1 L'età del realismo - Il periodo 1861-1900, visto nel suo insieme, presenta
caratteri nettamente differenti da quelli del periodo risorgimentale. Mentre
durante il Risorgimento la preminenza di congiure, moti e guerre creava un
clima eroico, offrendo possibilità di spicco ad alcuni protagonisti, nei quali
si incarnavano i grandi ideali che erano sottesi al movimento stesso,
nell'epoca di cui ora ci occupiamo predominano i problemi della realtà
quotidiana: dell'amministrazione, dell'economia, delle tensioni sociali che
sommuovono le masse che stanno per venire in primo piano.
Un simile clima di abbandono dei grandi disegni assoluti ed
astratti e di aderenza alla realtà concreta si riscontra anche nel campo
culturale. Alla filosofia spiritualistica dell'età precedente si sostituisce il
positivismo, un movimento filosofico sorto in Francia ad opera di Augusto Comte (1798-1857). Esso,
caratterizzato da una sconfinata fiducia nelle scienze, voleva essere
soprattutto un metodo e, più precisamente, l'applicazione del metodo delle
scienze sperimentali al mondo umano. Ne favorì il sorgere l'incremento preso
dalle scienze della natura (fisica, chimica, biologia) tanto sul piano teorico,
quanto in quello delle applicazioni tecniche che avevano rivoluzionato il mondo
della produzione e della vita quotidiana. In Italia, già Cattaneo aveva condiviso la mentalità positivistica. Essa però si
diffuse da noi solo nell'ultimo ventennio del secolo, ad opera soprattutto del
filosofo Ardigò.
Questa
mentalità realistica, tesa ai fatti, ebbe la sua espressione in letteratura
soprattutto nella corrente del verismo; ma partecipano in qualche modo dello
spirito del realismo anche altri autori e correnti.
2 La rivoluzione industriale e la questione sociale in Europa
- Con il decollo dell'industria
nell'ultimo ventennio del secolo si verificò, anche in Italia, quella
rivoluzione industriale che già aveva trasformato la vita dell'Inghilterra e
della Francia e che ora vogliamo presentare nei suoi aspetti più clamorosi. La
rivoluzione industriale ebbe nei vari paesi dove prese piede, profonde e gravi
ripercussioni sociali. La manodopera necessaria all'industria fu reclutata
soprattutto nelle campagne dove a causa dell'incremento demografico e dei
progressi dell'agricoltura c'era sovrabbondanza di braccia. Si verificò così
un'imponente migrazione di contadini immiseriti verso i nuovi centri
industriali e verso le città, che furono circondate da una cintura di squallidi
e sterminati quartieri periferici. A mano a mano che prendevano coscienza della
loro mutata condizione e abbandonavano il vecchio modo di vita e le
consuetudini patriarcali, questi lavoratori si trasformarono in una nuova
classe sociale, cui fu dato il nome di proletariato.
Ciò che induceva migliaia di uomini a lasciare le campagne e
a entrare nelle fabbriche era soprattutto la prospettiva di un guadagno
regolarmente distribuito nel corso dell'anno e la speranza quindi di maggiore
tranquillità economica. Ma queste enormi masse non potevano tutte essere
assorbite dall'industria, soprattutto nei periodi di crisi. L'eccesso di
manodopera, che faceva incombere sui lavoratori la continua minaccia della
disoccupazione, permetteva ai padroni delle fabbriche di costringere i propri
operai a lavorare per salari da fame e con orari lunghissimi (fino a 14-16 ore
giornaliere). Lo sfruttamento non risparmiava neppure le donne e i fanciulli,
che erano anzi ricercati perché i loro compensi, fissati dall'uso, erano molto
inferiori a quelli degli adulti ed era consueto lo spettacolo di bambini di sette
otto anni impiegati in lavori estenuanti e pericolosi nelle officine e nelle
miniere. Le condizioni del proletariato erano aggravate ancora dalla mancanza
di norme assistenziali e dalla durezza delle leggi che proibivano le
associazioni tra i lavoratori e toglievano così loro la possibilità di unirsi e
lottare in difesa dei propri interessi.
Fin dai primi decenni dell'Ottocento, tuttavia, fremiti di
ribellione cominciarono a scuotere queste masse sottoposte a condizioni
disumane di vita e di lavoro, e la questione sociale si impose in tutta la sua
gravità all'attenzione degli uomini di Stato, degli economisti e di tutti
coloro cui stavano a cuore le sorti dell'umanità.
a)
La rivoluzione
industriale - Si tratta di un
fenomeno di importanza eccezionale, che ebbe il suo avvio in Inghilterra verso
la metà del secolo XVIII, quando il progresso scientifico permise
l'applicazione di nuovi ritrovati tecnici al mondo del lavoro e della
produzione. Nasceva l'industria nel senso moderno della parola. Tutto ciò avvenne
in concomitanza con un altro importante fenomeno: l'aumento della popolazione,
favorito dagli sviluppi della medicina. «La rivoluzione industriale si è
realizzata nell'Europa occidentale - scrive Pierre George - con carbone, ferro,
uomini». Ferro per la costruzione delle nuove macchine in sostituzione di
quelle di legno; carbone quale fonte principale di energia, in sostituzione
delle precedenti (forza animale, acqua, vento) e che venne applicata nella
macchina a vapore; uomini richiesti in gran numero per la produzione
industriale su larga scala. Circa mezzo secolo più tardi, la rivoluzione
industriale si estese agli altri Paesi d'Europa e le nuove scoperte
scientifiche, con le conseguenti innovazioni tecnologiche, diedero al processo
un ritmo sempre più veloce, portando, in tempi a noi più vicini, a
trasformazioni quali l'uomo non aveva vedute nei precedenti seimila anni di
storia.
b)
Nuove forme di
comunicazione e trasporti - Si devono
alla rivoluzione industrale le nuove forme di comunicazione (telegrafo, 1836;
telefono, 1871) e di trasporto (ferrovie e navi a vapore) che non solo
accorciarono le distanze, ma portarono alla costituzione, al di là dei mercati
nazionali, di un unico mercato mondiale.
c)
Nasce la
fabbrica - Le conseguenze della
rivoluzione industriale non riguardarono soltanto la creazione di nuove
macchine e di nuovi processi produttivi, ma si fecero sentire anche all'interno
della società, trasformandola. Sparivano le antiche forme di produzione (la
bottega, il laboratorio artigiano) e ne nascevano altre (la fabbrica).
All'artigiano si sostituiva l'operaio, anzi, masse di operai: uomini che
avevano lasciato la campagna, ove una agricoltura più razionale richiedeva meno
braccia, e si erano addensati attorno alle vecchie città o ai nuovi centri sorti
in vicinanza delle miniere.
d)
Nasce il
proletariato industriale - Si formava
così il proletariato industriale moderno, contemporaneamente al costituirsi e
all'affermarsi - con l'accentramento di imponenti mezzi di produzione nelle
mani di poche famiglie - del grande capitale.
e)
Conflitto tra
capitale e lavoro - Nella storia
dello sviluppo economico, al processo della rivoluzione industriale si
accompagna il sorgere, l'affermarsi e il precisarsi della questione sociale,
cioè del conflitto fra capitale e lavoro. Nascono le varie forme di socialismo,
cioè i tentativi di dare una risposta, non solo teorica, alle necessità del
proletariato. Infatti, mentre la borghesia, grazie agli sviluppi dell'industria
e del commercio, si rafforzava al punto di diventare la classe dominante,
detentrice del potere politico, le condizioni delle classi lavoratrici
continuavano ad essere miserevoli, peggiori, in molti casi, di quelle del
proletariato agrario. Di qui le violente reazioni, i moti di rivolta, e
l'invenzione di nuovi mezzi di lotta, quale lo sciopero.
f)
Il socialismo
scientifico di Marx -
L'interpretazione di questi fenomeni, e le proposte di soluzione, diedero luogo
alle varie dottrine socialiste, che vanno dalle forme di socialismo utopistico
(Saint-Simon, Proudhon, Babeuf, Owen, Blanqui) al socialismo scientifico di
Marx ed Engels, il socialismo degli strumenti di produzione. Il primo si limita
a proporre forme di società in cui i beni vengono equamente distribuiti, senza
preoccuparsi del processo che consente il passaggio dalla società attuale a
quella vagheggiata; il socialismo scientifico, invece, ricerca nella storia la
legge di trasformazione della società che porterà alla fine della società
capitalistica e al trionfo del proletariato e instaurerà una società basata sulla
comunione degli strumenti di produzione. Con l'abolizione della proprietà
privata dei mezzi di produzione, si sarà abolita anche la possibilità dello
sfruttamento dell'uomo da parte di un altro uomo. La dottrina marxista,
chiarendo le leggi che reggono il processo storico inteso come lotta di classe,
favorì la presa di coscienza del proletariato e gli diede fiducia nel successo
della sua lotta. Il testo in cui Marx ed Engels esposero i capisaldi del loro
pensiero fu il Manifesto dei comunisti, pubblicato nel 1848.
g)
Il progresso
tecnico e l'industria cambiano il mondo - Negli ultimi cinquant'anni dell'Ottocento la tecnica fece progressi
che sembrarono miracolosi; le tappe di tale sviluppo tecnico coincisero con una
serie di fondamentali invenzioni, tra le quali il telegrafo, il telefono
(Meucci e Bell), la dinamo (Pacinotti), il fonografo e la lampadina elettrica
(Edison). Negli ultimi anni del secolo Marconi fece i primi esperimenti di
telegrafia senza fili e i fratelli Lumière inventarono il cinematografo.
Apparvero per la prima volta in questo periodo mezzi di trasporto che ci sono
oggi familiari, come la bicicletta e l'automobile. Tra le nuove materie prime
si affermò l'alluminio, mentre nell'edilizia cominciò ad imporsi l'uso del
cemento armato. Tutte queste innovazioni rivoluzionarono le abitudini
quotidiane dell'uomo e l'ambiente in cui si svolgeva la sua vita. Alle
meraviglie della tecnica si accompagnò un gigantesco sviluppo industriale,
ancor più imponente di quello, già apparso notevolissimo, del periodo
precedente. Si calcola che negli ultimi trent'anni dcll'Ottocento la produzione
industriale nel mondo si sia quadruplicata. Ai paesi che già avevano una
tradizione industriale, Gran Bretagna, Belgio, Francia, Germania, si
affiancarono, fuori dell'Europa, gli Stati Uniti che in questi anni iniziarono
il loro travolgente progresso economico, e il Giappone che, uscito dal sistema
feudale che l'aveva tenuto nel più totale isolamento, cominciò a seguire
l'esempio dei paesi europei. Allo sviluppo tecnico e alla nascita di nuovi
bisogni, corrispose il sorgere di nuove industrie. A fianco di quella tessile,
siderurgica, meccanica, nacquero la grande industria chimica e l'industria
elettrica, di fondamentale importanza quest'ultima per lo svolgimento di ogni
altra attività. Anche la produzione agricola aumentò sensibilmente grazie
all'introduzione di macchine per la lavorazione della terra e ai concimi
chimici, mentre la navigazione a vapore e l'invenzione del frigorifero che
permettevano trasporti più rapidi e la conservazione delle carni, favorirono
l'importazione in Europa delle derrate alimentari anche dall'Argentina e dal
Canada. Sul mare i bastimenti a vapore, sulla terra i treni aumentarono la loro
velocità e collegarono ormai stabilmente tutte le città europee. Mentre i nuovi
sistemi di produzione industriale della carta ne diminuivano enormemente il
costo, la stampa fece grandi progressi permettendo una larghissima diffusione
dei giornali, delle riviste, dei libri. Intanto, le idee e le notizie trasmesse
per telegrafo passavano da un paese all'altro con estrema rapidità, dando
l'impressione che il mondo fosse divenuto improvvisamente più piccolo. Il volto
dei grandi paesi cambiò rapidamente: in vari Stati europei e nell'America
settentrionale l'attività industriale cominciò a prevalere ormai su quella
agricola e mentre il reddito per abitante nel mondo raddoppiava, anche la
popolazione continuava ad aumentare.
h)
Capitalismo ed
economia mondiale - La nuova
tecnica favorì la formazione di grossi complessi, in grado di impiegare ingenti
e costosi macchinari, mentre le piccole industrie con pochi operai e a
carattere quasi artigianale che erano state le protagoniste del precedente
sviluppo industriale, persero via via d'importanza. Insieme alle grandi industrie
sorsero le grandi banche per finanziare le nuove imprese: nasceva allora quello
che fu detto « il grande capitale ». I banchieri e i capi delle industrie
sembravano essersi sostituiti all'aristocrazia di un tempo e, oltre che nella
vita economica, essi acquistarono peso e importanza anche in quella politica,
esercitando la propria influenza sui capi militari perché venissero potenziati
gli eserciti promuovendo lo sviluppo dell'industria delle armi. E' il momento
dei magnati dell'industria: la grande industria, basata sulle macchine, divenne
la forza di propulsione di tutta la civiltà occidentale in quanto la sua
produzione, in continuo aumento, richiedeva un'espansione continua, cioè
spingeva a ricercare sempre nuovi mercati dove acquistare a basso costo le
materie prime, e vendere macchine e manufatti.Da questa vorticosa ricerca,
alimentata dalla produzione industriale, nasce una visione ormai mondiale
dell'economia e dei rapporti commerciali.
i)
Colonialismo e
imperialismo - Ebbe così origine
una vera e propria gara tra le potenze europee per assicurarsi il controllo dei
territori extraeuropei o con l'occupazione militare o con forme di
protettorato. Fu così che, nel corso dell'Ottocento, anche grazie ai nuovi
mezzi tecnici e alle nuove armi (l'invenzione della mitragliatrice è di questi
anni) si arrivò a conquistare, con relativamente pochi uomini, enormi territori
popolati da genti primitive. L'immenso continente africano, fino allora
praticamente sconosciuto, fu totalmente spartito tra le nazioni europee, anche
in Asia e in Australia la penetrazione e la colonizzazione dei bianchi assunse
grandi proporzioni, toccando anche l'impero cinese e le isole del Pacifico. Il
nuovo colonialismo si differenziava dal vecchio, non solo per le sue finalità
più spiccatamente economiche (ricerca di mercati e di materie prime,
investimento di capitali), ma anche perché ad esso andava congiunto
l'imperialismo, cioè la volontà di affermare la propria supremazia sulle altre
nazioni, se necessario anche con le armi. Non tutte le nazioni europee
seguirono una uguale politica coloniale: tra i dominatori più duri furono i
Portoghesi in Angola, e gli Olandesi in Indonesia. Fra i più saggi
amministratori e portatori di civiltà furono gli Inglesi che ai loro
governatori affiancarono spesso alcuni degli esponenti più preparati delle
popolazioni locali. Vi fu chi cercò in questo periodo di dare al colonialismo
una giustificazione morale, considerando compito dell'uomo bianco civilizzare i
popoli barbari e convertirli al cristianesimo. Ma queste giustificazioni
nascondevano soprattutto il disprezzo dell'uomo bianco per le altre razze. La
realtà del colonialismo fu l'assoggettamento del più debole ad opera del più
forte, lo sfruttamento sistematico delle risorse materiali e umane, la distruzione
di tradizioni e forme di vita diverse dalle europee. Tuttavia, proprio in
questi aspetti negativi si può cercare la funzione storica del colonialismo
che, risvegliando brutalmente popolazioni primitive o immerse in un sonno
secolare, le mise a contatto con le scoperte della scienza e della tecnica
occidentale e suscitò in loro un desiderio di progresso e di indipendenza,
destinato a sfociare nei movimenti di liberazione della nostra epoca.
j)
Conseguenze
sociali del capitalismo industriale - Il rapido progresso economico, dovuto alla meccanizzazione
dell'industria, finì per modificare le stesse strutture della società e creò
nuove e più complesse gerarchie richieste da una vita economica più ricca e
articolata. Tutta la società fu presa nel nuovo ingranaggio produttivo. Quella
borghesia che aveva portato alle rivoluzioni americana e francese e che aveva
guidato i moti liberali della prima metà dell'Ottocento lasciò il posto a una
nuova potente borghesia proprietaria e amministratrice del capitale e dei mezzi
di produzione che tendeva a seguire princìpi conservatori. Il distacco tra la
borghesia più potente e la classe operaia più povera si approfondì e tra di
esse si formarono categorie privilegiate, funzionari, impiegati (media e
piccola borghesia) e aristocrazie operaie. La concentrazione di masse operaie
nelle grandi fabbriche e nelle città industriali favorì in ogni paese la
nascita di movimenti operai. Fin dall'inizio il problema dell'organizzazione si
pose ai lavoratori come esigenza fondamentale; non vi furono più rivolte
improvvise e sanguinose, promosse da pochi idealisti agitatori. Quando le forze
sociali presero definitivamente coscienza di sé, cominciarono a formarsi le
organizzazioni sindacali, le quali, prima o dopo, vennero in tutti i paesi riconosciute
dai governi, anche se il loro potere effettivo era ancora scarso. Il problema
sociale divenne così un elemento determinante della politica dei governanti.
Sempre più frequenti furono gli interventi statali in ogni settore della vita
pubblica, soprattutto nella costruzione di ospedali e nei provvedimenti per
l'igiene pubblica.
k)
L'atteggiamento
della Chiesa di fronte alla questione sociale - Mentre il movimento socialista prendeva consistenza, anche
la Chiesa esprimeva il suo giudizio sui problemi sociali. Il nuovo papa Leone XIII, succeduto nel 1878 a Pio IX, in una famosa enciclica Rerum Novarum, indicò i principi cui
avrebbe dovuto ispirarsi il movimento sociale cattolico. Il pontefice, mentre
condannava socialismo e anarchismo, affermava tuttavia l'esigenza di riparare
ai «mali sociali» eliminando la miseria e garantendo a tutti gli uomini
l'indispensabile per vivere. Il papa si rendeva conto che la tradizionale
concezione cristiana della carità era insufficiente a superare le difficoltà
dei tempi nuovi e insisteva sul principio della «giusta mercede»: il datore di
lavoro doveva impegnarsi a dare ai suoi dipendenti un compenso corrispondente
alla quantità e qualità del lavoro eseguito. Fu dato così impulso alla
fondazione delle prime organizzazioni sindacali cattoliche che cercarono di
contrastare il passo all'avanzata del socialismo. Contro le dottrine che
volevano l'abolizione della proprietà, il pontefice riconfermava la
«indiscutibilità» di tale diritto, ma precisava che esso non poteva essere esercitato
dall'uomo in contrasto con gli interessi di altri uomini. Leone XIII ribadiva
la condanna della lotta di classe da parte della Chiesa e, giudicando
impossibile l'eliminazione delle classi, proclamava l'esigenza dell'armonia tra
gli appartenenti ai vari strati sociali perché tutti potessero concorrere
insieme al conseguimento del bene comune.
3 La politica delle grandi potenze - Mentre sulla scena europea il prepotente ingresso della
nazione tedesca, unificata ad opera della Prussia in un Reich d'impronta
militaristica avviato verso una rapida industrializzazione, costringe al
ridimensionamento le mire egemoniche degli imperi francese e austro-ungarico,
sul continente americano gli Stati Uniti, dopo aver portato a compimento il
processo di unificazione territoriale e aver superato la difficile crisi della
guerra di Secessione, sull'onda di un impetuoso sviluppo economico si affermano
sulla scena internazionale come potenza di primo piano. Il disgregarsi
dell'impero ottomano e il conseguente risvegliarsi dell'espansionismo russo
segnano l'inizio della questione
balcanica, mentre le grandi nazioni europee, in un contesto di crescente
militarismo, giungono alla spartizione dell'Africa e dell'Asia, punti nodali in
cui si scontrano gli opposti imperialismi coloniali.
a) Stati Uniti da potenza continentale a potenza mondiale
- Fu chiaro, fin dal secolo XIX, che gli Stati Uniti non si presentavano come
un'area arretrata e bisognosa di passare attraverso varie fasi evolutive prima
di arrivare al capolinea della complessa civiltà europea, ma costituivano una
via originale e autoctona allo sviluppo economico e sociale. La vertiginosa
rapidità di tale sviluppo e la particolare situazione politica, contrassegnata
da un marcato individualismo e, nel contempo, da una democrazia di massa e da
una notevolissima stabilità istituzionale (paragonabile solo a quella della
Gran Bretagna), fecero anzi supporre agli osservatori più attenti che gli Stati
Uniti si ponevano, rispetto all'Europa, non come il passato, ma come l'avvenire.
L'esistenza di una frontiera mobile a Ovest e di un immenso territorio vergine
da conquistare, aperto allo spirito d'avventura di pionieri e di coloni, ha
costituito uno straordinario fattore della storia del XIX secolo. Verso la metà
del secolo, infatti, gli stati aderenti all'Unione erano ormai più di trenta e
occupavano un territorio sconfinato che andava dall'oceano Atlantico alla zona
dei Grandi Laghi e scendeva lungo la valle del Mississippi sino a raggiungere
da una parte il golfo del Messico, dall'altra l'oceano Pacifico. L'indipendenza
del Texas e la guerra con il Messico poi (1846-48) avevano infatti trasformato
in territorio statunitense anche il Sud-ovest. Conseguenza principale di questo
fenomeno fu che lo sviluppo dell'agricoltura dell'Ovest e del Sud poté
procedere di pari passo, senza eccessivi squilibri, con l’impetuoso sviluppo
dell'industria del Nord-est. La produzione rurale riusciva infatti a sopperire
con la quantità delle terre disponibili all'arretratezza delle tecniche impiegate
dai coloni.
Sul piano economico e sociale, tuttavia, gli Stati Uniti
erano divisi in tre zone nettamente distinte:
·
il Nord del
dinamismo imprenditoriale e del lavoro operaio,
·
il Sud delle
grandi piantagioni e del lavoro schiavo,
·
l'Ovest degli
agricoltori e degli allevatori.
Il conflitto non si fece attendere, anche se fu
provvisoriamente arginato con il compromesso del Missouri del 1820 che stabilì
al parallelo 36°30' la linea di demarcazione tra stati non schiavisti e stati
schiavisti. Le due economie non erano incompatibili, ma certo non armonizzabili
in quanto il Sud tendeva a favorire una più larga autonomia degli stati, una
mentalità aristocratica ed ereditaria, un rigido fissismo sociale e razziale,
mentre il Nord esigeva un più marcato unionismo, una mentalità liberale e
tendenzialmente egalitaria, un'ampia mobilità sociale. In un primo tempo, a
causa della comune propensione per il liberoscambismo, l'Ovest fu più vicino al
Sud, che allora assicurava il 75% della produzione mondiale del cotone, merce
destinata a essere convogliata in quantità imponenti sulle piazze della Gran
Bretagna e dell'Europa.
Quando però gli Stati Uniti guadagnarono la California e le
coste del Pacifico, l'Ovest, che rappresentava lo spirito della frontiera
mobile e lo slancio dell'imprenditorialità rurale diffusa, scoprì che la
propria economia era fisiologicamente legata a quella del Nord, cui poteva
offrire, in uno scambio gigantesco, derrate alimentari contro prodotti
industriali, esempio, questo, di un'integrazione assai rara nella storia dei
rapporti tra agricoltura e industria. Con l'arrivo del nordista Lincoln alla
presidenza, nel 1860, il conflitto prima latente precipitò e si verificò la
secessione degli stati confederati del Sud. Quel che seguì, a partire dal 1861,
fu una guerra civile assai sanguinosa che vide, per la prima volta, il pieno
impiego a scopi bellici dei mezzi della grande industria e in particolar modo
delle ferrovie, abidite al trasporto delle truppe e delle armi pesanti. Dopo
una prima fase favorevole agli eserciti confederati il Nord, forte di un
potenziale economico superiore, prese il sopravvento e nel 1865 uscì
vittorioso: il paese, con l'abolizione della schiavitù e con l'emancipazione
dei neri, poté essere strutturalmente unificato. Si era in un certo senso
conclusa la seconda tappa della rivoluzione americana.
La ricostruzione, condotta nel Sud in un clima sociale certo
difficile, stimolò nondimeno un grande slancio industriale e produttivo. Alla
fine del secolo, gli Stati Uniti potevano vantarsi, a buon diritto, di essere
entrati nel novero delle grandi potenze. Si rivelarono, tra l'altro, un colossale
crogiolo di fusione, meeting pot etnico e razziale, in grado di assorbire una
massiccia immigrazione di forza-lavoro dall'Europa (e successivamente
dall'Asia), dando ai nuovi arrivati sbocchi lavorativi e opportunità di vita.
Dopo l'arrivo di Inglesi, Irlandesi e Tedeschi, nella seconda metà
dell'Ottocento e all'inizio del secolo successivo fu la volta delle popolazioni
dell'impero asburgico, degli Scandinavi, degli Italiani, degli Ebrei, dei
Polacchi, dei Russi e, sulle coste del Pacifico, degli Asiatici. Si può del
resto calcolare che una ventina di milioni di persone raggiunsero gli Stati
Uniti tra il 1870 e il 1920. Le stesse crisi cicliche del capitalismo
industriale europeo trovarono negli Stati Uniti, che pure da tali crisi non
furono indenni, una straordinaria valvola di sfogo per l'espulsione dei
lavoratori dal processo produttivo e uno strumento di compensazione per il
disagio sociale che ne derivava.
b) L'America latina tra nazionalismo e subalternità -
Nell'America centro-meridionale, una volta conseguita l'indipendenza, non fu
invece possibile marciare verso l'unificazione. Ci fu anzi un'ulteriore
disgregazione. Fallito il Congresso panamericano di Panama (1826), la Grande
Colombia, fondata da Bolivar, si scisse addirittura in tre stati, le
repubbliche del Venezuela, della Nuova Grenada (poi Colombia) e dell'Ecuador.
La stessa Federazione centro-americana si frantumò quasi subito in una serie di
piccole repubbliche: Guatemala, Salvador, Honduras, Nicaragua, Costarica. Nei
decenni successivi, e in particolar modo nella seconda metà del secolo, vi
furono guerre che coinvolsero Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay da una
parte (la popolazione del Paraguay si ridusse del 70 per cento) e Cile, Perù e
Bolivia dall'altra.
L'ideale del panamericanismo, da tutti proclamato, non
trovava rispondenza nei fatti. Sul piano economico pesarono molto
l'arretratezza dei rapporti sociali e le difficoltà di superare le arcaiche
relazioni semifeudali che legavano i contadini ai proprietari terrieri. A causa
delle insufficienze delle classi dirigenti latino-americane, al diretto dominio
coloniale spagnolo subentrarono la pressione finanziario-commerciale della Gran
Bretagna e poi il rapporto di subalternità nei confronti degli Stati Uniti.
Le stesse difficoltà riscontrate nell'efficiente controllo
del territorio nazionale (talora ancora inesplorato e spesso poco popolato)
provocarono spinte centrifughe, rivolte interne e vari conflitti che finirono
con il consacrare i militari come oligarchia politica e con il legittimarne il
potere. I militari giustificavano del resto la loro egemonia con un
nazionalismo elementare e privo, per ovvie ragioni, di autentiche radici
nazionali.
Nonostante l'introduzione di costituzioni moderne una lunga
serie di colpi di stato e una permanente fragilità dei non frequenti governi
civili caratterizzarono la storia dell'America latina. Venne tuttavia abolita
ovunque la schiavitù e si attenuarono, almeno in parte, le discriminazioni
razziali. Alla fine del secolo, con la guerra ispano-americana del 1898, la
Spagna dovette abbandonare anche Cuba e Puerto Rico, ultimi lembi di dominio
coloniale che ancora possedeva al di là dell'Atlantico.
