
Stato, che vennero separate da quelle private del re come persona privata.
[19]
Stati generali - Antica assemblea straordinaria dei rappresentanti di
nobiltà, clero e Terzo stato in Francia e nelle Fiandre. Derivati dalle
assemblee plenarie dei re capetingi, gli Stati generali francesi furono
convocati la prima volta durante il conflitto tra papa Bonifacio VIII e Filippo
IV (1301-1302). Nel 1317 Filippo V dispose che le città del regno scegliessero
i propri rappresentanti all’assemblea, introducendo il principio
dell’elettività dei deputati. Organo puramente consultivo, non avevano funzioni
definite ed erano convocati saltuariamente per richiedere l’espresso consenso
all’operato del sovrano. In alcune circostanze tentarono di accrescere le
proprie prerogative assumendo iniziative politiche, ma la corona reagì evitando
di convocarli. Nel secondo Cinquecento aumentò la loro importanza specie in
materia fiscale e finanziaria, ma crebbe anche la conflittualità fra le tre
componenti. Tali contrasti fecero fallire la riunione del 1614-1615. Dopo
quella data non furono più convocati fino al 1789, quando la loro pretesa di
costituirsi in Assemblea nazionale
costituente segnò l’inizio della Rivoluzione francese. Nelle Fiandre gli
Stati generali, delegati di quelli provinciali, furono convocati sotto la
dominazione borgognona e asburgica (secoli XV-XVI) con funzioni consultive
specie in ambito fiscale. Alla secessione dalla Spagna delle sette province
settentrionali (1579), il nome fu trasferito al principale organo collegiale di
governo, che fu abolito nel 1796, dopo l’arrivo delle truppe rivoluzionarie
francesi.
[20] Assemblea nazionale costituente -
Organismo formato, durante la
Rivoluzione francese, dai delegati del Terzo stato agli Stati generali, proclamatisi nella Sala
della pallacorda rappresentanti della nazione (17 giugno 1789) per
elaborare una costituzione. Trasformatasi in Assemblea nazionale costituente
dopo che vi si furono congiunti anche i membri della nobiltà e del clero (9
luglio), si sciolse il 30 settembre 1791. I suoi membri, pur non essendo
organizzati in partiti, assunsero posizioni diverse, su cui si sviluppò una
nuova terminologia politica. A destra del presidente sedevano i monarchici
intransigenti. Successivamente in questo gruppo confluì anche il centro,
costituito dai monarchici bicameralisti che, sul modello inglese, riconoscevano
al re il diritto di nominare una seconda camera. Fatta eccezione per qualche
estremista, a sinistra erano i fautori del parlamentarismo, prevalentemente del
Terzo stato, integrati da aristocratici liberali ed esponenti del basso clero.
I rappresentanti degli interessi della medio-alta borghesia desiderosa di
partecipare alla vita politica, ma intenzionata a difendere l’ordine e la
proprietà, riuscirono a imporre la propria linea. Furono così varate riforme
fondamentali quali l’abolizione del regime feudale, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino,
l’incameramento dei beni ecclesiastici e degli emigrati, la Costituzione civile del clero e, infine, la Costituzione del 1791.
[21] Girondini - Gruppo politico nato
durante la Rivoluzione
francese. Riuniva i deputati all’Assemblea legislativa provenienti dal
dipartimento della Gironda. In seno alla Assemblea i girondini assunsero un
atteggiamento radicale e antimonarchico imponendo a Luigi XVI la dichiarazione
di guerra all’Austria e alla Prussia (20 aprile 1792).
Contrari
all’ideologia egualitaria dei sanculotti parigini, i girondini perseguivano
obiettivi ideali e politici favorevoli alla borghesia, soprattutto alle sue
componenti provinciali e mercantili. Il loro prestigio e il loro potere furono
progressivamente ridotti dall’emergere dei giacobini e dai moti di piazza del
10 agosto 1792 diretti da questi ultimi.
La
sconfitta divenne definitiva il 2 giugno 1793 quando i girondini furono
costretti a cedere il potere sotto la spinta dei sanculotti parigini. L’arresto
e la condanna a morte di molti di loro costituì il momento iniziale del
terrore. Solamente dopo il 9 termidoro la frangia superstite del gruppo poté
ritornare a sedere tra i banchi della Convenzione.
[22] Giacobini - Membri di un club creato
durante la Rivoluzione
francese, a Versailles, nel maggio 1789, da alcuni parlamentari bretoni
capeggiati da J.R. Chevalier, e che si trasferì in ottobre a Parigi, insieme
con l’Assemblea.
