5. Il basso impero - Dopo 42 anni di regno della dinastia dei
Severi, con l’assassinio nel 235 di Alessandro Severo da parte della
soldatesca ammutinata, la situazione politica del Basso Impero precipitò. I militari elessero imperatore il centurione
Massimino (primo imperatore di umili origini). Dopo di lui, ucciso da
una cospirazione del senato, per trentacinque anni, in uno stato di anarchia
militare, si succedettero ventuno imperatori[1] che
morirono quasi tutti di morte violenta.
Il potere imperiale quasi non
esisteva più: regnava l’anarchia
·
i Germani,
sospinti da tribù provenienti dalle steppe euroasiatiche, premevano alle
frontiere del mondo romano.
·
l’economia
entrò in crisi perché dall’estero non affluivano più ricchezze e l’inflazione
monetaria si accentuava, gettando nella miseria gran parte del popolo romano
·
la cultura
classica, tramontò sommersa da nuove dottrine filosofiche e dal diffondersi
del Cristianesimo.
Per salvaguardare la pace Roma fu
costretta a pagare tributi a parecchi popoli vicini e nonostante questo:
·
i Parti
inviarono una spedizione contro Antiochia e da strappare ai Romani il controllo
sull’Armenia,
·
i Goti
occupavano la Calcedonia e Nicomedia.
Aureliano (270-275 d.C.), un imperatore di origine illirica tentò
di riprendere in mano la situazione:
·
fortificò le città,
·
condusse una campagna contro la regina di
Palmira (Siria), Zenobia,
·
recuperò la Gallia, la Spagna, la Bretagna.
·
tentò di rialzare il prestigio dell’imperatore
dinanzi al popolo facendosi proclamare emanazione del sole.
Ma l’Impero romano era
travagliato da una crisi difficilmente sanabile.
La pressione dei barbari alle
frontiere, insieme con l’anarchia militare che dilagava all’interno, sarebbe
stata una delle cause della decadenza e, in seguito, dello smembramento
dell’Impero.
Alla preoccupante situazione
politica si era aggiunta anche una gravissima crisi socio-economica:
·
La borghesia,
sulla quale l’Impero aveva trovato appoggio nei suoi giorni migliori, si era
ormai paurosamente impoverita a causa delle continue rapine e violenze delle
soldatesche scatenate;
·
le campagne
erano state abbandonate dai coltivatori.
·
la sproporzione
fra le masse sempre più povere e la minoranza sempre più aggressiva dei
privilegiati.
Questa situazione provocò anche
una crisi demografica proprio nel momento in cui la pressione barbarica sui
confini germanici, danubiani e orientali richiedeva maggiori forze per essere
contenuta. Imperversava una grave crisi monetaria che, in breve tempo, portò ad
una altissima inflazione; i prezzi salirono così alle stelle, aggravando la
miseria dei ceti popolari.
Diocleziano, imperatore
dal 284, cercò di risollevare le sorti dell’Impero. Dal periodo augusteo fino a
Diocleziano, la struttura dell'Impero Romano si era evoluta in una sorta di
dualismo tra:
·
Roma,
amministrata da Senato,
·
l'Imperatore,
che invece percorre l'impero e ne amplia o difende i confini.
Il rapporto tra Roma e l'Impero è
ambivalente, se essa è il punto di riferimento ideale della romània, pure il potere passa
gradualmente all'Imperatore che sposta il suo luogo di comando man mano si
sposta nell'Impero, e si assiste ad un chiaro decadimento di Roma.
Nel basso impero con l'Imperatore
si spostavano migliaia di persone, compresi i funzionari, i dignitari, perfino
la zecca. Un istituto particolare è quello del comitatus. L'imperatore stabilisce alcune residenze imperiali tra
cui
·
in Oriente Nicomedia e Sirmio,
·
in Occidente Milano e Treviri.
Gli imperatori provenivano spesso
dalle zone periferiche dell'Impero e, proprio per questo, erano pervasi da un
più profondo sentimento di romanità: molti di loro tuttavia quasi non
conoscevano Roma, la vita militare li costringeva a vivere in prossimità della
frontiera danubiana, in Siria, Mesopotamia o Britannia e per questo le loro
visite a Roma diventarono sempre più rare ed avvenivano o per celebrare un
trionfo, o per esercitare una forma di controllo su un Senato sempre più
esautorato.
La pressione dei barbari
sull'Impero non sempre è distruttiva, nel senso che molti barbari aspiravano a
far parte dell'Impero, stanziandosi sul territorio o offrendosi al servizio di
questo. Per valorizzare i vasti territori delle province di frontiera, il
governo di Roma, mancando di mano d’opera decise di insediare sul suolo
romanizzato, nelle province di frontiera, i Germani, eccellenti agricoltori,
promuovendoli così al rango di cittadini romani. L’operazione presentava,
inoltre, il vantaggio di formare, lungo il limes,
una barriera umana utile per la difesa dell’Impero. Il governo infatti doveva
assoldare in numero sempre più elevato mercenari stranieri, poiché gli italici
e i cittadini romani disertavano sempre più il servizio militare, abituati alla
vita comoda dovuta alle grandi ricchezze affluite in Roma con le conquiste. Si
determinò così al di qua dei confini, un’infiltrazione pacifica di Barbari che
presto avrebbero esercitato un ruolo determinante nella caduta dell’Impero.