L'influenza degli Stati Uniti aumentò vieppiù, soprattutto
nell'America centrale e caraibica. L'avventura messicana di Napoleone III, che
aveva cercato di inserirsi con Spagnoli e Inglesi nelle lotte interne messicane
tra liberali e clericali, era del resto terminata nel 1867 con la fucilazione
di Massimiliano d'Austria, cui i Francesi avevano offerto la corona di
imperatore nel Messico. E gli Stati Uniti, che pure avevano guadagnato una
enorme quantità di terre combattendo contro i Messicani, ora ne avevano
protetto non disinteressatamente l'indipendenza di fronte alle ingerenze
europee. La dottrina di Monroe era diventata operante. La guerra
ispano-americana ne fu la definitiva affermazione.
c) Persistenze e contraddizioni degli Antichi Regimi in
Europa - La seconda Restaurazione impostasi in Europa dopo il fallimento
delle rivoluzioni del 1848 aveva dimostrato che, malgrado gli inevitabili
compromessi con quanto di ineludibilmente liberale vi era nelle istituzioni del
mondo moderno, gli Antichi Regimi, vale a dire gli Stati che avevano stretto la
Santa Alleanza e i loro satelliti, godevano ancora di una discreta salute.
Solo la Gran Bretagna
sembrava avere risolutamente e irreversibilmente consolidato il sistema
parlamentare, pur non avendo ancora introdotto il suffragio universale, tanto
che nel periodo 1848- 1866, grazie alla presenza dei liberali alla direzione
del governo, essa godette di una lunga stagione di stabilità politica e di una
prosperità economica turbata solo dalle cesure ormai ricorrenti nel ciclo
economico e dagli effetti negativi sull'industria del cotone della guerra
civile americana.
La Francia
neobonapartista, a sua volta, aveva istituzioni che si discostavano dal
principio di legittimità (seppellito nel 1830), ma la natura illiberale del
Secondo Impero avvicinava quest'ultimo al clima pesantemente conservatore delle
monarchie dell'Europa centrale e orientale. Napoleone
III, tuttavia, per legittimare il ruolo storico della dinastia che aveva
restaurato, promosse una politica estera attivistica che mirava a mettere in
crisi gli equilibri del Congresso di Vienna.
L'occasione venne fornita ancora una volta dalla questione
d'Oriente. La Russia, ritenendo giunto il momento di riprendere la marcia verso
i mari caldi, prese a pretesto una disputa sulla tutela dei luoghi santi e nel
1853 entrò in guerra con l'impero ottomano L'anno successivo a sostegno dei
Turchi intervennero Francesi e Inglesi mentre gli Austriaci si mantennero in
posizione di prudente attesa. La guerra
di Crimea, cui partecipò anche l'esercito sardo, si concluse nel 1856 con
la pace di Parigi e con una moderata
sconfitta della Russia. Quest'ultima, garante arcigna dell'ordine europeo e al
tempo stesso demolitrice di questo stesso ordine sul fianco sud-orientale del
continente, fu però bloccata nelle sue aspirazioni e iniziative. La Francia fu
invece incoraggiata nelle sue ambizioni.
La guerra franco-sabauda
contro l'Austria, fu vista da Parigi, come il secondo atto (dopo la Crimea)
di questa vicenda che, una volta sbaragliata la pressione delle opposizioni
democratiche e popolari, mirava a scardinare, per l'azione stessa dei governi,
il sempre più precario equilibrio del 1815.
Se il 1856 aveva dunque arrestato provvisoriamente la Russia,
il 1860 sabaudo e italiano fece arretrare l'Austria. Ma non fu la Francia,
nonostante le intenzioni del nuovo Bonaparte, ad approfittarne.
d) L'unità tedesca - L'Unione doganale tra gli stati della Confederazione tedesca (Zollverein), promossa nel 1834 dalla
Prussia, aveva favorito lo sviluppo economico di tutta l'area della
Confederazione. I risultati più spettacolari si ebbero però a partire dagli
anni 50 del secolo, quando l'effetto trainante dei settori siderurgico e
meccanico cominciò a ridurre in modo vistoso il divario che divideva l'economia
tedesca da quella della Francia e anche da quella della Gran Bretagna.
L'industria siderurgica, in particolare crebbe ad un tasso medio del 10% annuo
lungo tutto il ventennio 1850-70.
Una crescita così imponente necessitava di notevoli risorse
da destinare agli investimenti, di imprese di grandi dimensioni e di una
stretta simbiosi con il sistema finanziario, oltre che di una committenza
pubblica attenta all'impiego dei prodotti dell'industria pesante. D'altra
parte, per colmare il divario con la Gran Bretagna, non si poteva certo
partire, come era avvenuto agli albori della rivoluzione industriale, dal
settore tessile, a basso tenore di investimenti iniziali: occorreva iniziare
subito dai settori più avanzati e più moderni dell'industria.
Mancava ancora lo stato unitario e qui entrò nuovamente in
gioco il grande scenario della politica internazionale. Nel 1861, quando Guglielmo I salì sul trono di Prussia,
la Russia era parzialmente paralizzata dalla pace di Parigi e l'Austria era
indebolita dall'unità italiana. Nel 1862 Bismarck
fu nominato cancelliere di uno stato in cui, grazie anche al sistema
elettorale, l'aristocrazia terriera degli junker aveva il sopravvento.
Il modello cesaristico, suggerito da Napoleone III, in questo
caso poté funzionare e il processo fu estremamente rapido. Era cioè chiaro che
si poteva erodere quel che restava dell'ordine del 1815 molto meglio da
posizioni conservatrici che da posizioni rivoluzionarie. E così proprio
Bismarck fece ciò che il 1848 non aveva fatto, ma lo fece realizzando solo il
programma unitario e nazionale del '48, e non quello democratico e
repubblicano. Sul piano sociale, riuscì anche a ottenere la complicità del
movimento operaio di Ferdinand Lassalle,
arrivando a concedere addirittura il suffragio universale, peraltro
difficilmente utilizzabile dalle forze popolari con un sistema elettorale come
quello tedesco.
La guerra dei Ducati
contro la Danimarca (1864), pur condotta insieme all'Austria, acuì in realtà il
contrasto con l'impero asburgico, al cui indebolimento erano interessate anche
la Francia e la Russia, rivale dell'Austria nella questione d'Oriente. Posta
del conflitto di interessi tra impero asburgico e Prussia era l'egemonia sui
Tedeschi.
Nel 1866 la guerra
austro-prussiana con la battaglia di
Sadowa sancì il trionfo della Prussia. L'Austria, sul piano territoriale,
perse solo il Veneto a vantaggio dell'Italia, alleata dei Prussiani e in realtà
sconfitta sul campo dagli asburgici, ma sul piano politico-diplomatico perse
per sempre ogni influenza nell'Europa centro-settentrionale. Le restava
l'Europa centro-meridionale e quindi si profilava nel suo avvenire
l'accentuarsi della rivalità con la Russia.
Il sistema del 1815 si avviava ormai al suo definitivo
sfacelo. Nel 1867, mentre sorgeva la Confederazione tedesca nel Nord, avveniva
la metamorfosi dell'impero d'Austria in impero austro-ungarico, entità politica
plurinazionale e non tedesca. L'ultimo ostacolo sulla strada di Bismarck era
ora la Francia, che aveva sottovalutato la Prussia, pensando anzi di
utilizzarla in funzione antiaustriaca. La guerra
franco-prussiana del 1870 portò alla vittoria della Prussia, alla
proclamazione dell'impero tedesco (Kaiserreich) e all'umiliazione della
Francia, che perse con Napoleone III, oltre al sogno dell'egemonia sul
continente, anche l'Alsazia e la Lorena che il Congresso di Vienna non aveva
osato sottrarre alla Francia sconfitta di Napoleone. La Francia era nuovamente
diventata repubblica, ma non nascondeva peraltro i propositi di rivincita
contro il Reich tedesco: nonostante l'abilità diplomatica di Bismarck, erano
poste le premesse per altri conflitti in Europa.
e) Imperi dell'Est e questione balcanica - La Russia,
che con le riforme di Alessandro II aveva proceduto nel 1861 all'emancipazione
dei servi e nel 1863 aveva represso un'altra insurrezione polacca, nel 1871,
crollato in Francia il Secondo Impero, poté rientrare nel grande gioco
internazionale pur restando estremamente arretrata rispetto alle altre potenze
europee. La lezione della Crimea le era servita. La liberazione dei servi,
infatti, era indispensabile per avviare un pur difficile processo di
industrializzazione e, come stavano dimostrando il Nord degli Stati Uniti e la
Prussia, senza un potenziale industriale era impensabile attuare una politica
di guerra o comunque di espansione.
La questione d'Oriente si trasformò negli anni 70 in
questione balcanica e rinfocolò gli appetiti delle grandi e meno grandi
potenze. Tutto si veniva complicava. Dalla Croazia austro-ungarica alla Grecia,
impegnata a liberare i suoi territori ancora rimasti sotto la sovranità
ottomana, le tensioni si moltiplicavano. L'insurrezione antiturca in Bosnia ed
Erzegovina fu infine all'origine della guerra russo-turca del 1877-78. Gli
Inglesi, come già in occasione dell'indipendenza greca, si proclamarono
solennemente vicini ai cristiani oppressi dei Balcani, salvo poi ritrarsi
quando si accorsero che l'arretramento turco favoriva l'avanzata russa. Con la
pace di Santo Stefano, nel 1878, la Russia sembrò quasi poter espellere i
Turchi dall'Europa. L'Austria e la stessa Inghilterra si incaricarono di
ridimensionare la portata della vittoria russa: Bismarck, al Congresso di Berlino,
si offrì come mediatore e regalò altri quarant'anni di esistenza all'impero
ottomano.
Ora la Serbia, il Montenegro e la Romania erano in tutto e
per tutto indipendenti dalla Sublime Porta. Si costituì altresì la
Bulgaria. L'Austria, infine, si vide attribuire l'amministrazione della Bosnia.
Nessuno, evidentemente, era soddisfatto. Si capì, soprattutto, che la
successione dell'impero ottomano non spettava solo alla Russia e all'Austria,
ma anche al turbolento calderone delle nazionalità balcaniche, mosse da
reciproche diffidenze e manovrate dalla diverse potenze, fatto, questo,
dimostrato dalla presenza di dinastie straniere nella maggior parte dei nuovi
stati.
Il Risorgimento
balcanico fu quindi ingarbugliato dalle interferenze del dissidio austro-russo,
della rivalità economica.
La situazione
precipitò nel 1908, quando l’Austria decise l’annessione della Bosnia,
suscitando risentimenti in Serbia e in Montenegro, deteriorando definitivamente
i rapporti con la Russia ed incrinando i legami interni alla Triplice Alleanza italo-austro-tedesca.
L’impero
ottomano, nonostante il tentativo di modernizzazione attuato con la rivoluzione dei Giovani Turchi, ne fece
subito le spese. Si susseguirono, infatti, tra il 1912 e il 1913, ben due
guerre balcaniche. Si costituì l’Albania e la Turchia vide sparire quasi tutti
i suoi possedimenti europei, ma i belligeranti balcanici si dilaniarono tra
loro per spartirsi le spoglie dell’impero turco in territorio europeo. La
Serbia ingrandendosi verso sud, coltivava l’ambizione di trasformarsi nel
Piemonte dei Balcani. Si mosse contro la Bulgaria, ma favorì Greci e Romeni. Si
aggravò allora il contrasto con l’Austria in merito alle terre irredente e
popolate dagli Slavi del sud. Questo contrasto era alimentato dalla diplomazia
russa.
La
prima guerra mondiale era alle porte.
4 I problemi del nuovo Regno d’Italia: Difficoltà e questioni
aperte - La rapidità con cui
si era costituito il Regno d'Italia non poteva non essere accompagnata da
alcuni gravi problemi:
·
l'unificazione di
regioni che per secoli avevano avuto storie diverse ed erano tra loro molto
lontane per livelli di sviluppo economico e sociale, per legislazione, forme di
amministrazione, sistemi monetari e di misure, per costumi e mentalità;
·
la scomparsa
delle corti locali e di barriere doganali, che inizialmente danneggiò artigiani
e commercianti, che avevano trovato, nelle prime, una fonte di commesse e,
nelle seconde, una protezione contro la concorrenza di economie più sviluppate;
·
le spese della
guerra e l'assunzione da parte dell'erario del Regno dei debiti pubblici degli
Stati soppressi, avevano portato ad un eccezionale disavanzo di bilancio;
·
l'incompiutezza
dell'unità politica (il Veneto era ancora sotto la dominazione austriaca e il
Lazio con Roma costituiva quanto era sopravvissuto dello Stato Pontificio) era
causa di tensioni internazionali: con l'Austria per il Veneto; con Napoleone
III, che si era fatto difensore del Pontefice, per Roma;
·
il problema di
Roma, in particolare, acuiva la tensione con la Chiesa cattolica, che aveva
condannato il processo con cui si era costituito il nuovo Stato nazionale, sia
per le idee liberali che l'avevano ispirato, sia per il grave danno che ne era
derivato agli interessi mondani della Chiesa stessa;
·
vi era uno stato
di generale arretratezza del Paese nel confronto delle più avanzate nazioni
europee, ad eccezione di alcune regioni che, negli ultimi cento anni, avevano
goduto di governi amministrativamente più illuminati (Piemonte, Lombardia e
Toscana). Tale arretratezza si manifestava in carenze igieniche, alta mortalità
infantile, malattie endemiche (malaria e pellagra), frequenti epidemie
(colera), assenza di infrastrutture adeguate (strade, ferrovie, opere
pubbliche, scuole) e in un'altissima percentuale di analfabetismo (il 75% sul
piano nazionale, con punte del 95% nei Sud).
a) La scelta dell'amministrazione centralizzata - Per
superare le differenze regionali e conseguire, dopo quella politica, l'unità
effettiva del Paese, si scelse la strada di un'amministrazione centralizzata
(sul modello francese). Lo Stato fu suddiviso in province affidate al governo
di prefetti di nomina regia, direttamente dipendenti dall'esecutivo (dal
ministro degli Interni), così come di nomina regia furono i sindaci, mentre
elettivi furono i consigli comunali. Si temette che una soluzione decentrata,
sul modello inglese (sostenuta in linea di massima da uomini di provenienza
mazziniana e radicale), favorendo le autonomie locali, avrebbe ostacolato il
superamento delle diversità regionali. In armonia con la scelta centralizzata,
fu estesa a tutto lo Stato la legislazione civile e penale del Regno di
Sardegna (che non sempre era la più avanzata; ad esempio, non lo era nei
confronti di quella toscana).
Si accentuò così la «piemontizzazione» del nuovo Regno. Vi contribuì anche la istituzione di una burocrazia statale, in cui prevalsero, per parecchio tempo, elementi piemontesi.
Si accentuò così la «piemontizzazione» del nuovo Regno. Vi contribuì anche la istituzione di una burocrazia statale, in cui prevalsero, per parecchio tempo, elementi piemontesi.
b) L'inasprimento del prelievo fiscale - Per
fronteggiare le difficoltà finanziarie, oltre al ricorso al debito pubblico,
che con i tassi passivi aggravò il disavanzo dei bilanci futuri, si accentuò la
pressione fiscale con tasse che colpirono soprattutto i meno abbienti.
Questa politica destò tanto più malcontento perché, in molti
casi, i governi degli Stati scomparsi non imponevano quasi tasse: era l'aspetto
positivo di un malgoverno che ignorava qualsiasi impegno sociale.
L'introduzione della coscrizione obbligatoria, là dove prima
non esisteva, concorse, con l'incremento della pressione fiscale, ad accrescere
il malcontento.
c) Il problema del Sud - Se non è corretto ridurre le
difficoltà dell'unificazione del Paese a quelle che derivarono dal dislivello
tra Nord e Sud, è certo però che le condizioni del Meridione, che erano tra le
più misere, la resero più difficile. Si trattava di uno squilibrio gravissimo,
prima ancora civile che economico. La scelta a favore dell'accentramento
operata dalla classe dirigente finì col subordinare il Sud al Nord, stabilendo
obiettivamente (al di là delle intenzioni dei responsabili) un rapporto paese
sviluppato - paese sottosviluppato che impedì il decollo del Sud, dando vita
alla questione meridionale che, mai risolta, ancor oggi in forme diverse
condiziona la vita politica ed economica nazionale. Il fenomeno fu aggravato
dall'indifferenza dei protagonisti del Risorgimento (tranne poche eccezioni)
per la questione sociale, che per le masse contadine si riassumeva nella
richiesta: «La terra a chi la lavora». La spedizione garibaldina prima,
l'unificazione politica poi, non avevano risposto alle speranze che in questo
senso esse avevano fatte sorgere: da qui la delusione, la mancanza di
attaccamento al nuovo Stato e talora perfino l'avversione e la ribellione.
d) Il brigantaggio nel Sud - Nel Sud questo stato
d'animo favorì, in presenza di altre componenti, il sorgere, il diffondersi e
il consolidarsi in forma endemica del brigantaggio. Sostenuto dai Borbone, che
non avevano abbandonato la speranza di un ritorno, il fenomeno del brigantaggio
fu fomentato dalla presenza di sbandati dell'ex esercito napoletano e di
renitenti alla leva, ma trovò il suo terreno propizio nel consenso delle masse
contadine. Nel brigante esse vedevano chi vendicava i soprusi dello Stato, che
imponeva le tasse e la coscrizione obbligatoria e che, liquidando i grandi beni
demaniali dei Borbone e degli enti ecclesiastici, le aveva private del
beneficio dei diritti di pascolo e di legnatico. Nel brigante, inoltre, il
popolo ammirava chi vendicava gli altri soprusi che esse, le masse contadine,
subivano da parte della borghesia paesana, che quei beni demaniali aveva
acquistato, accrescendo il proprio domino economico e politico. La lealtà verso
il sovrano spodestato e verso la Chiesa, che il nuovo Stato aveva umiliata e
offesa, forniva la giustificazione ideale alla resistenza, che per anni
(1861-1865) costituì una vera e propria guerra interna. Per debellarla il
governo ricorse all'impiego dell'esercito, oltre che della polizia e della
guardia nazionale. Le perdite furono gravi da entrambe le parti: superarono
quelle delle due guerre di indipendenza.
e) L'esclusione delle masse dallo Stato - Il
brigantaggio nel Sud fu l'espressione drammatica ed esasperata di un
atteggiamento più vasto, che riguardò tutto il paese. E non tanto perché anche
in altre regioni scoppiarono delle sommosse contadine contro i gravami fiscali
e per una maggior giustizia sociale, ma perché esso espresse l'avversione delle
masse contadine verso il nuovo Stato, che sentivano non solo estraneo, ma
ostile. Il processo di unificazione e di indipendenza era stato portato avanti
da élites cittadine che, preoccupate della questione politica e istituzionale,
non avevano dato peso alla questione sociale. Per le masse contadine il
problema della giustizia era più pressante di quello della libertà; e questa,
senza quella, era un bene insignificante, quando addirittura non appariva un
modo nuovo per perpetuare vecchi soprusi. L'esclusione delle masse dallo Stato,
nei primi anni del Regno trovava la sua sanzione in un sistema elettorale che
limitava il diritto di voto ai soli possidenti, che rappresentavano il 2% dei
venticinque milioni di Italiani. Il diffuso analfabetismo, l'ignoranza della
lingua italiana (la quasi totalità della popolazione parlava e intendeva solo
il proprio dialetto) acuivano il distacco fra Stato e società, accentuando il
carattere di estraneità delle istituzioni. Furono, questi, limiti e difetti di
partenza che peseranno a lungo sulla storia nazionale, ritardando la
realizzazione di una effettiva democrazia.
5
La Destra storica – Gli uomini che dovettero affrontare i problemi del nuovo
Stato furono quelli che costituirono la cosiddetta Destra storica. Erano i
moderati, gli eredi di Cavour. Di fronte a loro, all'opposizione, stavano i
democratici, che costituivano la Sinistra.
Questa
distinzione fra Destra e Sinistra non corrisponde a quella che intercorre tra i
due generici schieramenti che oggi indichiamo con questi termini. La
ristrettezza del corpo elettorale faceva sì che tanto la Destra quanto la
Sinistra fossero espressione dei ceti dominanti. Deputati rappresentativi delle
classi popolari si avranno soltanto dopo la costituzione del partito socialista
e l'allargamento del suffragio.
La classe
politica che diresse l’Italia negli anni dopo l’unità fu quella formatasi negli
anni del Risorgimento.
La Destra era
formata dagli eredi del liberalismo moderato di Cavour, e fu detta storica per
l’importanza della sua azione. Tra i suoi esponenti vi furono: Bettino Ricasoli, Marco Minghetti, Urbano
Rattazzi, Alfonso La Marmora, Quintino Sella. Era legata al mondo dei
proprietari terrieri settentrionali e aperta agli interessi del mondo
finanziario, con connotati culturali di tipo aristocratico-borghese.
La Sinistra era
invece formata da uomini legati alle cospirazioni mazziniane ed al volontariato
garibaldino. Tra i suoi esponenti vi furono: Agostino Depretis, Francesco Crispi, Giovanni Nicotera. Erano
legati ai ceti commerciali e industriali; richiedevano azioni più energiche per
risolvere i problemi di Roma e Venezia e appoggiavano le iniziative di
Garibaldi.
Tra Destra e
Sinistra c’erano molte affinità, tra cui la prossimità delle rispettive basi
elettorali e l’assenza di profonde divisioni ideali.
Tuttavia i due
gruppi politici si distinguevano: tra gli uomini della Destra prevaleva una
rigida concezione dello Stato, accompagnata da scarsa sensibilità per i
problemi della società; più aperti alle istanze della società e al rinnovamento
erano, invece, quelli della Sinistra.
Della Destra si
disse che costituiva una «consorteria»; e ciò è esatto, se si intende sottolineare
che essa rappresentava interessi limitati, in particolare quelli della grande
proprietà fondiaria.
Fu però la
Destra ad avere la maggioranza in parlamento e al governo fino al 1876.
a)
La politica
interna – A
partire dal 1861 per la classe dirigente l’obiettivo principale era la
salvaguardia dell’unità conseguita.
Le
basi dello stato unitario furono poste tra il 1861 e il 1865 dalla Destra.
Intanto la legge
elettorale. Il sistema elettorale durante la formazione del Regno era stato quello
dei plebisciti a suffragio universale, che divenne un suffragio a base
censitaria; queste restrizioni elettorali furono mantenute perché si riteneva
che la partecipazione politica poteva allargarsi solo dopo la diffusione
dell’istruzione e del benessere. I candidati alle elezioni non erano esponenti
di partiti organizzati, ma notabili locali.
La classe
dirigente liberale scelse un ordinamento dello stato di tipo accentrato,
soprattutto per evitare che autonomie troppo ampie e non controllate dall’alto
potessero favorire le forze dominanti nelle singole località, certamente non
disponibili a promuovere il progresso.
Nel marzo 1865
furono proclamate delle leggi che estesero a tutto il Regno l’ordinamento
amministrativo piemontese e che lasciarono un’autonomia molto
ridotta agli enti locali. Il sindaco era nominato dal re, mentre fu posto un prefetto
per controllare gli atti delle amministrazioni comunali per l’unificazione
amministrativa. Ci fu anche l’unificazione dei codici e l’unificazione
delle tariffe doganali e della
moneta. Questa unificazione fu detta piemontesizzazione, cioè adozione delle norme piemontesi. Contro
ciò operavano i gruppi clericali e reazionari, d’intesa con Pio IX e con i
Borbone.
b)
La politica
economica - L'altra
preoccupazione degli uomini della Destra fu il risanamento delle finanze, che
essi identificarono con il ripianamento del disavanzo del bilancio.
Per
quanto riguarda la politica finanziaria lo
Stato italiano nacque con un bilancio in deficit; la politica della Destra si
orientò quindi verso il contenimento della spesa pubblica
e l’aumento
delle entrate con l’aggravio delle imposte; fu anche reintrodotta la
tassa
sul macinato (introdotta nel 1868: una forma di imposta progressiva
a rovescio, perché colpiva tanto più quanto più misere erano le condizioni di
vita e le conseguenti abitudini alimentari) avversata dai ceti popolari.
La
spesa pubblica (costruzioni ferroviarie ed armamenti) privilegiò le regioni del
centro nord mentre il Meridione ebbe pochi benefici. Queste popolazioni, non
abituate a una forte pressione fiscale si ribellarono; inoltre l’eliminazione
delle dogane interne privò molte imprese meridionali della protezione in
passato offerta dal regime doganale borbonico. A tutto ciò si aggiunsero
l’obbligo di leva e le incomprensioni tra le popolazioni meridionali e il nuovo
apparato di funzionari statali piemontesi. Di questo malcontento approfittarono
gli agenti pontifici e borbonici; nacque il fenomeno del brigantaggio,
formato da bande che si opponevano alle forze governative. Lo Stato italiano,
per eliminare il fenomeno, emanò nel 1863 la Legge Pica e inviò nel sud reparti
militari.
Il
ricorso all'accentramento amministrativo, all'opera dei prefetti e agli
interventi repressivi della polizia per il mantenimento dell'ordine interno
diede all'azione politica della Destra un carattere autoritario.
c)
La
politica estera - In politica estera, la Destra fu attenta a sfruttare gli
appigli offerti dalla situazione internazionale, adeguando le aspirazioni alle
reali possibilità, e riuscì così a risolvere i problemi del Veneto e di Roma,
evitando i gravi rischi che tali questioni ancora aperte implicavano.
d)
La
terza guerra di indipendenza – L'annessione del
Veneto fu ottenuta con la terza guerra di
indipendenza nel 1866. Nel 1866 l’Italia entrò in guerra con la Prussia
contro l’Austria. Dal punto di vista militare la guerra però non andò bene,
tuttavia gli austriaci furono sconfitti dai prussiani a Sadowa. La
folgorante vittoria della Prussia (alleata dell'Italia) sull'Austria compensò
la deludente prova delle nostre forze armate (Custoza e Lissa).
Il
3 ottobre 1866 con la pace di Vienna tra Italia ed Austria Mantova e il Veneto furono
ceduti a Napoleone III e poi all’Italia. Grazie alla III Guerra d’Indipendenza
all’unificazione mancavano ora solo le terre del Trentino e della Venezia
Giulia, ed inoltre lo stato italiano era ufficialmente riconosciuto
dall’Austria e dalla diplomazia europea.
e)
La
presa di Roma - L’annessione di Roma al Regno d’Italia era necessaria per
spostare la capitale a Roma, per limitare le iniziative insurrezionali di
Garibaldi e perché si riteneva che Torino non potesse rimanere a lungo la
capitale del Regno, anche per far tacere le accuse di piemontesizzazione.
Occupare
Roma però non era semplice perché Napoleone III difendeva Pio IX.
Un
altro problema era quello che riguardava la futura configurazione dei rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa, la
quale aveva ostacolato l’unificazione italiana. I rapporti tra la Chiesa e lo
Stato peggiorarono ancora quando i governi italiani, per esigenze finanziarie,
vararono nel 1866-1867 un pacchetto di leggi che espropriarono e misero in
vendita i beni appartenenti agli ordini ed alle corporazioni religiose.
Per
risolvere la questione romana il presidente del consiglio Ricasoli nel 1861 si
rivolse al pontefice chiedendo alla Chiesa di rinunciare al potere temporale.
Con
il governo seguente di Rattazzi Garibaldi diede il via ad un’azione, che però fu
bloccata dall’esercito regio sull’Aspromonte nel 1863.
Nel
1864 il governo di Minghetti stipulò con Napoleone III la Convenzione di settembre,
in base alla quale la Francia si impegnava a ritirare il suo presidio militare
da Roma, mentre l’Italia si impegnava a non attaccare lo Stato pontificio.
Il
pontefice, deluso per questo accordo, emana l’enciclica Quanta cura, contro il liberalismo.
Nel
1865 la capitale italiana fu trasferita da Torino a Firenze.
Nel
1867 Garibaldi riprese l’iniziativa, ma anche questa volta, a Mentana, fu
fermato dai soldati francesi in difesa del papa.
Nel
1870 le truppe francesi furono allontanate da Roma a causa della guerra con la
Prussia, nella quale Napoleone III fu sconfitto a Sedan. Le truppe piemontesi
comandate da Cadorna ne approfittano e penetrano nello Stato pontificio. Il 20
settembre ci fu la breccia di Porta Pia: i soldati
occupano Roma tranne il Vaticano. I plebisciti seguenti sancirono l’annessione
del Lazio.
