T Cesare attraversa il Rubicone
Dalla Vita di Cesare di Svetonio
Quando raggiunse le coorti presso il fiume Rubicone, che
segnava il confine della sua provincia, Cesare si fermò per un po', e
riflettendo su quanto stesse facendo rivolto ai più vicini disse:
"Possiamo ancora tornare indietro; perché se attraverseremo il ponticello,
tutto ciò che faremo dovrà esser fatto con le armi. Mentre esitava accadde tale
prodigio. Un uomo di straordinaria forma fisica e bellezza apparve
all’improvviso seduto poco distante, mentre suonava il flauto: per ascoltarlo
erano arrivati oltre i pastori anche moltissimi soldati dai posti di guardia e
tra quelli anche dei trombettieri, e presa la tromba ad uno di questi si
precipitò al fiume andò verso l’altra vira. Allora Cesare disse: "Andiamo
dove ci chiamano i segnali degli dei e l'avversità dei nemici. Il dado è
tratto."
Fatta passare così la sua armata, prese con sé i tribuni
della plebe che, scacciati da Roma, gli si erano fatti incontro, si presentò
davanti all'assemblea dei soldati e invocò la loro fedeltà con le lacrime agli
occhi e la veste strappata sul petto. Si crede perfino che abbia promesso a
ciascuno il censo di cavaliere, ma si trattò di un equivoco. Infatti, nel corso
della sua arringa e delle sue esortazioni, egli mostrò molto spesso il dito
della mano sinistra dicendo che di buon grado si sarebbe tolto anche l'anello
per ricompensare tutti coloro che avessero contribuito alla difesa del suo
onore. I soldati dell'ultima fila, per i quali era più facile vedere che
sentire l'oratore, fraintesero le parole che credevano di interpretare
attraverso i gesti e si sparse la voce che avesse promesso a ciascuno il
diritto di portare l'anello e di possedere i quattrocentomila sesterzi.
Cesare attraversa il Rubicone
Dalla Vita di Cesare di Plutarco
Giunse al fiume che segna il confine tra la Gallia Cisalpina
e il resto d’Italia (viene chiamato Rubicone). strinse un pò il morso ai
cavalli rallentando la corsa e cominciò a riflettere: più si avvicinava il
momento decisivo, più lo turbava l'audacia di ciò che stava per compiere. Si
fermò e nel notturno silenzio, tutto raccolto in se stesso, esaminò i vantaggi
e gl'inconvenienti di quell'impresa. Più di una volta mutò parere, valutando
con gli amici presenti - tra i quali c'era anche Asinio Pollione- da un lato i
mali che l'attraversamento di quel fiume avrebbe causato a tutti, dall'altro la
fama che un tale gesto avrebbe lasciato ai posteri. Alla fine, messa da parte
la ragione, si gettò d'istinto verso il futuro, e come dice solitamente chi si
accinge ad un'impresa ardimentosa e difficile esclamò: «Sia gettato il dado!».
Così prese ad attraversare il fiume e poi di corsa, prima che spuntasse il
giorno, si buttò su Rimini e la conquistò.
T La sconfitta delle truppe
pompeiane
Siamo alle fasi decisive della battaglia. Compare la figura di Cesare
bellicoso, instancabile nell’incitare i suoi e nell’assisterli da vicino
esaltando la loro crudeltà. In tale atteggiamento si percepisce un
compiacimento della strage che probabilmente era estraneo a Cesare personaggio
storico. Si compiace anche della morte di Domizio, che aveva perdonato una
prima volta: anche in questo c’è probabilmente un’esagerazione della ferocia
del condottiero, o per lo meno un’enfasi conferita alla sua crudeltà, che
lascia in ombra altri aspetti della personalità del generale. Negli ultimi
versi del brano, il narratore con l’uso consueto dell’apostrofe lamenta la
sfortuna delle generazioni posteriori a Farsalo, a cui non fu più concesso di
tentare con le armi la riconquista della libertà.
Si era giunti al centro
dell’esercito di Pompeo e al nerbo[1];
qui la guerra che aveva invaso di
truppe sbandate tutta la campagna,
si fermò, e restò incerta la
fortuna di Cesare.
Là non combattono gli ausiliari
forniti dai re,
non impugnano il ferro mani
pregate,
in quel luogo stanno fratelli e
padri;
qui stanno rabbia e follia, i
tuoi crimini, Cesare.
Fuggi, anima mia, questa parte e
lasciala avvolta
nel buio, e nessun’epoca apprenda
dal mio canto di tanti mali
quale enormità sia lecita nelle
guerre civili[2].
Si perdano piuttosto lamenti e
lacrime.
Tacerò quello che hai fatto,
Roma, in quella battaglia[3].
Cesare, follia dei popoli,
impulso al furore,
va tra le schiere perché non si
perda neanche in minima parte
il suo crimine e aggiunge fuoco
agli animi ardenti;
osserva anche le spade, quali
grondano tutte di sangue,
quali brillano di sangue soltanto
in cima,
quale mano trema nello
stringerla, chi ha armi torpide
e chi le ha tese, chi combatte
solo per obbedienza
e chi per piacere, chi cambia
volto alla morte
di un concittadino; si accosta ai
cadaveri sparsi
nei vasti campi; di persona
richiude le ferite a molti
che avrebbero riversato tutto il
sangue[4].
Dovunque
va, come Bellona che scuote la
frusta cruenta,
o Marte che spinge i Traci,
spronando con dure sferzate
i cavalli turbati dall’egida di
Minerva[5],
è la notte fonda del crimine:
nascono stragi
e come il lamento di una voce
grandissima,
risuonano le armi di chi cade a
terra, spade spezzate da spade.
Lui stesso porge le spade,
distribuisce le frecce, ordina
di sfigurare i volti dei nemici
col ferro,
lui stesso fa avanzare e spinge
alle spalle le schiere dei suoi,
colpendo con l’impugnatura
dell’asta quelli che indugiano.
Vieta di infierire sulla plebe e
mostra il senato:
sa dov’è il sangue dell’impero,
le viscere
del potere, da dove può attaccare
Roma e dove resta
da ferire la libertà estrema del
mondo.
Mescolata ai cavalieri la nobiltà
veneranda
viene attaccata con le armi;
uccidono i Lepidi,
i Metelli, i Corvini, i Torquati,
nomi illustri e sovente
capi di grandi imprese, tolto te,
Pompeo, i più grandi[6].
Là, col volto coperto da una
visiera plebea,
ignoto al nemico, Bruto, quale
ferro impugnavi![7]
Gloria dell’impero, speranza
ultima del senato,
estremo nome di una stirpe
illustre nei secoli, guardati
dal gettarti in mezzo ai nemici
con troppo ardire,
non avvicinare prima del tempo
Filippi fatale,
comunque morrai nella tua
Tessaglia[8]. Non
c’è alcun vantaggio
a mirare oggi alla gola di
Cesare, che ancora non ha raggiunto
il potere supremo[9] né,
superata la vetta del limite umano, che tutto controlla,
ha meritato dai fati una così
nobile morte:
viva e regni per cadere vittima
di Bruto[10]. Qui muore
ogni onore della nostra patria,
giacciono in un grande tumulo
sui campi cadaveri di patrizi non
mescolati alla plebe.