Quando infatti si accorgevano che il rapporto di forze era loro favorevole, a
volte i capi barbari non esitavano a rompere gli indugi ed a misurarsi in
battaglia con le forze imperiali[2].
L’Impero romano, dall’epoca delle
conquiste, era costituito principalmente dai Paesi mediterranei disposti
intorno al «Mare nostrum». È vero che Mario, e in seguito Cesare, avevano
tentato di estendere alle foreste nordiche il dominio romano, ma i Barbari di queste regioni, non si erano
lasciati sedurre, né tanto meno domare; Roma dovette accontentarsi di fissare
il limes lungo il Reno e il Danubio.
Al di là si trovava la Germania, dominio di svariate tribù di
contadini-guerrieri:
·
al Nord Franchi, Vandali, Sassoni, Longobardi;
·
a Oriente, nelle pianure dell’Ucraina Ostrogoti
e Visigoti.
Quando nel 305 Diocleziano abdicò
per ritirarsi a Spalato, i due Cesari, Galerio e Costanzo Cloro, si trovarono
elevati al rango di Augusti; la loro morte, qualche anno dopo, aprì una lunga
serie di lotte per il potere supremo.
Costantino, figlio di Costanzo,
grazie all’appoggio dell’esercito, riuscì a sbarazzarsi successivamente di
tutti i suoi rivali d’Occidente e d’Oriente e fissò la sua capitale a Bisanzio,
da lui ribattezzata Costantinopoli[3].
Ancora prima dell’ascesa di
Costantinopoli, Roma aveva già perduto la sua qualità di centro del mondo
romano perché la sua posizione non offriva più alcun interesse preminente, né
dal punto di vista strategico, né da quello politico.
·
L’Occidente, ormai indebolito dalle invasioni
barbariche e dalla crisi finanziaria, non era più una sorgente di potenza e di
civiltà.
·
L’Oriente, invece, presentava ancora numerose
attrattive dal punto di vista culturale e soprattutto sul piano commerciale.
Cosciente di tale squilibrio,
Costantino nel 330 d.C. decise di trasferire in Oriente il centro vitale del
governo.
Il successore di Costantino, Giuliano,
cercò di mantenere l’equilibrio tra i sostenitori del Cristianesimo e quelli
del paganesimo; atteggiamento che gli valse da parte dei Cristiani il
soprannome di Apostata, cioè di rinnegatore
della religione cristiana; egli, infatti, salito al trono professò
pubblicamente il paganesimo.
Il suo successore, Teodosio, fece
invece sfoggio di una fede cristiana intransigente: un editto, promulgato nel
392, prescriveva l’abolizione del culto pagano; di conseguenza furono demoliti
i templi, spezzate le statue, proibiti i Giochi Olimpici. In Oriente, il
Cristianesimo divenne religione di Stato obbligatoria e l’Imperatore intervenne
nella definizione dei dogmi, dividendo con il patriarca di Costantinopoli la
direzione della Chiesa cristiana. In Occidente invece si affermava in quello
stesso tempo l’indipendenza del potere spirituale da quello temporale.
La fondazione di Costantinopoli
rappresentò la prima tappa verso la scissione fra l’Occidente e l’Oriente
romano che divenne definitiva alla morte dell’imperatore Teodosio I, nel 395,
quando l’Impero andò diviso fra i suoi due figli Arcadio e Onorio: nasceva così
l’Impero d’Oriente.
A Costantinopoli i Goti
civilizzati erano stati ammessi nell’amministrazione dello Stato, ma alle frontiere
del Danubio si ammassava la terribile tribù degli Unni. Con loro Teodosio II
dovette scendere a patti, acquistando la pace per mezzo di un tributo. Del
resto la diplomazia bizantina riuscì sempre ad allontanare da Costantinopoli le
minacce troppo pressanti; nel 488, per esempio, l’imperatore Zenone si sbarazzò
del capo ostrogoto Teodorico, incaricandolo di andare a combattere l’erulo
Odoacre, allora padrone dell’Italia. La tranquillità dell’Impero d’Oriente fu così
salvaguardata.
a) Diocleziano -
Diocleziano dovette affrontare la disastrosa situazione quando nel 284 assunse
il potere imperiale. Divise il potere con il commilitone Massimiano a cui
affidò il compito di governare l’Occidente. Sedi degli Augusti erano Nicomedia
e Milano, capitale d’Occidente fino al 404.
Domata una ribellione in Egitto,
Diocleziano si dedicò alla riorganizzazione dell’Impero. Ripartì il territorio
in 12 diocesi che comprendevano più province. Tentò di consolidare le finanze
stabilendo un tetto a salari e prezzi ed imponendo un regime di doppia
tassazione, sulla proprietà fondiaria e sulla persona.