Per
risolvere il rapporto con il papa il parlamento italiano votò nel 1871 la
legge delle guarentigie. Pio IX non accettò però la legge e
riconfermò l’opposizione all’avvenuta unificazione italiana, come era emerso
dal Concilio Ecumenico Vaticano I.
L'annessione
di Roma poneva fine al millenario potere temporale del Papa. Era la fatale
conclusione del processo di unificazione.
Fu
esecrata dai cattolici (e in primo luogo dal Pontefice, che aveva scomunicato i
membri del governo e quanti avevano preso parte attiva a quel sacrilegio, e che
si chiuse in Vaticano, appellandosi all'opinione pubblica internazionale e
proclamandosi prigioniero). Da altri fu considerata un evento non solo
necessariamente connesso alla costituzione dello Stato nazionale, ma anche un bene
per la Chiesa stessa e per il Pontefice, che erano così liberati dal peso di
preoccupazioni e interessi mondani, che li distraevano dalla loro missione
spirituale.
Ne
derivò un grave dissidio fra gli Italiani, rafforzando tra le masse
l'atteggiamento di distacco e di ostilità nei confronti dello Stato. La quasi
totalità dei cattolici, anche di ceti elevati, si astenne dalla vita pubblica,
obbedendo alla proibizione del Pontefice (il «non expedit») di parteciparvi sia
come eletti, che come elettori tenne la borghesia cattolica lontana dal
processo di costruzione dello Stato, alimentò nelle classi popolari
l’estraneità alle istituzioni.
Soltanto
più tardi il timore per l'avanzata delle forze socialiste indurrà il Pontefice
a mutare atteggiamento. L'ostilità della Chiesa allo Stato laico e liberale
favorì per reazione vivaci manifestazioni di acuto anticlericalismo,
soprattutto fra i radicali.
Per
risolvere il problema dei rapporti fra Stato e Chiesa il Parlamento approvò la legge delle guarentigie, che prevedeva -
prendendo come base il principio cavouriano di «libera Chiesa in libero Stato»
- un insieme di «garanzie», che consentirono di fatto al Pontefice il libero
esercizio del suo potere spirituale. Nonostante ciò lo Stato italiano continuò
nel suo progetto, dimostrando la propria adesione al liberalismo per quanto
riguarda la separazione tra Stato e Chiesa.
f)
La caduta della
Destra
– La ristrettezza della base del suo potere, l'impopolarità che le veniva dalla
sua severità amministrativa e, infine, contrasti interni portarono alla sua
caduta nel 1876. Le successe la Sinistra. Prima di cedere il potere, la Destra
era riuscita comunque a portare a soluzione i problemi politici che
angustiavano il nuovo Stato e che si riassumevano in quello del compimento dell'unità
territoriale.
6 La Sinistra al governo – A differenza della Destra, che si presentava come un gruppo
omogeneo, la Sinistra era più variegata. La componevano ex mazziniani,
combattenti garibaldini, ma anche uomini nuovi: professionisti (in prevalenza
avvocati), piccoli borghesi, uomini legati non alla proprietà fondiaria, ma
alle attività commerciali e industriali, che venivano sviluppandosi. E ciò li
faceva più aperti alle nuove istanze della società, anche se non a quelle delle
classi popolari.
a) Il trasformismo - In assenza di una maggioranza
coerente, si instaurò, già con il primo ministero Depretis, una pratica di
compromesso tra i vari gruppi di tendenze politiche diverse, anche opposte, che
fu detta trasformismo. Essa ebbe nefaste conseguenze: ritardò il programma di
riforme con cui la Sinistra si era presentata agli elettori; deteriorò
l'istituto parlamentare per la mancanza di una chiara dialettica tra
maggioranza e opposizione; favorì il clientelismo parlamentare e abbassò il
livello morale della vita politica.
Praticamente scomparsi i confini tra Destra e Sinistra, al di
là di quest'ultima si venne costituendo, tra il 1878 e il 1882, un nuovo
gruppo, che si ispirava a princìpi decisamente più democratici: l'estrema
sinistra o semplicemente l'estrema, di cui facevano parte i rappresentanti del
partito radicale di nuova formazione, i repubblicani e, successivamente, i
socialisti.
b) Agostino Depretis - Era un esponente
moderato della Sinistra storica della quale divenne il capo nel 1873 alla morte di Urbano Rattazzi. Nel 1876 guidò il
primo governo della storia d'Italia formato da soli politici di Sinistra. Tale
esecutivo varò la riforma scolastica istituendo l'istruzione obbligatoria,
laica e gratuita per i bambini dai 6 ai 9 anni.
Benché
filofrancese, per rompere l'isolamento dell'Italia, nel 1882 accettò
la Triplice alleanza con Austria e Germania,
per la quale ottenne una formula marcatamente difensiva. Lo stesso anno portò a
termine la riforma elettorale che fece salire gli aventi diritto al voto dal 2
al 7% della popolazione.
Fu il fautore del trasformismo, un progetto che
prevedeva il coinvolgimento di tutti i deputati che volessero appoggiare un governo
progressista a prescindere dagli schieramenti politici tradizionali, che Depretis
considerava superati. Fu appoggiato in questo progetto dal capo della Destra storica Marco Minghetti.
I governi "trasformisti" così costituiti
eliminarono definitivamente la tassa sul macinato, introdussero le
tariffe doganali favorendo l'industria (soprattutto settentrionale) e vararono
l'espansionismo italiano in Africa.
Il trasformismo,
tuttavia, ridusse il potere di controllo del parlamento e favorì eccessi nelle
spese statali.
c) L'imperialismo - La politica protezionistica fu
giustificata, oltre che con argomentazioni economiche (necessità di favorire
l'industrializzazione del Paese), con motivazioni politiche: necessità di
disporre di una grande industria nazionale, per garantirsi gli strumenti per
una politica di grande potenza e di espansione coloniale.
Effettivamente, il protezionismo voleva proporsi come la base
di una politica imperialistica, che era venuta precisandosi nell'ultimo
ventennio degli anni Ottanta e che trovava i suoi punti di appoggio nelle
grandi industrie che vivevano delle commesse dello Stato (in particolare, le
acciaierie e i grandi cantieri) e nella monarchia.
d) La Triplice Alleanza - Il disegno di una politica
imperialistica comportava di poter far conto su alleanze che la rendessero
possibile. Per uscire dall'isolamento, testimoniato sia dal congresso di Berlino del 1878, sia
dall'occupazione francese della Tunisia nel 1881, l'Italia costituì la Triplice
Alleanza con la Germania e l'Austria nel 1882, anche se ciò contrastava con le
sue aspirazioni alla liberazione delle terre irredente: Trentino e Venezia
Giulia.
d) Le riforme della Sinistra - Il programma presentato
dalla Sinistra agli elettori (discorso di Depretis a Stradella, 1875) si
riassumeva in tre punti: istruzione elementare gratuita e obbligatoria;
abolizione della tassa sul macinato; ampliamento dell'elettorato.
La legge Coppino del 1877 rese obbligatorio e gratuito il primo
biennio della scuola elementare; ma la sua effettiva applicazione fu ritardata
e spesso vanificata dalla mancanza di aule e di insegnanti e dalla miseria
delle classi meno abbienti, che non potevano rinunciare al lavoro dei minori.
L'abolizione della tassa sul macinato seguì nel 1880, ma il
vantaggio per le classi più povere fu annullato dall'istituzione di dazi
comunali sulla farina e i generi alimentari. Meno fittizia fu la riforma
elettorale, che, abbassando il livello di età e di censo, ampliò effettivamente
il corpo elettorale da 600.000 a 2.000.000 di elettori. Poiché la legge
limitava il diritto di voto ai cittadini maschi in possesso dell'istruzione
elementare, la stragrande maggioranza continuava ad essere esclusa.
e) Francesco Crispi - Fu quattro volte
presidente del Consiglio: dal 1887 al 1891 e
dal 1893 al 1896. Nel primo periodo fu anche ministro degli
Esteri e ministro dell’Interno, nel secondo anche ministro dell’Interno. Fu il
primo meridionale a diventare presidente del Consiglio.
In politica
estera coltivò l’amicizia con la Germania, guidata dal cancelliere Otto von Bismarck e che apparteneva
con l’Italia alla triplice alleanza. Avversò quasi sempre
la Francia, contro la quale rinforzò l’esercito e la marina.
I suoi governi
si distinsero per importanti riforme sociali (come il codice
Zanardelli che abolì la pena di morte e introdusse
il diritto di sciopero) ma anche per la guerra agli anarchici e
ai socialisti, i cui moti dei Fasci siciliani furono repressi con
la legge marziale. In campo economico il suo quarto governo migliorò le
condizioni del Paese.
Crispi sostenne
tuttavia una dispendiosa politica coloniale che, dopo alcuni successi
in Africa orientale, portò alla disfatta di Adua del 1896 e alla fine
della sua carriera politica.
Il suo
avversario politico principale fu Giovanni
Giolitti che lo sostituì alla guida del Paese.
f) La politica coloniale - Un altro aspetto della politica
imperialistica fu l'avvio di una politica coloniale che si indirizzò verso
l'Africa. Nonostante alcuni insuccessi e alcune cocenti sconfitte, furono
costituite, soprattutto per volontà di Crispi, due colonie: quella di Eritrea
(1885-1896) e quella di Somalia (1889-1905). La loro conquista non risolse il
problema della esuberanza della popolazione, che continuò ad emigrare; né giovò
al prestigio del Paese come nuova grande potenza per la dimostrazione di
incapacità organizzativa e di comando, cui alcuni episodi dettero luogo.
7 L'economia e società nell’Italia postunitaria
- Il nuovo Regno d’Italia si trovava in condizioni economiche difficili.
Il deficit dello Stato era grandissimo perché non solo il Piemonte si era fortemente
indebitato per fare la guerra del 1859, ma dopo l’unificazione lo Stato
italiano dovette assumere come propri i debiti di quegli Stati che aveva
assorbito. Né si potevano ridurre le spese, perché bisognava creare strade e
scuole, fare bonifiche e canali d’irrigazione, costruire la rete ferroviaria e
quella stradale.
Per
riportare il bilancio in pareggio, cioè per fare in modo che spese e ricavi si
pareggiassero, furono imposte pesanti tasse. La più odiata dal popolo fu la
tassa sul macinato: si doveva pagare allo Stato una tassa per ogni chilo di
frumento portato a macinare ai mulini. Questa tassa rendeva più cari il pane e
la pasta e quindi cadeva tutta sulle spalle del popolo perché il pane e la
pasta erano gli unici cibi quotidiani della povera gente.
Le varie regioni erano in condizioni di
notevole miseria e di abbandono. La miseria delle plebi era pressochè generale;
l’analfabetismo superava l’ottanta per cento; scarsissime erano le strade;
mancavano quasi del tutto le ferrovie; l’economia era arretrata; l’industria
non esisteva o quasi. S’impose così all’attenzione degli statisti quella “questione meridionale” che per decenni
ha costituito uno dei maggiori problemi politici nazionali e che non ancora è
stata del tutto risolta.
a) L'agricoltura - Nonostante l'avvio
dell'industrializzazione, cui si assistette in questo periodo, l'Italia restava
pur sempre un paese eminentemente agricolo. Nel 1861, gli addetti al settore
agricolo erano il 61,79% della popolazione attiva, mentre quelli delle
manifatture e dell'artigianato arrivavano solo al 25,09 % (gli altri lavoravano
nel terziario). Alla fine dell'800, i primi erano ancora il 59,79, e i secondi
il 22% (erano aumentati gli addetti al terziario).
La tipologia delle strutture agricole si era modificata molto
poco rispetto al periodo preunitario e si poteva ridurre, pur nelle diversità
regionali, a queste tre forme: grandi e medie aziende capitalizzate o in corso
di capitalizzazione condotte con personale salariato, nella pianura padana
piemontese e lombarda; poderi coltivati direttamente da piccoli proprietari o a
mezzadria nelle zone prealpine e nell'Italia centrale; latifondi nel Lazio,
nell'Italia meridionale, nelle isole.
Le condizioni dei contadini erano ancora molto tristi, anche
nelle aziende più ricche della pianura lombarda, come risulta dall'inchiesta di
Stefano Jacini.
b) Il decollo industriale - L'ultimo ventennio del
secolo vide il decollo industriale del nostro Paese. Le industrie laniere del
Piemonte, del Veneto, della Toscana e quelle cotoniere della Lombardia crebbero
di numero e si rafforzarono. Ad esse si affiancarono l'industria siderurgica e
quella meccanica, quella estrattiva e quella idroelettrica.
Si trattava sia di grandi complessi, sia di piccole e medie
industrie, la cui nascita, accompagnata da una rapida crescita del commercio,
modificò gradualmente la struttura della società italiana.
Il ceto dei grandi imprenditori industriali e dei banchieri
acquistò un'influenza determinante sul governo. Ciò spiega perché la Sinistra,
andata al potere con un programma economico di tipo liberoscambista, adottò nel
1887 una politica protezionistica per difendere dalla concorrenza straniera le
grandi industrie metalmeccaniche dell'Italia centrosettentrionale, gli
zuccherifici della Val Padana e la produzione cerealicola dei grandi
proprietari del Mezzogiorno, che si erano alleati agli industriali.
c)
L'emigrazione - L'emigrazione aveva cominciato a costituire un fenomeno
massiccio negli ultimi venticinque anni del secolo. Le condizioni degli
emigranti erano difficili e spesso addirittura miserevoli, senza alcuna tutela
da parte dello Stato. Le regioni meridionali tennero i primi posti nel flusso
migratorio, insieme ad altre zone depresse del Paese, specie il Veneto, zone
dove era assai grande lo squilibrio fra la popolazione e le risorse.
d)
La questione sociale - In Italia non si verificò una rapida ed estesa
trasformazione dell'economia da rurale ad industriale, come avvenne ad esempio
in Inghilterra.
Anche
dopo il «decollo industriale», l'economia italiana continuò ad essere
un'economia prevalentemente rurale; e bisognerà arrivare al secondo dopoguerra
per assistere a un'effettiva trasformazione industriale del paese.
Così
stando le cose, si deve sottoscrivere l'affermazione di Pasquale Villari del
1862: «La quistione sociale che minaccia oggi tutti i paesi civili, piglia
forme diverse nei popoli diversi. In Italia essa è principalmente una quistione
agraria».
Tale
questione nasceva - e meglio si precisò nei decenni successivi -
dall'organizzarsi del bracciantato agricolo tanto nel Sud, dove tale organizzazione
culminò, nell'ultimo decennio del secolo, nei Fasci siciliani, quanto nella
pianura padana, sotto l'impulso della propaganda anarchica e socialista prima,
poi sotto la guida del Partito dei Lavoratori italiani (successivamente Partito
socialista).
e)
I moti - La tensione fu aggravata da ricorrenti crisi e dall'aumento del
costo dei generi di prima necessità e in particolare del pane, aumento che
metteva a repentaglio anche la pura e semplice sussistenza dei lavoratori. Essa
trovò poi il suo sbocco più clamoroso nell'ultimo decennio del secolo,
punteggiato da una serie di agitazioni e disordini. Quelli del '98 a Milano
assunsero, agli occhi dei benpensanti, l'aspetto di una vera e propria
sommossa, che metteva a repentaglio l'integrità dello Stato.
Il
governo, di fronte alle situazioni di disordine, scelse la strada della
reazione, prima con Di Rudinì, poi con Pelloux. Il tentativo di limitare le
libertà costituzionali fallì per la violenta resistenza dell'estrema Sinistra.
Le elezioni anticipate, in cui il governo cercò una soluzione, costituirono
invece un successo delle sinistre e avviarono un processo di maggiore
attenzione verso le esigenze sociali, processo che non fu interrotto neppure
dall'assassinio del re Umberto I, ad opera di un anarchico il 29 luglio 1900.
9 I primi anni del Novecento: l'età giolittiana e la prima
guerra mondiale
Il crollo dei piccoli Stati del XIX secolo
determinò nel secolo successivo l'ascesa di grandi potenze. La rivoluzione
industriale aveva aperto grandi strade per la conquista e il dominio dei
territori d'Oltremare a quei paesi avviati allo sviluppo capitalistico. Così
l'Europa colonizzò il mondo, ma le forti tensioni fra i vari stati e la contesa
dei territori d'Oltremare portarono alla Grande
Guerra.
La Gran Bretagna possedeva territori molto vasti
per cui era difficile evitare rivendicazioni di autonomia; la Francia aveva
ingrandito i suoi domini grazie ad ingenti investimenti, ma senza ottenere
nulla in cambio; Germania e Italia erano alla ricerca di un territorio da
colonizzare quando il mondo era già stato suddiviso; Austria-Ungheria, Russia e
Turchia si indebolivano sempre di più fino alla rovina.
In questo contesto la società fu costretta ad
adattarsi continuamente ai problemi del nuovo secolo: i movimenti operai
cominciarono a rivendicare con più fermezza i propri diritti; marxisti ed
anarchici facevano sorgere timori tra le istituzioni più antiquate; invece le
donne, grazie alle suffragiste, cominciarono a lottare per un riconoscimento
politico.
Questa rivoluzione fu notevole nel mondo
artistico. Una delle personalità più importanti in questo campo fu Pablo Picasso. Nuove correnti artistiche
furono: futurimo, cubismo, espressionismo e astrattismo. In letteratura furono
note le opere di Proust e di Henry James.
Scienza e tecnica furono due protagoniste del
secolo, con grandi personalità come Albert Einstein.
In questi anni, Gran Bretagna, Francia, Germania,
Italia, Russia ed USA diedero inizio ad una politica colonialistica sia per
espandersi economicamente, sia per avere una maggior forza negli affari
internazionali.
Grazie alla potenza industriale e ai nuovi
mercati conquistati, gli USA divennero uno dei paesi più potenti del mondo.
D'altro canto le nazioni europee, sempre più ambiziose, formulavano piani che
però finivano sempre con lo scontrarsi gli uni contro gli altri.
L’indebolimento dell'impero Austro-Ungarico e dell’impero
Ottomano favorirono il dominio tedesco, che organizzò un esercito sempre più
potente nel centro Europa.
Anche l'Italia, nonostante la sua precaria
economia, partecipò alla corsa coloniale, e con la guerra di Libia fu reso più
precario l'equilibrio politico internazionale. Inghilterra e Francia erano
impegnate a proteggere i loro Imperi dalla Germania. La Russia cercava di
mettere in piedi il suo Impero senza tener conto della crisi della sua società.
Fu in questo periodo di debolezza russa e di distrazione occidentale che il
Giappone impose la sua forza politica, industriale e militare, entrando in
competizione con gli Imperi europei e costruendo un proprio spazio asiatico.
Nel frattempo, in seguito alle razzie
colonialistiche, la Cina andava via via dissolvendosi. Era noto infatti che,
fin dalla fine del 1800, le grandi potenze europee avevano avviato
l'espansionismo coloniale che portò alla loro evoluzione economica e
diplomatica. Le motivazioni del cristianesimo, che erano state alla base
dell'occupazione delle nuove terre per la diffusione della fede cristiana e
della civiltà dei bianchi, si sostituirono agli interessi commerciali e
politici. Così, l'occupazione delle colonie incrementò il flusso migratorio
proveniente dagli stati europei.
Robert Salisbury, primo ministro britannico,
affermò: «Possiamo suddividere le nazioni del mondo in due gruppi: quelle vive
e quelle moribonde». Le nazioni vive
erano quelle che godevano della forza derivante dallo sviluppo industriale come
Francia, Germania, USA e Gran Bretagna; quelle moribonde erano da identificarsi in Turchia e Cina perché in via di
disintegrazione politica e geografica. Proprio per questo motivo erano state
sovrastate dalle potenze europee.
10
L'età giolittiana - Giovanni Giolitti (1842 – 1928) dopo aver lavorato per vent’anni al ministero delle Finanze
entra in Parlamento nel 1882 come deputato per il comune di Dronero. L'anno
seguente Giolitti entra nel Governo Crispi come Ministro del Tesoro, divenendo
Primo Ministro nel 1892. Costretto a dimettersi per via dello scandalo
della Banca Romana, fece il suo ritornò al governo come
Ministro degli Interni, dopo l’assassinio di Umberto I. Fu in seguito eletto
Capo del Governo nei primi anni del ‘900. Nella storia politica
dell'Italia unita, la sua permanenza a capo del governo fu una delle più
lunghe.
L'impronta di Giovanni Giolitti nella politica italiana fu
talmente importante che questo periodo è passato passò alla storia come “Età Giolittiana”.
Sebbene
la sua azione di governo sia stata oggetto di critica da parte di alcuni suoi
contemporanei, come per esempio Gaetano Salvemini, Giolitti fu uno dei
politici liberali più efficacemente impegnati nell'estensione della
base democratica del giovane Stato unitario, e nella modernizzazione economica,
industriale e politico-culturale della società italiana a cavallo fra Ottocento
e Novecento.
Furono gli anni delle concentrazioni industriali, delle
formazioni delle masse popolari socialiste e cattoliche, dell’attività
coloniale italiana in Eritrea, Libia e Dodecaneso, delle rivolte per il pane e
della nascita del Partito Fascista.
Il suo programma politico si fondava sullo stimolo e la
protezione industriale, la protezione e la difesa del Bilancio del Regno,
l’eliminazione del monopolio da parte dei privati e sull’opposizione alle forze
finanziare estere.
Giolitti patrocinò l’avventura coloniale in Libia nel 1912,
anche se non si dimostrò d’accordo con l’ingresso dell’Italia nella Grande
Guerra Mondiale. Fu per questo motivo che rassegnò le proprie
dimissioni il 20
marzo 1914.
Contemporaneamente, introdusse il suffragio
universale maschile, fece salire il numero di elettori a
quota 8.000.000, estendendo il voto anche agli elettori analfabeti di età
superiore ai 30 anni.
Fece ogni tentativo per venire a patti con Mussolini. Nel
1921, gli propose un governo di conciliazione, ma senza successo. Dal 1924 si
tenne all'opposizione di Benito Mussolini.
a)
Giolitti e il liberismo riformista -
Negli ultimi anni del secolo, sotto la pressione delle masse popolari che
andavano organizzandosi, la politica repressiva non poté più essere portata
avanti e si ebbe una svolta verso una politica più liberale. Ciò fu dovuto
soprattutto a Giolitti, la cui figura dominò la scena politica italiana sino
allo scoppio della guerra.
Il
principio direttivo dell'azione giolittiana fu di smussare le tensioni sociali
con la concessione di riforme, che andavano incontro alle esigenze più
pressanti delle masse. Il risultato fu l'emarginazione dell'ala estremista del
socialismo a favore dei socialisti riformisti, i quali accettarono, pur ponendosi
all'opposizione, le istituzioni dello Stato e le regole democratiche.
b) Lo
stato neutrale nelle lotte fra capitale e lavoro
- Un aspetto del liberismo riformista del Giolitti fu il
rifiuto di affidare allo Stato il compito di difesa del capitale contro i
lavoratori. Secondo Giolitti, lo Stato doveva assumere un atteggiamento di
neutralità nei conflitti sociali, limitando la sua azione alla tutela
dell'ordine pubblico. Era, di fatto, un riconoscimento del diritto di sciopero
dei lavoratori. Questa politica favorì lo sviluppo delle organizzazioni dei
lavoratori e, contrariamente alle preoccupazioni dei capitalisti più retrivi,
favorì lo sviluppo dell'industria.
c) Lo
sviluppo industriale - Nel
periodo giolittiano, l'economia del Paese, e in particolare l'industria, ebbe
un grande incremento, che si può riassumere in queste cifre: il reddito
nazionale aumentò del 50 per cento dal 1895 al 1915; l'industria, che nel 1895
contribuiva alla produzione totale nella misura del 19 per cento, nel 1914 era
passata al 25 per cento.
Le
industrie che maggiormente si svilupparono furono la tessile (i lanifici di
Biella, Schio e Prato e i cotonifici lombardi e napoletani) e la meccanica
(fabbriche d'auto Fiat e Itala).
In
questo periodo si può collocare la seconda fase della rivoluzione industriale
dell'Italia, con il nascere e lo svilupparsi delle industrie idroelettriche e
termoelettriche. L'elettricità, prevalentemente ricavata dalle nostre risorse
idriche, si sostituiva, in parte, al carbone, che doveva invece essere importato.
Giolitti,
sostenendo lo sviluppo industriale che porterà alla trasformazione della
vecchia struttura dell'economia italiana basata sulla terra in una struttura
basata sull'industria, pensava di favorire l'avanzamento civile del Paese.
Uno
degli strumenti, ai quali Giolitti ricorse per industrializzare il Paese, fu lo
sviluppo dei mezzi di comunicazione (ferrovie e strade), sviluppo che fu
raggiunto grazie a forti investimenti pubblici.
Al
termine dell'età giolittiana, la struttura economica del Paese era tale che
poté sostenere lo sforzo richiesto dalla guerra, che a sua volta, tra tanti e
tragici effetti negativi, determinò un ulteriore sviluppo industriale.
d) Il
pareggio del bilancio - La
floridezza economica consentì a Giolitti - nonostante le spese per i grandi
lavori pubblici - di mantenere il pareggio del bilancio già raggiunto al tempo
di Crispi, ed anzi di migliorare ancora la situazione finanziaria dello Stato.
La lira italiana acquistò tale prestigio da fare aggio sull'oro, cioè da essere
preferita alla moneta aurea sul mercato internazionale.
e) Le
riforme - L'avanzata civile del Paese si tradusse in un miglioramento
della condizione del proletariato grazie anche alla legislazione sociale
promossa da Giolitti a favore dei lavoratori infortunati o invalidi o anziani,
a protezione del lavoro delle donne e dei fanciulli, del diritto al riposo
settimanale e di altre provvidenze assistenziali. In questo quadro, per le sue
ripercussioni sociali, si inserisce l'estensione dell'obbligo elementare (obbligo
che peraltro fu spesso ampiamente evaso per le difficili condizioni economiche,
soprattutto dei contadini e di molti comuni che non erano in grado di
approntare aule e attrezzature).
f) L'estensione
del diritto di voto - Nel 1912 fu approvata una legge che estendeva
il diritto di voto a tutti i cittadini maschi, dopo il 21° anno di età, e dopo
il 30° per gli analfabeti. Gli elettori passarono così da tre milioni e mezzo a
circa otto milioni. Le donne restavano sempre escluse dal diritto di voto.
Anche
se questo diritto non modificò immediatamente la situazione delle classi più
povere, fu tuttavia uno strumento importante per la loro progressiva presa di
coscienza.
g)
L'avanzata delle classi popolari - La politica
giolittiana avvantaggiò le organizzazioni politiche delle masse popolari: il
Partito Socialista e il Partito Popolare: un partito cattolico, questo secondo,
costituitosi a seguito del ritiro, da parte della Santa Sede, del divieto ai
cattolici di partecipare alla vita dello Stato italiano, il già ricordato « non
expedit». Nacque anche, a tutela dei lavoratori e a promozione dei loro
diritti, la Confederazione generale del lavoro, cui seguì ben presto la
Confederazione dell'industria.
h) La
guerra di Libia - Per quanto contrario ad avventure militari, Giolitti ritenne
di non poter rimandare oltre l'occupazione della Tripolitania e della Cirenaica
(la «quarta sponda»), nel timore che altre nazioni europee se ne
impossessassero. Ne seguì una guerra alla Turchia, dalla quale quelle regioni
dipendevano, guerra che si concluse rapidamente con la loro conquista e la
costituzione in colonia della Libia (22 settembre-5 novembre 1911). In realtà,
rimasero focolai di resistenza, che protrassero le operazioni militari per
molti anni.
i) Gli
aspetti negativi della politica giolittiana
- Non mancarono tuttavia, nella politica di Giolitti, aspetti
negativi. Egli infatti fece proprio il «trasformismo» inaugurato dal Depretis,
impedendo così il costituirsi di una corretta dialettica parlamentare, cioè il
formarsi di una effettiva opposizione; continuarono di conseguenza clientelismi
e favoritismi.