Pure spiccò in tanta strage di
uomini illustri
la morte del bellicoso Domizio,
che il destino guidava
per tutte le sventure[11]; non
soccombette mai senza di lui la fortuna
di Pompeo[12];
tante volte sconfitto da Cesare, muore
salvando la sua libertà, cade
lieto tra mille ferite
e gode di non avere un secondo
perdono.
Lo vide Cesare che versava la
vita in un bagno di sangue
e lo provocò: “Abbandoni le armi
di Pompeo,
Domizio, mio successore[13], le
guerre si fanno
ormai senza di te”. Ma a Domizio
bastò il respiro
che gli pulsava nel petto e aprì
la bocca morente per dire:
“Vedendo che ancora non hai
raggiunto il compenso funesto dei tuoi delitti,
che il tuo fato è incerto e sei
ancora inferiore a tuo genero,
sotto gli ordini di Pompeo vado
alle ombre di Stige
sicuro e libero. Morendo, posso
sperare
che tu sconfitto in una battaglia
crudele
pagherai il fio a noi e a Pompeo[14]”. E
non disse altro,
la vita fuggì e fitte tenebre gli
rovesciarono gli occhi.
Nella morte universale, sarebbe
vergogna piangere
le morti infinite[15] e
seguendo i destini singoli
cercare a chi la ferita mortale
ha trafitto le viscere,
chi ha calpestato i suoi organi
riversi al suolo,
chi morendo respinse col respiro
la spada
dalla gola dove fu piantata[16], chi
precipitò a terra al primo colpo,
chi rimase in piedi mentre le
membra cadevano,
chi fu trafitto nel petto o
inchiodato al suolo
da una lancia, quale sangue
sprizzò in aria
dalle vene rotte e ricadde sulle
armi nemiche,
chi ferì il petto del fratello e
tagliò il capo gettandolo
via lontano per poter depredare
il cadavere noto,
chi straziò il volto del padre
dimostrando a chi guardava
con l’enorme collera che non era
suo padre[17].
Nessuna morte può avere il suo
compianto,
non si può piangere nessun uomo[18].
Farsalia non ebbe lo stesso ruolo
delle altre battaglie[19];
là Roma subiva la morte di uomini
e qui di popoli,
quella che prima era la morte di
un soldato, adesso
lo è di una stirpe; là scorse
sangue pontico, acheo, assiro:
adesso il torrente di sangue
romano
impedisce che gli altri sangui
ristagnino nella pianura[20].
Da questa battaglia i popoli
ricevono una ferita
troppo grande perché questa
generazione la regga; è più che la vita
e la salvezza ciò che si perde;
siamo abbattuti per tutto il tempo[21],
da queste spade è vinta ogni età
e consegnata alla schiavitù[22].
Che hanno fatto i nipoti, i
posteri per nascere in un regno?
Abbiamo forse combattuto da vili,
proteggendo le nostre gole?[23]
La pena della viltà altrui pesa
sul nostro capo.
Se hai dato un padrone, Fortuna,
ai nati dopo Farsalo,
dovevi dar loro anche la guerra[24].
La
morte di Cesare
Dalla
Vita di Cesare di Plutarco
E Artemidoro, cnidio di
nascita, maestro di eloquenza greca e divenuto per questo
familiare ad alcuni degli amici di Bruto, tanto da conoscere anche gran
parte delle cose che si stavano preparando, giunse portando in un
biglietto le cose che appunto intendeva denunciare: ma vedendo che
Cesare riceveva ciascuno dei biglietti e li
passava ai segretari che gli stavano vicino, accostatosi molto vicino "Questo - disse -
Cesare, leggilo da solo e subito; infatti c'è
scritto (qualcosa) riguardo a faccende importanti e che ti riguardano." Cesare
dunque avendo ricevuto (il foglio), fu impedito dal
leggerlo, pur avendo iniziato molte volte, dalla calca di
quelli che gli andavano incontro per supplicarlo, ma giunse in senato tenendolo in mano e
conservando solo quello.
Alcuni invece sostengono che un
altro (gli) diede quel foglio, e che Artemidoro neppure si
avvicinò del tutto, ma fu spinto via in tutto il percorso. Ma questi
fatti, dopo tutto, talvolta li determina anche la casualità; invece il
luogo che accolse quell'assassinio e l'attentato, (luogo)
nel quale allora si radunò il senato, (luogo) che aveva collocata una
statua di Pompeo e che costituiva un edificio di Pompeo tra
quelli costruiti a ornamento per il teatro, indicava assolutamente che il
fatto si verificò perché una divinità condussee richiamò lì l'azione. E infatti si
dice appunto anche che Cassio, prima dell'attentato, guardando verso la statua di
Pompeo la invocò in silenzio, pur non essendo estraneo alle teorie di
Epicuro: mala circostanza, come sembra, essendo già vicino
il terribile momento in fondeva esaltazione ed emozione in
luogo delle precedenti opinioni filosofiche.
Antonio dunque, che era fedele a
Cesare e robusto, lo tratteneva fuori Bruto Albino, avendo
iniziato intenzionalmente una discussione che tirava per le lunghe; e mentre
entrava Cesare il senato si alzò facendo atto di riverenza, e tra
i complici di Bruto alcuni si disposero dietro il suo seggio, altri
invece si fecero incontro proprio come se intendessero rivolgergli una supplica
assieme a Tillio Cimbro che lo supplicava per il fratello esule, e parteciparono
insieme alla supplica accompagnandolo fino al seggio. Ma poiché, sedutosi,respingeva le richieste e, siccome
insistevano più decisamente, era arrabbiato con ciascuno (di loro), Tillio afferrando la
sua toga con entrambe le mani la tirò giù dal collo, il
che era il segnale convenuto dell'attentato. E per primo Casca lo
colpisce con una spada vicino al collo (procurandogli) una
ferita non mortale né profonda, ma, come è naturale, emozionato
all'inizio di una importante azione temeraria, tanto che anche
Cesare, voltatosi, afferrò il pugnale e lo trattenne. E nello
stesso tempo gridarono in qualche modo, il ferito in
latino: "Disgraziatissimo Casca, che cosa fai?" e colui
che lo aveva ferito, in greco, rivolto al fratello:
"Fratello, aiuta(mi)."
E tale essendo stato l'inizio, quelli
che per nulla erano consapevoli li prese spavento e terrore di
fronte alle cose che accadevano, tanto che non osavano né fuggire, né
difenderlo, ma neppure pronunciare una parola. Ma siccome di
quelli che erano preparati all'assassinio ciascuno mostrava la spada sguainata, circondato intorno, e verso
qualsiasi cosa rivolgesse lo sguardo, imbattendosi in
ferite e in armi puntate sia contro il volto sia contro gli
occhi, cercando di allontanarsi come una fiera era avvolto dalle mani di
tutti; tutti quanti infatti bisognava che compissero e assaggiassero
l'assassinio. Perciò anche Bruto gli inferse un
unico colpo nell'inguine. E da parte di alcuni si dice che allora difendendosi dagli altri e
spostandosi qua e là e gridando, quando vide Bruto che
aveva sguainato la spada, tirò la toga sulla testa e si lasciò
cadere, sia per caso, sia spinto da coloro che lo
uccidevano, presso la base su cui è collocatala statua di
Pompeo. E l'assassinio la insanguinò
abbondantemente, tanto da
sembrare che lo stesso Pompeo presiedesse alla vendetta
sul nemico, steso sotto i (suoi) piedi e agonizzante per il
gran numero delle ferite. Si dice infatti che ne abbia
ricevute ventitré, e molti furono feriti gli uni dagli
altri, dirigendo tanti colpi contro un solo corpo.