Nel 293 creò la tetrarchia
un sistema di governo nel quale l’autorità sovrana si era divisa in quattro
parti, tanto che, nei decreti ufficiali, comparve per la prima volta il plurale
maiestatis
Divise l’Impero in due parti, una
orientale e una occidentale, ciascuna delle quali avrebbe dovuto essere
governata da un imperatore, un Augusto, assistito da un Cesare, che sarebbe
diventato, automaticamente, il suo successore. I due Augusti scelsero
rispettivamente come capitali Milano e Nicomedia mentre Roma conservò solo una
preminenza morale in base alla quale il potere fu ripartito tra due Augusti,
lui e Massimiano.
In questo modo veniva inaugurata
l’epoca del dominato (da dominus, signore).
L’Impero conobbe di nuovo una
certa prosperità, ma la libertà individuale subì molte restrizioni:
·
fu vietato abbandonare il proprio mestiere,
·
i coloni furono vincolati alla terra,
·
la qualifica di cittadino scomparve sostituita
da quella di suddito.
Nel 303, di fronte
all’opposizione suscitata dal rilancio del carattere divino del l’imperatore,
emanò una serie di editti di persecuzione contro i cristiani.
Nel 305, malato, depose il potere
con Massimiano a favore dei Cesari.
Con l’istituzione della tetrarchia, le spinte eccentriche furono
in qualche modo frenate. Nonostante il carattere autoritario, la tetrarchia
non si rivelò una formula di governo stabile, poiché subito dopo i primi
tetrarchi essa fu corrosa dalle inevitabili contese dei loro successori.
Inoltre si verificò in questi anni una progressiva marginalizzazione delle aree
più antiche dell'impero a vantaggio di un oriente assai più prospero quanto a
politica, amministrazione e cultura.
b) Costantino - Dopo
l’abdicazione di Diocleziano e Massimiano sembrò funzionare il meccanismo della
tetrarchia: i due Cesari divennero Augusti e nominarono altri due Cesari.
Alla morte di Costanzo Cloro si
scatenò la lotta alla successione. Tra tutti i pretendenti prevalsero:
·
in Occidente il figlio di Costanzo Cloro,
Costantino (che sconfisse il rivale Massenzio nella battaglia di Ponte
Milvio[4] a Roma nel 312)
·
in Oriente Licinio (nominato da Diocleziano,
intervenuto per calmare i contrasti).
Nel 313 i due imperatori,
incontratisi a Milano, emanarono un Editto, con il quale concedevano libertà di
culto ai cristiani e promulgavano leggi in loro favore sebbene un editto di
tolleranza fosse già stato emesso, in favore dei Cristiani, da Galerio, nel
311.
Nel 324, quando Licinio prese a
perseguitare di nuovo i cristiani, Costantino gli mosse guerra e, sconfittolo,
divenne unico imperatore sia per l’Occidente sia per l’Oriente, con suo figlio
Costanzo come Cesare, ristabilendo così ristabilì oltre che la riunificazione
di tutti i domini romani anche l’ereditarietà del potere imperiale.
Il regno di Costantino fu
contraddistinto da due fatti d’importanza capitale per l’evoluzione
dell’Impero: il riconoscimento ufficiale del Cristianesimo e la fondazione di
Costantinopoli.
Rese quindi più efficiente
l’esercito e ampliò l’apparato burocratico, inoltre la figura dell’imperatore
fu definitivamente assimilata a quella del sovrano assoluto di stampo
orientale, circondato da un’aura sacrale.
Sotto il regno di Costantino la
religione cristiana assunse se non ancora ufficialmente, la posizione di
religione privilegiata, per quanto Costantino non avesse ripudiato nettamente
il culto solare di Mitra e solo in punto di morte si fosse convertito al
Cristianesimo. Nei confronti del Cristianesimo egli adottò una politica sempre
più favorevole, arrivando a esortare i sudditi orientali ad abbracciare questa
religione e affidando ai cristiani incarichi nell’esercito e nella pubblica
amministrazione. Politicamente, Costantino seguì molto da vicino le vicende
della Chiesa, allora in fase di organizzazione, nella quale le dispute
teologiche si succedevano numerose e accese.
Nel 325, quando una d’esse, sorta
a proposito di un dogma sostenuto dal prete Ario, sembrò minacciare l’ordine
interno, l’Imperatore convocò a Nicea, un concilio di prelati che condannò
formalmente l’eresia ariana.
Nel 332, dopo aver sconfitto i
Goti, Costantino morì nel 337, mentre si preparava ad affrontare i Persiani.
c) Da Giuliano a Teodosio – Alla
morte di Costantino gli succedettero i tre figli Costante, Costanzo e
Costantino II. Costanzo, prevalso sui fratelli, scelse come successore
Giuliano, il generale che aveva sconfitto gli Alamanni nel 357.
Questi, circondatosi di
intellettuali e filosofi pagani cercò di escludere i cristiani dalle cariche
dirigenziali e tentò di restaurare il paganesimo (i cristiani lo
soprannominarono l’Apostata, cioè il Rinnegatore, poiché aveva
abbandonato la religione cristiana). Per acquistare prestigio presso il popolo
progettò di eliminare totalmente l’Impero persiano ma morì in battaglia. Verso
la fine del IV sec. i Goti, spinti dagli Unni, arrivarono al confine danubiano
e chiesero di essere ammessi nell’Impero.