Sotto il nome di
Società degli amici della costituzione
i giacobini si insediarono nel refettorio dell’ex convento dei domenicani. Ben
presto, sotto la guida di un triumvirato composto da A. Du Port, A. Barnave e
A. De Lameth, riuscirono a costituire una fitta rete di società affiliate in
tutto il paese, divenendo centro propulsore e cassa si risonanza nazionale
della politica rivoluzionaria. Il club, in questa prima fase aderente a una
linea monarchico-costituzionale, escludeva i ceti popolari a causa dell’elevata
quota d’iscrizione che rendeva loro proibitiva l’adesione. Il suo principale
obiettivo era la promozione di progetti di legge da sottoporre all’Assemblea e
l’attività di propaganda delle leggi già rese esecutive. Ma la crisi di regime
aperta dalla fuga di Varennes (giugno 1791) e aggravata dall’eccidio di Campo
di Marte (luglio 1791), creò nel club parigino una profonda spaccatura,
determinando la fuoriuscita della maggioranza, riunita intorno a Barnave e La Fayette , che andò a
costituire il gruppo dei foglianti.
Moderata fino ad
allora, la politica giacobina assunse, da quel momento, un indirizzo più
democratico, ma soprattutto più intransigente. Da luogo di discussione il club
si trasformò in laboratorio di idee e forze rivoluzionarie volte alla conquista
del potere. Mutato il suo nome dal settembre 1792 in quello di Club dei giacobini, la società eliminò
dal suo interno le residue frange moderate e, nel maggio 1793, riuscì a
esautorare il governo dei girondini. Divenne così il gruppo più organizzato ed
egemone nella Convenzione ed ebbe in Robespierre il capo indiscusso. L’alleanza
con i sanculotti parigini, pur non priva di momenti di tensione che si fecero
particolarmente acuti nella primavera del 1794, spinse i giacobini a
radicalizzare la lotta contro aristocratici e monarchici e ad appoggiare misure
che limitavano la libertà economica. Durante il terrore i giacobini sostennero
il Comitato di salute pubblica.
Il
colpo di stato del termidoro e la conseguente svolta moderata determinarono la
chiusura del club, nel novembre 1794.
[23] Comitato di salute pubblica (1793-1795). - Organo di sorveglianza e poi
di governo della Francia rivoluzionaria. Istituito il 6 aprile 1793 dalla
Convenzione, in sostituzione del Comitato
di difesa generale, e costituito da nove deputati, ebbe il potere
esecutivo. Dopo la sconfitta della Gironda e la presa del potere da parte della
Montagna (2 giugno), fu riorganizzato e diviso in sei sezioni, diventando il
principale organo del governo rivoluzionario. Modificato anche nella struttura,
il nuovo organismo, composto da dodici e poi da quattordici membri, fu, dopo
l’esclusione di Danton, dominato dalla figura di Robespierre.
Intervenendo
in tutti i problemi sia di politica interna sia estera, il Comitato bandì la
leva di massa generalizzata, prese provvedimenti di carattere economico quali
l’istituzione di un calmiere dei prezzi, realizzò la centralizzazione
amministrativa e iniziò l’opera di scristianizzazione attraverso l’adozione di
un nuovo calendario e l’istituzione del culto della Ragione.
Nel
settembre 1793 ebbero luogo i primi grandi processi politici, mentre la Francia ottenne vari
successi nella campagna di guerra allontanando la minaccia di una invasione del
territorio nazionale e cogliendo alcune importanti vittorie. Il rinnovarsi di
conflitti interni fra il Comitato di salute pubblica e il Comitato di sicurezza
generale e il contrasto, in seno al primo, fra Robespierre e Lazare-Nicolas
Carnot portarono alla reazione dei moderati e al colpo di stato del 9 termidoro
(27 luglio 1794). Pur rimanendo in vita ancora per un anno il Comitato di
salute pubblica fu epurato degli elementi più vicini a Robespierre e perse il
suo ruolo centrale, venendo affiancato da altri comitati e quindi sciolto
definitivamente alla caduta della Convenzione (26 ottobre 1795).