L’età romana (146 – 31) – Il periodo dagli anni delle riforme dei
Gracchi fino ai primi imperi personalistici di Mario e di Silla, arrivando a
toccare l’inizio del consolato di Pompeo, ruota essenzialmente attorno agli
eventi interni, poiché le guerre contro i nemici esterni hanno un’importanza
marginale.
Roma fu impegnata in un
gigantesco sforzo di riassestamento organizzativo, conseguenza dei profondi
mutamenti sociali e strutturali introdotti dall’ampliamento territoriale dei
decenni precedenti.
Nel II secolo Roma da semplice
città-stato si trasforma in Impero a livello territoriale, economico, giuridico
e politico. Furono anni segnati dalla lotta per il potere tra due opposte
fazioni politiche: quella oligarchica senatoria e quella popolare.
In questo periodo, si assiste al
declino dell’oligarchia senatoria e all’affermazione progressiva di poteri
personalistici ad essa antagonistici.
Le trasformazioni interne e
esterne hanno determinato esigenze profondamente nuove nella gestione dello
Stato.
Il Senato tenta in qualche modo
di ‘aggiornarsi’ rispetto alla nuova situazione, per arginare il dilagare delle
forze antagonistiche e rimanere quindi l’istituzione centrale, ma appare
evidente l’impossibilità di tale cambiamento. Esso, infatti, finirebbe per
snaturare la sostanza stessa di un’istituzione che si basa sul principio di
eguaglianza tra pari e sul dominio, esercitato da questi nei confronti della
società.
Roma che per sei secoli era stata
governata dal Senato, dal 110 a.C. passa nelle mani di uomini ambiziosi. Inizia
Caio Mario che per quasi dieci anni esercita un potere assoluto.
Dopo di lui è la volta di Silla,
che governa lo Stato fino al 78 a.C. Le sue riforme, miranti a rafforzare il
potere del Senato contro il partito popolare, furono poi annullate nel 70 dai
consoli Pompeo e Crasso. Entrambi avevano interesse a ottenere i voti dei
plebei, perciò ripristinarono molte leggi in loro favore.
Approfittando delle guerre
interne ed esterne di Roma, bande di pirati si erano stabilite sulle coste di
Creta e dell’Asia Minore. Infestavano il Mediterraneo con vere e proprie flotte
da guerra e procuravano danni gravissimi ai commerci di Roma. Nel 67 il Senato
affida a Pompeo il compito di reprimere la pirateria. Dotato di mezzi enormi e
di poteri straordinari, in soli tre mesi il generale romano spazza via i pirati
e distrugge le loro basi. Diventa così l’uomo più potente di Roma.
La crisi della Repubblica - Dopo le guerre puniche e la conquista
della Grecia e dell’Oriente, a Roma avvennero profondi cambiamenti.
La diffusione della cultura
ellenistica (molti artisti greci si stabilirono a Roma, mentre i ricchi romani
trascorrevano sempre più tempo in Grecia e in Oriente) mandò in crisi i valori
dei princìpi romani.
Dalla crisi economica e sociale alla riforma dei Gracchi - L'incontro con la cultura ellenistica, determinato
dall'estensione dei domini romani sulla Grecia, la Macedonia e parte dell'Asia
Minore, fece sì che in Roma si formassero due correnti: quella conservatrice di Marco Porcio Catone, che predicava
il ritorno agli antichi costumi e valori romani, e quella innovatrice del circolo degli Scipioni che, pur non rinnegando la tradizione
latina, vedeva di buon occhio la cultura greca alla quale cercò di adattare il
proprio patrimonio di conoscenze.
La
classe dirigente dei senatori aveva consolidato il suo potere durante le
guerre, mentre le classi medie si erano impoverite. Era poi emersa, in campo
finanziario, la classe dei cavalieri (ordine equestre) che reclamava i propri
diritti di fronte al senato. La grande ricchezza che affluiva dalle regioni
conquistate permise ai ricchi di comprare territori dell'ager publicus
cioè confiscati ai vinti e appartenenti allo Stato. Si diffusero il latifondo e la schiavitù (anch'essa conseguente alle guerre); molti piccoli
proprietari, impoveriti, si trasferirono a Roma in cerca di miglior fortuna.
Un
primo tentativo di riforma fu attuato da Tiberio
Gracco, un patrizio eletto tribuno della plebe nel 133. La sua
proposta di riportare in vigore la legge che vietava di possedere più di 125
ettari di terreno pubblico e di ridistribuire quindi le parti in eccesso, fu
avversata dall'aristocrazia senatoria. Tiberio, ripropostosi alla carica di
tribuno, fu ucciso in un tumulto e i suoi seguaci condannati a morte. Di ciò
risentirono anche gli Italici, che si vedevano tolti i loro territori e che,
non essendo cittadini romani, non avevano diritto alle nuove distribuzioni.
Molti di loro si ribellarono ma furono puniti duramente.
Nel
123 fu eletto tribuno Caio
Gracco, fratello minore di Tiberio, promotore di riforme ancor più
radicali. Innanzitutto cercò l'appoggio della classe equestre, facendo in modo
che i cavalieri fossero in numero maggiore dei senatori nei tribunali che
giudicavano i reati di concussione. Per ottenere il favore della plebe, promosse
la fondazione di nuove colonie e propose una Lex frumentaria che dava
diritto ai cittadini meno abbienti di ricevere grano a prezzo ridotto. Eletto
tribuno una seconda volta, chiese la concessione della cittadinanza agli
Italici. I senatori, contrari, si servirono del tribuno Livio Druso per contrastarlo.
Druso
propose riforme demagogiche (abolizione del canone d'affitto delle terre per i
piccoli proprietari, fondazione di nuove colonie) che offuscarono la popolarità
di Caio. In un clima di tensione e di conflitti interni, nel 121, il senato
approvò il Senatus consultum
ultimum, un provvedimento che conferiva ai consoli, tra cui Lucio Opimio avversario di Caio, i pieni poteri
perché provvedessero alla salvezza dello Stato con qualsiasi mezzo. Caio, sentendosi
ormai sconfitto, si fece uccidere da uno schiavo, mentre i suoi seguaci (circa
3000) furono massacrati.
Dalla Guerra giugurtina all’ascesa di Mario - Sconfitti i Gracchi,
l’oligarchia senatoria, cercando il favore dei cavalieri e quello del popolo
attraverso piccole concessioni, guadagnò prestigio.
Fra
il 125 e il 118 Roma ridusse a provincia la Gallia meridionale. Poco dopo
dovette intervenire in Africa, in Numidia dove Giugurta aveva massacrato Romani e Italici
residenti a Cirta e aveva usurpato il trono di Aderbale, il quale aveva chiesto
l'aiuto romano.
Nel
111 iniziò la guerra che si protrasse fino al 107, quando il comando fu
affidato a Caio Mario,
affiancato dal questore Cornelio
Silla. Quest'ultimo riuscì a farsi consegnare Giugurta, che fu
giustiziato. Al termine del conflitto tutti gli onori furono tributati a Mario
che fu rieletto console, mentre Silla mal tollerò di non essere stato
considerato.