Valente, imperatore d’Oriente,
accettò, sperando di utilizzarli nell’esercito ma i continui saccheggi nelle
regioni imperiali portarono alla guerra. Nel 378 a Adrianopoli, in Tracia,
l’esercito romano fu duramente sconfitto. I Goti dilagarono allora in Tracia,
saccheggiando e distruggendo. Graziano, già imperatore d’Occidente, rimase sul
trono, mentre in Oriente fu eletto imperatore un generale spagnolo, Teodosio nel
379.
Invece di continuare a
combattere, Teodosio contrattò la pace, i Goti divennero alleati
dell’Impero, sposarono donne romane ed ebbero incarichi dirigenziali. Graziano
e Teodosio, nel 380, promulgarono l’Editto di Tessalonica, con il quale
il Cristianesimo diventava l’unica religione dell’Impero e veniva cancellata
ogni usanza pagana (sacrifici, giochi olimpici, templi).
T La tomba nel Busento[5]
Cupi a notte canti suonano
Da Cosenza su ‘l Busento,
cupo il fiume gli rimormora
dal suo gorgo sonnolento.
Su e giù pel fiume passano
E ripassano ombre lente:
Alarico i Goti piangono
Il gran morto di lor gente.
Ahi sì presto e da la patria
così lungi avrà il riposo,
mentre ancor bionda per gli omeri
va la chioma al poderoso!
Del Busento ecco si schierano
Su le sponde i Goti a prova,
e dal corso usato il piegano
dischiudendo una via nuova.
Dove l’onde pria muggivano,
cavan, cavano la terra;
e profondo il corpo calano,
a cavallo, armato in guerra.
Lui di terra anche ricoprono
E gli arnesi d’or lucenti;
de l’eroe crescan su l’umida
fossa l’erbe de i torrenti!
Poi ridotto ai noti tramiti,
il Busento lasciò l’onde
per l’antico letto valide
spumeggiar tra le due sponde.
Cantò allora un coro d’uomini:
"Dormi, o re, nella tua
gloria!
Man romana mai non violi
La tua tomba e la memoria!"
Cantò, e lungo il canto uditasi
Per le schiere gote errare:
recal tu, Busento rapido,
recal tu da mare a mare.
d) Il crollo dell’Impero
d’Occidente – Morto Teodosio, unico imperatore dalla morte di Graziano,
gli succedettero i figli Arcadio a Oriente e Onorio ad Occidente che, ancora
giovani, furono affidati al generale di origine vandala Stilicone.
I Goti, controllati tramite
concessioni di terre e denaro, divennero sempre più esigenti e decisero di
penetrare in Italia guidati da Alarico. Stilicone, nonostante li avesse
sconfitti, patteggiò la pace. Altri barbari premevano in Gallia e Spagna:
Svevi, Alamanni e Vandali. La classe dirigente, trasferita la capitale a
Ravenna e fatto uccidere Stilicone, cercò di affrontare gli invasori.
Alarico, nel 410, saccheggiò
Roma; il suo successore, Ataulfo, fondò nelle Gallie il primo Regno
barbarico e sposò la sorella di Onorio. Nel frattempo, i Vandali di Genserico
conquistarono Cartagine, impadronendosi della provincia d’Africa nel 429.
Nel 430 l’Impero d’Occidente era
costituito dall’Italia, da parti della Gallia e da poche terre nei Balcani.
All’inizio del V sec. fecero irruzione in Europa, saccheggiando molte città
orientali, gli Unni, popolazione asiatica guidata dal feroce Attila.
Il generale romano Ezio, alleatosi con i Visigoti, li affrontò e sconfisse ai Campi
Catalaunici, nella Francia del nord nel 451.
Quando Attila tornò in Italia,
l’anno seguente, devastando il Veneto, gli fu mandato incontro il papa Leone
I, per contrattare la pace. Colpiti dalla peste, gli Unni si ritirarono e
Attila morì nel 453 in Pannonia. Cessato il pericolo degli Unni, l’Impero era
ormai stremato. Capo effettivo, nonostante l’imperatore fosse Valentiniano III,
discendente di Teodosio, era il generale Ezio.
Morto Valentiniano III nel 455 i
Vandali devastarono Roma spogliandola di tutte le sue ricchezze. Dopo un
periodo in cui regnarono vari imperatori controllati dal barbaro Ricimero, il
patrizio Oreste fece proclamare imperatore il figlio Romolo Augustolo.
Dopo pochi mesi, costui fu
deposto da Odoacre, capo dell’esercito barbaro al servizio dell’Impero, che
accettò da Zenone, imperatore d’Oriente, di governare l’Italia. Di fatto era la
fine dell’Impero d’Occidente nel 476.