[24] Terrore - (1792-1794). Periodo della
Rivoluzione francese in cui prevalsero le forze più radicali e si adottarono
misure eccezionali per fronteggiare la controrivoluzione interna e gli eserciti
stranieri che premevano alle frontiere. Un primo periodo di terrore si ebbe alla
caduta della monarchia (10 agosto 1792), quando giacobini e sanculotti,
organizzati nella Comune di Parigi, imposero all’Assemblea legislativa
l’istituzione di un tribunale straordinario per giudicare traditori e sospetti
e l’adozione di provvedimenti quali la spartizione tra i contadini dei pascoli
comuni, la vendita in piccoli lotti dei beni nazionalizzati, il suffragio
universale. Assunto il controllo della Convenzione da parte dei giacobini (2
giugno 1792), il Terrore infuriò a partire dal settembre 1793. Giustificato
dalla volontà di salvare la
Rivoluzione , fu applicato in tutti i settori di competenza
dello stato: amministrazione, giustizia, finanze, esercito, economia, cultura.
Il Tribunale rivoluzionario liquidò con processi sommari i controrivoluzionari
e gli oppositori del governo. La leva di massa permise il successo militare
mentre la regolamentazione dell’economia (requisizioni, calmiere dei prezzi)
consentì di sostenere lo sforzo bellico e di controllare la crisi economica e
sociale. Nonostante la sconfitta dei nemici interni ed esterni, si ebbe una
recrudescenza del Terrore con la legge del 22 pratile (10 giugno 1794) che
accentuò l’isolamento del gruppo dirigente. Il regime fu abbattuto il 9
termidoro (27 luglio 1794) e la cruenta reazione antigiacobina che seguì prese
il nome di "Terrore bianco" (1794-1795).
[25] Maximilien de
Robespierre (Arras 1758 - Parigi 1794). Politico
francese. Avvocato, intellettuale illuminista seguace di Rousseau e critico nei
confronti dell’assolutismo regio e del sistema giudiziario, fu eletto deputato
agli Stati generali del 1789. Appassionato difensore della libertà e
dell’uguaglianza tra gli uomini, esercitò la sua influenza nel club dei
giacobini, divenendone leader indiscusso con le campagne a favore del suffragio
universale e contro la monarchia dopo la fuga di Varennes. La vita austera e
l’intransigenza morale gli valsero il soprannome di Incorruttibile. Ostile alla
dichiarazione di guerra all’Austria, in cui identificava un pericolo per le
sorti della rivoluzione, dopo lo scoppio del conflitto (aprile 1792) e i primi
rovesci militari divenne strenuo sostenitore della difesa a oltranza. Eletto
membro della Comune di Parigi dopo la rivolta popolare del 10 agosto 1792, fu
poi deputato alla Convenzione dove si schierò con i montagnardi contro i
girondini.
Disinteressato
fino ad allora ai problemi dell’approvvigionamento, appoggiò il programma dei
sanculotti che chiedevano il calmiere dei prezzi delle derrate nonché
l’epurazione dei sospetti e il potenziamento delle sezioni popolari. Dopo che i
montagnardi ebbero conquistato il controllo della Convenzione con l’aiuto dei
sanculotti (giornate del 31 maggio e del 2 giugno 1793), si adoperò per
contenere le spinte radicali di questi ultimi e sostenne la necessità di un potere
dittatoriale. Animatore del Comitato di salute pubblica, adottò misure
straordinarie per fronteggiare le difficoltà del momento e salvare la
rivoluzione dai nemici interni ed esterni, non esitando a instaurare il regime
del Terrore. La sconfitta della controrivoluzione e i successi militari
riportati dalla Francia sugli eserciti coalizzati resero sempre più inviso e
meno giustificabile il Terrore e favorirono l’alleanza degli oppositori che il
9 termidoro posero sotto accusa Robespierre di fronte alla Convenzione.
Arrestato insieme ai suoi più stretti collaboratori, fu giustiziato il giorno
successivo.
[26]
Sanculotti - (sans-culottes).
Termine coniato durante la
Rivoluzione francese per designare i popolani che portavano i
pantaloni lunghi invece delle culottes, calzoni corti e aderenti preferiti
dall’aristocrazia. Adoperato dapprima in senso spregiativo dalla pubblicistica
ostile alla Rivoluzione, con il radicalizzarsi della lotta politica
l’appellativo divenne motivo di orgoglio per i militanti delle sezioni
parigine. Quanto a provenienza sociale i sanculotti erano essenzialmente
produttori indipendenti, piccoli commercianti e artigiani, ai quali si
aggiungeva una modesta percentuale di salariati. Erano decisamente esclusi
dalle loro file sia i poveri e gli indigenti, sia la borghesia agiata dei
grossi rentiers, dei mercanti e dei capitalisti. Protagonisti delle giornate
rivoluzionarie e reclutati in massa nelle armate, i sanculotti si imposero
sulla scena politica dall’estate 1792 fino alla primavera 1795. Sensibili alle
difficoltà d’approvvigionamento, all’aumento dei prezzi e alla svalutazione
degli assegnati, reclamarono la regolamentazione dell’economia e la fissazione
del maximum dei prezzi. Sostenitori
della democrazia diretta, tollerarono male il sistema rappresentativo e la
concentrazione di potere nelle mani del governo rivoluzionario. Indifferenti
alle vicende del nove termidoro,
furono in momentanea ripresa dopo la caduta di Robespierre, ma si disgregarono
in seguito al fallimento delle giornate insurrezionali di germinale e pratile
(aprile-maggio 1795).