Il
potere di Mario fu consolidato in seguito alla riforma dell'esercito in cui
ammise anche volontari nullatenenti ai quali assegnò una paga. Con questo
esercito ben addestrato e con nuove tattiche di guerra, Mario, eletto console
dal 103 al 100, sconfisse i Cimbri e i
Teutoni, popolazioni germaniche che insidiavano i confini settentrionali. Nell'anno
100 il tribuno della plebe Lucio
Apuleio Saturnino, affiancato dal pretore Gaio Servilio Glaucia,
fece approvare una legge che assegnava ai veterani dell'esercito di Mario
alcune terre della Gallia Cisalpina. Il senato, contrariato, concesse pieni
poteri a Mario per liberarsi dei due politici. Egli li fece uccidere e ciò
irritò il partito dei popolari.
Mario
lasciò la vita politica e si recò in Asia.
La questione italica e le guerre sociali – Il partito degli ottimati governò da allora incontrastato per una decina
d'anni.
Nel
91 ottenne il tribunato Livio Druso, figlio del precedente. Le sue proposte
(promozione di alcuni cavalieri a senatori e concessione della cittadinanza
agli Italici) provocarono l'ostilità del senato che lo fece uccidere.
Dopo
questo fatto i soci (da cui il nome Guerra sociale) Italici si ribellarono per
ottenere l'indipendenza da Roma. Molte popolazioni, guidate dai Marsi e dai
Sanniti, crearono uno stato federale italico con capitale Corfinio che fu detta Italica. I Romani richiamarono
Mario per combattere contro i Marsi, mentre le altre operazioni furono condotte
da Pompeo Strabone e Cornelio Silla, eletto console nell'88 a.C. Quando Roma
decise di concedere la cittadinanza a coloro che non si erano ribellati o
avessero deposto le armi, la lotta si affievolì ma l'esercito romano piegò
definitivamente la resistenza dei Sanniti solo nell'80.
Nel
frattempo, il re del Ponto Mitridate si preparava a guidare alla ribellione
tutti gli stati greci e asiatici soggetti a Roma. Il senato decise di inviare
in Asia Silla. Nello stesso tempo, il tribuno Sulpicio
Rufo, che proponeva di dividere gli Italici nelle 35 tribù già
esistenti e non di crearne delle nuove, fece votare questa proposta, insieme a
quella di mandare Mario in Asia, da senatori e cavalieri, i quali, non gradendo
Silla, le approvarono entrambe. Silla, contrariato, dopo aver sconfitto i
seguaci di Mario (che fuggì), marciò su Roma impadronendosene.
Nell'87
ottenne di nuovo il comando delle truppe dirette in Oriente. In Grecia
saccheggiò ed espugnò Atene alleata di Mitridate. Mario, aiutato dal console Lucio Cornelio Cinna, a capo di un
esercito entrò in Roma massacrando i nemici del partito popolare. Un anno dopo,
nell'86 a.C. morì.
Silla,
in Asia, vinse Mitridate e, nell'83, tornò in Italia. Con l'aiuto di Gneo Pompeo, combatté i seguaci di
Mario e gli Italici, sconfiggendoli entrambi. Si fece quindi nominare dittatore
e iniziò una serie di feroci repressioni a danno di tutti gli avversari.
Confiscò diverse terre che andarono ai suoi soldati e si arricchì a spese dei
perseguitati. In politica interna restaurò il potere del senato, limitò quello
dei tribuni e dei cavalieri. Infine, nella sorpresa generale, abdicò alla
dittatura e si ritirò a Pozzuoli dove morì nel 78.
Alla sua morte le forze più
tradizionali ripresero il potere detennero il predominio politico in Roma,
mantenendo intatti i cambiamenti portati da Silla all’assetto istituzionale e
cercando di estirpare i germi rivoluzionari antioligarchici.
Questo Fino al 70, anno del
consolato di Crasso e di Pompeo.
L’ascesa di Pompeo – Il giovane Gneo Pompeo, già
ufficiale di Silla, si mise in evidenza attraverso tre imprese. Nel 77 ebbe
ragione di Marco Emilio Lepido che, nell'Etruria e nella Cisalpina,
aveva tentato di abolire la costituzione sillana. In Spagna, nel 72, domò
l'insurrezione dei Lusitani guidata da Quinto Sertorio. In Italia, pose
fine a una rivolta di schiavi guidata dal trace Spartaco nel 73, e già affrontata dal generale Marco Licinio Crasso. Insieme a questo
fu eletto console nel 70; allo scopo di diminuire l'attività del senato, i due
restituirono l'autorità ai tribuni e il controllo dei processi ai cavalieri. Un
altro uomo stava emergendo, Marco
Tullio Cicerone, l'oratore che era riuscito a far condannare, per le
molte ruberie, Verre, ex governatore della Sicilia. Nel 67 Pompeo, al comando
di una potente flotta, vinse i pirati che spadroneggiavano nel Mediterraneo.
Nel 66 Mitridate, il re del Ponto, tentò una nuova offensiva contro Roma.
Pompeo fu mandato in Oriente e, dopo il suicidio del re, conquistò la regione,
fece della Siria e della Giudea due provincie romane e sottomise l'Armenia e la
Bitinia.
Il primo Triumvirato – Nel frattempo
a Roma il partito dei popolari appoggiava Gaio
Giulio Cesare, un aristocratico simpatizzante di Mario.
Un
altro personaggio raccoglieva seguaci, promettendo l'allargamento della
cittadinanza, la cancellazione dei debiti e la distribuzione di nuove terre, il
sillano Lucio Sergio
Catilina. Sconfitto da Cicerone nell'ascesa al consolato nel
63 a.C., ordì una congiura. Cicerone lo smascherò in una seduta senatoria (le
famose 4 orazioni Catilinarie),
costringendolo a fuggire in Etruria dove poco dopo fu sconfitto e ucciso in
battaglia. Rientrato dall'Oriente, Pompeo sciolse l'esercito e rinunciò a
instaurare una dittatura; contestato dal senato per l'ordinamento dato
all'Asia, si alleò con Cesare e Crasso formando il primo Triumvirato.
La conquista della Gallia - Il carattere di questo accordo fu
soltanto privato, non istituzionale. Cesare ottenne il consolato nel 59 e fece
approvare la distribuzione di terre ai veterani di Pompeo.
Nel 58 Cesare ottenne il governo
della Gallia Cisalpina e Narbonese. Arrivato in Gallia, costrinse gli Elvezi
a rinunciare alla Gallia Narbonese e poi affrontò e ricacciò indietro il
principe germanico Ariovisto al protettorato sugli Edui.
Da allora in poi Cesare non
arresta più la sua marcia, dirigendosi dapprima verso il Nord della Gallia, poi
verso la sua parte occidentale.
Nel 57, sconfitti anche Belgi
e Aquitani, riorganizzò l’intera Gallia in una nuova provincia.
Nel giro di appena due anni
riesce a occuparla completamente fino al Reno.
Nel frattempo a Roma la vita
politica si faceva sempre più confusa e violenta: i capi delle fazioni dei popolari
e degli aristocratici organizzano bande armate, e con esse si scontrano per le
strade con gli avversari politici, provocando sanguinosi disordini.