T La filosofia è l’alimento delle
eresie
di Tertulliano
La condizione del tempo presente ci spinge ad avvertire che non
dobbiamo meravigliarci di queste eresie: sia del fatto che esistono, era
infatti stato preannunziato che esse sarebbero sorte [Mt. 24,24]; sia del fatto
che minano la fede di alcuni, perché esistono appunto perché la fede, messa
alla prova, ne fosse anche confermata. Non c’è dunque ragione ed è sciocco che
i più si scandalizzino perché le eresie abbiano tanta forza: se non la
avessero, non esisterebbero neppure. Infatti quando qualcosa esiste, in
qualsiasi modo, come ha un motivo per esistere, così ha anche la forza grazie a
cui esiste e non può non esistere. [...]
Sono queste le dottrine di uomini e di demòni per le orecchie che non
sanno trovar pace [1Tim. 4,3], sorte dall’ingegno della sapienza mondana. Il
Signore la ha chiamata follia, e ha scelto la stoltezza del mondo per
confondere anche la filosofia [1Cor. 1,27]. È la filosofia stessa la materia
della sapienza mondana, temeraria interprete della natura divina e dei suoi
disegni. Certamente le eresie stesse sono istigate dalla filosofia. Da qui
provengono in Valentino gli Eoni e non so quali infinite forme e una trinità
umana: lui era platonico. Da qui viene il dio di Marcione, migliore per la sua
impassibilità: lui veniva dagli Stoici. E quando si dice che l’anima perisce,
si segue Epicuro. E quando si nega la resurrezione della carne, si prende da
una qualsiasi di tutte le scuole filosofiche. E dove la materia è equiparata a
Dio, è l’insegnamento di Zenone. E dove si dice qualcosa di un Dio di fuoco,
interviene Eraclito. Sono gli stessi temi che vengono trattati dagli eretici e
dai filosofi: da dove viene il male e perché? da dove viene l’uomo e come è
sorto? e ciò che ultimamente Valentino s’è chiesto: da dove viene Dio? deriva
dall’Entimesi o dall’Ectroma? Disgraziato Aristotele, che hai loro insegnato la
dialettica, capace di costruire e distruggere, sfuggevole nelle asserzioni,
forzata nelle sue congetture, difficile nelle argomentazioni, creatrice di
discussioni, molesta anche a sé stessa, che discute tutto per non concludere
nulla su nessun tema. Di qui derivano quelle favole, quelle genealogie
interminabili, quelle questioni oziose, quei discorsi che strisciano come un
cancro. L’apostolo, scrivendo ai Colossesi, ce ne mette in guardia nominando
esplicitamente la filosofia: «Guardate che non vi sia qualcuno che v’inganni
con la filosofia e con una vuota seduzione, secondo la tradizione umana e
contrariamente alla provvidenza dello Spirito santo» [Col. 2,8]. Egli era stato
ad Atene [At. 17,15], e aveva conosciuto questa specie di sapienza umana che
finge e falsifica la verità, essa stessa divisa nelle sue eresie secondo la
varietà delle sette che si contrastano l’una l’altra. Che c’è dunque in comune
fra Atene e Gerusalemme? che cosa fra l’Accademia e la Chiesa? che cosa fra gli
eretici e i cristiani? La nostra dottrina nasce dal portico di Salomone [At.
5,12]; fu lui stesso che ci ha insegnato che Dio si deve cercare nella
semplicità di cuore. Se la vedano un po’ coloro che hanno messo fuori un 2/4
cristianesimo stoico, platonico, dialettico. Noi non abbiamo bisogno di essere
curiosi dopo Gesù Cristo, né di fare ricerche dopo il Vangelo. Quando crediamo,
non desideriamo credere oltre, perché prima abbiamo creduto che non c’è
nient’altro da credere.
T Una conversazione fra amici
Da Octavius di Minucio Felice
Minucio Felice dapprima ricorda l’amico Ottavio. Inizia poi a
raccontare la conversazione durante la quale Ottavio convertì al cristianesimo
il comune amico Cecilio. Ottavio, Cecilio e Minucio si recano per la cura delle
acque ad Ostia dove, durante una passeggiata lungo la spiaggia, Cecilio tocca e
bacia una statua di Serapide. Ottavio rimprovera quindi Minucio per non aver
messo in guardia Cecilio dalla venerazione superstiziosa delle statue. Nel
frattempo i tre amici continuano a passeggiare e vedono alcuni ragazzi che
giocano con i sassi sulla riva del mare. Cecilio, indifferente al gioco dei
ragazzi, rimane turbato dalle parole di Ottavio sulla superstizione e gli
chiede di poter discutere sull’argomento.
(1) Mentre riflettevo e rievocavo nel mio animo il ricordo di Ottavio,
caro e fedelissimo amico, mi restò addosso tanta dolcezza e affetto per lui che
mi parve di ritornare al passato, più che semplicemente rievocare con la
memoria cose ormai compiute e passate: a tal punto la sua immagine, quanto più
era sottratta alla vista, era avviluppata al mio cuore e ai miei sensi più
profondi. Giustamente quell’uomo illustre e pio andandosene ci ha lasciato
immensa nostalgia di lui, perché aveva verso di me tale affetto che nelle cose
sia gravi che leggere si trovava sempre in accordo con me, voleva e non voleva
le stesse cose: si sarebbe potuto credere che eravamo un’anima sola divisa in
due. Era il solo a conoscenza delle mie passioni, e il solo compagno anche dei
miei errori, e quando, dissipata la caligine, emersi dall’abisso delle tenebre
alla luce della sapienza e della verità, non respinse il compagno, ma, cosa più
onorevole ancora, lo anticipò. Mentre dunque ripassavo col pensiero tutto il
tempo della nostra comunanza e familiarità, fermai particolarmente la mia
attenzione su quella conversazione in cui egli convertì alla vera religione con
serissimi argomenti Cecilio, che era ancora attaccato alle vanità della
superstizione.