L'elemento
più negativo fu, però, aver favorito lo sviluppo dell'industria del Nord a
scapito del Sud, aggravando il divario già esistente fra le due parti del
Paese.
Il
fenomeno dell'emigrazione, specie nel Sud, acquistò dimensioni notevolissime,
impoverendo ancor più regioni già depresse ed esponendole al pericolo della
demagogia e della corruzione elettorale, cui Giolitti ricorse in larga misura.
l) L'età
delle masse - Nel periodo giolittiano si assiste, in Italia, alla prima
comparsa di un fenomeno di carattere europeo: il ridimensionamento delle élite,
cioè delle minoranze quali uniche protagoniste della storia, e la progressiva
partecipazione ad essa delle masse. D'ora in avanti, e sempre più (e la prima
guerra mondiale concorrerà ad accelerare questo fenomeno) avranno peso nella
vita degli Stati le masse organizzate in partiti e sindacati.
m)
L'irrompere dell'irrazionale nella cultura -
Al di sotto della liscia superficie dell'età giolittiana, cui corrispose, sul
piano europeo, quella che fu definita «la belle époque», quasi a significare
che la civiltà era entrata in una fase di progresso inarrestabile e di pace
sicura, in realtà si agitavano tensioni sociali e internazionali, che
irromperanno alla luce con la guerra mondiale e la rivoluzione russa.
Queste
inquietudini sotterranee vengono colte dagli artisti e si esprimono nelle varie
forme di quel vasto movimento che va sotto il nome di decadentismo, il cui
carattere dominante è il rifiuto della ragione.
11 La prima guerra mondiale (1914 -1918)
La prima guerra mondiale fu un conflitto che coinvolse le
principali potenze mondiali e molte di quelle minori tra l'estate del 1914 e la
fine del 1918. Chiamata inizialmente dai contemporanei guerra europea, con il coinvolgimento successivo delle colonie
dell'Impero britannico e di altri
paesi extraeuropei tra cui gli Stati
Uniti d'America e l'Impero
giapponese, prese il nome di "guerra mondiale" o anche "grande
guerra": fu infatti il più grande conflitto armato mai combattuto fino
alla seconda guerra mondiale.
Il conflitto ebbe
inizio il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra dell'Impero
austro-ungarico al Regno di Serbia in seguito all'assassinio
dell'arciduca Francesco
Ferdinando d'Asburgo-Este, avvenuto il 28 giugno 1914 a Sarajevo, e si concluse
oltre quattro anni dopo, l'11 novembre 1918. A causa del gioco di alleanze
formatesi negli ultimi decenni dell'Ottocento, la guerra vide schierarsi le
maggiori potenze mondiali, e rispettive colonie, in due blocchi contrapposti:
da una parte gli Imperi centrali (Germania,
Austria-Ungheria, Impero
ottomano) e la Bulgaria (questa
dal 1915) e dall'altra le potenze
Alleate rappresentate
principalmente da Francia, Regno Unito, Impero russo e Italia (questa dal 1915). Oltre 70 milioni di
uomini furono mobilitati in tutto il mondo (60 milioni solo in Europa) di cui
oltre 9 milioni caddero sui campi di battaglia; si dovettero registrare anche
circa 7 milioni di vittime civili, non solo per i diretti effetti delle
operazioni di guerra ma anche per le conseguenti carestie ed epidemie.
La guerra si
concluse definitivamente l'11 novembre 1918 quando la Germania, ultimo degli
Imperi centrali a deporre le armi, firmò l'armistizio imposto dagli Alleati. I
maggiori imperi esistenti al mondo - tedesco, austro-ungarico, ottomano e russo
- si estinsero, generando diversi stati nazionali che ridisegnarono
completamente la geografia politica dell'Europa.
a) L'immane massacro - La
«belle époque» si concludeva con l'immane massacro della «grande guerra», come
fu chiamato il conflitto mondiale 1914-18. Un massacro che i ritrovati delle
scienze e della tecnica, dalle quali ci si era atteso un indefinito progresso
nella pace, resero di proporzioni mai prima immaginate: otto milioni di morti,
vaste e ricche regioni ridotte a deserti di rovine.
b) Le ragioni del conflitto - Le
ragioni più importanti che favorirono lo scoppio della guerra si possono così
riassumere:
il timore per la crescente potenza politica,
militare ed economica della Germania, che non tralasciava occasione per
ostentare provocatoriamente la sua forza e le sue mire di supremazia;
gli irredentismi che contrapponevano la
Francia alla Germania (per l'Alsazia e la Lorena che la prima rivendicava) e
l'Italia all'Austria (per Trento e Trieste);
le rivalità tra i popoli balcanici che
portavano, tra l'altro, ad una contrapposizione dell'Austria alla Russia (che,
facendosi patrona dei popoli slavi, voleva contrastare il predominio e
l'espansione dell'Austria nella penisola).
c) Il peso dell'irrazionalismo - L'ondata di
irrazionalismo che aveva caratterizzato la cultura europea di fine secolo e che
esaltava l'aspetto istintuale, la volontà di potenza, l'uso della forza e anche
della violenza come espressioni positive di vitalità, indebolì le resistenze di
coloro che, per evitare gli indicibili sacrifici di una guerra, sostenevano il
ricorso alla trattativa e al compromesso.
d) Un conflitto mondiale - Poiché gli interessi delle
grandi potenze implicate si estendevano, tramite gli imperi coloniali, agli
altri continenti, ed il Giappone prima (1914) e gli Stati Uniti poi (1917)
parteciparono direttamente alle operazioni, il conflitto ebbe estensione
mondiale, anche se i campi di battaglia decisivi furono quelli europei. Fu la
prima guerra a coinvolgere tutto il pianeta.
e) Una guerra totale - Anche se le guerre
napoleoniche avevano messo in luce l'importanza, ai fini della vittoria, di
riuscire a mobilitare le risorse del paese, solo con la guerra 1914-18 la
supremazia finale dipese sia dallo sforzo produttivo che l'economia, e in
particolare l'industria, seppe esprimere in ciascun Stato, sia dall'energia
morale della popolazione civile, che doveva sostenere questo impegno globale.
f) Una guerra di posizione - I tedeschi pensavano di
concludere le operazioni belliche nel giro di poche settimane, battendo prima
la Francia e rivolgendosi poi contro la Russia. Fallito il loro piano, alla
guerra di movimento subentrò quella di posizione, tanto sul fronte occidentale
che su quello orientale: così pure su quello italiano, dopo che anche l'Italia
entrò in guerra.
Per quattro anni, milioni di soldati si fronteggiarono dalle
opposte trincee e le sanguinose offensive (che duravano settimane e mesi, e
costavano la vita di decine e a volte di centinaia di migliaia di soldati)
portavano soltanto ad irrisori spostamenti delle linee.
g) Le nuove armi - Oltre che dallo sviluppo delle artiglierie, che acquistarono
una portata e una potenza mai viste, la guerra 1914-18 fu caratterizzata
dall'introduzione di alcune grosse novità nei mezzi bellici, che modificarono
radicalmente le tecniche di combattimento: le mitragliatrici, i carri armati, i
lanciafiamme, i gas venefici e l'aviazione (utilizzata quasi esclusivamente per
la ricognizione).
Sui mari, più che le mastodontiche corazzate, assunsero
importanza i sottomarini, la nuova arma con la quale i Tedeschi riuscirono a
mettere in crisi i trasporti, di cui gli alleati avevano necessità per i loro rifornimenti
di truppe, di materiali e di viveri.
h) Gli opposti schieramenti - Due
furono i gruppi di potenze che si fronteggiarono. Da una parte il blocco degli
Imperi Centrali: Germania, Austria, Turchia e Bulgaria; dall'altra le potenze
dell'intesa (o, genericamente, gli Alleati: Francia, Russia, Serbia, Belgio,
Inghilterra, Giappone, Italia, Romania e Stati Uniti.
Gli Stati del primo gruppo erano avvantaggiati dal fatto che
la contiguità dei loro territori facilitava le manovre per linee interne e i rapidi
spostamenti di truppe, armamenti e materiali da un fronte all'altro; quelli del
secondo gruppo erano favoriti dal fatto di poter comunicare con i non
belligeranti, per cui sentirono meno degli Imperi Centrali la penuria di generi
alimentari e di materie prime indispensabili per la condotta della guerra. Fu
questa la ragione che portò alla sconfitta finale degli Imperi Centrali
i) La
neutralità dell'Italia: interventisti e neutralisti
- Dopo l'attentato di Sarajevo Austria-Ungheria e
Germania decisero di tenere all'oscuro delle loro decisioni l'Italia, in
considerazione del fatto che il trattato di alleanza avrebbe previsto, in caso
di attacco dell'Austria-Ungheria alla Serbia, compensi territoriali per
l'Italia. Il 24 luglio Antonino
di San Giuliano, ministro degli esteri italiano,
prese visione dei particolari dell'ultimatum e protestò con l'ambasciatore
tedesco a Roma, dichiarando che se fosse scoppiata la guerra austro-serba
sarebbe derivata da un premeditato atto aggressivo di Vienna; la decisione ufficiale
e definitiva della neutralità italiana fu presa nel Consiglio dei ministri del
2 agosto 1914 e fu diramata la mattina del 3. L'Italia, quindi, appigliandosi
al mancato rispetto da parte dell'Austria di alcune clausole del trattato della
Triplice Alleanza, dichiarò inizialmente la sua neutralità. La neutralità ottenne inizialmente consenso unanime,
sebbene il brusco arresto dell'offensiva tedesca sulla Marna facesse nascere i
primi dubbi sulla invincibilità tedesca.
Ma
nel Paese si formarono ben presto due correnti: quella degli interventisti e quella dei neutralisti.
I
gruppi interventisti minoritari paventavano la sminuita
statura politica, incombente sull'Italia, se fosse rimasta spettatrice passiva:
i vincitori non avrebbero dimenticato né perdonato, e se a prevalere fossero
stati gli Imperi centrali si sarebbero vendicati della nazione vista come
traditrice di un'alleanza trentennale. Tra i primi, che sostenevano
l'intervento a fianco dell'Intesa, si distinsero: gli irredentisti, che miravano
all'annessione di Trento e di Trieste; gli industriali,
favorevoli al conflitto perché vi vedevano una fonte di profitti grazie alle
commesse militari; i nazionalisti che
volevano inserire l'Italia tra le grandi potenze.
Neutralisti erano invece, con alcune eccezioni, i socialisti, che consideravano la guerra
espressione degli interessi dei capitalisti. Erano neutralisti anche i cattolici, che, contrari al conflitto
per motivi religiosi, guardavano inoltre con preoccupazione ad una eventuale sconfitta
dell'Austria cattolica. Per motivi diversi era neutralista Giolitti, il quale riteneva che, astenendosi dalla guerra, l'Italia
avrebbe potuto ottenere dall'Austria, grazie a trattative diplomatiche,
notevoli concessioni.
Alla
fine, prevalsero le forze interventiste e l'Italia, il 24 maggio 1915, entrò in
guerra a fianco degli Alleati contro gli Imperi Centrali: alla fine del 1914 il ministro degli esteri Sidney Sonnino avviò
contatti con entrambe le parti per ottenere i maggiori compensi possibili e il
26 aprile 1915 concluse le trattative segrete con l'Intesa mediante la firma
del patto di Londra, con il quale l'Italia si impegnava a entrare in
guerra entro un mese. Il 3 maggio successivo fu rotta la Triplice alleanza, fu
avviata la mobilitazione e il 24 maggio fu dichiarata guerra
all'Austria-Ungheria ma non alla Germania, con cui Antonio
Salandra sperava, futilmente, di non guastare
del tutto i rapporti.
Il piano strategico dell'esercito italiano, sotto il comando
del generale e capo di stato maggiore Luigi Cadorna, prevedeva un atteggiamento difensivo nel settore
occidentale, dove l'impervio Trentino costituiva un saliente incuneato
nell'Italia settentrionale, e un'offensiva a est, dove gli italiani potevano
contare a loro volta su un saliente che si proiettava verso il cuore
dell'Austria-Ungheria. Dopo aver occupato il territorio di frontiera, il 23
giugno gli italiani lanciarono il loro primo
assalto alle postazioni
fortificate austro-ungariche, attestate lungo il corso del fiume Isonzo:
l'azione andò avanti fino al 7 luglio, ma a dispetto della superiorità numerica
gli italiani non conquistarono che poco terreno al prezzo di molti caduti. Lo
schema si ripeté identico a metà luglio, e poi ancora in ottobre e novembre:
ogni volta gli assalti frontali degli italiani cozzarono sanguinosamente contro
le trincee austro-ungariche attestate sul bordo dell'altopiano del Carso, che sbarrava agli attaccanti la
via per Gorizia e Trieste.
Sul fronte italo-austriaco, il conflitto si presentò subito
estremamente lento, combattuto nelle trincee scavate nelle montagne del Friuli
da soldati reclutati tra le fasce più povere della popolazione.
Nel 1917 l’offensiva
austriaca divenne sempre più pressante, finché l’esercito italiano subì la
famosa sconfitta
di
Caporetto,
il 24 ottobre del 1917, con gravi ripercussioni anche sulla vita economica e
sociale del Paese. Ebbero infatti inizio una serie di scioperi e di
manifestazioni, tali da costringere il governo a fare grandi promesse ai
soldati, al fine di risollevarne il morale, evitando defezioni ed
ammutinamenti.
Il 1918 fu l’anno decisivo del conflitto: sul fronte
italo-austriaco, l’esercito italiano, guidato dal un nuovo generale Armando Diaz, riuscì a conquistare
Trento e Trieste, stipulando un armistizio con l’Austria e giungendo finalmente
alla pace.
l) La rivoluzione russa e l'intervento
americano - Al di là delle operazioni belliche - per le quali si rimanda
alla cronologia - una considerazione particolare meritano due eventi, per le
rilevantissime conseguenze che ebbero nella successiva storia mondiale: la
rivoluzione russa e l'intervento americano, che si verificarono entrambi
nell'aprile del 1917.
Con la rivoluzione russa - che ebbe come immediata
conseguenza il ritiro della Russia dal conflitto - si costituì nell'Est
dell'Europa un forte stato socialista, l'Unione delle Repubbliche Sovietiche
Socialiste (U.R.S.S.), che diede vigore ai movimenti socialisti in Europa e nel
mondo, e caratterizzò, con la sua presenza, tutta la storia successiva fino ai
giorni nostri.
L'intervento degli Stati Uniti d'America (USA) fu determinato
da varie cause:
·
dalla
solidarietà con gli ideali democratici delle potenze dell'Intesa;
·
dalla
preoccupazione di salvaguardare i capitali investiti dalle industrie americane
con la cessione a credito ai belligeranti Alleati di armi e materie prime;
·
dai danni e
dalle reazioni emotive suscitate nell'opinione pubblica americana dalla guerra
sottomarina, che i tedeschi avevano spinto alle estreme conseguenze affondando
anche le navi delle potenze neutrali;
·
dalla
convinzione che, soltanto prendendo parte diretta alla guerra, gli USA
avrebbero potuto partecipare alle decisioni per l'assetto politico postbellico.
Ed era una convinzione esatta: la presenza degli USA alla conferenza della pace
non solo fu di estremo rilievo, ma contribuì decisamente a portarli a quella
posizione di preminenza, che doveva precisarsi con la seconda guerra mondiale.
m) Carattere dei trattati di pace - I trattati di
pace, che furono imposti senza essere discussi dalle potenze dell'Intesa alle
nazioni vinte, ebbero un carattere punitivo, particolarmente quello con la
Germania, e ne misero in ginocchio l'economia.
Tutto ciò, insieme ad una serie di altri problemi politici
irrisolti, rese la pace fragile e di breve vita: poco più di vent'anni dopo
(settembre 1939), essa fu travolta da un nuovo, più esteso e distruttivo
conflitto mondiale.
n) Il significato della guerra per l'Italia - Per l'Italia la
guerra 1915-18 fu, in un certo senso, l'ultima delle guerre d'indipendenza,
perché portò al compimento dell'unità politica, con l'annessione del Trentino e
della Venezia Giulia.
Ma ben più complesso è il suo significato, se guardiamo alle
grandi trasformazioni che essa indusse nella società italiana:
·
l'economia di
guerra stimolò lo sviluppo dell'industria ad un ritmo prima imprevedibile;
·
ciò comportò una
vasta mobilitazione delle masse operaie e non solo degli uomini, ma anche delle
donne, con fondamentali trasformazioni politiche, sociali e di costume;
·
l'incontro,
avvenuto nelle trincee, delle masse prevalentemente contadine (provenienti da
regioni tra loro tanto lontane non solo geograficamente, ma per cultura,
tradizione e costumi) favorì l'unificazione sociale del Paese e diede ai
lavoratori coscienza della loro consistenza, e della loro forza. Su questa
presa di coscienza potrà far conto, nell'immediato dopoguerra, il Partito
Socialista per la sua rapida avanzata.
Queste profonde trasformazioni sociali sono alla base delle
inquietudini e dei rivolgimenti che caratterizzeranno gli anni immediatamente
successivi alla pace.
12 Tra le due guerre: l’età dei totalitarismi – Nel
campo dell'analisi storiografica e politica il termine totalitarismo cominciò a essere applicato alla fine degli anni
venti del Novecento, in Inghilterra, tanto al regime fascista quanto a quello comunista che si era imposto in Russia con la rivoluzione
del 1917. Ma questo accostamento incontrò forti resistenze fra gli storici di
sinistra che vedevano il modello totalitario compiutamente attuato soltanto
nei sistemi politici guidati da Mussolini e da Hitler.
Nel 1934 lo
storico delle dottrine politiche George H. Sabine ripropose la
definizione di regimi totalitari per
tutti quelli in cui vi fosse l'assoluto predominio di un partito unico.
Dopo la fine
della seconda guerra mondiale la categoria del totalitarismo entrò completamente nel linguaggio della storiografia
politica per descrivere le dittature monopartitiche fasciste e comuniste, o
alcune di esse.
Hannah Arendt
(1906-75), filosofa tedesca, costretta ad abbandonare la Germania dopo la
salita al potere del Nazismo, a cui dedicò un ampio saggio pubblicato nel 1951
(Origins of Totalitarianism;.
In quest'opera, che si compone di tre parti (l'Antisemitismo, l'Imperialismo, il Totalitarismo),
l'autrice spiega che i movimenti totalitari trovano le condizioni del loro
sviluppo nella moderna società di massa e basano la propria forza su settori
di essa solitamente refrattari all'attività politica ed estranei ai partiti e
alle organizzazioni tradizionali. Per questa ragione quei movimenti non si
trovano nella necessità di spostare consensi verso le proprie posizioni
sottraendoli ad altre mediante le forme consuete del confronto politico, della
confutazione e della persuasione: alle masse a cui si rivolgono, digiune di
conoscenze politiche ed estranee ad ogni impegno in questioni di interesse
pubblico, esse offrono un'ideologia, ovvero un
sistema articolato di credenze, con cui identificarsi fanaticamente. Il partito
unico, strumento indispensabile per l'esercizio del potere
totalitario, controlla ogni aspetto della vita sociale mediante una polizia
segreta onnipresente che si impone attraverso il terrore.
Terrore e ideologia
sono dunque, secondo Arendt, i requisiti fondamentali del totalitarismo e
questo trova espressione in un capo carismatico che
incarna il potere stesso e al quale tutti gli apparati dello Stato fanno
riferimento. Egli è il depositario dell'ideologia che da lui soltanto può
essere interpretata e corretta ed è lui infine che individua chi debba essere
additato come nemico potenziale o
oggettivo contro cui attivare la macchina del terrore e la polizia segreta.
L'altra teoria
classica del totalitarismo fu formulata da Carl J. Friedrich e Zbigniew K. Brzezinski, due studiosi
statunitensi in un'opera pubblicata nel 1956 (Totalitarian Dictatorship and Autocracy) nella
quale sono indicati sei elementi caratteristici di questo tipo di regime:
1.
un'ideologia
che abbraccia tutti gli aspetti della vita degli individui e che è
proiettata verso uno stadio finale e perfetto della società;
2.
un
partito unico di massa, guidato da un solo capo, che riunisca
una minoranza (10% circa della popolazione) strutturata in forma rigidamente
gerarchica e raccolta intorno a un forte nucleo di militanti determinati e
fanatici e ciecamente consacrati all'ideologia e pronti a contribuire in ogni
modo al suo trionfo;
3. un sistema di terrore realizzato
attraverso il controllo del partito e della polizia segreta ed esercitato sia
verso i provati nemici del regime,
sia verso intere classi della popolazione;
4. il monopolio del
partito e del governo, di tutti i mezzi di comunicazione di
massa;
5. il monopolio dell'uso effettivo di
tutti gli strumenti di lotta armata;
6. il
controllo centralizzato e la guida dell'intera economia
attraverso il coordinamento burocratico di entità corporative.
Vi
sono molte analogie fra il modello descritto dalla Arendt e quello
formulato da Friedrich e Brzezinski, ed entrambi concordano nel definire il
totalitarismo una forma di dominio politico del tutto nuova e senza
precedenti nel passato e nell'identificare in esso, come aspetti centrali,
l'ideologia, il terrore poliziesco, il partito unico di massa. Ma compaiono
anche evidenti differenze, prima di tutto perché, a differenza di
Friedrich e Brzezinski che si limitano a descrivere il fenomeno e non lo
collegano a un progetto politico con cui esso sia intimamente e necessariamente
intrecciato, secondo la Arendt il totalitarismo si propone sempre un fine
strategico che consiste nella trasformazione della natura umana; inoltre, la
filosofa tedesca trapiantata negli Usa giudicava che fossero espressioni
compiute del totalitarismo soltanto la Germania di Hitler e la Russia di
Stalin, mentre gli altri due studiosi inserivano fra quelli totalitari anche
gli altri regimi comunisti e il fascismo italiano.
Se
il totalitarismo rappresenta uno sviluppo possibile della società moderna in
senso speculare, e quindi opposto, alla democrazia liberale, è lecito
domandarsi che cosa stia all'origine di queste differenti alternative. Una
risposta che ha suscitato consensi, ma anche radicali divergenze, è quella
formulata da Jacob Talmon nel suo saggio sulle Origini della
democrazia totalitaria.
Talmon
individua le cause della separazione fra democrazia liberale e democrazia
totalitaria nella comparsa di una concezione messianica della politica, in base alla quale si
ritiene possibile la costruzione di una società perfetta. Un orientamento di
questo genere compare nell'opera del filosofo illuminista Jean-Jacques Rousseau
(1712-78) e ha trovato applicazione nel corso della Rivoluzione francese
da parte di dirigenti giacobini come Maximilien Robespierre (1758-94)
di cui Talmon analizza a lungo il pensiero. La conclusione che lo studioso
ricava è che, mentre «l'orientamento liberale sostiene che la politica procede
per tentativi ed errori, e considera i sistemi politici espedienti pragmatici
escogitati dall'ingegno e dalla libertà dell'uomo», il pensiero democratico
totalitario si basa invece «sull'asserzione di una sola e assoluta verità
politica. Esso può essere definito messianismo politico in quanto postula un
insieme di cose preordinato, armonioso e perfetto, verso il quale gli uomini
sono irresistibilmente spinti e al quale devono necessariamente giungere, e riconosce infine un solo piano di
esistenza, la politica».
13.
Il fascismo – L'interpretazione
crociana del Fascismo era quella della malattia morale. Questa interpretazione
ha avuto tra i suoi maggiori propugnatori storici in gran parte di origine
tedesca e italiana. In Italia Benedetto Croce che espose la sua tesi, riguardo a
questa interpretazione, prima in un articolo del New
York Times del novembre 1943, in seguito nel discorso del 28
gennaio 1944 a Bari al primo congresso dei Comitati di liberazione, e infine in
un'intervista del marzo 1947. Per
Croce il Fascismo era visto come una parentesi
tra lo stato monarchico liberale e lo stato repubblicano democratico, intesi
come uno Stato successore dell'altro. Tale parentesi
era dovuta a una malattia morale che avrebbe corrotto la società e
la politica con il Fascismo.
Sul fascismo e
sulla sua interpretazione in stretta relazione al marxismo, il filosofo
cattolico Augusto Del Noce ha
dedicato gran parte dei suoi studi e delle sue opere. Del Noce intende mostrare
la continuità, dalla rivoluzione francese in poi, che è posta fra l'hegelismo,
il marxismo e il fascismo come tre momenti dell'unico processo di
secolarizzazione. Il filosofo inizia quindi dall'analisi della figura storica
di Mussolini e della sua formazione culturale, notando il suo giovanile
anticlericalismo, il suo spontaneo confluire nel socialismo, e il seguente
superamento di quest'ultimo per l'evoluzione fascista del suo pensiero. È in
particolare sul concetto di «rivoluzione»
fascista che Del Noce pone
l'accento, essendo questo un concetto base anche del marxismo, una forma di
azione tanto vaga e generale da poter attrarre a sé ogni sorta di ceto sociale
(anche il proletariato) e di frangia ideologica. Questo permette l'affiancamento
ideale dell'attualismo di Giovanni Gentile (ideologo
del regime) al modernismo teologico, fiorente a quel tempo e
condannato come eresia dalla Chiesa cattolica.
L'interpretazione di
tradizione marxista, considera il fascismo come un prodotto della società
capitalista e della reazione della grande borghesia contro il proletariato
attraverso la mobilitazione di masse piccolo-borghesi e sottoproletarie (il regime reazionario di massa descritto
dai comunisti italiani in clandestinità). Nel 1925 Gramsci scrive: "Noi
abbiamo una spiegazione di classe del fenomeno fascista",
un'interpretazione che De Felice definisce come "fascismo reazione di
classe estrema del capitalismo per difendere se stesso".
L'interpretazione
democratico-radicale di Gaetano
Salvemini, di Piero Gobetti, del
movimento Giustizia e Libertà e poi del Partito d'Azione, considera il fascismo come un prodotto logico,
inevitabile, degli antichi mali d'Italia. Per Carlo Rosselli il fascismo aveva
fatto emergere i vizi congeniti degli italiani.
L'interpretazione
che Renzo De Felice dà del fascismo si articola su tre
temi fondamentali: l'origine socialista del pensiero di Mussolini e la
differenza fra il fascismo e le dittature di destra contemporanee, la
distinzione fra il fascismo movimento
e il fascismo regime, la
realizzazione di un consenso popolare determinante a garantire stabilità e
successo al regime fascista. De Felice ha avuto il merito di scardinare
l'univocità della storiografia sul fascismo, fino agli anni '70, legata soltanto
alla interpretazione marxista del fenomeno fascista come reazione dei ceti
dominanti all'irrompere delle masse in politica grazie al socialismo. I suoi
studi sono stati proseguiti dalla cosiddetta scuola defeliciana.
a) La
crisi della democrazia in Europa - Il
dopoguerra fu caratterizzato dalla crisi della democrazia, crisi che venne
manifestandosi e accentuandosi col procedere degli anni. La conclusione fu il
costituirsi di stati autoritari, prima in Italia (fascismo), poi in Germania
(nazismo), infine in Spagna (franchismo). Anche in U.R.S.S. il regime dei
Soviet, che aveva caratterizzato i primi anni della rivoluzione, trapassa nella
gestione totalitaria e dittatoriale di Stalin.
Di
questi movimenti ci limiteremo qui ad illustrare i due che più da vicino
toccarono la vita del nostro Paese: il fascismo e il nazismo.
b) Crisi
sociale dell'Italia dopo la prima guerra mondiale
- Nonostante l'esito vittorioso, la prima guerra mondiale
lasciò l'Italia in una situazione di gravi disordini connessi con gli avvenimenti
sociali e politici verificatisi durante il conflitto.