[27] Georges Jacques Danton (Arcis-sur-Aube
1759 - Parigi 1794). - Di modeste origini borghesi, studiò diritto e si
trasferì a Parigi. Scoppiata la
Rivoluzione , vi aderì prontamente e, abile oratore, si
distinse nella lotta contro le correnti più moderate. Leader del club dei
cordiglieri e fervente repubblicano, ebbe un ruolo determinante nelle
agitazioni che provocarono l’eccidio del Campo di Marte (1791) e
nell’insurrezione del 10 agosto 1792 che portò alla caduta della monarchia.
Nominato ministro della Giustizia, tollerò le stragi di settembre. Eletto alla
Convenzione, tentò di mediare il contrasto tra girondini e montagnardi; infine
si schierò con questi ultimi ed entrò nel Comitato di salute pubblica. Di
fronte alle vicende della guerra del 1792-1793 si adoperò per reclutare un
grande esercito e fronteggiare la coalizione austro-prussiana; tuttavia, mentre
pubblicamente spingeva i francesi alla liberazione dei popoli e al
raggiungimento dei confini naturali, intavolava trattative con gli avversari.
Tale atteggiamento contraddittorio, gli arricchimenti illeciti e il
coinvolgimento in alcuni scandali gli alienarono molti favori. Assunta la
direzione dell’opposizione moderata a Robespierre, da quest’ultimo fu usato per
sconfiggere gli oppositori di sinistra, ma poi venne egli stesso eliminato.
Arrestato insieme ai suoi seguaci, gli indulgenti,
fu giudicato dal Tribunale rivoluzionario e condannato a morte.
[28] Colpo di stato del Termidoro -
Rovesciamento del governo giacobino durante la Rivoluzione francese.
Il Comitato di salute pubblica fu
privato dei suoi poteri e Robespierre e i suoi seguaci, accusati di ambizione e
dispotismo di fronte alla Convenzione, furono arrestati e decapitati il giorno
successivo.
Al
successo della congiura antigiacobina avevano contribuito le vittorie riportate
sui nemici interni ed esterni della rivoluzione che avevano reso inutile il
regime del Terrore. Inoltre si erano allentati i legami tra il governo rivoluzionario
e i sanculotti, scontenti per il calmiere sui salari e per le esecuzioni dei
seguaci di Hébert. Infine, il gruppo dirigente aveva perduto l’appoggio della
Convenzione dopo l’alleanza tra i moderati della Palude e i cosiddetti terroristi,
rappresentanti in missione nelle province, richiamati da Robespierre a Parigi a
causa dei loro misfatti.
[29] Confederazione germanica - Associazione
politica delle trentanove entità statuali tedesche. Fu fondata durante il
congresso di Vienna e si sciolse dopo la guerra austro-prussiana. Sotto
l’egemonia dell’Austria, i suoi poteri reali furono scarsi. La Prussia , dopo la
diffusione dello Zollverein e la nomina di O. Bismarck a cancelliere (1862), ne
minò la stabilità, fino a creare la Confederazione della Germania del nord.
[30] Manifesto del Partito Comunista - Opuscolo
scritto da K. Marx con la collaborazione di F. Engels su incarico della Lega
dei comunisti e pubblicato a Londra. Divenne il programma politico della prima
Internazionale (1864) ed ebbe amplissima diffusione. Vi si identificava la
storia come storia di lotta fra le classi, prospettando i mezzi con i quali il
proletariato poteva sconfiggere la borghesia e instaurare il comunismo.