(2) Era venuto a Roma per affari e per vedermi, lasciando la casa, la
moglie, i figli che – cosa che li rende più amabili – erano negli anni
dell’innocenza e ancora balbettavano parole a metà, con un accento reso più
dolce dall’impaccio della lingua. Non posso esprimere a parole quanta esultanza
ho provato al suo arrivo, perché la mia letizia era aumentata dalla sorpresa
della presenza del mio amico. Dopo uno o due giorni in cui l’assiduità della
nostra compagnia aveva saziato l’avidità del nostro desiderio, e ci eravamo
reciprocamente raccontati quello che a motivo della lontananza ignoravamo l’uno
dell’altro, decidemmo di andare a Ostia, bellissima città, perché la cura delle
acque era a me gradita e appropriata per asciugare gli umori del mio corpo, e
anche perché le ferie per la vendemmia avevano allentato le attività del Foro.
Infatti la stagione estiva stava declinando verso il clima temperato
dell’autunno. Una mattina mentre camminavamo verso il mare perché la brezza
ristorasse dolcemente le nostre membra e la sabbia cedesse mollemente, con
nostro grandissimo piacere, sotto i nostri passi, Cecilio vide una statua di
Serapide e, come usa fare il volgo superstizioso, la toccò e la baciò.
Ottavio allora disse: “Non è da uomo onesto, fratello Marco, lasciare
un uomo che a casa e fuori ti sta sempre accanto in una tale cieca ignoranza da
permettere che in pieno giorno vada a sbattere in pietre, per quanto effigiate,
profumate e coronate: sai bene che la vergogna del suo errore ricade su di te
non meno che su di lui”. Durante queste sue parole avevamo già attraversato il
centro della città e ci trovavamo sulla spiaggia aperta. Là le onde lievi si
infrangevano all’estremità della sabbia come spianandola per il passeggio, e
poiché il mare è sempre in movimento anche quando non c’è vento, sebbene non
invadesse la terra con le onde bianche e spumeggianti, ci divertimmo moltissimo
a guardare le increspature e le sinuosità, mettendo i piedi proprio sul limite,
mentre le acque volta a volta fluivano verso di noi e si ritiravano assorbendo
nel loro seno le nostre impronte. Così camminando lentamente e tranquillamente
costeggiavamo le dolci curve della riva, ingannando il cammino con la
conversazione, che riguardava soprattutto il racconto che Ottavio faceva del
suo viaggio per mare. Ma dopo aver percorso un tratto di strada discorrendo,
tornammo indietro sui nostri passi per la medesima via, e quando arrivammo al
punto dove stavano a riposo delle barche tirate a secco e posate su tronchi
d’albero al riparo dall’umidità del terreno, vedemmo dei ragazzi che con grandi
grida giocavano a gettare in mare dei ciottoli. Questo gioco consiste nel
raccogliere sulla spiaggia un sasso tondo e levigato dalle acque; poi,
tenendolo tra le dita dalla parte del palmo, ci si piega il più possibile verso
terra e lo si fa rotolare in mare in modo che il proiettile rasenti il pelo
delle acque o galleggi scivolando con un movimento leggero, o balzi riemergendo
sulla cresta dell’onde con continui rimbalzi. Vincitore della gara fra i
ragazzi era quello che mandava il suo ciottolo più lontano e con il maggior
numero di rimbalzi.
Mentre noi ci divertivamo a quello spettacolo, Cecilio non ci badava e
la gara non gli dava piacere, ma taceva stando da parte angosciato: il suo
volto dimostrava che stava soffrendo. Io gli dissi allora: “Che succede? Come
mai, Cecilio, non ritrovo la tua vivacità e l’allegria che hai negli occhi
anche nei momenti difficili?”. Lui rispose: “Mi tocca e mi rimorde il discorso
fatto poco fa dal nostro Ottavio, che ti ha rimproverato di negligenza per
accusare senza parere me di una cosa più grave, l’ignoranza. Mi spingerò ancora
più in là: devo trattare di nuovo interamente la questione con Ottavio. Se è
d’accordo, discuterò con lui come adepto di quella setta, in modo che capirà
subito che è più facile discorrere tra amici che confrontare le teorie.
Sediamoci dunque su questi argini di pietra che si protendono in mare a
protezione dei bagnanti, in modo da riposarci dalla passeggiata e discutere con
più attenzione”. Ci sedemmo come lui aveva proposto: io stavo in mezzo avendo
ciascuno di loro al mio fianco non in segno di omaggio, di onore o di
distinzione sociale, perché l’amicizia rende sempre gli uomini uguali se già
non li trova uguali, ma perché in qualità di arbitro potessi ascoltare i due
contendenti tenendoli separati.