Da
paese prevalentemente agricolo, l'Italia si avviava a diventare, almeno nel
Nord un paese altamente industrializzato. Le masse rurali e il proletariato
urbano, esclusi dall'effettiva partecipazione alla gestione dello Stato,
premevano per modificare tale situazione e migliorare le loro condizioni
economiche, sociali e politiche. Esse trovavano coordinamento e guida nel
partito socialista, mentre il successo della rivoluzione bolscevica, che in
Russia aveva portato il proletariato al potere, serviva da stimolo alla loro
azione.
L'avanzata
delle classi proletarie era avversata, oltre che dal grande capitale, dalla
media e piccola borghesia, che si vedeva minacciata nel suo prestigio sociale. Per
gran parte delle masse cattoliche, inoltre, data la componente antireligiosa
implicita nell'ideologia marxista, l'avanzata del socialismo costituiva una
minaccia per la cristianità.
A
queste ragioni di turbamento si aggiungeva l'insoddisfazione di molti giovani
reduci, appartenenti agli strati piccolo e medio borghesi, che, durante il
conflitto, si erano trovati in posti di comando e di prestigio e ora mal si
adattavano a rientrare nella vita normale.
c) I
Fasci di combattimento e l'ascesa di Mussolini
- Questa complessa situazione, aggravata dall'incerto
atteggiamento del partito socialista che intimoriva gli avversari col suo
massimalismo, facendo balenare lo spauracchio di una rivoluzione, che non aveva
né la capacità né la reale volontà di attuare, favorì lo svilupparsi di
movimenti di destra, fra i quali primeggiò quello dei «Fasci di combattimento»,
fondato da Benito Mussolini il 23 marzo 1919. Esso si affermò grazie all'uso
della violenza da parte delle sue squadre armate, che ben presto furono sostenute
dagli agrari e, successivamente, dagli industriali e dalla tacita connivenza
delle autorità.
Il
fallimento della occupazione operaia delle fabbriche rafforzò ulteriormente le
destre che riscossero un successo elettorale nel '21. Fu questo l'inizio dell'ascesa
ufficiale del fascismo, che si affermò poi con la Marcia su Roma (28-10-1922) e
la designazione di Mussolini a capo del governo.
Dopo
un breve periodo di collaborazione con esponenti di altri partiti, Mussolini,
abolite le libertà costituzionali (3-1-1925), instaurò un regime totalitario.
Repubblicano
e anticlericale alle sue origini, il fascismo si alleò poi con la monarchia e
cercò l'appoggio della Chiesa, presentandosi come il suo salvatore contro il
«comunismo ateo»
Per
dare un contenuto sociale alla sua «rivoluzione», elaborò la teoria dello Stato
corporativo che, sotto l'etichetta di conciliare gli interessi antitetici del
capitale e del lavoro, nell'interesse supremo dello Stato, di fatto trasformò
lo Stato nel tutore dell'interesse del capitale. L'unico carattere che il
fascismo costantemente conservò fu l'esasperato nazionalismo, che ben presto si
manifestò come presuntuoso imperialismo.
d) La
crisi del fascismo e il suo crollo -
La conquista dell'Etiopia (1936) e la proclamazione dell'Impero segnano il
culmine del successo fascista e del consenso che il fascismo era riuscito ad
ottenere fra il popolo. L'inizio della sua parabola discendente e della
frattura con la società italiana si può individuare nel momento in cui
Mussolini decise di avvicinarsi alla Germania (1937), per ovviare a
quell'isolamento in cui l'Italia si era trovata a seguito della guerra etiopica
condannata dagli altri Paesi membri della Società delle Nazioni.
In
particolare, gli nocquero le conseguenze di tale avvicinamento: la
partecipazione, con reparti di volontari, alla guerra civile di Spagna in
appoggio a Franco e a fianco dei «camerati» tedeschi; la promulgazione, ad
imitazione di quanto Hitler aveva fatto in Germania di una legislazione
antisemita (leggi razziali).
La
partecipazione alla seconda guerra mondiale, in qualità di alleato della
Germania, e i gravi insuccessi militari determinarono la caduta di Mussolini e
il crollo del fascismo (25 luglio 1943).
e) La
repubblica sociale di Salò - La
liberazione di Mussolini (che era stato relegato sul Gran Sasso) ad opera dei
tedeschi portò a una effimera rinascita del regime fascista, che, per
l'occasione, richiamandosi alle sue origini repubblicane, proclamò la
Repubblica Sociale Italiana, detta Repubblica di Salò dal paese sul lago di
Garda dove il governo aveva sede. La sconfitta tedesca in Italia e il successo
delle azioni partigiane ne segnarono la fine.
f) Come
giudicare il fenomeno fascista - Il
fascismo, secondo alcuni, fu soltanto una malattia passeggera nello sviluppo
liberale dell'Italia contemporanea. E' questa la tesi sostenuta, ad esempio,
dal filosofo Benedetto Croce. Per altri, rappresentò invece la manifestazione
estrema e caratteristica di una permanente tendenza antidemocratica della
nostra storia nazionale, che ha tenuto costantemente le masse al di fuori della
vita politica.
Spetterà
alla Resistenza colmare, almeno in parte, questo divorzio fra Stato e popolo, e
di creare così le premesse per una costituzione che prevede la partecipazione
attiva delle masse democratiche alla cosa pubblica.
14 Il nazismo – Il 10
luglio 1921, in una Germania ridotta alla miseria dal disastro bellico, Adolf
Hitler, un anonimo ed oscuro reduce di guerra di origini austriache, era
eletto capo indiscusso di una piccola formazione di destra, dal nome Partito nazional-socialista dei lavoratori
tedeschi. Dopo anni di militanza quel piccolo manipolo di visionari avrebbe
raggiunto, sotto il segno della svastica, antico simbolo indo-europeo, il
dominio sull’Europa, con il fine di costituire un grande Reich millenario,
volto a sottomettere il mondo intero.
I principi enunciati da Hitler nel Mein
Kampf, riassumibili nel principio
della superiorità della razza ariana eletta, destinata ad imporre la propria
egemonia, trovarono tragica e sistematica attuazione nello sterminio di 6
milioni di ebrei, nei massacri, nei rastrellamenti, nell’incubo cui
dovettero soggiacere decine di migliaia di persone dal gennaio 1933, anno
dell’ascesa al potere del nazional-socialismo, fino al maggio del 1945, quando,
in una Berlino ridotta ad un mucchio di rovine, la bandiera rossa sovietica fu
issata sul pennone del Reichstag. Fu così la fine di quell’oscuro e malefico
impero, di una perversa ideologia che il suo fuhrer voleva millenaria e che invece non sopravvisse alla
straripante superiorità alleata; ad una ad una le armate tedesche che avevano
occupato l'Europa e apparivano invincibili, furono travolte e sconfitte, fino
alla capitolazione, che pose termine alla spirale di violenza, ma non riuscì a
rimuovere e a cancellare il ricordo di una tragedia costata 50 milioni di morti
e destinata a rimanere indelebile, nella memoria collettiva.
a) Crisi
politica ed economica della Repubblica di Weimar
- In Germania, dopo la fuga del
Kaiser Guglielmo II, fu proclamata la repubblica (9 novembre 1918), guidata da
un governo provvisorio di indirizzo socialdemocratico.
La situazione interna era però molto
delicata: nel gennaio 1919 a Berlino scoppiò una rivoluzione, capeggiata dal Partito comunista fondato da Karl
Liebknecht e Rosa Luxemburg e finalizzata ad abbattere il vecchio apparato
dello Stato e il sistema capitalistico, che fu repressa nel sangue.
L’11 agosto 1919 l’Assemblea costituente
proclamò la repubblica di Weimar, dotata di
una nuova Costituzione che trasformava lo Stato unitario in repubblica
federale. Gli ambienti di destra osteggiarono la nuova repubblica, organizzando
atti terroristici e tentando un colpo di Stato il putsh di Kapp nel 1920. La
situazione fu aggravata dal disastro economico, della disoccupazione e da
un’inflazione galoppante, che resero impossibile pagare i risarcimenti previsti
dal trattato di pace alle potenze europee. A garanzia del pagamento, la Francia
occupò il bacino minerario della Ruhr nel 1923.
La
Repubblica di Weimar ebbe vita difficile, per i tentativi comunisti di
instaurare una repubblica dei Soviet e le tendenze nazionalistiche e
militariste delle destre. Delle difficoltà economiche e del malcontento per le
dure condizioni della pace approfittò Hitler che, nel 1920, fondò il Partito nazionalista dei lavoratori tedeschi,
più noto come partito nazista. In politica estera, esso puntava alla revisione
del sistema instaurato dal trattato di pace e alla creazione di un grande Reich
(= impero) pantedesco e, in politica interna, mirava ad instaurare un governo
autoritario. Per instaurare in
Germania un regime autoritario Hitler e i suoi seguaci tentarono un colpo di
Stato, fallito, contro il governo bavarese, il cosiddetto putsh di Monaco del
1923.
In politica internazionale negli anni Venti
prevalse uno spirito di distensione con il patto Locarno del 1925 e ciò rese
possibile un piano di aiuti americani all’economia tedesca (piano Dawes). La
Germania fu ammessa nel 1926 alla Società delle Nazioni e nel 1929 furono ridotti e rateizzati i
risarcimenti di guerra tedeschi e fu imposto alle truppe franco-belghe di
abbandonare la Renania.
b) Le
cause del successo di Hitler -
Fallito il suo primo colpo di stato nel 1923 (putsch di Monaco; Hitler
incarcerato scrisse il Mein Kampf = La
mia battaglia, in cui espose le sue teorie). La crisi economica del 1929 pose fine allo spirito di Locarno
e rafforzò in Germania le tendenze di estrema destra. I nazionalsocialisti
nelle elezioni del 1930 divennero il secondo partito del Paese. Due anni dopo
Hitler fu però battuto alle elezioni presidenziali dal maresciallo Hindenburg.
La mancanza di un governo stabile portò a due successive elezioni (luglio e
novembre 1932) e alle fine Hinderburg affidò il cancellierato a Hitler (30
gennaio 1933). Hitler incontrò un successo nelle elezioni del 1930,
grazie alle attività terroristiche delle squadre armate del partito (SA e SS) e
all'aumentato malcontento popolare per i crescenti disagi seguiti alla grave
crisi mondiale del '30 che ebbe anche in Germania dure ripercussioni,
soprattutto nel campo della occupazione. Non furono estranei al suo successo
gli strumenti della propaganda elettorale, gli slogan, i simboli, i riti
fortemente suggestivi che accompagnavano le manifestazioni naziste. Tutto ciò,
peraltro, non sarebbe stato sufficiente all'affermazione hitleriana, se
militaristi, agrari, industriali e piccoli borghesi non avessero visto, nel
movimento nazista, la risposta più soddisfacente ai loro sentimenti
nazionalistici e al diffuso timore verso i comunisti.
Il
nazismo trovò entusiastici finanziatori nei magnati dell'industria tedesca; e
le azioni delle squadre armate del partito conobbero la tolleranza delle
autorità, che erano invece pronte a colpire le violazioni della legge compiute
dai comunisti.
I nazisti, sempre più forti, provocarono
alcuni gravi incidenti per screditare i partiti dell’estrema sinistra (incendio
del Reichstag, 27 febbraio 1933). Usarono la violenza per eliminare gli
oppositori del regime e indussero le classi medie ad aderire in massa al
nazionalsocialismo, praticando la politica del terrore e limitando le libertà
politiche e civili (decreto straordinario, 28 febbraio).
Nel corso delle nuove elezioni (5 marzo
1933) i nazionalsocialisti ottennero la maggioranza insieme ai conservatori.
Hitler a quel punto si assicurò pieni poteri per quattro anni (legge-delega, 23
marzo 1933). Furono sciolti i partiti politici, mentre fu dichiarato partito
unico quello nazista (14 luglio 1933); venne istituita una nuova polizia
segreta (Gestapo), con il compito di reprimere ogni forma di opposizione. Alla
morte di Hindenburg (agosto 1934) Hitler ottenne il potere assoluto
(cancellierato e presidenza) del neo costituito Terzo Reich.
Il consolidamento della dittatura nazista
poté contare anche sull’azione di propaganda e sull’inquadramento, soprattutto
dei giovani, nelle organizzazioni del Partito nazista.
La principale ragione del consenso del
popolo tedesco al programma hitleriano deve essere cercata nei buoni risultati
fortemente in campo economico, grazie a una politica fortemente autarchica,
sostenuta dalla presenza imprenditoriale dello Stato nel campo dei lavori
pubblici, delle infrastrutture, dell’industria pesante.
L’ideologia politica del nazismo si basava
su due elementi fondamentali: quello della assoluta superiorità della razza
ariana, identificata con il popolo tedesco, e quello della ineguaglianza,
ritenuta legge fondamentale della natura e come tale motivo determinante della
sottomissione delle masse ai capi e delle razze inferiori a quelle superiori.
Da questa premesse discendeva anche l’antisemitismo nazista: il popolo ebraico
era considerato come l’origine di tutti i mali del mondo, da cui discendevano
il liberalismo, la democrazia, il marxismo. Inoltre riteneva che le comunità
ebraiche fossero troppo potenti economicamente e perciò non integrabili nel
progetto totalitario del nazismo. In base a queste convinzioni iniziò una vera
e propria persecuzione, che divenne sistematica con le leggi di Norimberga
(settembre 1935), in base alle quali gli Ebrei furono privati della
cittadinanza tedesca, fu loro vietato contrarre matrimoni con altri cittadini
tedeschi e furono obbligati a rendersi riconoscibili esibendo sugli abiti la
stella gialla di David.
La politica estera nazista fu estremamente
aggressiva nei confronti dei Paesi naturalmente tedeschi (come l’Austria e il
territorio dei Sudeti in Cecoslovacchia), la cui acquisizione costituiva la
prima tappa di un’ulteriore espansione che avrebbe portato i Tedeschi ad avere
un’unica grande patria germanica (pangermanesimo), in cui sottomettere altri
popoli considerati inferiori per sfruttarne le risorse economiche.
L’Europa sottovalutò il pericolo nazista per
diverse ragioni: da una parte Hitler realizzò il programma con meditata
lentezza; inoltre la Germania non era l’unico Paese in cui esisteva una
dittatura; infine l’autocomunismo di Hitler suscitava molte simpatie in campo
internazionale.
c)
Caratteristiche del fenomeno nazista - Il
nazismo si distinse dal fascismo italiano, cui si ispirava, non solo per
l'inclusione del mito della razza pura ariana, al quale si accompagnava un
violento antisemitismo, ma anche per una concezione complessivamente più
fanatica e disumana. L'insediamento del nazismo nel cuore dell'Europa e le mire
espansionistiche della politica hitleriana dovevano travolgere nella guerra il
nostro continente e il mondo intero.
d) Il
crollo del nazismo - L'insuccesso finale cui Hitler andò incontro nella guerra da
lui scatenata portò alla fine del nazismo e alla morte tragica e scenografica
del suo capo.
15 Il comunismo - Subito dopo la
Rivoluzione d'ottobre in Russia scoppiò una guerra civile tra
l'esercito sovietico, la cosiddetta Armata
Rossa, organizzato e comandato da Lev
Trockij, e i vari eserciti che si rifacevano al potere zarista,
le Armate Bianche. La Russia dei Bolscevichi perse i suoi territori
ucraini, polacchi, baltici e finnici con la firma del trattato di Brest-Litovsk, con il quale usciva dalla prima guerra
mondiale e poneva fine alle ostilità con gli Imperi centrali.
Le potenze alleate dell'Intesa lanciarono senza successo
un intervento militare a sostegno delle forze anticomuniste. Nel
frattempo sia i Bolscevichi che l'Armata Bianca effettuarono campagne di
deportazioni, arresti di massa ed esecuzioni contro i propri avversari,
denominate rispettivamente Terrore rosso e Terrore bianco. Entro la
fine della guerra civile l'economia russa e le sue infrastrutture furono
pesantemente danneggiate. Milioni di persone divennero rifugiati
bianchi e si stima che la carestia russa del 1921-1923 causò
fino a un massimo di 5 milioni di vittime.
a) Lo Stato sovietico e
la NEP - Le condizioni in cui
la guerra mondiale aveva lasciato l'ex Impero russo erano davvero disastrose;
crisi economica e speranza controrivoluzionaria. Furono gli anni in cui si
combatté il comunismo di guerra, quando furono presi drastici provvedimenti. Al
paese mancava tutto, e vi era la necessità di una fiducia decisiva nel regime,
anche se la socializzazione dell'economia non arrivò mai.
Per venire incontro alle esigenze alimentari
delle popolazioni furono requisiti tutti i prodotti agricoli, e nel marzo del
1921 i marinai di Kronstand insorsero al grido i soviet ma senza i bolscevichi.
Questa rivolta, che testimoniava una tendenza
democratica del popolo, fu sedata con il sangue. Lenin però capì che bisognava
instaurare un forte cambiamento, visto che le armate bianche erano
definitivamente sconfitte. Lenin era cosciente del fatto che la rivoluzione che
si era affermata in Russia non era propriamente in linea con il marxismo, ma
faceva riferimento all'interpretazione dei socialisti.
I socialisti vedevano nel capitalismo
l'occasione senza la quale non sarebbe potute essere instaurato il comunismo.
Mentre Marx sosteneva che al rivoluzione sarebbe potuta venire anche da civiltà
primitive. Lenin si riavvicinò così al marxismo più puro ed affermò che
l'affermazione dello Stato comunista sarebbe potuta avvenire senza il passaggio
dell'urbanizzazione, puntando su concessioni ai contadini.
Nacque così la NEP (Nuova Politica Economica),
con la quale non si propose nessun obiettivo rivoluzionario. Per sette anni la
politica economica bolscevica ebbe un carattere misto. Lo stato continuava a
controllare lo sviluppo economico, ma venivano concesse ad agricoltori e
piccole industrie agevolazioni fiscali, creando un’economia di mercato affianco
a quella statale. Insieme a questi provvedimenti si inserirono importanti
manovre di alfabetizzazione, favorendo la letteratura locale. Fu istituita un’organizzazione
sanitaria ed assistenziale e fu riconosciuto il diritto all'autodecisione delle
varie nazionalità, portando alla creazione nel 1922 nell'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. Fu riportata la
moralizzazione che nei tempi addietro aveva preso un ritmo incalzante con
divorzi eccessivi, allontanamento dei vincoli matrimoniali, delinquenza, aborto
ecc.
La chiesa greco-ortodossa fu duramente colpita
perché il regime sovietico proclamò l'ateismo. Nel 1921 venne proibita
l'istruzione religiosa e nel 1926 fu condannato il clero ai lavori forzati.
Nelle scuole veniva ufficialmente impartito l'ateismo e durante il regime si
assistette alla scomparsa di numerosi vescovi e preti e alla distruzione di
chiese e conventi. Partendo dalla definizione marxista della religione come oppio dei popoli, i
bolscevichi, portarono avanti una decisa lotta contro la Chiesa.
La politica della NEP ebbe poi importanti
ripercussioni in ambito internazionale. Ora non aveva più senso parlare di
rivoluzione permanente perché la NEP aveva concesso un piccola libertà
all'iniziativa capitalistica e si faceva largo l'idea di un comunismo di un
solo paese, riallacciando i rapporti internazionali, promuovendo il sentimento
di difesa dell'URSS.
In politica estera, con la partecipazione alla
conferenza di Ginevra nel 1922 e di Losanna nel 1923, si ridiscusse della pace
con la Turchia, e la Russia rientrò nella scena mondiale. Artefice di questa
svolta importantissima fu Cicerin, ministro degli Esteri sovietico, che
incontrò a Rapallo il ministro degli Esteri Rathenau, creando un amicizia
russo-tedesca che favoriva gli scambi commerciali.
b) L'unione Sovietica
staliniana – Lenin non riuscì a
vedere la fine della NEP. Morì dopo appena due anni dalla sua attuazione per un
arteriosclerosi precoce. La sua compagna non avrebbe voluto che si fosse
costruito un mausoleo per conservarvi il corpo dell'uomo imbalsamato. Il posto
occupato da Lenin fu preso da Stalin, un georgiano, abile uomo politico ed
organizzatore, nemico di Trotzkij.
Stalin riteneva che i compiti del partito erano
cambiati. La costruzione dello Stato comunista richiedeva uomini in grado di
controllare la macchinosa macchina statale.
Trotzkij non negava gli obiettivi della
rivoluzione bolscevica, ma riteneva che questi potessero realizzarsi mantenendo
certa libertà di opinioni, e per questo nel 1929 fu cacciato dal partito e
costretto all'esilio.
Eliminata la sua più irruenta opposizione Stalin
poté dedicarsi maggiormente al suo programma, che con la dichiarazione del 4
febbraio 1931 diede la massima accelerazione dell'industrializzazione,
iniziando i piani quinquennali. Stalin ritenne che coloro alla cui spesa si
sarebbero attuati i piani quinquennali sarebbero stati i kulaki, i contadini
più agiati.
Incitò i contadini più poveri a muoversi contro
questi che furono, imprigionati, deportati e fucilati. Così fu permessa
l'attuazione dell'industrializzazione sfrenata di Stalin.
Né Marx né Engels avevano mai teorizzato che la
rivoluzione sarebbe dovuta avvenire con esportazioni e uccisioni. La Russia
diveniva così un paese prevalentemente industriale, ma pagando un carissimo
prezzo. Gli oppositori di questa politica furono fatti fuori e mentre
l'Occidente si dibatteva per superare la crisi del 29, l'URSS, percorrendo la
strada di un economia pianificata, portava la produzione industriale a livelli
paurosi, ma con metodi dittatoriali. Si creò una generale atmosfera repressiva
che investì tutti i settori della vita. Dal dispotismo industriale si passò ad
un dispotismo puro e semplice.
Nacquero le purghe staliniane, con le quali con
una serie di processi vennero condannati a morte tutti coloro che erano
contrari al regime. Gli imputati con intimidazione e pressioni psicologiche
finivano per confessare reati mai commessi.
Nel XX congresso del partito comunista a
distanza da 3 anni dalla morte di Stalin Krusciov poté dichiarare gli errori
commessi dal regime stalinista. Il problema sta nel capire se la politica
stalinista è una deviazione del progetto di Marx e Lenin, o se è stato portata
implicitamente dal leninismo. La rivoluzione di Lenin era stata in sostanza una
rivoluzione di masse, e sull'obiettivo della costruzione di una nuova società,
Lenin si vide indeciso, perché da forme radicali passò alla forme più
democratiche della NEP. Lenin aveva operato in circostanze particolari; la
pessima economia zarista, prevalentemente agricola, non aveva nulla del
progresso industriale. Lenin partendo dal dato storico della rivoluzione contro
lo zarismo, aveva conferito a questa rivoluzione elementare e imponente, una
direzione rivoluzionaria con la guida del bolscevismo. Stalin non mutò nulla di
questo. Accelerò soltanto i tempi dell'industrializzazione, eliminò ogni
meccanismo di mercato e si servì del terrore e delle purghe, delle repressioni
di masse contadine per imporre dall'alto un industrializzazione massiccia. Con
il modello staliniano, la partecipazione degli operai fu pressoché annullata,
lo Stato perse ogni autonomia rispetto al partito e l'attività sindacale
consistette sempre più nella mobilitazione degli operai per realizzare i ritmi
e gli obiettivi del piano imposto dall'alto.
16.
La
seconda guerra mondiale (1939-1945) – Tutte le guerre sono inutili massacri
dagli albori della storia e non sono servite mai a nulla. La seconda
guerra mondiale fu quella che vide l’impiego di mezzi veramente moderni come
aerei, navi, missili, armi complesse e quant’altro.
Ma non fu
assolutamente una guerra ideologica, bensì fu una guerra per fini territoriali
e di risorse. La guerra scoppiò dichiarata da Francia e Gran Bretagna contro la
Germania perché questa si volle espandere troppo fuori dai suoi confini.
Ideologicamente Francia e GB erano stati borghesi e Hitler era dittatore di uno
Stato borghese.
Nel 1941 con l’Operazione Barbarossa la Germania non
andò in URSS perche c'era Stalin, ma per espandersi ad est e conquistare le
grandi ricchezze del sottosuolo russo (ci sarebbe andato anche se ci
fossero stati gli Zar).
Quindi non fu
nemmeno una guerra per la difesa dei martiri dei lager, perche purtroppo
nessuno li aiutò. È vero che nel 1945 i superstiti ebbero salva la vita, ma è altrettanto
vero che se i nazisti non fossero usciti dai confini nessuno avrebbe mosso un
dito per salvare ebrei ed altri prigionieri.
Quindi la
seconda guerra mondiale, come la grande guerra e molte altre del passato fu una
guerra tra potenze per avere o limitare una grande espansione territoriale.
a)
La politica espansionistica di Hitler - La seconda
guerra mondiale fu lo sbocco fatale della politica espansionistica di Hitler,
nei cui confronti le potenze occidentali, in particolare Inghilterra e Francia,
tennero, per più anni, un comportamento incerto, caratterizzato da un
sostanziale cedimento.
Esse non
potevano condividere la dottrina nazista e temevano fortemente il riarmo
materiale e morale della Germania. Tuttavia, in Hitler, come pure in Mussolini,
esse vedevano un fanatico e deciso «alleato» contro il comunismo sovietico e un
forte difensore dei «valori dell'Occidente».
Da tale situazione contraddittoria derivarono i cedimenti di
fronte agli atti della politica aggressiva di Hitler: la rimilitarizzazione
della Renania nel 1936, l'intervento nella guerra spagnola a favore di Franco
(1936-39), l'occupazione e l'annessione dell'Austria nel marzo 1938,
l'annessione dei Sudeti nel settembre 1938, l'occupazione della Cecoslovacchia nel
1939.
b) Stalin si accorda con Hitler - Tale atteggiamento
della Francia e dell'Inghilterra e il timore di più precisi accordi con la Germania
a suo danno, spinsero poi Stalin a stringere un patto di non aggressione con
Hitler, che, ormai sicuro sul fronte orientale, decise di attaccare la Polonia il
1° settembre 1939.
Le potenze occidentali non potevano accettare questo
ulteriore atto dell'imperialismo hitleriano senza esporsi al rischio di dover
soccombere.
Scoppiò così la guerra, che insanguinò l'Europa per quasi sei
anni da settembre 1939 a maggio 1945, distruggendo milioni di vite umane,
annientando l'economia europea e lasciando dietro di sé intere città e regioni
distrutte.
c) La guerra totale - Il primo conflitto
mondiale era già stato una guerra totale, in quanto aveva implicato lo sforzo e
l'impegno non solo degli eserciti, ma di tutte le energie materiali e
spirituali delle nazioni in guerra.
Tuttavia, anche se le popolazioni avevano dovuto sopportare
condizioni di vita a volte durissime, quasi solo le truppe furono esposte ai
rischi dei combattimenti.
La seconda guerra, invece, è stata totale in un senso ancora
più vasto. I bombardamenti su vasta scala colpirono città inermi, centri
produttivi, linee di comunicazione, colonne di profughi; e la caratteristica di
guerra di movimento che il conflitto assunse, coinvolgendo nelle operazioni
militari quasi tutto il continente, espose i civili a rischi diretti non
dissimili da quelli dei combattenti.
Aggravò la spietatezza di questa guerra la politica razziale
nazista, che sfociò nella deportazione e nello sterminio in massa degli ebrei
nei campi di concentramento. Un numero enorme di prigionieri dei paesi invasi
furono trasferiti in Germania. E infine le iniziative di resistenza, che si
organizzarono nei paesi occupati, gravarono sulla popolazione civile che subì
le conseguenze di imboscate, rastrellamenti e rappresaglie.
d) L'Italia dalla neutralità all'intervento - Quando
l'invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche diede inizio al
conflitto, l'Italia proclamò la sua neutralità, anche se aveva stretto, solo
pochi mesi prima, un'alleanza militare con la Germania, il cosiddetto «patto
d'acciaio», che impegnava le due potenze a prestarsi reciproco aiuto in caso di
guerra.