[31]
APPROFONDIMENTO: Il Risorgimento italiano e l’Europa - Da questa
rapida esposizione risulta chiaro che il Risorgimento italiano non fu un
movimento a sé stante, ma si inserì nel più vasto movimento politico e
culturale europeo e per più ragioni:
a)
I moti insurrezionali e le successive guerre di indipendenza che portarono alla
costituzione del Regno furono resi possibili dall’evolversi della situazione
politica europea e dal conseguente venir meno della forza repressiva della
Santa Alleanza; il che consentì il formarsi di un più libero gioco di potenze.
b)
Gli eventi italiani rappresentarono il contraccolpo di analoghi eventi
stranieri. Ad esempio, i moti italiani del ‘21 furono ispirati dalla
insurrezione spagnola di Cadice (1820); quelli del ‘31 furono promossi dalla
Rivoluzione francese del luglio 1830; le insurrezioni del ‘48 furono uno dei
movimenti di rivolta che percorsero l’Europa a seguito della rivoluzione
scoppiata in Francia nel febbraio dello stesso ‘48.
c)
La politica di Cavour si inserì abilmente nel gioco europeo, sfruttando a
proprio vantaggio l’ambizione di Napoleone III che mirava a porre un’ipoteca
francese sul nuovo assetto che veniva delineandosi in Italia.
d)
Il patrimonio di idee che costituì il supporto all’azione degli uomini del
nostro Risorgimento era comune a tutta l’Europa liberale frutto di un lungo processo
al quale l’Italia, rimasta appartata nei secoli XVI e XVII, si era ricongiunta
a partire dalla seconda metà del secolo XVIII.
I
protagonisti del Risorgimento ebbero coscienza del significato europeo della
loro azione, sia i carbonari che si collegavano agli altri liberali europei,
sia il Mazzini che vedeva il Risorgimento italiano come un momento del
risorgimento europeo, sia il Cavour che considerava l’applicazione della
concezione liberale, affermatasi in Inghilterra e Francia, come l’elemento che
avrebbe portato l’Italia al livello dei grandi Stati d’Europa.
[32] Giuseppe Mazzini – Giuseppe Mazzini nacque a Genova il 22 giugno del 1805 da
Giacomo, professore universitario ex giacobino e da Maria Drago.
A soli quindici
anni fu ammesso all'Università, in un primo tempo venne avviato agli studi di
medicina, poi a quelli di legge, ma sin dall'adolescenza si mostrò più
interessato agli studi politici e letterari.
Nel 1826 scrisse
il suo primo saggio letterario, Dell'amor patrio di Dante (pubblicato poi nel
1837). Nel 1827 si laureò in legge, e nello stesso periodo entrò a far parte
della Carboneria, per la quale svolse incarichi vari di carattere organizzativo
in Liguria e in Toscana.
Animo
rivoluzionario, concepiva la rivoluzione non come rivendicazione di diritti
individuali non riconosciuti, bensì come un dovere religioso da attuare in
favore del popolo. Negli anni seguenti collaborò con l'Indicatore genovese,
scrivendo articoli e note bibliografiche. Nel 1830 Mazzini iniziò a viaggiare
in tutta Italia per trovare nuovi adepti per la carboneria. Tradito e
denunciato alla polizia quale carbonaro venne arrestato e rinchiuso nella
fortezza di Savona. L'anno seguente, prosciolto per mancanza di prove e quindi
liberato, gli venne imposto di scegliere tra il confino, sotto la sorveglianza
della polizia, o l'esilio. Scelse quest'ultimo, recandosi a Ginevra dove
incontrò altri esuli.
Si laureò in
giurisprudenza, ma era interessato allo studio della letteratura come impregno
civile. Affiliato alla carboneria genovese svolse un’intensa attività sperando
che la rivoluzione francese del 1830 aprisse prospettive rivoluzionarie anche
in Italia. Fu arrestato nel 1830 e esiliato nel 1831.
In seguito, a
Marsiglia, fondò la Giovine Italia, che ebbe come sottotitolo: Serie di scritti
intorno alla condizione politica, morale e letteraria dell'Italia, tendenti
alla sua rigenerazione, società con cui propugnò l'unità nazionale in senso
repubblicano e democratico. Appena salito al trono Carlo Alberto, gli scrisse
per esortarlo a prendere l'iniziativa della riscossa italiana, ma senza
ottenere risultati. Allargò poi il suo impegno ideologico con la fondazione
della Giovine Europa.
Giuseppe Mazzini
morì a Pisa nel 1872, con la consolazione di spegnersi in patria, dopo aver
vissuto quasi sempre in esilio.
[33] L'organizzazione Giovine Italia –
Mazzini fondò a Marsiglia la Giovine Italia.