6. Il Cristianesimo del terzo
secolo - Il III secolo fu un periodo tra i più movimentati della
storia cristiana: esso vide infatti l’accrescersi della nuova fede e la sua
capillare diffusione in tutto l’impero, ma anche il propagarsi di eresie e,
soprattutto, vide persecuzioni da parte dello Stato e, con esse, l’insorgere di
nuovi gravi problemi disciplinari.
a) La persecuzione di Decio
- Decio
che aveva conquistato nel 248 il trono imperiale, seguì una politica di restaurazione religiosa,
inaugurata con il sacrificio annuale sul Campidoglio
nel Gennaio del 250, con l’ordine che il sacrificio fosse ripetuto nei
Campidogli di tutte le città dell’impero.
Quello che fino ad allora era
stato un atto
formale divenne così una sorta di censimento religioso,
con la persecuzione di quanti non si fossero presentati per fare sacrifici e
tra questi c’erano, ovviamente, i cristiani.
Vennero immediatamente arrestati e
uccisi i vescovi delle più importanti città imperiali: Fabiano a
Roma, Babila
ad Antiochia, Alessandro a Gerusalemme e molti altri con loro.
La persecuzione del 250 fu un duro colpo per
la Chiesa, anche a causa delle defezioni di molti cristiani.
b) I ‘lapsi’ e il Concilio di Cartagine – Gli apostati,
coloro che avevano preferito rinnegare la propria fede per aver
salva la vita, furono generalmente definiti lapsi o caduti.
Quello dei lapsi divenne
presto un serio problema nella Chiesa antica, soprattutto dopo la persecuzione
di Decio: molti di loro chiedevano, infatti, a persecuzione finita, di essere riammessi
nella Chiesa. Questo procurò molte preoccupazioni pastorali.
Si imposero così trattamenti
diversi: ad esempio, lo scismatico Novato aveva un atteggiamento di
grande tolleranza
nei loro confronti, a differenza di Novaziano che era invece
particolarmente rigido.
Al Concilio di Cartagine,
nel 251, si decise, con un certo equilibrio, che i lapsi fossero
riammessi alla piena comunione con la Chiesa soltanto in punto di morte.
c) La persecuzione di Valeriano – Una nuova persecuzione scoppiò nel 257
ad opera dell’imperatore Valeriano. Questi si limitò, in un primo momento, a confiscare
i beni ecclesiastici e a destituire i cristiani che ricoprissero cariche pubbliche
o comunque importanti.
In seguito cercò soprattutto di colpire le gerarchie
della Chiesa. Trovarono così la morte in questa persecuzione, tra gli altri, S.
Cipriano
e il vescovo di Roma Stefano.
T Inno a Roma di Rutilio
Namaziano
Ascolta, o regina, tu la più bella
del mondo su cui signoreggi, o
Roma,
o madre di dei, per i tuoi
templi
noi non siamo lontani dal cielo:
te noi cantiamo e canteremo
sempre,
sino a che lo concederanno i fati.
Nessun uomo, sino a quando ha
vita,
può dimenticarsi di te.
Un colpevole oblio annienti il
sole
prima che svanisca dal mio cuore
la venerazione che ho per te.
Tu estendi infatti i tuoi
benefici,
simili a raggi sole,
per le terre che sono circondate
dal fluttuante Oceano.
Lo stesso Febo, che il mondo
intero
riveste e rischiara di sua luce,
compie il suo corso in tuo
onore:
dalle tue terre esso risorge,
nelle tue terre tramonta.
La Libia dalle infuocate arene
non ostacolò il tuo cammino,
né ti respinge l’Orsa,
sebbene armata dal suo intenso
gelo:
quanto le plaghe abitate si
estendono
verso i gelidi poli, tanta terra
è al tuo valore aperta.
Tu hai fatto per genti diverse
un’unica patria: fu gran fortuna
per genti barbare di essere annesse
al tuo dominio. Mentre tu offri ai vinti
di essere partecipi del tuo diritto,
hai fatto città
quello che prima era il mondo.
T Il sacco di Roma di San
Girolamo
Mentre così vanno le cose a Gerusalemme, dall’Occidente ci giunge la
terribile notizia che Roma viene assediata, che si compra a peso d’oro la
incolumità dei cittadini, ma che dopo queste estorsioni riprende l’assedio: a
quelli che già sono stati privati dei beni si vuol togliere anche la vita. Mi
viene a mancare la voce, il pianto mi impedisce di dettare.
La città che ha conquistato tutto il mondo è conquistata: anzi cade per
fame prima ancora che per l’impeto delle armi, tanto che a stento vi si trova
qualcuno da prendere prigioniero. La disperata bramosia fa sì che ci si getti
su cibi nefandi: gli affamati si sbranano l’uno con l’altro, perfino la madre
non risparmia il figlio lattante e inghiotte nel suo ventre ciò che ha appena
partorito.