La neutralità italiana era dovuta all'impreparazione
dell'esercito e alle insufficienti risorse industriali. La sua giustificazione,
nei confronti dell'alleato tedesco, stava invece nel fatto che le due potenze
si erano accordate segretamente nel non provocare guerre prima di tre anni,
patto che Hitler non aveva rispettato.
Quando però Mussolini vide Hitler spazzar via, apparentemente
senza difficoltà, la Polonia, occupare la Norvegia, invadere la Danimarca,
l'Olanda e il Belgio, e quindi superare la modernissima linea difensiva
francese, la Maginot, e invadere la Francia convinto che l'Inghilterra si
sarebbe piegata e il conflitto si sarebbe concluso rapidamente, per non restare
escluso dalle trattative di pace, dichiarò guerra alla Francia e all'
Inghilterra.
e) Il disastro finale - Ma le previsioni di
Mussolini si rivelarono ben presto sbagliate. L'Inghilterra resitette, prima
sola, poi sostenuta dagli Stati Uniti d'America intervenuti direttamente nel
conflitto. Le strepitose vittorie di Hitler, che lo portarono ad occupare quasi
tutta l'Europa penetrando fin nel cuore della Russia, non lo salvarono dal
disastro finale.
17
La Resistenza
- Il 25 aprile è festa nazionale: si celebra la Liberazione dai nazisti
che erano stati nostri alleati (Patto d'Acciaio, Asse Roma-Berlino) e non
occupavano il territorio italiano contro la volontà del nostro governo. I
nostri soldati combattevano al fianco delle truppe hitleriane contro gli
Alleati (Usa, Gran Bretagna, Francia, Urss): in Francia, nei Balcani, in Russia
e in Nord Africa.
Dopo l'8
settembre 1943 l'alleato germanico divenne improvvisamente nemico, ma solo per
il Regno del Sud: la Repubblica Sociale rimase fedele al Terzo Reich fino alla
fine dei suoi giorni.
L'Italia liberata non fu mai considerata, durante
il conflitto, una potenza alleata, ma
solo un paese cobelligerante, quindi
privo di uguaglianza giuridica con gli Alleati.
È vero che
uno Stato ha necessariamente bisogno di miti sui quali legittimare e fondare la
propria esistenza. Per la Repubblica Italiana la Resistenza
è mito fondativo, costituente, e come tale storicamente falso.
L'eroica lotta
partigiana non fu mai una guerra di popolo. Essa coinvolse direttamente solo
un'esigua minoranza della popolazione (la stragrande maggioranza degli italiani
rimase impassibile e indifferente). La sconfitta della Wehrmacht in Italia ed
il crollo consequenziale della Repubblica di Salò furono determinate esclusivamente
dalla straordinaria potenza militare dell'esercito americano, molto diffidente,
per ragioni ideologiche, nei confronti del movimento di liberazione italiano.
a) Dall'armistizio alla Resistenza - L'8 settembre
del 1943, l'armistizio tra l'Italia e gli Alleati segnò lo sfacelo
dell'esercito italiano abbandonato dal re, da Badoglio, in quel momento capo
del governo, e dal Comando supremo. Costoro, fuggendo da Roma, si rifugiarono a
Brindisi senza lasciare precisi ordini che coordinassero le operazioni militari
contro le forze tedesche in Italia.
Tuttavia, mentre i Tedeschi acceleravano l'occupazione della
penisola, iniziata dopo il 25 luglio, e deportavano in Germania, in vagoni
piombati, i soldati italiani fatti prigionieri nelle caserme, si manifestavano
i primi atti di resistenza armata da parte di militari che intendevano
manifestare concretamente i loro sentimenti contrari al fascismo e alla guerra
da esso voluta.
Ai militari resistenti si affiancarono, a volte, i borghesi,
come ad esempio negli scontri di Porta San Paolo a Roma. Rilievo particolare
ebbe, per il suo carattere di rivolta di popolo, l'insurrezione antitedesca di
Napoli (le «quattro giornate di Napoli»).
Furono questi i primi atti della Resistenza, il vasto
movimento di insurrezione popolare che costituì un fenomeno di eccezionale
portata nella storia d'Italia, pari al Risorgimento, anche se ben diverso nelle
sue modalità e finalità.
b) I protagonisti della Resistenza – È difficile stendere la
storia di un movimento che si frantumò in molteplici azioni e vicende spesso
fra loro indipendenti. Nel prospetto che segue ne sono indicate le fasi e gli
episodi salienti. Qui è più interessante ricordare che l'azione politica della
Resistenza trovò i suoi organi direttivi nei Comitati di liberazione nazionale
(CLN) costituitisi in tutta la penisola dopo l'8 settembre, nei quali erano
rappresentati i partiti comunista, socialista, democristiano, liberale, il
partito d'azione e il partito democratico del lavoro; e, sul piano militare,
nel Corpo Volontari della Libertà, formazione militare, il cui comando - dopo
l'accordo intercorso tra gli Alleati, il governo italiano insediatosi a Roma
liberata e il CLN Alta Italia - fu assunto dal generale Raffaele Cadorna,
mentre vicecomandanti furono Ferruccio Parri del Partito d'azione e il
comunista Luigi Longo.
L'attività militare della Resistenza era compito di
formazioni partigiane (bande) riunite in brigate, le quali o si ispiravano ai
programmi dei ricostituiti partiti politici, come le brigate Garibaldi (partito comunista), le brigate Giustizia e Libertà (partito d'azione), le brigate Matteotti (partito socialista);
oppure erano autonome, cioè non si richiamavano ad alcuna precisa ideologia
politica e si ponevano come unico compito la liberazione del paese da tedeschi
e fascisti.
Le bande partigiane agivano in montagna e nelle zone rurali,
mentre, nelle città, si organizzarono i Gruppi di azione patriottica (GAP),
impegnati in azioni di guerriglia urbana. Si affiancavano a volte le Squadre di
azione patriottica (SAP) che controllavano politicamente le fabbriche e inoltre
compivano sabotaggi nelle campagne.
Al costituirsi di queste forze di resistenza e di lotta fu di
spinta, nell'Italia centrale e settentrionale, la rinascita del Partito
fascista, e, dopo la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso, la costituzione
della Repubblica Sociale Italiana o Repubblica di Salò. Le formazioni
resistenti ebbero allora per nemici non solo gli occupanti tedeschi, ma anche i
fascisti loro alleati. Il conflitto, di conseguenza, si allargò e si esasperò.
Le azioni della Resistenza furono influenzate dalle
operazioni condotte, sul fronte italiano, dagli Alleati che risalivano la
penisola. Con essi la Resistenza stabilì rapporti di cooperazione, che spesso
risultarono difficili a causa della diffidenza degli Alleati stessi nei
confronti di un movimento che, rifiutandosi di essere puramente militare,
manifestava apertamente i suoi scopi e le sue simpatie politiche.
Elemento fondamentale e caratterizzante della Resistenza fu
il comportamento della popolazione civile, soprattutto della popolazione rurale
e montana, che solidarizzò coi partigiani e li sostenne nonostante i sacrifici
e i rischi che tale solidarietà comportava.
Altro elemento che entra a far parte del quadro resistenziale
è la solidarietà attiva della popolazione nei confronti dei perseguitati
razziali, con l'accettazione dei rischi che tale solidarietà comportava: un
atteggiamento determinato in egual misura da naturale pietà e da una più
riflessa volontà di ribellione contro la spietata ingiustizia nazifascista.
c) La Resistenza europea - La resistenza
antinazista non fu un fenomeno esclusivamente italiano. In tutti gli stati
europei occupati sorse un movimento di opposizione ai nazisti, movimento che
andò via via ampliandosi col crescere dell'oppressione, delle mortificazioni e
dei sacrifici, dell'odio verso lo straniero occupante e i connazionali che con
lui collaboravano, e col rafforzarsi della speranza della loro sconfitta
finale.
In Cecoslovacchia, in Polonia, in Francia, in Belgio, in
Olanda, in Grecia, in Norvegia uomini e donne crearono sui loro territori una
rete per sostenere l'azione dei reparti armati, che impegnavano i tedeschi
all'interno costringendoli a distogliere truppe dai fronti di guerra, che interrompevano
con attentati ai convogli i rifornimenti, che disturbavano e inceppavano le
comunicazioni.
Sosteneva i partigiani e la popolazione che li aiutava oltre
al tradizionale patriottismo, l'opposizione cosciente ad una ideologia che
negava tutta la tradizione culturale europea ed i valori che essa era venuta
precisando, primi tra tutti la libertà ed il rifiuto della violenza come
strumento di governo e quale base dei rapporti internazionali.
La Resistenza trasformò per i tedeschi l'Europa conquistata
in un vasto e infido territorio da presidiare, tenne viva, anche nei momenti
più bui della guerra, quando le armate naziste sembravano inarrestabili, la
fiducia nella vittoria finale, creò legami di solidarietà che aiutarono gli
uomini a vincere l'isolamento in cui l'occupazione li relegava, portò a
dibattere sugli errori passati che avevano generato la triste situazione
presente e a delineare i tratti della nuova società futura.
d) La Resistenza nella letteratura e nell'arte – La misura
dell'intensità con cui l'esperienza resistenziale fu vissuta dal popolo
italiano è testimoniata dalla fioritura letteraria e artistica che ad essa si
collegò.
Negli anni successivi alla Resistenza, romanzi, liriche,
film, opere di pittura e di scultura, trassero da essa ispirazione e ne
rievocarono e ne testimoniarono, di volta in volta, i momenti drammatici,
dolorosi ed eroici.
Di ispirazione resistenziale è uno dei più importanti filoni
della corrente artistica che va sotto il nome di neorealismo.
18 Il difficile equilibrio del
dopoguerra: dalla guerra fredda alla coesistenza
– Alla fase più acuta
della “guerra fredda” fra USA e URSS segue un periodo, cosiddetto di “coesistenza pacifica”, nel quale i rapporti fra i due blocchi politico –
militari si distendono. Ciò non significa la fine del bipolarismo, ma un cambiamento di prospettiva e uno spostamento
della “coesistenza” in tutte le aree
del mondo in cui c’è stato un processo di decolonizzazione. Questo spostamento
comporta nuove responsabilità economiche, politiche e militari per entrambe le
parti. Inoltre, entra in causa una nuova realtà: quella della bomba atomica,
posseduta da entrambi gli schieramenti, con rischio di una possibile guerra
nucleare.
In Unione sovietica, alla metà degli anni
Cinquanta, a Stalin subentra Kruscev, che nel XX Congresso del PCUS denuncia i
crimini e le stragi del dittatore. Nei Paesi satelliti il malcontento sfocia in
rivolte: la più grave si verifica in Ungheria (1956) ed è soffocata
dall'intervento dei carri armati sovietici.
Il rapporto fra USA e URSS, dopo le prime
aperture ("il disgelo"), peggiora quando Cuba,
trasformatasi in paese socialista dopo una rivoluzione inizialmente
democratica, guidata da Fidel Castro e "Che" Guevara, decide, negli anni sessanta, di ospitare basi
missilistiche sovietiche. In seguito a ciò, il presidente americano
Kennedy attua il blocco navale dell’isola. La decisione di Kruscev
di ritirare i missili attenua infine la tensione. Il periodo della distensione
continua fino al punto da dare inizio ad un nuovo equilibrio: l’equilibrio
detto del terrore.
Con la presidenza di Eisenhower l’economia americana, che aveva avuto una crisi dopo la
Guerra Mondiale, aveva ripreso a crescere a pieno ritmo. Con la presidenza Kennedy, negli anni Sessanta, si ha
negli USA una politica di equilibrio fra tendenza alla coesistenza pacifica e
all’espansione statunitense nelle zone contese dal sistema socialista. Dopo
l’assassinio di Kennedy, il cui mandante è rimasto ignoto, questo tipo di
politica viene ripresa dal suo successore Johnson,
che favorisce l’integrazione razziale dei neri americani (vittima della
battaglia è il leader non - violento degli afroamericani, Martin Luther King, assassinato a tradimento).
Gli anni Sessanta si chiudono però segnando una
crisi, causata soprattutto dalla guerra
del Vietnam.
In Russia, nel decennio, Kruscev attua anche una
riforma nel sistema economico, che prevede un minore controllo dello Stato
sulla società, con l’obiettivo di vincere la competizione economica con gli
USA. Sono gli anni in cui, anche per incoraggiamento di papa Giovanni XXIII, la competizione fra USA
e URSS si sposta dal terreno militare a quello economico e alla gara per le
conquista spaziali (nel 1969 si verifica lo storico sbarco americano sulla
Luna). Tutto ciò però è reso vano dalla salita al potere di Breznev che riporta
la politica russa al passato, ovvero ai tempi di Stalin.
I comunisti cinesi, nel frattempo, avviano una
modernizzazione del Paese con una riforma agraria e lo sviluppo industriale.
Leader di questa modernizzazione è Mao Tse-Tung che, nel tentativo di
realizzare un ulteriore progresso e di battere gli avversari nel Partito
comunista, con la “rivoluzione culturale”
provoca profondi danni nella vita economica del Paese. Dopo un decennio di
alleanza tra Cina e URSS, i rapporti fra le due nazioni si allentano fino a
rompersi: si verificano anche scontri armati sui confini. Ciò è dovuto alle
differenti idee sull’interpretazione del marxismo. A partire dagli anni Settanta,
la Cina inizia ad avere rapporti con l’Occidente, in funzione anti-sovietica.
Grazie agli accordi
di Yalta del 1945, l’URSS ha il controllo di una fascia di territorio che
le permette di avere influenza politica su molti Paesi dell’Europa orientale.
Ciò, però, non riesce ad evitare differenze economiche tra i vari Stati del
blocco sovietico; alcuni Paesi, come la Cecoslovacchia e Germania, hanno un
apparato industriale sviluppato mentre, al contrario, i Paesi slavi non ne sono
provvisti. Dalla fine della guerra, l’URSS impone la formazione di regimi
comunisti a partito unico, anche con colpi di stato. Con l’istituzione del Consiglio di mutua assistenza economica ,
il COMECON, fondato sulla
convertibilità del rublo, l’URSS cerca di contrastare la forza economica del
blocco occidentale. Le superpotenza comunista istituisce inoltre l'alleanza
militare del Patto di Varsavia e
cerca di tenere testa agli USA orientando la produzione verso l’industria
militare; ciò crea però un grande squilibrio tecnologico nei confronti degli
occidentali e una penuria di beni di consumo.
Negli anni Cinquanta, scoppiano moti
insurrezionali nei Paesi del blocco sovietico in seguito alla destalinizzazione intrapresa da Kruscev:
le rivolte vengono però represse dall’esercito sovietico ( in modo
particolarmente sanguinoso quella ungherese del 1956). Il disgelo verso l’Occidente conosce un altro arresto nel Sessantotto,
in seguito alla guerra del Vietnam, che verrà però infine vinta dai vietcong di Ho Chi Minh, sostenuti dal
Nord comunista e dalla Cina, nonostante il massiccio intervento (centinaia di
migliaia di uomini) dell'esercito americano.
Nel frattempo, sempre negli anni sessanta, si
verifica la repressione, ad opera dei carri armati sovietici, di un tentativo
di riforma all’interno del regime cecoslovacco, mirante a costruire un “socialismo dal volto umano” durante la “primavera di Praga”, guidata dal
socialista riformista Dubcek. In tale
occasione, per la prima volta, i Comunisti italiani condannano l’invasione
sovietica, prendendo decisamente le distanze dall'URSS e ponendosi alla testa
del cosiddetto "eurocomunismo"
che vuole realizzare il programma comunista all'interno del sistema
democratico.
a)L'immediato dopoguerra (1945-48) - La
guerra lasciava l'Italia in condizioni disastrose: città distrutte, fabbriche
rase al suolo, o inutilizzabili, vie di comunicazione - strade, ferrovie, ponti
- sconvolte dai bombardamenti, la flotta mercantile decimata, la svalutazione
che aveva polverizzato i redditi, la speculazione che dominava i mercati. I
compiti più urgenti erano dunque la ricostruzione materiale e il rinnovamento
politico del Paese che si era liberato dal fascismo.
La Resistenza aveva creato il clima morale favorevole per la
realizzazione di questi fini; e la volontà di creare una società più giusta si
traduceva in una larga e appassionata partecipazione delle masse alla vita del
Paese, nella loro fiducia ormai radicata di essere le protagoniste di questa
trasformazione.
Il momento culminante di questa fase fu la formazione del
governo presieduto da Ferruccio Parri, il capo della Resistenza, cui
parteciparono tutti i partiti che avevano fatto parte del Comitato di
liberazione nazionale o C.L.N. (giugno-dicembre 1945). Si trattò di un breve
momento: la caduta del governo Parri segnò l'inizio della crisi della linea di
unità nazionale e, nel contempo, dell'impegno per le grandi riforme strutturali
della società italiana.
b) La proclamazione della Repubblica - Il più vistoso
risultato della tendenza al rinnovamento fu la proclamazione della Repubblica
(2 agosto '46), cui si pervenne mediante un referendum popolare (per la prima
volta votarono anche le donne). Aveva così fine la monarchia dei Savoia, il cui
ultimo re, Umberto II, si ritirava in esilio.
c) La promulgazione della nuova costituzione - La caduta del
fascismo imponeva un nuovo assetto costituzionale, che riflettesse l'autentica
fisionomia del paese, nel quale si erano manifestate nuove spinte politiche,
sociali ed economiche.
Inoltre la nuova costituzione doveva essere non più concessa
dall'alto, come lo Statuto albertino, ma doveva essere elaborata da organi
eletti dal popolo.
Doveva inoltre offrire garanzie contro la minaccia di regimi
totalitari, ed essere perciò rigida (e non già flessibile come lo Statuto
albertino), non modificabile cioè se non attraverso una legge costituzionale,
per l'approvazione della quale era richiesta una particolare procedura.
Per elaborare la nuova Costituzione, contemporaneamente al
referendum istituzionale (monarchia o repubblica) venne eletta l'Assemblea
Costituente. Essa si riunì per la prima volta il 25 giugno 1946; nominò capo
provvisorio dello Stato il senatore Enrico De Nicola che avrebbe esercitato le
sue funzioni sino a che fosse stato possibile nominare un presidente della
repubblica secondo le norme che la Costituzione avrebbe formulato. Affidò a una
commissione interna di 75 membri il compito di preparare un progetto di
costituzione, che tutta l'Assemblea discusse in sedute plenarie e approvò
infine nella seduta del 22 dicembre 1947.
La nuova Costituzione repubblicana entrò in vigore il 1°
gennaio 1948.
d) La ricostruzione - Tra il '45 e il '50,
posto un freno all'inflazione grazie anche agli aiuti americani, in particolare
tramite il cosiddetto Piano Marshall, iniziò, sotto i governi di De Gasperi,
leader del partito democristiano, una febbrile opera di ricostruzione. La
riattivazione delle vie di comunicazione e dei servizi e la ricostruzione edilizia
consentirono la ripresa economica, che renderà possibile, qualche anno più
tardi, il cosiddetto «miracolo economico».
Sempre in questo periodo, per favorire l'agricoltura,
particolarmente nel Sud, venne realizzata una parziale riforma agraria, mentre
l'istituzione di una Cassa del Mezzogiorno doveva fornire le basi finanziarie
per gli altri interventi a favore del Meridione.
e) Il miracolo economico - Fra il '50 e il '61 si
ebbe, più che una espansione, un vero e proprio salto qualitativo dell'economia
italiana.
Basti pensare che il reddito pro capite in Italia si è
triplicato tra il 1861 e il 1961, ma che più della metà dell'incremento si è
verificato negli anni 1951-1961.
Questo «miracolo economico» fu innanzitutto favorito dalla
larga disponibilità di manodopera che, abbassando i costi di produzione, rese
concorrenziali i prodotti italiani sui mercati esteri che avevano larga
possibilità di assorbimento.
La ricchezza che si costituì creò anche un vivace mercato
interno e si elevarono le condizioni di vita delle masse lavoratrici. La
società italiana cambiò aspetto, allineandosi con quelle dei grandi paesi
industriali europei. La motorizzazione sulle strade e l'ingresso degli
elettrodomestici e dei mezzi di telecomunicazione (telefono, radio, televisione)
nelle case costituirono due degli aspetti più vistosi di questo cambiamento.
Le nuove esigenze di vita che si verificarono furono di
stimolo alle masse lavoratrici per richiedere e conseguire retribuzioni sempre
più adeguate. I sindacati furono i grandi organizzatori delle lotte
rivendicative di questi anni e finirono con l'acquisire un peso politico
notevole, perché, andando al di là delle pure rivendicazioni salariali, si
preoccuparono di tutti gli aspetti della condizione operaia nella fabbrica e
fuori.
Per far fronte alle nuove esigenze
dell'industria fu riorganizzato l'IRI (Istituto per la ricostruzione
industriale) e fu costituito l'ENI (Ente nazionale idrocarburi).
Con la riorganizzazione dell'IRI si
volle creare uno strumento per la ricostruzione di aziende che lo Stato aveva
assunto in proprio, totalmente o parzialmente, ai fini di attuare una strategia
dell'occupazione rispondente ai bisogni del Paese; con la costituzione dell'ENI
si intese mettere a disposizione dello Stato un organismo che operasse ai fini
nazionali nell'importantissimo campo della ricerca e dello sfruttamento dei
pozzi petroliferi.
f)L'emigrazione interna - La disponibilità
di manodopera per l'industria derivò anche da un flusso migratorio verificatosi
dalle regioni più povere, specie del Sud, a quelle maggiormente
industrializzate e ricche di opportunità di lavoro. Fu un largo muoversi di
masse (si spostarono circa 15 milioni di abitanti) secondo queste linee: dal
Sud al Nord, dalla montagna alla pianura, dalla campagna alla città. Una delle
conseguenze fu l'enorme espansione dei centri urbani, in particolare di quelli
situati nel cosiddetto triangolo industriale che ha per vertici Milano, Torino,
Genova.
L'altra faccia di questo fenomeno
fu l'abbandono della campagna, conseguenza anche del fatto che il problema
della razionalizzazione dell'agricoltura non fu adeguatamente affrontato.
g)L'emigrazione esterna - Nonostante
l'espansione dell'economia italiana non si crearono posti di lavoro
sufficienti; molti lavoratori furono costretti ad emigrare all'estero.
Contrariamente all'emigrazione prebellica, i Paesi verso i quali questo flusso
(circa cinque milioni) prevalentemente si diresse furono quelli europei:
Svizzera e Germania in particolare. L'alto tenore di vita di questi Paesi
riservava agli italiani i posti di lavoro meno qualificati, disdegnati dai
locali.
h) L'Italia e la Comunità europea - Il commercio con
l'estero che contribuì al «miracolo economico», fu favorito dalla maggior
liberalizzazione degli scambi commerciali fra le varie nazioni, cui tenne
dietro prima la costituzione della Comunità europea del carbone e dell'acciaio
(C.E.C.A., 1951), successivamente l'ingresso dell'Italia nel Mercato comune
(M.E.C., 1957). Era l'avvio all'auspicata unione europea che, tra l'altro, si
proponeva di trasformare il nostro continente in una grande potenza che si
ponesse come terza forza tra i due blocchi che si erano costituiti a seguito
della «guerra fredda»: quello statunitense e quello sovietico. Questa idea fu
sostenuta da uomini come De Gasperi per l'Italia, Schuman per la Francia,
Adenauer per la Germania, Spaak per il Belgio.
Sul piano dell'unificazione
europea, però, non si andò al di là della creazione di alcuni istituti di
scarsa efficacia, come il Consiglio d'Europa (1949), e al di là del progetto di
un esercito comune europeo, la Comunità europea di difesa (CED, 1952) che,
anche a seguito della mancata ratifica francese, non poté essere attuato.
i) La guerra fredda - Alla fine della
seconda guerra mondiale le reciproche diffidenze degli Alleati e i loro
contrasti per le proprie zone d'influenza portarono ad una tensione carica di
minacce, la cosiddetta «guerra fredda».
Si erano costituiti due
schieramenti antagonistici che avrebbero successivamente formato due blocchi:
quello del Patto Atlantico (1949), nel quale erano raccolti, attorno agli USA,
i Paesi dell'Europa occidentale, e che ebbe la sua organizzazione militare
nella NATO; e il blocco del Patto di Varsavia (1955) cui aderivano, attorno
all'URSS, i Paesi dell'est europeo. Solo il possesso delle armi atomiche da
parte di entrambi i blocchi impedì lo scoppio di un'altra guerra di grandi
proporzioni, mantenendo un precario equilibrio detto «l'equilibrio del
terrore», perché solo il terrore di un'immediata ritorsione sconsigliava gli
avversari dall'intraprendere qualunque azione offensiva.
Ciò non impedì, però, lo scoppio di
guerre locali in cui le due grandi potenze, USA e URSS, non si scontrarono
direttamente, ma fecero, per così dire, la guerra per interposta persona: la
guerra di Corea (1950), in cui gli Americani sostennero la Corea del Sud,
filoccidentale, contro la Corea del Nord, comunista, sostenuta a sua volta dai
Sovietici, e che costò 2 milioni di caduti complessivamente fra i due stati.
In Europa la situazione di Berlino,
e il muro costruito nel 1961 dai Tedeschi orientali che divideva la città in
due parti (da una parte le tre zone amministrate da Americani, Inglesi,
Francesi; dall'altra la zona amministrata dai Sovietici) rimase il simbolo
tangibile di questo contrasto.
l) Conseguenze della guerra fredda sulla
politica italiana - Il più evidente riflesso della guerra fredda in Italia fu la
già ricordata rottura dell'unità nazionale che portò all'esclusione dal governo
dei partiti della sinistra (P.S.I. e P.C.I.) esclusione avvenuta col quarto
governo De Gasperi (maggio 1947).
È una situazione che caratterizzerà
il panorama politico italiano per molti anni, sino alla costituzione del primo
governo di centrosinistra, quando il P.S.I. rientrerà nel governo (1963).
Conseguenza della nuova linea
politica fu l'incondizionata adesione dell'Italia al Patto Atlantico e alla sua
politica, e l'abbandono della tesi neutralistica, che era stata predominante
nei governi del C.L.N. e di unità nazionale.
Nel periodo '48-'62, che si
definisce del centrismo, la politica italiana fu dominata senza contrasti dalla
Democrazia cristiana, che aveva conseguito la maggioranza assoluta nelle
elezioni del '48. Essa, nella formazione dei governi che si successero, si
alleò con liberali, repubblicani e socialdemocratici (Quadripartito). Il
partito socialdemocratico era nato dalla scissione avvenuta all'interno del
Partito Socialista (gennaio '47), in connessione con il clima della guerra
fredda e con la decisione di allineare l'Italia alla politica americana.
La politica del Quadripartito
risentì molto dell'influenza delle grandi forze economiche, per cui, anche se
vennero avviate, non senza gravi compromessi, alcune riforme, in realtà risultò
favorita la ristrutturazione del settore industriale, mentre rimasero insoluti
molti problemi di politica sociale.
m) Il disgelo - La morte di
Stalin (5 marzo 1953) avviò un processo di distensione fra i due blocchi, il
cosiddetto «disgelo». Kruscev, successo a Stalin, al XX Congresso del Partito
Comunista Sovietico (1956) denunciò il culto della personalità e i metodi
terroristici usati dal suo predecessore, e nello stesso tempo si dichiarò
favorevole a una politica di distensione. Essa fu resa possibile anche dalla
linea politica scelta dal presidente degli Stati Uniti, John Kennedy, e dal
nuovo spirito di dialogo con tutti i Paesi del mondo, non esclusi i Paesi
comunisti, introdotto nella Chiesa cattolica da papa Giovanni XXIII.
n) Conseguenze del disgelo in Italia: il
centrosinistra - Alla fine del '62 il Quadripartito non rispondeva più alle
mutate esigenze economiche, politiche e sociali del Paese. I tempi erano maturi
per una nuova soluzione di governo: il centrosinistra, l'incontro cioè tra le
masse cattoliche e quelle socialiste, rappresentate rispettivamente dalla D.C.
e dal P.S.I.. Il clima internazionale di distensione favorì questa svolta che
fu facilitata anche dalla rottura del Patto d'unità d'azione fra socialisti e
comunisti.