Nel 1832, a
Marsiglia, inizia la pubblicazione della rivista "La Giovine Italia",
che ha come sottotitolo "Serie di scritti intorno alla condizione politica,
morale e letteraria dell'Italia, tendenti alla sua rigenerazione". Mazzini
individuò nel tipo di azione politica svolta dalla carboneria e ancor prima
dalla massoneria le cause del fallimento dei moti italiani. I difetti di questa
organizzazione erano stati la segretezza e la mancanza di un programma ben
definito. La segretezza aveva impedito ai cospiratori di avere ampia
partecipazione da parte delle popolazioni che si erano trovate coinvolte in
moti di cui non conoscevano né i capi né la finalità. La mancanza di chiari
programmi aveva determinato anche negli stessi organizzatori incertezze e
divisioni. Gli affiliati della Giovine Italia dovevano propagare le proprie
idee perché l’opera di educazione era fondamentale per ottenere la
rigenerazione morale e spirituale del popolo italiano.
L’opera di
educazione doveva concludersi con l’impegno all’insurrezione e la
partecipazione diretta alla guerra armata. Tra educazione ed insurrezione
esisteva un rapporto di dipendenza. La propaganda avrebbe accresciuto il numero
delle persone disposte a lottare e lo lotta avrebbe costituito un ulteriore
momento di educazione. Lo sforzo di organizzazione compiuto da Mazzini da 1831
al 1843 fu enorme: la "Giovine Italia" era penetrata in tutti gli
stati italiani, faceva proseliti soprattutto nei ceti borghesi, ma reclutava
aderenti anche tra artigiani e proletari. Scarsa fu invece la penetrazione
nelle campagne. Secondo il programma di Mazzini l’Italia doveva essere una-
indipendente- sovrana. La "Giovine Italia" conobbe una rapida
espansione caratterizzandosi nella sostanza come partito di quadri, composto
cioè da persone preparate e pronte all'azione insurrezionale. Ma i tentativi
insurrezionali compiuti si conclusero con l'insuccesso. Nel 1833 e poi nel 1834
l'organizzazione fu decimata da arresti e condanne. Mazzini, constatata
l'immaturità politica italian, fondò a Berna (Svizzera) la “Giovine Europa”
Mazzini non si
riconosceva in alcuna Chiesa, malgrado ciò, il rivoluzionario genovese era uno
spirito profondamente religioso, convinto che dio avesse assegnato agli uomini
la missione di vivere nella pace e nella giustizia. Gli individui, pertanto,
dovevano concepire la propria esistenza in primo luogo come un dovere e
dedicare ogni energia alla costruzione del nuovo mondo libero e giusto che Dio
chiedeva loro di costruire. Dio, inoltre, secondo Mazzini, aveva assegnato
all’Italia un ruolo di primaria importanza. Proprio perché la sua condizione
era particolarmente difficile, essa doveva dare l’esempio a tutti gli altri popoli
e indicare la via della liberazione dal dominio straniero e dall’oppressione.
L’idea di
nazione, dunque, era al centro del pensiero mazziniano. A giudizio di Mazzini,
tutti i popoli avevano pari dignità e pari diritti alla libertà e
all’indipendenza, non a caso degli fondò nel 1834 la Giovine Europa. La scelta
repubblicana si spiega con il fatto che, per Mazzini, la sovranità apparteneva
solamente al popolo: questi non poteva delegare a nessuno a governare al duo
posto. Un popolo che con le proprie forze fosse riuscito a conquistare la
libertà sarebbe riuscito pure ad esercitare il potere, senza far ricorso ai re,
che per altro erano tutti, secondo Mazzini, dei potenziali tiranni e dittatori
spietati.
Il
contributo del mazzinianesimo al Risorgimento è da riconoscere in questa
affermazione che il popolo italiano avrebbe conquistato la sovranità e la
libertà solo assumendo direttamente l’iniziativa politica. La futura Italia
avrebbe dovuto essere una repubblica perché solo la forma repubblicana avrebbe
permesso al popolo italiano di attuare la missione affidatagli da Dio. La
Giovine Italia determinò un salto di qualità nella organizzazione della lotta
politica in Italia.
[34] Vincenzo Gioberti – Il filosofo,
teologo, sacerdote e uomo politico Vincenzo Gioberti, nacque a Torino il 5
aprile 1801 figlio di Giuseppe, un piccolo borghese di condizione economiche
modeste, che lo lasciò orfano in giovane età. Sotto l’influenza della madre,
una donna di forti sentimenti religiosi, Gioberti. intraprese un percorso d’educazione
e studi ecclesiastici, presso i Padri Oratoriani, culminato con la laurea in
teologia nel gennaio 1823 e l’ordinazione a sacerdote nel marzo 1825.
Nel 1826 egli fu
nominato cappellano di corte ed, in seguito, entrò progressivamente nella vita
sociale e politica del Piemonte dell’epoca, dapprima allacciando rapporti con
la società segreta dei Cavalieri della Libertà, d’orientamento
costituzionalista liberale moderato, poi collaborando, sotto lo pseudonimo di
Demofilo, con la rivista di Giuseppe Mazzini dal1805 al 1872, La Giovine
Italia.