Nel convegno di Lucca del
56, Cesare, Pompeo e Grasso si incontrarono una seconda volta, per rinnovare i
loro accordi e dividersi le province: Cesare si assicurò il comando in Gallia
per un altro quinquennio, Pompeo si riservò la Spagna e Crasso, anch’egli
desideroso di procurarsi la gloria militare come i suoi colleghi, scelse la
Siria, e diede inizio alla conquista del regno dei Parti, che sbaragliarono
l’esercito romano a Cana, in Siria nel 53 e Crasso fu ucciso.
Rientrato in Gallia, Cesare
ricacciò al di là del Reno alcune tribù germaniche che avevano tentato di
valicarlo, e per due volte sbarcò in Britannia, senza però soffermarsi
sull’isola, costretto a rientrare in Gallia per sedare la rivolta di
Vercingetorige, re degli Arverni. Nel 52 Vercingetorige si era messo a capo
di una grande rivolta contro Roma. In breve tempo molte tribù celtiche si
unirono a lui. Cesare deve ricorrere a tutta la sua abilità per domare
l’insurrezione. Vercingetorige fu infine sconfitto nel 51 ad Alesia, e Cesare riuscì a pacificare
l’intera Gallia nel 50, trasformandola in provincia, che assorbì rapidamente la
civiltà romana. Cesare potette così celebrare un grandioso trionfo.
La guerra civile e la morte di Cesare – Cesare rimase in Gallia fino al 49, quando il senato inviò un ultimatum
con l'imposizione di abbandonare la provincia. Varcato il Rubicone (il fiume
che divideva la Cisalpina dall'Italia), Cesare marciò verso Roma.
Era
l'inizio della guerra civile. Pompeo, con il senato, fuggì in Oriente cercando
di organizzare l'esercito. Lo scontro decisivo avvenne a Farsalo, in Tessaglia nel 48. Cesare ebbe la meglio: Pompeo si rifugiò
in Egitto presso Tolomeo XIV, il quale, per ottenere il favore di Cesare, lo
fece uccidere a tradimento.
Giunto
in Egitto, Cesare affidò il trono a Cleopatra,
sorella di Tolomeo, della quale era divenuto l'amante. Nel 47 sconfisse Farnace, figlio di Mitridate; in Africa
e in Spagna vinse definitivamente la resistenza dei pompeiani fra il 46 e il
45.
Tornato
a Roma, ormai senza rivali, si dedicò a una serie di riforme economiche e
sociali. Console dal 48 in poi, nel 46 fu nominato dittatore per dieci anni e,
all'inizio del 44, dittatore a vita. Tale somma di poteri provocò il
risentimento di uomini del suo partito.
Alle Idi di marzo del 44, durante una riunione del
senato, fu ucciso in una congiura dai repubblicani Bruto e Cassio.
Esordio e ascesa di Ottaviano – La successione a Cesare fu contesa
da Antonio, generale di Cesare, e Ottaviano, un giovane adottato da Cesare col
nome di Gaio Giulio Cesare Ottaviano.
Dapprima Ottaviano cercò di
affrontare il rivale ma, accortosi dell’opposizione del senato, fattosi
nominare console, si alleò con lui.
Per liberarsi del controllo del
Senato, Marco Antonio, capo dei sostenitori di Cesare, propose un’alleanza a
Lepido, comandante delle legioni della Gallia, e ad Ottaviano, pronipote di
Cesare che, nel suo testamento, Cesare aveva nominato erede.
Nel 43 nacque così il secondo
Triumvirato, composto da Ottaviano, Antonio e Lepido, che ebbe il compito di
elaborare una nuova costituzione.
Tutti i rivali di Cesare
entrarono nelle liste di proscrizione. Nel 42 le truppe dei tre sconfissero a
Filippi, in Macedonia, l’esercito di Bruto e degli altri uccisori di Cesare.
I tre triumviri si spartirono
l’Impero: Antonio ebbe la Gallia e l’Oriente, Lepido l’Africa Ottaviano, pur
restando in Italia, la Spagna.
In seguito allo scontro tra
Ottaviano e i seguaci di Antonio rimasti in Italia, fu stretto un nuovo accordo
a Brindisi nel 40 a.C., secondo il quale Antonio rinunciava alla Gallia.
Lepido, che aveva aiutato Ottaviano a togliere a Sesto Pompeo (figlio di Gneo)
la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, pretese per sé la Sicilia.
Ottaviano, contrariato, gli tolse
l’Africa e lo espulse dal Triumvirato lasciandogli soltanto la carica di
Pontefice Massimo.
Ottaviano e Antonio - Ottaviano diventò il padrone dell’Occidente
ed Antonio dell’Oriente. Antonio, si stabilì nelle province orientali, dove si
innamorò della regina Cleopatra, che gli mise a disposizione le immense
ricchezze del suo regno, dividendo con lui il potere. Nel 37 Antonio la sposò,
dimenticando il legame con Ottavia, sorella di Ottaviano, e cominciò a farsi
adorare come un dio, secondo il modello orientale.
Ciò indignò Ottaviano, difensore
degli austeri valori romani, e, rinfacciando al rivale gli insuccessi contro i
Parti, indusse il senato a privare Antonio della sua carica e a dichiarare
guerra all’Egitto.
Ottaviano approfittò astutamente
dei sospetti che i Romani nutrivano contro Cleopatra, regina straniera, e riuscì a far credere che Antonio fosse
diventato un nemico di Roma.
Si giunse così allo scontro decisivo
avvenuto ad Azio, davanti alle coste dell’Epiro, nel 31: la flotta
egiziana fu sconfitta dal generale Agrippa, al comando della flotta di Roma, e
ciò costrinse Antonio e Cleopatra alla fuga ad Alessandria. I due, per non
cadere nelle mani del nemico, preferirono uccidersi alcuni mesi dopo, quando
seppero dell’arrivo delle truppe di Ottaviano.
Con il suicidio di Cleopatra,
l’unica dei Tolomei che parlasse la lingua egiziana, si concluse la monarchia
dei Tolomei e l’ultima fase storica di un Egitto indipendente. Le legioni di
Ottaviano invasero l’Egitto così l’ultimo regno ellenistico rimasto
indipendente divenne una provincia romana, posta direttamente sotto l’autorità
dell’imperatore rappresentato da un prefetto.
Scomparsi gli ultimi avversari in
grado di contrastarlo, Ottaviano rimase l’unico padrone di Roma, e si preparò a
trasformare la repubblica in un suo dominio personale, in un impero.
Ottaviano, rientrato a Roma nel
29, fu accolto da trionfatore.
Con la vittoria di Ottaviano su
Antonio ad Azio, si tirarono le fila della confusa storia tardorepubblicana.
All’inevitabile sbocco autoritario sul piano del governo corrispose un
tentativo di restaurazione morale e religiosa che mirava a presentare
all’opinione pubblica più conservatrice il nuovo ordine in termini di
continuità con il vecchio.
Tra Repubblica e Impero: il Principato di Augusto - L’ultimo secolo
della Repubblica, percorso da conflitti civili e instabilità politica,
aveva messo in evidenza l’inadeguatezza del sistema di governo romano.