[1] L’anarchia militare – Tra il 238 e il 284, periodo detto
dagli storici anarchia militare, il potere passò tra le mani di 21
imperatori di cui 19 perirono assassinati. Lo Stato era vicino al tracollo:
gruppi di Germani, tra cui i Goti varcavano i confini, a Oriente premeva
la dinastia dei Sassanidi, discendenti dei Persiani.
Durante
il regno di Gallieno (253-268), alcune regioni, organizzatesi autonomamente pur
rimanendo fedeli all’Impero, riuscirono a contenere l’avanzata nemica. Le
frontiere furono ristabilite al Reno e al Danubio.
L’anarchia
militare di questo periodo fu arrestata dai cosiddetti imperatori il lirici,
tutti nativi della Dalmazia, i quali furono tutti valenti soldati, fautori
della più rigida disciplina e fedeli all’ideale di Roma.
I
principali fra essi furono Claudio II, soprannominato il Gotico
(268-270) per le sue vittorie sui Goti e gli Alamanni.
Aureliano (270-275) che continuando
l’operato del suo predecessore cinse Roma di una poderosa cerchia di Mura (Mura
Aureliane).
Probo (276-282) e Caro (282-283)
che continuarono a difendere l’Impero contro le sempre più frequenti irruzioni
dei barbari.
[2] A
questo proposito è indicativa la clamorosa sconfitta subita da Valente da parte
dei Goti che successivamente distruggeranno anche Milano o il sacco di Roma da
parte di Alarico frustrato nella sua ambizione di venir nominato maresciallo
dell'Impero e sentitosi tradito dai romani che lo avevano lusingato con fallaci
promesse.
[3] Costantinopoli - Il luogo prescelto, un
piccolo borgo chiamato Bisanzio, godeva di una posizione strategica
eccezionale, sulla punta di una penisola che dominava le vie di comunicazione
dei Paesi posti tra il Mar Nero e il Mediterraneo; se vi si fosse costruita una
piazzaforte, questa avrebbe potuto sorvegliare e tenere a bada i Goti a nord
del Mar Nero e i Persiani a sud.
Il porto, d’altronde,
poteva controllare tutto il commercio tra i Paesi del Mediterraneo, quelli del
Vicino Oriente e le terre ricche di grano delle rive del Mar Nero. Per questi
motivi Costantino incominciò a edificare in quel luogo una «nuova Roma».
Nel 330 la città, chiamata
Costantinopoli, fu solennemente inaugurata.
[4] La
battaglia più importante fu quella di Ponte Milvio, nel corso della quale
Costantino avrebbe avuto la visione della croce e del crisma cristiano e
avrebbe udito queste parole: «In questo segno vincerai» Le truppe di Massenzio,
figlio di Massimiano, Augusto d’Occidente durante l’Impero di Diocleziano,
furono infatti sconfitte; Massenzio stesso morì annegato.
[5] Nella
notte del 24 agosto del 410 Alarico, Re dei Visigoti, entrò con il suo esercito
in Roma, passando per Porta Salaria. Seguirono tre giorni di saccheggi e
violenze, anche se pare che fosse stato impartito l'ordine di non sacrificare
vite umane e di risparmiare le chiese.
Dopo queste tre giornate,
che resteranno impresse a lungo negli occhi dei cittadini di Roma, i barbari
abbandonarono l’Urbe e si diressero verso il Sud della penisola, con
l’intenzione di raggiungere le coste africane per nuove invasioni e conquiste.
Ma ecco l’imprevisto: Alarico, allora quarantenne, colto da improvvisa
malattia, morì nei pressi dello Stretto.
Narra la leggenda che i
Visigoti, per evitare che mani romani potessero violare la tomba del loro re,
deviarono il fiume Busento, nei pressi di Cosenza, e seppellirono nel suo letto
Alarico in armi, insieme al suo cavallo ed al suo tesoro e successivamente
ripristinarono il normale corso delle acque. Infine, gli schiavi utilizzati per
deviare temporaneamente il corso del fiume vennero ammazzati, perché non
rivelassero il segreto.
La ballata è grave, cupa, come
l’episodio che rievoca, vissuto anch’esso in uno dei periodi più cupi della
decadenza dell’impero.
E’ interessante notare che la caduta
di Roma in mano ai barbari, dopo tanti secoli di gloria, fece un’impressione
enorme nei contemporanei (mai un barbaro aveva osato tanto dai tempi di
Brenno), tanto che vi fu chi presagì la prossima fine del mondo, e l’uomo che
di tale sbigottimento era stato il principale artefice, fu considerato, almeno
dalla sua gente, un grande eroe. Anche così si spiega il mistero con cui
vollero circondare la sua sepoltura.
Il poeta ha reso l’atmosfera da
leggenda di questo episodio con molta efficacia.
L’inconsueta opera che i compagni di Alarico compiono
per nascondere per sempre la salma del loro re, assume, nella solitudine della
morte e del luogo, una maestosa grandezza; le voci e i pianti dei guerrieri
risuonano cadenzati e gravi risvegliando nel nostro cuore una lunga e
misteriosa eco.