Tuttavia le sue
idee filosofiche panteistiche e, soprattutto, il pensiero politico
d’ispirazione repubblicana mazziniana, lo misero in cattiva luce: fu, infatti,
arrestato dalla polizia nel giugno 1833, e, dopo qualche mese di carcere,
costretto ad andare in esilio nel settembre dello stesso anno.
Visse quindi per
ben quindici anni all’estero, dapprima a Parigi, poi lungamente a Bruxelles,
dove campò come insegnante e scrivendo svariati trattati filosofici e politici.
La sua fama è soprattutto legata alla pubblicazione, nel 1843, del trattato
“Del primato morale e civile degli Italiani”, dedicato a Silvio Pellico.
Accolto in maniera molto fredda, se non ostile dal mondo ecclesiastico. In
particolare, esso diede inizio ad un’annosa polemica tra Gioberti e l’ ordine
dei gesuiti, che proseguì con le “Prolegomeni al Primato” del 1845,” Il Gesuita
Moderno” del 1847 e “l’Apologia del Gesuita Moderno” del 1848, e che portò,
qualche anno dopo, alla messa all’Indice dei suoi libri.
Sempre al
periodo franco-belga risalgono alcuni suoi scritti polemici contro Antonio
Rosmini “Errori filosofici di Antonio Rosmini”, del 1842, ”Felicité de
Lamennais“, del 1840) e contro il filosofo hegeliano francese Victor Cousin.
Nel 1846 il re
sabaudo Carlo Alberto (1831-1849) proclamò un’amnistia, ma Gioberti., che nel
frattempo si era trasferito a Parigi, non ne usufruì e fece ritorno in patria
solo nel 1848, il 29 aprile, dopo un rientro a Torino, a Gioberti,. fu offerto
un seggio di senatore, ma egli preferì quello di rappresentante nella Camera
dei Deputati del regno di Sardegna, di cui fu eletto primo presidente.
Poco dopo
Gioberti. divenne capo del governo piemontese, tuttavia lo scoppio della
seconda fase della 1° guerra d’indipendenza e le polemiche con gli altri
ministri sulla sua proposta di restaurare il Granduca di Toscana e il
papa,scacciati dai moti popolari del 1848 dai loro rispettivi troni, misero
fine alla sua carriera politica. Non piaceva, tra l’altro, la sua idea di una
federazione di stati italiani sotto la presidenza del papa, che gli valse il
titolo di neo-guelfo.
Dopo la
sconfitta di Novara del 23 marzo 1849, il nuovo re Vittorio Emanuele II re di
Sardegna: 1849-1861; re d’Italia: 1861-1878 offrì a Gioberti. un incarico
diplomatico a Parigi, dove si trasferì e da dove non fece mai più ritorno in
Italia. A Parigi Gioberti, compose l’altra sua opera fondamentale dopo il
“Primato morale e civile”, “il Rinnovamento civile d’Italia”; morì per un
colpo apoplettico il 26 ottobre 1852.
La sua filosofia
è una miscela di ontologismo panteistico, tradizionalismo e neoplatonismo. Il
tutto è riassunto in un processo ciclico, che presenta una fase discendente, la
mimesi il processo di derivazione del mondo da Dio, ed una fase ascendente, la metessi
il processo con cui il mondo e l’uomo ritornano a Dio.
Dio si presenta
al nostro intuito come l’Idea, o l’Essere reale assoluto, o Ente (Ens), che non
può essere causato da altro ed esiste quindi “necessariamente”.
Tutte le
creature sono invece “esistenze” e sono state create ex nihilo da Lui ; per
Gioberti. la mimesi era riassunta nella frase “l’Ente crea l’esistente”, e da
Lui discendono, ma non possono essere confusi con Lui. La creazione non si
conclude, in ogni caso, con l’atto creativo, ma con l’anelito dell’esistente –
in particolare l’uomo – a ritornare all’Ente, sintesi della metessi era la
frase “l’esistente torna all’Ente”.
[35] Cesare Balbo (Torino 1789-1853) – Conte
di Vinadio, uomo politico e storico italiano. Figlio di Prospero e di Enrichetta
Taparelli d'Azeglio, subì in gioventù l'influenza di Alfieri, e fondò, nel
1804, con alcuni coetanei l'Accademia dei Concordi, nelle cui discussioni
cominciarono a prendere forma le sue idee liberal-moderate.