Tutti sentivano il bisogno di una
pacificazione. La classe dirigente non ammetteva la cancellazione delle
istituzioni e considerava la monarchia assoluta come una negazione della
libertà.
Ottaviano comprese questa
situazione: la solidità del governo di Augusto (titolo ottenuto dal senato) fu
determinata dalla larga adesione del popolo al suo programma e dal senso
di riconoscenza per l’instaurazione della pace.
Augusto princeps - Dopo la vittoria di Azio contro Antonio,
Ottaviano cercò di consolidare il suo potere, evitando atti che potessero farlo
sospettare di aspirare al dominio assoluto. Nel gennaio del 27 a.C. il senato
gli confermò le funzioni precedenti e gli conferì un potere militare, l’imperium
decennale e il governo di un certo numero di province; ricevette inoltre il
titolo di Augusto,
termine che indicava l’autorità quasi sacra, sottolineandone la dignità) e
onorificenze simboliche.
Dal 31 al 23 a.C. fu
ininterrottamente console, non potendo avere il consolato a vita, si fece
assegnare, nel 23 a.C., un nuovo tipo di imperium, detto imperium
proconsulare maius et infinitum. In particolare questo potere fu conferito
dal Senato ad Augusto insieme alla tribunicia potestas a vita.
Si trattava di un imperium
maius perché era superiore a quello di tutti gli altri proconsoli, e infinitum
in senso spaziale e temporale, perché non limitato a una sola provincia e non
predeterminato nel tempo e sull’esercito, superiore a quello dei proconsoli; la
tribunicia potestas, cioè la totalità dei poteri dei tribuni, con diritto
di veto e facoltà di proporre e far approvare le leggi che egli stesso, come princeps
senatus, capo del senato, aveva il diritto di votare per primo.
Nel 23 a.C. erano dunque poste le
basi costituzionali del Principato; altre connotazioni essenziali del nuovo
regime prenderanno corpo in seguito, per esempio il pontificato massimo
nel 12 a.C. alla morte di Lepido e il titolo di padre della patria, nel
2 a.C.
In campo militare
Ottaviano ridusse il numero delle legioni a 28, dalle 60 delle guerre civili, e
costituì una guardia personale del principe, la guardia pretoriana,
comandata da due prefetti equestri. Il collocamento in congedo dei veterani
richiese la fondazione di colonie e l’istituzione di una cassa apposita,
l’erario militare (6 d.C.).
In politica estera il
principato di Augusto fu il più travagliato da guerre di quanto non lo siano
stati quelli della maggior parte dei suoi successori: furono, infatti,
coinvolte quasi tutte le frontiere, dall’oceano settentrionale fino alle rive
del Ponto, dalle montagne della Cantabria fino al deserto dell’Etiopia, in un
piano strategico preordinato che prevedeva il completamento delle conquiste
lungo l’intero bacino del Mediterraneo ed in Europa, con lo spostamento dei
confini più a nord lungo il Danubio e più ad est lungo l’Elba. Le campagne di
Augusto furono effettuate per consolidare le conquiste disorganiche dell’età
repubblicana, che rendevano indispensabili numerose annessioni di nuovi
territori. Mentre l’Oriente poteva restare più o meno come Antonio e Pompeo lo
avevano lasciato, Augusto rafforzò i confini settentrionali dell’Impero con una
serie di campagne militari e con l’istituzione di nuove province l’Europa fra
il Reno ed il Mar Nero necessitava una nuova riorganizzazione territoriale in
modo da garantire una stabilità interna e, contemporaneamente, frontiere più
difendibili: il Norico, parte dell’Austria, la Pannonia, attuale
Ungheria, la Mesia, (tra il Mar Nero e i Balcani, e la Rezia,
Trentino Alto Adige e parte della Svizzera.
Il tentativo di penetrazione
della Germania, fino all’Elba, fu interrotto dall’insurrezione di tribù
germaniche (9 d.C.) guidate da Arminio. Il confine fu così stabilito al fiume
Reno.
In campo amministrativo Augusto
riformò
·
il sistema dei servizi (corpi di polizia,
riscossione delle imposte, censimenti periodici di tutta la popolazione),
·
l’amministrazione della città di Roma con a capo
il prefetto urbano, dell’Italia (ripartita in undici regioni) e delle
province (divise in imperiali, ovvero quelle non pacificate e direttamente
dipendenti dal principe, e senatorie, sottoposte al governo del senato).
Il senato, pur avendo
perso importanza dal punto di vista politico, fu coinvolto nell’amministrazione
dell’Impero. Dal senato provenivano
·
i proconsoli, amministratori delle province
pubbliche,
·
i comandanti degli eserciti,
·
i curatores addetti alle opere pubbliche
·
il praefectus urbi, il prefetto urbano,
che esercitava poteri di polizia.
Solo i senatori più ricchi o i
loro figli potevano percorrere la carriera politica, il cursus honorum
fino alle cariche più alte, dalla questura al consolato.
Generalmente i consoli, dopo sei
mesi o meno, abbandonavano la carica, cedendo il posto a sostituti, i suffecti,
garantendo un ricambio che accontentava un gran numero di aspiranti.
Coloro che possedevano almeno
400.000 sesterzi, per diritto di famiglia o per concessione dell’imperatore,
potevano aspirare alla carriera equestre. I cavalieri potevano diventare praefecti
governatori e amministratori del fisco delle province imperiali. Potevano inoltre
aspirare alla carica di prefetto del pretorio, capo della guardia
personale del princeps, o alla prefettura in Egitto, provincia
considerata dominio personale di Augusto.
I comizi persero tutto il
loro potere, limitandosi ad acclamare i candidati scelti dal senato a sua volta
influenzato dalle decisioni del princeps.
Augusto creò anche una fitta
rete di funzionari con i quali controllava l’attività degli organi
repubblicani e governava le province imperiali. Essi erano nominati e
dipendevano direttamente da Augusto che dava loro anche una retribuzione, a
differenza di quanto avveniva per i magistrati della Repubblica che svolgevano
i loro compiti gratuitamente. La carriera dei funzionari prevedeva promozioni
per i più meritevoli che potevano anche aspirare a diventare membri del senato.
L’organizzazione del consenso - Ottaviano riuscì a creare attorno a
sé un clima di consenso e di riconoscenza per la pace che era finalmente
tornata dopo anni di lotte intestine, di persecuzioni tra avversari politici e
di instabilità amministrativa.
Tale consenso fu anche frutto di
una incisiva attività propagandistica. Augusto si presentò come il restauratore
del vecchio ordine, degli antichi valori morali e religiosi.
Tali messaggi furono ampiamente
diffusi attraverso tutti i canali della comunicazione allora disponibili
(epigrafi, monete, oggetti d’arte e monumenti), oltre che dall’attività del circolo
di Mecenate.
Mecenate svolse un ruolo molto
importante nell’organizzazione della propaganda politica di Augusto. Egli aveva
compreso l’importanza dell’arte e della poesia presso l’opinione pubblica:
intorno a lui si raccolsero i principali intellettuali del tempo come Livio,
Virgilio, Properzio e Orazio. Mecenate li sosteneva con doni e aiuti finanziari
tratti dal suo ingente patrimonio, affinché potessero dedicarsi unicamente alla
loro arte. I poeti contraccambiavano celebrando nei loro versi lo stesso
Mecenate, Augusto e il suo programma politico. Eppure, il tratto più notevole
dei letterati riuniti attorno a Mecenate è che essi mantennero gran parte della
loro indipendenza e che nessuno di loro mise direttamente in versi l’epopea di
Augusto.