Il centrosinistra, ai cui governi
parteciparono anche il P.S.D.I. e il P.R.I., fece risorgere le speranze che
finalmente sarebbero state varate le riforme di struttura indispensabili al
rinnovamento della società italiana. E la partenza fu buona: si procedette alla
nazionalizzazione dell'industria elettrica e alla riforma della scuola media.
Però ben presto le frizioni esistenti all'interno dei partiti che costituivano
il centrosinistra portarono ad un immobilismo, che contribuì ad esasperare le
tensioni sociali; le quali, del resto, trovarono la loro base nella maggior forza
contrattuale acquisita dalle classi lavoratrici, cui non corrispondeva l'attesa
evoluzione democratica e sociale delle istituzioni.
o)La riforma
scolastica - Una delle scelte che ebbe e avrà in futuro la maggior
incidenza sulla elevazione civile della società italiana fu l'estensione del
limite dell'obbligo scolastico al quattordicesimo anno d'età, con la
conseguente istituzione della cosiddetta Scuola media. In tal modo non solo
tutta la nuova popolazione (e non più soltanto una esigua minoranza di essa)
fruiva di tre anni in più di istruzione e di educazione, ma aveva modo di
avvicinare una forma più articolata di sapere. Le indicazioni programmatiche
della scuola ne sottolineavano il valore prevalentemente formativo alla vita
civile. Negli anni successivi, l'istituzione della scuola media portò ad una
rapida espansione anche delle Scuole medie superiori. Il problema annoso della
partecipazione delle masse alla vita pubblica - partecipazione che richiede un
minimo di preparazione culturale - veniva avviato alla soluzione.
12 I problemi del Terzo Mondo: i
Paesi in via di sviluppo
Significato politico e sociale del
termine - Negli ultimi decenni, e
specie in collegamento col processo di decolonizzazione, ha acquistato
fisionomia e spazio quello che è stato chiamato il Terzo Mondo, l'insieme cioè
di quei Paesi che hanno conquistato di recente l'indipendenza e che si sono
inseriti come terza forza fra i blocchi orientale e occidentale.
Ma poiché, in linea di massima,
questi Paesi si trovano in una condizione di sottosviluppo, la denominazione di
Terzo Mondo ha finito per comprendere tutti quei Paesi, anche di non recente
indipendenza, le cui economie non hanno raggiunto i traguardi di quelle
altamente industrializzate: cioè i Paesi dell'Africa, di buona parte
dell'America Latina, e dell'Asia, dove peraltro la Cina costituisce un fenomeno
a sé, in quanto, da paese sottosviluppato, ha trovato una propria strada per
riscattarsi e per affermarsi anche economicamente oltre che politicamente.
La colonizzazione - Dal secolo XVI al XIX alcuni stati europei - e tra questi in
particolare la Spagna, il Portogallo, l'Inghilterra, la Francia - crearono
grandi imperi coloniali nelle Americhe, in Asia, in Africa. Fu la massima
affermazione della civiltà bianca che, rafforzata dai mezzi tecnologici forniti
da una scienza altamente progredita e in continuo avanzamento, riuscì ad
imporsi a popoli meno sviluppati assoggettandoli a fini di sfruttamento
economico. Il fenomeno comportò da una parte la possibilità per l'Europa di attingere
alle enormi ricchezze di materie prime e di mano d'opera locale a bassissimo
costo, possibilità che le consentì una enorme capitalizzazione che divenne base
per ulteriori sviluppi; dall'altra la diffusione delle conoscenze e delle
tecnologie avanzate presso le popolazioni sottomesse.
Ma furono molto gravi anche i
risvolti negativi: in primo luogo la scomparsa di varie civiltà che, pur
diverse da quella europea, possedevano fisionomia e valori propri, e inoltre un
generale sfruttamento a favore dei popoli colonialistici.
La decolonizzazione - L'espansione coloniale toccò il suo culmine nel secolo XIX,
anche se, sul finire del secolo precedente, la rivolta delle colonie inglesi
dell'America settentrionale aveva preannunciato il processo inverso, di decolonizzazione,
con il costituirsi di un nuovo stato indipendente, gli Stati Uniti d'America.
Il moto di decolonizzazione fu
fortemente accelerato dalla situazione che venne a crearsi durante la seconda
guerra mondiale. Inghilterra, Francia e Olanda, per far fronte alle esigenze
della guerra, ebbero bisogno di ricorrere all'aiuto delle loro colonie, le
quali fornirono mezzi e soldati: in tal modo le popolazioni di questi Paesi
coloniali acquistarono coscienza delle proprie capacità e della propria importanza
politica ed economica e, subito dopo il secondo conflitto mondiale, diedero
vita a movimenti di insurrezione e di guerriglia allo scopo di ottenere
l'indipendenza.
La diffusa accettazione dei
princìpi proclamati da Churchill e da Roosevelt nella Carta atlantica (1941),
fra cui quello del diritto dei popoli a scegliersi liberamente il proprio
sistema di governo; la «guerra fredda» fra Stati Uniti e URSS, che offrì ai
popoli che lottavano per la loro indipendenza la possibilità di ottenere
appoggi dall'una o dall'altra potenza; il costruirsi di una solidarietà fra i
paesi del cosiddetto Terzo Mondo (quei paesi che ricercavano cioè una terza via
fra l'URSS e gli Stati Uniti) ai quali diedero appoggio gli Stati arabi
indipendenti, favorirono la conquista dell'indipendenza da parte di quasi tutte
le colonie.
L'indipendenza, in genere, fu
conquistata in modo meno drammatico e traumatico là dove la potenza coloniale
aveva precedentemente instaurato la tradizione di far partecipare gli indigeni
all'amministrazione della colonia (ad esempio in India e in Tunisia), in tali
casi non vi furono gravi manifestazioni contro i colonizzatori e, a
indipendenza conquistata, vennero generalmente mantenuti buoni rapporti con la
ex madre patria. Dove invece il paese colonizzatore si era preoccupato quasi
esclusivamente di sfruttare la ricchezza della colonia (come nel Congo belga e
nelle colonie portoghesi: Guinea, Angola, Mozambico), o là dove l'indipendenza
era stata lungamente e tenacemente ostacolata e negata (come in Algeria e in
Indocina), la conquista dell'indipendenza costò anni sanguinosi di guerra e di
guerriglia.
Il neocolonialismo - La scomparsa quasi totale delle colonie non significò la
scomparsa dell'imperialismo, cioè dello sfruttamento di alcuni paesi ad opera
di altri più potenti: è venuta meno la dominazione territoriale, ma rimane, in
forme nuove e complesse quella economica, cioè lo sfruttamento delle ricchezze
da parte delle grandi compagnie industriali e dei grandi monopoli.
Si tratta del neocolonialismo che,
come il nome suggerisce, non è altro che una forma aggiornata del colonialismo
tradizionale. Esso si esercita non solo nei paesi di nuova indipendenza, in
Asia e in Africa, ma anche in paesi che già da tempo hanno conquistato tale
indipendenza: un caso macroscopico è costituito dagli Stati dell'America
Latina, soggetti alla colonizzazione economica statunitense. Né sfuggono a tale
assoggettamento - che in tali casi assume forme meno vistose ma non per questo
meno efficienti - anche paesi europei di avanzato sviluppo.
E' molto importante sottolineare
che, in tutti questi casi, la dipendenza economica si risolve spesso in
dipendenza politica.
I governi dei paesi
«neocolonizzati» sono liberi solo apparentemente; in realtà sono soggetti al
controllo della potenza straniera che, dominando l'economia nazionale,
condiziona a suo vantaggio il loro orientamento e la loro politica.
A volte la dipendenza di fatto di
uno stato da una potenza straniera è legata all'importanza che questo stato
assume, dal punto di vista militare, per la strategia di tale potenza; la quale
ottiene, con trattati solo apparentemente paritari, basi per missili,
sottomarini, aerei, navi di superficie.
Accuse di imperialismo
neocolonialista sono state rivolte agli Stati Uniti e all'URSS che mantengono
basi militari su territori di altre Nazioni in virtù di accordi stipulati. Ma
anche altri stati, magari a loro volta condizionati dalle potenze maggiori,
esercitano un indubbio sfruttamento su paesi economicamente più deboli.
La trasformazione rivoluzionaria
della Cina - Un discorso particolare
richiede la Cina che, pur non costituendo una colonia, era di fatto
egemonizzata dalle potenze occidentali, e si trovava in una condizione di
sottosviluppo. La liberò dalla sudditanza e l'avviò a diventare una delle
maggiori potenze mondiali la rivoluzione, che, sviluppatasi all'insegna degli
ideali della rivoluzione russa del '17, portò alla costituzione di uno stato
comunista di più di seicento milioni di abitanti.
Esso fu il frutto di una lunga
lotta, in cui le masse contadine, sotto la guida di Mao Tse Tung, si trovarono
ad affrontare in momenti diversi sia le forze conservatrici guidate dal
generale Chiang Kai Shek, sia i Giapponesi che avevano aggredito la Cina. La
repubblica popolare cinese fu proclamata il 1° ottobre 1949. Nel processo di
trasformazione della società, e in particolare in quello di industrializzazione
dell'economia, la Cina trovò dapprima l'appoggio dell'Unione Sovietica. Nel
1962 si venne però ad una clamorosa rottura fra i due Paesi, rottura che dura
ancor oggi. La Cina, dopo un periodo di isolamento, cercò di avvicinarsi agli
Stati Uniti.
Dopo la morte di Mao (1976) si è
manifestata in Cina una chiara tendenza a ripudiare certe forme considerate
estremistiche e a modificare alcune scelte economiche a favore di altre più
vicine al modello occidentale.
La fame - La fame, uno dei tre flagelli da cui la Bibbia invocava che
l'uomo fosse liberato («O Signore, liberaci dalla peste, dalla fame, dalla
guerra»), resiste ancora oggi invitta nel mondo e colpisce, secondo le
statistiche, circa due terzi dell'umanità.
Accanto alla fame clamorosa e
violenta delle grandi carestie, che ancora si verificano, soprattutto nei Paesi
dell'Africa e dell'Asia, a seguito di alluvioni, di siccità prolungate, di
terremoti, esiste una fame cronica, quella della sottoalimentazione, che usura
gli organismi, determina la mortalità precoce, crea l'ambiente propizio al
diffondersi di malattie epidemiche.
In tutto il mondo, anche nei Paesi
più sviluppati, esistono sacche di miseria nelle quali la fame è ancora
presente; ma essa, come fenomeno generale, è tipica dei Paesi del
sottosviluppo. Basti pensare che si calcolano a 18 milioni i soli bambini morti
per denutrizione nel mondo nel 1980.
Fame e sovrappopolazione - Uno degli elementi che, nei Paesi sottosviluppati, aggravano
il problema della fame è quello della sovrappopolazione. In essi la connessione
tra i due fenomeni appare in tutta la sua evidenza, perché l'aumento della
popolazione è inversamente proporzionale alle risorse alimentari ed economiche.
Se la sovrappopolazione non è la causa esclusiva della fame endemica - vi
concorrono infatti altri fattori, e, fra i primi, la cattiva distribuzione
della ricchezza - ne è però una componente fondamentale.
La popolazione attuale del mondo
raggiunge, secondo i dati statistici, circa i 4 miliardi e mezzo di individui;
gli studiosi prevedono che essa raggiungerà, per la fine del millennio, almeno
i 7 miliardi; i quali diventeranno 50 entro un secolo. E l'aumento verrà soprattutto
dai Paesi sottosviluppati.
Si tratta di un incremento
demografico impressionante, per il quale non è affatto certo che saranno
sufficienti le risorse del nostro pianeta. Infatti è ben vero che esso, accanto
a zone densamente popolate, presenta ancora zone a scarsa densità di
popolazione; ma si tratta, per lo più di territori di basso o bassissimo
rendimento, o che richiederebbero, per diventare mediocremente produttivi, uno
spropositato impiego di capitali.
E' stato osservato che soltanto il
10 per cento della superficie della terra è veramente coltivabile; ad esso si
può aggiungere un altro 10 per cento che potrebbe al massimo dare mediocri
raccolti, ma solo dopo aver speso ingenti capitali. Concorre, inoltre, ad
aggravare il problema, il graduale ridursi di alcune fonti energetiche, ad
esempio del petrolio e del carbone, e di alcuni minerali.
La ragione di questa esplosione
demografica, tipica del nostro tempo, va ricercata, innanzi tutto, nei
progressi della medicina e della chimica: i vaccini hanno bloccato le grandi
epidemie e le «pesti» che periodicamente decimavano l'umanità; mentre medicine,
cure mediche e migliori condizioni igieniche hanno ridotto, soprattutto nei
Paesi del benessere, ma in qualche modo anche negli altri, la mortalità infantile,
e hanno prolungato la media della vita umana.
L'urto delle crescenti moltitudini
è così grave che un problema all'ordine del giorno è diventato quello del
controllo delle nascite. Governi di alcuni paesi ad altissima densità di
abitanti e di limitato territorio come il Giappone, o gravati da un alto tasso
di miseria come l'India, o impegnati a vincere la battaglia contro il bisogno
come la Cina, si sono fatti promotori di campagne per la regolamentazione delle
nascite.
Gli aiuti internazionali al Terzo
Mondo - Una delle cause delle
difficoltà dei Paesi del Terzo mondo e, nel contempo, una conseguenza della
loro arretratezza economica e sociale, è il basso o bassissimo livello di
industrializzazione che li caratterizza, sia pure in forme diverse. Ne deriva
una condizione di grave arretratezza dell'agricoltura, che costituisce per
quasi tutti l'attività economica di gran lunga prevalente quando non esclusiva.
D'altra parte, lo sviluppo
industriale e la trasformazione dell'agricoltura dipendono dalla possibilità di
ingenti investimenti, che i modestissimi redditi nazionali di quei Paesi non
possono consentire. Se a ciò si aggiunge la mancanza di conoscenze tecniche e
di personale specializzato a tutti i livelli e in tutti i settori, risulta
chiaro che lo sviluppo del Terzo Mondo dipende dall'aiuto dei Paesi
industrializzati, tanto da quelli dell'area capitalista come da quelli
dell'area socialista.
Del resto, i Paesi in via si
sviluppo costituiscono un complemento dell'economia dei Paesi sviluppati,
perché assorbono l'eccedenza di tecnici e di attrezzature di questi ultimi, e
offrono disponibilità di materie prime; il che - oltre al disegno di legare a
sé Paesi di importanza strategica - spiega la concorrenza tra le potenze ad
economia capitalistica (gli USA in primo piano) e quelle ad economia socialista
(l'URSS principalmente, ma anche, dal 1953, la Cina) nell'offrire aiuto in
capitali e in consulenza tecnica ai Paesi del Terzo Mondo.
Le forme di aiuto sono molteplici.
Oltre agli accordi bilaterali stretti direttamente tra due Paesi (quello che dà
e quello che riceve gli aiuti), che costituiscono la quota più elevata degli
aiuti, sono da ricordare quelli multilaterali, che sono effettuati dai vari
organismi della Organizzazione delle Nazioni Unite (tra cui principalmente
l'UNESCO = Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, le scienze, la
cultura, e la FAO = Organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura) tramite
la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRD), i cui fondi
sono alimentati dai Paesi membri dell'ONU. Questi aiuti, a diversità di quelli
bilaterali, sfuggono al non infondato sospetto di essere strumenti di forme
sottili di neocolonialismo, e per questo sono considerati più favorevolmente
dalle dirigenze più gelose dell'indipendenza dei loro paesi.
13 Il mondo contemporaneo: quadro
politico internazionale, quadro politico italiano
1 Il quadro politico internazionale
Il quadro internazionale - Per mettere a fuoco la situazione politica dell'Italia
attuale non si può prescindere dalle sue connessioni con la situazione
internazionale. Esiste oggi, come non mai nei secoli precedenti, una
solidarietà di destino fra le nazioni, che ne condiziona le scelte
Il bipolarismo USA-URSS - La scena politica continua ad essere dominata dal bipolarismo
USA-URSS che sinora non è stato intaccato, come sembrava lecito aspettarsi a un
certo momento, dal sorgere di un terzo protagonista che via via poteva essere
individuato nella Repubblica Cinese, o in un'Europa politicamente unita e compatta,
o nel mondo arabo che stringeva in pugno l'arma del petrolio. Tutti questi
tentativi di affermazione di una terza potenza tra le due antagoniste, per
ragioni diverse, non hanno avuto successo
I punti caldi del globo - Fra le due superpotenze i rapporti sono quelli di una
coesistenza difficile, che alterna, a momenti di cauta e vigile distensione,
fasi di crisi in connessione con eventi bellici (guerre locali) che si
verificano nei punti più caldi del globo:
·
nella penisola
indocinese, ove, conclusasi la guerra del Vietnam, ne è scoppiata una tra
Vietnam e Cambogia;
·
in Medio
Oriente, uno dei settori ove esistono più ragioni di tensione: l'endemico
conflitto arabo-israeliano, l'insoluta questione palestinese, la rivoluzione
islamica di Komeini in Iran (genn. '79), il conflitto tra Iran e Iraq (sett.
'80), l'occupazione dell'Afganistan da parte di truppe sovietiche a sostegno di
un governo comunista filosovietico non accetto alla popolazione (dic. '79);
·
nel Sud Africa,
ove uno scontro razziale fra bianchi e popolazioni di colore, che ha il suo
epicentro nella Rodesia, ma coinvolge nazioni vicine come lo Zambia e il
Mozambico, crea rischi di internazionalizzazione del conflitto per la presenza
di volontari stranieri in appoggio ai guerriglieri di colore;
·
nel Corno
d'Africa, ove la guerriglia dei Somali contro gli Eritrei dà appiglio a
tensioni internazionali;
·
in Polonia, ove
l'imposizione di un governo militare (dic. '81) ha soppresso le libertà
sindacali e di stampa conquistate dal sindacato libero Solidarnosc;
·
nel Centro
America ove la situazione interna del Salvador crea motivi di tensione
internazionale.
Le trattative per la riduzione
degli armamenti - Alle fasi
alterne della distensione sono da riallacciare le fasi pure alterne del
processo verso un accordo sulla riduzione degli armamenti, e in particolare
sulla limitazione delle armi nucleari. I documenti più importanti relativi agli
accordi sono quelli noti come S.A.L.T. 1 (1969), S.A.L.T. 2 (1972) e Start
(giugno 1982).
La difesa dei diritti dell'uomo - Nonostante questo immobilismo globale si possono ravvisare
segni di movimento in direzione positiva. Uno di questi è senz'altro, oltre
agli accordi S.A.L.T. e Start sopra ricordati, la Carta di Helsinki (1975), con
la quale le nazioni firmatarie (e tra esse vi sono quelle del blocco
occidentale e quelle del blocco socialista), si impegnano a rispettare i
diritti dell'uomo. Anche se in più occasioni da entrambe le parti non sono
mancate violazioni della Carta stessa, è pur sempre significativa affermazione
di principio e l'esistenza di un punto di riferimento in proposito.
Segni di distensione fra i due
blocchi - Un altro segno è
costituito dai mutamenti nei rapporti fra i due blocchi; mutamenti che possiamo
sommariamente indicare:
·
nella Ostpolitik
( = politica verso l'Est) inaugurata dal cancelliere socialdemocratico tedesco
Willy Brandt e portata avanti dai successivi governi socialdemocratici con
l'intento di riavvicinare le due Germanie e il conseguente intensificarsi degli
scambi commerciali della Germania con l'U.R.S.S. e con altri paesi dell'Est;
·
nella
permeabilizzazione dei paesi del blocco orientale alle influenze occidentali.
Le conseguenze più vistose si sono avute in Iugoslavia, ma sono rintracciabili
anche in Romania, Ungheria e Polonia (sino all'instaurazione del governo
militare del 13-12-1981);
·
nel venire meno
di alcune prevenzioni occidentali nei confronti dei paesi comunisti e
dell'U.R.S.S., sì che anche quando la distensione si inceppa, non rinasce più
lo spirito di crociata antisovietico che aveva caratterizzato la guerra fredda;
·
nella scelta
dell'Eurocomunismo da parte di alcuni grandi partiti comunisti dell'occidente
che ha portato a considerare come possibile la partecipazione dei comunisti ai
governi occidentali.
2 Il quadro politico italiano
NATO e C.E.E. come punti fissi di
riferimento - Il quadro politico
internazionale che abbiamo sommariamente delineato condiziona anche la politica
estera dell'Italia che, legata fin dall'immediato dopoguerra alla politica
americana, ha continuato a considerare come punti fissi l'appartenenza del
nostro paese all'Alleanza Atlantica (NATO) e alla Comunità Economica Europea
(C.E.E.). Per questo l'Italia risente immediatamente e direttamente delle
decisioni prese in quelle due sedi. Di conseguenza grandi ripercussioni hanno
avuto nel nostro Paese le decisioni americane di istallare nuovi missili a
testata nucleare nel nostro territorio, come di mantenervi, più generalmente,
basi militari. E la sua economia, particolarmente l'agricoltura, è condizionata
dalle decisioni del Mercato Comune (M.E.C.).
Svalutazione e disoccupazione - La crisi economica di estensione mondiale, che si è aggravata
dopo la crisi energetica del '73, ha creato in Italia difficoltà crescenti che
si possono riassumere in due fenomeni: la svalutazione e l'aumento della
disoccupazione.
Quanto alla prima (che consiste
nella perdita del valore d'acquisto della moneta, cioè in una diminuzione
effettiva dei salari nominali, e che perciò ha colpito tutti, ma
particolarmente i lavoratori dipendenti e i pensionati) basti pensare che fra
la fine degli anni 70 e l'inizio degli anni 80 è stata di circa il 20% l'anno.
Quanto alla disoccupazione, il
ridursi della competitività della produzione italiana sui mercati stranieri per
la mancata ristrutturazione e il mancato aggiornamento di alcuni processi
produttivi, per l'aumento del costo del lavoro e l'eccessiva conflittualità
all'interno delle aziende, ha messo in crisi molte di esse, tra cui alcune a
capitale statale (del gruppo I.R.I.), portando a una diminuzione dei posti di
lavoro di fronte a una cresciuta disponibilità di lavoratori. L'intervento
diretto dello Stato con sovvenzioni o quello indiretto tramite la Cassa
Integrazione ha contribuito ad aggravare il dissesto della finanza pubblica, su
cui contemporaneamente pesava in senso negativo un crescente deficit della
bilancia commerciale (anche a causa dell'aumentato costo del petrolio).
«Tenuta» delle piccole e medie
aziende, ed «economia sommersa» - La resistenza dell'economia italiana, nonostante le gravi negatività
sopra dette, resistenza che stupisce spesso anche i commentatori stranieri, è
legata in parte alla tenuta delle piccole e medie industrie, condotte con
criteri più economici e più elastiche nell'adeguarsi alle variazioni del
mercato. E' vero che talvolta queste aziende si avvantaggiano di un lavoro non
ufficiale che ha fatto coniare l'espressione di economia sommersa per indicare
l'insieme delle attività che non risultano nelle statistiche; economia sommersa
in parte legata all'esistenza di lavoro nero, cioè di un lavoro non dichiarato
ufficialmente e per ciò anche non protetto sindacalmente e assistenzialmente.
Il terrorismo - L'altro grave fenomeno, questa volta di natura politica, che
ha caratterizzato l'ultimo decennio della vita italiana è il terrorismo che ha
avuto il suo momento politicamente più preoccupante nel sequestro e
nell'uccisione dell'onorevole Moro, leader della Democrazia Cristiana (1978).
In realtà il terrorismo non è un
fenomeno esclusivamente italiano. Basti pensare che, nel 1981, nel giro di
pochi mesi, si sono verificati gli attentati a Reagan, a papa Giovanni Paolo II
ad opera di un terrorista turco, ad Indira Gandhi, al presidente egiziano Sadat
(che decedette); mentre altri vennero tempestivamente sventati (a Giscard
d'Estaing, a Lech Walesa, al premier messicano Portillo).
In Italia, dopo anni di tragedie e
di lutti che hanno colpito rappresentanti della magistratura, del giornalismo,
del sindacato, delle forze dell'ordine e della vita politica, una svolta si è
verificata a partire dalla liberazione di un generale americano che era stato
sequestrato dalle Brigate Rosse (gennaio 1982). Da allora il terrorismo sembra
abbia iniziato la sua fase discendente.
Al terrorismo si intreccia in modo inestricabile
l'attività della malavita organizzata (rapine, sequestri, traffico di droga,
racket cioè taglieggiamento di piccoli e grandi operatori economici), che trova
i suoi centri nella mafia, nella camorra e nella 'ndrangheta calabrese.
Le conquiste democratiche della
Repubblica - Il quadro fosco che
abbiamo tracciato non deve però far perdere di vista i grandi progressi che il
Paese ha fatto sulla strada di una effettiva democrazia. Basti ricordare che,
pur con le disfunzioni che non si vogliono negare, la Repubblica italiana ha
portato
·
l'istruzione
obbligatoria e gratuita per tutti i cittadini a otto anni di studio;
·
ha aperto
l'ingresso alle Università a masse di studenti;
·
ha messo in atto
un sistema sanitario capillare al servizio di tutti i cittadini e non solo di
alcune categorie;
·
ha creato
istituzioni decentrate come le Regioni per accrescere negli amministratori la
sensibilità ai problemi locali;
·
analogamente i
grandi comuni hanno decentrato i loro poteri a strutture amministrative
periferiche.
·
Senza dire delle
grandi conquiste sociali: lo Statuto dei lavoratori, il nuovo diritto di
famiglia, la parità dei sessi sul lavoro, ecc.
Tale avanzamento è stato reso
possibile dal fenomeno che efficacemente è stato chiamato l'ingresso delle
masse sulla scena dello Stato. Sono state le masse organizzate che hanno spinto
partiti e governanti ad adeguarsi alle esigenze della società.
14 La società italiana oggi: La
trasformazione della società italiana; Progresso tecnologico, lavoro, fonti
energetiche; La degradazione dell'ambiente; La questione meridionale.
1 La trasformazione della società
italiana
La trasformazione della società - Nell'ultimo quindicennio il processo di trasformazione della
società italiana avviato con la ripresa postbellica ha subito una forte
accelerazione. Fermenti già in atto nei decenni precedenti, cui altri
importanti se ne sono aggiunti più recentemente, hanno trovato in nuove
condizioni di vita e nella stessa trasformazione dell'economia, fattori
favorevoli al loro prepotente sviluppo. Ne è venuta una trasformazione radicale
del costume, della mentalità, con un'innegabile elevazione del tenore di vita e
con la tendenza ad una omogeneizzazione del Paese sui livelli più elevati.
Anche se ciò non ha soppresso il divario esistente tra le regioni, e
particolarmente fra il Nord e il Sud, e quello tra le classi sociali,
indubbiamente negli ultimi vent'anni (1961-1981) esso è andato riducendosi più
che non nei cento anni precedenti.
I fattori della trasformazione - Molteplici sono le cause a cui va attribuita questa profonda
trasformazione del Paese: lo sviluppo dell'industrializzazione e la connessa
emigrazione interna, la trasformazione dell'attività rurale e la corrispondente
riduzione della popolazione agricola, e la sostanziale trasformazione della
figura tradizionale del contadino sono certo tra gli elementi più vistosi che
hanno favorito questo processo.