Durante la
dominazione francese in Italia fu al servizio di Napoleone, ricoprendo
successivamente le cariche di segretario generale della giunta governativa di
Toscana (1808), di segretario della consulta per i territori già pontifici
(1809) e infine di uditore al Consiglio di Stato di Parigi (1811).
In seguito al
moto liberale piemontese del 1821, al quale peraltro non aveva partecipato, fu
esiliato nel 1822. Si concentrò da allora negli studi storici e filosofici ed
oltre alle Memorie sulla rivoluzione del 1821, la Storia d'Italia sotto i
barbari, cioè dal 476 al 774 (1830), i Pensieri ed esempi di morale e di
politica, scritti nel 1832-1833 e pubblicati postumi nel 1854, la Vita di Dante
(1839), le Meditazioni storiche (1842-1845) e il classico Sommario della storia
d'Italia (1846).
Iniziato, col
Primato di Gioberti, il movimento d'opinione moderato per la soluzione della
questione italiana, Cesare Balbo, in sostegno, aveva pubblicato nel 1844 Le
speranze d'Italia.
Dopo
la concessione dello statuto albertino Balbo fu il primo presidente del consiglio
del regno di Sardegna (13 marzo - 25 luglio 1848), e in seguito fu capo della
Destra nel parlamento subalpino. Ma negli ultimi anni della sua vita tornò a
dedicarsi agli studi, scrivendo articoli e saggi che confluirono nella raccolta
postuma Della monarchia rappresentativa in Italia (1857).
[36] Massimo d'Azeglio – Massimo d'Azeglio
nacque a Torino nel 1798 da nobile famiglia.
Figura politica
di primo piano , durante la sua vita si dedicò anche alla pittura e alla
letteratura, sia in veste di scrittore politico che di romanziere.E' stato una
persona liberale moderato, arrivò a ricoprire la carica di Presidente del
Consiglio del Regno di Sardegna dal 1849 al 1852. Nel 1860 fu nominato
governatore di Milano.Fu anche pittore, noto per i paesaggi e i quadri di
battaglie. Tra i suoi opuscoli politici sono famosi "Gli ultimi casi di
Romagna" (1846) in cui invitava gli italici a abbandonare la via delle
cospirazioni, e "I lutti di Lombardia" (1848)
Tra
le sue opere più famose ricordiamo Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta
(1833), accolto da grandissimo successo, e Niccolò de' Lapi ovvero i Palleschi
e i Piagnoni (1841). Durante gli ultimi anni della sua vita, trascorsi sul Lago
Maggiore, si dedicò alla scrittura delle sue memorie, pubblicate postume col
titolo I miei ricordi nel 1867. Più riuscito forse il libro autobiografico
"I miei ricordi" (1867), ritratto di un gentiluomo moderato,
combattuto tra il vecchio e il nuovo. Domina l'intento civile, la prosa scorre
limpida e piena, colorita, ritrae con preciso gusto figure e paesaggi.
D'Azeglio morì infatti a Torino nel 1866.
D'Azeglio morì infatti a Torino nel 1866.
[37] Carlo Cattaneo – Carlo Cattaneo è stato
patriota e politico italiano del XIX secolo. E' considerato uno dei padri del
federalismo. Nasce a Parabiago (MI) il 15 giugno 1801.
Diplomatosi
negli studi classici, intraprende la professione dell'insegnante e frequenta i
circoli intellettuali nella Milano della prima metà del secolo. Nel 1848
partecipa alle cinque giornate di Milano e successivamente costretto a riparare
in fuga a Lugano dove muore il 6 febbraio 1869.
Carlo Cattaneo è
ricordato per il suo pensiero politico federalista. Pur avendo combattuto nelle
cinque giornate di Milano, si oppone al progetto di unificazione dei Savoia
preferendo al suo posto un modello di Stato confederato sulla stregua di quello
svizzero.
Per non giurare
fedeltà ai Savoia rifiuta di tornare in Italia, rinunciando anche al posto in
Parlamento come neoeletto deputato nelle file dei repubblicani. Rispetto a
Mazzini, Cattaneo è più pragmatico e più vicino alle idee illuministe. E'
considerato uno dei padri del federalismo. Secondo Cattaneo i popoli possono
gestire meglio la loro partecipazione alla cosa pubblica soltanto ricorrendo al
federalismo ed evitando di delegare la propria libertà a popoli lontani dalle
proprie esigenze. Da qui la sua contrarietà al Regno dei Savoia.
Carlo Cattaneo è
anche ricordato per le sue forti convinzioni liberiste.
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