Grazie alla personalità di
Mecenate, i suoi amici poeti subirono la sua influenza a loro insaputa: a
Mecenate non interessava se essi si rifiutavano di cantare Augusto nei loro
versi o se qualche altro grande poeta non faceva parte del suo circolo.
L’importante era che in quei versi aleggiasse la restaurazione augustea nella
serenità e nell’equilibrio delle passioni con cui i poeti cantavano l’amore, la
vita semplice della campagna, l’odio per la guerra, le antiche favole del mito.
Inoltre, Augusto persegue
un’azione religiosa che si ispirava agli imperativi nazionali. Ossessionato
dall’angoscia della decadenza religiosa dei suoi concittadini e dall’urgenza di
rimediarvi, egli dà vita ad una rigida restaurazione religiosa,
recuperando le forme più tradizionali del passato, riproponendo il mos maiorum, cioè gli esempi tramandati
dagli avi, le virtù di semplicità, di purezza familiare, di incrollabile
fermezza, di coraggio, su cui era fondata la grandezza di Roma. Oltre che dal ritorno ai culti arcaici, Augusto
fece restaurare vecchi templi in rovina e riorganizzò i collegi sacerdotali di
cui egli stesso fece parte, fu caratterizzata dalla nascita di forme di culto
alla persona del principe che, spontanee in Oriente, furono associate in
Occidente e in Italia alla dea Roma. Con questo proclamato nazionalismo, la
restaurazione religiosa di Augusto combatteva i culti orientali e i loro misteri
Il nuovo equilibrio garantì una
ripresa generale della vita civile e dell’economia; furono restaurati vecchi
edifici e ne furono costruiti di nuovi per abbellire la città di Roma. Sorsero
numerosi templi, basiliche, piazze e portici (il Pantheon, il teatro
di Marcello, l’Ara pacis[25]).
La questione della successione - Augusto si preoccupò di assicurare
una trasmissione pacifica del suo potere. Egli non avrebbe nemmeno
diritto legalmente a designare un successore: sarebbe spettato al senato
designare il successore, ma grande importanza avevano ormai acquisito anche i
cavalieri e i funzionari imperiali.
A Roma, la soluzione imperiale
era quella prevalente perciò non sarebbe dovuto essere difficile per
l’Imperatore predisporre la propria successione. Il vero ostacolo a tale
impresa fu costituito tuttavia dalle molte guerre, che causeranno la morte di
tutti gli eredi putativi di Ottaviano, in particolare i nipoti Marcello, Gaio e
Lucio. La loro morte e gli scandali che coinvolsero la figlia Giulia allontanarono
e resero sempre meno praticabile la soluzione familiare e dinastica, che egli
aveva progettato.
Augusto pensò a una successione
ereditaria e, non avendo figli maschi, individuò possibili successori che
progressivamente adottò, ma ai quali egli sopravvisse. Fu pertanto indotto ad
adottare, nel 5 d.C. Tiberio appartenente alla potente famiglia dei
Claudi e figlio di primo letto della seconda moglie Livia e a conferirgli
riconoscimenti istituzionali quali la potestà tribunizia e l’imperium
proconsulare maius associandolo al governo imperiale e preparandolo
ad accogliere la sua eredità.
L’instaurazione nel 14 di un
nuovo sovrano, fu segnata subito dall’eliminazione dei molti rivali nella
successione al trono. L’Imperatore e la sua corte sono realtà troppo ambite
perché vi si rinunci facilmente. Inizia difatti una lotta spietata per la
conquista delle cariche più prestigiose dell’Impero, lotta che è segno della
nuova temperie assolutistica, che cova sotto l’immagine illusoria dell’antica
Repubblica.
[1] Si
era giunti… al nerbo: Cesare ha respinto l’avanzata della cavalleria pompeiana
ed ha massacrato la fanteria: ora si arriva “al centro dell’esercito di Pompeo
e al nerbo” (v. 545),e a questo punto c’è un momento di arresto.
[2] Fuggi…
nelle guerre civili: Lucano rivolge un’esortazione alla sua anima perché
rifugga l’orrore delle guerre civili.
[3] Tacerò… in quella
battaglia: il poeta tacerà le azioni dei Romani, per concentrarsi su quelle di
Cesare.
[4] di persona… tutto il
sangue: Cesare in persona cura le ferite dei suoi soldati.
[5] Dovunque
va… di Minerva: Cesare è paragonato a Bellona, divinità italica della guerra,
rappresentata come una Furia, e a Marte, dio della guerra, che si accompagna ai
Traci, popolazione molto bellicosa, e sprona i cavalli turbati dall’egida, lo
scudo di Minerva, strumento di guerra perché su di essa è fissata la testa
della Gorgone Medusa che la dea usa per pietrificare chi la guarda, datale da
Perseo.
[6] uccidono…
i più grandi: sono i grandi rappresentanti delle casate senatorie romane: i
Lepidi, a cui appartiene il cesariano Marco Emilio Lepido, il futuro triumviro,
i Metelli, fra i quali Lucio Cecilio Metello, questore in Sicilia, tribuno
della plebe nel 49 a.C. oppositore di Cesare, i Corvini, come Marco Valerio
Messalla Corvino, che nella battaglia di Filippi combatterà con Bruto e Cassio,
e i Torquati, a cui appartiene Manlio Torquato, ex-pretore.
[7] Là,
col volto coperto… impugnavi!: Bruto è ritratto sotto l’armatura di un soldato
semplice, già nell’atto di impugnare la spada per uccidere Cesare.
[8] non
avvicinare… nella tua Tessaglia: la vittoria di Ottaviano e Antonio sui
cesaricidi Cassio e Bruto, nel 42 a.C. a Filippi, in Grecia, al confine tra la
Macedonia e la Tracia.
[9] Non
c’è… il potere supremo: Cesare lo raggiunse nel 45 a.C., quando ottenne la
carica di dittatore a vita, che aumentò a dismisura il suo potere su Roma.
[10] ha meritato… di Bruto: la
morte per mano di Bruto è ritratta da Lucano come un rito sacrificale.
[11] Pure
spiccò… per tutte le sventure: Lucio Domizio Enobarbo, pretore nel 58 a.C. e
console nel 54 a.C., trisavolo di Nerone, comandante di Corfinio, ostinato
nemico di Cesare, ma protagonista di una serie di imprese sfortunate. Dopo la
conquista di Corfinio da parte di Cesare (49 a.C.), tenta di fuggire
abbandonando i suoi soldati e poi, scoperto, si arrende a Cesare. A Farsalo
comanda una delle ali dell’esercito pompeiano; in realtà trova la morte, ucciso
dalla cavalleria di Antonio, mentre tenta la fuga.
[12] non
soccombette… di Pompeo: oltre che a Corfinio, Lucio Domizio Enobarbo era
presente anche all’assedio di Marsiglia (49 a.C.), dove giunse con una flotta e
fu nominato comandante della città. Anche in quel caso era fuggito, e la città
si era arresa ai soldati di Cesare.