Ma ve ne sono stati altri; e tra
questi sono da mettere al primo posto l'influenza di una scuola dell'obbligo
della durata di otto anni estesa su tutto il territorio nazionale, e la
funzione culturale omogeneizzante della televisione, pure diffusasi
gradualmente su tutto il Paese. Né va trascurata la funzione svolta dai più
intelligenti fra i rotocalchi, particolarmente dai rotocalchi dedicati alla
donna. Il risultato del confluire di tali di verse concause è stato il fenomeno
che potremmo con una parola definire come l'urbanizzazione della società
italiana; non tanto nel senso che è cresciuta la popolazione abitante nei centri
urbani, ma nel senso che i modelli di vita urbana, e la connessa mentalità,
hanno permeato di sé anche gli abitanti dei centri rurali. Nel contempo le
differenze tra le classi, così vistose nel passato anche nell'immagine esterna,
si sono ridotte fin quasi a scomparire: modo di vestire, alimentazione,
abitazioni, igiene personale e domestica, mezzi di locomozione, si sono
sostanzialmente avvicinati, se si escludono i circoscritti casi estremi sia nel
privilegio che nell'emarginazione.
Uno degli aspetti della
omogeneizzazione delle regioni e delle classi è la diffusione della lingua
italiana, che soltanto in questi anni diventa per la prima volta la lingua
nazionale, capita e parlata, sia pure in forme spesso improprie, da tutta la
popolazione italiana di media e di giovane età.
Non ci si può e non ci si deve
nascondere che la trasformazione cui ci riferiamo presenta risvolti negativi:
la perdita di certe tradizioni legate alla cultura contadina e al più immediato
contatto con la natura, il deteriorarsi dell'ambiente ad opera delle diverse
forme di inquinamento, l'accentuarsi dell'aspetto competitivo della vita con le
connesse ansie e tensioni, la passività della recezione televisiva, la non
corretta impostazione di buona parte della scuola media (già il nome lo
denuncia) considerata da molti insegnanti e famiglie non già lo strumento della
formazione civile per tutti i ragazzi, ma una preparazione specializzata ad una
scuola superiore.
I giovani e le donne - Nella trasformazione sociale una spinta notevole è venuta,
soprattutto dopo la contestazione studentesca del '68 e le lotte operaie del
'69, dai giovani e dalle donne, e dalle organizzazioni da essi create. La loro
azione, anche se prevalentemente aveva di mira obiettivi specifici (rispettivamente
la riforma della scuola e la parificazione dei sessi), di fatto si concretava
in una critica a tutta quanta la società di cui si denunciava lo sviluppo
distorto e l'immobilismo nei confronti di alcuni problemi cruciali. Era la
critica al «sistema», che richiedeva, sia pure in forma spesso massimalistica e
perciò astratta, cambiamenti radicali. Il movimento femminile ha conseguito
risultati tangibili che si sono concretati nel nuovo diritto di famiglia; la
contestazione giovanile non è invece riuscita a ottenere le riforme della
scuola giustamente richieste; però il «movimento» ha inciso profondamente sul
costume italiano: sui rapporti fra padri e figli, fra insegnanti e allievi, fra
coetanei.
Tra le maggiori difficoltà che oggi
i giovani si trovano ad affrontare, soprattutto in conseguenza della Grande
Crisi vi è la disoccupazione intesa come difficoltà di trovare un primo impiego
e, in comune con gli altri lavoratori, la minaccia permanente della perdita del
posto a seguito delle difficoltà delle aziende.
Inoltre, il processo disordinato di
inurbamento che ha caratterizzato gli ultimi venti anni ha creato,
prevalentemente ma non solo nei grandi centri, una penuria di alloggi di cui
risentono soprattutto i giovani che intendono crearsi una nuova famiglia.
Il terrorismo e la droga - L'insoddisfazione dei giovani per la mancata trasformazione
del sistema si è manifestata, oltre che nella via legittima offerta dalla
democrazia (partecipazione alle scelte politiche attraverso i partiti e le
elezioni), anche attraverso due scelte distorte e distruttive: quella della
droga e quella del terrorismo. La prima, che porta all'autodistruzione, è una
fuga da una società che non si vuole accettare e per la cui trasformazione non
si ha la forza di impegnarsi; il secondo, che si concreta con la distruzione di
vite altrui, è il tentativo aberrante di trasformare la società con la violenza
di nuclei isolati dal contesto nazionale e in particolare dalle masse
lavoratrici.
2 Progresso tecnologico, lavoro, fonti energetiche
Trasformazione e miglioramento
della vita - Il carattere più
vistoso della nostra società è la radicale trasformazione che hanno subito i
processi di produzione, i mezzi di trasporto e di comunicazione e gli aspetti
della vita quotidiana in virtù della diffusione della macchina. Non vi è campo
nel quale la nostra vita non sia diversa da quella non solo di cento anni fa,
ma di neppure un paio di generazioni or sono.
Solo nel nostro tempo sono
diventati di uso comune, almeno nelle società altamente industrializzate come
la nostra, ritrovati quali l'automobile, l'aeroplano; e sono entrati nelle case
di tutti il telefono, la radio, il televisore, gli elettrodomestici. Nel
contempo la medicina, grazie al progresso della scienza e della tecnica, ha
migliorato le condizioni igieniche, è riuscita a sconfiggere alcune malattie,
ed è riuscita, assieme ad una migliore condizione alimentare anche delle masse,
ad allungare la durata della vita.
La diffusione della macchina nei
suoi vari aspetti ha certamente mutato in meglio la nostra esistenza, ha
ridotto la fatica nel lavoro, ha aumentato la produzione dei beni di consumo
rendendoli più accessibili a tutti, ha facilitato le comunicazioni, mettendo
per tutti il mondo a portata di mano.
La scienza contro l'uomo - Non mancano però ragioni per mettere in dubbio l'assoluta
positività del progresso tecnologico. E' un problema evidente anche nella
routine della vita quotidiana, se si considerano i danni che lo sviluppo
tecnologico ha prodotto e produce nella nostra società. La meccanizzazione,
prevaricando, ha creato un distacco dell'uomo dalla natura, dai suoi ritmi,
quando non ha portato alla violazione della natura stessa menomando e
distruggendo le sue risorse elementari: l'acqua e l'aria avvelenate
dall'inquinamento, la degradazione della coltre terrestre, il verde distrutto
dallo sfruttamento irrazionale del suolo o dalla speculazione edilizia. Sono
fatti che hanno messo in crisi la fiducia ottimistica e indiscriminata nel
progresso scientifico, tanto più se se ne considerano le applicazioni fatte nel
campo della distruzione bellica.
E' impossibile rifiutare il
progresso scientifico - Se è vero che
il modo con cui è stata utilizzata la scienza giustifica un giudizio critico
sul progresso tecnologico, è altrettanto vero che l'atteggiamento da assumere
in proposito non può essere il rifiuto della scienza o il sogno di un
impossibile ritorno a mai esistite «età dell'oro». Deve piuttosto essere
ricercata una diversa applicazione della scienza; ci si deve domandare come
hanno potuto verificarsi tante applicazioni antisociali di essa.
La nuova fabbrica - Uno degli aspetti più noti del progresso tecnologico è la
trasformazione dell'economia. Per quanto riguarda l'Italia, il mutamento
avvenuto dopo la seconda guerra mondiale ha portato l'industria e il terziario
(l'insieme dei servizi necessari per la produzione) ad occupare il primo posto nel
mondo del lavoro.
Quanto all'industria, anche in
Italia essa è entrata, nelle sue manifestazioni più avanzate, in quella che si
può chiamare la terza fase della rivoluzione industriale, caratterizzata
dall'automazione: resa possibile, quest'ultima, dall'avanzamento
dell'elettronica e dalla miniaturizzazione, cioè dalla possibilità di ridurre
circuiti e apparati elettronici a un ingombro minimo. E' nata così la nuova
fabbrica.
Nelle fabbriche più moderne, quelle
automatizzate, l'operaio ha addirittura lasciato la tuta blu e si è trasformato
in un tecnico dal camice bianco; la fatica muscolare è pressoché scomparsa
lasciando il posto a movimenti precisi, non faticosi, anche se psicologicamente
stressanti.
La condizione operaia - Ma se spesso è mutato e migliorato l'ambiente di lavoro, non
sono mutati i gravi risvolti negativi che ad esso si accompagnano. La
condizione degli operai è non di rado carica di tensioni e di frustrazioni: la
ricerca dell'occupazione in primo luogo, che diventa spasmodicamente difficile
in tempi di crisi, la minaccia ricorrente della disoccupazione,
l'insoddisfazione per un lavoro spesso sentito come estraneo e alienante, i
ritmi talora stressanti della produzione con negative conseguenze psicofisiche.
L'impulso più efficace al miglioramento
della condizione operaia è venuto dai sindacati, che, ritrovata l'unità
d'azione, hanno esteso il loro interesse dalle questioni puramente salariali a
quelle che riguardano la vita in fabbrica e fuori di essa: sicurezza e igiene
sul lavoro, servizi di mensa, servizi assistenziali, la casa, i mezzi di
trasporto, l'istruzione, l'aggiornamento, il tempo libero.
Lo statuto dei lavoratori - Le lotte operaie del 1968-69, culminate nell'«autunno caldo»
del '69, portarono nel '70 a forti aumenti salariali, e, nel campo della
regolamentazione del lavoro, sfociarono nell'approvazione dello Statuto dei
lavoratori che «costituiva nuove e importanti garanzie a difesa e protezione
del lavoratore, modificando in senso democratico un rapporto di lavoro, fino
allora condizionato da una legislazione di ispirazione padronale» (Mammarella).
La disoccupazione - La disoccupazione è un fenomeno tipico della maggior parte
dei paesi sottosviluppati, dove, per ovvie ragioni, mancano iniziative
economiche sufficienti per assorbire il lavoro della parte attiva della
popolazione. Ma essa rappresenta anche uno dei più gravi problemi delle società
ad alto sviluppo industriale, specie di quelle a economia capitalistica.
In Italia i primi accenni di crisi
che portarono a un aumento preoccupante della disoccupazione, si profilarono
nel 1963, subito dopo gli anni del boom economico. La ripresa successiva fece
pensare che la crisi fosse superata. In realtà essa continuava strisciante e si
manifestò in forma più vistosa nel '73.
Le difficoltà dell'economia
italiana venivano in quell'anno aggravate da un fatto che investiva l'economia
mondiale: la crisi petrolifera. Da allora la situazione è andata sempre
peggiorando, ed uno dei riflessi più preoccupanti, oltre all'inflazione, ne è stata
la disoccupazione che ha toccato punte altissime.
L'emigrazione interna ed esterna - A seguito della crisi nazionale e internazionale
l'emigrazione, sia quella all'interno prevalentemente dal Sud al Nord, sia
quella esterna, in particolare verso paesi in forte espansione economica
(Germania, Svizzera) ha subito un'inversione di tendenza. Non solo sono cessati
i grandi flussi di inurbamento nelle città del Nord in particolare, ma si è
registrata una diminuzione nella popolazione di alcune grandi città (ad esempio
Milano e Roma). Molti lavoratori infatti sono tornati ai paesi d'origine.
Anche nell'emigrazione esterna si è
avuto un calo progressivo via via che la crisi mondiale ha inciso anche nelle
nazioni più industrialmente sviluppate: dal '73 in avanti, ad esempio, si è
avuto, forse per la prima volta nella storia d'Italia, un'eccedenza dei
rimpatri sugli espatri.
Fonti di energia - Il progresso tecnologico si collega strettamente alla
disponibilità delle fonti di energia. Quelle di cui si è avvalso prevalentemente
l'uomo dalla rivoluzione industriale fino a circa 50 anni fa sono state il
carbone (che costituiva il 90 per cento energetico mondiale fino all'inizio del
secolo) e l'energia idrica (corsi d'acqua, cascate) che, verso la metà
dell'Ottocento, con l'invenzione della turbina, si riuscì a trasformare in
energia elettrica.
Queste fonti di energia sono ormai
state sostituite in gran parte dal petrolio e dai suoi derivati (nafta,
benzina, gasolio, per citare solo i più importanti); la stessa elettricità
viene oggi ottenuta dal petrolio più spesso che non dall'acqua.
I maggiori giacimenti petroliferi
mondiali si trovano negli Stati Uniti (che producono il 25% del petrolio
mondiale, non sufficiente tuttavia al fabbisogno nazionale); seguono, in ordine
di importanza, il Kuwait, l'Arabia Saudita, l'Iraq, l'U.R.S.S., il Messico, il
Venezuela, la Persia, la Libia, il Canada, l'Algeria, l'Indonesia, la Nigeria.
In Italia, dopo la scoperta di idrocarburi nella valle Padana, si sono trovati
giacimenti petroliferi in Sicilia e in Abruzzo. La loro produzione copre solo
una piccola percentuale del fabbisogno.
La nuova politica petrolifera dei
paesi produttori - Alcuni paesi produttori di petrolio appartengono all'area
altamente industrializzata, ma molti di essi fanno parte invece del Terzo
Mondo. I loro pozzi petroliferi, assegnati in concessione a compagnie europee e
americane e dotate di forti capitali per l'estrazione e il raffinamento del
prodotto, sono stati per lungo tempo sfruttati con scarsa contropartita locale.
A partire dagli anni Sessanta
peraltro, nel nuovo clima creato dalla decolonizzazione che ha dato a molti
paesi del Terzo Mondo l'autonomia politica e ha favorito in tutti la coscienza
dei propri diritti, i paesi africani e asiatici hanno instaurato una nuova
politica petrolifera che consente loro grossi introiti di capitali.
Le nuove fonti di energia - La crisi del '73 comunque ha dimostrato quale pericolo
costituisca, per i paesi industrializzati, la dipendenza quasi totale da un
solo prodotto. Questa preoccupazione si è aggiunta a un'altra preesistente,
cioè al timore di un esaurimento, in tempi non molto lontani, dei pozzi di
petrolio. Si calcola la possibilità di una forte riduzione del prodotto già
intorno al 2000.
Per queste ragioni, mentre si continuano
a cercare nuovi giacimenti petroliferi anche a livello sottomarino, si sono
accentuate le ricerche di nuove fonti di energia. Si tenta, ad esempio, una
nuova utilizzazione del carbone, con processi di liquefazione che consentono di
trasformare la polvere di carbone in combustibili sintetici liquidi, e con
processi di gassificazione che convertono il carbone polverizzato in gas
greggio. Ma l'interesse è volto soprattutto verso l'energia nucleare, che si
pensa diventerà l'energia del futuro; e non si esclude uno sfruttamento
dell'energia solare.
3 La degradazione dell'ambiente
Inquinamento e degradazione
dell'ambiente - Da parecchi anni
ormai nelle società ad alto sviluppo industriale si sono levate voci di allarme
contro le gravi deturpazioni portate all'ambiente in cui viviamo e contro
l'inquinamento che minaccia la nostra salute fisica e il nostro equilibrio
psichico.
Sotto la spinta di speculazioni
economiche e di interessi privati le città si sono sviluppate in modo abnorme e
caotico, nell'ignoranza e nel disprezzo delle fondamentali esigenze della vita
umana.
Il verde è stato ingoiato dal
cemento dei nuovi edifici, i quartieri periferici di recente costruzione,
almeno nelle maggiori città italiane, sono sorti senza le adeguate strutture
sociali e non offrono, a chi vi abita, possibilità di lavoro o di svago
collettivo; vi mancano spazi sufficienti e attrezzature per i giuochi dei
bambini e per lo sport dei giovani.
Parallelamente allo sviluppo
caotico dei centri abitati, e spesso in connessione con esso, si è verificata
la degradazione dell'ambiente naturale. Troppi edifici sono sorti senza alcun
rispetto per le caratteristiche e le bellezze del paesaggio.
L'inquinamento industriale dei
fiumi, dei laghi e dei mari ha distrutto gran parte delle risorse idriche. Sono
scomparsi i boschi e l'aria è inquinata.
La riconquista del verde - Questi fenomeni hanno ormai risvegliato la preoccupazione
della parte più responsabile dell'opinione pubblica. Gli anni Settanta hanno
visto un maggior impegno da parte delle amministrazioni pubbliche - Regioni e
Comuni - nel senso di porre un freno, attraverso azioni legislative e forme di
difesa e di recupero, alla degradazione dell'ambiente. In particolare nelle
città la riconquista del verde, non in termini decorativi ma funzionali, cioè
di spazi attrezzati per la vita di tutti, è stato un preciso obiettivo di
alcune amministrazioni.
In questo quadro di recupero del
verde e di ricostituzione e rispetto dell'ambiente naturale si inserisce
l'istituzione dei Parchi nazionali (i più importanti: del Gran Paradiso, dello
Stelvio, degli Abruzzi e della Calabria). Questa azione è stata stimolata da
un'opinione pubblica organizzata da movimenti ecologici a livello nazionale e
internazionale. I più noti sono il W.W.F. (World Wildlife Found = Fondo
mondiale per la natura) sul piano mondiale e Italia nostra su quello nazionale.
4 La questione meridionale
L'altra Italia - Nel 1961, quando si celebrò il centenario dell'unità
italiana, furono molte le voci che si levarono ad ammonire che sostanzialmente
l'unità non era ancora realizzata, che esistevano ancora due, o forse più,
Italie.
La prima grande frattura, la più
vistosa, era la frattura fra Nord e Sud, quella che costituiva la ormai annosa
e non ancora risolta questione meridionale, con i suoi problemi di miseria, di
disoccupazione, di analfabetismo, di mafia, di emigrazione. Ma in questo senso
il Sud, in Italia, non è una determinazione soltanto geografica: sacche di
miseria, condizioni di avvilimento, disperata mancanza di opportunità ad
elevarsi, si trovano anche nell'industrializzato ed evoluto Nord, nelle cinture
periferiche di alcune grandi città o in zone di campagne avare o immiserite da
strutture economico-sociali parassitarie.
La questione meridionale:
significato e storia - La questione
meridionale, cioè l'insieme di problemi che nascono dallo squilibrio tra lo
sviluppo del Mezzogiorno e le regioni dell'Italia centro-settentrionale, non è
una questione che riguardi soltanto il Sud, ma è questione nazionale, e di primaria
importanza.
L'esistenza di tale squilibrio, che
si ripercuote negativamente sull'intera nazione, ha radici antiche e recenti,
nella storia di tutto il Paese, e può essere eliminata solo con una
trasformazione radicale di tutta la società italiana.
Al momento della formazione dello
Stato italiano, il Sud (i territori dell'ex regno delle Due Sicilie e alcune
regioni dello Stato pontificio) era in condizioni di arretratezza nei confronti
del resto del Paese.
Per non aver affrontato la riforma
agraria, che avrebbe potuto risolvere i problemi delle masse contadine,
l'unificazione non modificò la situazione meridionale. Essa anzi peggiorò nei
decenni successivi per varie ragioni, e soprattutto a causa della politica
protezionistica adottata per difendere, con barriere doganali, la nascente
industria settentrionale.
Né fece fare un passo avanti nella
soluzione dello squilibrio la politica di leggi speciali a favore del
Mezzogiorno, che venne inaugurata all'inizio del nuovo secolo. Si trattava, in
sostanza, di un incremento di opere pubbliche con assegnazioni speciali di
fondi, oppure di sgravi fiscali intesi a favorire la piccola proprietà agraria
e ad attirare l'industria nel Sud. L'unico risultato fu un avvio industriale
circoscritto all'area di Napoli, che non intaccò minimamente il problema delle
campagne, che rimaneva il problema di fondo.
Il fascismo non mutò la situazione
meridionale; la stessa impresa africana, che doveva dare terre ai contadini
italiani, e in particolare a quelli del Sud, ebbe più il senso di un'evasione,
e impegnò altrove forze e capitali che avrebbero potuto migliorare le con
divisioni del Paese
I problemi del Sud, oggi - Nel secondo dopoguerra furono presi provvedimenti a favore
dell'Italia meridionale: la riforma agraria, la costituzione della Cassa del
Mezzogiorno, la costruzione di grossi complessi industriali in determinate zone
(Pomigliano, Taranto, Gela, Metaponto). Però, di fatto, lo scompenso tra le due
Italie è aumentato, perché il divario col Nord è cresciuto. Permangono in tutta
la loro gravità i problemi della disoccupazione e della sottoccupazione, della
conseguente emigrazione, del lavoro minorile, dell'arretratezza agricola, del
basso livello di scolarità, della mafia.
Il permanere di questi problemi è
legato a forme errate di sviluppo e al sopravvivere di privilegi, alla mancanza
cioè di una organizzazione sociale che, riducendo da una parte le possibilità
di sfruttamento, offra a tutti condizioni di vita migliori.
La mafia - La mafia nacque ed ebbe il suo centro nella zona interna
delle province di Palermo, Trapani e Agrigento, zona di latifondi retti con
strutture ancora feudali e caratterizzati dalla ricchezza del nobile
proprietario (o del «gabellotto», spesso un ex fattore, che affittava o
comprava il feudo padronale) in contrasto con l'estrema miseria dei braccianti
o dei piccoli conduttori, ai quali veniva subaffittato il latifondo e che erano
costretti a sottoscrivere contratti economicamente durissimi.
La mafia rappresentò, fin
dall'inizio, la difesa del potere padronale contro le rivendicazioni dei
dipendenti, una difesa che si esercitava, non di rado, anche in forme di feroce
violenza.
Dal feudo, dalla campagna, la mafia
allargò via via la sua influenza nei centri cittadini, dove controllava e
taglieggiava i vari settori della vita economica (mafia dei mercati, dei macelli,
dei porti, ecc.); mentre andava sempre più rafforzandosi e dilatando la sua
possibilità di manovra attraverso la corruzione del mondo politico e
amministrativo. A questo si aggiunga la rete di omertà intorno ai suoi crimini,
creata dall'interesse e soprattutto dal terrore, che rendeva quasi impossibile
raccogliere prove concrete anche contro mafiosi macchiati di innumerevoli
delitti.
Nel secondo dopoguerra la mafia
assunse una nuova fisionomia. I servizi segreti americani, nell'imminenza dello
sbarco in Sicilia, si accordarono - tramite le cosche mafiose trasmigrate in
America - coi mafiosi siciliani, perché facilitassero l'avanzata americana
nell'isola. A risultato ottenuto, molti mafiosi furono collocati in posti di
responsabilità dalle stesse autorità alleate; e soprattutto si rinsaldarono i
vincoli tra mafia e gangsterismo d'oltreoceano, col risultato di dilatare
enormemente l'area di attività mafiosa e di importare in Sicilia i metodi della
delinquenza americana: i nuovi campi di attività furono trovati nel
contrabbando di sigarette e della droga. La Sicilia divenne una testa di ponte
per il traffico della droga dal Medio Oriente ai porti della Francia, e, di lì,
in America.
Oltre alla mafia vera e propria,
che è originaria della Sicilia e la cui attività si è diffusa ormai su tutto il
territorio nazionale, esistono altre analoghe forme di malavita organizzata con
remote tradizioni storiche: la camorra napoletana e la 'ndrangheta calabrese.
Negli ultimi anni, grazie anche
all'impegno della Commissione parlamentare antimafia e delle forze dell'ordine,
qualcosa si è mosso su questo fronte: alcune barriere di omertà vengono, sia
pure ancora insufficientemente, cedendo, e le autorità ufficiali prendono
posizioni più decise.
15. La minaccia nucleare
La paura della guerra - Fra gli aspetti caratteristici del nostro tempo vi è il
sempre presente timore dello scoppio di un nuovo conflitto. E non tanto in
relazione alle guerre locali che, come abbiamo visto, hanno punteggiato questi
quasi quarant'anni di inquieta pace, quanto per la diffusa preoccupazione che
incute la corsa agli armamenti, soprattutto nucleari, da parte delle due
superpotenze.
Nuove armi nucleari - Nella corsa agli armamenti una posizione di primo piano ha
infatti tenuto la costruzione di ordigni nucleari sempre più perfezionati; il
che significa innanzi tutto, anche se non solamente, di sempre maggior potenza
distruttiva.
Dalla bomba di Hiroshima, la cui
potenza era pari a circa 20 kiloton, cioè 20.000 tonnellate di tritolo, si è
giunti a bombe H termonucleari di 100 megaton, pari cioè a 100.000 kiloton (un
megaton = 1000 kiloton), cioè 100 milioni di tonnellate di tritolo. Per dirla
in altre parole, mentre la bomba di Hiroshima era pari ad una salva di 4
milioni di cannoni di 7Smm., una bomba termonucleare è pari ad una salva di un
miliardo di cannoni dello stesso calibro. Senza parlare di novità sconvolgenti
come la bomba al neutrone (bomba N) la cui caratteristica è di uccidere gli
organismi viventi senza distruggere gli edifici, e di essere «pulita» cioè di
non creare fall-out atomico (cioè il persistere di radiazioni atomiche che
rendano inabitabile l'area investita dallo scoppio).
La bomba atomica e l'equilibrio del
terrore - Le catastrofiche
capacità distruttive delle bombe nucleari hanno sconvolto non solo la strategia
militare, ma la stessa politica. L'equilibrio del terrore, come è stato
definito, ha sconsigliato, ed auguriamoci che abbia a sconsigliarlo per il
futuro, lo scontro diretto tra le grandi potenze, e ha impedito che le guerre
periferiche assumessero dimensione mondiale.
La consapevolezza del rischio
mortale a cui nessuno può pensare di sfuggire ha spinto alla ricerca di accordi
per la limitazione degli armamenti. La più importante delle trattative in
proposito è nota col nome di S.A.L.T. (Strategic Arms Limitation Talks =
Negoziati per la limitazione degli armamenti strategici), ed ha avuto inizio
fra U.S.A. e U.R.S.S. nel novembre 1969. Il primo ciclo dei negoziati, noto
come S.A.L.T. 1, si è concluso nel maggio '72. I negoziati S.A.L.T. 2, iniziati
nel novembre '72, si sono conclusi con accordi, scaduti per mancanza di
ratifica da parte del Senato americano. Nel giugno '82 si sono riprese le
trattative, denominate S.T.A.R.T. che si propongono un obiettivo più ampio del
S.A.L.T. 2, perché non riguardano solo i depositi atomici ma l'armamento
atomico in generale.
Una nuova minaccia: le atomiche di
teatro - Sul finire degli anni
Settanta, la minaccia nucleare per i Paesi europei, e quindi per l'Italia, ha
assunto un aspetto nuovo e preoccupante. Già con la bomba N, e più ancora con
l'installazione in Europa di missili tattici a testata nucleare ad opera sia
dell'U.R.S.S. (i missili SS 20), sia degli USA (i missili Pershing e Cruise,
chiamati armi di teatro) per controbilanciare quelli sovietici, si è
prospettata la possibilità di una «guerra nucleare limitata», cioè il cui campo
d'azione sia ridotto alla sola Europa. In altre parole, questo nuovo tipo di
armi nucleari sembra abbia reso «pensabile» quella guerra nucleare che, come
dicevamo, era considerata «impensabile» quando si poteva far conto soltanto
sulle bombe strategiche ad alto potenziale, il cui uso implicava la distruzione
di entrambi i contendenti.
Il movimento per la pace - Questa prospettiva, che prevede il sacrificio dell'Europa in
un deprecato scontro U.S.A.- U.R.S.S., ha dato forza al movimento per la pace
in tutti i paesi europei occidentali. Ne fanno parte persone di ogni
provenienza ed età; però la gran massa è costituita dai giovani.
La guerra è un male necessario? - L'Europa è stata coinvolta nel nostro secolo da due
spaventosi conflitti che si sono estesi a tutto il mondo con un bilancio di
morti, distruzioni e sofferenze inenarrabili. Oltre a queste due guerre
mondiali, altre più limitate, in questo stesso periodo, hanno aggiunto e
continuano ad aggiungere ulteriori lutti. E questo nonostante che una ideologia
e predicazione pacifista avesse indotto a sperare che gli Stati, per regolare
le loro questioni, potessero evitare il ricorso alla violenza rivolgendosi
invece all'arbitrato di organismi superiori (in successione di tempo la Società
delle Nazioni, il Tribunale dell'Aia, l'Organizzazione delle Nazioni Unite).
Il sostanziale fallimento
di queste speranze, insieme a quella della «guerra per por fine alle guerre»,
speranza che faceva parte del bagaglio ideologico sia del primo che del secondo
conflitto mondiale, ha favorito il radicarsi di una diffusa convinzione che la
guerra sia ineluttabile, e ineluttabile sia il suo periodico comparire.
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