[13] Domizio,
mio successore: Cesare si rivolge ironicamente a Domizio, che nel 49 a.C. era
stato nominato dal senato governatore della Gallia al suo posto.
[14] Morendo… a Pompeo: prima
di morire, Domizio preannuncia a Cesare il castigo.
[15] Nella
morte universale… le morti infinite: nella parte finale del brano (vv. 617-646)
Lucano esprime le proprie considerazioni sull’orrore della guerra civile.
[16] chi
morendo… dove fu piantata: Lucano allude al celebre episodio della morte di Niso
narrato da Virgilio nell’Eneide (IX, 442-443).
[17] chi
ferì… suo padre: i vincitori massacrano familiari e amici, a cui tagliano la
testa per evitare di ricordare il vincolo di parentela.
[18] Nessuna
morte… nessun uomo: la norma epica impone la menzione del nome dell’eroe caduto
in battaglia per la conservazione della memoria, ma in questo caso nessun nome
può essere menzionato. Anche in questo caso Lucano rovescia l’apostrofe rivolta
da Virgilio a Eurialo e Niso (Eneide IX, 446-449).
[19] Farsalia…
delle altre battaglie: le altre pesanti sconfitte subite dai Romani, come
quella sul fiume Allia ad opera dei Galli Senoni guidati da Brenno (390 a.C.) e
quella di Canne ad opera di Annibale (216 a.C.).
[20] là scorse… nella pianura: nelle guerre contro nemici esterni,
fu versato sangue straniero, ma adesso il sangue romano versato è come un
torrente impetuoso, che sospinge quello degli altri.
[21] siamo
abbattuti per tutto il tempo: Lucano utilizza il plurale perché è partecipe
delle conseguenze della battaglia di Farsalo.
[22] da
queste spade… alla schiavitù: la conseguenza della battaglia di Farsalo è che i
Romani sono condannati alla schiavitù.
[23] Che
hanno fatto… le nostre gole?: il brano si chiude con due interrogative
retoriche; si noti ancora l’uso della prima persona plurale (cfr. nota 21).
[24] Se
hai dato… anche la guerra: Lucano accusa la Fortuna di non aver dato la
possibilità alle generazioni nate dopo Farsalo di combattere per la libertà.
[25] L'Ara Pacis –
È una delle più alte espressioni dell'arte augustea e un'opera di profondo
simbolismo, che acquista significato nel quadro del passaggio storico dalla
Repubblica all’Impero.
La
sua costruzione fu votata dal Senato romano nel 13 a.C. per celebrare il
vittorioso ritorno di Augusto dalle province occidentali. Poiché la dedicatio del monumento fu celebrata il
30 gennaio del 9 a.C., il completamento dell'opera richiese tre anni e mezzo,
per realizzare la ricca e complessa decorazione, affidata a scultori attici
attivi a Roma nel I sec. a.C.
L'Ara Pacis è costituita da un recinto con
due fronti e due lati. Al centro dei lati più corti due aperture danno accesso
all'altare, sul quale venivano compiuti i sacrifici.
La
decorazione scultorea corre sui lati esterni e su quelli interni del recinto.
Quella
esterna si svolge su due fasce: la superiore reca un fregio figurato,
l'inferiore una decorazione vegetale a girali d'acanto. I girali si sviluppano
con simmetria rigorosa intorno all'asse disegnato dallo stelo verticale
dell'acanto e celano nel fogliame piccoli animali o si intrecciano con rami di
altre piante. L'intera composizione è sormontata dalla presenza di cigni ad ali
spiegate. La valenza simbolica dell'intero disegno e dei singoli elementi
allude allo stato aureo di natura e al ritorno di un'età di rinascita e
prosperità sotto la guida del princeps.
La
fascia superiore esterna del recinto rappresenta, sui lati nord e sud, una
processione. Sul fronte meridionale, compare Augusto a capo velato e coronato
di alloro, preceduto e seguito dai membri delle principali cariche sacerdotali
dello Stato: lo precedono i Pontifices
e lo circondano gli Augures mentre al
suo seguito si riconoscono i tre Flamines
maiores.
Il
significato della processione è oggetto di diverse interpretazioni: è possibile
che sia rappresentato il reditus di
Augusto, il suo ritorno a Roma dalle vittoriose campagne in Gallia e Spagna ed
i consoli e i massimi sacerdoti romani sarebbero rappresentati nell'atto di
accogliere il principe vittorioso, portatore di pace, prosperità e abbondanza.
Sullo
stesso fronte meridionale è ritratto Agrippa, amico, principale collaboratore e
genero di Augusto, morto durante la realizzazione dell’Ara Pacis. Agrippa apre
la sequenza dei familiari, concepita come un vero e proprio programma
dinastico. La successione dei congiunti è così sapientemente calcolata che
tutti gli imperatori romani, fino a Nerone, discendono dai membri della
famiglia Giulia qui raffigurati.
Altri
membri della famiglia imperiale, di minore spicco, compaiono sul lato
settentrionale del recinto. Qui la processione ritrae gli ordines sacerdotali dei Septemviri
epulones, addetti ai sacrifici cruenti, degli Augures e dei Quindecemviri
sacris faciundis, custodi dei libri
sibillini, esaurendo in questo modo la rappresentazione delle cariche religiose
più importanti dell’ordinamento romano.
Le
due fronti dall'edificio, ai lati delle porte, sono decorate nella fascia
superiore da quattro pannelli, due per ciascun lato.
Sui
pannelli del fronte occidentale sono rappresentati Enea che sacrifica una
scrofa ai penati, e Romolo e Remo allattati dalla lupa. Il primo motivo celebra
la discendenza della gens Julia, da
Enea e da suo figlio Julo, da cui prende il nome la famiglia di Augusto.
Il
pannello di sinistra è molto frammentario. In esso era rappresentata la lupa
che allatta Romolo e Remo alla presenza del dio Marte, padre dei gemelli, e del
pastore Faustolo. In questo modo l’Ara Pacis significava la doppia origine
divina dei romani e del principe: dal dio guerriero i primi, tramite i gemelli,
da Venere il secondo, tramite il pius
Enea.
Sul
fronte orientale il pannello di sinistra rappresenta la cosiddetta Tellus, secondo il motivo ellenistico
della terra fertile e dei suoi frutti, rappresentati dai due putti che le
siedono in grembo. La Tellus è
interpretabile come divinità polisemica, dalle molte valenze simboliche,
riassuntiva dei significati di pace e prosperità e assimilabile alle figure di
Gea, Venere e Rea Silvia. Ai lati due ninfe, una su un cigno, la seconda su un
drago marino. Del pannello di destra resta solo il frammento di una figura
femminile seduta sopra un trofeo d’armi: la dea Roma vincitrice, forse
affiancata dalle figurazioni di Honos
e Virtus.
l’Ara
Pacis accoglieva chi entrasse dalla via Flaminia con la rappresentazione della pax romana stabilita tramite l’imperio terra marique.
Anche
lungo le pareti interne del recinto si svolgono due fregi sovrapposti,
rappresentanti l'inferiore una palizzata in legno e il superiore una serie di
ghirlande di frutta e foglie.
L'altare
interno è la parte meno conservata dell'Ara.
ll'altezza della mensa rimane invece una figurazione di dimensioni ridotte,
dove si distinguono le vestali.
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